loader
menu
© 2024 Eddyburg

Oltre 120 comuni e mezzo milione di persone colpiti dalla piena del Bacchiglione, che ha causato tre vittime, oltre 10.000 sfollati ed un miliardo di danni. Come sempre ci si domanda, a posteriori, se qualcuno aveva previsto ciò che poi è accaduto e se si potessero prevenire o quantomeno mitigare gli effetti catastrofici di eventi naturali che tendono a riprodursi con sempre maggiore frequenza. In questo caso una precisa risposta può essere trovata con la lettura del Piano di Assetto Idrogeologico predisposto nel 2007 dall’Autorità di Bacino Brenta-Bacchiglione. Il piano infatti indicava in modo puntuale gli interventi necessari per contrastare il pericolo di alluvioni. Tra questi in particolare la formazione di bacini di espansione, la realizzazione di opere di laminazione, l’adeguamento delle sezioni idrauliche, le sistemazioni arginali, la necessaria manutenzione dei manufatti, il potenziamento delle idrovore lungo tutto il corso dei fiumi Brenta e Bacchiglione e dei loro affluenti e nei principali nodi idraulici quale quello della città di Padova. Il tutto per una spesa complessiva prevista di 668.919 mila euro.

Quante di queste opere sono state realizzate in questi anni? A quanto pare poco o nulla, se è vero quanto affermato dal Magistrato alle Acque Patrizio Cuccioletta in un’intervista del 9 novembre, nella quale si denuncia il fatto che, dopo la frammentazione delle competenze operata negli ultimi anni, sono venuti a mancare persino i fondi per le manutenzioni delle canalette e degli argini, mentre la cementificazione del territorio ha prodotto un cambiamento della velocità di scolo e l’esondazione dei canali.

668 milioni possono sembrare una cifra enorme, ma in realtà sono di molto inferiori alla spesa di un miliardo considerata oggi necessaria dal Presidente della Regione per far fronte ai danni provocati dall’onda di piena del Bacchiglione: una spesa che dovrebbe servire a ripristinare le opere ed i fabbricati danneggiati, ma che ancora una volta non metterà in sicurezza il territorio.

Tutto ciò conferma come purtroppo la salvaguardia idrogeologica del territorio non sia mai stata una priorità nelle scelte politiche e di bilancio dei governi nazionali e regionali degli ultimi decenni, tant’è che - come documentato in questi giorni dal WWF - i finanziamenti per il Ministero dell’Ambiente - nella finanziaria di Tremonti e nonostante le proteste della Prestigiacomo - sono quelli che sembrano destinati a subire uno dei più drastici tagli, passando dai 1.649 milioni del 2008 ai 513 previsti per il 2011. Anche nella finanziaria regionale si era previsto un taglio di 26 milioni per le politiche di salvaguardia: taglio che si può auspicare verrà annullato a seguito dei tragici eventi del 2 novembre.

C’è quindi da sperare che, dopo le solenni dichiarazioni di questi giorni, realmente si modifichino gli indirizzi e le priorità delle politiche territoriali passando dalla gestione delle emergenze alla prevenzione, ponendo un freno alla cementificazione ed investendo nelle infrastrutture per la salvaguardia dell’ambiente piuttosto che in nuove infrastrutture stradali di cui francamente non si sente la necessità.

Da questo punto di vista, un segnale positivo sembra giungere dall’ultimo Consiglio Comunale di Padova, che all’unanimità ha votato un progetto di legge da presentare in Regione per lo studio e per la redazione di un progetto preliminare finalizzati al completamento dell’Idrovia Padova-Mare, una delle grandi incompiute della nostra regione che potrebbe felicemente integrare le funzioni di salvaguardia idraulica (funzionando come canale scolmatore per le piene del Brenta e del Bacchiglione, con una capacità di 400 mc/sec) con quelle trasportistiche (alternative all’assurda camionabile voluta dalla Regione) e che potrebbe altresì costituire un fondamentale elemento di riqualificazione ambientale e paesaggistica di tutti i territori attraversati.

Priorità d’investimento dunque, ma anche riordino e concentrazione delle competenze, nonché approfondimento ed aggiornamento degli studi e delle cartografie tecniche. E’ infatti piuttosto sconcertante osservare che molte delle aree alluvionate nei giorni scorsi non corrispondono affatto a quelle indicate a rischio idraulico dalla “Carta delle fragilità” dell’ultimo Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale della Provincia di Padova, mentre decisamente più azzeccate risultano le previsioni derivate dagli studi effettuati dal professor Luigi D’Alpaos con un sofisticato modello matematico bidimensionale. Tanto più preoccupante appare la sottovalutazione del rischio evidenziata dalla cartografia del PTCP, se si considera che tutti i piani intercomunali e comunali di questi anni proprio su questa cartografia si sono basati per la pianificazione delle nuove espansioni e trasformazioni urbane e per la redazione delle relative valutazioni di compatibilità idraulica.

Padova, 11 novembre 2010

Un governatore, Galan, che ha ricoperto il Veneto di cemento ed è stato promosso ministro dell’Agricoltura. La sua ex-segretaria che in pochi anni diventa uno dei più grandi imprenditori del mattone, maneggiando somme a nove zeri con società in Italia e a San Marino. E poi esponenti di spicco del Pdl che la fanno da padroni nel settore delle grandi opere. Succede nel Veneto, regno del centrodestra.

Adesso, però, è arrivata l’alluvione. Quando le acque si saranno ritirate, oltre ai campi devastati potrebbe emergere una storia imbarazzante per il Pdl e la Lega, che oggi tuona contro Roma e Pompei, ma era nella maggioranza di Galan.

“I fenomeni naturali che si sono verificati in Veneto rientrano nella normalità. È normale che in autunno si registrino piogge di tali intensità e durata”. Così la Società Italiana di Geologia Ambientale. Ma allora perché il Veneto è diventato un lago? Il governatore Luca Zaia non ha dubbi: il cemento non c’entra. Chissà, forse anche perché il cemento è una questione spinosa per la sua maggioranza.

Più d’uno da queste parti solleva il dubbio: l’alluvione potrebbe essere conseguenza della cementificazione selvaggia voluta dal centrodestra e soprattutto da Giancarlo Galan, il governatore “Doge” che regnando dal 1995 al 2010 ha costruito come nessun altro. Autostrade, centri commerciali, capannoni, paesi nuovi di zecca (spesso deserti). In pochi anni il paesaggio è stato stravolto. I dati del Centro Studi dell’Università di Padova confermano l’impressione: dal 2001 al 2006 sono state realizzate abitazioni per 788 mila persone, quando la popolazione è aumentata di 248 mila. Sono state rilasciate concessioni per 94 milioni di metri cubi di costruzioni, l’equivalente di una palazzina alta e larga dieci metri e lunga 1.800 chilometri. Nel solo 2002 sono stati costruiti 38 milioni di metri cubi di capannoni. Ma soprattutto: la superficie urbanizzata in Veneto è aumentata del 324% rispetto al 1950 (mentre la popolazione è cresciuta del 32%).

Perché l’acqua diventa disastro

Un cambiamento che può aver trasformato una forte pioggia in un disastro. “La terra lascia penetrare l’acqua, mentre il cemento è impermeabile e favorisce le alluvioni”, spiega Adone Doni, portavoce del Cat, Comitato Ambiente e Territorio della Riviera del Brenta.

Così la pioggia rischia di mettere a nudo la rete di potere del centro-destra. Sono decine di personaggi, magari sconosciuti, che con le loro opere cambiano la vita di milioni di veneti. Come Claudia Minutillo: fino a pochi anni fa segretaria e strettissima collaboratrice di Galan. Poi il grande salto nel mattone: Minutillo, classe 1963, ha i contatti giusti, anche grazie al marito console di San Marino (che ha siglato accordi con la Regione Veneto). In men che non si dica si ritrova a capo di un impero, ha partecipazioni e incarichi in quasi venti società.

Mattoni e giornali

Con la sua Adria Infrastrutture sta puntando a realizzare opere da miliardi: la “Via del mare”, superstrada a pedaggio che collegherà la A4 con Jesolo, il Passante Alpe Adria, 85 chilometri di – contestatissima – autostrada attraverso il Cadore. Poi il Terminal merci al largo di Rovigo e il Terminal di Marghera. Minutillo ha alleati forti: nella Adria Infrastrutture e nella Infrastruttura Sa (finanziaria con sede a San Marino) ecco Alberto Rigotti, il filosofo-imprenditore vicino alla Compagnia delle Opere, che ha comprato il gruppo editoriale E-Polis. L’alleanza dei signori del mattone si cementa nei quotidiani. Dentro E-Polis ci sono Mantovani (storico colosso del settore), Minutillo e Vito Bonsignore, europarlamentare berlusconiano e uno dei signori delle autostrade. Inchiostro e cemento, in Veneto si tengono stretti: Il Gazzettino, storico quotidiano locale, è di Caltagirone (editore anche di Leggo). Insomma, difficile trovare un giornale nemico del mattone.

Intanto il Pd nicchia o si divide. Alcune sue figure storiche, come Lino Brentan, seguono la via del pragmatismo (che l’ha portato nel cda di 11 società autostradali). Pochi criticano la politica del mattone del Pdl. Quasi nessuno fa notare il potenziale conflitto di interessi di figure come Lia Sartori, deputato europeo del centrodestra (con un passato, tra l’altro, nella commissione Trasporti). Proprio lei che è stata assessore regionale ai Trasporti e poi presidente del Consiglio regionale e che attraverso la società di progettazione Altieri ha collaborato con la Mantovani.

Ecco la rete del cemento veneto. In tanti, anche nel centrosinistra, speravano che Zaia prendesse le distanze. Ma non è stato così. E il Governatore adesso rischia di restare impantanato nel fango lasciato dalle piogge.

Per il sistema di potere nel Veneto e I suoi effetti territoriali vedi anche l’articolo di Adone Doni e Mattia Donadel in eddyburg.it

Come quando fuori piove. Il film di Monicelli (1999) è ambientato a Cittadella, nel Veneto profondo; e parla di gioco d’azzardo, di lotterie, di ipocrisie, dell’etica declive di questa terra. Nel Veneto profondo è piovuto per quattro giorni, con poche soste. Per qualche ora, se n’è parlato anche sui giornali nazionali; ma lo stesso sig. Zaia paventa ciò che ineluttabilmente avverrà, ovvero la riduzione del cataclisma alle dimensioni dell’allagamento di una cantina; meglio ancora, di una taverna.

Chi abita a Venezia, che non è Veneto profondo, percepisce sul viso il caldo dello scirocco e si spiega d’emblée l’acqua alta di ieri, quelle che verranno: la prima cosa che si racconta ai “foresti” è che l’acqua alta non dipende dalla pioggia, che è invece un fenomeno legato alle maree e a un gran numero di variabili in larga parte non meteorologiche; e infatti capita di sentire la sirena (codice giallo, codice arancio; codice rosso, perfino, come il primo dicembre dell’anno scorso) anche quando fuori c’è un sole a palla.

Dunque al diavolo le foto di Venezia con l’acqua alta. Alta è la temperatura che si sente anche in Laguna, e che ha sciolto le nevi fresche sui monti, e tutta quell’acqua, lassù, aumentata strada facendo dalla pioggia insistente, doveva pure venire giù in qualche modo. Che modi. Vicenza sott’acqua, Padova lambita, le campagne a mollo, gli ospedali evacuati, le strade interrotte. In un paese aduso a Giampilieri, a Sarno, ad Atrani, o alle periodiche esondazioni della Versilia, il fenomeno passa nel taglio basso, come erba da accorpare al fascio degli episodi analoghi (ormai dozzine negli ultimi anni) tra Pordenone, la Marca, il Polesine, il Veronese. E le immancabili geremiadi contro il dissesto idrogeologico vengono lasciate alle immancabili cassandre, ai menagrami che al prossimo giro diranno l’avevamo detto.

Ma forse il caso presente, con gli scantinati del Teatro Olimpico a mollo e le viuzze palladiane fatte canali, può rappresentare un’occasione per ricordare, sobriamente, laicamente, che non siamo soltanto in balìa di Giove Pluvio; che anche lontano dalle trame speculative della camorra, della mafia, delle bande notoriamente irrispettose del terreno (o territorio?) sul quale insistono, anche qui sono stati compiuti negli anni degli errori, nei quali si persevera pervicacemente. Non si può ridurre la questione – come fanno alcune opposizioni – al recente taglio dei fondi nazionali e regionali per il restauro idrogeologico delle aree più a rischio (tra le quali, singolarmente, proprio Vicenza); né denunciare – come pure è doveroso – l’insofferenza di alcuni settori dell’ormai ventennale governo destrorso veneto verso i consorzi di bonifica, che svolgono un’insostituibile anche se non sempre efficace funzione di tutela “sul territorio” (la formula magica).

Gli eventi alluvionali sono legati a uno sviluppo urbanistico e abitativo che nel Nordest ha seguito un modello a un tempo disordinato e preciso, nell’atrofizzazione degli spazi pubblici a vantaggio dell’abitare privato, nella cementificazione di larghi settori della pianura in nome dei capannoni (oggi spesso vuoti), dei concessionari (oggi spesso falliti), delle villette familiari dove si vive come in un bunker e dopo la colazione da Mulino Bianco si esce, rigorosamente col SUV, magari per fruire delle donnine allegre che-infangano-il-nostro-territorio. Tutto questo, tecnicamente, ha un nome dotto, nato dall’indagine sociologica americana: “privatopia”. Ma il Veneto è diventato un pezzo di America, di Los Angeles?

La piena di questi giorni viene a ricordare che qui non stiamo facendo accademia: le denunce di Andrea Zanzotto o di Salvatore Settis non hanno a che fare solo con i restauri filologici dei paesaggi di Giorgione e Cima da Conegliano, con l’atmosfera del galateo in bosco o con la nostalgia per un mondo di piccole virtù: non sono discorsi di intellettuali slegati dal mondo, ma portano (vorrebbero portare) al centro del dibattito pubblico la distruzione delle venule di drenaggio, l’intubazione (proprio così, come con i malati gravi o i neonati prematuri) dei canali di scolo, l’assedio cementizio agli spazi golenali, l’ostinata impermeabilizzazione di superfici con l’asfalto, l’erosione dei suoli fertili per un’agricoltura ormai confinata a inerte memoria del passato; e la negligenza delle oggi invocate “verifiche di compatibilità idraulica”, degli oggi millantati “Piani di assetto idrogeologico”.

La campagna che nel 1739 Charles de Brosses riteneva valesse “forse da sola il viaggio in Italia” è oggi impantanata non per una strana nemesi divina, ma perché sono state fatte determinate scelte, lucidamente esposte e denunciate con rigore scientifico e passione in un volume del 2005 di Francesco Vallerani e Mauro Varotto, Il grigio oltre le siepi: Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto. Un volume – è bene precisarlo – che invece di ricevere un premio per il coraggio e l’acutezza dell’analisi ha condotto gli autori a un processo prima in sede civile e poi anche in sede penale, con l’accusa di aver diffamato una zincheria.

L’idrografia padana, come sa qualunque visitatore di Treviso o di Milano (dove per inciso ieri sono di nuovo esondati Seveso e Lambro), è un fatto complesso, che incide sulla percezione “identitaria” dello spazio come sulla vita quotidiana di chi lo abita: non a caso si è parlato per queste terre di una vera e propria “civiltà delle acque” (è il titolo di una raccolta di saggi sulla cultura popolare curata nel 1993 da un linguista, Mario Cortelazzo), e non a caso si indica specificamente nel Veneto un modello interessante a livello mondiale per l’inusitata ricchezza di risorse idriche e per la multiforme sfida rappresentata della loro gestione. Nello spazio antropico ormai drammaticamente mutato, s’imporrebbe la creazione di “corridoi fluviali”, nel senso indicato dallo stesso Vallerani come rispetto delle specificità naturali e invenzione di nuove modalità di utilizzo del suolo: il libro Acque a Nordest (Cierredizioni 2004) è un’indagine su Brenta, Sile, Piave come modelli positivi o negativi di trasformazione dell’identità di un fiume dall’Ottocento ai tempi nostri; lì s’impara anche a suon di esempi quante forze vengano profuse per la salvaguardia e la valorizzazione dei fiumi da comitati e unioni e associazioni a livello locale (penso per es. agli “Amissi del Piovego”, che in Padova si battono per una diversa cultura e coscienza idrografica), talora anche da singole amministrazioni lungimiranti.

Ma quello che sembra mancare è una riflessione di sistema, che impegni le autorità regionali (non che quelle nazionali) a indirizzare altrimenti gli investimenti e le attività di controllo. Chi se ne voglia convincere può leggere gli articoli di un uomo che conosceva l’acqua di queste terre come pochi altri: Il respiro delle acque di Renzo Franzin (Nuova dimensione, 2006). S’imporrebbe, se non altro, la meditazione di quanto è drammaticamente accaduto in contesti limitrofi, come quello del Piave, un fiume buono per la retorica patriottarda (e ultimamente xenofoba), ma sfiancato dall’artificializzazione e dal depauperamento inflittigli da un piano idroelettrico insensato, che annovera tra i suoi “danni collaterali” la catastrofe del Vajont. Perché nell’idrografia odierna del Nordest non pesano solo le alluvioni: pesa anche, paradossalmente, la siccità.

Ieri passando in treno sopra il Brenta ho notato che l’acqua del fiume faceva la barba ai binari. Mi è venuto in mente che nell’avvio del XV canto dell’Inferno (quello dei sodomiti) Dante paragona gli argini del Flegetonte a quelli costruiti dai “Padoan lungo la Brenta, 
per difender lor ville e lor castelli” (vv. 7-8). Verrebbe da chiedersi dove sia finita tanta sapienza costruttiva, se negli ultimi anni attorno alla Cappella degli Scrovegni, che sorge a pochi passi dal Bacchiglione, si è costruito un costosissimo e brutto monumento all’11 settembre proprio in area golenale (“World Trade Center Memorial“, di Daniel Libeskind: mica da ridere), si è lasciato il cenobio degli Eremitani in preda agli allagamenti, si è ventilata l’edificabilità dell’appena smantellata stazione degli autobus (dove invece, nei progetti originari, doveva sorgere un auditorium).

Il Bacchiglione è appunto il fiume esondato ieri. Un dovizioso volume edito dalla Regione del Veneto nel 2005, sotto il titolo Il Veneto e il suo ambiente nel XXI secolo, dedicava un’intera sezione, densa di grafici e di promesse, alla gestione dell’acqua. Per un caso della sorte, le pp. 136-37 presentavano come unico studio di caso proprio la valutazione dell’Indice di Funzionalità Fluviale del Bacchiglione, sulla base di rilevazioni condotte dall’Arpav nel 2002 e nel 2003. L’esame, che misurava diversi parametri chimici, fisici e territoriali del fiume, svelava un IFF mediocre per il 55% del corso, scadente per il 42%, buono per il 3%. Non solo, ma dei tre “macrotratti” in cui era diviso il corso del Bacchiglione, si evidenziavano come punti particolarmente critici la periferia sud di Padova e il tratto cittadino di Vicenza. I medesimi posti che ieri – diversi anni dopo, per un caso della sorte – sono finiti sotto.

In questo senso, che Palladio rischi di andare a remengo “sotto i cingoli dei diluvi” (come recita un verso folgorante dei Conglomerati di Zanzotto) è quasi il simbolo di una decisa virata nella direzione di sviluppo di questa terra, il segno di un nuovo modello culturale che sembra lasciare pochi margini di reversibilità. Proprio di Vicenza è uno dei più grandi scrittori nordestini viventi, quel Vitaliano Trevisan che nei Quindicimila passi, ma anche nel più recente Il ponte, documenta fra l’altro il malessere del paesaggio, l’isteria urbanistica e il conseguente ingrigirsi delle menti, l’architettura da karaoke e le ammiccanti “pompeiane” che finiscono a decorare le villette dopo essere state pubblicizzate da testimonials incongruamente discinte, a tarda sera, sulle tivù locali. E la racconta non sotto la specie del saggista o del geografo, ma nell’ottica di chi indaga en homme de lettres il sentimento delle cose e i modi di convivenza e desistenza degli uomini.

