Il manifesto, 12 novembre 2015, con postilla
postilla
Peccato che le due proposte di legge citate siano del tutto negative nei confronti dell'auspicata eliminazione del consumo di suolo, e anzi lo favoriscano. Abbiamo promosso e sostenuto una lunga campagna contro la malfamata "legge Lupi" nelle sue varie incarnazioni. Una intera voluminosa cartella si può trovare nel vecchio archivio, col titolo Tutto sulla legge Lupi. Nel nuovo archivio abbiamo ripreso il tema in numerosi articoli per ora raccolti, un po' alla rinfusa, nella cartella Legislazione nazionale. Per quanto riguarda la proposta di legge sul consumo di suolo, oggi all'esame de Parlamento, ci limitiamo a segnalare l'accurata analisi, fortemente critica, di Vezio De Lucia dal titolo Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione, e i numerosi articoli citati nella postilla. Lì troverà anche il collegamento alle proposte avanzate a più riprese da eddyburg. Da questo governo e questo Parlamento è inutile aspettarsi qualcosa che vada nella direzione a suo tempo auspicata da Leonardo Benevolo, e da altri personaggi che oggi sarebbero definiti "gufi".
In Italia ci sono ancora popolazioni che protestano quando si vuole seppellire di cemento l'antico paesaggio nel quale si riconoscono, e combattono uniti contro il governatore che vuole abbattere il vincolo ambientale. La Repubblica, 29 ottobre 2015
Gli ultimi erano stati i Longobardi e i Bizantini: era dal VI secolo dopo Cristo che nel Contado di Porta Eburnea non si combatteva una battaglia altrettanto carica di futuro. Siamo a sei chilometri a sud-ovest di Perugia, tra le valli dei fiumi Caina, Genna e Nestore, in un territorio di bellezza spettacolare: centoventi chilometri quadrati di paesaggio intessuto di monasteri, torri, ville, piccoli borghi medioevali. L’Italia: al suo meglio. Quella che diresti che ormai non c’è più. E che invece resiste: almeno fino a quando lo consentiremo.
Ma come in tutte le favole, ad un certo punto arriva una strega cattiva: e la strega in questo caso si chiama speculazione edilizia. Perugia si espande, e sposta i suoi ospedali proprio verso il Contado. E nel cuore di quest’ultimo si cominciano a costruire complessi edilizi di cinque piani tra viali di tigli e ville storiche (sul crinale tra Pila e Badiola), si progettano strade a scorrimento veloce, si creano nuovi paesi di cemento accanto a borghi medioevali spopolati (115.000 metri cubi a San Biagio della Valle).
È a questo punto che i cittadini del Contado insorgono. Nel gennaio 2010 otto associazioni nate dal basso, comuni cittadini, proprietari di dimore storiche chiedono al Ministero per i Beni culturali di dichiarare che la salvaguardia del Contado di Porta Eburnea è di particolare interesse pubblico: in pratica, chiedono di vincolarlo, cioè di salvarlo prima che sia troppo tardi. Una volta tanto, lo Stato c’è, esiste, risponde. Dopo lunghe battaglie, e a prezzo di molti compromessi ( l’area da difendere scende da 110 a 58,5 km quadrati), nel maggio di quest’anno il vincolo arriva. Tutto bene, dunque? Per niente: come in un film dozzinale, la strega apparentemente morta si rialza, più cattiva di prima. E, paradossalmente, la strega ha ora il volto della Regione Umbria e del Comune di Marsciano: i quali, invece di essere felici per la salvezza del loro stesso territorio, hanno deciso di ricorrere al Tar per annullare il vincolo.
Non è un episodio isolato: insieme alla Liguria di Toti, l’Umbria di Catiuscia Marini è forse la regione oggi più amica del cemento. Basti dire che nel marzo scorso il governo Renzi (non propriamente verde: si ricordi lo Sblocca Italia) ha deciso di impugnare davanti alla Corte Costituzionale il Programma Strategico Territoriale dell’Umbria, che pretenderebbe di sottoporre ab origine il Piano del Paesaggio alle esigenze dello sviluppo, in una specie di condono preventivo tombale. Ma c’è di peggio: la giunta regionale è arrivata a confezionare un dossier di 34 pagine (si trova sul web) per chiedere al ministro Franceschini di rimuovere il soprintendente Stefano Gizzi, colpevole di fare il suo mestiere, cioè di difendere il territorio. Nel dossier si legge che il vincolo del Contado di Porta Eburnea osa imporre - udite udite - prescrizioni «molto dettagliate e restrittive, e di forte impatto sulla pianificazione urbanistica di livello comunale». Un vincolo che vincola: quale oltraggio!
Naturalmente, l’argomento principe della Regione è l’eterna equazione cemento= lavoro. Ed è esemplare che a smentire questa visione insostenibile e suicida dello sviluppo siano stati i lavoratori umbri dell’edilizia, che nel pieno della battaglia per il Contado hanno diffuso un documento in cui dicono che dalla crisi del settore (pesantissima: dal 2009 al 2014 le imprese edili umbre sono scese da 4.548 a 2.838, e le ore lavorate da 20 a 10 milioni) si esce «limitando il consumo di territorio », e invece «puntando al recupero, alla difesa del territorio, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico-culturale, alla riqualificazione urbana, all’efficientamento energetico, alla messa in sicurezza delle scuole e di tutti gli edifici pubblici». Una bella lezione di lungimiranza, concretezza e responsabilità.
La Repubblica, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)
Vista dal cielo, la spianata dell’antica città greca e poi romana di Apamea, lungo il fiume Oronte, sembra un paesaggio lunare, oltre quattrocento ettari su cui sono disseminati decine di crateri. Gli stessi buchi si vedono nelle immagini satellitari nei pressi di Palmira, Deraa, Mari. L’Is procede ormai a un ritmo forzato. Gli scavi illegali dei siti archeologici sono migliaia secondo l’Unesco. Un saccheggio che ha raggiunto ormai un livello “industriale” come ha sottolineato la direttrice dell’organizzazione, Irina Bokova. La regione della Mezzaluna Fertile, così come l’aveva definita l’archeologo americano James Henry Breasted, è una delle zone più ricche di reperti e di Storia al mondo. Sotto terra ci sono stratificazioni millenarie che custodiscono ancora molti tesori.
Trenta giorni sono passati dalla scomparsa di Vincenzo (Cenzi) Cabianca: un urbanista che non ha mai avuto i riconoscimenti che oggi si attribuiscano alle “star”, ma che ha svolto un ruolo di assoluta avanguardia per un aspetto del governo del territorio che oggi ci sembra più che mai decisivo: il rapporto tra organizzazione dello spazio della vita delle persone e preesistenze storiche e naturali. Cabianca ha insegnato ai suoi numerosi studenti che i beni culturali, dal paesaggio ai lasciti della storia più antica, , non sono come isolati da proteggere in una bacheca (né tanto meno spazi residui di un oceano di cemento e asfalto da completare, ma devono essere adoperati come lematrici di un nuovo modo di organizzare l’habitat dell’uomo.
Questo impegno culturale non è stato per Cabianca solo l’espressione di una teoria - di un pensiero - ma la premessa di un’azione da sviluppare e rendere concreta adoperando il mestiere dell’urbanista: un mestiere che ha esercitato non solo negli ambiti delle aule universitarie e degli studi professionali, ma anche nel campo politico e sociale della battaglia culturale. Cabianca è stato infatti vicepresidente dell’Istituto nazionale di urbanistica (INU) in anni decisivi della storia dell’istituto e della politica italiana: nel cuore di quel ventennio della speranza che separa gli anni della ricostruzione postbellica da quelli dell’avvio e dell’affermazione, in Italia e nel mondo, del neoliberismo.
Per ricordare Vincenzo Cabianca pubblichiamo di seguito due testi, che lo ricordano in due significativi momenti del suo contributo: il piano regolatore di Siracusa e la ricostruzione dell’Inu dopo la sua crisi del 1969. L’uno e l’altro sono tratti dai materiali di un convegno organizzato dall’associazione Fratelli Rosselli, di cui alleghiamo la locandina. Per una più completa conoscenza rinviamo al volume Vincenzo Cabianca, Documenti su vent'anni di utopia urbanistica a Siracusa. Tra neoilluminismo e neoromanticismo, curato da Giuseppe Palermo e pubblicato da La casa del nespolo, Roma 2013: qui di potete leggere, su questo sito, l'introduzione di Cabianca al suo libro.
VINCENZO CABIANCA E IL PIANO DI SIRACUSA
di Umberto De Martino
Stralci dalla relazione introduttiva all’incontro organizzato dal Circolo Fratelli Rosselli, Roma
Il Circolo Fratelli Rosselli di Roma ha avviato quest’anno un ciclo di incontri, unificati dal titolo “Dal pensiero all’azione”. […] Oggi abbiamo preso a campione il lavoro di un urbanista, Vincenzo Cabianca, mettendo a confronto il suo pensiero, che gli deriva dalla sua formazione culturale, ed il risultato raggiunto su un particolare campione dove ha operato per decenni, la città di Siracusa e il suo Piano Regolatore.
Va premesso che, se è vero che il prodotto che si ottiene come applicazione di un pensiero originale viene via via modificato dall’operare in un contesto esterno, con altri interlocutori dialoganti e con l’influenza che ne deriva, ciò è ancor più evidente nel caso dell’urbanistica dove il risultato finale, in questo caso l’assetto e lo sviluppo di una città, è frutto della concorrenza di soggetti che in modo più o meno palese interloquiscono intensamente con il progettista: operatori economici, cittadini, politici, e così via.
I nostri “tre eroi”, invece, avevano culturalmente ben assimilato le novità più importanti in campo urbanistico, novità tra le quali primeggiava l’esperienza della pianificazione olandese, e di Amsterdam in particolare, diffusa in Italia da Astengo attraverso la rivista “Urbanistica” (e i cui principi erano stati, peraltro, anche trasferiti nello spirito della legge urbanistica italiana del 1942, poi purtroppo del tutto travisati): piani non più planovolumetrici ma di destinazione d’uso dei suoli, rinvio della realizzazione dei quartieri di espansione a piani esecutivi di iniziativa pubblica da progettare di volta in volta a seconda della necessità, dotazione programmata di servizi pubblici e di aree verdi sia a livello urbano che di quartiere.
Ma, e questo è il particolare più importante, i progettisti si sono trovati ad operare su un territorio di straordinario valore storico-archeologico, valore che l’opinione degli “addetti ai lavori” (proprietari terrieri, tecnici anche pubblici, operatori economici, perfino gran parte dei cittadini) riteneva un intralcio alla modernità dello sviluppo urbano e non una risorsa da esaltare e mettere a frutto. (Peraltro questa è stata una carenza della cultura italiana ancora per molti anni, dove nei piani regolatori – come quello di Roma del 1962 – ci si limitava a coprire i centri storici con una coloritura unitaria, rinviando a successive, ma anche astratte, pianificazioni specifiche: come se i centri storici non fossero parte integrante della città complessiva. Anche qui dovremo aspettare l’esempio progettuale di Astengo per Assisi e le teorizzazioni dell’ANCSA).
Ciò non è stato nel caso del Piano di Siracusa, dove all’assetto dell’espansione si è accompagnato simultaneamente quello della valorizzazione dei beni archeologici e dell’ambiente. Il piano del 1952-’56 nasce così da una cultura moderna, europea di governo dell’assetto urbano e da una specifica sensibilità dei progettisti, e di Cabianca in particolare; sensibilità che lo ha caratterizzato come “tra i primi che hanno dato vita ai Piani Urbanistici basati sul primato dei beni Culturali, sulla salvaguardia e valorizzazione dei Centri Storici, e sull’armatura culturale del territorio”.
Proverò ad illustrare sinteticamente i punti salienti di questo Piano, peraltro ampiamente descritto nel n. 20 (settembre 1956) della rivista Urbanistica.
Espansione di progetto articolata in quartieri da realizzare per iniziativa pubblica, dotati di servizi e circondati dal verde.
Per le zone di espansione veniva decisamente superato il metodo della previsione astrattamente precostituita per singoli lotti edificabili minuziosamente disegnati, utilizzato nella precedente pianificazione. Veniva invece previsto un sistema di aree a destinazione d’uso residenziale con integrato un mix di edilizia sovvenzionata, dimensionate in modo conforme rispetto alla dotazione di servizi necessari per i singoli quartieri, circondato da un sistema di aree verdi, dotato altresì di aree per attrezzature generali e servito tangenzialmente dalla grande viabilità di attraversamento e connessione sovra comunale. Di tali quartieri non veniva prefigurato il sistema edilizio e la loro progettazione attuativa veniva rinviata all’insorgere delle necessità insediative. Oltre alla corretta previsione delle zone di nuova espansione, nel Piano veniva particolarmente curata l’integrazione e la razionalizzazione delle zone residenziali già esistenti al di là dell’Ortigia.
