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Il manifesto, 12 novembre 2015, con postilla

«Una delle cose da cambiare, nel nostro paese, è la pianificazione delle città e del territorio. Il paesaggio delle grandi città, dei centri minori, delle campagne, delle coste, fotografa le storture di questo mezzo secolo di democrazia imperfetta». Così scriveva Leonardo Benevolo in L’Italia da costruire venti anni fa mettendo in esplicita relazione la questione territoriale e la questione politica.
Ambiente e società sono state l’uno il riflesso dell’altro, un negativo e un positivo, un unicum indivisibile e se si guarda al passato è facile vedere le corrispondenze tra la progettualità politica e i cambiamenti territoriali e, di conseguenza, anche gli incastri tra le debolezze culturali e istituzionali di un sistema Paese e il degrado del paesaggio. Una inversione di rotta nel governo del territorio deve partire da una critica delle dinamiche sempre meno democratiche della politica in generale e delle logiche, che entro questa linea, dettano oggi lo sviluppo economico e infrastrutturale dell’Italia e le norme edilizie.
Un determinato territorio è il frutto di un lungo processo di costruzione sociale, politica, culturale, ambientale; è una realtà al contempo umana e naturale complessa e stratificata su cui le piogge torrenziali e quelle figurate dei finanziamenti pubblici possono molto poco, forse nulla. La decostruzione di un equilibrio ambientale ha tempi lunghi e radici profonde, così come un possibile risanamento richiederà decenni ma soprattutto sarà vincolato a un cambiamento della cultura di noi cittadini e delle nostre classi dirigenti.
L’emergenza c’è. Le città di Genova e Benevento, la Calabria ionica e il Cadore, giusto per citare alcuni luoghi, nell’ultimo anno ce la hanno riproposta. Ogni volta sembra che l’emergenza cresca, che si possa avere un’urgenza maggiore nell’emergenza stessa. Ma le alluvioni di Sarno e Quindici del 1998 non bastavano? L’emergenza c’è e alcuni provvedimenti possono rispondere a essa, alcuni passi in avanti possono essere fatti ma annunciare il risanamento territoriale entro il 2020 è demagogico e strumentale. È un annuncio vuoto che sostituisce e allontana gli annunci pieni.
Inizio dall’annuncio vuoto. Il Governo l’11 novembre scorso ha presentato il primo stralcio del Piano nazionale 2015–2020 per la prevenzione strutturale contro il dissesto idrogeologico e per la manutenzione ordinaria del territorio. Oltre un miliardo di euro per 69 interventi per la sicurezza nelle dieci città metropolitane e in altre città delle regioni a statuto speciale. Complessivamente per l’intero territorio nazionale è previsto, nel lustro indicato, un investimento di 9 miliardi di euro: 5 dal Fondo Sviluppo e Coesione, 2 di cofinanziamento delle regioni con fondi europei e altri 2 miliardi provenienti da fondi assegnati e non spesi negli ultimi 15 anni.
La spartizione dei primi fondi rivela una sperequazione tra Nord e Sud sorprendente: 666,31 milioni di euro al Nord, 116,2 al Centro, 280,96 al Sud; nessun intervento previsto in Calabria e circa il 50% delle somma stanziato per le aree metropolitane di Genova e Milano. Al cospetto di questo nuovo – e velleitario nei tempi previsti – grande progetto di risanamento nazionale, le norme veramente efficaci a breve termine che andrebbero approvate per la salvaguardia del territorio vengono procrastinate e neutralizzate.
In primo luogo, una riforma urbanistica, poiché l’ultima risale al 1942. Il Disegno di legge Principi in materia di politiche territoriali e trasformazione urbana proposto dall’ex Ministro Lupi veniva sottoposto a pubblica consultazione proprio la scorsa estate, in coincidenza temporale perfetta con l’elaborazione dell’intervento contro il disordine idrogeologico. L’obiettivo dichiarato della proposta Lupi era di adeguare lo sviluppo urbano e territoriale italiano alle strategie europee, ma di fatto la bozza andava in tutt’altra direzione. Non solo si salvaguardava ancora la rendita fondiaria e la proprietà immobiliare, ma l’ambiente diventava un mero supporto della cementificazione, una Direttiva Quadro Territoriale avrebbe permesso di superare gli intralci possibili dovuti ai piani paesaggistici, variazioni ai piani urbanistici avrebbero ammesso la deroga ai diritti di perequazione e compensazione. Da settembre 2014 della riforma urbanistica del Governo Renzi non si hanno notizie.
In secondo luogo servono delle leggi con applicazione immediata che impongano il consumo di suolo zero. Non c’è un’altra via di uscita e non c’è piano di bonifica, risanamento o rimboschimento che tenga. Il rapporto 2015 dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) denuncia che 55 ettari di Penisola ogni giorno vengono coperti dal cemento, quasi 7 mq al secondo, per costruire infrastrutture e centri commerciali, per il fenomeno dello sprawl urbano. Se Lombardia e Veneto contano la percentuale più alta di suolo consumato, la Liguria ha edificato il 40% del proprio territorio compreso entro i 300 metri della costa. Si noti come proprio Liguria e Lombardia si vedranno destinare la maggior parte dei fondi governativi anti-dissesto il cui investimento verrà senz’altro vanificato da un ritmo di scomparsa di suolo che non ha pari in Europa. Emergenza e urgenza sono ormai parole vuote e demagogiche, in questo come in altri ambiti.
Che cosa è veramente urgente e che cosa si può risolvere con interventi straordinari? Il grande progetto di regimentazione del territorio è figlio di una politica strabica, che fa grandi annunci e trascura il fattibile. E per tornare a Leonardo Benevolo, egli individuava tre specifiche caratteristiche del triste quadro territoriale e urbanistico italiano degli anni Novanta: l’impreparazione della classe politica ad affrontare tale aspetto; la durevolezza dei guasti operati sul territorio, quindi la lentezza e la limitazione degli interventi correttivi; il contrasto tra l’emergenza a cui si deve far fronte e la necessità di tempi lunghi per il recupero territoriale. La sfida che la nostra fragilità ambientale ci pone è una sfida alla società tutta a ridiscutere le proprie direttive economiche, a ritrovare correttezza e onestà amministrativa, a valorizzare la partecipazione popolare. Nella consapevolezza che quanto inflitto finora all’aspetto fisico del territorio lascerà un segno indelebile.

postilla

Peccato che le due proposte di legge citate siano del tutto negative nei confronti dell'auspicata eliminazione del consumo di suolo, e anzi lo favoriscano. Abbiamo promosso e sostenuto una lunga campagna contro la malfamata "legge Lupi" nelle sue varie incarnazioni. Una intera voluminosa cartella si può trovare nel vecchio archivio, col titolo Tutto sulla legge Lupi. Nel nuovo archivio abbiamo ripreso il tema in numerosi articoli per ora raccolti, un po' alla rinfusa, nella cartella Legislazione nazionale. Per quanto riguarda la proposta di legge sul consumo di suolo, oggi all'esame de Parlamento, ci limitiamo a segnalare l'accurata analisi, fortemente critica, di Vezio De Lucia dal titolo Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione, e i numerosi articoli citati nella postilla. Lì troverà anche il collegamento alle proposte avanzate a più riprese da eddyburg. Da questo governo e questo Parlamento è inutile aspettarsi qualcosa che vada nella direzione a suo tempo auspicata da Leonardo Benevolo, e da altri personaggi che oggi sarebbero definiti "gufi".

In Italia ci sono ancora popolazioni che protestano quando si vuole seppellire di cemento l'antico paesaggio nel quale si riconoscono, e combattono uniti contro il governatore che vuole abbattere il vincolo ambientale. La Repubblica, 29 ottobre 2015

Gli ultimi erano stati i Longobardi e i Bizantini: era dal VI secolo dopo Cristo che nel Contado di Porta Eburnea non si combatteva una battaglia altrettanto carica di futuro. Siamo a sei chilometri a sud-ovest di Perugia, tra le valli dei fiumi Caina, Genna e Nestore, in un territorio di bellezza spettacolare: centoventi chilometri quadrati di paesaggio intessuto di monasteri, torri, ville, piccoli borghi medioevali. L’Italia: al suo meglio. Quella che diresti che ormai non c’è più. E che invece resiste: almeno fino a quando lo consentiremo.

È un storia remota, quella che ha imposto al Contado la sua omogeneità culturale e visiva: è il 570 dopo Cristo quando i Longobardi non riescono a sfondare la linea delle fortificazioni di Narni, Amelia, Todi, Perugia e Gubbio. Si forma così il cosiddetto Corridoio Bizantino, che per quasi due secoli continuerà a connettere Roma a Ravenna, un resto di Italia romana sempre più accerchiata dai ducati longobardi. Nel 593 i Bizantini arrivano fino a creare un lago artificiale, che possa fermare l’avanzata dei “barbari”. Ed è in questa resistenza — militare e culturale — che affonda le sue radici l’immagine di questa parte d’Umbria: perché, intorno all’anno Mille, le numerosissime strutture difensive che punteggiavano quella parte di Corridoio Bizantino divennero altrettanti luoghi di abitazione e lavoro per i monaci benedettini. La Grangia di Monticelli fu un’enorme azienda agricola monastica, che fece subentrare le ragioni dell’economia rurale e della preghiera a quella della guerra. Cosa quasi miracolosa, gli ultimi mille anni (e soprattutto gli ultimi cento) non hanno cambiato le cose più di tanto, permettendo a Perugia di conservare (almeno su questo lato) ciò che un tempo era il vanto di ogni città italiana: il dolce trapasso tra il tessuto urbano e la campagna.
Come scriveva Carlo Cattaneo nel 1858, «la città formò col suo territorio un corpo inseparabile»: una realtà che, mezzo millennio prima, il Buon governo affrescato a Siena da Ambrogio Lorenzetti aveva rappresentato con la forza delle immagini.