Sono andate sott’acqua le taverne, e con esse magari le consolles dei “tavernicoli”, quel singolare stadio dell’evoluzione che Marco Paolini ha ritratto nel Bestiario veneto, sciorinando le insegne e le imprese di un miracolo i cui piedi d’argilla vacillano in tempi di crisi. Viene il sospetto che sia tuto una metonimia per la trasformazione dell’Italia tutta in una lunga taverna, dove fuori (come quando fuori piove) Giove Pluvio porta via il bambino con l’acqua sporca, e dentro, illudendosi d’essere al riparo, gli Eletti fanno battute consone al luogo. Una Taverna del Re?

L’eccellenza è finita sott’acqua. E i veneti si sono scoperti d’improvviso umani e vulnerabili, come ha osservato Ferdinando Camon. Proprio loro che, grazie a un modello di business applaudito in tutto il mondo, avevano dimostrato come si può uscire a tappe forzate dalla povertà e diventare i tedeschi della situazione, ora sono costretti a leccarsi le ferite. La furia della pioggia li ha messi in ginocchio e ha spinto qualcuno addirittura all'autocritica. Roberto Zuccato, presidente degli industriali di Vicenza, la provincia più colpita, ha dichiarato alla Stampa che «stiamo pagando il prezzo della cementificazione e del boom».

E la sortita ha creato più d’un imbarazzo tra gli imprenditori. Così come qualche mal di pancia è venuto fuori per l’articolo sulla Padania di Marco Reguzzoni, capogruppo leghista a Montecitorio. Il pezzo recitava: «In questi giorni, diversamente da quanto purtroppo accaduto in altre zone del Paese, a Varese il fiume Olona non è esondato, grazie alla nostra diga di Malnate». E letto da Vicenza suonava così: «Noi leghisti di Varese le opere di risanamento idrogeologico le abbiamo fatte e voi invece?». Romeo La Pietra è di Udine, presiede il centro studi del Consiglio nazionale degli Ingegneri e non ha remore a convenire che «il territorio in Veneto è stato sollecitato senza una strategia ben definita». È mancata una visione integrata, «una cultura che programmasse lo sviluppo assieme all’equilibrio idrogeologico».

Pur nella melma i veneti non cedono quanto a patriottismo e da qui le facili battute su cosa sarebbe capitato se Giove Pluvio se la fosse presa con la stessa cattiveria non con il Nord Est ma con la Sicilia. Un leghista, il senatore vicentino Paolo Franco, ha trovato persino il tempo per polemizzare con i giornali nazionali rei di aver dato più spazio all’immondizia di Terzigno che all’alluvione di Caldogno e di Casalserugo. «Il Veneto non fa parte della nazione. Esiste solo per essere spremuto». Anche nel giorno più difficile per i propri elettori, Pdl e Lega hanno trovato il modo di far baruffa. L’onorevole Fabio Gava ha attaccato gli alleati sui consorzi di bonifica: a suo dire sono tutt’altro che dei carrozzoni inutili da abolire come pensa e chiedono gli uomini di Umberto Bossi.

In tempo di revisionismo sul modello di sviluppo nordestino gli industriali colleghi di Zuccato stanno in campana. La Grande Crisi morde ancora e come si fa a dire agli associati, che rischiano di dover licenziare i propri dipendenti, «stiamo pagando gli errori di quando siamo cresciuti troppo»? Così chi ha buoni dati da comunicare se ne infischia del revisionismo. Ieri ad esempio la Confindustria patavina ha fatto sapere, per bocca del suo presidente Francesco Peghin, c he nel secondo trimestre 2010 il made in Padova ha segnato +34,6% di export rispetto al 2009, molto più della media veneta (+21,5%). E Andrea Bolla, numero uno degli imprenditori veronesi, chiede un time out. «Di fronte ai disastri e agli sfollati c’è il rischio di tirare conclusioni affrettate». Evitiamo, dunque, l’allarmismo e le analisi cotte e mangiate.

«La fase di sviluppo caotico del Nord Est si è fermata da anni e quindi ci sarebbe stato ampiamente lo spazio temporale per una gestione del territorio più oculata. Si è fatto poco o niente. E se le polemiche di questi giorni possono servire a qualcosa di costruttivo, aggiunge il saggio Bolla, «facciamo partire una nuova fase che tenga insieme la bonifica e l’innovazione». Il presidente veronese è infatti tra i più convinti sostenitori che il Nord Est, se vuole davvero rivedere il suo modello di sviluppo, abbia bisogno di due elementi di modernità: l’alta velocità e la banda larga.

L’equazione troppi capannoni uguale argini che cedono non convince affatto il sociologo Paolo Feltrin. «Diciamo la verità: l’imprevisto esiste e non c’è programmazione che tenga. Se ci sono precipitazioni piovose in eccesso e i mari non riescono a ricevere tutta l’acqua si verificano le alluvioni con le conseguenze che possono avere su una delle zone più popolate d’Europa. Da noi è successo nel ’52, nel ’66 e in questi giorni». Ma non perché abbiamo costruito troppo. « L’urbanizzazione crea problemi ma anche la sua mancanza ne produce. Non esiste la ricetta perfetta». Sono almeno tre i fenomeni socio-economici che non sono stati previsti: lo sviluppo impetuoso, l’alta immigrazione dal terzo mondo e l’allungamento della vita media. Con il risultato che il Veneto nel ’70 aveva 2,1 milioni di abitanti e oggi ne conta 4,9. «Che facciamo? Li deportiamo?».

Smesso il ruolo del sociologo bastian contrario, Feltrin pensa anche lui che si debba migliorare il territorio. La crisi «ce lo consente» perché non abbiamo la pressione della domanda, non servono più manufatti, nuove industrie e nuovi centri direzionali. Anzi, caso mai si tratta di riqualificare quelli che ci sono. A cominciare dai mitici capannoni che si potrebbero rottamare come hanno fatto a Montebelluna e S. Donà di Piave. È vero che per ridisegnare il paesaggio nordestino occorrerebbe avere un’idea più definita di cosa sia un terziario moderno. Ma questo è un discorso da fare con calma. Ora soccorriamo gli sfollati.

Nel Veneto sott’acqua affonda il modello leghista

di Ernesto Milanesi

L'autostrada chiusa perché invasa da acqua e fango a Soave. Argini che saltano da Monteforte d'Alpone (Verona) fino a Ponte San Nicolò (Padova). Alluvionato il centro storico di Vicenza con Guido Bertolaso impegnato a schierare l'esercito. Traffico paralizzato fino ai confini con il Friuli e interi quartieri evacuati nella notte in mezza regione. Con il terrore che la vera onda di piena non sia ancora passata.

E' Legaland, letteralmente con l'acqua alla gola. Pioggia battente, vento di scirocco e idrovore in tilt hanno trasformato il «cuore» del Veneto in un immenso lago color melma. Il bilancio, finora, parla di un anziano disperso. Ma ha rischiato grosso il teatro Olimpico di Vicenza; s'è svegliata dentro un incubo la Marca trevigiana che frana; annaspa quasi tutto il Veronese; trema, come nel 2002, Motta di Livenza nel veneziano.

Una catastrofe difficile da spacciare per «naturale». Gli effetti si avvicinano alla Grande Alluvione del 1966, quando il Polesine fu sacrificato per salvare Ferrara. Oggi sono la «città metropolitana» e l'ex «locomotiva» a finire in ginocchio perché è definitivamente saltato il salvagente di scolmatori, consorzi di bonifica, manutenzione degli argini.

La verità è che, nel giorno dei morti, affiorano gli effetti del «sistema Galan» ereditato dal governatore leghista Luca Zaia. Ma anche le conseguenze dissennate dell'urbanistica che nei municipi accomuna berlusconiani, centrosinistra e Lega. Contano più gli «eletti» in combutta con gli immobiliaristi di qualsiasi evidenza da buon padre di famiglia. E' l'alluvione dell'incuria, dell'interesse privato, della politica irresponsabile. Il modello veneto imperniato su Grandi Opere, project financing e sussidiarietà si è tradotto in un folle consumo del territorio a senso unico. Ed esattamente come il crac dell'economia era stato annunciato dai documenti ufficiali degli uffici di Bankitalia in piazza San Marco, anche la catastrofe «naturale» si poteva prevedere studiando un dossier di una trentina di pagine.

Pubblicato da Legambiente nel 2009, si intitola «Veneto: cancellare il paesaggio». Spiegava l'architetto Sergio Lironi: «Nel 2004, con la nuova legge regionale urbanistica, i Comuni autorizzano 38 milioni di metri cubi di nuovi capannoni commerciali e 18 milioni di volumetrie residenziali, superando la media di 40 milioni di nuovi fabbricati realizzati annualmente nel Veneto dal 2001 ad oggi». E Tiziano Tempesta del Dipartimento territorio e sistemi agroforestali dell'Università di Padova contabilizzava: «Le abitazioni costruite dal 2000 al 2004 sono in grado di alloggiare 600 mila nuovi abitanti. Anche se rimanessero costanti i tassi d'incremento demografico alimentati dagli immigrati, ci vorrebbero 15 anni per utilizzare tutte le case».

Insomma, era un mega-villaggio architettato snaturando le fondamenta. E' già un immenso non luogo strangolato dal cemento. Sarà sempre più in balìa della natura violentata da ruspe, gru, betoniere? La politica partorisce quasi esclusivamente suggestioni: dalla candidatura alle Olimpiadi 2020 a nuove autostrade, ospedali, centri congressi fino alla gigantografia di Veneto City, la super-fiera delle vanità nella Riviera del Brenta. Nessuno (nemmeno i sindaci del Pd) si concentra sulla «normale manutenzione» del bene comune che si chiama territorio. Oltre l'indistinta melassa dell'ex miracolo economico, incombe l'urbanistica: l'immobiliare che si fa stato permanente degli affari, con la politica che appalta territorio e futuro. Finora nemmeno la «rivoluzione» della Lega di governo ha dimostrato di arginare la tendenza.

Le statistiche sono agghiaccianti. Proprio l'area centrale collassata in questi giorni rappresenta il 25,7% del territorio e accoglie il 50,7% della popolazione nel 47,2% delle abitazioni (ben 930 mila, di cui 80 mila senza inquilini). Nella sola provincia di Vicenza, feudo della Lega, in 50 anni la «macchia» urbanizzata è aumentata del 342%, con un incremento di popolazione limitato al 32%. Significa che i volumi urbani della città diffusa in ogni angolo sono passati da 8.647 ettari a oltre 28 mila: la cementificazione è quadruplicata.

E nella sola Padova con la giunta di centrosinistra del sindaco Flavio Zanonato si sono trasformati oltre 4,7 milioni di metri quadri di aree destinate a verde pubblico in aree di perequazione, delegando ai privati le nuove lottizzazioni in cambio di spezzatini verdi. Cinque anni fa in Regione sono state protocollate 1.276 varianti urbanistiche (più 220% rispetto alla media degli anni precedenti). Si appoggiavano a 389 piani di riqualificazione urbanistica e ambientale attuati nel biennio 2005-2006: la soluzione più semplice per costruire. Sempre e comunque. Anche a costo di veder tracimare torrenti fin dentro il «salotto» di Vicenza o il castello di Soave. L'autostrada a tre corsie chiusa è l'emblema del Veneto che annaspa. Nella sua stessa melma. E non sarà l'ultima volta...

Un disastro a chilometro zero

di Gianfranco Bettin

«Quando la natura si ribella, accade questo... è un indice di grande cambiamento climatico»: a parlare non è un militante ambientalista ma il governatore del Veneto, Luca Zaia, a commento dell'emergenza meteorologica e idraulica di queste drammatiche ore, da lui definita «peggiore che nel 1966». Paragoni storici a parte, Zaia ha ovviamente ragione: lo spettacolo che il Veneto e l'intero Nordest offrono in queste ore è quello di territori in rovinoso subbuglio, di centri abitati e di comunità sconvolte, in preda a un'emergenza che, puntualmente, si affida a Bertolaso (che svolazza in elicottero sopra città e campagne, planando di prefettura in prefettura) e alla proclamazione richiesta dello stato d'emergenza. Zaia invita ad affrontare i compiti urgenti del momento. E va bene, sul campo. Ma in sede di analisi bisogna dire che emergenza e normalità - ormai, nell'attuale situazione storica, consolidata, strutturale, di questi territori - sono tutt'uno anche quando non piove.

Quando piove, il disastro si vede meglio. Ma anche nei giorni di sole non si faticherebbe a vederlo. È su questo che Zaia si dovrebbe pronunciare. Non c'è in Italia un territorio che sia stato più stravolto di questo in un tempo più breve. Questa è la radice del «dissesto idro-geologico» che in queste ore echeggia di bocca in bocca e ad esso hanno posto mano innumerevoli protagonisti. Infatti, se vi sono catastrofi nate da responsabilità accentrate, come per il Vajont o come per la nascita e lo sviluppo di una Porto Marghera in piena laguna e in pieno centro abitato, per ridurre in questi stati un'intera vasta regione ci sono volute e ancora sono all'opera generazioni di amministratori irresponsabili, ignavi o incoscienti. Se escludiamo i consapevoli criminali che, qua e là, hanno svenduto la loro (la nostra) terra, tutti gli altri, spesso in modo desolantemente trasversale, hanno messo insieme una tale montagna di micro e macro atti, di delibere, di piani urbanistici, di sanatorie, di folli interventi sui corsi d'acqua, di infrastrutture, che sono la vera causa dell'attuale emergenza.

Certo, i cambiamenti climatici concorrono, come no. Era ora che lo dicesse un esponente importante, come Zaia è, dell'attuale maggioranza di governo, la più pervicace di tutto l'Occidente nel negare questa emergenza, guidata dal premier Berlusconi, che più vi ha irriso e meno l'ha affrontata. Ma il modo in cui il clima fuori di sesto si produce in un luogo dipende anche da come quel luogo è conciato. Per i dati Istat, tra 1978 e 1985 ogni anno nel Veneto sono stati edificati quasi 11 milioni di metri cubi di capannoni. Dal 1986 al 1993 sono stati oltre 18 milioni all'anno per poi salire negli anni successivi a oltre 20 milioni. Con un salto dal 2000: 27 milioni nel 2001, 38 nel 2002 e così via. Per le abitazioni, negli anni '80 e '90 venivano rilasciate concessioni edilizie pari a 9-10 milioni di metri cubi anno. Nel 2002 oltre 14, nel 2003 quasi 16, nel 2004 oltre 17.

In provincia di Padova in vent'anni la superficie agraria è diminuita del 20%, in quella di Treviso del 30%, in quella di Vicenza, ieri epicentro dell'emergenza, del 40%. E sopra questo territorio compulsivamente e affaristicamente cementificato e asfaltato, Prealpi e Alpi sono in abbandono, senza una politica che non fosse la droga turistica, aumentando il dissesto evidentissimo, nella sua interdipendenza, proprio in giorni come questi, quando l'acqua precipita irruenta a valle e in pianura.

Questo è il disastro, nella connessione con il clima che muta ma anche con quello che è stato fatto al territorio. Legioni d'amministratori - con i leghisti da tempo in prima fila - portano gravi responsabilità. Qui non c'entrano né Roma ladrona né gli invasori stranieri. È una colpa d.o.c., a chilometro zero.

14 ottobre

Stop a Veneto City e Quadrante

di Alberto Vitucci

Stop a Veneto city e al Quadrante di Tessera. «Numero chiuso» per le barche in laguna e limiti rigidi alle nuove darsene. Parere negativo a «ulteriori insediamenti» soprattutto nelle aree a rischio di allagamento. Un parere che potrebbe modificare l’intera politica urbanistica regionale, quello votato all’unanimità dalla Salvaguardia.

Tre pagine di prescrizioni votate all’unanimità al Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp) che ne modificano l’impianto e andranno ora all’esame della commissione Urbanistica regionale con il parere favorevole delle Soprintendenze. Le prescrizioni votate sono 23. Tra le più importanti le indicazioni sui nuovi insediamenti produttivi. Viene vietata «l’urbanizzazione e l’edificazione di aree a grave rischio di allagamento», con l’invito ad approvare in fretta il Piano di Assetto idrogeologico (Pat). Dovrà anche essere «contenuto al massimo» l’ulteriore consumo di suolo, e lo svuotamento dei centri abitati per il decentramento delle funzioni. Priorità assoluta va data alle aree dismesse, «in particolare Porto Marghera attivando bonifiche e riusi compatibili».

Un secco «no» anche per il Quadrante, lo sviluppo immobiliare della cosiddetta «Tessera city», Piano approvato dalle giunte Galan e Cacciari che prevede un milione di metri cubi di nuovi edifici commerciali in gronda lagunare. Aree secondo i tecnici «ad alto rischio allagamento». «Nel polo produttivo di rilievo metropolitano regionale», si legge al punto 15, «venga prescrittivamente vietata la previsione negli strumenti urbanistici di nuove aree insediative, utilizzando le ampie aree disponibili negli ambiti aeroportuale e dell’Aev di Dese, già previste nel Piano regolatore vigente».

Uno stop arriva anche alla costruzione di nuove strade. Si potrebbe dimezzare il traffico dei pendolari e rendere più sicura la circolazione sulla Romea, scrive la Salvaguardia, completando ad esempio la linea ferroviaria regionale (Sfmr) per Chioggia e il tratto da Piove di Sacco a Chioggia. Infine un invito a «riconsiderare la scelta di nuove infrastrutture stradali lungo l’asse a sud del Naviglio Brenta». Prevedendo invece nuove fermate dell’Sfmr a Chirignago, Dese e Pili.

Il Piano della Provincia - testo approvato dalla giunta Zoggia poi in parte rivisto dalla giunta Zaccariotto - è stato pesantemente emendato anche nei primi articoli che riguardano la laguna. Le prescrizioni parlano di vietare il transito sui bassi fondali lagunari dei lancioni Gran Turismo e delle imbarcazioni con larghezza superiore a due metri e 30. Ma soprattutto viene istituita una «soglia limite del massimo numero di posti di ormeggio per barche compatibile con la tutela della laguna. Dovrà anche venire esclusa dal Polo nautico «l’ambito prospiciente il mare al Lido e Murano». Gli accessi e le darsene della gronda lagunare interna - verso la terraferma - dovranno essere riservati alle tipiche imbarcazioni lagunari. Dovrà essere infine recuperato, si legge nel dispositivo finale votato dalla commissione, il Palav, Piano di area della laguna veneta. Strumento urbanistico spesso ignorato, di cui qualcuno chiedeva l’abolizione perché «troppo restrittivo» nella tutela della laguna. Quanto alla Tav, la Salvaguardia boccia l’ipotesi del passaggio sotto i fiumi e il parco invitando a considerare le altre due ipotesi previste dal Piano regionale dei Trasporti: i Bivi o l’asse ferroviario Venezia Trieste.

15 ottobre

Dopo Quadrante di Tessera e Veneto City, nel mirino la linea su cui Zaia e Tondo si sono accordati a Trieste

La Salvaguardia: anche la Tav va bloccata

Un altro altolà, questa volta per il tracciato «balneare» dell’Alta Velocità

VENEZIA. L’Alta Velocità corre su un binario vietato. L’accordo ieri tra i presidenti di Veneto e Friuli per il tracciato «balneare» della Tav è in rotta di collisione con il parere espresso proprio nelle stesse ore dalla Commissione di Salvaguardia. Organo previsto dalla Legge Speciale - e presieduto dal presidente della Regione Luca Zaia - che in molti vorrebbero abolire. Ma che ha sfornato pareri a volte contestati ma sempre rispettati dalla Regione.