Viabilità comunale di progetto, allontanata dalla costa per salvaguardarne le caratteristiche e ”di margine” rispetto all’Epipoli.
Area industriale unitaria e protesa verso il polo petrolchimico di Augusta.
Salvaguardia delle zone archeologiche (Neapolis, latomie, castello di Eurialo, mura dionigiane); piano della Neapolis non isolato dalla città ma strettamente integrato con la pianificazione della città stessa.
L’intervento progettuale più importante, che ha rappresentato una vera novità in campo urbanistico, è stato mosso da un atteggiamento culturale del tutto innovativo rispetto ai beni archeologici e alle qualità ambientali. Il sistema storico-ambientale, singolarmente rappresentato da elementi di inestimabile valore (Neapolis, Latomie, Castello di Eurialo, Teatro greco, Mura dionigiane, ecc.) è stato affrontato non come salvaguardia di singoli elementi ma come un tutt’uno da affrontare e valorizzare nella sua unità storica. Inoltre la progettazione dei vari elementi componenti il sistema non è stata rinviata a un ipotetico futuro ma è stata ideata e proposta insieme al progetto di Piano Generale come parte integrante se non addirittura principale del Piano urbanistico complessivo.[…]
VINCENZO CABIANCA E L'INU
di Vezio De Lucia
Il XII congresso dell’INU, dedicato a L’iniziativa urbanistica delle regioni, doveva svolgersi a Napoli, nel teatro della mostra d’Oltremare, il 14 e 15 novembre del 1968. L’INU era allora un’associazione molto accademica, che operava come importante snodo fra l’università, le professioni e la pubblica amministrazione, in particolare con la direzione generale dell’Urbanistica del ministero dei Lavori pubblici. Si tenga conto che ancora non erano state istituite le regioni (lo furono nel 1970) e l’urbanistica di tutti i comuni d’Italia faceva capo a Roma.
Il congresso cominciò regolarmente alla presenza delle autorità – ministro, sindaco, vescovo e prefetto – ma fu subito interrotto dalla contestazione, perfettamente organizzata, di studenti di architettura che ricoprirono le pareti con tazebao, poi iniziarono il lancio di rotoli di carta igienica, mentre le autorità cominciavano a svignarsela. Invano Giuseppe Campos Venuti, balzato sul palco, urlando al microfono, cercava di fermare la polizia intervenuta a sgomberare la sala. Si chiuse così una fase della vita dell’Inu, quella caratterizzata dalla prevalenza dei grandi interessi accademici e professionali e dai rapporti sostanzialmente subalterni alle politiche di governo. Ma, al tempo stesso, l’INU godeva allora, nel mondo politico e sulla stampa, di un prestigio indiscusso e mai più recuperato.
I reduci di Napoli s’incontrarono alla fine di maggio dell’anno dopo ad Arezzo, dove si confrontarono due schieramenti: chi, come Bruno Zevi, proponeva di restare legati alla tradizione fondamentalmente culturale dell’Inu e chi, invece, auspicava un ruolo pienamente politico, cercando nuovi interlocutori. Prevalse a maggioranza questa seconda posizione, rappresentata da Vincenzo Cabianca, Edoardo Detti, Marco Romano e Alessandro Tutino che avviarono la costruzione di una proposta politica e culturale radicalmente nuova, spostando l’interesse verso le organizzazione sociali, a cominciare dai sindacati, che proprio in quegli anni erano attivamente presenti nella vita pubblica.
Ad Arezzo fu eletto presidente l’insigne costituzionalista Paolo Barile, vicepresidente Cabianca, che ressero l’istituto per un anno, avviandone la ripresa dopo la contestazione di Napoli. Qualche protagonista della precedente gestione lasciò l’istituto, fra questi Bruno Zevi, che ne era stato prestigioso segretario generale.
L’apertura ufficiale della nuova fase dell’INU fu il convegno di Bologna del 1970. Il tema era Il controllo pubblico del territorio per una politica della casa e dei servizi. Edoardo Detti sostituì alla presidenza Paolo Barile, Cabianca fu confermato alla vicepresidenza fino al congresso di Ariccia del 1972.
Mi limito qui a ricordare soltanto il ruolo da protagonista che Cenzi Cabianca svolse nei primi anni della svolta, nella nuova fase della vita dell’INU di affiancamento ai movimenti di lotta e alle organizzazioni sindacali, in particolare sul problema della casa. L’istituto assunse allora come obiettivo prioritario quello dell’“opposizione culturale”. In un documento del consiglio direttivo nazionale del 1972 si legge che l’INU “rinuncia definitivamente a caratterizzarsi come gruppo di «specialisti in urbanistica» che in quanto tali scelgono di far politica; tende invece e soprattutto a divenire un punto di raccolta di informazione e di attivazione per forze politiche, sindacali e di base (nell’intero arco della sinistra) che intendano dedicarsi ai problemi della città e del territorio e che ricerchino nell’istituto i necessari supporti tecnici e culturali”. Prendemmo le distanze dal mondo accademico e professionale, sostenemmo con puntiglio l’obiettivo che la formazione degli strumenti urbanistici dovesse essere condotta direttamente dagli enti locali, utilizzando le risorse professionali interne, adeguatamente preparate.
Ricordo gli incontri con i sindacalisti che ascoltavano affascinati – non sto esagerando – il parlare colto e forbito di Cenzi. E il suo entusiasmo nell’impadronirsi dei temi giuridici, avendo stabilito un’intesa particolare con Guido Cervati, che abbinava a un’indiscussa competenza in materia di diritto urbanistico, un’insuperata sensibilità sociale che lo induceva a orientare sapientemente le interpretazioni delle norme a favore degli interessi popolari (diritto evolutivo).
Cabianca restò nel CDN fino al 1990 – per ventuno anni – quando per l’INU ebbe inizio l’interminata stagione del revisionismo e del trasformismo con l’abbandono della linea dell’intransigenza e dell’autonomia che Cabianca aveva sempre difeso con determinazione.
Prima di finire, ancora un minuto per denunciare un documento recentemente adottato dalla Giunta Comunale di Siracusa e da sottoporre al Consiglio per la revisione del PRG del 2007. Devo la segnalazione a Giuseppe Palermo, il benemerito studioso che ha curato la pubblicazione del volume su Cabianca che presentiamo oggi.
Si tratta di un testo che ripresenta pedissequamente e integralmente la filosofia, e la nomenclatura dell’urbanistica contrattata di rito ambrosiano e, peggio ancora, del “modello Roma”. Non manca nulla:
· perequazione e compensazione
· nuove centralità
· appositi meccanismi premiali per incentivare l’edilizia sostenibile
· espansioni a bassa densità con il pretesto del turismo e dell’agriturismo
· social housing come cavallo di Troia per nuove edificazioni
· ammissibilità imprecisata di modificazione delle destinazioni d’uso
· sviluppo indiscriminato della viabilità.
Penso che verremmo meno alle ragioni che ci hanno indotto oggi a rendere omaggio all’impegno urbanistico di Cenzi Cabianca per Siracusa se ci astenessimo dalle necessarie azioni di vigilanza, di denuncia e di mobilitazione per evitare che, ancora una volta, a Siracusa prevalgano gli energumeni del cemento armato.
«Baratti, Populonia, Bondeno, Sepino, nomi che non avranno la fama degli Uffizi o di Brera. Eppure in realtà sparse (soprattutto al Sud) sopravvive un modo sorprendente di gestire il patrimonio, un modello vincente». La Repubblica, 26 agosto 2015
Un esempio? Il Parco Archeologico di Baratti e Populonia comprende una delle necropoli più belle del mondo: i tumuli dei signori etruschi di duemilacinquecento anni fa spuntano come grandi funghi verdi sul prato che degrada fino al mare, da cui sorgono le sagome delle isole dell’Arcipelago toscano. Chiude la scena l’acropoli di Populonia, la grande città del vino e del metallo: il ferro che, estratto all’Elba, veniva qua lavorato su scala industriale. Tutto questo non sarebbe accessibile, materialmente ed intellettualmente, senza una delle strutture museali più avanzate e consapevoli dell’Italia di oggi. Trentotto dipendenti — archeologi, restauratori, archivisti, geologi, naturalisti e guide — fanno girare una macchina che comprende anche un Centro di Archeologia Sperimentale capace di fare innamorare adulti e bambini. Tutto è curato nei minimi dettagli: fino agli oggetti che si possono comprare nella libreria, realizzati da artigiani locali in materiali ecocompatibili, fino alla pasta trafilata al bronzo, ricavata da vecchi semi autoctoni di grano recuperati e studiati.
Un parco archeologico sostenibile, con una rigorosa certificazione ambientale: perché l’educazione degli italiani del futuro sia a tutto tondo. E il modello di governance non è meno interessante. La Società Parchi di Val di Cornia è stata costituita nel 1993 per iniziativa dei comuni di Piombino, Campiglia Marittima, San Vincenzo, Suvereto e Sassetta, e di alcuni soci privati. Questi ultimi non puntavano a un profitto diretto, ma alla partecipazione ad un processo di valorizzazione del territorio che avrebbe dato più valore anche alle loro imprese. E, attraverso la gestione dei parcheggi e delle aree litoranee presenti nel suo territorio, la Società ha raggiunto nel 2007 il pareggio di bilancio, con 90.000 presenze all’anno. Più a nord, nel comune ferrarese di Bondeno, è stato il terremoto a favorire un’esperienza unica. A Pilastri è venuto alla luce un villaggio dell’età del Bronzo (una cosiddetta terramara), e si è iniziato uno scavo originalissimo: perché è aperto a tutti, raccontato passo passo sui social e su YouTube, visitato assiduamente da scolaresche che partecipano ai laboratori. Un’operazione così popolare che Comune e Provincia hanno deciso di investire: da lì e da un crowdfunding derivano i fondi per pagare la cooperativa di giovani archeologi e paleozoologi che scavano e organizzano i laboratori. Questa comunità scientifica dichiara di avere «un importante obiettivo sociale, oltre che scientifico, quello di condividere il più possibile l’esperienza di scavo col pubblico, in modo da far sì che il passato rimesso in luce dall’archeologia sia percepito come una realtà attuale e condivisa; come parte integrante di una identità sempre di più collettiva e, al tempo stesso, come nuova potenziale risorsa e prospettiva di sviluppo ». Una filosofia “civile” che, a scavo terminato, potrà ispirare il Museo Archeologico Ferraresi di Stellata di Bondeno, che accoglie già i reperti delle campagne precedenti.
In Molise, invece, è stato un accordo tra ministero per i Beni culturali (che mette a disposizione gratuitamente istituti e luoghi della cultura e spazi per le attività di accoglienza), Regione, Università e Cnr a far sorgere un’associazione di giovani laureati in archeologia e storia dell’arte capaci di “valorizzare”’ (ma nel senso autentico di “far conoscere”)luoghi come lo spettacolare Museo del Paleolitico di Isernia (costruito su uno dei siti preistorici più importanti del mondo, dove è possibile conoscere meglio che in qualunque altro luogo d’Italia la vita dell’uomo circa settecentomila anni fa) o la struggente area archeologica di Sepino.
Me.Mo Cantieri Culturali non dipende da contributi pubblici, ma si è messa sul mercato partecipando a concorsi regionali, nazionali o europei per il finanziamento dei propri progetti: una sorta di impresa popolare della conoscenza, che crea lavoro educando al patrimonio in modo innovativo.
Se, infine, a Catania è finalmente accessibile l’enorme cittadella barocca del Monastero di San Nicola, resa immortale nelle pagine dei Viceré di Federico De Roberto, è merito di Officine Culturali, una cooperativa della conoscenza fondata nel 2009 da alcuni laureati del Dipartimento di scienze umanistiche, che ha sede proprio lì. Questi giovani ricercatori ancora in formazione hanno investito le loro conoscenze, il loro tempo e il loro denaro per raggiungere due obiettivi: far conoscere il Monastero alla comunità (locale e universale) nel modo più accessibile e partecipato (per esempio attraverso un’editoria di qualità e un itinerario impeccabile e avvincente), e creare nuovi posti di lavoro e nuove professionalità. Anche grazie alla stretta collaborazione con il Dipartimento, la Soprintendenza e il Parco Archeologico di Catania, ci sono riusciti: 40mila persone hanno già potuto conoscere un luogo chiave per la storia della città, e lo stesso monumento viene progressivamente recuperato in parti finora chiuse, o degradate.