Ma come in tutte le favole, ad un certo punto arriva una strega cattiva: e la strega in questo caso si chiama speculazione edilizia. Perugia si espande, e sposta i suoi ospedali proprio verso il Contado. E nel cuore di quest’ultimo si cominciano a costruire complessi edilizi di cinque piani tra viali di tigli e ville storiche (sul crinale tra Pila e Badiola), si progettano strade a scorrimento veloce, si creano nuovi paesi di cemento accanto a borghi medioevali spopolati (115.000 metri cubi a San Biagio della Valle).

È a questo punto che i cittadini del Contado insorgono. Nel gennaio 2010 otto associazioni nate dal basso, comuni cittadini, proprietari di dimore storiche chiedono al Ministero per i Beni culturali di dichiarare che la salvaguardia del Contado di Porta Eburnea è di particolare interesse pubblico: in pratica, chiedono di vincolarlo, cioè di salvarlo prima che sia troppo tardi. Una volta tanto, lo Stato c’è, esiste, risponde. Dopo lunghe battaglie, e a prezzo di molti compromessi ( l’area da difendere scende da 110 a 58,5 km quadrati), nel maggio di quest’anno il vincolo arriva. Tutto bene, dunque? Per niente: come in un film dozzinale, la strega apparentemente morta si rialza, più cattiva di prima. E, paradossalmente, la strega ha ora il volto della Regione Umbria e del Comune di Marsciano: i quali, invece di essere felici per la salvezza del loro stesso territorio, hanno deciso di ricorrere al Tar per annullare il vincolo.

Non è un episodio isolato: insieme alla Liguria di Toti, l’Umbria di Catiuscia Marini è forse la regione oggi più amica del cemento. Basti dire che nel marzo scorso il governo Renzi (non propriamente verde: si ricordi lo Sblocca Italia) ha deciso di impugnare davanti alla Corte Costituzionale il Programma Strategico Territoriale dell’Umbria, che pretenderebbe di sottoporre ab origine il Piano del Paesaggio alle esigenze dello sviluppo, in una specie di condono preventivo tombale. Ma c’è di peggio: la giunta regionale è arrivata a confezionare un dossier di 34 pagine (si trova sul web) per chiedere al ministro Franceschini di rimuovere il soprintendente Stefano Gizzi, colpevole di fare il suo mestiere, cioè di difendere il territorio. Nel dossier si legge che il vincolo del Contado di Porta Eburnea osa imporre - udite udite - prescrizioni «molto dettagliate e restrittive, e di forte impatto sulla pianificazione urbanistica di livello comunale». Un vincolo che vincola: quale oltraggio!

Naturalmente, l’argomento principe della Regione è l’eterna equazione cemento= lavoro. Ed è esemplare che a smentire questa visione insostenibile e suicida dello sviluppo siano stati i lavoratori umbri dell’edilizia, che nel pieno della battaglia per il Contado hanno diffuso un documento in cui dicono che dalla crisi del settore (pesantissima: dal 2009 al 2014 le imprese edili umbre sono scese da 4.548 a 2.838, e le ore lavorate da 20 a 10 milioni) si esce «limitando il consumo di territorio », e invece «puntando al recupero, alla difesa del territorio, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico-culturale, alla riqualificazione urbana, all’efficientamento energetico, alla messa in sicurezza delle scuole e di tutti gli edifici pubblici». Una bella lezione di lungimiranza, concretezza e responsabilità.

A giorni le associazioni di cittadini che difendono il Contado di Porta Eburnea depositeranno una diffida al Comune ed alla Regione, con l’invito a ritirare il ricorso contro il vincolo, in autotutela. Una copia della diffida sarà inviata alla Corte dei Conti chiedendo che, se il Tar rigetterà il ricorso, i consiglieri comunali e regionali paghino le spese di giudizio di tasca propria. Come dire: se proprio volete distruggere il paesaggio italiano, almeno non fatelo a spese nostre.

La Repubblica, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)

Vista dal cielo, la spianata dell’antica città greca e poi romana di Apamea, lungo il fiume Oronte, sembra un paesaggio lunare, oltre quattrocento ettari su cui sono disseminati decine di crateri. Gli stessi buchi si vedono nelle immagini satellitari nei pressi di Palmira, Deraa, Mari. L’Is procede ormai a un ritmo forzato. Gli scavi illegali dei siti archeologici sono migliaia secondo l’Unesco. Un saccheggio che ha raggiunto ormai un livello “industriale” come ha sottolineato la direttrice dell’organizzazione, Irina Bokova. La regione della Mezzaluna Fertile, così come l’aveva definita l’archeologo americano James Henry Breasted, è una delle zone più ricche di reperti e di Storia al mondo. Sotto terra ci sono stratificazioni millenarie che custodiscono ancora molti tesori.

La furia integralista non distrugge solo il patrimonio come ha fatto qualche giorno fa con l’Arco di Trionfo di Palmira. L’Is si è organizzato per guadagnare e far fruttare l’immenso patrimonio artistico e archeologico tra Siria e Iraq. I jihadisti controllano ormai decine di siti di cui tra pochi anni rischia di non rimanere più nulla. «Abbiamo persino visto che ci sono delle presunte autorizzazioni per gli scavi rilasciate dai combattenti a gruppi locali » racconta Giovanni Boccardi, responsabile dell’unità di crisi dell’Unesco, mostrando a Repubblica le foto satellitari.
Nulla è più lasciato al caso. L’Is si è professionalizzato e incassa in assoluta impunità le cosiddette “khums”, tasse di sfruttamento per zone archeologiche che possono andare dal 20 al 40% del valore stimato degli oggetti. Il Califfato avrebbe assoldato anche dei restauratori e specialisti per organizzare i saccheggi. I “reperti del sangue”, così come vengono chiamati tra gli esperti, poi viaggiano all’estero in molti modi, anche nascosti nelle carovane di profughi. Solo negli ultimi mesi centinaia di reperti trafugati sono stati sequestrati in Libano, Canada, Svezia, Norvegia, Regno Unito. In Turchia sono stati sequestrati nell’ultimo anno 1448 oggetti e 544 monete. Ma è la punta dell’iceberg. Secondo la Cia, il contrabbando di antichità avrebbe già fatto incassare ai terroristi tra 6 e 8 miliardi di dollari. E’ il terzo mercato illegale più redditizio dopo il contrabbando di droga e armi.
L’Unesco riceve e raccoglie quasi ogni giorno fotografie che documentano i saccheggi. Molte immagini non vengono mostrate per tutelare gli informatori locali. Alcune Ong si sono specializzate nel denunciare gli scavi illegali e il contrabbando di antichità come l’Association for the protection of Syrian Archaeology che ha un sito aggiornato diretto da Ali Cheikhmous, archeologo siriano a Strasburgo.
Il danno degli scavi illegali è molteplice. «Anche quando i reperti vengono ritrovati hanno perduto il loro il loro valore storico e scientifico che si può avere solo in loco, durante gli scavi» spiega Boccardi. In assenza di “caschi blu” che possano proteggere i siti - un appello per la creazione di un’unità simile è stato consegnato ieri all’Unesco da Francesco Rutelli - l’unica soluzione è allertare le autorità dei paesi vicini, da cui transitano i reperti, e i possibili acquirenti. L’International Council of Museum, che raggruppa i più grandi musei del mondo, diffonde periodicamente delle red lists in cui vengono elencati i tipi di oggetti più ricercati sul mercato nero. Per il periodo ottomano, stele in pietra o bronzo, calici e anfore. Risalendo più indietro, mosaici e frammenti di ornamenti in ceramica, fino a pergamene con figure ornamentali, statuine in legno o metallo, gioielli, lampade a olio, sigilli in avorio o terra cotta, monete bizantine, romane, islamiche.
La vendita dei reperti non è così immediata e facile. Per i pezzi più grandi serve una logistica di trasporto e la falsificazione dei documenti ad alto livello se si vuole accedere a collezionisti importanti. I reperti più pregiati non vengono infatti subito venduti. Spariscono, nascosti in qualche magazzino per rispuntare dopo cinque, dieci anni. Il tempo serve non solo per allentare l’attenzione delle autorità ma anche per riuscire a fabbricare una falsa documentazione.
Mentre Matteo Renzi ha proposto durante l’Assemblea generale dell’Onu di organizzare un task force di carabinieri specializzati per tutelare il patrimonio culturale del mondo in situazioni di emergenza, anche la giustizia internazionale si muove. Un leader tuareg di un gruppo islamista maliano legato ad Al Qaeda, sospettato di aver organizzato la distruzione nel 2012 di mausolei a Timbuctù, è apparso di fronte alla Corte penale internazionale. L’uomo è accusato di crimini di guerra. Ma le normative internazionali che regolano il traffico illecito di antichità sono inadeguate davanti alla nuova minaccia in Siria e Iraq.
La convenzione dell’Unesco risale al lontano 1970. Dal febbraio scorso, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che prevede l’uso della forza per la salvaguardia del patrimonio. E’ la prima volta. L’Unione europea sta invece studiando come intralciare la creazione di falsi documenti. Allo studio un nuovo import certificate, un certificato all’importazione unico tra i paesi membri. «Purtroppo non possiamo agire sul posto, ma almeno cerchiamo di rendere più complicato e meno redditizio questo business» continua Boccardi.
L’Unesco ha organizzato delle campagne di sensibilizzazione con le più importanti case d’aste come Sotheby’s o Christie’s. «I collezionisti devono sapere – spiega Boccardi - che non si tratta solo dell’acquisto illecito di un oggetto ma di una forma di finanziamento del terrorismo internazionale». Il progetto Shirin riunisce archeologi, storici dell’arte che hanno lavorato nella regione. Conoscono ogni pietra, sono in grado di guardare foto satellitari e capire da dove viene un oggetto sequestrato. Il direttore scientifico del progetto è Michel Al Maqdassi che ha lavorato per trent’anni al servizio di Antichità di Damasco e ora è a Parigi. Shirin è un progetto pilota organizzato dal ministero degli Esteri francese e dall’università di Durham per agevolare uno scambio di informazioni tra le varie banche dati e formare un unico inventario, il Sites & Monument Record for Syria (Smrs). Il primo prototipo del Smrs è stato lanciato nel 2014 e raccoglie già oltre 15mila referenze archeologiche. Un inventario gigantesco di tutto ciò che appartiene al popolo siriano e iracheno e non dovrebbe essere mai essere trafugato.