Stavolta il documento sfornato dalla commissione e approvato al’unanimità non lascia spazio a interpretazioni. Si tratta di 23 prescrizioni tassative per l’entrata in vigore del Ptcp, il Piano territoriale di coordinamento provinciale approvato dalla Provincia. Una sorta di grande Piano regolatore del territorio e dei suoi usi futuri. Al punto 22, dove si parla di Tav, l’indicazione non lascia spazio a interpretazioni diverse. «Va stralciata», si legge nel documento finale, «l’ipotesi di tracciato ferroviario Alta Capacità-Alta Velocità lungo il margine della gronda lagunare, fascia di altissima fragilità e vulnerabilità ambientale e paesaggistica tutelata dal Palav». Nel territorio della provincia di Venezia, dunque, quel tracciato non si deve fare. Mentre vanno valutate «le altre due ipotesi della proposta del Piano regionale dei Trasporti del 2004, come il percorso ferroviario dei Bivi o preferibilmente con fermata passante interna, lungo la linea ferroviaria venezia-Trieste. Un sasso lanciato nel mare delle alleanze in Regione. Già la settimana prossima, in commissione Urbanistica, il documento sarà esaminato dalle forze politiche. Le opinioni sono molto diverse, anche all’interno della stessa maggioranza Pdl-Lega, dove non tutti vedono con favore il tracciato che potrebbe portare problemi al veneto Orientale. «Un errore», dice senza mezzi termini la segretaria regionale del Pd Rosanna Filippin. Il presidente del Porto Paolo Costa plaude, il governatore Zaia si dice favorevole a una stazione che serva tutte le spiagge. Quanto al tracciato che molti sindaci non vogliono, Zaia promette che «ci sarà un confronto con gli enti locali, ma che l’opera si dovrà fare». Resta da vedere, appunto, quale sia il tracciato migliore. Secondo la Salvaguardia, una volta tanto unanime, quello di gronda è un percorso che potrebbe produrre «danni ambientali». A votare il testo esponenti di aree politiche e tecniche molto diverse. «Forse perché l’elaborazione è stata fatta in positivo, proponendo soluzioni», spiega Stefano Boato, docente Iuav, ambientalista storico rappresentante in Salvaguardia del ministero per l’Ambiente, «si indica come riqualifcare il territorio con interventi per uno sviluppo compatibile. Evitando il consumo di suolo e nuove strade inutili».

Un parere destinato a tener banco nell’agenda politica delle prossime settimane. Anche perché - fanno notare i tecnici - le prescrizioni per le future opere che interesseranno il territorio della provincia veneziana sono state approvate con il voto favorevole delle Soprintendenze. Più difficile sarà dunque presentare progetti di segno diverso, sapendo quali siano le linee di tendenze degli organi di tutela del ministero dei Beni culturali. Oltre al «no» all’attuale tracciato della Tav la Salvaguardia ha anche invitato la Regione a fare presto per il completamento dell’Sfmr, la ferrovia metropolitana regionale, istituendo le nuove linee per Chioggia e Piove di Sacco.

15 ottobre

Riviera divisa sull’alt a Veneto City

di Filippo De Gaspari

DOLO. «Veneto City a rischio idraulico? Non se il progetto terrà conto di opere anti-allagamento». L’altolà della Salvaguardia, che rileva rischi di tipo idrogeologico nell’area interessata dal mega insediamento, non preoccupa i sindaci di Riviera e Miranese, che anzi provano a capovolgere la questione: e se invece li risolvesse? Da Dolo il sindaco Maddalena Gottardo sposa anche in questo caso la tesi dell’opportunità. «Quelle degli allagamenti sono questioni che hanno già superato l’ostacolo della Valutazione ambientale strategica - afferma - è chiaro che Veneto City non arriverà senza opere idrauliche contestuali in grado di migliorare la tenuta del territorio. Credo anzi che da questo punto di vista il polo potrebbe portare dei vantaggi, con nuove opere in grado di salvare il paese dall’acqua. Personalmente mi preoccupano più gli aspetti legati alla viabilità». Anche per il sindaco di Pianiga Massimo Calzavara il pronunciamento della Salvaguardia non mette in discussione il progetto. «Anche se - precisa - il nostro parere resta vincolato a quello degli enti tecnici. Se ci dicono che tutto è in regola bene, altrimenti faremo i nostri approfondimenti. Resto convito che Veneto City possa essere un’opportunità per Pianiga, ma deve avere le carte in regola, con l’ok di tutti gli enti interessati. Personalmente mantengo alcune perplessità, ma se i miei dubbi venissero fugati sono pronto a firmare anche tra 10 giorni». A Mirano il sindaco Roberto Cappelletto si chiama ancora una volta fuori dalla questione. «La nostra posizione non cambia - afferma - Veneto City è un affare che non ci riguarda se non per le implicazioni viabilistiche che potrebbe avere per il nostro territorio. Su questo aspetto erigeremo una muraglia cinese per non essere invasi dal traffico, ma il pronunciamento della Salvaguardia non cambia di una virgola la nostra posizione, perché non ci sarà un metro quadrato di Veneto City nel nostro comune». Soddisfatti del parere unanime dei tecnici della Salvaguardia, manco a dirlo, sono invece i Comitati ambiente e territorio: «E’ un’uscita positiva che riconosce ragioni che portiamo avanti da anni - spiega il rappresentante Mattia Donadel - e stavolta è un pronunciamento che pesa, perché fatto da esperti. Resta da capire ora quanto ne terrà conto la Regione e in questo, purtroppo, i dubbi non ci mancano».

15 ottobre

E per Tessera City servono altre aree

di Alberto Vitucci

VENEZIA. «Stop a nuovi insediamenti, soprattutto nelle aree a rischio allagamenti». Anche sul fronte dei grandi progetti e del futuro sviluppo edilizio del territorio la commissione di Salvaguardia ha dato, approvando con rigide prescrizioni il nuovo Piano provinciale, indicazioni molto precise. Si entra anche nel merito dei contestati megaprogetti come Veneto city e Tessera city, nuove volumetrie in gronda lagunare per oltre un milione di metri cubi. Progetti già approvati dalle giunte Cacciari e Galan, adesso in fase di attesa delle autorizzazioni. Una strada che si fa più stretta, visti i vincoli imposti dalla Salvaguardia. Per il Quadrante di Tessera e il centro produttivo di Dolo-Arino (Veneto city), si prescrive di trovare altre aree disponibili. A cominciare dalle aree di Marghera, che andranno presto bonificate, e dall’Aev di Dese, già previste nel Prg vigente. Stop insomma al nuovo «consumo di territorio» che tanti disastri ambientali ha provocato negli ultimi decenni, con la moodifica del paesaggio per costruire capannoni ora in gran parte dismessi. Una speculazione che spesso più che favorire le aziende ha puntato sul costruire nuove edificazioni. Ora si cambia, e se le amministrazioni si adegueranno, come prevede la norma, alle indicazioni della Salvaguardia si punterà adesso sulla valorizzazione delle aree industriali dismesse. Un parere che stronca anche la possibilità di megadarsene alle bocche di porto e di trasformazione delle cavane in gronda lagunare, che andranno riservate a imbarcazioni tipiche.

Postilla

Le due pesanti urbanizzazioni erano state promosse l’una (Veneto City, nell’area della Riviera del Brenta) da un gruppo di “capitani coraggiosi” dell’immobiliaristica e l’altra (Quadrante Tessera, in margine alla Laguna e all’aeroporto) dai proprietari della società che gestisce l’aeroporto, dal Casino di Venezia e da un gruppo di finanziatori privati, ed era stato pesantemente sostenuto da Giancarlo Galan e Massimo Cacciari quando erano, rispettivamente, presidente del Veneto e sindaco di Venezia. Entrambe le proposte erano state riprese nel Piano territoriale regionale di coordinamento. Contro di esse erano state avanzate argomentate proteste dalle associazioni e dai comitati confluiti nella rete AltroVE (Rete per un altro Veneto), anche con la presentazione di osservazioni formali ai piani suddetti.

Il parere della Commissione di salvaguardia (un organo interistituzionale istituito dalla legge speciale per Venezia del 1973) esprime rigidissime prescrizioni per numerose altre previsioni devastanti, in particolare opere connesse alla realizzazione del MoSE e delle infrastrutture. Sebbene non sia vincolante ope legis , lo è certamente per l’essere stato approvato all'unanimità dai rappresentanti di istituzioni della Repubblica (ministeri, regione, provincia, comuni) e di organismi tecnici dello Stato.

Pubblicheremo appena possibile il documento integrale, o una descrizione completa del suo contenuto.

L’inaugurazione della bretella di Pianzano da parte del Governatore Zaia ha riportato in auge la proposta di una legge obiettivo regionale già avanzata nell’era Galan dall’Assessore Chisso, e passata in commissione regionale col voto favorevole di tutti i partiti presenti. In breve, la fotocopia della proposta di legge regionale della Regione Lombardia, subito impugnata dallo stesso Governo Berlusconi in carica davanti alla Corte Costituzionale per i numerosi profili di contrasto con il dettato costituzionale e con la normativa di settore.

Il rispolvero di una proposta sulla quale si butta a capofitto l’ineffabile Assessore alle Infrastrutture Renato Chisso, memore degli stop imposti da CAT con l’aiuto dei cittadini ad opere come la “Camionabile PD-VE”, per il mancato rispetto di norme procedurali già edulcorate e largamente semplificate. Lo slogan è che “è tutta colpa di Roma e dei suoi funzionari” e che per il progresso del Veneto occorre semplificare e velocizzare di più, insomma “fare presto e bene”, come ripete il duo Galan-Chisso.

La nuova legge obiettivo prevede che, in caso di inerzia degli organi statali e del CIPE, trascorsi 60 giorni la Regione Veneto possa sostituirsi ad essi, esautorando così la commissione VIA nazionale; pressoché con il solo pensiero, magari dell’Assessore Chisso, di Zaia e pure della Segretaria del PD Filippin, le opere diventeranno seduta stante di reale interesse collettivo, di vera utilità, sostenibili e tranquillamente accettate dai cittadini che ne subiranno il peso in termini di salute e pure patrimoniali (per il bene collettivo magari di trasportatori e di imprenditori globalizzati con fabbrichette all’estero).

Opere che sentito l’altro slogan “Prima il Veneto” saranno certamente realizzate in finanza di progetto solo da ditte venete o vicine al sistema veneto. Come dire “sistema Galan”: Mantovani qua, studio Astaldi là, un pezzetto di Adria Infrastrutture della Sig.ra Minutillo (ex segretaria di Galan), Compagnia delle Opere dappertutto ed una spruzzatina di cooperative rosse.

Basterà che dalla Regione si dica un VORREI… e già vedremo fiorire nuove autostrade gestite privatamente per 40 anni anche trasformando strade o tangenziali ora percorribili gratuitamente, o nuovi ospedali che asciugheranno di ogni risorsa tutto il budget sanitario regionale per gli anni a venire.

La legge obiettivo varata dal Governo Berlusconi e immodificata da quello Prodi è di per se già un insulto per la democrazia, che espropria di fatto le comunità locali, i comuni, le province, dalla possibilità di minimamente incidere nel procedimento di approvazione e realizzazione di una opera infrastrutturale decisa sì, dal governo centrale, ma anche sulla base di indicazioni provenienti dalle Regioni.

Semplificare ulteriormente una procedura come la legge obiettivo che, invece, dovrebbe essere abolita, significa mettere ancor più in pericolo un territorio fortemente antropizzato come quello della Regione Veneto, che ha già perso molto, moltissimo, del suo fascino e della sua vivibilità e che non ha davvero bisogno che il buon governatore un bel giorno si svegli con l’idea di dire “bisogna fare l’autostrada Venezia-Monaco” (lungo il Piave, per Cortina, sotto le dolomiti di Fanes).

Perché, da domani, potrebbe essere già fatta!

Gli autori sono esponenti del CAT Comitati Ambiente Territorio Riviera del Brenta e Miranese. Informazioni sul CAT sono contenute, e continuamente aggiornate, sul sitoweb www.infocat.it

Dopo il Passante di Mestre, la Pedemontana e una serie di altre opere. Il Veneto del neogovernatore Zaia fa i conti con sette miliardi di euro di superstrade, tangenziali e raccordi. Pagate con il sistema del project financing Dietro l'angolo l'ombra di Tangentopoli

Mega-progetti con il sistema del project financing. Un «pacchetto» di lavori che sembra costruito su misura. Tanto più che rispuntano alcuni protagonisti della Tangentopoli veneta degli anni Novanta. Una strada a senso unico per «rivoluzionare» la viabilità? L'assessore Renato Chisso (Pdl) non si accontenta del Passante di Mestre e rilancia il programma messo a punto dalla vecchia giunta Galan. Come per il «portafoglio» dei nuovi ospedali, la Lega Nord reciterà davvero il ruolo di impietoso garante?

Stretto fra la crisi economica e l'attesa del federalismo, il Veneto del nuovo governatore Luca Zaia fa i conti con 7 miliardi di euro di superstrade, tangenziali, grandi raccordi. Si chiama «finanza di progetto»: la partecipazione dei privati alle opere di interesse pubblico che la Regione non è più in grado di appaltare. Così si è costruito a Mestre l'ospedale nuovo di zecca che si affaccia su via don Giussani. La sanità veneta dell'era Galan ha messo in cantiere anche gli ospedali di Schio, Asolo e della Bassa padovana. Giusto prima che calasse il sipario sui tre lustri del governatore berlusconiano, ecco firmato in pompa magna anche il "preliminare" del nuovo ospedale di Padova (1,7 miliardi) dove però è sempre a zero l'integrazione fra Azienda ospedaliera, Usl 16 e Università.

Sul fronte della viabilità è intervenuto il consigliere regionale Mauro Bortoli (Pd) che ha depositato una documentata interrogazione, facendo andare su tutte le furie l'assessore Chisso. «I soggetti individuati dalla Regione come promotori rientrano nella ristretta cerchia dei poteri forti del mondo economico veneto. In particolare, eclatante è il caso della Mantovani Spa finora promotrice di tutte le tre operazioni cui ha partecipato (prolungamento A27, nuove tangenziali e indirettamente nella Via del Mare). I promotori contano sul diritto di prelazione. Perfino in caso di sconfitta nella gara, viene riconosciuto dal vincitore l'importo delle spese dichiarate nella predisposizione dell'offerta. E nel 2007 la Mantovani ha registrato utili per 13,5 milioni contro i 500 mila euro del 2001...» afferma Bortoli. E dubbi pesanti sul conto economico, perfino del Passante di Mestre: «In teoria, il project financing serve al pubblico per favorire l'attuazione di infrastrutture perché il codice dei contratti assegna ai privati il rischio d'impresa e di mercato. In pratica, la bilancia é tutt'altro che in equilibrio: il Passante nel 2009 ha registrato il 30% in meno di traffico, con conseguente sforamento del piano finanziario e intervento della Regione a ripianare il deficit».

Chisso non era abituato a farsi controllare. Tanto meno nel merito dei conti. Ed è sbottato con una dichiarazione inferocita: «Bortoli non può mica calunniare per sentito dire. Si informi e dica almeno cose fondate. Simili affermazioni sono prive di qualunque fondamento. Nessuna convenzione regionale prevede che se i ricavi sono inferiori alle previsioni, vi sia un ripiano con un contributo della Regione o con aumento delle tariffe. Le convenzioni prevedono, invece, che in casi eccezionali i concessionari possano richiedere la revisione della convenzione come del resto espressamente indicato dall'art. 143, comma 8, del codice dei contratti».

Bortoli ha mantenuto il punto: «Confermo tutto, anche perché ciò che sostengo rientra nelle decisioni della giunta regionale. Il Passante? È vero che non è stato realizzato in project financing: tuttavia è un esempio dei rischi che potranno esserci sugli equilibri del bilancio regionale. Il piano economico finanziario del Passante non è in linea per Galan, che ha manifestato il suo disappunto in più occasioni e pubblicamente. Chi dovrebbe informarsi meglio è l'assessore Chisso».

Proprio questa polemica ha rimesso sotto i riflettori il «giro» delle imprese votate ai cantieri pubblici. Mantovani Spa significa imbattersi nell'ingegner Piergiorgio Baita. Comincia la carriera alla Furlanis, l'impresa di costruzioni guidata da Giovanni Mazzacurati, il futuro presidente del Consorzio Venezia Nuova. Dopo un passaggio a Italstrade, Baita si concentra sugli appalti: è il vero stratega del Consorzio Venezia Disinquinamento. Cantieri in laguna e «pulizia» degli acquedotti veneti. Alessandra Carini, firma di punta del gruppo Espresso in Veneto, evidenzia la geopolitica degli anni Novanta: «Il Consorzio era controllato dalla veneziana Iniziativa (al vertice Orazio Rossi), che doveva essere il cilindro dal quale fare uscire progetti e soldi per le infrastrutture e che diventa una sorta di salotto buono delle imprese di costruzioni dove siedono Maltauro, Grassetto, Ligresti e Dino Marchiorello, allora presidente degli industriali veneti e di Antonveneta. Anche Baita ha solide amicizie politiche: è braccio destro di Cremonese, doroteo, presidente della giunta regionale. Anche lui finisce travolto dalla Tangentopoli veneta: Felice Casson e Ivano Nelson Salvarani lo fanno arrestare nell'ambito dell'inchiesta che svela la spartizione degli appalti tra i socialisti di Gianni De Michelis e i democristiani di Bernini e Cremonese. Parla con i giudici per ore, svelando i meccanismi di distribuzione degli appalti. Ne esce con un'assoluzione».

Baita si trincerò dietro il ruolo di esecutore dei compiti assegnati dall'impresa. Allora, in Veneto, si poteva lavorare solo con la «benedizione» dei partiti. Le Procure fecero crollare gli imperi edilizi di Tangentopoli, anche grazie ad altri top manager come Baita che scaricarono le responsabilità penali. Si disintegrò la Grassetto che aveva monopolizzato Padova, mentre a Vicenza non fu semplice sopravvivere per la Maltauro. All'epoca, fece scuola l'ordinanza di un magistrato sull'inconsapevole trasporto di valigette anche per conto delle cooperative...

Vent'anni dopo, in Veneto sembrerebbero esserci i presupposti per una specie di replica riveduta e corretta. Ancora lavori con i soldi pubblici. Di nuovo, imprese in pole position. E setacciando le sigle dei consorzi affiorano le storiche alleanze con le coop. E' la politica business oriented che non è mai stata solo il marchio di fabbrica del centrodestra. Il mercato dei lavori pubblici nelle sette province vale 3 miliardi all'anno. La Regione, da sola, finanzia lavori per 700 milioni. E nel 2008, secondo i dati ufficiali, oltre il 65% delle opere pubbliche sono state realizzate proprio in project financing. Alla vigilia delle elezioni di marzo, la fotografia del comparto sanitario era più che eloquente. In Lombardia il «modello Formigoni» che stempera il pubblico grazie alla Compagnia delle Opere aveva previsto 17 progetti del valore di oltre 1,2 miliardi. Il Veneto segue a ruota con 6 progetti da 846 milioni. La Toscana "rossa", invece, non va oltre 546 milioni.

Una tendenza precisa, spesso e volentieri alimentata da una sorta di «unità nazionale» già sperimentata in Veneto. A Padova lo stadio delle tangenti e il palazzo di giustizia furono concepiti, approvati e costruiti proprio sull'onda del «pentapartito democratico». Adesso si replica con il Grande Raccordo Anulare, naturalmente in project financing, grazie alla sintonia istituzionale fra Vittorio Casarin (ex presidente della Provincia che guida la società promotrice) e il sindaco Flavio Zanonato. Nella Gra Spa, infatti, il 4% delle azioni risulta detenuto proprio dalle imprese costruttrici: Mantovani Spa è di nuovo la capofila. Insieme al Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna e ad un altro pool di società del settore edilizio che il 22 dicembre 2006, nello studio del notaio Nicola Cassano, si sono costituite nel Consorzio Gra imprese padovane. Una sintomatica alleanza locale, visto che si tratta di sei sigle e personalità tutt'altro che marginali. Intercantieri Vittadello, Alissa Spa e Fratelli Gallo Srl sono imprese dell'Alta padovana, quanto Road Spa di Cittadella che fa capo alla famiglia del futuro presidente di Confindustria Massimo Pavin. Con loro il Consorzio stabile Consta che riunisce la galassia che fa capo alla Compagnia delle Opere (da Mattioli a Ste Energy, dalle coop sociali Giotto e Tintoretto a Geobasi). Infine, la Sicea Spa di Vigonza che significa Rizzani De Eccher ovvero chi ha fatto viaggiare il prototipo del tram targato Lohr. Ma anche Leonardo Cetera, il manager della Grassetto che negli anni '90 fu spazzata via da Tangentopoli. Era tornato in auge come presidente dell'associazione costruttori edili; compare, puntualmente, ad ogni "snodo" degli affari con le amministrazioni locali.