Se l’amministrazione catanese sarà lungimirante, anche il Castello Ursino e il suo museo potrebbero presto rinascere grazie all’opera di Officine Culturali, ampliando così il raggio di questa piccola economia virtuosa che crea lavoro creando conoscenza.
Si potrebbero citare molti altri casi, radicati soprattutto al Mezzogiorno (in parte analizzati in Sud Innovation. Patrimonio culturale, innovazione sociale, nuova cittadinanza, Franco Angeli editore, a cura di Stefano Consiglio e Agostino Riitano) e molto lontani dai supermusei: perché qua non c’è ombra del monopolio dei concessionari for profit che tengono in mano gli Uffizi o il Colosseo; perché siamo lontanissimi dalle ingerenze del potere politico centrale; perché l’obiettivo non è la spettacolarizzazione, ma l’educazione; il metodo non è la mercificazione, ma la ricerca; il destinatario non è un cliente, ma il cittadino.
Tutte cose belle, direte, ma troppo piccole per avere a che fare con i grandi musei. Sbagliato: nel Parco Archeologico di Baratti lavorano nove archeologi, cioè ben tre in più dei sei che cercano di tenere in piedi l’immenso Museo Archeologico di Napoli. Se vogliamo che i nostri musei non siano depositi di cose vecchie, ma laboratori di futuro, la loro importanza si deve misurare sulla vitalità della comunità che ci lavora. Baratti, Bondeno, Isernia e Catania funzionano perché sono pieni di giovani ricercatori entusiasti: i venti supermusei di cui tutti parlano sono invece ormai scatole vuote, presidiate da pochi anziani funzionari umiliati da decenni di cattiva politica. È questo che dobbiamo cambiare, se vogliamo una rivoluzione vera.
Molti anni dopo Corte del fòntego editore propose a Sandro Roggio e a me di comporre un libro sull’esperienza del piano paesaggistico della Giunta di Renato Soru (Lezione di piano, Venezia, 2013).Nel documentare attraverso una molteplicità di voci il piano e il suo contesto ci sembrava indispensabile inserire una testimonianza di Luigi. Era malato, e ci fu impossibile raggiungerlo se non per telefono. Inserimmo allora nel libro una sua intervista, rilasciata a Filippo Peretti e pubblicata da La Nuova Sardegna il 18 novembre 2002.
La ripresento oggi, perché mi sembra che non solo esprima compiutamente la qualità e le ragioni dell’impegno di Cogodi, ma rechi testimonianza di una persona (un “politico”) e un’epoca che non devono essere dimenticati. (e.s.)
Il Parlamento sta discutendo il recepimento di tre direttive europee ( n. 23/14, 24/14 e 25/14) in materia di appalti e concessioni e quindi sarà rivisto completamente il Codice Appalti del 2006. Il testo contiene una Legge Delega che dà la facoltà al Ministro Delrio di scrivere la norma attuativa che entro i primi mesi del 2006 dovrà diventare legge e rispettare il termine fissato per il recepimento dalle tre Direttive.
Al momento il testo è stato approvato dal Senato ed ora è in discussione alla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati. Contiene senza dubbio molte cose utili ed opportune, come il potenziamento dell’Autorità Anticorruzione, una stretta sulle varianti e la centralità del progetto, la riduzione delle stazioni appaltanti, l’incremento dei poteri di vigilanza pubblici sul contraente generale, un incremento del sistema di messa a gara delle opere delle concessionarie.
Ma vi sono almeno tre punti critici di estrema importanza che meritano di essere segnalati, con la speranza che il testo venga migliorato nel passaggio alla Camera. I tempi ci sono e speriamo anche la volontà politica. Questi punti sono:
1. mancato superamento della Legge Obiettivo:
2. concessioni senza rischio operativo:
3. assenza della Valutazione Ambientale Strategica sulle grandi opere.
1. Mancata indicazione per il superamento della Legge Obiettivo.
Nel testo ci sono diversi riferimenti alle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici di preminente interesse nazionale, ma in nessuno dei casi si parla di superamento della Legge Obiettivo. Va ricordato che la legge Obiettivo 443/2001 è vigente e che gli aspetti procedimentali sono stati inseriti dentro al Codice Appalti 163/2006, con un complesso di norme che va dagli articoli 161 all’art. 194.
Se ne deduce quindi che vi sono indicazioni specifiche sul ruolo e sulle procedure per chi realizza infrastrutture strategiche, ma mai si parla di superamento della legge obiettivo tra i criteri previsti dalla legge delega (nonostante che il Ministro Delrio abbia detto più volte di volerla cancellare).
Quindi il rischio concreto è che se la norma non viene cambiata, quando si tratterà di esercitare la delega non si potrà prevedere il superamento della legge obbiettivo o se lo si vorrà fare ci si esporrà ad un “eccesso di delega” facilmente riscontrabile da chi vuole mantenere in auge la legge obiettivo. E sono sicuramente tanti i nostalgici di una norma definita “criminogena” dal presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone.
Serve quindi introdurre tra gli specifici criteri di delega il superamento della Legge Obiettivo, altrimenti alle belle parole, non seguono mai fatti coerenti.
2. Concessioni senza rischio operativo
Su questo punto il testo del Senato ha assunto le seguenti decisioni:
- Art. 1, lettera zz) si chiede di recepire la direttiva 2014/23/CE in materia di concessioni, con una disciplina organica volta a vincolare la concessione alla piena attuazione del piano finanziario, il rispetto dei tempi per gli investimenti e regolare le modalità di indirizzo in caso di subentro.
- Art. 1, lettera aaa) precede l’obbligo di mettere a gara tutti i lavori superiori a 150.000 euro, con un regime transitorio di 12 mesi. Prevede anche che questo obbligo non si applica per le concessioni che hanno vinto o vinceranno una gara affidate con la formula della finanza di progetto o della concessione affidata con gara.
- Art.1, lettera bbb) obbligo di gare per le concessioni, incluse quelle autostradali, per quelle che scadono tra 24 mesi.
- Art.1, lettera ccc) regime transitorio per le concessioni autostradali già scadute o prossime alla scadenza. Applicazione dell’articolo 17 della Direttiva 23/2014 che prevede che si possa affidare direttamente da una amministrazione o ente aggiudicatore ad una propria società in house un servizio su cui effettuare il controllo analogo.
Questo testo approvato dal Senato ha diversi punti critici tra cui:
- La direttiva 23/2014 stabilisce che per affidare le concessioni di lavori o servizi “comporta il trasferimento di un rischio operativo legato alla gestione dei lavori o dei servizi, comprendente un rischio sul lato della domanda che sul lato dell’offerta o entrambi. La parte del rischio trasferita comporta una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile.” (art. 5 direttiva). Nel testo del ddl proposto dal governo era inserita la parola “rischio operativo” ma nel passaggio al Senato questo è stato eliminato.
- E’ opportuno reintrodurre il concetto di “rischio operativo” anche per meglio definire le procedure per il project financing e per la scelta di un concessionario, di come il rischio debba essere trasferito realmente sul concessionario (come prevede la direttiva) e non assunto come garanzia di ultima istanza dallo Stato come avviene oggi in varie forme (come il valore di subentro, risorse pubbliche dirette, defiscalizzazione, agevolazioni dei pedaggi autostradali)
- L’obbligo di gara per le concessioni che scadono tra 24 mesi esclude l’applicazione verso la Società Autobrennero (già scaduta) e la società Autovie (2017) e forse la Brescia Padova (la concessione è legata alla realizzazione della Valdastico Nord)
- Lo speciale regime transitorio per le concessioni autostradali da prevedere per quelle scadute o vicine alla scadenza, espone al rischio di assicurare le proroghe in modo mirato ed ingiustificato. Questa specifica previsione andrebbe soppressa.
- Diverso è il ragionamento per la previsione prevista effettivamente dalla Direttiva (articolo 17) che consente l’affidamento in house ad una propria società pubblica di cui si ha il controllo analogo ( e che sia senza soci privati), come nel caso di AutoBrennero ed Autovie. A cui quindi sarà possibile sulla base delle regole europee affidare una nuova concessione diretta da parte dell’Autorità pubblica, ma inserendo alcune precauzioni per evitare distorsioni. E’ opportuno precisare nella delega questi criteri di affidamento in house:
a) Per la Direttiva le concessioni sono quinquennali a meno che investimenti non giustifichino in modo motivato periodi più lunghi.
b) Tutti i lavori e l’acquisto di servizi realizzati dalla concessionaria pubblica debbono essere sottoposti a gara.
c) Nel caso di AutoBrennero la concessionaria ha vinto insieme a soggetti privati la realizzazione di tre nuove tratte autostradali sottoposte a gara in project financing (Cispadana, Campogalliano-Sassuolo e Ferrara-Mare). Deve risultare evidente che la nuova concessione affidata direttamente alla società madre in house non deve coprire e sussidiare in alcun modo gli impegni assunti con il bando di gara e relativo contratto di queste tre opere, dove il rischio operativo deve restare a carico delle tre concessioni specifiche. Altrimenti si configurerebbe una distorsione della concorrenza a posteriori rispetto agli altri concorrenti risultati perdenti alle tre gare.
3. Assenza della valutazione ambientale strategica sulle grandi opere.
Vi è un argomento connesso alla Legge Obiettivo ed al codice appalti e che riguarda la lista delle opere della Legge Obiettivo, ma che è bene chiarire.
Il Ministro Delrio presentando l’Allegato Infrastrutture al DEF, dove sono state inserite 25 opere (sostanzialmente quelle più mature sul piano della realizzazione e dei progetti) ha indicato la necessità di una selezione definitiva delle opere sulla base dell’applicazione del Decreto Legislativo n. 228 del 2011. Si tratta di un Documento Pluriennale di Pianificazione (DPP) che dovrà rendere coerente tutti i piani ed i programmi di investimento, sulla base dei piani settoriali e che nel DEF si dice sarà presentato a settembre 2015.
Manca completamente, sia nel documento che nelle parole ed audizioni del Ministro Delrio, un riferimento alla necessità di selezionare le opere sulla base anche di una Valutazione Ambientale Strategica, che invece è un criterio irrinunciabile e sostenibile di selezione.
Va ricordato che tutta la lista delle opere della legge obiettivo non è stata mai sottoposta a VAS, sia perché nel 2001 la Direttiva non era vigente e poi perché di lista e non di piano si trattava. Anche quando nel 2006 è entrata in vigore la direttiva VAS in Italia non è stata mai applicata alla selezione delle opere infrastrutturali nei trasporti (la tesi era che erano già decise ed approvate....) ed è giunto il momento di farlo.
23 luglio 2015
In molte regioni per concorrere all’assegnazione di una casa popolare è necessaria un’anzianità di residenza. Non è un criterio efficace per riequilibrare il rapporto fra italiani ed extracomunitari assegnatari. Ma potrebbe essere usato come premio, rivedendo il sistema di punteggi e graduatorie». Lavoce.info, 21 luglio 2015 (m.p.r.)
Case popolari: se l’anzianità di residenza vale un premio
D’ora in avanti per concorrere all’assegnazione di una casa popolare in Emilia-Romagna sarà necessaria un’anzianità di residenza nella regione di almeno tre anni. È una condizione già introdotta (anche con un numero di anni maggiore) in altre regioni, nel tentativo di contenere lo squilibrio, a favore degli immigrati extracomunitari, nella concessione degli alloggi pubblici in affitto.
Non si può, invece, scommettere sull’efficacia, nel riequilibrare il rapporto extracomunitari/italiani nell’assegnazione delle case popolari, della condizione (che sembra valere per tutti gli immigrati) dei tre anni di residenza introdotta dalla Regione Emilia-Romagna. L’effetto immediato della nuova norma sarà la riduzione del numero di immigrati che potrà concorrere ai bandi. Poiché il numero di alloggi da assegnare è generalmente un piccolo sottomultiplo del fabbisogno, si ridurranno anche le liste di attesa, ma non la tensione abitativa.
Un premio all’anzianità
Anche la riduzione di quest’ultimo numero potrebbe non essere rilevante. In passato, ho svolto delle elaborazioni sulle circa 800 famiglie in lista d’attesa per l’assegnazione delle case popolari in un medio comune emiliano che attribuiva un punteggio all’anzianità di residenza. Gli extracomunitari erano il 40 per cento del totale dei nuclei in graduatoria, mentre quelli residenti nel comune da meno di tre anni erano il 9 per cento; quest’ultima percentuale non arrivava all’1,5 per cento considerando solo le prime trecento posizioni della graduatoria e raddoppiava se l’anzianità di residenza anziché a tre fosse stata portata a cinque anni. Restringendo ulteriormente l’analisi alle prime cento posizioni, che sono quelle che danno a chi le occupa le maggiori probabilità di ottenere una casa, per contare i casi in questioni sarebbero state più che sufficienti le dita di una mano.