Trenta giorni sono passati dalla scomparsa di Vincenzo (Cenzi) Cabianca: un urbanista che non ha mai avuto i riconoscimenti che oggi si attribuiscano alle “star”, ma che ha svolto un ruolo di assoluta avanguardia per un aspetto del governo del territorio che oggi ci sembra più che mai decisivo: il rapporto tra organizzazione dello spazio della vita delle persone e preesistenze storiche e naturali. Cabianca ha insegnato ai suoi numerosi studenti che i beni culturali, dal paesaggio ai lasciti della storia più antica, , non sono come isolati da proteggere in una bacheca (né tanto meno spazi residui di un oceano di cemento e asfalto da completare, ma devono essere adoperati come lematrici di un nuovo modo di organizzare l’habitat dell’uomo.

Questo impegno culturale non è stato per Cabianca solo l’espressione di una teoria - di un pensiero - ma la premessa di un’azione da sviluppare e rendere concreta adoperando il mestiere dell’urbanista: un mestiere che ha esercitato non solo negli ambiti delle aule universitarie e degli studi professionali, ma anche nel campo politico e sociale della battaglia culturale. Cabianca è stato infatti vicepresidente dell’Istituto nazionale di urbanistica (INU) in anni decisivi della storia dell’istituto e della politica italiana: nel cuore di quel ventennio della speranza che separa gli anni della ricostruzione postbellica da quelli dell’avvio e dell’affermazione, in Italia e nel mondo, del neoliberismo.

Per ricordare Vincenzo Cabianca pubblichiamo di seguito due testi, che lo ricordano in due significativi momenti del suo contributo: il piano regolatore di Siracusa e la ricostruzione dell’Inu dopo la sua crisi del 1969. L’uno e l’altro sono tratti dai materiali di un convegno organizzato dall’associazione Fratelli Rosselli, di cui alleghiamo la locandina. Per una più completa conoscenza rinviamo al volume Vincenzo Cabianca, Documenti su vent'anni di utopia urbanistica a Siracusa. Tra neoilluminismo e neoromanticismo, curato da Giuseppe Palermo e pubblicato da La casa del nespolo, Roma 2013: qui di potete leggere, su questo sito, l'introduzione di Cabianca al suo libro.

VINCENZO CABIANCA E IL PIANO DI SIRACUSA
di Umberto De Martino

Stralci dalla relazione introduttiva all’incontro organizzato dal Circolo Fratelli Rosselli, Roma

Il Circolo Fratelli Rosselli di Roma ha avviato quest’anno un ciclo di incontri, unificati dal titolo “Dal pensiero all’azione”. […] Oggi abbiamo preso a campione il lavoro di un urbanista, Vincenzo Cabianca, mettendo a confronto il suo pensiero, che gli deriva dalla sua formazione culturale, ed il risultato raggiunto su un particolare campione dove ha operato per decenni, la città di Siracusa e il suo Piano Regolatore.

Va premesso che, se è vero che il prodotto che si ottiene come applicazione di un pensiero originale viene via via modificato dall’operare in un contesto esterno, con altri interlocutori dialoganti e con l’influenza che ne deriva, ciò è ancor più evidente nel caso dell’urbanistica dove il risultato finale, in questo caso l’assetto e lo sviluppo di una città, è frutto della concorrenza di soggetti che in modo più o meno palese interloquiscono intensamente con il progettista: operatori economici, cittadini, politici, e così via.

[…]
La pianificazione urbanistica di Siracusa nasce da un concorso nazionale bandito nel 1952, vinto dagli ingegneri Cabianca, Lacava e Roscioli. Dopo quattro anni , nel 1956, venne formalizzato l’incarico e adottato dal Comune il progetto di piano. Prima di illustrarlo brevemente dobbiamo rifarci al clima culturale che permeava la produzione urbanistica nei primi anni ’50, a poca distanza dall’entrata in vigore della legge urbanistica del 1942 (entrata in vigore, peraltro, di fatto rinviata dalle vicende belliche e dall’imperversare dei piani di ricostruzione che per anni sostituirono la pianificazione urbanistica vera e propria). La prassi era quella dei piani di ampliamento di tipo planovolumetrico, con il tracciamento del minuto tessuto stradale e la visualizzazione delle volumetrie realizzabili. Su questi modelli di piano l’innovazione del razionalismo e della “Carta d’Atene” non avevano ancora prodotto applicazioni significative.

I nostri “tre eroi”, invece, avevano culturalmente ben assimilato le novità più importanti in campo urbanistico, novità tra le quali primeggiava l’esperienza della pianificazione olandese, e di Amsterdam in particolare, diffusa in Italia da Astengo attraverso la rivista “Urbanistica” (e i cui principi erano stati, peraltro, anche trasferiti nello spirito della legge urbanistica italiana del 1942, poi purtroppo del tutto travisati): piani non più planovolumetrici ma di destinazione d’uso dei suoli, rinvio della realizzazione dei quartieri di espansione a piani esecutivi di iniziativa pubblica da progettare di volta in volta a seconda della necessità, dotazione programmata di servizi pubblici e di aree verdi sia a livello urbano che di quartiere.

Ma, e questo è il particolare più importante, i progettisti si sono trovati ad operare su un territorio di straordinario valore storico-archeologico, valore che l’opinione degli “addetti ai lavori” (proprietari terrieri, tecnici anche pubblici, operatori economici, perfino gran parte dei cittadini) riteneva un intralcio alla modernità dello sviluppo urbano e non una risorsa da esaltare e mettere a frutto. (Peraltro questa è stata una carenza della cultura italiana ancora per molti anni, dove nei piani regolatori – come quello di Roma del 1962 – ci si limitava a coprire i centri storici con una coloritura unitaria, rinviando a successive, ma anche astratte, pianificazioni specifiche: come se i centri storici non fossero parte integrante della città complessiva. Anche qui dovremo aspettare l’esempio progettuale di Astengo per Assisi e le teorizzazioni dell’ANCSA).
Ciò non è stato nel caso del Piano di Siracusa, dove all’assetto dell’espansione si è accompagnato simultaneamente quello della valorizzazione dei beni archeologici e dell’ambiente. Il piano del 1952-’56 nasce così da una cultura moderna, europea di governo dell’assetto urbano e da una specifica sensibilità dei progettisti, e di Cabianca in particolare; sensibilità che lo ha caratterizzato come “tra i primi che hanno dato vita ai Piani Urbanistici basati sul primato dei beni Culturali, sulla salvaguardia e valorizzazione dei Centri Storici, e sull’armatura culturale del territorio”.

Proverò ad illustrare sinteticamente i punti salienti di questo Piano, peraltro ampiamente descritto nel n. 20 (settembre 1956) della rivista Urbanistica.

Espansione di progetto articolata in quartieri da realizzare per iniziativa pubblica, dotati di servizi e circondati dal verde.

Per le zone di espansione veniva decisamente superato il metodo della previsione astrattamente precostituita per singoli lotti edificabili minuziosamente disegnati, utilizzato nella precedente pianificazione. Veniva invece previsto un sistema di aree a destinazione d’uso residenziale con integrato un mix di edilizia sovvenzionata, dimensionate in modo conforme rispetto alla dotazione di servizi necessari per i singoli quartieri, circondato da un sistema di aree verdi, dotato altresì di aree per attrezzature generali e servito tangenzialmente dalla grande viabilità di attraversamento e connessione sovra comunale. Di tali quartieri non veniva prefigurato il sistema edilizio e la loro progettazione attuativa veniva rinviata all’insorgere delle necessità insediative. Oltre alla corretta previsione delle zone di nuova espansione, nel Piano veniva particolarmente curata l’integrazione e la razionalizzazione delle zone residenziali già esistenti al di là dell’Ortigia.

Viabilità comunale di progetto, allontanata dalla costa per salvaguardarne le caratteristiche e ”di margine” rispetto all’Epipoli.


Il precedente piano regolatore del 1933 aveva sovrapposto sul territorio una fitta ragnatela viaria, senza gerarchie funzionali finalizzata all’urbanizzazione diretta e senza alcun controllo nei riguardi delle priorità. Nel nuovo PRG il sistema viario assume invece un respiro sovra comunale, modificando il tracciato della viabilità statale, non più compromesso col tessuto urbano, servito a sua volta da strade di penetrazione e di servizio, e prevedendo un ragionato sistema di strade panoramiche rispetto alla costa ed all’altopiano dell’Epipolai.