E' la strada maestra dell'economia opaca. In Veneto, si procede con la cara vecchia concertazione. A Vicenza, la pianificazione urbanistica della giunta Variati non può prescindere dalla professionalità del mancato sindaco di centrodestra. A Venezia, il restyling del Lido è nelle mani di una società costituita dall'ex assessore alla cultura. E nessuno ha voglia di preoccuparsi degli «strani» flussi di denaro che alimentano il mercato immobiliare, ultima frontiera del modello veneto. Prima, sempre i soliti? Anche nella Regione di Zaia?

Chissà che cosa deciderà il Governatore “contadino”. Luca Zaia deve ancora mostrare la sua idea del nuovo Veneto, deve far capire se intende proseguire sulla strada del predecessore, che sarà pure ministro delle Politiche Agricole, ma ha cementificato la sua terra. Sulla scrivania di Zaia presto arriverà un progetto che cancellerà 460 ettari di campi e modificherà per sempre la campagna veronese: l’autodromo di Motorcity, un progetto lanciato anni fa dalle società di Chicco Gnutti e Gianpiero Fiorani… sì, proprio i furbetti del quartierino. L’autodromo sarà una delle più grandi opere del Veneto, insieme con il passante di Mestre e il Mose. Finora la Lega si è astenuta, ma adesso tocca a lei decidere.

Siamo a Vigasio e Trevenzuolo, in provincia di Verona. A centocinquanta chilometri da Monza e Imola, due circuiti storici che in questo periodo non se la passano troppo bene. Già, l’industria automobilista è in crisi, la Formula 1 annaspa e punta sull’Asia dove girano soldi e fioriscono piste su isole artificiali. Ebbene, che cosa si fa in Veneto? Un autodromo lungo 5,2 chilometri per oltre un miliardo di investimento. Ma il punto è soprattutto un altro, andate a Vigasio per rendervene conto. A nord nelle giornate terse vedete le Alpi, a est il cielo sbianca verso la Laguna. Intorno è pianura a perdita d’occhio, quella terra spessa, scura che imbeve ogni cosa del suo colore. Siamo al confine tra Veneto e Lombardia, dove la Lega affonda le sue radici, rurali più che metropolitane. Ora, però, all’immagine che avete davanti sovrapponetene un’altra: quella del futuro autodromo elaborata nel “rendering” degli architetti (www.motorcityvr.it). Ecco, al posto della campagna comparirà il serpente d’asfalto della pista. Ma il grosso del progetto, e dell’affare, sta nel centro commerciale da 769 mila metri quadrati, nel parco tematico da 350 mila metri quadrati (il doppio della vicina Gardaland), nel polo tecnologico (268 mila metri quadrati), in alberghi, ristoranti e immancabili case. Poi caselli, strade e metropolitane. Insomma, cemento. “È un progetto colossale che rischia di stravolgere i nostri paesi, di Vigasio e Trevenzuolo, che saranno divorati da Motorcity, diventeranno un’appendice della pista”, sospira Cesare Nicolis. La sua storia racconta tante cose del Veneto di oggi che ha il record dei cantieri, ma anche dei comitati. Nicolis è un ex dirigente di banca, uno che sa maneggiare bilanci e che a 59 anni ha deciso di andare in pensione per dedicarsi alla sua terra. Nel suo archivio conserva migliaia di pagine con la strana vicenda Motorcity.

Dall’inizio, quando si fece una gara tra i Comuni del Veneto per aggiudicare il progetto. Vinsero Vigasio e Trevenzuolo. È il luglio del 2004 quando Earchimede e Draco vengono indicate come società realizzatrici dell’opera. Dietro il progetto si intravvedono Emilio Gnutti, Hopa, la Popolare di Lodi guidata da Gianpiero Fiorani e Unipol, insomma, i protagonisti delle scalate dell’estate 2005. Il sogno di Gnutti, che divide il cuore tra finanza e motori, si realizza. Intanto, però, il progetto cambia faccia: intorno alla pista crescono i palazzi. Il resto della storia è scritto nelle visure camerali di Motorcity: i furbetti vanno a gambe all’aria e così l’autodromo passa in altre mani. Oggi a tenere le redini sono le cooperative. Ma della società fanno parte anche enti locali. Perfino la Regione Veneto. Amministrazioni che con una mano firmano gli atti societari e con l’altra le autorizzazioni a costruire. E il progetto va avanti, nonostante i dubbi. Lo stesso Giancarlo Galan, allora Governatore, disse: “Quel progetto non mi convince”. Ma intanto la Regione dà via libera. Nonostante le ombre delle valutazioni di impatto ambientale. Carte che forse gli abitanti di Vigasio e Trevenzuolo non conoscono. La società realizzatrice promette che a Motorcity arriveranno fino a 106.483 persone nei giorni feriali; nei giorni festivi si toccheranno 180.995 presenze. Molti visitatori, soldi, certo, ma anche inquinamento. E nel giugno 2008 l’Arpav mette nero su bianco le sue cautele: “La valutazione dell’impatto riguardo al Pm10 appare fortemente sottostimata. Dalle nostre stime l’aumento di traffico – anche realizzando sistemi di trasporto come la metropolitana – comporta un aumento delle emissioni di sei volte”. Parliamo di particolato, di polveri sottili, quegli inquinanti che se finiscono nei polmoni provocano tumori. Che minacciano soprattutto anziani e bambini. Il progetto, però, va avanti. A trainarlo è la promessa dei posti di lavoro. Motorcity, sono certi gli investitori, “darà occupazione a 15 mila persone”. Possibile. Difficile dire se il calcolo tenga conto dei posti di lavoro che si perderebbero nell’agricoltura, oppure a Monza, Imola o Gardaland. La popolazione di Vigasio è divisa. E anche la politica. Il centrodestra è favorevole (nella società siedono anche ex amministratori del Pdl), mentre il centrosinistra è contrario. Beppe Grillo e i suoi meet up si sono battuti contro la pista. Alle elezioni di Vigasio, a marzo, vince il Pdl (41,4%), viene riconfermato il sindaco Daniela Contri che non ha mai fatto mistero delle sue simpatie per Motorcity (che tra l’altro risanerà le casse pubbliche con gli oneri di urbanizzazione): “È’ una grossa opportunità per il Comune e i proprietari dei terreni. Oggi c’è una distesa di granoturco, di polenta… tiriamo via la polenta… l’agricoltura non ha grandi prospettive”. Maurizio Fontanili, presidente della Provincia di Mantova (Pd), contro Motorcity invece sta combattendo da anni: “Siamo una delle zone più fertili d’Italia, qui si alleva il 17 per cento dei suini, si produce il 23 per cento di Grana Padano. Vi rendete conto dell’impatto che avrebbero sulla nostra terra centomila persone al giorno?”. Mantova, però, è in Lombardia. A pochi passi da Motorcity, ma oltre la linea invisibile che divide le regioni. Insomma, rischia di dover subire le decisioni prese a Venezia. Ora tutto è appeso a un ricorso al Tar presentato da Mantova. Alla linea che prenderà Zaia. Cesare Nicolis intanto si guarda intorno, guarda il paesaggio o forse immagina il panorama futuro, con i campanili della campagna veneta affiancati dalle torri dell’autodromo

La Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici del Veneto Orientale ha «immobilizzato» 500 milioni di cantieri. Una raffica di stop per centinaia di pratiche urbanistiche. con il comune leghista che grida allo scandalo. Peccato che si tratti di rifare Dubai nel Golfo di Venezia. Grattacieli, residence, parchi divertimenti, campi di golf e una valanga di centri commerciali a tema. Tutto affastellato direttamente a 300 metri dall'Adriatico. Si chiama Jesolo City Beach 2012. Si traduce nel solito business immobiliare. Architetti di fama mondiale a beneficio della facciata. Dietro, una colata di cemento in versione turistica. Sulla patina dei cataloghi, Jesolo Lido si propone di diventare come Miami. Troppo, davvero. Perfino nella brochure degli affari e della politica veneta, capace di vendere il sacco di 100 chilometri quadrati di campi, boschi e paludi sparite dal 2001 al 2009 come «sviluppo del territorio».

A colpi di carta bollata.

Ma qui la Soprintendenza ha tirato il freno a mano. Adesso è guerra a colpi di carta bollata. Nel silenzio (quasi) totale dell'informazione. E nel disinteresse, finora, del neo-governatore Luca Zaia. In gioco i super-cantieri che «completano» opere gigantesche già avviate. Sono una ventina di insediamenti già lanciati nella pubblicità turistica. Si «spaccia» per acquisita la Jesolo del futuro: 96,5 chilometri quadrati di territorio urbanizzato con 5.200 tra appartamenti, ville; villaggi e campeggi più 391 hotel con 82.000 posti letto complessivi. Un elenco di lavori impressionante. Un mega-cantiere più grande dell'Expo di Milano anticipa lo schema tanto in voga delle «Olimpiadi del cemento» che da Tessera dilagano verso Padova (governata da Flavio Zanonato, il Formigoni del Veneto) e Treviso (controllata da decenni dalla Lega svezzata dallo sceriffo Gentilini). E' il «modello veneto» piegato agli interessi immobiliari: l'ultima frontiera per far schei (e magari riciclarne altri) .

A Jesolo, il braccio di ferro che oppone Soprintendenza e Comune leghista vale mezzo miliardo di euro, una cifra che parla da sola. Nel luogo in cui servono 15 mila euro al metro quadro per qualsiasi posto fronte mare. Un'anomalia clamorosa nel mercato immobiliare dell'intero Nord Est che, forse, dovrebbe interessare la Guardia di finanza. Il dettaglio dei progetti eclatanti è altrettanto impressionante. Fronte Mare Hotel: resort con annesso centro congressi da 650 posti e un centro benessere spalmato su 1.600 metri quadri. Sorgerà a due passi da piazza Drago, il «cuore» della movida estiva. Lo hanno disegnato Alberto Montesi e Alessandro Costanzia per conto della Edilbeton di Trento. Ma le betoniere sono pronte anche a gettare l'Isola Blu a 150 metri dall'arenile: «Un arcipelago di servizi» ammiccano i pubblicitari alle prese con il camuffamento del centro commerciale di 80 mila metri quadri con parcheggio interrato per 2 mila auto progettato da Bruno Dolcetta. E poi Laguna Park, realizzato da Giampaolo Mar e Toni Follina, giusto in fianco al nuovo terminal degli autobus. Sono 150 mila metri quadri con vele colorate come biglietto da visita per i visitatori.

Progetti a ciclostile.

Tutte idee clonate, ambienti artificiali stile Emirati arabi. Nessuna, in ogni caso, compatibile con la tutela dei 300 metri di rispetto demaniale. Si progetta con il ciclostile: a beneficio di gru e cantieri, impresette in sub-fornitura, banche a caccia di società immobiliari. In un contesto turistico che non solo d'estate a volte diventa base operativa di traffici con radici in ogni sponda dell'Adriatico. Forse, varrebbe la pena metterci sopra una lente d'ingrandimento. Ma la Jesolo del futuro viaggia a testa bassa. In Veneto è l'unica piazza che non risente della crisi del settore. Merito di Exotic Village, ispirato ad un'oasi del deserto del Sinai con dune finte, palmizi decorativi e caravanserragli per turisti-beduini. Cascina del Mar, invece, si propone come fedele copia dei borghi mediterranei, con variazioni botaniche conseguenti a giustificare un'altra dose di cemento. Gli architetti dello studio Lesuisse (già all'opera nella riqualificazione della Costa Smeralda ai tempi dell'Aga Khan) spiegano: «Plasmiamo la cubatura con la creta. L'obiettivo è rispettare la natura: fondersi e mimetizzarsi. I bambini lì devono poter giocare a nascondino». I portoghesi Goncalo Byrne e Joao Nunes si cimentano, invece, con il “torrone” al limite del canale. Il progetto Merville-Casa del parco significa 22 piani di un mega-grattacielo innestato in una pineta di 50 mila metri quadri.

La skyline di Jesolo Lido sarà come quella di New York: in piazza Drago, nuovo centro della cittadina balneare, sono previsti 71 mila metri cubi di costruzioni mastodontiche quasi fossero le Torri Gemelle del turismo. Ma non basta ancora, perché Giampaolo Pighin e Giorgio Rizzi hanno progettato la nuova darsena per il diporto con alle spalle l'immancabile golf club autografato da Giampaolo Mar. La passeggiata nel futuro ex-lungomare di Jesolo Lido prosegue già con altre due megatorri. Si avanza, con immutato furore urbanistico fra il mini grattacielo Tahiti e ll village commissionato a Richard Meier. Subito dietro, una «città della musica» e l'ipercity che però si chiama più gradevolmente «parco commerciale”. Insomma, il cemento dilaga senza freni alimentando una voracità immobiliare senza precedenti. Con la benedizione della Lega di governo, e in nome della tradizione che vuole Jesolo Lido come il mare d'estate di mezzo Veneto. Eppure, ci sarebbe la concorrenza di Bibione e Caorle. Senza dimenticare che dal vicino Friuli anche Grado e Lignano Sabbiadoro attirano il turismo garantendo tranquillità e uno specchio di laguna ancora naturale.

Ma in municipio il Carroccio di Jesolo è pronto alla guerra pur di far marciare il federalismo urbanistico su misura delle agenzie immobiliari. L'intervento della Soprintendenza diventa letteralmente intollerabile. «Un problema di ordine burocratico minaccia 500 milioni di euro in investimenti - tuona il vice sindaco e assessore all'urbanistica Valerio Zoggia - Così si rischia di dover sentire la Soprintendenza anche per installare un condizionatore o cambiare gli infissi di una struttura nella fascia dei 300 metri dal mare». Per l'amministrazione comunale, invece, è tutto già urbanisticamente compromesso come si evidenzia nel ricorso al Consiglio di stato. In municipio sostengono proprio la necessità di recuperare pezzi di territorio «irrimediabilmente degradato». Nel Veneto che ha appena girato pagina in Regione, ecco la declinazione dell'autonomismo immobiliare, con Jesolo in prima linea contro le invasioni della Soprintendenza che finiscono per «paralizzare lo sviluppo di un'intera città a vocazione turistica».

La città vacanza

Da Kenzo Tange a Jorge Haider

Jesolo, 25.029 abitanti, d'estate diventa la Rimini dell'Alto Adriatico. Il turismo, di fatto, è la spina dorsale dell'economia fin dagli anni Trenta. Oggi, la spiaggia più estesa d'Italia (15 chilometri di sabbia finissima) risulta puntellato da oltre 400 alberghi, 15 mila case-vacanza, 7 campeggi e 5 maxi discoteche. Demograficamente, si tratta di un comune a crescita zero. Eppure nel Duemila aveva già messo in cantiere 6 milioni di metri cubi di cemento che equivalgono alla capacità insediativa di circa 50mila abitanti. Oggi, all'ordine del giorno ci sono gli interventi in variante al masterplan firmato da Kenzo Tange, che per aveva già immaginato lo sviluppo della city-beach con tratto ben diverso. A Jesolo la Lega Nord ha fatto breccia fin dall'inizio. Il braccio politico delle gru è il sindaco Francesco Calzavara, classe 1964. Pilota professionista dal 1977 al 1983, poi gestore delle piste da kart del Triveneto e imprenditore con la Motorpoint. Nel 1993 salta sul Carroccio: assessore al turismo (due volte) nella giunta del leghista Renato Martin (ora nelle file del Pdl), viene eletto sindaco nel 2002. Due anni prima il municipio veneziano era rimbalzato nelle cronache nazionali per l'imbarazzante consegna delle chiavi della città a Jorge Haider, governatore della Carinzia con passato nazista. Da sempre lesolo si gioca il primato balneare del Nord Est, cullandosi con i record di visitatori di Aqualandia, primo parco acquatico italiano, e il Lungomare delle Stelle autografato da Sophia Loren, Gina Lollobrigida e Alberto Sordi. Dal 2007 il palazzo del Turismo di Jesolo ospita le finali di Miss Italia nel Mondo e la fase conclusiva del concorso Miss Padania, in diretta concorrenza con Salsomaggiore.

Il video promozionale dell'iniziativa immobiliare: vedere per credere!

Uno scempio ambientale nel cuore del Parco naturale del Sile, istituito dalla Regione Veneto vent’anni fa su un territorio di oltre quattromila ettari a cavallo delle province di Padova, Treviso e Venezia? La denuncia, partita dall’associazione Un’altra Treviso, è stata raccolta dai sei deputati radicali che ne hanno fatto oggetto di una interrogazione alla ministra dell’Ambiente Prestigiacomo sottolineando che è la seconda volta che si tenta di trasformare l’area degli ex mulini Mandelli in un complesso di edifici residenziali (condomini e villette) e ricavando nella circostante zona verde un giardino per i nuovi abitanti. Che cosa è il Parco del Sile? Nel sito del parco si sottolinea che “il clima mite dell’area, la navigabilità delle acqua, la vicinanza con il mare, la copiosità di risorgive e la ricchezza boschiva del territorio”, senza contare i “numerosi reperti di una importante cultura palafitticola”, fanno del parco stesso la mèta di tanti visitatori ai centri visita per la scelta degli itinerari, per l’educazione ambientale, per recarsi nei punti di maggiore interesse ambientale e faunistico.

Ebbene, invece di “proteggere, salvaguardare, valorizzare, mantenere e tutelare il suolo e il sottosuolo, la flora e la fauna del Sile” (scopo dichiarato nella legge istitutiva), l’Ente Parco avvia “progetti di recupero” che in realtà sono piani di edificazione veri e propri: il caso degli ex mulini Mandelli ne è la prova. Sottolinea ancora l’associazione Un’altra Treviso: «Siamo indignati nel constatare che ad avviare l’iter per la cementificazione delle rive del Sile non siano state le richieste dei costruttori ma lo stesso Ente Parco attraverso lo strumento della variante al piano ambientale che a tutto dovrebbe servire meno che a portare a nuove edificazioni lungo le sponde del fiume». Ma il bello è che, come si è accennato, quello in corso è il secondo tentativo di fare degli ex mulini il trampolino per scempiare proprio le rive dello fiume. Già allora, quattro anni fa, si sostenne trattarsi di un “progetto di recupero”.

Ma allora si era fatto di peggio: nella richiesta avanzata dall’Ente Parco alla regione Veneto – è scritto nell’interrogazione – si affermò che il percorso tecnico-amministrativo era stato “individuato di concerto con il Comune di Treviso”. Tuttavia l’assessore all’urbanistica Marton e il presidente della commissione urbanistica Zampese hanno sostenuto che l’amministrazione comunale non sapeva nulla del progetto. Eppure in quel tentativo la giunta di Treviso dimostrò zelo e solerzia degni di miglior causa: la richiesta dell’Ente Parco, infatti, era stata protocollata in municipio il 10 agosto 2006 e inoltrata allaregione appena una settimana dopo, proprio sotto ferragosto! E allora due domande dei parlamentari alla ministra Stefania Prestigiacomo: di quali elementi dispone il suo dicastero? E quali iniziative intende assumere anche in considerazione della presenza, in prossimità dell’area del Parco naturale del Sile, di siti di interesse comunitario e di zone di protezione speciale?

Il Comitato Iris, organizzatore dell’incontro odierno [l’incontro si è tenuto il 19 febbraio 2010 – ndr], ha voluto associare la presentazione del libro di Luigi De Magistris Giustizia e potere, con la denuncia della speculazione immobiliare che si sta perpetrando in una delle poche aree verdi rimaste in ambito urbano. In uno dei residui “cunei verdi” che, nel progetto di città stellare voluto dal grande urbanista Luigi Piccinato, avrebbe dovuto connettere con funzioni ecologiche e ricreative il “Parco delle Mura”, che avvolge il nucleo centrale della città storica, con gli spazi aperti del territorio agricolo periurbano e con le reti ecologiche territoriali.