«Al di là della meritoria fornitura di dati e servizi, quale sarà l’utilizzo politico-amministrativo che la Regione e gli istituti correlati intenderanno fare di questa risorsa? Il quesito è d’obbligo per diverse ragioni». 15 luglio 2015
Salvo minori aggiustamenti e test di affidabilità, la Regione del Veneto ha concluso l’aggiornamento della Banca Dati della Copertura del Suolo regionale al 2012 (CCS_2012). E’ significativamente migliorato il dispositivo geometrico e tematico della versione del 2007, ma sono soprattutto aumentate le possibilità di aggiornamento ‘aperto’ e a costi unitari inferiori. Non va sottovalutata la possibilità d’uso di dati ancillari in grado di qualificare i ‘poligoni di copertura’ e la prevedibile stesura di regole tecniche utili anche per altre Amministrazioni Regionali. CCS opera alla scala 1:10.000 con classificazione del territorio in 174 classi, in linea con la nomenclatura del progetto europeo ‘Land Cover’ (CORINE). Alla legenda di Classe 1 (urbanizzato) sono state aggiunte ulteriori 27 classi con miglioramento del dettaglio tematico, mentre le classi relative all’uso del suolo agricolo non registrano novità significative. Questo divario fra classificazione dell’urbanizzato e del non urbanizzato viene considerato un limite dagli stessi responsabili regionali, limite che dovrebbe essere superato in futuro acquisendo informazioni sulle modalità di copertura e sugli usi del suolo agricolo. L’aggiornamento è avvenuto con approfondimento tematico della CCS_2007 in riferimento ai ‘territori modellati artificialmente’ e con l’interpretazione a video delle ortofoto digitali a colori AGEA (2012). Si tratta di una risorsa preziosa e bisogna riconoscere il lavoro svolto negli ultimi 2 anni dalla Direzione della Sezione Pianificazione Territoriale Strategica e Cartografia. Ma al di là della meritoria fornitura di dati e servizi, quale sarà l’utilizzo politico-amministrativo che la Regione e gli istituti correlati intenderanno fare di questa risorsa? Il quesito è d’obbligo per diverse ragioni. Ne commentiamo alcune.
La prima riguarda le trasformazioni dello spazio fisico monitorabili a partire dalla copertura. Una serie temporale consente l’aggiornamento del quadro conoscitivo sulle morfologie di copertura urbane, rurali e miste tenendo conto della geografia regionale. Questo aggiornamento può aiutare a capire come i pattern di copertura derivino da diversi modelli di consumo di suolo e come questi reagiscano a fenomeni congiunturali e strutturali. Sono queste reazioni che determinano i cosiddetti ‘cicli territoriali’ utili per la pianificazione d’area vasta (come il Ptrc e sue varianti), ma anche a fini di programmazione della spesa regionale, nazionale e comunitaria. Uno stesso pattern di copertura può ‘nascondere’ infatti diversi modelli di uso del suolo, orientati alla integrazione di funzioni, alla riqualificazione del dismesso in zone ‘urbanizzate’ oppure alla ‘dismissione’ agricola mediante colture specializzate ed ‘energivore’, che trasformano la campagna in ‘residuo’ o in una vera e propria pattumiera. Com’è noto, questi modelli sono influenzati da comportamenti finanziari, economici, sociali e amministrativi di tipo locale e non locale che condizionano le analisi a loro favore. Se così non fosse, le inefficaci rappresentazioni degli ambienti insediativi o della SAU verrebbero abbandonate, così come l’utilizzo di termini come gerarchia urbana, policentrismo, gradiente fra compatto e diffuso e così via. La strumentalizzazione delle analisi condiziona il quadro di riferimento non solo della pianificazione d’area vasta, ma anche di quella locale. Il tema può essere approfondito spostandosi verso il consumo di suolo.
Se la copertura va interpretata tenendo conto della affidabilità ‘statistica’ dei poligoni di copertura (ovvero sulla base della loro capacità di ‘avvicinarsi’ ad una realtà percepibile, accogliendo anche informazioni spaziali ancillari, fornite da altre fonti), il passo successivo non può che riguardare la configurazione dei modelli di uso del suolo. Sono questi che danno senso alle analisi sul consumo di suolo, altrimenti prive di riferimento e vittime designate di indicatori semplicistici e fuorvianti tipo ‘ettari di SAU consumata pro-capite’ o ‘variazione in ettari di superficie ad urbanizzazione diffusa pro-capite’. Molti indicatori rappresentano ‘relazioni spurie’, ovvero attribuiscono un effetto parzialmente attribuibile (al numeratore) ad una causa (non esclusiva) al denominatore. Indicatori di questo tipo, oltre ad essere parzialmente consistenti, nascondono con la loro formulazione aggregata responsabilità, diseguaglianze e ingiustizie distributive. Non solo. I dati consentono di testare ipotesi più impegnative e raccogliere evidenze. Ne basti una in proposito.
Qualche anno fa, in una ricerca affidata dalla Regione del Veneto all’Università Iuav di Venezia, si è cercato di verificare se, quanto e dove la pianificazione urbanistica, quindi i piani approvati dai Comuni, contribuissero all’edificazione del suolo e al suo consumo irreversibile. I risultati furono sconfortanti, pur essendo agli inizi del regime della Legge 11/2004. Ma se l’indagine venisse riproposta oggi, utilizzando CCS_2012 emergerebbero evidenze e responsabilità ancor più gravi: un consumo di suolo sempre più selettivo (agisce sui terreni di maggior valore) e aggressivo nonostante le dichiarazioni di principio; una sostanziale indipendenza dell’attività edilizia rispetto alle dinamiche demografiche (queste misurate sulle famiglie piuttosto che sugli individui); una sua concentrazione in aree sensibili e un allungamento dei tempi di recovery delle esposizioni finanziarie. Quest’ultimo aspetto ha contribuito a ridurre il ruolo anticiclico del Piano casa nelle sue varie edizioni. Ma l’aspetto più drammatico è dovuto alla separazione fra pianificazione strutturale e operativa, in particolare a quello che potremmo chiamare ‘paradosso valutativo’.
Considerazione a parte merita la mobilità. E’ interessante notare come le variazioni di copertura registrate nel periodo 2007-12 abbiano intensificato il grafo stradale, migliorando l‘accessibilità nelle nuove aree servite, ma scaricando i flussi delle nuove partizioni sul sistema principale. I grandi progetti infrastrutturali (Pedemontana Veneta, prolungamento della PiRuBi verso sud e probabilmente anche verso il Trentino, circonvallazione di Mestre, gasdotti, ecc.) rispondono solo in parte al problema in quanto ostili a queste considerazioni territoriali.
Va detto che un grafo stradale aggiornato, descritto secondo le indicazioni del Codice della Strada e opportunamente caricato con i dati sui flussi ottenuti con le nuove tecnologie di osservazione della terra, consente di valutare le variazioni d’accesso ai luoghi, fenomeni di congestione dovute alle nuove funzioni o ai grandi progetti infrastrutturali, la stessa variazione delle geografie localizzative che tanto interessano il mercato immobiliare. Un esercizio interessante potrebbe riguardare la valutazione di una o più ipotesi ‘logistiche’ in termini di accessibilità ai cluster produttivi, con la creazione di punti di interscambio ferro-gomma di rango variabile.
Gli esempi potrebbero continuare, ma è evidente che la nuova Banca Dati proprio perché aumenta il potenziale conoscitivo e pianificatorio rischia di allargare il divario fra tecnica e politica e rendere più gravi le responsabilità politiche in materia di pianificazione e gestione del territorio.
Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2015
I senatori che ci hanno lavorato la descrivono come “uno schiaffo” al governo. Peccato contenga anche diverse carezze ai signori del cemento, soprattutto quelli che si arricchiscono, con pochi rischi, a spese dello Stato.
Ieri il Senato ha dato via libera a larga maggioranza (Sel e M5S si sono astenuti) alla legge delega sul nuovo codice degli appalti (passerà alla Camera). Il testo dovrebbe chiudere una certa stagione, quella degli scandali tipo Mose e delle cricche delle grandi opere, aprendo alla trasparenza, alle gare pubbliche etc. In parte le premesse sono mantenute, in buona parte no. Ieri a Palazzo Madama i senatori esultavano per aver “modificato in toto il testo del governo, che era un obbrobrio”. Poi però è arrivato anche un emendamento a firma dei relatori Stefano Esposito (Pd) e Lionello Marco Pagnoncelli (fittiano ex Fi) che sposta il baricentro a favore dei privati, e nell'iter sono rimaste alcune delle grandi anomalie che in Italia moltiplicano i costi delle grandi opere.
Andiamo con ordine. L’emendamento esclude i titolari di concessioni “in essere e future” affidate con la formula della finanza di progetto (il project financing) dall’obbligo di fare una gara pubblica per affidare “tutti i contratti di lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni”, cosa che invece dovrà valere per tutti gli altri.
Ieri, il testo è stato riscritto esonerando anche le concessioni affidate con bandi di gara sul modello europeo, ma solo quelle già “in essere” (e non quelle future): tutto per evitare il ricorso di un colosso come Toto, che ha costruito così la sua Autostrada dei parchi. “Le critiche a questo emendamento non stanno in piedi – spiega Esposito al Fatto – perché a essere escluse dall’obbligo di gara sono solo le manutenzioni, non la costruzione dell'opera: un giro d'affari di soli 1,5 miliardi sugli 8,5 delle concessioni”. “Non è affatto così – spiega invece Ivan Cicconi, direttore dell’Istituto per la trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale, e grande esperto in materia – le manutenzioni rientrano nei ‘contratti di servizi’, mentre quelli dei ‘lavori’ comprendono assolutamente anche la costruzione dell'opera: è incredibile che l'abbiano scritto in questo modo”. Un esempio di come vengono fatte le leggi: toccherà ai decreti delegati – una volta approvata la legge delega – chiarire il pasticcio (o peggiorarlo).
Al project financing si sono appassionati anche Comuni e Regioni e funziona così: lo Stato non ha i soldi per realizzare un'opera, ci pensa allora il privato che verrà poi ripagato con la concessione di sfruttamento (o un canone d'affitto). Fin qui tutto bene. Solo che di norma questo non avviene quasi mai, vuoi perché spesso i prestiti ottenuti dal privato sono garantiti dallo Stato (è il caso dell'autostrada Brebemi, controllata da Intesa, coop rosse e dal costruttore Pizzarotti), vuoi perché al concessionario viene garantita una remunerazione, in caso le cose vadano male, molto generosa. “In questo modo le concessioni affidate con il project financing diventeranno sempre più convenienti – spiega Cicconi – e la beffa è che sono quelle su cui lo Stato ha meno voce in capitolo”. Come si aggiudica un’opera in project financing?
Il privato presenta un progetto, sulla base del quale l'Ente pubblico avvia una gara, e se la vince un altro riceve almeno un indennizzo. Peccato però che nel 90% dei casi chi presenta il progetto vince la procedura. “Una non gara”, per Cicconi: “Se il progetto lo scrive il pubblico, tu privato che vinci l’appalto puoi anche affidare a chi vuoi i lavori. Se invece lo scrivi tu, come nella ‘finanza di progetto’, dovresti essere obbligato a fare lavori con gara. La delega invece stabilisce il contrario”.
In pratica non verrebbe sanato il sistema che solo apparentemente fa finanziare le grandi opere dai privati, ma alla fine paga comunque lo Stato. Il project financing ce lo siamo inventati noi, non esiste nelle direttive europee. Nel ‘94 la legge Merloni, obbedendo alle indicazioni dell’Ue, stabilì che i contratti di concessione andavano remunerati con il “diritto allo sfruttamento”, accompagnato eventualmente da “un prezzo”, cioè un contributo dello Stato, che però non poteva superare il 50% dell'investimento. Nel 2002, la legge obiettivo del governo Berlusconi ha soppresso il limite: il prezzo può arrivare anche al 100%. “Così il rischio di mercato si azzera, quindi avrebbe più senso che ci fosse più attenzione sugli appalti”, continua Cicconi.
La delega abolisce poi l’articolo 5 dello Sblocca Italia, che permetteva la proroga delle concessioni senza gara, e resta anche la figura del general contractor, altra figura tutta italiana illuminata dall’inchiesta grandi opere: una specie di concessionario anomalo, che prende in appalto i lavori ma che viene remunerato non con il diritto di sfruttamento dell’opera ma con denaro, e quindi non ha interesse a contenere i costi. Il neoministro dei Lavori Graziano Delrio aveva invece promesso di abolirlo.