Area industriale unitaria e protesa verso il polo petrolchimico di Augusta.


Il territorio di Siracusa era stato investito dalla realizzazione disordinata di piccole/medie aree industriali localizzate in modo casuale nel territorio a seconda della convenienza dei singoli imprenditori e, spesso, in contrasto con le qualità ambientali dell’area. Più correttamente il Piano ha invece previsto un’area industriale unitaria, protesa a nord verso il polo petrolchimico di Augusta, al quale è connessa con uno specifico sistema infrastrutturale.

Salvaguardia delle zone archeologiche (Neapolis, latomie, castello di Eurialo, mura dionigiane); piano della Neapolis non isolato dalla città ma strettamente integrato con la pianificazione della città stessa.
L’intervento progettuale più importante, che ha rappresentato una vera novità in campo urbanistico, è stato mosso da un atteggiamento culturale del tutto innovativo rispetto ai beni archeologici e alle qualità ambientali. Il sistema storico-ambientale, singolarmente rappresentato da elementi di inestimabile valore (Neapolis, Latomie, Castello di Eurialo, Teatro greco, Mura dionigiane, ecc.) è stato affrontato non come salvaguardia di singoli elementi ma come un tutt’uno da affrontare e valorizzare nella sua unità storica. Inoltre la progettazione dei vari elementi componenti il sistema non è stata rinviata a un ipotetico futuro ma è stata ideata e proposta insieme al progetto di Piano Generale come parte integrante se non addirittura principale del Piano urbanistico complessivo.[…]

VINCENZO CABIANCA E L'INU
di Vezio De Lucia

Ringrazio Umberto De Martino e il Circolo Fratelli Rosselli per avermi invitato ma soprattutto per aver organizzato questa manifestazione in onore di Vincenzo Cabianca, urbanista indomito, intellettuale raffinato, dalla rara sensibilità per la storia, l’archeologia, il mondo mediterraneo.

Il XII congresso dell’INU, dedicato a L’iniziativa urbanistica delle regioni, doveva svolgersi a Napoli, nel teatro della mostra d’Oltremare, il 14 e 15 novembre del 1968. L’INU era allora un’associazione molto accademica, che operava come importante snodo fra l’università, le professioni e la pubblica amministrazione, in particolare con la direzione generale dell’Urbanistica del ministero dei Lavori pubblici. Si tenga conto che ancora non erano state istituite le regioni (lo furono nel 1970) e l’urbanistica di tutti i comuni d’Italia faceva capo a Roma.

Il congresso cominciò regolarmente alla presenza delle autorità – ministro, sindaco, vescovo e prefetto – ma fu subito interrotto dalla contestazione, perfettamente organizzata, di studenti di architettura che ricoprirono le pareti con tazebao, poi iniziarono il lancio di rotoli di carta igienica, mentre le autorità cominciavano a svignarsela. Invano Giuseppe Campos Venuti, balzato sul palco, urlando al microfono, cercava di fermare la polizia intervenuta a sgomberare la sala. Si chiuse così una fase della vita dell’Inu, quella caratterizzata dalla prevalenza dei grandi interessi accademici e professionali e dai rapporti sostanzialmente subalterni alle politiche di governo. Ma, al tempo stesso, l’INU godeva allora, nel mondo politico e sulla stampa, di un prestigio indiscusso e mai più recuperato.

I reduci di Napoli s’incontrarono alla fine di maggio dell’anno dopo ad Arezzo, dove si confrontarono due schieramenti: chi, come Bruno Zevi, proponeva di restare legati alla tradizione fondamentalmente culturale dell’Inu e chi, invece, auspicava un ruolo pienamente politico, cercando nuovi interlocutori. Prevalse a maggioranza questa seconda posizione, rappresentata da Vincenzo Cabianca, Edoardo Detti, Marco Romano e Alessandro Tutino che avviarono la costruzione di una proposta politica e culturale radicalmente nuova, spostando l’interesse verso le organizzazione sociali, a cominciare dai sindacati, che proprio in quegli anni erano attivamente presenti nella vita pubblica.

Ad Arezzo fu eletto presidente l’insigne costituzionalista Paolo Barile, vicepresidente Cabianca, che ressero l’istituto per un anno, avviandone la ripresa dopo la contestazione di Napoli. Qualche protagonista della precedente gestione lasciò l’istituto, fra questi Bruno Zevi, che ne era stato prestigioso segretario generale.

L’apertura ufficiale della nuova fase dell’INU fu il convegno di Bologna del 1970. Il tema era Il controllo pubblico del territorio per una politica della casa e dei servizi. Edoardo Detti sostituì alla presidenza Paolo Barile, Cabianca fu confermato alla vicepresidenza fino al congresso di Ariccia del 1972.

Mi limito qui a ricordare soltanto il ruolo da protagonista che Cenzi Cabianca svolse nei primi anni della svolta, nella nuova fase della vita dell’INU di affiancamento ai movimenti di lotta e alle organizzazioni sindacali, in particolare sul problema della casa. L’istituto assunse allora come obiettivo prioritario quello dell’“opposizione culturale”. In un documento del consiglio direttivo nazionale del 1972 si legge che l’INU “rinuncia definitivamente a caratterizzarsi come gruppo di «specialisti in urbanistica» che in quanto tali scelgono di far politica; tende invece e soprattutto a divenire un punto di raccolta di informazione e di attivazione per forze politiche, sindacali e di base (nell’intero arco della sinistra) che intendano dedicarsi ai problemi della città e del territorio e che ricerchino nell’istituto i necessari supporti tecnici e culturali”. Prendemmo le distanze dal mondo accademico e professionale, sostenemmo con puntiglio l’obiettivo che la formazione degli strumenti urbanistici dovesse essere condotta direttamente dagli enti locali, utilizzando le risorse professionali interne, adeguatamente preparate.

Ricordo gli incontri con i sindacalisti che ascoltavano affascinati – non sto esagerando – il parlare colto e forbito di Cenzi. E il suo entusiasmo nell’impadronirsi dei temi giuridici, avendo stabilito un’intesa particolare con Guido Cervati, che abbinava a un’indiscussa competenza in materia di diritto urbanistico, un’insuperata sensibilità sociale che lo induceva a orientare sapientemente le interpretazioni delle norme a favore degli interessi popolari (diritto evolutivo).

Cabianca restò nel CDN fino al 1990 – per ventuno anni – quando per l’INU ebbe inizio l’interminata stagione del revisionismo e del trasformismo con l’abbandono della linea dell’intransigenza e dell’autonomia che Cabianca aveva sempre difeso con determinazione.

Prima di finire, ancora un minuto per denunciare un documento recentemente adottato dalla Giunta Comunale di Siracusa e da sottoporre al Consiglio per la revisione del PRG del 2007. Devo la segnalazione a Giuseppe Palermo, il benemerito studioso che ha curato la pubblicazione del volume su Cabianca che presentiamo oggi.

Si tratta di un testo che ripresenta pedissequamente e integralmente la filosofia, e la nomenclatura dell’urbanistica contrattata di rito ambrosiano e, peggio ancora, del “modello Roma”. Non manca nulla:
· perequazione e compensazione
· nuove centralità

· appositi meccanismi premiali per incentivare l’edilizia sostenibile

· espansioni a bassa densità con il pretesto del turismo e dell’agriturismo

· social housing come cavallo di Troia per nuove edificazioni

· ammissibilità imprecisata di modificazione delle destinazioni d’uso

· sviluppo indiscriminato della viabilità.

Penso che verremmo meno alle ragioni che ci hanno indotto oggi a rendere omaggio all’impegno urbanistico di Cenzi Cabianca per Siracusa se ci astenessimo dalle necessarie azioni di vigilanza, di denuncia e di mobilitazione per evitare che, ancora una volta, a Siracusa prevalgano gli energumeni del cemento armato.

«Baratti, Populonia, Bondeno, Sepino, nomi che non avranno la fama degli Uffizi o di Brera. Eppure in realtà sparse (soprattutto al Sud) sopravvive un modo sorprendente di gestire il patrimonio, un modello vincente». La Repubblica, 26 agosto 2015

TUTTI parlano dei venti supermusei, e delle nomine (per me assai discutibili) dei superdirettori appena fatte. D’accordo: gli Uffizi, Brera, la Galleria Borghese o l’Archeologico di Napoli sono la punta di diamante del nostro patrimonio artistico: ma è bene ricordare che ne conservano una percentuale minima. Sono gli organi pregiati di un corpo le cui cellule sono le infinite, piccole istituzioni culturali che innervano la Penisola. E guardare alle microstorie del patrimonio significa trovare, lontano dai riflettori, storie di successo: buone pratiche del tutto trascurate dalla macchina politico-mediatica, ma non dai visitatori.

Un esempio? Il Parco Archeologico di Baratti e Populonia comprende una delle necropoli più belle del mondo: i tumuli dei signori etruschi di duemilacinquecento anni fa spuntano come grandi funghi verdi sul prato che degrada fino al mare, da cui sorgono le sagome delle isole dell’Arcipelago toscano. Chiude la scena l’acropoli di Populonia, la grande città del vino e del metallo: il ferro che, estratto all’Elba, veniva qua lavorato su scala industriale. Tutto questo non sarebbe accessibile, materialmente ed intellettualmente, senza una delle strutture museali più avanzate e consapevoli dell’Italia di oggi. Trentotto dipendenti — archeologi, restauratori, archivisti, geologi, naturalisti e guide — fanno girare una macchina che comprende anche un Centro di Archeologia Sperimentale capace di fare innamorare adulti e bambini. Tutto è curato nei minimi dettagli: fino agli oggetti che si possono comprare nella libreria, realizzati da artigiani locali in materiali ecocompatibili, fino alla pasta trafilata al bronzo, ricavata da vecchi semi autoctoni di grano recuperati e studiati.