Il tema dunque da affrontare è quello del rapporto oggi esistente tra giustizia e pianificazione urbana e territoriale, ovvero dell’evidente crescente conflitto tra le esigenze degli abitanti, tra la loro richiesta di una migliore qualità urbana e di una migliore qualità della vita e la soverchiante influenza della speculazione fondiaria e delle lobbies immobiliari nelle scelte strategiche di trasformazione del territorio. Un tema che si connette strettamente a quello del sempre più stretto intreccio tra politica e mondo degli affari, della assenza di trasparenza nella gestione degli appalti e della spesa pubblica.

Il “caso Bertolaso” scoppiato in questi giorni, è da questo punto di vista esemplare ed istruttivo. Da molte parti si è tentato di ridurre lo scandalo degli appalti gestiti dalla Protezione Civile ad un problema di ordinario malcostume, da sempre assai diffuso tra i pubblici funzionari. La fornitura di escort, auto di lusso, ville e le assunzioni di parenti da parte delle imprese affidatarie degli appalti, sarebbe insomma un qualcosa in più, ma non sostanzialmente differente dalle bottiglie e dai panettoni natalizi. Peccatucci e birbonate, come ama definirli il nostro Presidente del Consiglio.

Ma se non ci si sofferma ai soli fatti di costume (pur gravi nella loro entità e per la loro diffusione), non è possibile non accorgersi che dall’inchiesta dei giudici di Firenze sulla gestione delle opere connesse al G8 della Maddalena, ai Mondiali di Nuoto del 2009 ed alle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, emerge uno spaccato desolante della ben collaudata struttura di potere e del livello di corruzione che caratterizza da molti anni buona parte dell’attività imprenditoriale del nostro paese nel settore dei lavori pubblici. Dal 2001 ad oggi, cioè da quando con una apposita legge alla Protezione Civile sono state assegnate anche le competenze relative ai “grandi eventi” (che molto spesso di grande hanno solo il nome), le ordinanze straordinarie del capo del governo (in precedenza una o al massimo due ogni anno) sono state oltre 500, consentendo anche per opere di ordinaria amministrazione la deroga rispetto a tutte le normative di legge sugli appalti. In virtù di dette ordinanze una ristretta cerchia di politici (Berlusconi e Letta in primo luogo) e di alti funzionari della Protezione Civile e del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ha potuto gestire direttamente una spesa di oltre 10 miliardi di euro, avendo di fatto la possibilità di pilotare gli appalti verso le imprese amiche.

La sistematica elusione delle regole della libera concorrenza, favorita dall’accentramento dei poteri e dall’elevato grado di discrezionalità consentito nella selezione delle imprese, è giunta a tal punto da dover essere ufficialmente denunciata persino da Paolo Buzzetti, presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (ANCE), che si è pronunciato contro il disegno di legge che voleva trasformare la Protezione Civile in una società per azioni. Come ha scritto Alberto Statera, i fatti di questi giorni hanno fatto emergere “un’appaltopoli che, in nome dell’emergenza, non ha l’eguale nella storia della Repubblica, neanche in quella della prima, quando almeno i potentati del mattone si riunivano in una cupola per spartirsi gli appalti” (La Repubblica, 11 febbraio 2010).

Di fronte al termitaio scoperchiato dall’indagine giudiziaria sorge una prima spontanea domanda. Era proprio necessario attenderel’intervento della Magistraturaed occorreva essere messi a conoscenza delle intercettazioni telefoniche effettuate dai giudici per accorgersi che la “politica del fare”, caratterizzata da una costante deroga alle norme di legge e dall’assenza di idonei controlli, stava favorendo la corruzione ed una sempre più organica collusione tra funzionari di stato, società finanziarie ed imprese?

In realtà da tempo si erano manifestati chiari indizi e segnali allarmanti di quanto sta avvenendo nel settore degli appalti pubblici: segnali che evidentemente si è fatto finta di non vedere. Come ricorda nel suo libro-intervista Luigi De Magistris, nell’ultimo Rapporto dell’Unione europea sulla corruzione (Rapporto Greco) l’Italia viene indicata come uno tra i paesi a più alto rischio, mentre nella Relazione della Corte dei Conti europea sull’esercizio finanziario 2008 sempre il nostro paese è al primo posto tra le nazioni che hanno utilizzato in modo non regolare i finanziamenti della Comunità, con grave danno erariale e con evidenti indici sintomatici di dolo. Rilievi che trovano puntuale conferma nelle cifre riportate nel rapporto presentato nei giorni scorsi dal Procuratore Generale presso la Corte dei Conti italiana, che ha denunciato una crescita – nel corso del 2009 – del 229% della corruzione nel nostro paese, indice, come osserva Aldo Schiavone, «... di una nazione in via di dissolvimento morale, ormai in balia di una disastrosa deriva di comportamenti» (La Repubblica, 18 febbraio 2010).

Ma anche nello specifico delle grandi opere del G8 alla Maddalena non era difficile cogliere alcune evidenti anomalie ben prima che i giudici indagassero. I costi dell’albergo (ex Ospedale) affidati all’impresa di Valerio Carducci ed allo studio Archea dell’architetto Casamonti (sembra quale risarcimento per il mancato appalto dei lavori relativi al Teatro della Musica di Firenze, assegnato ad una società controllata dagli onnipresenti Anemone di Grottaferrata) sono lievitati in corso d’opera da 59 a 73 milioni, con un costo unitario di 3.842 euro/mq, un record mondiale mai raggiunto neppure nelle fantascientifiche architetture del Dubai!

Di fronte all’avviso di garanzia, Bertolaso è caduto dalle nuvole, ammettendo che sì, forse, qualcuno dei suoi collaboratori aveva tradito la sua fiducia. Ma già nel giugno 2009, nel suo libro “Il termitaio”, Alberto Statera – riprendendo un’indagine di Fabrizio Gatti pubblicata sull’Espresso del dicembre 2008 – aveva descritto le connessioni d’affari esistenti a Grottaferrata tra la società degli Anemone e la signora Rosanna Thau, moglie di Angelo Balducci, il plenipotenziario del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, buon amico di Gianni Letta, Altero Matteoli e Francesco Rutelli, incaricato della gestione di molti degli appalti affidati agli Anemone ed autore dell’ordinanza che aveva consentito la realizzazione, sulle rive del Tevere, in un’area demaniale preclusa ad ogni tipo di costruzione, dell’ormai famoso “Salaria Sport Village”.

Politica, economia e comitati d’affari

Nel suo libro De Magistris descrive in particolare la realtà calabrese, che l’ha visto protagonista come magistrato. Una realtà, scrive De Magistris, dove «se controlli la spesa pubblica, controlli il ganglio decisivo di tutta l’economia»; dove «... pezzi importanti della politica, delle istituzioni, della magistratura, dell’imprenditoria, si vedono insieme e decidono le sorti della Regione»; dove, in una logica di reciproci favori, è fondamentale “essere amico” e far parte di circoli esclusivi di professionisti, quali quelli dei Lions o dei Rotary, o gravitare nell’orbita della massoneria od anche dell’OpusDei, di Comunione e Liberazione, della Compagnia delle Opere; dove gli imprenditori si sono trasformati in “prenditori” e dove regna una “borghesia mafiosa”, una “mafia dei colletti bianchi”, per la quale è essenziale un rapporto privilegiato con la politica.

Ma, ci chiediamo, questa “borghesia mafiosa” e questa economia inquinata caratterizzano solo le regioni del sud del nostro paese o non riflettono piuttosto – sia pure in forme diverse e con tassi meno elevati di corruzione e criminalità – una più generale deriva della politica e dell’economia italiana e dello stesso Veneto?

Da questo punto di vista, ritengo non sia improprio leggere la resistibile ascesa di Berlusconi e del berlusconismo quale compiuta espressione del crescente potere di una borghesia che organicamente rifugge dalle regole della libera concorrenza e che cerca rifugio nei settori protetti dell’economia e nelle concessioni di stato. Una borghesia parassitaria che opera di fatto in regime di monopolio, usufruendo – anche nei periodi di crisi – di una rendita di posizione (a scapito ovviamente delle tariffe e dei prezzi richiesti all’utenza): telecomunicazioni, energia elettrica, autostrade, trasporti aerei e ferroviari, speculazione immobiliare e appalti pubblici. Il che, tra l’altro, spiega la decisa propensione dei programmi governativi verso le grandi opere faraonicheda affidare, con meccanismi di “general contract” o di “project financing”, a cordate di imprese e società finanziarie, spesso appositamente costituite con amici ed amici degli amici, dove pubblico e privato, controllori e controllati confondono i propri ruoli. Il che spiega perchè si stiano progettando il Ponte sullo stretto di Messina e la TAV di ValSusa, piuttosto che realizzare le essenziali infrastrutture ferroviarie e viarie necessarie alla vita di quei territori, o si voglia resuscitare il fantasma delle centrali nucleari anziché promuovere la sperimentazione e la diffusione delle risorse energetiche rinnovabili.

Appalti ed urbanistica contrattata nel Veneto

Le collusioni tra politica e mondo degli affari trovano un ulteriore fondamentale punto di incontro nell’urbanistica. Su questo le vicende venete degli ultimi anni forniscono ampia materia di riflessione.

Un tempo – ai tempi di tangentopoli – l’espressione “urbanistica contrattata” era sinonimo di accordi sottobanco tra amministratori corrotti e proprietari di aree. Oggi invece la pratica dell’urbanistica contrattata è stata nobilitata entrando ufficialmente a far parte integrante degli strumenti di piano e della legislazione. Tra la fine degli anni ‘90 ed i primi anni 2000 si è registrato un crescente utilizzo dei cosiddetti Programmi complessi (variamente denominati) in deroga alle previsioni di PRG, consistenti quasi sempre in programmi costruttivi predisposti da società private che, in cambio di volumetrie edificabili non previste dai piani urbanistici, si dichiarano disponibili a cedere al Comune una quota parte di aree e/o di spazi edificati. Con l’articolo 6 della nuova legge urbanistica regionale, la n. 11 del 2004, la Regione Veneto fa esplicito invito ai privati a partecipare all’iter formativo dei nuovi piani urbanistici, sollecitandoli a presentare progetti ed iniziative “di rilevante interesse pubblico” che attraverso la formula degli “accordi tra soggetti pubblici e privati” possano divenire “parte integrante dello strumento di pianificazione” cui accedono.

E’ scontato che quando nella legge si parla di “privati” si fa riferimento ai potenti gruppi imprenditoriali e finanziari che traggono profitto dalle trasformazioni territoriali e non certo alla stragrande maggioranza dei cittadini nè al mondo dell’associazionismo ambientalista, la cui partecipazione alle scelte urbanistiche viene genericamente richiamata nei primi articoli della legge, ma – in assenza di norme specifiche e di modalità codificate – quasi mai tradotta in pratica. Il che rende estremamente pertinente la distinzione che De Magistris fa tra giustizia e legislazione, denunciando il grave pericolo in cui incorre la democrazia quando la legge viene assoggettata agli interessi di singoli e/o di potenti lobbies economiche. «La giustizia – afferma De Magistris – è qualcosa di universale... I poteri spesso sfruttano illegittimamente il diritto per raggiungere una falsa giustizia. L’uso illegittimo del diritto è uno dei più pericolosi strumenti delle forme di autoritarismo, che hanno spesso utilizzato le norme per raggiungere obiettivi illegali».

Ma quali sono nel Veneto questi poteri forti che condizionano di fatto il destino delle nostre città e del nostro territorio? Una sia pur sintetica analisi delle vicende urbanistiche e degli appalti pubblici degli ultimi anni ne fa emergere alcuni tra i più influenti.

Un primo eclatante esempio è senza dubbio costituito dalle vicende connesse al MOSE (paratie mobili) di Venezia, un’opera che si prevede verrà completata nel 2012 per un importo complessivo di spesa di 4,7 miliardi di euro, sulla cui effettiva utilità da più parti, da sempre, sono stati sollevati molti dubbi. Tutto ha inizio con la seconda legge speciale per Venezia del 1984, voluta da De Michelis, che prevedeva la possibilità di affidare in concessione unica ad un unico soggetto – in deroga a tutta la legislazione sui lavori pubblici – gli studi, le progettazioni e le opere per la salvaguardia della città storica e della laguna. Venne a questo fine costituito il “Consorzio Venezia Nuova”, nel quale – agli inizi – la parte del leone era svolta da società collegate alla Fiat (l’Impresit poi trasformatasi in Impregilo). Defilatasi la Fiat per ragioni connesse alle vicende interne al gruppo finanziario, dominante nel Consorzio divenne la presenza dell’impresa di riferimento del governatore Galan, la Mantovani spa, di cui è proprietario Romeo Chiarotto e di cui è presidente Piergiorgio Baita, soprannominato “Mister Appalto”. A fianco della Mantovani troviamo altri ricorrenti nomi dell’imprenditoria italiana e veneta, quali la Società Condotte, l’Astaldi, la Mazzi ed anche – in una logica di più o meno equa spartizione politica degli appalti – alcuni consorzi di cooperative bianche e rosse.

Il potere del Consorzio Venezia Nuova (presidente e direttore Giovanni Mazzacurati, vicepresidente Alessandro Mazzi) negli anni è progressivamente cresciuto, compenetrandosi con le istituzioni che governano la città e la provincia, nonché con le fragili strutture operative del Magistrato alle Acque (organo decentrato del Ministero delle Infrastrutture) che ne dovrebbe controllare l’attività. Di fatto non vi è scelta strategica per il destino di Venezia e del suo territorio che non sia oggi condizionata dagli interessi e dalle politiche del Consorzio, che – attraverso due società a lui riconducibili, la Palomar e la Thetis – si è anche candidato alla lucrosa gestione e manutenzione delle paratie mobili, per le quali è prevista l’astronomica cifra di 30 milioni di euro all’anno. Per chiudere il cerchio dei controllori e dei controllati, il Consorzio Venezia Nuova è di fatto anche il finanziatore del Corila, ovvero del Consorzio, in cui sono coinvolte le Università di Venezia e di Padova ed il CNR, incaricato delle attività di ricerca e di monitoraggio dei lavori nella laguna veneta.

Ritroviamo l’impresa Mantovani quale protagonista di molti dei grandi appalti pubblici del Veneto: dalla bonifica delle aree inquinate di Porto Marghera, al Passante di Mestre, al nuovo Ospedale di Zelarino a Mestre. La realizzazione di quest’ultima opera (258 milioni di euro) costituisce il primo project financing in partnership pubblico-privata d’Italia: un progetto in cui sono confluiti 100 milioni di finanziamenti pubblici, mentre la restante parte della spesa è stata finanziata da privati (in prevalenza istituti bancari). Alle imprese private, oltre alla progettazione ed esecuzione delle opere, è stata affidata in concessione per 24 anni la gestione (di fatto in regime di monopolio e quindi con una seria ipoteca sulla qualità ed economicità dell’attività svolta) di molti spazi e servizi dell’ospedale, dalla manutenzione degli impianti e delle apparecchiature elettromedicali, alla gestione amministrativa e tecnica della radiodiagnostica, dalla lavanderia alla pulizia dei locali, dalla gestione del verde all’asporto rifiuti, dalla gestione della mensa e dei parcheggi (a pagamento) alla locazione degli spazi commerciali presenti nella struttura.

Nel Consorzio di imprese (Veneta Sanitaria Finanza di Progetto) concessionario della realizzazione e gestione dell’ospedale, oltre alla Mantovani figurano l’Astalti spa (già vista nel Consorzio Venezia Nuova), la Mattiolispa (che fa capo alla Compagnia delle Opere), la Gemmo spa e lo Studio Altieri. Due società vicentine, la Gemmo spa e lo Studio Altieri, che figurano anche in molti dei grandi appalti pubblici regionali affidati con quello che Alberto Statera definisce il “sistema Sartori”, dal nome di Lia Sartori, soprannominata “Madame Richelieu”, ex socialista vicentina, compagna di Vittorio Altieri (deceduto qualche tempo fa), per lungo tempo assessore regionale alla viabilità ed ai trasporti, considerata la mente del governatore Galan nel campo dei lavori pubblici. Un sistema d’appalto dove l’elevato punteggio attribuito alla “qualità estetica” dei progetti presentati consente la massima discrezionalità nella selezione delle imprese.

Con il “sistema Sartori” sono stati affidati i lavori per l’ampliamento della Fiera di Vicenza (67 milioni), per i nuovi ospedali dell’Alto Vicentino (143 milioni) e della Bassa Padovana (120 milioni), per il degassificatore (300 milioni) e la piattaforma al largo di Porto Levante (250 milioni), per la ferrovia Mestre-Adria (21 milioni). Un appalto, quest’ultimo, gestito dalla Società Sistemi Territoriali della finanziaria pubblica “Veneto Sviluppo”, della quale fino a qualche mese fa era presidente Irene Gemmo, ed aggiudicato alla Gemmo spa, di cui la stessa Irene Gemmo è titolare con i fratelli. Un conflitto d’interessi che ritroviamo anche nell’appalto dei lavori della Fiera di Vicenza (di cui la Gemmo risultava socia sia come impresa che come Veneto Sviluppo) affidati alla Gemmo ed allo studio Altieri. Sempre alla Gemmo spa, quale società mandataria, sono stati aggiudicati i lavori della tramvia Mestre-Venezia-Marghera ed i lavori impiantistici del nuovo Teatro La Fenice di Venezia.

Questo per il passato, ma ulteriori grandi affari si preannunciano con gli indirizzi del Piano Territoriale Regionale di Coordinamento (PTRC) adottato dalla Giunta regionale lo scorso anno e con la candidatura di Venezia alle Olimpiadi del 2020. Dai documenti del nuovo PTRC emerge infatti la volontà di considerare il Passante di Mestre quale infrastruttura portante per la costruzione di una megalopoli di 1 o 2 milioni di abitanti. Secondo Paolo Feltrin, uno degli ideologi del piano, il nuovo Passante di Mestre «... potrebbe essere interpretato come una nuova, più ampia cinta muraria, il nuovo confine di una diversa città con ambizioni di carattere regionale».

Concrete iniziative orientate in questa direzione sono da tempo state avviate e fanno in particolare capo ai due progetti di “Veneto City” a Dolo e del “Quadrante Tessera” o “Marco Polo City” in prossimità dell’aeroporto di Venezia. Il primo promosso da Giuseppe Stefanel e Luigi Endrizzi che, dopo aver acquistato a valore agricolo 560 mila mq di terreno, hanno proposto la realizzazione di un megacentro direzionale e commerciale di 2 milioni di mc, offrendo alle istituzioni locali l’opportunità di usufruire in quota parte dei benefici economici derivanti dal cambiamento di destinazione d’uso dei suoli (si calcola che, con la nuova destinazione d’uso, il valore dei terreni aumenterebbe di quasi sei volte). Il secondo sostenuto dall’immobiliare del Casinò di Venezia e dalla società aeroportuale SAVE, di cui è presidente e socio Enrico Marchi, altro fedelissimo di Galan. Anche qui un’urbanizzazione di circa 200 ettari di terreni agricoli, nella quale collocare alberghi, centri commerciali, fitness center e quant’altro (20 mila alloggi per gli atleti, qualora Venezia divenisse sede dei giochi olimpici).

Al Quadrante Tessera si connetterebbero la realizzazione di una terza pista aeroportuale ed il progetto di unaSublagunare, ovvero di un collegamento metro tra l’aeroporto ed il centro storico di Venezia (che oltre alle stazioni insulari richiederebbe diverse uscite di sicurezza in mezzo alla laguna). Un progetto in project financing (350 milioni di euro la spesa prevista) messo a punto dai soliti noti: Mantovani spa, Studio Altieri e Net Engineering. Per completare il quadro, va anche ricordato che Brunetta, candidato sindaco di Venezia per il PdL, ha persino proposto l’edificazione sulle sponde della laguna affinché anche Mestre conquisti il suo Waterfront.