Mi piace ricordare, come ho fatto altre volte, un’affermazione di Cederna della fine del 1964, contenuta in uno scritto per Il Mondo, poi riprodotto per volontà dello stesso Cederna, in Brandelli d'Italia, nel 1991. Scriveva Cederna, invocando la definizione di una "nuova legge urbanistica", ed auspicandola prossima, che essa avrebbe dovuto "garantire un'effettiva tutela dei centri storici e dei comprensori naturali", segnando "la fine, finalmente, della sporadica, occasionale, tardiva e fallita politica dei vincoli apposti dal Ministero dell'Istruzione: la tutela dell'ambiente urbano e naturale viene finalmente inclusa nella pianificazione, ne diventa una sua parte integrante e essenziale, centri storici e paesaggio e complessi naturali, da semplici apparenze che erano, diventano destinazioni di zona, con funzioni previste, nell'ambito di tutti gli sviluppi urbanistici".
È bensì previsto l'esercizio di poteri statali che, seppure censurando l'improprietà delle formulazioni di legge, la Corte costituzionale ha stabilito possano interpretarsi come “sostitutivi”, nella formazione dei "piani paesistici", in caso di inadempienza regionale. Ma l'esercizio di tali poteri può conseguire soltanto dalla totale inattività regionale, ovvero, con qualche forzatura, da un adempimento regionale che sia, incontrovertibilmente, “elusivo” dell'obbligo posto in capo alle Regioni, cioè tale da non rispondere affatto alla finalità di tutela, se non da contraddirle. In altri termini, la concorrenza dei poteri non è definita nella forma piena dell'obbligo dell'intesa, tra i poteri medesimi, sui concreti contenuti dei previsti strumenti di pianificazione. Di fatto, ad oltre tredici anni dall'entrata in vigore della legge, delle regioni a "statuto ordinario", sei non hanno adempiuto affatto, due hanno adempiuto in termini assolutamente “elusivi”, cinque in termini parziali, lacunosi, comunque assai discutibili, e soltanto due in termini pieni. Lo Stato ha esercitato i poteri sostitutivi soltanto nei riguardi di una delle regionali totalmente inadempienti.
Sette anni fa ci ha lasciati Gigi Scano. È stata una perdita grave, per ciascuno dei suoi amici e per eddyburg. eddyburg ha perso un collaboratore prezioso per l'intelligente attenzione con cui informava e orientava sistematicamente non solo sulle questioni de jure relative all'urbanistica, ma anche sui più rilevanti eventi della cultura e della politica.
Le sue scelte e i suoi commenti (e cosí i consigli che generosamente offriva a chiunque glieli chiedesse) erano sempre, dichiaratamente, di parte: era un giacobino, un uomo per il quale, secondo l’aurea definizione di Lucio Villari, "il buon governo consiste nella soggezione dell'interesse privato a quello pubblico". La politica, nel significato più alto di quel termine oggi tanto sputtanato, era il suo humus. Forse non a caso scomparve quando la politica cominciava a diventare cosa radicalmente diversa, e anzi antitetica, rispetto a quella che lui aveva conosciuto e praticato. Sempre in ombra, sempre al servizio degli altri.
Luigi Scano ha lasciato una grandissima eredità di scritti, suoi e altrui, e di documenti. L’insieme delle carte e dei materiali digitali è stato raccolto dai suoi amici. Non aveva una casa di sua proprietà (Gigi è morto povero, come aveva vissuto) nel quale si potesse custodirlo. Il materiale cartaceo è stato ospitato prima in un locale del Comune di Venezia, grazie a Enzo Castelli, oggi a Villa Hériot, sede dell’Istituto veneziano per la storia della Resistenza, grazie al suo direttore Marco Borghi.
Crediamo che il lascito di Gigi sia un patrimonio prezioso, la cui conoscenza potrebbe aiutare oggi tutte le persone di buona volontà che volessero attingervi. Per conto nostro cominceremo col riprendere dal nostro archivio digitale, o da testi ancora cartacei scanditi per l’occasione, alcuni scritti che ci sembrano ancor oggi di grande attualità.
Ci piacerebbe festeggiare, fra tre anni, il decimo anniversario della sua morte con l’avvio di un lavoro più sistematico sul patrimonio che ci ha lasciato. Ma è un’impresa per la quale eddyburg non ha neppure le risorse per cominciare. Per ora, vi ricordiamo che alcuni scritti di Gigi sono raggiungibili nel vecchio archivio di eddyburg e altri via via ne inseriremo, nelle cartelle “Scritti di Gigi Scano” e “Per la sua Venezia”, mentre altri materiali raccolti alla sua scomparsa sono riuniti in altre cartelle qui.
La Repubblica, 15 febbraio 2015
Un regalo ai concessionari, l’ennesimo. Un danno agli utenti. C’è una partita da cinque miliardi di euro all’anno che si sta giocando in queste ore in Italia: la gestione delle autostrade. Una partita che ruota attorno a un articolo del decreto Sblocca Italia, il numero cinque, e che vede da una parte il Governo e dall’altra il presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, il quale ha già scritto una lettera al ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, e domani sarà ascoltato in commissione Ambiente alla Camera. «Se non si cambia quella norma - sostiene Cantone - si rischia che vengano affidate concessioni senza alcun tipo di procedura ad evidenza pubblica, in violazione, tra l’altro, dei principi di concorrenza ed economicità ».
Stesso discorso vale per gli investimenti. La nuova legge lega la possibilità di unificare, e dunque prorogare le concessioni, al «potenziamento e adeguamento strutturale, tecnologico e ambientale delle infrastrutture». Ma in realtà questo è previsto già nei contratti in vigore, dunque le società che vogliono ampliare le corsie di una tratta, ad esempio, ne hanno già facoltà. E hanno pure un altro vantaggio: se gli scade il contratto e non sono ancora rientrati dell’investimento, sarà chi subentra a saldare il conto.
A Cantone, ha già risposto nei giorni scorsi il ministro Lupi, il quale difende le scelte del governo sostenendo che «le modifiche del rapporto concessorio sono subordinate alla realizzazione di investimenti, essenziali per la sicurezza e l’adeguamento tecnologico della rete, altrimenti privi di copertura finanziaria. Se non lo facessimo potremmo arrivare a un inasprimento delle tariffe». Ma all’Anticorruzione, che sta vagliando tutti i 25 contratti delle autostrade italiane, non ne sono convinti.
Il manifesto, 28 gennaio 2015
La prima edizione del saggio di Lefebvre è del 1970, ma fu presto archiviato perché ritenuto un manoscritto incompleto. Da alcuni anni, però, il geografo David Harvey ha attinto a Il diritto alla città come una miniera di suggestioni per analizzare il ruolo della metropoli come un hub delle dinamiche economiche e sociali della contemporaneità. Ha dunque fatto bene la casa editrice ombre corte a ripubblicarlo, corredandolo di una utile prefazione di Anna Casaglia, che inquadra storicamente il saggio del filosofo francese (Il diritto alla città, pp. 138, euro 14).
I monumenti del potere
Il funzionalismo rappresentava per Lefebvre un macigno che impediva un’adeguata analisi della città, anche se invitava comunque a prendere ciò che di buono avevano prodotto gli emuli europei di Parson: l’idea cioè che la città è la forma del vivere associato che meglio di altre consente a definire il luogo, meglio i luoghi della produzione della ricchezza. È su questo crinale che Lefebvre usa una famosa frase di Marx laddove scriveva che se il mulino sta al capitalismo mercantile, la macchina al vapore sta al capitalismo industriale. Lefebvre la evoca per sintetizzare la successione delle diverse forme di città che hanno accompagnato lo sviluppo economico. Così la città orientale è connaturata al modo di produzione asiatico, mentre la città antica è funzionale all’economia schiavistica, così come la città medievale ha potuto imporsi solo in presenza del feudalesimo.
Al di là di questa tassonomia, tanto la città orientale che quella medievale erano i luoghi dove re, imperatori, aristocratici e mercanti ostentavano il loro potere e status. La città è immaginata come un’opera che rispecchi una concezione dominante delle relazioni e gerarchie sociali. Ma in quanto «opera», non può rimanere indifferente al divenire storico e sociale. Deve cioè mutare. La città, dopo il Rinanscimento, diventa così il luogo dove il reale deve manifestare una intima coerenza, un’armonia monumentale che occulti la dimensione sociale, conflittuale che è insita a questa forma del vivere. Una coerenza del reale che non verrà mai raggiunta. I monumenti, le opere architettoniche, i dipinti e disegni rinascimentali sono cioè da considerare la rappresentazione iconografica di una città ideale che non è mai esistita, né che esisterà mai.
Nel diritto alla città ci sono pagine piene di sarcastica critica di tutte le metafore «naturalistiche» della città (il tessuto urbano, l’habitat urbano), segnalando che la nostalgia per un passato mitico sulla città rappresenta l’incapacità del potere costituito di prospettare una riconciliazione della società urbana con il territorio. E se per la maggioranza della popolazione diviene è al tempo stesso il luogo di un possibile riscatto da una condizione di indigenza e povertà e lo spazio dove i legami sociali primari - la famiglia, la parentela, persino le corporazioni - sono stravolti dallo ormai inarrestabile sviluppo capitalistico, per gli urbanisti è lo spazio dove immaginare una riconciliazione tra l’«ordine prossimo» (le relazioni sociali determinate dal regime della proprietà privata) e l’«ordine remoto» (lo stato). Per questo, secondo Lefebvre, gli urbanisti sono gli ideologi per eccellenza del capitalismo, perché con i loro progetti e interventi fanno sì che la città diventi la «mediazione delle mediazioni», cioè lo spazio dove il potere costituito ha la sua legittimazione.
L’impossibile sintesi
Non sembri però una nota stonata che in questo piccolo, ma denso saggio non compaiano mai riferimenti ai filosofi, sociologi che tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento hanno scritto pagine importantissime sulla città. Georg Simmel è infatti ignorato, così come il Walter Benjamin della Parigi capitale del XX secolo. E nulla viene detto sulle riflessioni di un modernista convinto come lo statunitense Lewis Munford. Un solo passaggio liquidatorio è dedicato a Le Courbusier, ritenuto un funzionalista che ambisce a diventare l’«uomo di sintesi» di quella che viene ironicamente chiamata la società urbana. L’obiettivo di Lefebvre, infatti, non attiene allo svelamento di come si è formata la metropoli, bensì di registrare un’altra «grande trasformazione» in corso tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento. Il progetto razionalista di riportare ordine nelle metropoli è stato sconfitto da un’alleanza tra urbanisti, amministratori e immobiliaristi tesa a trasformare la città in una «infrastruttura» del governo politico della società e della produzione di merci. La metropoli non è cioè un luogo passivo che riflette ciò che avviene nel mondo della produzione, ma è il contesto dove l’urbano interviene direttamente nella produzione.
Il diritto alla città auspicato da Lefebvre è così un antidoto a una totalità dove produzione, consumo e circolazione della merci sono ormai tre momenti non distinti, ma complementari l’uno all’altro nel tempo e nello spazio. Per questo la città diventa a tutti gli effetti il luogo del desiderio, dei bisogni sociali, della dimensione ludica, trasgressiva inerente i rapporti sociali, ma anche lo spazio dove il potere punta ad esercitare una funzione di controllo a distanza attraverso incentivi alla produzione di segni che rispecchino sì la dimensione multiforme dei rapporti sociali, ma per piegarla alla riproduzione dei rapporti sociali.
Può sembrare un’ironia della storia, ma Lefebvre scrive del conflitto sempre più evidente tra un 99 per cento della popolazione e un 1 per cento che si appropria di tutta la ricchezza prodotta. Lo scrive due anni dopo che nel quartiere latino di Parigi oltre a bruciare le automobili è stato archiviato il sogno razionalista di una città ordinata e facilmente controllabile attraverso le forze preposte all’ordine pubblico. Ma all’orizzonte non c’era nessun Occupy Wall Street, né movimento sociale teso alla riappropriazione dello spazio urbano trasformato in un atelier produttivo. Lefebvre annota solamente che la totalità costituita dalla città ha bisogno di strumenti sofisticati per essere destrutturata. La filosofia e la sociologia, certo, ma anche la linguistica, l’antropologia, la teoria dell’informazione. Le ultime pagine del libro indicano solo un programma di lavoro che Lefebvre continuò a svolgere, intersecandolo con altri libri anche’essi assenti da molti anni nelle librerie, come la monumentale critica della vita quotidiana e l’altrettanto ambizioso studio sullo Stato.