Un parco archeologico sostenibile, con una rigorosa certificazione ambientale: perché l’educazione degli italiani del futuro sia a tutto tondo. E il modello di governance non è meno interessante. La Società Parchi di Val di Cornia è stata costituita nel 1993 per iniziativa dei comuni di Piombino, Campiglia Marittima, San Vincenzo, Suvereto e Sassetta, e di alcuni soci privati. Questi ultimi non puntavano a un profitto diretto, ma alla partecipazione ad un processo di valorizzazione del territorio che avrebbe dato più valore anche alle loro imprese. E, attraverso la gestione dei parcheggi e delle aree litoranee presenti nel suo territorio, la Società ha raggiunto nel 2007 il pareggio di bilancio, con 90.000 presenze all’anno. Più a nord, nel comune ferrarese di Bondeno, è stato il terremoto a favorire un’esperienza unica. A Pilastri è venuto alla luce un villaggio dell’età del Bronzo (una cosiddetta terramara), e si è iniziato uno scavo originalissimo: perché è aperto a tutti, raccontato passo passo sui social e su YouTube, visitato assiduamente da scolaresche che partecipano ai laboratori. Un’operazione così popolare che Comune e Provincia hanno deciso di investire: da lì e da un crowdfunding derivano i fondi per pagare la cooperativa di giovani archeologi e paleozoologi che scavano e organizzano i laboratori. Questa comunità scientifica dichiara di avere «un importante obiettivo sociale, oltre che scientifico, quello di condividere il più possibile l’esperienza di scavo col pubblico, in modo da far sì che il passato rimesso in luce dall’archeologia sia percepito come una realtà attuale e condivisa; come parte integrante di una identità sempre di più collettiva e, al tempo stesso, come nuova potenziale risorsa e prospettiva di sviluppo ». Una filosofia “civile” che, a scavo terminato, potrà ispirare il Museo Archeologico Ferraresi di Stellata di Bondeno, che accoglie già i reperti delle campagne precedenti.

In Molise, invece, è stato un accordo tra ministero per i Beni culturali (che mette a disposizione gratuitamente istituti e luoghi della cultura e spazi per le attività di accoglienza), Regione, Università e Cnr a far sorgere un’associazione di giovani laureati in archeologia e storia dell’arte capaci di “valorizzare”’ (ma nel senso autentico di “far conoscere”)luoghi come lo spettacolare Museo del Paleolitico di Isernia (costruito su uno dei siti preistorici più importanti del mondo, dove è possibile conoscere meglio che in qualunque altro luogo d’Italia la vita dell’uomo circa settecentomila anni fa) o la struggente area archeologica di Sepino.

Me.Mo Cantieri Culturali non dipende da contributi pubblici, ma si è messa sul mercato partecipando a concorsi regionali, nazionali o europei per il finanziamento dei propri progetti: una sorta di impresa popolare della conoscenza, che crea lavoro educando al patrimonio in modo innovativo.

Se, infine, a Catania è finalmente accessibile l’enorme cittadella barocca del Monastero di San Nicola, resa immortale nelle pagine dei Viceré di Federico De Roberto, è merito di Officine Culturali, una cooperativa della conoscenza fondata nel 2009 da alcuni laureati del Dipartimento di scienze umanistiche, che ha sede proprio lì. Questi giovani ricercatori ancora in formazione hanno investito le loro conoscenze, il loro tempo e il loro denaro per raggiungere due obiettivi: far conoscere il Monastero alla comunità (locale e universale) nel modo più accessibile e partecipato (per esempio attraverso un’editoria di qualità e un itinerario impeccabile e avvincente), e creare nuovi posti di lavoro e nuove professionalità. Anche grazie alla stretta collaborazione con il Dipartimento, la Soprintendenza e il Parco Archeologico di Catania, ci sono riusciti: 40mila persone hanno già potuto conoscere un luogo chiave per la storia della città, e lo stesso monumento viene progressivamente recuperato in parti finora chiuse, o degradate.

Se l’amministrazione catanese sarà lungimirante, anche il Castello Ursino e il suo museo potrebbero presto rinascere grazie all’opera di Officine Culturali, ampliando così il raggio di questa piccola economia virtuosa che crea lavoro creando conoscenza.

Si potrebbero citare molti altri casi, radicati soprattutto al Mezzogiorno (in parte analizzati in Sud Innovation. Patrimonio culturale, innovazione sociale, nuova cittadinanza, Franco Angeli editore, a cura di Stefano Consiglio e Agostino Riitano) e molto lontani dai supermusei: perché qua non c’è ombra del monopolio dei concessionari for profit che tengono in mano gli Uffizi o il Colosseo; perché siamo lontanissimi dalle ingerenze del potere politico centrale; perché l’obiettivo non è la spettacolarizzazione, ma l’educazione; il metodo non è la mercificazione, ma la ricerca; il destinatario non è un cliente, ma il cittadino.

Tutte cose belle, direte, ma troppo piccole per avere a che fare con i grandi musei. Sbagliato: nel Parco Archeologico di Baratti lavorano nove archeologi, cioè ben tre in più dei sei che cercano di tenere in piedi l’immenso Museo Archeologico di Napoli. Se vogliamo che i nostri musei non siano depositi di cose vecchie, ma laboratori di futuro, la loro importanza si deve misurare sulla vitalità della comunità che ci lavora. Baratti, Bondeno, Isernia e Catania funzionano perché sono pieni di giovani ricercatori entusiasti: i venti supermusei di cui tutti parlano sono invece ormai scatole vuote, presidiate da pochi anziani funzionari umiliati da decenni di cattiva politica. È questo che dobbiamo cambiare, se vogliamo una rivoluzione vera.


Conobbi Luigi Cogòdi tanti anni fa. Ero allora presidente dell’INU e Luigi assessore all’urbanistica della Regione Sardegna. Erano gli anni della prima applicazione della legge Galasso: Cogòdi e i suoi collaboratori ci aiutarono a organizzare un’iniziativa sull’argomento. Ammirammo e condividemmo subito il lavoro coraggioso e intelligente nel quale si erano impegnati per la difesa delle coste e della legalità.

Molti anni dopo Corte del fòntego editore propose a Sandro Roggio e a me di comporre un libro sull’esperienza del piano paesaggistico della Giunta di Renato Soru (Lezione di piano, Venezia, 2013).Nel documentare attraverso una molteplicità di voci il piano e il suo contesto ci sembrava indispensabile inserire una testimonianza di Luigi. Era malato, e ci fu impossibile raggiungerlo se non per telefono. Inserimmo allora nel libro una sua intervista, rilasciata a Filippo Peretti e pubblicata da La Nuova Sardegna il 18 novembre 2002.

La ripresento oggi, perché mi sembra che non solo esprima compiutamente la qualità e le ragioni dell’impegno di Cogodi, ma rechi testimonianza di una persona (un “politico”) e un’epoca che non devono essere dimenticati. (e.s.)

18 novembre 2002
LUIGI COGÒDI, "PADRE DEIVINCOLI"
dall'intervista di Filippo Peretti

Labattaglia in consiglio regionale sull’insediamento turistico a Palau ha fattotornare in auge il personaggio Luigi Cogodi come «padre» e «tutore» dei vincolidi inedificabilità sulle coste. Col Pci Cogodi fu assessore regionale all’urbanisticadal 1984 al 1987 (nelle prime due giunte Melis) e assessore al lavoro dal 1987al 1989, di nuovo assessore all’urbanistica (ma con Rifondazione) dal 1998 al1999 con l’ultima giunta Palomba.
(…)
Lei è diventato un personaggiosoprattutto occupandosi di coste. Quando e perché ha iniziato?
Comeinteresse culturale, da sempre. Non concepivo che la Sardegna accettasse didiventare una prigione recintata dal cemento e dai muraglioni eretti da pochiingordi.
E come politico?
Daassessore all’urbanistica, nel 1984. Ricordo che quasi tutti quelli che sioccupavano di urbanistica, esercitavano il potere di costruire, inteso in sensoedilizio.
E lei?
Ame venne invece una gran voglia di costruire un progetto di salvaguardia della“Sardegna Isola”.
Ma molti pensavano, e pensano,che i “suoi” vincoli fossero un’esagerazione.
Nonun’esagerazione, la verità: proponevo che sulle coste venissero riqualificatisolo gli abitati esistenti e si evitassero per lungo tempo altre costruzioni ameno di due chilometri dal mare, salvo i servizi e le strutture collettive.
Perché un irriducibilecomunista si occupava di ambiente?
Unirriducibile comunista non può che essere un irriducibile ambientalista.
E viceversa?
Sesi intende che l’ambiente naturale è lo spazio vitale per tutti. E poil’ambiente è un valore culturale, e la cultura deve essere di tutti.
Ma l’ambiente è un potenzialeeconomico o no?
Sì,è quello che fa la differenza.
Anche altri, ma che non lapensano come lei, dicono che l’ambiente è una gallina dalle uova d’oro.
Mainvece di investire sulle uova preferiscono mangiarsi la gallina.
Chi erano gli avversari?Imprenditori e politici?
No,gli imprenditori no. Semmai i “prenditori”: abituati male, a prendere per sé ibeni di tutti. Quelli erano i nemici. E oggi sono gli stessi.
Furonodurissimi gli scontri con la Dc ma venne ostacolato anche nel Pci. Da chi?
Dachi confondeva il consenso popolare coi voti comunque acquisiti, da chi credevadi essere più moderno perché civettava coi “benpensanti”. Finivano col pensar maledelle cose fatte bene.
Puòfare i nomi?
Èmeglio non ricordarli. Di molti però sono noti i soprannomi.
Le dicevano che aveva ragionema che avreste perso voti?
Peròaccadde il contrario: persero i voti perché non sostennero le cose ragionevoli.
Renato Soru dice che laSardegna, se non si fosse costruito malamente nelle zone costiere più belle,oggi varrebbe di più anche sotto il profilo economico.
Soru,almeno in questo, ha ragione. È sicuramente così.
Non è più rimediabile?
Impedendol’ulteriore devastazione, abbiamo salvato i più grandi valori, anche economici,della nostra terra.
Non sembra, però, una battagliaancora di moda.
Forsei più giovani non lo sanno, ma senza la lotta, le leggi e le ruspeantiabusivismo degli anni ’80, oggi l’Isola varrebbe molto di meno. Ragione dipiù per difenderla ancora.
(…)