I progetti connessi al nuovo Passante di Mestre sono testimonianza del fatto che la realizzazione di nuove autostrade e superstrade non è mai disgiunta dalla promozione di nuove estese cementificazioni del territorio attraversato. Tant’è che, in una norma del nuovo PTRC, la Regione avoca direttamente a se la possibilità di predisporre specifici “progetti strategici” per un raggio di due chilometri in corrispondenza di tutti i caselli autostradali e delle stazioni ferroviarie, ovviamente con possibilità di deroga nei confronti delle previsioni dei piani urbanistici dei Comuni e delle Province e di deroga dei limiti previsti dalla Legge 11/2004 in relazione al consumo di superficie agricola (SAU). Le stesse nuove superstrade (GRA di Padova, camionabile dell’Idrovia Padova-Mare, Nuova Romea, ecc) costituiscono d’altra parte ghiotte occasioni per stipulare redditizi accordi tra pubbliche amministrazioni e privati, ai quali affidare in concessione la realizzazione e la gestione dell’opera. Ne è un esempio la recente presentazione, da parte delle imprese Mantovani, Pizzarotti, Cordioli e CIS (Compagnia Investimenti e Sviluppo, di cui è vicepresidente Lia Sartori), di un project financing per la Nuova Valsugana (duramente contestato da sindaci e cittadini), si sostiene quale risarcimento per la perdita dell’appalto relativo ai lavori della Pedemontana che ha seguito di un ricorso al TAR sono stati affidati ad un gruppo di imprese spagnolo.

All’ombra del Santo

Anche a Padova le potenti lobbies del mattone e della proprietà fondiaria hanno fatto sentire la propria influenza. Basti pensare alle varianti di piano appositamente approvate per la realizzazione dell’IKEA (studio Endrizzi) in prossimità del casello di Padova Est o per la costruzione di 135 appartamenti in via Canestrini, in prossimità del parco IRIS, in un’area precedentemente destinata a verde pubblico (Cooperative La Traccia e L’Operatore collegate alla Compagnia delle Opere).

Un analogo preoccupante tentativo di modificare le previsioni di piano vi è stato con la presentazione, da parte della società Valli, di un Piano di Recupero Urbano (PIRUEA) che nel cuore del quartiere Arcella, in aree destinate a verde pubblico e servizi, pretendeva di poter costruire due torri e vari fabbricati (per un totale di 34 mila mc) da destinare a residenza ed attività commerciali, offrendo in cambio al Comune la cessione di alcuni locali per le attività del Consiglio di Quartiere. Il piano venne adottato dalla Giunta, ma non fu fortunatamente mai approvato dal Consiglio, in ragione soprattutto della consultazione popolare nel frattempo indetta tra gli abitanti del quartiere, che a grande maggioranza bocciarono l’operazione immobiliare.

Una smania edificatoria che ha interessato tutti i comuni dell’area metropolitana e della provincia di Padova, con effetti devastanti quali quelli facilmente immaginabili che vi sarebbero se il Comune di Vigodarzere approvasse il progetto presentato in questi giorni, su incarico delle proprietarie, da Giuseppe Capocchin, presidente dell’Ordine degli Architetti, per l’urbanizzazione delle aree limitrofe alla Certosa, complesso monastico cinquecentesco sulle rive del Brenta, che costituisce uno dei più pregevoli beni storici del nostro territorio. Un progetto in variante di PRG, che prevede di trasformare 80 mila mq di terreno agricolo in aree residenziali, per un totale di 100 mila mc di costruzioni (più di cento villette). Con il ricavato le contessine prevedono di poter restaurare il convento di loro proprietà, destinandolo a bed & breakfast, offrendo quale contropartita al Comune un contributo di 250 mila euro e la cessione di 18 mila mq di terreno per ampliare gli impianti sportivi comunali.

Una perversa logica di accordi pubblico-privati che sta alla base anche del progetto di autosilos per 600 posti auto previsto nell’area dell’ex Foro Boario di Prato della Valle (che rimarrà in concessione ai privati per 45 anni). Una logica che si prevede di utilizzare anche per il nuovo ospedale cittadino, localizzato nei pressi dello stadio Euganeo, con il rischio che – come qualcuno ha già proposto – le aree delle cinta bastionata cinquecentesca, su cui insistono le cliniche del vecchio ospedale, vengano “valorizzate urbanisticamente” per consentire al concessionario privato, partner del project financing, di coprire parte dei costi del nuovo insediamento.

La logica dell’accordo con i proprietari di aree è implicita anche nella metodologia della “perequazione urbanistica” introdotta nel PRG di Padova – in anticipo rispetto alle norme della legge regionale 11/2004 – con apposita Variante del 2001, parzialmente modificata nel 2004. A giustificazione della nuova disciplina l’Amministrazione comunale evidenziò il fatto che negli ultimi anni sempre più esigue sono state le risorse di bilancio utilizzabili per l’acquisizione dei terreni destinati a verde pubblico e servizi e che le più recenti sentenze della Corte Costituzionale hanno di fatto equiparato i costi dell’esproprio ai valori di mercato ed hanno reso obbligatorio l’indennizzo (dopo cinque anni) dei vincoli urbanistici preordinati all’esproprio. Per poter acquisire gratuitamente le aree destinate ai servizi (standard urbanistici) non vi sarebbe dunque altra soluzione che quella di consentirne, in quota parte, l’edificazione ai privati.

Uno strumento, quello della perequazione, indubbiamente efficace per porre rimedio ai sempre più ridotti trasferimenti di risorse finanziarie concessi dallo stato ai comuni. Ma anche un’arma a doppio taglio, che se mal utilizzata non salvaguardia certo l’interesse pubblico. E’ stato questo, a nostro giudizio, il caso della Variante del 2001, che ha riconvertito più di 4 milioni di mq di aree destinate a verde pubblico in aree di perequazione urbanistica, aumentando di oltre 2,6 milioni di mc la capacità edificatoria del PRG, senza uno straccio di disegno urbano in grado di individuare le effettive convenienze pubbliche e senza alcuna relazione con le reti del trasporto pubblico. Con questa operazione si sono cancellati in un colpo solo i pochi parchi di valenza urbana e territoriale previsti a Padova (Basso Isonzo e Terranegra) ed i sette “cunei verdi” di cui abbiamo accennato all’inizio (tra i quali le aree limitrofe al parco IRIS, rimaste ancora in parte inedificate dopo la lottizzazione operata dalle cooperative della Compagnia delle Opere in variante di PRG). Nelle aree sottoposte a perequazione l’iniziativa è stata lasciata ai privati, che ovviamente stanno presentando piani urbanistici attuativi in cui dominano le villette e le palazzine residenziali, lasciando al Comune uno spezzatino di aree verdi, delle quali non potrà assicurare la manutenzione e che quindi diverranno di fatto – anche se non di diritto – di esclusivo uso privato. Anziché concentrare l’edificazione in poche aree, ottenendone in cambio ampi spazi liberi per la formazione di veri parchi urbani e per la costruzione di una rete di verde urbano priva di soluzioni di continuità (perequazione ad arcipelago), si sta dando vita ad una edificazione a bassa densità, vantaggiosa per i privati (che pubblicizzeranno la vendita di “case immerse nel verde”), ma che determina anche un elevato consumo di suolo e perpetua la tradizionale crescita a macchia d’olio della città.

Quali alternative

Giustamente De Magistris ritiene che per determinare un’inversione di tendenza, per riaffermare i principi della democrazia e delle giustizia sociale, sia oggi necessaria una vera e propria rivoluzione culturale, che sappia porre al centro della riflessione politica la questione morale, la formazione di una nuova etica pubblica, la difesa dei diritti civili e dei beni comuni. Una rivoluzione che dovrà partire dalla nostra capacità d’informare e di proporre alternative credibili e che non potrà non porre la questione della costruzione dal basso di un nuovo modo di fare politica e della formazione di una nuova classe politica.

Una rivoluzione che, ritengo, debba affrontare anche lo specifico della pianificazione urbana e territoriale e delle modalità con cui nel nostro paese si affidano e si gestiscono gli appalti pubblici. Richiedendo la trasparenza dei procedimenti e l’efficacia dei meccanismi di controllo, ma soprattutto esigendo che le scelte strategiche di trasformazione urbana ed i piani urbanistici attuativi siano costruiti con la partecipazione attiva dei cittadini assicurando la salvaguardia degli interessi collettivi, del paesaggio e dell’ambiente.

L'autodromo Motorcity incassa il sì definitivo della Regione, ma la Lega si astiene. La giunta ha votato, a maggioranza, la presa d'atto del giudizio favorevole sul Motorcity di Vigasio e Trevenzuolo, espresso dalla commissione per la Valutazione dell'impatto ambientale (Via) il 2 dicembre scorso. L'autorizzazione diventerà efficace dopo la pubblicazione della delibera sul bollettino regionale. Alla votazione c'erano tutti gli assessori, mancava solo il presidente Giancarlo Galan. L'esito dell'alzata di mano è stato di 10 assessori a favore e due astenuti. I tre veronesi, Giancarlo Conta, Massimo Giorgetti, entrambi del Pdl e Stefano Valdegamberi dell'Udc, come da pronostico, si sono schierati per il sì. L'altro assessore di Verona, Sandro Sandri della Lega Nord, si è invece astenuto assieme al collega di partito Franco Manzato, che ha presieduto la riunione al posto di Galan.

La giunta ha accolto in maniera integrale la relazione dei tecnici della commissione ambientale. Nel documento è stato espresso parere positivo all'opera, condizionato dalla realizzazione di alcuni interventi. Come la strada a quattro corsie che collegherà l'autodromo e gli altri insediamenti previsti nell'area (District Park e Centro agroalimentare) con l'autostrada del Brennero e la futura Mediana. Queste opere furono richieste dalla Provincia per compensare l'aumento di traffico previsto all'avvio di Motorcity.

Con l'approvazione regionale è caduto l'ultimo ostacolo alla realizzazione del piano di lottizzazione, che occuperà quattro milioni e mezzo di metri quadri, divisi tra i Comuni di Vigasio e Trevenzuolo. La società Autodromo del Veneto, dopo la pubblicazione della delibera, potrà avviare i progetti degli edifici e delle opere urbanistiche del complesso, inclusi la pista per i piloti, il polo te cnologico, il centro commerciale, il parco divertimenti e la zona ricettiva.

Il voto degli assessori leghisti è stato particolarmente travagliato e un po' contraddittorio, poiché fu proprio il Carroccio, nel 2008, a contestare in tutte le sedi il progetto appoggiato dal resto del centrodestra. Lo provano sia i volantini contro la «cementificazione del territorio», firmati e diffusi da Giovanni Codognola, segretario di circoscrizione del Carroccio, sia le dichiarazioni dei consiglieri regionali Vittorino Cenci ed Emilio Zamboni al convegno organizzato dal Pd a Vigasio nello stesso anno. Dopo le elezioni provinciali dello scorso anno, l'atteggiamento leghista nei confronti del progetto mutò. Gli assessori della Lega in Provincia approvarono, assieme ai colleghi del centrodestra, la valutazione per l'impatto ambientale dell'autodromo. Ed ora l'astensione della componente leghista in giunta regionale.

Sandro Sandri spiega perché non ha votato contro il progetto. «Era una questione squisitamente tecnica», afferma, «e perciò non ci siamo potuti opporre alla presa d'atto. Noi non siamo sostanzialmente d'accordo all'autodromo, ma dare una valutazione negativa era praticamente impossibile. In mano non avevamo elementi tecnici per opporci. Abbiamo rimarcato il nostro dissenso astenendoci dal voto».

Franco Bonfante, consigliere del Pd, critica la giunta e l'astensione della Lega. «Rimaniamo fermi nella nostra posizione», spiega, «e cioè favorevoli alla pista automobilistica in sé, ma contrari a tutto ciò che le sorgerà attorno e che porterà alla devastazione di quattro milioni e mezzo di metri quadrati di territorio. È stata stravolta l'idea originaria, che prevedeva un autodromo con pochi edifici di completamento. Oltre alla speculazione edilizia l'intervento porterà molto traffico e non i numerosi posti di lavoro promessi. La promozione dello sviluppo economico non potrà compensare i problemi viabilistici e di inquinamento».

Sull'astensione degli assessori leghisti osserva: «La Lega Nord ha dimostrato ancora una volta la sua incoerenza. I leghisti avevano proclamato la loro contrarietà al Motorcity anche di fronte alla popolazione di Vigasio. Si sono rimangiati tutto dopo che Luca Zaia è stato indicato come candidato del centrodestra alla presidenza della Regione. Hanno barattato lo sviluppo equilibrato del territorio dei prossimi 50 anni con una poltrona».

Nell’ottica degli ideatori – un gruppo della Confindustria, probabilmente legati alla unica realtà sportiva “industriale” del Veneto, cioè Benetton, e del distretto degli attrezzi sportivi della marca trevigiana, assieme ad immobiliaristi vari, il cui snodo sembra essere la facoltà di economia di Cà Foscari dove insegnano Gianfranco Mossetto (Economia dei beni e delle attività culturali, nonché presidente di Est Capital, un fondo di investimenti immobiliari promotore del nuovo palazzo del cinema e proprietario di grandi alberghi al Lido) e Federico Fantini (direttore del master in Strategie per il business dello sport, incaricato di redigere il concept plan delle olimpiadi veneziane) – l’intento è semplice ed evidente; lo ha esplicitato bene il presidente dei giovani industriali di Padova, Jacopo Silva: “Costruire la metropoli del Nordest”, da uno, due milioni di abitanti. Ancora più chiaro l’ex doge Gianni de Michelis che afferma che le Olimpiadi sono l’occasione per “profonde trasformazioni infrastrutturali e istituzionali (…) modificare profondamente la mappa dell’intero Veneto (…) con soglia demografica di due milioni di abitanti”. Che è poi quello che teorizza il nuovo Piano regionale di coordinamento territoriale: una “densificazione” edilizia lungo i trentadue chilometri del nuovo Passante autostradale (nato per fluidificare il traffico di attraversamento, si scopre ora un condensatore di cemento) cominciando con Veneto City e finendo con il Quadrante di Tessera moltiplicato per due , come ha già chiesto il gran patron della Save, Marchi. In mezzo tutto quello che serve: termocombustori, metropolitane di superficie e di profondità, outlet, alberghi, ospedali, fiere e università… e, ovviamente, attrezzature sportive, in un delirio di proposte da capogiro.

Ma non c’era la crisi? E non una crisi qualsiasi – ci ha spiegato Tremonti - ma derivata proprio dalla sopravalutazione finanziaria degli investimenti immobiliari; vale a dire da una esposizione bancaria troppo generosa nei confronti degli immobiliaristi che sono diventati insolventi. Scandali e fallimenti non si contano più anche in Italia. Così come crescono i cantieri fermi, i capannoni sfitti o invenduti, le abitazioni che non hanno acquirenti perché a prezzi “fuori mercato”.

E chi se ne frega - dicono i nostri interlocutori sostenitori della crescita urbana e dello sviluppo economico “locale” – , affari loro se qualcuno gli fa ancora credito, facciano pure le varie agenzie di intermediazione tra proprietari di aree e banche: Pirelli Re, Condotte, Mantovani, Impregilo. Noi amministratori “federalisti” non ci occupiamo di compatibilità macroeconomiche, noi vogliamo lavoro (di costruzione), oneri di urbanizzazione e servizi (attraverso le compensazioni urbanistiche), residenze, e quant’altro serve a fare le città più grandi e ricche.

Del resto, nella competizione globale tra aree geografiche, le amministrazioni pubbliche più stimate e più votate sono quelle che riescono ad attrarre maggiori investimenti immobiliari. Il modello da emulare – a dispetto di tutti i “post” moderni, fordisti, industriali… succedutisi - è sempre quello dell’Expo universale di Parigi con la sua torre Eiffel, tant’è che per le Olimpiadi del 2012 il sindaco di Londra Boris Johnson ne vuole costruire una di 120 metri. Sono sicuro cha anche a Venezia non mancherà un “archistar” che ci regalerà il progetto di un altro ponte.

Ma siamo proprio sicuri che questi siano anche i desideri e gli interessi autentici degli abitanti?

A giudicare dal tasso di natività dei cittadini autoctoni del Veneto non sembra che vi sia un trend di crescita demografica tale da giustificare una offerta residenziale pari a quella solo già prevista dagli strumenti urbanistici esistenti (vedi le ricerche di Legambiente di Padova e le osservazioni presentate al Ptrc). Chi sono i milioni di nuovi abitanti che industriali e amministratori locali auspicano possano venire ad insediarsi? Chi abiterà i nuovi ventimila alloggi del nuovo quartiere olimpico, quando se ne andranno gli atleti? Famiglie in lista di attesa di alloggi popolari, studenti fuori sede, immigrati senza alloggio, comunità di sinti e rom? Non credo proprio, nessuno di questi rientra nei parametri di solvibilità previsti dai project financing.

Avanzo un tema di discussione per le facoltà di urbanistica (tanto non ce ne sono più), di sociologia (non ce ne sono mai state) e di economia, soprattutto: la grande metropoli non è un modello da prediligere, è piuttosto un inferno da evitare. Di “megalopoli” ce ne sono una doppia dozzina nel mondo che presto (quando si faranno le olimpiadi a Venezia) saranno abitate da 2,4 miliardi di persone in bidonville ( The Challenge of Slums, Report on Human Settlements, rapporto Onu – Habitat, 2003). Chi pensa alla Pianura Padana come una Los Angeles (come ha avuto modo di dire Giancarlo Galan) ha visto troppi telefilm e non ha visitato né i suoi ghetti, i suoi slums, i suoi barrios, né le sue gate-comunity per ricchi, quartieri blindati, artificiali, sorvegliati e chiusi.

Molto meglio entrare in un altro ordine di idee – questo sì sarebbe davvero innovativo, coraggioso e moderno. Quello adottato dalla Giunta di Cassinetta di Lugagnano, comune nel Parco agricolo sud di Milano, che ha dato vita ad uno strumento urbanistico a consumo zero di suolo. Molti altri comuni lo stanno seguendo, ne è sorto un movimento che si chiama “Stop al consumo di territorio”. Un po’ quello che stanno facendo altre municipalità (questa volta il movimento è partito dal Galles a Mchynlleth) in materia di energia: si chiamano Transition Town e puntano a città con “zero emissioni di carbonio”. Altre reti di amministrazioni virtuose hanno già raggiunto i “rifiuti zero”; riciclano tutto e basterebbe andare a Vedelago per imparare come si può fare. Sono questi gli action plans che a noi piacciono. E ce ne sarebbe tanto bisogno soprattutto in Padania, dove la persistenza di polveri sottili inalabili hanno raggiunto livelli patologici e pericolosi per la salute. La Uniove europea ha ritenuto insufficiente il pseudo-piano di risanamento dell’atmosfera predisposto dalla Regione. Se non si fa qual’cosa subito Venezia 2020 si contenderà il primato con Pechino 2008 a proposito di Olimpiadi più inquinate.

Ma è proprio per questo – ci spiegano i nostri amministratori pubblici – che abbiamo bisogno delle Olimpiadi, perché costituiscono una “occasione” per avere delle opere pubbliche di sicura utilità che altrimenti non verrebbero mai finanziate: la bonifica di Porto Marghera, lo stadio per il calcio, una piscina olimpica, la stazione per l’altra velocità, qualcos’altro ancora. Un po’ come Milano Expo 2015 che lascerà in eredità alla città un grande parco botanico e la nuova caserma Dal Molin a Vicenza che realizzerà una nuova tangenziale. Ammettendo per un attimo che sia dignitoso accettare la logica della compensazione, altrimenti detto ricatto (modifica degli strumenti urbanistici in cambio di qualche intervento di pubblica utilità), siamo sicuri di aver ben valutato la dimensione dell’evento Olimpiadi, il suo impatto, in una città che rischia il dramma anche per i concerti rock dei Pink Floid o della Heineken? Siamo sicuri che Venezia abbia bisogno di qualche milione di visitatore in più, in maglietta e scarpe da ginnastica, nell’intervallo di una gara e l’altra, nell’arco di 15 giorni? Non avevamo detto che il problema principale di Venezia era quello di qualificare, diluire, decelerare le visite in città? Non avevamo detto che Venezia non può essere trattata come una “location meravigliosa” (secondo le parole di Marco Bolich della K-Events) buona per qualsiasi evento?