Le comunità recintate
Il diritto alla città potrebbe essere dunque considerato un libro anticipatore di quanto sarebbe accaduto una manciata di anni dopo la sua pubblicazione. Da allora molto cemento è passato sotto i ponti. Le metropoli sono diventate un atelier produttivo che ingloba il territorio all’interno di un processo che vede la compresenza di finanza, produzione e cooperazione sociale, dove la città deve continuare ad essere la mediazione delle mediazioni.
I nuovi comunardi
Si deve però a David Harvey la ripresa delle tesi di Henri Lefebvre. Anzi si può dire che il filosofo francese ha funzionato come un invisibile filo rosso che tiene insieme l’analisi critica del capitalismo svolta da Harvey sul capitalismo del nuovo millennio, laddove individua nella città il luogo dove l’intreccio ormai inestricabile tra finanza e produzione sono funzionali a un uso capitalistico del territorio.
Un grande evento politico e culturale – di quelli che i nostri media normalmente ignorano per incompetenza e superficialità – rischia di passare inosservato ...>>>
Occorre dire, innanzi tutto, che il Piano rovescia la cultura territoriale che dal dopoguerra a oggi ha caratterizzato l'uso degli habitat della Puglia e dell'intero Mezzogiorno. Nel più nobile dei casi l'intervento pianificato ha visto nel territorio il neutro supporto per una industrializzazione importata dall' esterno, attraverso poli e nuclei di sviluppo, ma soprattutto la risorsa da consumare con fameliche e disordinate espansioni urbane. Un esito reso possibile dall'assenza di una cultura storica municipale, dalla pressione di forze economiche esterne, dai caratteri e dalle culture dell'imprenditoria locale ispirate a un «diffuso anarco-abusivismo privato», come si legge nel testo, accompagnato tuttavia anche da un «anarco-governo pubblico». Le istituzione pubbliche non sono state da meno nel rendere il territorio un contenitore vuoto da riempire con qualunque manufatto incarnasse un incremento economico.
Occorre, dunque, protendere uno sguardo lungo verso il futuro. Tutto il presente del capitalismo mostra una incontenibile tendenza: produrre sempre più merci con sempre meno valore. Avanza a scala mondiale una produzione standardizzata di beni sempre più vasta. Non è un caso che scompaiano i lavori e le professioni sostituibili con procedimenti automatizzati. Perciò il valore dei beni tende a rifugiarsi in ciò che non è standardizzabile, industrialmente riproducibile. Il nostro paesaggio, i nostri monumenti, la nostra storia, non sono replicabili, ma custodiscono una fonte inesauribile di valore. E non rappresentano delle nicchie, come amano dire riduttivamente gli sviluppisti: al contrario sono la nostra Arca, beni incontendibili dell'avvenire. Certo la Puglia, come qualsiasi altra realtà regionale e locale è un avamposto limitato. Nessuno può fermare la storia mondiale che avanza. Ma questa si può subirla, accettando gli interessi dominanti, soggiacendo alla sua furia omologatrice, o affrontarla da protagonisti, con progettualità, filtrandola e adattandola alla nostra storia originale, arricchendola dei nostri caratteri, contribuendo a valorizzare e a rafforzare, con una rete mondiale di alleati, gli elementi di emancipazione cosmopolita che essa pur sempre contiene.
L'articolo è stato contemporaneamente inviato al manifesto.
Carteinregola, 22 gennaio 2015
Il 10 gennaio 2015 è scaduto il termine per impugnare davanti alla Corte Costituzionale la legge 166/2014, la conversione del decreto “Sblocca Italia”. L’hanno fatto solo 6 Regioni su 20: Abruzzo, Campania, Lombardia, Marche, Puglia e Veneto. Gli articoli impugnati sono soprattutto il 37 e il 38 , che, secondo le associazioni ambientaliste permettono di autorizzare una nuova ondata di trivellazioni petrolifere con irrilevanti benefici economici e sociali ed elevati pericoli ambientali per aree di pregio naturalistico e paesaggistico, sulla terraferma e nel mare. Ma le impugnazioni si basano soprattutto sull’ipotesi che la legge violi le competenze amministrative e legislative delle Regioni stabilite dal Titolo V della Costituzione.
Colpisce soprattutto che, con l’eccezione della Puglia e delle Marche, le Regioni che hanno impugnato la legge sono a guida centrodestra: la Campania , la Lombardia, l’Abruzzo, il Veneto. E assai significativa è invece la latitanza delle altre Regioni a guida centrosinistra (non osiamo più dire “rosse”, piuttosto ci teniamo la ripetizione), a partire proprio dall’illuminata Toscana, che ha da poco varato una avanzatissima Legge urbanistica – impugnata dal Governo perchè troppo restrittiva sui nuovi centri commerciali in aree rurali – e da cui ci saremmo aspettati una maggiore attenzione sia rispetto alla tutela dell’ambiente, sia rispetto alla difesa delle prerogative regionali nel governo del territorio. Sulla stessa linea “non interventista”, nonostante le sollecitazioni, anche da parte di molti sindaci, le altre Regioni come il Piemonte, la Liguria, la Sardegna, il Lazio. Anche se la posizione di quest’ultima non ci sorprende molto, dopo che abbiamo avuto modo di constatare quale sia la sua “linea” con il Piano Casa Polverini-Zingaretti, che abbiamo battezzato “Sblocca Lazio”.
In ogni caso questa è un’amara lezione, che conferma quanto ormai l’appartenenza al centrodestra o al centrosinistra non sia più ancorata ad alcuna diversità di prospettiva e di intenzioni, soprattutto dal punto di vista della tutela del territorio e del patrimonio collettivo, dato che – Piano Casa Zingaretti/Polverini docet – le posizioni dipendono solo dal ruolo momentaneamente interpretato dalla tal forza politica, se quello di governo o quello di opposizione. Un gioco delle parti, con la costante della produzione a ciclo continuo di leggi che favoriscono la speculazione, distruggono l’ambiente e comprimono l’esercizio democratico e le prerogative costituzionali. Mentre i cittadini che hanno a cuore l’interesse generale restano sempre più soli.
Ma bloccare una legge che tutela terra e suolo non è solo una violazione del territorio e dei suoi caratteri peculiari. È una violazione del tessuto democratico: Roma eccede i limiti della sua giurisdizione e sovverte i diritti della Regione garantiti dalla Costituzione. È una violazione dell’economia locale e regionale basata sulla qualità, non sulle “merci-spazzatura” commerciate globalmente che distruggono l’occupazione nelle produzioni locali. È una violazione profonda della bellezza che è stata coltivata per secoli e che continua ad essere coltivata con la 65/2014; il mondo viene in Toscana non per i suoi malls, ma per la cura che è stata dedicata alla terra e al paesaggio.
Il suolo è la vita e ne è alla base, ma la civiltà industriale lo ha seppellito sia nelle menti che nel mondo reale, poiché è basata sull’arroganza dell’indipendenza dalla natura, e sull’illusione che a maggiore conquista, dominio e distruzione della natura corrisponda maggiore “sviluppo”. L’anno del Suolo costituisce, per l’Umanità, l’occasione per correggere i danni di cinque secoli di pensiero coloniale sul suolo extra-europeo come terra nullius, e di un centinaio di anni di agricoltura industriale basata su fertilizzanti chimici che distruggono suolo e società, espellendo le popolazioni rurali dalla terra e deportandole negli slums.
È necessario un nuovo patto col pianeta e col suolo. Un patto che riconosca che noi siamo il suolo, che proveniamo dal suolo, che da esso siamo nutriti. Questa è la nuova rinascita, è la consapevolezza che il suolo è vivo e che prendersene cura è il lavoro più importante svolto dai contadini. Dalla cura del pianeta, obbiettivo primario, discende il cibo buono e nutriente, da suoli sani. Quando sarà riconosciuto il ruolo fondamentale dei contadini nella salute umana e nella fertilità dei suoli, l’agricoltura cesserà di essere terra di conquista da parte di industrializzazione e urbanizzazione. I contadini, remunerati per il loro ruolo ecologico e sociale, rimarranno sulla terra e non si trasferiranno come profughi nelle aree urbane. Un nuovo equilibrio tra città e campagna scaturirà dal nuovo patto con il suolo.
Vandana Shiva è tra i fondatori dell’Internationale Forum on Globalisation; Ilaria Agostini insegna urbanistica all’Università di Bologna
eddyburg riprendo un intervento che scrissi per un'iniziativa dell'Università di Reggio Calabria, e fu pubblicato sul numero monografico della rivista trimestrale del Laboratorio Cinema-Città dedicato a Francesco Rosi. In calce una scheda e l’audio della scena principale del film. |
E’ facile dire che Le mani sulla città è una lezione di urbanistica. Lo è in modo così evidente!
Certo, non è una lezione sulla tecnica dell’urbanistica, non spiega la cultura del piano regolatore né il procedimento della sua formazione, non affronta il tema delle analisi né quello del disegno del piano, non svela gli arcani della disciplina. E’ una lezione che molti professori d’oggi criticherebbero senza perdere troppo tempo nelle argomentazioni.
Ma è una lezione essenziale: perché racconta la sostanza del piano. Svela “di che lagrime grondi e di che sangue” il tentativo, che nella pianificazione perennemente si compie, di “temprare lo scettro ai reggitori”, di ridurre il peso dei padroni della città, di far sì che la città non sia una macchina per accumulare ricchezze private di un pugno di proprietari immobiliari, ma la casa di una società di uomini, donne, bambini.
E dimostra come il piano urbanistico sia il risultato di una scelta politica. Non a caso, il protagonista del film, l’antagonista dello speculatore Nottola (splendidamente interpretato da Rod Steiger), è il consigliere comunale comunista che, esprimendo i bisogni e gli interessi, magari inconsapevoli, dei cittadini si oppone all’intreccio, sempre perverso, tra la proprietà immobiliare e i governanti servizievoli verso i poteri economici forti.
È una lezione anche per oggi. E fa riflettere il fatto che il protagonista, l’eroe positivo del film, Rosi lo abbia potuto scegliere in una persona che ha svolto nella realtà il medesimo ruolo che svolge sullo schermo. Era un comunista del PCI, Carlo Fermariello. È stato facile allora, per Rosi, scegliere come attore un uomo che poteva essere assunto a simbolo: non solo per la sua persona, ma per la forza politica che rappresentava. E ripensare al film di Rosi fa nascere il desiderio di ricordare e ringraziare, per la realtà che quel film esprime, il Partito comunista italiano di quegli anni.
Molti anni sono passati. Grazie anche agli uomini e ai partiti che allora combattevano contro chi metteva “le mani sulla città” oggi le cose sono un po’ migliori. Ma è segno dei tempi che oggi non ci siano forze politiche come quelle che allora si adoperavano per un’urbanistica riformata e, nel frattempo, là dove potevano amministrare, applicavano le regole del buongoverno.
Venezia, 8 novembre 2003
Appendice
dal sito www.filosofia.unina.it
La questione meridionale è un argomento che affonda le sue radici nella storia del paese, ma è anche una materia profondamente attuale dal cui nucleo continuano a sorgere nuove e vecchie problematiche. Per il progetto è stato selezionato uno spezzone audio tratto da "le mani sulla città", come esempio cinematografico in cui la realtà del meridione viene rappresentata nella sua integrità, senza mistificazioni.
"I personaggi e i fatti sono immaginari, autentica è invece la realtà che li produce". Con questa didascalia (che accompagna le immagini iniziali del film) la sapiente regia di F.Rosi ci introduce nella Napoli della fine degli anni '50 descrivendo, sullo sfondo di una città da ricostruire, le vicende immaginarie ma verosimili di un consigliere comunale di ideologia comunista (De Vita) e di uno spietato impresario edile (Nottola), in lizza per diventare assessore e bramoso di grandi speculazioni.
L'ambientazione riproduce il clima di quegli anni, le tensioni e le lotte politiche tra una classe dirigente, irrimediabilmente compromessa con il potere economico, i cui interessi sono in contrasto con il bene pubblico, e l'opposizione, animata da passione politica e civile, la quale denuncia i crimini compiuti ai danni della collettività.
Nello spezzone selezionato abbiamo l'incontro-scontro tra le due figure centrali del film, il cui pensiero e la cui individualità vengono obiettivamente colte dalla camera. Da una parte, abbiamo il costruttore Nottola che, sullo sfondo di una città ridotta in macerie, vanta l'ambizione di un ammodernamento della città e dice che costruire nuovi palazzi porterà una speranza alle persone che vivono in condizioni di indigenza e miseria, ma in realtà nasconde solo la brama di successo e ricchezza personali. Dall'altra, abbiamo la figura del consigliere De Vita che si staglia nella sua purezza, sullo sfondo di una candida parete bianca e lancia il suo grido di condanna contro l'ipocrisia di Nottola e di chi come lui rappresenta la parte marcia della politica e auspica l'avvento di un cambiamento rigeneratore per le sorti della città.