Il Parlamento sta discutendo il recepimento di tre direttive europee ( n. 23/14, 24/14 e 25/14) in materia di appalti e concessioni e quindi sarà rivisto completamente il Codice Appalti del 2006. Il testo contiene una Legge Delega che dà la facoltà al Ministro Delrio di scrivere la norma attuativa che entro i primi mesi del 2006 dovrà diventare legge e rispettare il termine fissato per il recepimento dalle tre Direttive.

Al momento il testo è stato approvato dal Senato ed ora è in discussione alla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati. Contiene senza dubbio molte cose utili ed opportune, come il potenziamento dell’Autorità Anticorruzione, una stretta sulle varianti e la centralità del progetto, la riduzione delle stazioni appaltanti, l’incremento dei poteri di vigilanza pubblici sul contraente generale, un incremento del sistema di messa a gara delle opere delle concessionarie.

Ma vi sono almeno tre punti critici di estrema importanza che meritano di essere segnalati, con la speranza che il testo venga migliorato nel passaggio alla Camera. I tempi ci sono e speriamo anche la volontà politica. Questi punti sono:
1. mancato superamento della Legge Obiettivo:
2. concessioni senza rischio operativo:
3. assenza della Valutazione Ambientale Strategica sulle grandi opere.

1. Mancata indicazione per il superamento della Legge Obiettivo.
Nel testo ci sono diversi riferimenti alle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici di preminente interesse nazionale, ma in nessuno dei casi si parla di superamento della Legge Obiettivo. Va ricordato che la legge Obiettivo 443/2001 è vigente e che gli aspetti procedimentali sono stati inseriti dentro al Codice Appalti 163/2006, con un complesso di norme che va dagli articoli 161 all’art. 194.

Se ne deduce quindi che vi sono indicazioni specifiche sul ruolo e sulle procedure per chi realizza infrastrutture strategiche, ma mai si parla di superamento della legge obiettivo tra i criteri previsti dalla legge delega (nonostante che il Ministro Delrio abbia detto più volte di volerla cancellare).

Quindi il rischio concreto è che se la norma non viene cambiata, quando si tratterà di esercitare la delega non si potrà prevedere il superamento della legge obbiettivo o se lo si vorrà fare ci si esporrà ad un “eccesso di delega” facilmente riscontrabile da chi vuole mantenere in auge la legge obiettivo. E sono sicuramente tanti i nostalgici di una norma definita “criminogena” dal presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone.

Serve quindi introdurre tra gli specifici criteri di delega il superamento della Legge Obiettivo, altrimenti alle belle parole, non seguono mai fatti coerenti.

2. Concessioni senza rischio operativo

Su questo punto il testo del Senato ha assunto le seguenti decisioni:

- Art. 1, lettera zz) si chiede di recepire la direttiva 2014/23/CE in materia di concessioni, con una disciplina organica volta a vincolare la concessione alla piena attuazione del piano finanziario, il rispetto dei tempi per gli investimenti e regolare le modalità di indirizzo in caso di subentro.

- Art. 1, lettera aaa) precede l’obbligo di mettere a gara tutti i lavori superiori a 150.000 euro, con un regime transitorio di 12 mesi. Prevede anche che questo obbligo non si applica per le concessioni che hanno vinto o vinceranno una gara affidate con la formula della finanza di progetto o della concessione affidata con gara.

- Art.1, lettera bbb) obbligo di gare per le concessioni, incluse quelle autostradali, per quelle che scadono tra 24 mesi.

- Art.1, lettera ccc) regime transitorio per le concessioni autostradali già scadute o prossime alla scadenza. Applicazione dell’articolo 17 della Direttiva 23/2014 che prevede che si possa affidare direttamente da una amministrazione o ente aggiudicatore ad una propria società in house un servizio su cui effettuare il controllo analogo.

Questo testo approvato dal Senato ha diversi punti critici tra cui:

- La direttiva 23/2014 stabilisce che per affidare le concessioni di lavori o servizi “comporta il trasferimento di un rischio operativo legato alla gestione dei lavori o dei servizi, comprendente un rischio sul lato della domanda che sul lato dell’offerta o entrambi. La parte del rischio trasferita comporta una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile.” (art. 5 direttiva). Nel testo del ddl proposto dal governo era inserita la parola “rischio operativo” ma nel passaggio al Senato questo è stato eliminato.

- E’ opportuno reintrodurre il concetto di “rischio operativo” anche per meglio definire le procedure per il project financing e per la scelta di un concessionario, di come il rischio debba essere trasferito realmente sul concessionario (come prevede la direttiva) e non assunto come garanzia di ultima istanza dallo Stato come avviene oggi in varie forme (come il valore di subentro, risorse pubbliche dirette, defiscalizzazione, agevolazioni dei pedaggi autostradali)

- L’obbligo di gara per le concessioni che scadono tra 24 mesi esclude l’applicazione verso la Società Autobrennero (già scaduta) e la società Autovie (2017) e forse la Brescia Padova (la concessione è legata alla realizzazione della Valdastico Nord)

- Lo speciale regime transitorio per le concessioni autostradali da prevedere per quelle scadute o vicine alla scadenza, espone al rischio di assicurare le proroghe in modo mirato ed ingiustificato. Questa specifica previsione andrebbe soppressa.

- Diverso è il ragionamento per la previsione prevista effettivamente dalla Direttiva (articolo 17) che consente l’affidamento in house ad una propria società pubblica di cui si ha il controllo analogo ( e che sia senza soci privati), come nel caso di AutoBrennero ed Autovie. A cui quindi sarà possibile sulla base delle regole europee affidare una nuova concessione diretta da parte dell’Autorità pubblica, ma inserendo alcune precauzioni per evitare distorsioni. E’ opportuno precisare nella delega questi criteri di affidamento in house:

a) Per la Direttiva le concessioni sono quinquennali a meno che investimenti non giustifichino in modo motivato periodi più lunghi.

b) Tutti i lavori e l’acquisto di servizi realizzati dalla concessionaria pubblica debbono essere sottoposti a gara.

c) Nel caso di AutoBrennero la concessionaria ha vinto insieme a soggetti privati la realizzazione di tre nuove tratte autostradali sottoposte a gara in project financing (Cispadana, Campogalliano-Sassuolo e Ferrara-Mare). Deve risultare evidente che la nuova concessione affidata direttamente alla società madre in house non deve coprire e sussidiare in alcun modo gli impegni assunti con il bando di gara e relativo contratto di queste tre opere, dove il rischio operativo deve restare a carico delle tre concessioni specifiche. Altrimenti si configurerebbe una distorsione della concorrenza a posteriori rispetto agli altri concorrenti risultati perdenti alle tre gare.

3. Assenza della valutazione ambientale strategica sulle grandi opere.
Vi è un argomento connesso alla Legge Obiettivo ed al codice appalti e che riguarda la lista delle opere della Legge Obiettivo, ma che è bene chiarire.

Il Ministro Delrio presentando l’Allegato Infrastrutture al DEF, dove sono state inserite 25 opere (sostanzialmente quelle più mature sul piano della realizzazione e dei progetti) ha indicato la necessità di una selezione definitiva delle opere sulla base dell’applicazione del Decreto Legislativo n. 228 del 2011. Si tratta di un Documento Pluriennale di Pianificazione (DPP) che dovrà rendere coerente tutti i piani ed i programmi di investimento, sulla base dei piani settoriali e che nel DEF si dice sarà presentato a settembre 2015.

Manca completamente, sia nel documento che nelle parole ed audizioni del Ministro Delrio, un riferimento alla necessità di selezionare le opere sulla base anche di una Valutazione Ambientale Strategica, che invece è un criterio irrinunciabile e sostenibile di selezione.

Va ricordato che tutta la lista delle opere della legge obiettivo non è stata mai sottoposta a VAS, sia perché nel 2001 la Direttiva non era vigente e poi perché di lista e non di piano si trattava. Anche quando nel 2006 è entrata in vigore la direttiva VAS in Italia non è stata mai applicata alla selezione delle opere infrastrutturali nei trasporti (la tesi era che erano già decise ed approvate....) ed è giunto il momento di farlo.

23 luglio 2015

In molte regioni per concorrere all’assegnazione di una casa popolare è necessaria un’anzianità di residenza. Non è un criterio efficace per riequilibrare il rapporto fra italiani ed extracomunitari assegnatari. Ma potrebbe essere usato come premio, rivedendo il sistema di punteggi e graduatorie». Lavoce.info, 21 luglio 2015 (m.p.r.)