Leggo che un nuovo decreto legge è stato approvato (all’unanimità) in Senato a favore della realizzazione di nuove strutture sportive gestite direttamente dalle società “a sostegno della candidatura dell’Italia a manifestazioni sportive di rilievo europeo o internazionale”, cioè dei campionati europei di calcio del 2016. Roma e Lazio, rispettivamente famiglie Sensi e Lotito, ad esempio, hanno già presentato due progetti: uno occuperà una superficie da edificare di 130 ettari per 650.000 metri cubi di nuovi complessi edilizi e 800.000 di centri commerciali. L’altro, lo “Stadio delle aquile”, occuperà un’area di 600 ettari e realizzerà volumetrie di 2 milioni di metri cubi. Ecco, sono queste le strutture con cui Venezia dovrebbe competere. Poi ci sarebbero tutti gli altri impianti per ogni sport olimpico da spalmare in giro per il Veneto.

Mestre, Padova e Treviso appaiono decisamente fuori scala per realizzare strutture di dimensioni colossali che poi, in gran parte, rimarrebbero cattedrali nel deserto, di difficile e costosa gestione, come insegnano le pur più modeste olimpiadi invernali di Torino o l’esperienza di Atene.

Le cose sono così note e risapute, da far venire il dubbio che anche i promotori lo sappiano. Le probabilità di “vincere” la candidatura del Coni, prima, e del Comitato olimpico internazionale, poi, sono pressoché nulle. Questioni geopolitiche (vedi l’ultimo scontro stellare per le Olimpiadi del 2016 tra Obama e Lula, tra Chicaco e Rio de Janeiro) sovraintendono questo tipo di scelte. Le manie di grandezza di governatori e podestà di provincia contano zero. La vera natura della proposta sembra allora essere un’altra: un’offensiva mediatica ben congeniata per sdoganare i progetti lungo il Passante e sul Water Front lagunare, forzare gli strumenti urbanistici, semplificare le procedure, consegnare aree a qualsiasi investitore si faccia avanti. Il tutto in nome dello sport, nello spirito olimpico di pace e di cooperazione tra i popoli e in vista delle elezioni regionali. In assenza di panem, meglio abbondare in promesse di giochi circenses.

Temo che pochi avvertano la gravità di quel che sta avvenendo nel Parco dei Colli Euganei.

Mentre sembra che in tutto il territorio veneto si voglia finalmente, dopo i tanti disastri compiuti, porsi il problema di una maggior protezione ambientale e per questo si invocano nuovi strumenti di pianificazione (come ad esempio i PATI e il Piano Paesistico), nella parte più pregiata della nostra provincia, l’area dei Colli Euganei, è in atto un inesorabile smantellamento di quello strumento di pianificazione che già esiste da anni, il Piano Ambientale, e che è senza dubbio uno strumento serio e adeguato (al di là di ovvi eventuali aggiustamenti).

Purtroppo la debole difesa che di questo Piano hanno fatto (quando lo hanno fatto!) le forze della sinistra e, bisogna pur dirlo, le stesse forze ambientaliste, ha lasciato ampio spazio alla sua subdola, insistente demonizzazione da parte di chi, per cultura ma anche per interessi, è insofferente a ogni regola di pianificazione (quelle regole solitamente bollate in termini dispregiativi come “vincoli”). Così da subito, cioè da poco dopo la sua adozione nel ’94, lo si è lasciato mortificare e svilire per quanto riguarda le tante indicazioni finalizzate ad avviare qualificanti progetti urbanistico-ambientali (“progetti”, non “vincoli”), ma lo si è anche lasciato aggirare e boicottare su fondamentali normative di protezione (come quelle per i “paesaggi agrari”). Addirittura lo stesso Parco ha “tradito” spirito e lettera delle norme che proteggono i contesti delle emergenze architettoniche, cioè le aree simbolo di un paesaggio storico come quello dei Colli. E non è che a questo vero e proprio misfatto si stiano ribellando in tanti.

Ora siamo a una svolta cruciale: con una discutibilissima modifica alla legge istitutiva la gestione del Parco è stata affidata ai soli Sindaci. La modifica è di 15 mesi fa, ma solo in questi giorni il nuovo Consiglio ha iniziato l’attività.

Almeno un fatto, tra i tanti che meriterebbero un approfondimento, deve essere chiaro (al di là delle nomine di Presidente e assessori al solito rigorosamente lottizzate): che per la maggioranza degli attuali sindaci (di questi 12 su 15 sono di centrodestra) il Piano Ambientale è un ostacolo da rimuovere: “un capestro che mortifica la vitalità e le possibilità di sviluppo dell’area”. I Comuni devono essere liberi di gestire il loro destino urbanistico. Con l’esperienza del passato e con l’occhio attento a quel che sta succedendo - sviluppi residenziali sovradimensionati, apertura alle seconde case, pioggia di annessi rustici - c’è poco da star tranquilli.

Non dovrebbe esserci su questi temi, prima che sia troppo tardi, una maggiore mobilitazione del mondo politico e degli ambienti culturali “progressisti” padovani?

Personalmente questa esigenza, dall’interno del debole fronte delle associazioni ambientaliste e ora anche da componente del nuovo Consiglio dell’Ente, la avverto fortissima. E spero che finalmente coinvolga molti altri.

L'immagine è tratta dal sito www.berann.com

MESTRE. «Entro il 2007 si concluderanno i lavori del Passante». Un eccesso di entusiasmo fa anticipare a Berlusconi i tempi di chiusura dei cantieri, previsti - correggerà il tiro Galan - per il 2 maggio 2008, tra 758 giorni. L’annuncio arriva al termine del Cipe che ha detto sì a un complicato sistema di aumenti dei pedaggi che consente all’Anas di contrarre mutui per 636 milioni di euro.

Alle 12.36 da Roma rimbalza attraverso le agenzie l’annuncio di Silvio Berlusconi. «Entro il 2007 il Passante sarà finito». Il presidente del Consiglio si lascia andare all’entusiasmo al termine del Comitato interministeriale di programmazione economica che ieri ha detto sì all’introduzione di isopedaggio e isoricavo nelle convenzioni tra Anas e società autostradali, per la gestione del Passante.

Garantiti i fondi.L’atto garantisce da oggi la copertura finanziaria ai mutui per 636 milioni che Anas deve contrarre con le banche (la gara è in corso) per finanziare la bretella, spiega il commissario Vernizzi. E non appena ci sarà la firma sul decreto interministeriale dei ministri Lunardi e Tremonti, scatterà il complesso meccanismo di aumenti che porterà in tre anni a equiparare il costo del pedaggio del Passante con quello di autostrada Venezia-Padova, tangenziale e A4 per Trieste, con incrementi alle barriere di Villabona, Mogliano e Quarto d’Altino.

La delibera. La delibera del Cipe autorizza l’inserimento negli atti aggiuntivi alle convenzioni con le concessionarie di autostradel «interferenti» col Passante di Mestre delle clausole legate ai pedaggi, «al fine di mantenere inalterata l’invarianza dei ricavi, rispetto alle stime di traffico (...) - si legge - nonchè garantire nel tempo il flusso di risorse necessarie per la realizzazione del Passante».

Galan contro De Piccoli. Tocca al governatore Giancarlo Galan rivedere le stime del premier. Negli uffici di Veneto Strade, rompe un gigantesco uovo di Pasqua che contiene il tracciato del Passante e l’ultimo dato del countdown, ovvero meno 758 giorni. La grande opera sarà pronta per il 2 maggio 2008. Un anno dopo il pronostico di Berlusconi. «Ero talmente sicuro dell’approvazione al Cipe che ho ordinato da tempo questo uovo, così grande non si fa mica in mezz’ora», dice Galan, dedicandolo a Cesare De Piccoli, il segretario veneto dei Ds che aveva lanciato l’allarme sulla mancata copertura dei fondi del Passante. «Ringrazio per l’attivismo De Piccoli, colui che sconfigge tutti, compresi i 5 saggi, per difendere Venezia. Ha scoperto una finta polemica. Perché per il Passante i soldi ci sono, non c’era alcun dubbio. Oggi il Passante ha ricevuto il condono tombale, non c’è più alcun se o ma. Capisco che si è sotto elezioni, ma questo continuo creare angoscia e porre dubbi è un metodo miserando; per ottenere due righe sul giornale non si può dire che il Passante si ferma».

Un sì al cardiopalma. Galan non nasconde la tensione della mattinata. La seduta del Cipe convocata alle 11 rischiava di saltare per assenza del numero legale. «C’è voluta una lunga insistenza da parte mia assieme a Miracco (il suo portavoce, ndr), Ghedini e Vernizzi - racconta - mentre Chisso è volato a Roma. Avevo da Berlusconi e Letta l’assicurazione che ci sarebbe stata la riunione. Alle 11.15 è arrivato Berlusconi, che è il miglior ministro che il Veneto abbia mai avuto: ha aspettato con Letta che ci fosse il numero legale». Per il via agli aumenti dei pedaggi, manca ora solo la firma di Tremonti al decreto interministeriale già sottoscritto da Lunardi. A una diversa interpretazione delle norme tra i due ministeri, la Regione inputa l’incertezza delle ultime settimane: il dicastero delle Infrastrutture riteneva che le modifiche alle tariffe non avessero bisogno dell’avallo del Cipe. Il ministero di Tremonti invece ha insistito per l’ok del comitato. «Problemi comunque non ce ne sono mai stati - afferma il commissario del Passante, Silvano Vernizzi - perché il 30 aprile 2004 è stato sottoscritto il contratto col contraente generale per oltre 500 milioni di euro. Andava solo introdotto il principio dell’isopedaggio nelle convenzioni tra Anas e tre società autostradali. Situazione unica in Italia, per questo si è modificata la delibera Cipe del 1996». Galan aggiunge: «Qualcuno ha speculato, in Italia le opere di project financing si fanno solo con la copertura finanziaria». Da Roma, l’assessore ai Trasporti Chisso replica a De Piccoli: «Il Cipe non ha introdotto deroghe in materia di tariffe. Tutto qui, il resto è solo propaganda». Il deputato ds Andrea Martella chiede però lumi sui ritardi: «Finalmente si è capito che era necessario passare per il Cipe, peccato che si sia perso del tempo visto che l’accordo tra le concessionarie e l’Anas era già stato siglato un anno fa. Ora Vernizzi deve chiudere in fretta con i Comuni di Mirano e Martellago». Il progetto definitivo della variante sarà pronto tra una settimana, assicura il commissario.

Nota: per capire meglio il contesto immediato - non solo e non tanto trasportistico - in cui si colloca il Passante, si veda su Eddyburg l'articolo a proposito della "Colata di cemento ai lati della bretella" in cui uno studio evidenzia come siano pronti a partire nei vari comuni dell'area progetti edilizi per commercio, servizi, attività produttive, il tutto "trainato" dalle nuove infrastrutture, il tutto in assenza di un quadro di coordinamento sovracomunale (f.b.)

il Corriere del Veneto

Sul Ptrc si abbattono 18 mila osservazioni

«Non lo fermeranno»

È probabile che l’obiettivo, magari non dichiarato ma percettibile, fosse quello di tenere inchiodato il Piano per chissà quanto tempo. E non un piano qualunque, bensì il leggendario Ptrc (Piano territoriale regionale di coordinamento), che, nelle intenzioni dell’amministrazione Galan, dovrebbe dare la rotta allo sviluppo del Terzo Veneto. Quasi 18 mila osservazioni, una massa impressionante, si è abbattuta da tutto il Veneto sul Ptrc, esposto al pubblico giudizio dopo l’adozione avvenuta nel febbraio scorso. La gran parte di queste (quasi 15 mila) sono frutto di un lavoro organizzato e fanno capo alla Rete dei Comitati, che mette insieme 118 tra associazioni e raggruppamenti spontanei di cittadini. Nel mirino dei critici ci sono, soprattutto, gli agglomerati nevralgici individuati dal Piano per il Veneto di domani: da «Veneto City», futura capitale commercial-direzionale che dovrebbe sorgere nell’entroterra veneziano all’intersezione tra l’autostrada A4 e il Passante di Mestre, alla cittadella aeroportuale del «Marco Polo».

Ebbene, nonostante la mole di lavoro sia innegabilmente enorme, la giunta regionale terrà fede al suo proposito: «Nella seduta del 4 agosto, l’ultima prima delle ferie - ha ribadito da palazzo Balbi l’assessore all’Urbanistica, Renzo Marangon - noi licenzieremo la bozza del Ptrc e la invieremo al consiglio regionale per l’approvazione definitiva». Questo consiglio o il prossimo, visto che la scadenza della legislatura non è lontanissima.

E le osservazioni? «Avranno risposta ­assicura l’architetto Romeo Toffano, dirigente regionale della panificazione territoriale - anche se non una per una. Le abbiamo ordinate per gruppi secondo le diverse tipologie (un centinaio, ndr) e per gruppi forniremo un responso. Tra l’altro, posso dire che più di qualche rilievo, per quanto riguarda la struttura tecnica, può essere accolto». Ma non quei rilievi, sia chiaro, che intaccherebbero le scelte fondamentali del Piano.

Marangon ribadisce: «Tutte le osservazioni meritano rispetto e considerazione. Ma non devono essere un ostacolo sul cammino del Ptrc: la politica deve decidere e noi decideremo nei tempi previsti».

il Gazzettino

Piano di coordinamento,

superlavoro per rispondere a 15mila osservazioni

Si faranno gli straordinari, a Palazzo Balbi, e si lavorerà pure il sabato per rispondere alle 15mila osservazioni al Ptcr, il Piano territoriale regionale di coordinamento adottato dal consiglio lo scorso inverno. Una valanga di richieste di modifica - delle 15mila presente ben 14.500 provengono da associazioni e comitati - che rischiava di bloccare lo strumento di pianificazione, ma che l’assessore Renzo Marangon ha deciso di far valutare in tempi stretti. Nella giunta del 4 agosto, l’ultima prima della pausa estiva, Marangon è deciso a portare tutto il blocco di osservazioni con relative controdeduzioni, così da spedire il Piano all’esame del consiglio regionale per l’approvazione finale. “Si tratta per lo più – precisa l’assessore – di osservazioni riconducibili a un centinaio di tematiche, alcune di tipo generale, altre riferite a situazioni locali. Sono comunque osservazioni puntuali, frutto di un lavoro di lettura ed analisi del Ptrc, che meritano quindi rispetto e attenzione, molte delle quali potranno essere accolte dalla giunta». Delle circa 15 mila osservazioni pervenute entro il 10 luglio, 300 sono state avanzate da enti locali e associazioni di categoria, le altre da cittadini. «Se qualcuno pensa che questo gran numero possa rappresentare un ostacolo alla corretta istruttoria del procedimento, si sbaglia – sottolinea Marangon - Il Piano è una risorsa per tutti. E devo ribadire che la giunta regionale ha avuto il grande merito di coniugare in un unico piano la tutela del territorio con lo sviluppo della società». Presentata anche la pubblicazione–cofanetto dove sono riportati tutti gli atti e i documenti, anche su base multimediale, relativi alla storia del Ptrc, dalla Carta di Asiago sino alla sua adozione in consiglio regionale.

“Verba volant, scripta manent”...è vero. Ma ci sono parole che pesano come macigni e che un minimo senso del pudore dovrebbe relegare nell’ambito del pensiero non espresso.

E’ stata un’esperienza istruttiva, nonché traumatica, assistere alla presentazione del PTRC in una riunione del PDL a Mirano. L’incontro era aperto, ma il pubblico presente (quasi) tutto evidentemente schierato, tanto che, dopo un inizio diplomatico, confortati dagli applausi sperticati di (quasi) tutti gli astanti, i relatori si sono lasciati andare a briglia sciolta in dichiarazioni a dir poco sguaiate. Increduli, abbiamo annotato alcune frasi che riportiamo fedelmente, nell’intento di far comprendere fino in fondo – se ce ne fosse la necessità – da quali galantuomini siamo governati.

L’Arch. Sandro Baldan presenta - si fa per dire - il Piano, facendo scorrere slide a raffica. Inserisce la parola “sostenibile” ogni tre/quattro frasi, attenendosi alla media registrata durante gli incontri pubblici che presentino “qualsiasi cosa”. Nel descrivere la Rete Ecologica regionale ci tiene comunque a precisare, rivolgendosi agli amministratori locali presenti, che:

“…nel caso in cui i Sindaci rilevino che i corridoi ecologici rientranti nel territori dei rispettivi comuni intralcino qualche intervento già programmato, possono segnalarlo con apposite osservazioni, e sicuramente ci saranno margini per opportune variazioni.”

Dalla Tor ci tiene subito a precisare che il PTRC non lo ha letto (…ma allora cosa ci sta a fare?).

Ma una cosa è certa:

“Il Miranese e la Rivera del Brenta sono il perno dell’Europa, area sulla quale disegnare lo sviluppo del futuro.” In questo contesto “…il passante diventa l’opportunità per interconnettersi su tutta la realtà infrastrutturale circostante.”

Certo si era ben compreso che lo scenario era questo, ma sentirselo dire in modo così diretto fa un certo effetto…Anche il consigliere Moreno Teso non intende entrare nel merito del Piano, perché a lui interessano solo due obiettivi:

“Questo PTRC serve principalmente a fare in modo che il PTCP, con tutti i suoi vincoli al territorio, non venga licenziato, in quanto non coerente ad un Piano sovra-ordinato.” Inoltre “…l’attuale PTRC annulla tutti i vincoli del precedente Piano votato dalla sinistra, e ci adopereremo per modificare anche altri vincoli imposti dalle leggi dello Stato.

"Le aree SIC e ZPS sono una porcata, opera di qualche funzionario deficiente volato a Bruxelles a tirare quattro righe su una carta.”

Conclude il potentissimo assessore Chisso, delegato alle infrastrutture e agli interventi strategici, al quale va la Palma d’oro dell’eleganza e della competenza.

“ Solo a sentire la parola Piano mi viene il prurito! Come rimpiango il grande Veneto di una volta, costruito dai nostri bravi vecchi Sindaci del “butta sù”, quando bastava andare dal primo cittadino e dire “Sior Sindaco, gavaria bisogno de un altro cappanon, de una stansa in più par la nonna…”

“Butta sù, caro, butta sù!”.

Per questo la filosofia di fondo del PTRC è: tutto è permesso fuorchè quello che è vietato. E speriamo che le osservazioni che perverranno ci aiutino a ridurre ulteriormente il numero degli articoli presenti nelle norme tecniche.”

Certo permane qualche piccolo ostacolo dettato dall’Europa…

“A causa di quelle maledette aree SIC ci ritroviamo con ¾ del Veneto vincolato… per far copulare quattro Fraticelli minori ci tocca spostare le opere pubbliche…roba da matti. Ma se non riusciremo a ridurre la quantità di territorio vincolato dalle SIC faremo comunque in modo di concentrarle verso la montagna!”

Infine una piccola lezione di economia:

“Ormai chi si fida più a mettere i soldi in banca. L’unica possibilità di uscire dalla crisi è puntare sull’immobiliare, ed è per questo che è necessario agire sul territorio per attrarre il più possibile gli investitori di questo settore”.

Lo shock al quale eravamo sottoposti ci ha permesso di registrare solo in parte il repertorio di orrori al quale abbiamo assistito. Ma ce n’è abbastanza per aprire una rubrica da intitolare “Sentiti con le nostre orecchie”, che varrebbe la pena di tenere aggiornata.