Audio
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Scheda tecnica del film:
Francesco Rosi "Le mani sulla città" (Italia, 1963, b/n - 105')
Sceneggiatura: F. Rosi, R. La Capria, Enzo Provenzale, ed E. Forcella.
Con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo d'Alessandro, Carlo Fermariello, Marcello Cannavale
Tratto da http://www.filosofia.unina.it/corsoperf/corsoperf01/qmfad/QPol_eco/lemani.html
«L’osservazione dal punto di vista femminile della città è capace di sovvertire il disegno razionalista dell’urbanistica del ’900 perché è basata sull’esperienza quotidiana, fatta di vita di quartiere e di spostamenti con mezzi pubblici o a piedi». Milleniumurbano.it, 23 ottobre 2013
Phyllis non rispose a quella lettera e non intraprese una carriera da urbanista, anche se ebbe un’esperienza professionale nella Commissione Urbanistica della città di Filadelfia. Lo scorso giugno, dopo 52 anni, la giornalista decise di pubblicare quella lettera sul suo giornale, insieme alla risposta che mai ebbe il coraggio di scrivere, con la quale denuncia quanto la discriminazione subita abbia pesato sulle sue scelte professionali.
Nello stesso anno in cui il progetto di Phyllis Richman di diventare un urbanista veniva così pesantemente frustrato, un’altra giornalista, Jane Jacobs, pubblicava il suo libro più famoso, The Death and Life of Great American Cities, che ha impresso un cambiamento epocale al modo d’interpretare il funzionamento delle città. Jacobs ha dimostrato con il proprio attivismo contro i grandi progetti di trasformazione urbana promossi da Robert Moses, che l’osservazione dal punto di vista femminile della città è capace di sovvertire il disegno razionalista dell’urbanistica del ’900 perché è basata sull’esperienza quotidiana, fatta di vita di quartiere e di spostamenti con mezzi pubblici o a piedi. Visione esattamente opposta a quella del deus ex machina dei lavori pubblici funzionali alla costruzione della città-macchina che separa i flussi in circuiti chiusi e gerarchizzati, dall’auto al pedone. Malgrado sia passato mezzo secolo dalla pubblicazione del libro di Jacobs, tradotto in italiano nel 1969 con il titolo Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, il punto di vista di genere nella pianificazione urbana è ancora ampiamente ignorato ed è assai probabile che gran parte di coloro che lo hanno letto non abbia affatto colto la precisa relazione che esiste tra la donna che l’ha scritto e le argomentazioni che vi sono sviluppate.
Nello scenario di predominanza culturale del modello della città razionale, pensata per il maschio adulto, lavoratore ed automunito, s’inserisce controcorrente l’esperienza di Vienna, dove a partire dagli anni ’90 più di sessanta progetti pilota nel campo della pianificazione urbana sono stati attuati secondo i principi del gender mainstreaming, ovvero l’orientamento alle questioni di genere delle politiche urbane.
Eva Kail, un’esperta di questioni di genere presso il nucleo cittadino di pianificazione urbana, intervistata da The Atlantic Cities, ha chiarito che l’approccio adottato da lei e dal suo gruppo si basa essenzialmente sull’osservazione dell’uso dello spazio pubblico, di chi lo stilizza e per quali scopi. Da questa analisi discende l’individuazione di cosa interessa e serve ai differenti gruppi di cittadini sotto forma di indirizzi alla pianificazione urbana. L’esperienza di Kail inizia nel 1991 con la mostra fotografica “Di chi è lo spazio pubblico – La vita quotidiana delle donne nella città”, che mise in evidenza come i differenti tracciati delle donne nello spazio urbano abbiano in comune la stessa richiesta di sicurezza e facilità di movimento. La mostra ebbe un gran numero di visitatori e notevole risalto mediatico, così i politici locali decisero di far proprio l’approccio di genere nelle politiche urbane. Il primo progetto realizzato fu un complesso di appartamenti, progettato da e per le donne nel ventunesimo distretto della città, chiamato Women-Work-City. All’interno del complesso, situato in prossimità del trasporto pubblico, si trovano aree verdi per il gioco dei bambini, un asilo, una farmacia ed uno studio medico. Il tutto aveva l’obiettivo di rendere più facile la vita delle donne divisa tra lavoro e funzioni di cura.
L’idea di realizzare insediamenti di edilizia residenziale dotati di servizi non è certo nuova e discende dalla tradizione del socialismo utopistico, vecchia di due secoli, che ha via via prodotto una serie di falansteri urbani pensati per comunità di lavoratori. In questo caso l’aspetto innovativo del progetto riguarda la trasmigrazione dal contesto edilizio a quello urbano dell’approccio basato sulla centralità dei bisogni degli utenti. Lo sviluppo successivo ha riguardato la progettazione delle aree verdi, i cui usi diversi secondo il genere erano stati registrati in particolare tra la popolazione giovanile. Nel 1999 i pianificatori urbani hanno riprogettato due parchi del quinto distretto della città con l’intento di allargare il numero ed il tipo di frequentatori, avendo precedentemente registrato che le ragazze erano meno propense ad utilizzare gli spazi verdi poiché spesso scoraggiate dall’invadenza maschile. Sono stati introdotti sentieri per migliorare l’accessibilità e aree per attività sportive che incrementassero l’utenza, così come accorgimenti progettuali del verde intesi a suddividere gli ampi spazi aperti. Il cambiamento non tardò a produrre risultati e, senza che scaturissero conflitti, differenti gruppi di ragazze e ragazzi cominciarono a frequentare i parchi.
Dello stesso anno è il progetto finalizzato a rendere più accessibile il trasporto pubblico e migliori e più sicuri i percorsi pedonali secondo le necessità espresse dalle donne. Il progetto discende dalle rilevazioni fatte a seguito di un’inchiesta rivolta a tutta la popolazione del nono distretto e relativa alle modalità ed alle ragioni degli spostamenti. Mentre la maggioranza degli uomini aveva dichiarato di utilizzare l’auto o il trasporto pubblico due volte al giorno per il tragitto casa-lavoro, le donne avevano messo in evidenza la molteplicità delle ragioni di spostamento, legate soprattutto al ruolo di cura di bambini ed anziani che è ancora loro prerogativa. Furono realizzati marciapiedi più spaziosi e meglio illuminati e infrastrutture che facilitassero l’accesso alle intersezioni del trasporto pubblico, dove anche chi spinge un passeggino o una sedia a rotelle possa raggiungere ed utilizzare facilmente i mezzi in transito.
Malgrado i limiti emersi, l’approccio alla pianificazione urbana utilizzato da Kail e dal suo gruppo ha lasciato un segno sulla capitale austriaca e si sta ora evolvendo verso il tentativo più ampio di cambiare la struttura ed il tessuto della città, così che i differenti gruppi di cittadini vi possano convivere senza conflitti. Si tratta di un visione politica della pianificazione della città, afferma Kail, con la quale si cerca di portare nello spazio urbano persone delle quali prima non si riconosceva l’esistenza o che si sentivano prive del diritto di esistere.
Ma vi è un altro aspetto dell’esperienza del gruppo di pianificatrici urbane viennesi che vale la pena di sottolineare ed è la dimostrazione che solo le donne, e non solo quelle professionalmente coinvolte nei processi di trasformazione delle città come nel caso di Jane Jacobs, possono farsi carico del compito di rappresentare gli interessi del genere a cui appartengono.
«La parola “urbanistica” cercava uno sbocco nell’immaginario collettivo, e per distinguersi dalle due componenti che l’avevano preceduta, abituate a poca pubblicità fuori dagli uffici dove si decideva tutto, si affidò agli architetti progettisti». Cittaconquistatrice.it, 28 dicembre 2014 (m.p.r.)
C’erano una volta due mondi distinti, che solo politica e necessità riuscivano a mettere insieme. Uno era fatto soprattutto di disegni, grandi tavole di schizzi o dettagli tecnici, singoli edifici, strade, e non mancavano neppure, e tratteggiare un quadro di insieme, le vedute a volo d’uccello di interi quartieri completi di alberature, piazze e viali monumentali. L’altro era assai più asettico: tabelle di numeri e brevi pagine di spiegazioni, che riguardavano sia i numeri che il modo per leggerli. Quei due mondi distinti si sovrapponevano l’uno all’altro per trasformarsi in realtà, quando abbastanza casualmente si intrecciavano le risorse e la volontà per farlo. Si scopriva però via via che c’erano parecchi vantaggi non solo a rendere più regolare nel tempo quell’incrocio, ma a governarlo in fasi prevedibili già a partire dalla prima concezione. Nacque più o meno così verso la fine del XIX secolo quella che poi divenne nota come urbanistica, nelle varie interpretazioni nazionali delle leggi e delle culture tecnico-amministrative.
Nascosti dietro le parole ci sono i fatti
Come tutte le innovazioni, anche la nuova parola “urbanistica” cercava uno sbocco nell’immaginario collettivo, e per distinguersi dalle due componenti che l’avevano preceduta, abituate di solito a poco pubblicità fuori dagli uffici dove si decideva tutto, si affidò mani e piedi a una delle sue componenti: gli architetti progettisti. Che nel giro di una ventina d’anni scarsi con la loro quasi miracolosa capacità comunicativa, attraverso le riviste specializzate, le mostre mutuate da quelle classiche d’arte, e altre iniziative, riuscirono a imporre al pubblico questa nuova idea di città, territorio, strategie di sviluppo spaziali. Riuscirono però anche a costruirsi a propria immagine e somiglianza un’idea piuttosto sbilanciata, di urbanistica e di territorio, in cui il loro tipo di progetto prevalentemente edilizio occupava quasi tutto, e il loro ruolo nelle decisioni anche. Intendiamoci: non è che il progetto di architettura, dei quartieri, del landscape, delle forme dello spazio pubblico, non fosse centrale, ma esistevano pur sempre tantissime altre componenti, magari meno immediate da comunicare al pubblico, ma altrettanto essenziali. Spesso anche da questo tipo di squilibrio, comunicativo e decisionale, nasceva la confusione di ruoli, o la sottovalutazione di alcuni aspetti, che spesso nel periodo del secondo ‘900 ha condotto al degrado certe zone, per esempio quando erano costruite senza ascoltare i consigli dei sociologi, o degli ambientalisti, o di altre discipline pure importanti tanto quanto gli architetti.
La greenbelt non è un progetto
Mi sono tornate in mente queste considerazioni, quando sulla rete hanno cominciato a girare alcuni post e commenti relativi a Metrobosco, una specie di progetto coordinato di trasformazione delle zone periurbane metropolitane. Tanti di quei commenti facevano una gran confusione, dicendo più o meno: “ah, che bella idea questa, della tutela delle fasce verdi attorno alla città, ci vuole proprio, la greenbelt”. E dimostravano di essere cascati in pieno nel vecchio equivoco che in modo un po’ partigiano confonde il piano col progetto, e qui mescola inopinatamente particolari e contestuali idee di trasformazione, con strategie di pianificazione territoriale e conservazione.
Il Fatto Quotidiano,18 dicembre 2014
Per loro, se il provvedimento sarà approvato, l’Italia rischia di andare «definitivamente allo scatafascio». Perché dopo i disastri provocati dalle alluvioni degli ultimi mesi gli occhi sono puntati su una cementificazione a cui, nella sostanza, verrebbe così spianata definitivamente la strada. Prende forza dall’università di Firenze la critica degli urbanisti al disegno di legge Lupi in materia di governo del territorio, che ha l’ambizione di modificare le norme risalenti al 1942. Un gruppo di 45 docenti, tra cui Maria Cristina Gibelli, Edoardo Salzano, Alberto Asor Rosa e Roberto Camagni, ha sottoscritto un documento di dura critica.
Gli esperti del dipartimento di architettura dell’Università lo hanno definito «inemendabile», decidendo di non partecipare neanche alla consultazione online lanciata dal ministro delle infrastrutture: «Malgrado le numerose prese di posizione critiche da parte di istituzioni come Italia Nostra, Legambiente, Fai, ecc, la discussione è stata scarsa – spiegano – solo cancellandolo si può ripartire da una proposta seria». Di recente era stato anche il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi a esprimere più di una perplessità: «Non mi convince perché continua a consentire edificazioni su lottizzazioni che devono essere tutelate, su aree che devono essere invece conservate. Quindi, dal mio punto di vista chiedo che venga modificato». Il nodo è che il ddl «conferisce al privato la possibilità di presentare la lottizzazione al Comune e di co-pianificare con l’ente pubblico. Sarebbe una disgrazia».