Case popolari: se l’anzianità di residenza vale un premio

D’ora in avanti per concorrere all’assegnazione di una casa popolare in Emilia-Romagna sarà necessaria un’anzianità di residenza nella regione di almeno tre anni. È una condizione già introdotta (anche con un numero di anni maggiore) in altre regioni, nel tentativo di contenere lo squilibrio, a favore degli immigrati extracomunitari, nella concessione degli alloggi pubblici in affitto.

È probabile che gli italiani percepiscano come più immediata la concorrenza degli extracomunitari sul fronte della casa che non su quello del mercato del lavoro: molti immigrati svolgono attività non più gradite ai nostri concittadini, mentre sono pochi gli italiani che rifiuterebbero un aiuto per la soluzione del problema della casa, soprattutto se consistesse nell’assegnazione di un’abitazione popolare a canone molto basso. Per questo i politici da diversi anni si propongono di limitare l’accesso degli immigrati extracomunitari alle agevolazioni per la casa. Iniziò il governo Berlusconi (decreto legge 112/2008, primo piano casa) precludendo la possibilità di beneficiare del contributo per il pagamento dell’affitto, ex lege 431/1998, agli inquilini non residenti da almeno dieci anni in Italia o da almeno cinque nella stessa regione.
Le regioni impugnarono presso la Corte costituzionale la quasi totalità delle previsioni di quel piano, ma non quella concernente l’anzianità di residenza che, anzi, applicarono ai soli immigrati extracomunitari. Lo fecero con tempestività anche tre (Toscana, Umbria e Marche) delle quattro regioni “rosse” del Centro-Nord; la quarta, l’Emilia-Romagna, si è adeguata quest’anno, stabilendo che l’anzianità di residenza debba maturare senza interruzioni (una restrizione rispetto alla previsione della norma statale). Indipendentemente da come la si pensi sul piano politico, la misura è di pronta efficacia. La ragione è semplice: poiché il contributo è erogato sulla base del possesso dei soli criteri per accedervi, senza alcuna graduatoria di merito, gli inquilini privi dell’anzianità di residenza richiesta non possono richiederlo e ottenerlo.
Una condizione a efficacia ridotta

Non si può, invece, scommettere sull’efficacia, nel riequilibrare il rapporto extracomunitari/italiani nell’assegnazione delle case popolari, della condizione (che sembra valere per tutti gli immigrati) dei tre anni di residenza introdotta dalla Regione Emilia-Romagna. L’effetto immediato della nuova norma sarà la riduzione del numero di immigrati che potrà concorrere ai bandi. Poiché il numero di alloggi da assegnare è generalmente un piccolo sottomultiplo del fabbisogno, si ridurranno anche le liste di attesa, ma non la tensione abitativa.

La condizione di extracomunitario non ha alcuna influenza nella formazione delle graduatorie, le quali riflettono le situazioni materiali delle famiglie. Su di esse hanno, invece, un peso rilevante la condizione economica, la numerosità e le varie forme di disagio degli aspiranti inquilini. Le condizioni delle famiglie extracomunitarie, anche dopo qualche anno di permanenza in Italia, sono mediamente peggiori di quelle delle famiglie italiane. È questa la ragione per cui il vincolo dell’anzianità di residenza ridurrà il numero di immigrati che ricevono una casa in misura meno che proporzionale rispetto al calo del numero di quanti potranno concorre ai bandi.

Un premio all’anzianità

Anche la riduzione di quest’ultimo numero potrebbe non essere rilevante. In passato, ho svolto delle elaborazioni sulle circa 800 famiglie in lista d’attesa per l’assegnazione delle case popolari in un medio comune emiliano che attribuiva un punteggio all’anzianità di residenza. Gli extracomunitari erano il 40 per cento del totale dei nuclei in graduatoria, mentre quelli residenti nel comune da meno di tre anni erano il 9 per cento; quest’ultima percentuale non arrivava all’1,5 per cento considerando solo le prime trecento posizioni della graduatoria e raddoppiava se l’anzianità di residenza anziché a tre fosse stata portata a cinque anni. Restringendo ulteriormente l’analisi alle prime cento posizioni, che sono quelle che danno a chi le occupa le maggiori probabilità di ottenere una casa, per contare i casi in questioni sarebbero state più che sufficienti le dita di una mano.

Occorre, allora, prendere atto che quello dell’anzianità di residenza è un criterio del tutto sterile rispetto all’obiettivo per il quale è stato pensato? Questa conclusione drastica sarebbe sbagliata, poiché il criterio, anziché come condizione per aver diritto al beneficio, può essere usato in funzione premiale. Alcuni comuni lo fanno già. Per amplificarne gli effetti è, però, necessario attribuire all’anzianità di residenza un peso rilevante nel sistema dei punteggi per la formulazione delle graduatorie e farlo variare, tra un minimo e un massimo, in misura più che proporzionale con gli anni di permanenza nel comune. Si premierebbero il radicamento nel territorio e il contributo, anche fiscale, alla comunità, senza esporsi all’accusa di discriminazioni etniche. In Emilia-Romagna e anche nel resto del paese.

«Al di là della meritoria fornitura di dati e servizi, quale sarà l’utilizzo politico-amministrativo che la Regione e gli istituti correlati intenderanno fare di questa risorsa? Il quesito è d’obbligo per diverse ragioni». 15 luglio 2015

Salvo minori aggiustamenti e test di affidabilità, la Regione del Veneto ha concluso l’aggiornamento della Banca Dati della Copertura del Suolo regionale al 2012 (CCS_2012). E’ significativamente migliorato il dispositivo geometrico e tematico della versione del 2007, ma sono soprattutto aumentate le possibilità di aggiornamento ‘aperto’ e a costi unitari inferiori. Non va sottovalutata la possibilità d’uso di dati ancillari in grado di qualificare i ‘poligoni di copertura’ e la prevedibile stesura di regole tecniche utili anche per altre Amministrazioni Regionali. CCS opera alla scala 1:10.000 con classificazione del territorio in 174 classi, in linea con la nomenclatura del progetto europeo ‘Land Cover’ (CORINE). Alla legenda di Classe 1 (urbanizzato) sono state aggiunte ulteriori 27 classi con miglioramento del dettaglio tematico, mentre le classi relative all’uso del suolo agricolo non registrano novità significative. Questo divario fra classificazione dell’urbanizzato e del non urbanizzato viene considerato un limite dagli stessi responsabili regionali, limite che dovrebbe essere superato in futuro acquisendo informazioni sulle modalità di copertura e sugli usi del suolo agricolo. L’aggiornamento è avvenuto con approfondimento tematico della CCS_2007 in riferimento ai ‘territori modellati artificialmente’ e con l’interpretazione a video delle ortofoto digitali a colori AGEA (2012). Si tratta di una risorsa preziosa e bisogna riconoscere il lavoro svolto negli ultimi 2 anni dalla Direzione della Sezione Pianificazione Territoriale Strategica e Cartografia. Ma al di là della meritoria fornitura di dati e servizi, quale sarà l’utilizzo politico-amministrativo che la Regione e gli istituti correlati intenderanno fare di questa risorsa? Il quesito è d’obbligo per diverse ragioni. Ne commentiamo alcune.

La prima riguarda le trasformazioni dello spazio fisico monitorabili a partire dalla copertura. Una serie temporale consente l’aggiornamento del quadro conoscitivo sulle morfologie di copertura urbane, rurali e miste tenendo conto della geografia regionale. Questo aggiornamento può aiutare a capire come i pattern di copertura derivino da diversi modelli di consumo di suolo e come questi reagiscano a fenomeni congiunturali e strutturali. Sono queste reazioni che determinano i cosiddetti ‘cicli territoriali’ utili per la pianificazione d’area vasta (come il Ptrc e sue varianti), ma anche a fini di programmazione della spesa regionale, nazionale e comunitaria. Uno stesso pattern di copertura può ‘nascondere’ infatti diversi modelli di uso del suolo, orientati alla integrazione di funzioni, alla riqualificazione del dismesso in zone ‘urbanizzate’ oppure alla ‘dismissione’ agricola mediante colture specializzate ed ‘energivore’, che trasformano la campagna in ‘residuo’ o in una vera e propria pattumiera. Com’è noto, questi modelli sono influenzati da comportamenti finanziari, economici, sociali e amministrativi di tipo locale e non locale che condizionano le analisi a loro favore. Se così non fosse, le inefficaci rappresentazioni degli ambienti insediativi o della SAU verrebbero abbandonate, così come l’utilizzo di termini come gerarchia urbana, policentrismo, gradiente fra compatto e diffuso e così via. La strumentalizzazione delle analisi condiziona il quadro di riferimento non solo della pianificazione d’area vasta, ma anche di quella locale. Il tema può essere approfondito spostandosi verso il consumo di suolo.

Se la copertura va interpretata tenendo conto della affidabilità ‘statistica’ dei poligoni di copertura (ovvero sulla base della loro capacità di ‘avvicinarsi’ ad una realtà percepibile, accogliendo anche informazioni spaziali ancillari, fornite da altre fonti), il passo successivo non può che riguardare la configurazione dei modelli di uso del suolo. Sono questi che danno senso alle analisi sul consumo di suolo, altrimenti prive di riferimento e vittime designate di indicatori semplicistici e fuorvianti tipo ‘ettari di SAU consumata pro-capite’ o ‘variazione in ettari di superficie ad urbanizzazione diffusa pro-capite’. Molti indicatori rappresentano ‘relazioni spurie’, ovvero attribuiscono un effetto parzialmente attribuibile (al numeratore) ad una causa (non esclusiva) al denominatore. Indicatori di questo tipo, oltre ad essere parzialmente consistenti, nascondono con la loro formulazione aggregata responsabilità, diseguaglianze e ingiustizie distributive. Non solo. I dati consentono di testare ipotesi più impegnative e raccogliere evidenze. Ne basti una in proposito.