Del resto c’erano tutte le premesse, fin da quando nella primavera scorsa, nei primi incontri di presentazione del PTRC, l’Architetto Romeo Toffano, parlando del “nuovo paesaggio” disegnato dal Piano, ci erudiva sul fatto che le strade servono anche per ammirare il bel paesaggio veneto, e coniò quella perla di aforisma, degna di un novello Oscar Wilde:

“Le strade sono la mediazione tra natura e cultura”

Laboratorio Mirano Condivisa

I NUMERI. A Fiesso, il minore tra i Comuni veneziani, un progetto del valore di 200 milioni di euro Interventi edilizi per 230 mila metri cubi su una superficie in riva al Naviglio del Brenta

FIESSO D’ARTICO. La Città della moda si prepara a salire in passerella: saprà sfilare in modo elegante, o inciamperà dopo i primi passi? C’è chi è pronto a immortalare l’ingloriosa caduta, e chi non vede l’ora di spellarsi le mani per un progetto che, nell’intento di chi lo sostiene, servirà a rilanciare nel mondo l’immagine della Riviera del Brenta e del distretto della calzatura. Un progetto i cui numeri svelano, prima di tutto, i contorni di una grande operazione immobiliare, dal valore complessivo stimato in oltre 200 milioni di euro, con interventi per circa 230 mila metri cubi su un’area di quasi 52 mila metri quadrati, con edifici che potranno raggiungere un’altezza di 18 metri, a ridosso del Naviglio del Brenta. In attesa che la ditta costruttrice, la Cervet di Mirano, presenti il progetto definitivo, atteso per la fine di gennaio, è possibile ricostruire la storia di un intervento che cambierà la faccia della Riviera del Brenta. Un progetto urgente, necessario? «Oddio, queste sono parole grosse», dice il presidente dell’Acrib, Giuseppe Baiardo, «però il progetto lo abbiamo visto, e ci piace».

La genesi. Di Città della moda si fa un gran parlare verso la fine degli anni Novanta, periodo che segna un punto di svolta nella produzione della calzatura. Sul mercato si affaccia la Cina, che abbatte il costo della manodopera. I calzaturifici si trovano di fronte ad un bivio: o delocalizzare, come fa (in Romania) il vicino distretto della scarpa di Bussolengo, nel Veronese; o imboccare la strada dell’alta qualità, come fa il distretto della Riviera. Per questo l’Acrib comincia a immaginare un polo ad alta tecnologia a servizio degli operatori. La Città della moda nasce quindi da un’idea dell’Acrib, nel 1996, e nel 2000 è perfino citata negli accordi sindacali. Per capirne lo spirito: «Sarà necessario un concorso di idee internazionale che coinvolga i maggiori urbanisti per pianificare l’intero progetto». L’Acrib lancia l’idea e poi, anche per alcune acredini interne, resta a guardare, a vedere che succede. Sono anni di grande mutazione e nessuno potrà dire come andrà a finire: oggi sono resistite poche grandi firme (Caovilla, Ballin, Shy e alcune altre) mentre la gran parte delle aziende produce conto terzi, per le più prestigiose firme del Fashion Sistem: un settore che (dati 2006) vale oltre 1750 milioni di euro di fatturato, il 15% dell’intero sistema calzaturiero italiano. In una stagione di incertezza, dopo le sollecitazioni dell’Acrib, il progetto comincia a decollare solo quando si muovono i Comuni, che mettono le mani nei Piani regolatori. In un primo momento l’area destinata alla Città della moda è pensata in due parti vicine: A Stra (progetto mai decollato) una nuova zona artigianale per raggruppare tutte le fabbrichette della zona, e a Fiesso la parte direzionale e di ricerca.

Forza Ds. A Fiesso l’idea diventa realtà con il sindaco Vladimiro Agostini (Pci-Pds-Ds-Pd, oggi presidente dell’azienda di servizi Veritas, ex Acm) l’uomo politico più importante del paese, sindaco per tre mandati. E’ lui a individuare una zona di circa 118 mila metri quadrati a Nord del Naviglio del Brenta, lungo via Piove. Chi è il proprietario? Il suo principale avversario politico, l’ex candidato sindaco del centrodestra e all’epoca capogruppo d’opposizione di Forza Italia, Paolo Semenzato, con i suoi fratelli. L’area, con decisione (all’unanimità il 15 novembre 2001) del consiglio comunale si trasforma da agricola ad edificabile, aumentando in maniera esponenziale il suo valore di mercato. Non è dato sapere i termini del contratto preliminare siglato, in ultima battuta il 16 ottobre 2006, dai fratelli Semenzato e la Cervec (la società che ha guidato fin qui l’operazione immobiliare, di cui è socio di maggioranza Francesco Fracasso, amministratore anche della società costruttrice Cervet) davanti al notaio Lucia Tiraolosi di Mestre, anche perché il contratto preliminare non è ancora stato perfezionato. Diverse sono le variabili che possono entrare in una simile comprevendita, ma basti dire che il valore di un metro quadro di terreno agricolo, da queste parti vale, al massimo, 25-30 euro al metro quadrato, anche se per qualche tecnico interpellato è già un valore sovrastimato, soprattutto in casi di grandi appezzamenti. Un terreno edificabile, invece, può essere valutato fino a 200 euro a metro cubo urbanistico edificabile. E’ un calcolo complesso, che abbiamo affidato ad alcuni tecnici esterni. Restando cauti possiamo comunque dire che il valore del terreno è stato quanto meno decuplicato (da 3 milioni a 30 milioni di euro). In tempi di “caste”, a voler pensar male, gli argomenti non mancano: a Roma lo chiamerebbero inciucio. E’ pur vero che Fiesso, con 6,3 chilometri quadrati di estensione, è il più piccolo comune del veneziano, ma era quella, lungo il Naviglio, la sola area a disposizione? «Sì», dice l’attuale sindaco di Fiesso Daniela Contin, che all’epoca era consigliere comunale: «Era la migliore. Che l’area fosse di Semenzato è solo un caso». L’esponente di Fi, prof universitario che si occupa di ecologia, dopo quel mandato ha lasciato la politica. Nel novembre 2003 la variante è stata approvata dalla Regione.

Lo strano caso del Piruea. Vuol dire: Piano integrato di riqualificazione urbanistica edilizia e ambientale. E’ un accordo tra Comune e privati che solitamente prevede che, a fronte di un aumento di cubatura, il Comune ottenga un riconosciuto vantaggio pubblico. I tecnici di alcuni comuni ai quali abbiamo mostrato la documentazione, a vedere il Piruea di Fiesso sono sbiancati in volto, perché a Fiesso, la grammatica urbanistica, dicono, è stata usata in modo creativo. Il Piruea è uno strumento che solitamente viene usato nei centri delle città, o in zone degradate. Solo che in via Piove non c’è nulla da riqualificare: solo zolle di terra. Lo ammette anche il sindaco Contin, che serviva fare presto, e che l’utilizzo del Piruea, presentato il 23 febbraio del 2005 dalla Cervet di Mirano e votato all’unanimità dal consiglio comunale solo cinque giorni dopo, era un escamotage per accelerare i tempi di realizzazione. «Dovevamo e dobbiamo fare presto - dice la Contin - perché la Riviera ha bisogno di questo progetto, io ci credo». Il concorso di idee finisce in soffitta e la Cervet procede in proprio alla progettazione. Immagina la Città della moda stesa su 109.683 metri quadrati, con gli edifici che lambiscono il Naviglio. Il vantaggio per il Comune qual è? La costruzione di un grande museo della moda, su una superficie di 2.000 metri quadrati, per un valore di 3 milioni e 100 mila euro. Un museo il cui futuro è ancora tutto da scrivere.

Fiumi e Monti. E’ il Sovrintendente ai Beni architettonici del Veneto, Guglielo Monti, a conficcare nel terreno alcuni paletti. «Trovo completamente aberrante - spiega al sindaco in una riunionedel 23 giugno del 2005 - l’idea di costruire un centro nuovo sulla riva di un fiume importante come il Naviglio trasformando una vasta area rivierasca in un parcheggio con gli edifici». E’ c’è una riflessione che fa Monti, che in molti a Fiesso hanno fatto: «Se la Riviera deve il suo prestigio alle ville, alla sua storia, non si capisce perché non si possa utilizzare le ville e la storia. Soprattutto per operazioni di immagine». Stupefatto per il clima di bonomia che circonda il progetto, Monti sbotta: «La Riviera vuole continuare a fare un intervento dietro l’altro per rovinare la propria immagine». Per non dire, sempre sul piano ambientale, della battaglia aperta con la Provincia sulla necessità o meno di procedere con la valutazione di impatto ambientale che, a conti fatti, limando i testi dei documenti, non è stata realizzata. In ogni caso Monti impone un limite di 150 metri dalla riva del Naviglio e questa imposizione obbliga la Cervet a ricalibrare il progetto su un’area più piccola.

Consonante sbagliata. Del vincolo di Monti ha dovuto tenere conto anche il Comune, (con un passaggio in consiglio comunale il 14 marzo del 2006). Nella stessa delibera il Comune decide, dando risposta anche alle sollecitazioni del costruttore, di introdurre all’interno della Città della moda la possibilità di realizzare negozi su un’area di 10 mila metri quadrati. Venticinque negozi di moda che saranno anche la prima parte del progetto ad essere costruita. «Tale modifica si è resa necessaria - spiega il documento del parlamentino votato all’unanimità - per offrire agli operatori interessati una dotazione di minima di attività commerciali destinate alla vendita di prodotti». E’ così l’area oggetto dell’intervento viene riclassificata da «F» a «D». E’ questo il documento che, sostanzialmente, chiude l’iter sulla carta della Città della moda. Il 20 giugno 2006 la Regione approva il Piruea, e a metà ottobre dello stesso anno il Comune di Fiesso rilascia il permesso di costruire. Poche settimane fa è stata recintata l’area oggetto dell’intervento. In questo anno la Cervet ha lavorato ad un progetto, che chi ha già visto definisce ad alta tecnologia, di cui svelerà i dettagli solo tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio. Ma quali sono gli attori di questa partita immobiliare, e cosa diventerà davvero la Città della moda?

(1-continua)

Postilla

Qualche immagine della Riviera del Brenta, raccolta a casaccio su google e inserita qui sotto. Non abbiamo altri commenti se non questa frase di Wogang Goethe, citata da Antonio Cederna nel suo articolo I gangster dell'Appia (Il Mondo, 1953):“Questi uomini lavoravano per l'eternità; tutto essi hanno preveduto tranne la demenza dei devastatori, cui tutto ha dovuto cedere”

MILANO — «Assatanati di cemento. E non solo», dice, lapidario, Andrea Zanzotto. Qui non si tratta di poesia, l'arte della sua lunga vita, ma di speculazione senza limiti e della nobile battaglia per fermarla, prima che il paesaggio del suo Veneto venga completamente divorato dall'edilizia. E perfino dalla viticultura selvaggia. «Hanno spostato anche le colline — spiega — per avere la terra esposta al sole. In nome del prosecco». «Ricordo le vecchie serre di vetro dove crescevano fiori e ortaggi — continua Zanzotto —. Ebbene, il sindaco di Paese, nei pressi di Treviso, mi ha telefonato per dirmi che ha visto spuntare alcune serre simili a castelli di cemento...».

Il poeta ottantaseienne continua a raccontare la casistica dolorosa della modernità senza controllo. «Finché avrò fiato la combatterò», afferma. Ma Zanzotto non è solo. In Veneto, come sta succedendo in Toscana (si pensi alla diatriba sulla cementificazione di Monticchiello val d'Orcia), sono sorti alcuni comitati in difesa dell'ambiente, che raccolgono via via numerose adesioni. Sicché, il poeta trevigiano leader carismatico di questa crociata, è il promotore di un incontro tosco-veneto, che si terrà il prossimo 14 dicembre nelle sale del castello di Collalto a Susegana (Treviso). L'obiettivo è duplice: riunire i comitati locali in un Coordinamento chiamato «Paesaggi veneti sos»; e confrontarsi con l'esperienza dei toscani, guidati da Alberto Asor Rosa, che, con una serie di proteste, sono riusciti ad ottenere risultati significativi. La loro battaglia, certo, non è ancora vinta, ma autorevoli interventi delle istituzioni dimostrano che vale la pena di lottare.

A Susegana, dunque, con Andrea Zanzotto ci saranno Asor Rosa e Nino Criscenti, altro uomo di punta della Rete toscana. Dal Veneto, invece, sono attesi, i docenti universitari Francesco Vallerani e Giorgio Conti, il verde Gianfranco Bettin, alcuni esponenti del Fai e Pier Alvise Serego Alighieri, in rappresentanza di «SalValpolicella», associazione impegnata difendere un'area paesaggistica e agricola dal rischio di trasformarsi in una sorta di periferia-dormitorio di Verona. Non potranno essere presenti al meeting Mario Rigoni Stern ed Ermanno Olmi, ma si sono schierati con il poeta. Zanzotto non si perde d'animo. Lui, che esordì nel 1951 con il suo primo libro di versi

Dietro il paesaggio, è un ambientalista di lungo corso. «Nel dopoguerra — ricorda — quando bisognava ricostruire si scatenò un fervore edilizio tanto forte quanto casuale. Fu allora che il cancro della speculazione si annidò. Poi, si espanse. E ora? Bisogna fermarsi, altrimenti non resterà più nulla». Al suo paese, Zanzotto si è esposto pubblicamente contro la costruzione del palazzetto dello sport. «Con questo edificio si distrugge l'ultimo prato di Pieve di Soligo », disse sfidando i politici locali. Volevano erodere il Brolo del monastero di San Giacomo di Veglia, a Vittorio Veneto, e il poeta è andato a parlare con la madre superiora. «Il progetto ora è bloccato — dice — ma fino a quando? L'amministrazione comunale è dalla parte dei costruttori».

«Con zerte teste che ghe n’è in giro…». A dispetto dell’amara sottolineatura con cui accoglie l’ospite, a 85 anni di inossidabile età, Andrea Zanzotto, uno dei massimi poeti viventi, non è affatto disponibile ad arruolare pure la sua nello stuolo di teste che, in giro per il Bel Paese, sacrificano il paesaggio allo sviluppo. Perciò si è messo di traverso, deciso a salvare l’ultimo angolo verde della sua Pieve di Soligo, dove è nato e dove ha sempre voluto vivere.

Facendone un luogo-simbolo del Veneto stravolto da un’edilizia onnivora, così come sta combattendo in Toscana Alberto Asor Rosa a difesa di Monticchiello. «Mi spiacerebbe vedere il poeta trasformarsi o trasformato in un personaggio di Cervantes», tenta di ironizzare Glauco Zuan, segretario della sezione comunale della Lega; e viene da pensare quanto poco «zerte teste» capiscano di don Chisciotte, e meno ancora dei poeti.

Non sanno, «zerte teste», che il legame di Zanzotto con la terra è profondo e da sempre («se penso che il mio primo libro di versi, nel 1951, l’ho intitolato Dietro il paesaggio…»). E che dunque, oggi come mezzo secolo fa, non riesce ad accettare l’idea di voler costruire un palazzetto dello sport sull’ultimo fazzoletto di verde riuscito fin qui a resistere al cemento: «Io non ho niente contro lo sport, anche se non mi emoziona più come una volta, adesso che ha perso la sua innocenza; guardi cosa si fa in nome del "dio balòn"… Quello che contesto è che sia stato scelto l’ultimo pezzetto di verde ben visibile, lungo una strada che si chiama via Mira proprio per lo spettacolo che si vede dall’alto». E invita a salire, per rendersi conto, sulla collina di San Gallo che domina il quartiere del Piave: «Da lì si vede netta la macchia lebbrosa che si sta dilatando nella pianura».

Non è un’infezione locale: quella lebbra sta corrodendo nell’intera regione i paesaggi immortalati nelle quinte pittoriche di Giorgione, di Tintoretto, di Tiziano. «La marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto ricco di arte e di memorie è arrivata ad alterare la consistenza stessa della terra che ci sta sotto i piedi», denuncia Zanzotto. E descrive lo spessore di questo legame che ha retto per secoli prima di venire eroso dalla logica illogica dello sviluppo a tutti i costi: «In noi c’era una riconoscenza diretta per la terra salvatrice, che non serviva solo a darci sostentamento ma aveva in sé anche i connotati di un rifugio; la sentivamo davvero come "mater tellus", verso di lei avevamo un attaccamento furibondo». Un rapporto quasi inscritto nel Dna della persona: «Ho sempre avuto una forte sensibilità per la natura; fin da bambino, se scappavo di casa dopo aver combinato qualche marachella, andavo a rifugiarmi in un boschetto». A non molta distanza da qui nello spazio, molto più distante nel tempo, monsignor Giovanni Della Casa aveva scelto proprio un bosco per scrivere il suo Galateo.

Era un sentimento condiviso: «Quel paesaggio della mia infanzia era ben coltivato, i contadini ci lavoravano lasciando intatto il fiorire della terra. Poi, un po’ alla volta, si è cominciato a sfruttarla il più possibile, e dagli anni Ottanta stiamo assistendo a un autentico degrado di fronte al quale non possiamo non indignarci: bisogna fermare lo scempio che vede ogni area verde rimasta come area da edificare. Una volta esistevano i campi di sterminio, oggi siamo allo sterminio dei campi».

Nessuna crociata di retroguardia per nostalgia di un piccolo mondo antico, assicura Zanzotto: «Il cambiamento è un moto necessario, ma bisogna vedere con che velocità, come e quando si muove». E invita a imparare dalla natura quale sia l’autentico modello di sviluppo: «Guardate le piante, ciascuna di esse ha il suo criterio per crescere, e a un certo punto si ferma. Oggi invece prevale una formula che sottintende che tutto ciò che accade dovrebbe comunque accadere. Ma così si va contro anche a quel senso estetico del costruire che era connaturato al Veneto di una volta, e che aveva creato le condizioni ideali per i grandi capolavori artistici di questa terra».

Il suo è un appello forte: «Salviamo un prato in ogni paese». E ha cominciato lui per primo, a difesa del verde residuo di Pieve di Soligo («il Palasport lo facciano, ma da un’altra parte»): con una passione così forte che lo stesso governatore del Veneto Giancarlo Galan si è schierato dalla sua parte. Basterà per far cambiare scelta al Comune? «Pararìa», risponde Zanzotto nella dolcezza del dialetto. Sembrerebbe… Il condizionale è di rigore, stando a quanto sostiene il sindaco Giustino Moro, a capo di una civica di centrodestra: «Quell’area è destinata a opere di interesse pubblico per il gioco e lo sport fin dal 1988. Certo, noi non pretendiamo di avere la verità in tasca: mi sono già impegnato pubblicamente perché il Palasport sia di maggior qualità nell’espressione architettonica e nel rapporto con il contesto ambientale». Ma è il posto a essere sbagliato, ribadisce Zanzotto; e a questo punto il pallino torna alla Regione: se vuole tradurre in pratica le parole del suo presidente, deve chiedere la revoca della variante urbanistica che ha sdoganato il progetto.

«Io continuo la mia battaglia per salvare quel piccolo pezzo di terreno, oltretutto di golena antica», assicura Zanzotto; e parla del fiume che ha dato il nome al suo paese, il Soligo, «che qui gira, serpeggia, più in giù scava veri e propri canyon». Lo fa con la stessa intatta passione, con l’identica fresca melodia che animava i suoi versi di un tempo: «Io ti distinguo, cuna delle mie genti», scriveva nel 1960 dei Colli Euganei, «i colli in cui si tacquero / le torbide età prime». «Cuna», la culla. «Bisogna capire che salvare il paesaggio della propria terra è salvarne l’anima e quella di chi l’abita», conclude.

Sulla via del ritorno, scendendo verso la Manhattan di capannoni del quartiere del Piave, capita di passare per una sorta di Scilla e Cariddi della modernità. Sulla sinistra un cartello avverte «vendesi terreno edificabile a uso industriale». Sulla destra, un altro segnala «Grande Guerra-l’ultima battaglia», suggerendo una visita all’antica linea del fronte tra il Piave e il Grappa. E viene da chiedersi chi abbia fatto più guasti al paesaggio, se i cannoni di ieri o i capannoni di oggi.

Per fortuna, lì vicino, una voce indomita si ostina a non cedere alla rassegnazione. E a chiedere di aiutarla a far sì che la poesia non abbia cantato invano.

© 2024 Eddyburg