E sulle stesse linee si muove la critica degli urbanisti che nel loro documento smontano pezzo per pezzo il provvedimento inserito nel pacchetto di riforme del governo Renzi, presentato a luglio e di cui si attende la calendarizzazione nelle commissioni parlamentari. «Da un lato il governo annuncia lo stanziamento di 7 miliardi di euro per far fronte all’emergenza idrogeologica, dall’altro si agisce legiferando in senso opposto», spiega il professor Marco Massa, docente di urbanistica, che a dicembre ha organizzato due seminari per presentare nel dettaglio le critiche sui temi del rapporto fra pubblico e privato e dell’emergenza ambientale.
Per i professori dunque, accanto al ddl Lupi, questi stanziamenti sono l’ennesima toppa destinata a scollarsi presto, perché «il ddl non affronta in alcun modo i problemi reali del governo del territorio vistosamente testimoniati dai disastri ambientali». Nel dettaglio, secondo i promotori delle due iniziative, il ddl Lupi «propone la cancellazione, di fatto, della potestà pubblica in materia di pianificazione del territorio, istituzionalizzando la contrattazione con i proprietari fondiari di ogni scelta in materia». Un rapporto pubblico/privato che andrebbe così a sbilanciarsi ancora di più verso i privati, come in nessun altro paese europeo accade. In secondo piano finirebbe la funzione sociale e il governo del territorio sarebbe costituito dalla «sommatoria delle proposte immobiliari private», favorendo di fatto l’imprenditoria edilizia.
Secondo i firmatari del documento, inoltre, il ddl Lupi «azzera il ruolo dei Comuni» e «non si preoccupa di coordinarsi con le altre leggi vigenti», col risultato «di produrre contenziosi e mettere in difficoltà non solo gli enti pubblici territoriali ma anche i privati stessi che pretende di favorire». La semplificazione di cui c’è tanto bisogno per sburocratizzare l’Italia, insomma, è tutta un’altra cosa. «Il ministro Lupi ha aperto sul testo una consultazione pubblica online prorogata dal 15 agosto al 15 settembre – sottolinea la professoressa Maria Cristina Gibelli del Politecnico di Milano, che ha partecipato al primo dei due seminari organizzati a Firenze – Sul sito del ministero dicono che siano arrivate oltre cento osservazioni, peccato che queste non siano visibili. Scelte politiche che andavano sostanzialmente nella stessa direzione Lupi le aveva promosse da assessore al Comune di Milano, mentre nel 2005, da deputato del centrodestra, avanzò una proposta di legge simile, che naufragò solo per lo strappo di Fini da Berlusconi». Su sito Eddyburg una petizione per fermare il disegno di legge Lupi ha già raccolto oltre 500 adesioni, e quello di circa 60 gruppi e associazioni. Il logo, neanche a farlo apposta, è un lupo cattivo.
Su eddyburgvi ricordiamo il nostro lAppello No alla legge Lupi e i documenti di critica che ci sembra più interessante richiamare ai nostri lettori: Città amica: Una lettera degli architetti sul DDL Lupi; DIDA (Dipartimento di architettura, Università degli Studi di Firenze): lex Lupi, un incredibile passo indietro; Legambiente: critiche e domande, ma adesione "a un percorso innovativo"; La posizione dell'INU sulla nuova proposta di legge urbanistica di Maurizio Lupi: Sapevamo già da che parte sta l’INU; Sergio Lironi: Un contributo alla discussione di una legge devastante; Sergio Brenna: La proposta di Lupi è ispirata a una vera furia iconoclasta
Il superamento dell’idea di territorio come supporto inerte, o tabula rasa, assunto precipuo dell’urbanistica meccanicista, risulta finalmente compiuto. L’attribuzione di valore culturale all’ambiente rurale, ipotesi che costituisce lo scatto in avanti dell’approccio “territorialista”, è assicurata dalla definizione di «patrimonio territoriale» quale «insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future» (art. 3). Il cambio di paradigma promosso dalla legge è contenuto proprio nel passaggio dai concetti economicisti di “risorsa” e “prestazione territoriale” (impiegati nella passata legislazione) a quello di patrimonio territoriale, di matrice ecologista. Il richiamo alla «promozione» e alla «garanzia di riproduzione del patrimonio», inteso come bene comune territoriale, conferisce un’accezione genetico-evolutiva ai futuri atti di pianificazione.
L’articolato di legge conferma la bipartizione del piano regolatore comunale in parte statutario-strategica e parte operativa, ossia in «piano strutturale» e «piano operativo». Quest’ultimo, in sostituzione del vecchio regolamento urbanistico, disciplina l’attività urbanistica ed edilizia ed ha valenza conformativa dell’uso del suolo. Il piano strutturale contiene invece lo «statuto del territorio» da costruire con la partecipazione dei cittadini in quanto «atto di riconoscimento identitario mediante il quale la comunità locale riconosce il proprio patrimonio territoriale e ne individua le regole di tutela, riproduzione e trasformazione» (art. 6). All’interno del piano strutturale sono individuate quindi le strategie di disciplina e di trasformazione, tra le quali spicca l’innovativa perimetrazione delle aree urbanizzate, che merita di essere qui approfondita.
Si tratta in effetti di una “linea rossa” tracciata tra città e campagna (l’espressione è di Vezio De Lucia), che definisce con perentorietà il territorio urbanizzato, costituito «dai centri storici, le aree edificate con continuità dei lotti a destinazione residenziale, industriale e artigianale, commerciale, direzionale, di servizio, turistico-ricettiva, le attrezzature e i servizi, i parchi urbani, gli impianti tecnologici, i lotti e gli spazi inedificati interclusi dotati di opere di urbanizzazione primaria» (art. 4). A partire dall’entrata in vigore della legge, ogni nuova edificazione residenziale al di là della linea rossa – cioè sui terreni agricoli e fertili – sarà interdetta. Oltre tale linea, nuovi progetti per edifici produttivi e per grandi strutture di vendita costituiranno oggetto di verifica di conformità alle previsioni del PIT (piano di indirizzo territoriale) da parte di una «conferenza di copianificazione» nella quale il parere sfavorevole della Regione è vincolante (art. 25, c. 6). Resta valido comunque il principio che «nuovi impegni di suolo a fini insediativi o infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti».
Tuttavia, questo nuovo capitolo dell’urbanistica regionale toscana è oscurato dall’ombra lunga delle politiche governative e rischia di esserne travolto. Il progetto di legge Lupi (presentato nel luglio scorso) e la riforma, approvata in Senato, dell’art. 117 della Costituzione (che conferisce potestà esclusiva in materia urbanistica allo stato, ora invece concorrente tra stato e regioni) sono indirizzati all’indebolimento degli spazi democratici nel governo del territorio.
«Mentre noi combattiamo per salvare ogni singolo metro quadro di verde, un pezzo del nostro Dna, la Regione sta studiando un’inutile bretella da Vigevano a Malpensa da 200 milioni che distruggerebbe tutto il nostro lavoro passando in mezzo al territorio comunale». La Repubblica, 18 novembre 2014 (m.p.r.)
Cassinetta di Lugagnano (Milano). Superficie: 3,32 chilometri quadrati. Posizione: 45°25’27’’ Nord, 8°54’31’’ Est. Sulla mappa dell’Italia martoriata da alluvioni e frane dove ogni secondo (dati Ispra) spariscono 8 metri quadri di verde, c’è un fazzoletto di terra che — come il villaggio di Asterix in Gallia — resiste all’assedio della speculazione e alla sirena del Bancomat degli oneri di urbanizzazione: Cassinetta di Lugagnano, il primo Comune del Belpaese a consumo di suolo zero. Un borgo con 1.900 abitanti sulle acque limpide del Naviglio Grande, a una trentina di km. da Milano, dove dal 2007 il cemento è off-limits (o quasi) e dove è vietato cambiare la destinazione d’uso dei terreni da agricoli a edificabili. «Con il risultato che da allora — garantisce al bancone del bar della cooperativa locale Angelo Trezzi, simpaticissimo pensionato e volontario della Croce Azzurra — la qualità della vita è migliorata per tutti».
Ci si propone così di istituzionalizzare e rendere permanente ciò che nel decreto Sblocca Italia viene presentato come necessità emergenziale e contingente di fronte alla crisi economico-produttiva, soprattutto evidente nel settore edilizio-immobiliare e delle grandi opere.
In qualche modo si tenderebbe, cioè, ad applicare alla pianificazione di città e territorio ciò che in campo sociale si intende fare col mercato del lavoro: ogni contratto è un caso individuale a sé, senza regole di indirizzo generale.
L’esito del “libero” confronto negoziale tra proprietà fondiario-immobiliare e amministrazioni locali negli anni Cinquanta-Sessanta ebbe, come è noto, esiti caotici nello sviluppo urbano e territoriale dell’intero Paese in quegli anni (e di molto di questo esito paghiamo ancora oggi le conseguenze in termini di eccessive densità edificatorie e scarsità di dotazione di spazi pubblici nelle realizzazioni di quegli anni), sinché, dopo il clamoroso episodio della frana di Agrigento del 1966 (200.000 mc. malamente accatastati sul versante di una collina franosa antistante i templi della Magna Grecia), anche le forze politiche più restìe a porre limiti al “libero” contrattualismo tra proprietà fondiario-immobiliare ed enti locali dovettero riconoscere che quel compito non poteva essere adempiuto senza regole pubbliche di indirizzo generale (come già aveva riconosciuto un regime non certo contrario alla valorizzazione immobiliare come quello fascista con la legge del 1942, anche se la definizione di limiti edificatori e dotazioni pubbliche vi veniva demandato ad una cultura tecnico-professionale che negli anni del “boom” edilizio successivi al dopoguerra si rivelerà del tutto impari al compito affidatole).
C’è solo da sperare che non occorra un episodio altrettanto clamoroso quanto la frana del 1966 (magari, questa volta, non tanto e solo di tipo edilizio, ma ecologico-insediativo ed ambientale come quelli di Sarno, di Giampilieri, del Veneto, del Campidano, recentissimamente il Gargano e che tuttavia sembrano non aver sortito altrettanto effetto sull’atteggiamento di Governo e Parlamento) per rendersi conto della strada su cui ci si tornerebbe a mettere procedendo vinculis solutis dalle disposizioni normative in uso per i PRG).
Il venir meno di una dotazione minima di spazi pubblici garantita a livello nazionale (18 mq/abitante, aumentata a 24-28 mq/abitante da gran parte delle legislazioni regionali susseguitesi tra il 1975 (Lombardia) e il 1999 (Basilicata) farebbe venir meno quel minimo di garanzia, potendo dare origine a corse “al ribasso” con finalità di concorrenzialità economica tra territori e a danno della qualità insediativa. Per quanto la crisi economica morda ferocemente sembra difficile credere che regioni come Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia che amano paragonarsi per reddito e qualità della vita alle regioni europee più sviluppate non ritengano più garantibile ai propri cittadini ciò che si riteneva perseguibile negli anni Settanta e nell’intero Paese ciò che riteneva proponibile nel 1968.
A questa logica iper-liberista occorre saper contrapporre con forza e consapevolmente e da sinistra un disegno organico di ripresa riformatrice che superi le contraddizioni procedurali lasciate aperte dalle conquiste degli anni '70-'80 e dilatate a dismisura dalla stagione di deregulation dagli anni '90 in poi.
Mantenere un minimo di dotazione di spazi pubblici garantito a livello nazionale; vincolare gli oneri di urbanizzazione e le monetizzazioni di aree pubbliche non cedute dai privati alla effettiva realizzazione degli scopi cui sono destinate, anziché a tamponare le spese correnti nei bilanci comunali; destinare il già esistente contributo commisurato al costo di costruzione (4-6% del costo medio di costruzione) a incentivazione dell'uso di energie rinnovabili e del risparmio energetico, anziché gravare come riduzione degli oneri urbanizzativi; mettere a carico delle grandi trasformazioni urbane i 15 mq/abitante per parchi pubblici urbani e territoriali (oggi in gran parte inattuati, benché disegnati nei Piani regolatori, e spesso all'origine delle disastrose ipotesi di compensazioni edificatorie perequative); articolare gli strumenti pianificatori tra fase strategica di lungo periodo, da approvarsi e modificarsi con larghe maggioranze qualificate, e fasi attuative quinquennali, condotte anche in maniera semplificata dalle maggioranze di legislatura, ma all'interno dei limiti della pianificazione strategica di lungo periodo.
In questo modo le esigenze di alleggerimento degli oneri finanziari e snellimento procedurale dei vincoli che gravano su enti pubblici locali ed imprese potrebbero essere affrontate senza ledere il compito di tutela degli interessi generali della collettività e delle cittadinanze.