Le coperture evidenziano pattern ricorrenti la cui ‘logica territoriale’ è comprensibile soltanto correlandoli alla struttura amministrativa locale e ai suoi strumenti di governo. E’ da quando si parla di pianificazione sovra/intercomunale o d’ambito che si ritiene più ‘nostalgica’ che efficace la struttura amministrativa esistente. Ma poco o nulla è stato fatto in termini di gestione del territorio in chiave territoriale, costringendo le gestioni consortili dei servizi ad inseguire le logiche più frammentarie. Una conferma viene dai Pati tematici. Essi svolgono più un ruolo di semplificazione procedurale e di contenimento dei costi di progettazione che di pianificazione e gestione efficace. Basta guardare alla ripetitività dei modelli di copertura. Come da tempo rilevato da diversi studiosi, essa può assumere una configurazione frattale, a costi unitari di urbanizzazione crescente all’aumentare della scala. Essa è in gran parte da addebitarsi alle ridotte dimensioni dei comuni e alla fiscalizzazione ‘astratta’ del suolo con una gestione impropria degli introiti da oneri di urbanizzazione e un impiego ‘immobiliarista’ della perequazione.

Qualche anno fa, in una ricerca affidata dalla Regione del Veneto all’Università Iuav di Venezia, si è cercato di verificare se, quanto e dove la pianificazione urbanistica, quindi i piani approvati dai Comuni, contribuissero all’edificazione del suolo e al suo consumo irreversibile. I risultati furono sconfortanti, pur essendo agli inizi del regime della Legge 11/2004. Ma se l’indagine venisse riproposta oggi, utilizzando CCS_2012 emergerebbero evidenze e responsabilità ancor più gravi: un consumo di suolo sempre più selettivo (agisce sui terreni di maggior valore) e aggressivo nonostante le dichiarazioni di principio; una sostanziale indipendenza dell’attività edilizia rispetto alle dinamiche demografiche (queste misurate sulle famiglie piuttosto che sugli individui); una sua concentrazione in aree sensibili e un allungamento dei tempi di recovery delle esposizioni finanziarie. Quest’ultimo aspetto ha contribuito a ridurre il ruolo anticiclico del Piano casa nelle sue varie edizioni. Ma l’aspetto più drammatico è dovuto alla separazione fra pianificazione strutturale e operativa, in particolare a quello che potremmo chiamare ‘paradosso valutativo’.

La Vas viene applicata (in modo prevalentemente giustificativo) al Pat/i che è uno strumento non conformativo, di indirizzo e che indica possibili linee di riqualificazione o crescita. Non viene invece applicata al Pi, lo strumento che determina le trasformazioni reali e che attiva i dispositivi di perequazione, trasferimento di crediti edilizi, mitigazione o compensazione. Non solo: con le deleghe alle Province in materia urbanistica (che non sembrano mutate con il riordino) la Regione ha di fatto abdicato a monitorare quanto accade nel suo territorio, disattivando l’Osservatorio sulla pianificazione e pregiudicando fin dal suo nascere l’Osservatorio sul paesaggio. L’ Osservatorio sulla pianificazione dovrebbe monitorare i processi di pianificazione, soprattutto regolativa, e i loro esiti, fornendo elementi utili per la loro valutazione da diversi punti di vista, e non solo dal punto di vista ambientale. Due potrebbero essere le dimensioni rilevanti di questo esercizio valutativo: l’interpretazione del territorio proposta dai piani rispetto alle dinamiche più generali di trasformazione dello spazio fisico; l’analisi degli effetti che i piani determinano con i sottesi modelli di uso del suolo in termini di qualità e costo della vita. L’attivazione di un dispositivo valutativo del genere richiederebbe un cambiamento radicale dell’approccio valutativo e la messa a punto di un adeguato strumento di monitoraggio generico (su tutto il territorio) e specifico (su ambiti selezionati).
Purtroppo oggi non vengono effettuate neppure le operazioni più semplici, come confrontare i quadri conoscitivi dei Pat/i con le coperture disponibili o riferire gli Studi di Impatto Ambientale al territorio regionale caratterizzato. CCS_2012 consentirebbe di caratterizzare l’ambiente sia in termini matriciali (quelli previsti per legge), sia in termini bionomici, molto più integrati e capaci di restituire la bio-diversità degli ecosistemi in termini dinamici. Non solo: la classificazione fine delle coperture incrociata con i dati sulle funzioni (industriali, agricole, commerciali, residenziali, di servizio, ecc.) aiuterebbe ad identificare i principali stressor, la diffusione e la concentrazione dei principali contaminanti, e i loro impatti per categorie di recettori. Con opportuni social network o dispositivi di segnalazione, questi ultimi potrebbero aiutare a costruire funzioni di dose-risposta e proporsi come reali strumenti di interazione e partecipazione.

Considerazione a parte merita la mobilità. E’ interessante notare come le variazioni di copertura registrate nel periodo 2007-12 abbiano intensificato il grafo stradale, migliorando l‘accessibilità nelle nuove aree servite, ma scaricando i flussi delle nuove partizioni sul sistema principale. I grandi progetti infrastrutturali (Pedemontana Veneta, prolungamento della PiRuBi verso sud e probabilmente anche verso il Trentino, circonvallazione di Mestre, gasdotti, ecc.) rispondono solo in parte al problema in quanto ostili a queste considerazioni territoriali.

Va detto che un grafo stradale aggiornato, descritto secondo le indicazioni del Codice della Strada e opportunamente caricato con i dati sui flussi ottenuti con le nuove tecnologie di osservazione della terra, consente di valutare le variazioni d’accesso ai luoghi, fenomeni di congestione dovute alle nuove funzioni o ai grandi progetti infrastrutturali, la stessa variazione delle geografie localizzative che tanto interessano il mercato immobiliare. Un esercizio interessante potrebbe riguardare la valutazione di una o più ipotesi ‘logistiche’ in termini di accessibilità ai cluster produttivi, con la creazione di punti di interscambio ferro-gomma di rango variabile.

Gli esempi potrebbero continuare, ma è evidente che la nuova Banca Dati proprio perché aumenta il potenziale conoscitivo e pianificatorio rischia di allargare il divario fra tecnica e politica e rendere più gravi le responsabilità politiche in materia di pianificazione e gestione del territorio.

Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2015

I senatori che ci hanno lavorato la descrivono come “uno schiaffo” al governo. Peccato contenga anche diverse carezze ai signori del cemento, soprattutto quelli che si arricchiscono, con pochi rischi, a spese dello Stato.

Ieri il Senato ha dato via libera a larga maggioranza (Sel e M5S si sono astenuti) alla legge delega sul nuovo codice degli appalti (passerà alla Camera). Il testo dovrebbe chiudere una certa stagione, quella degli scandali tipo Mose e delle cricche delle grandi opere, aprendo alla trasparenza, alle gare pubbliche etc. In parte le premesse sono mantenute, in buona parte no. Ieri a Palazzo Madama i senatori esultavano per aver “modificato in toto il testo del governo, che era un obbrobrio”. Poi però è arrivato anche un emendamento a firma dei relatori Stefano Esposito (Pd) e Lionello Marco Pagnoncelli (fittiano ex Fi) che sposta il baricentro a favore dei privati, e nell'iter sono rimaste alcune delle grandi anomalie che in Italia moltiplicano i costi delle grandi opere.

Andiamo con ordine. L’emendamento esclude i titolari di concessioni “in essere e future” affidate con la formula della finanza di progetto (il project financing) dall’obbligo di fare una gara pubblica per affidare “tutti i contratti di lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni”, cosa che invece dovrà valere per tutti gli altri.

Ieri, il testo è stato riscritto esonerando anche le concessioni affidate con bandi di gara sul modello europeo, ma solo quelle già “in essere” (e non quelle future): tutto per evitare il ricorso di un colosso come Toto, che ha costruito così la sua Autostrada dei parchi. “Le critiche a questo emendamento non stanno in piedi – spiega Esposito al Fatto – perché a essere escluse dall’obbligo di gara sono solo le manutenzioni, non la costruzione dell'opera: un giro d'affari di soli 1,5 miliardi sugli 8,5 delle concessioni”. “Non è affatto così – spiega invece Ivan Cicconi, direttore dell’Istituto per la trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale, e grande esperto in materia – le manutenzioni rientrano nei ‘contratti di servizi’, mentre quelli dei ‘lavori’ comprendono assolutamente anche la costruzione dell'opera: è incredibile che l'abbiano scritto in questo modo”. Un esempio di come vengono fatte le leggi: toccherà ai decreti delegati – una volta approvata la legge delega – chiarire il pasticcio (o peggiorarlo).

Al project financing si sono appassionati anche Comuni e Regioni e funziona così: lo Stato non ha i soldi per realizzare un'opera, ci pensa allora il privato che verrà poi ripagato con la concessione di sfruttamento (o un canone d'affitto). Fin qui tutto bene. Solo che di norma questo non avviene quasi mai, vuoi perché spesso i prestiti ottenuti dal privato sono garantiti dallo Stato (è il caso dell'autostrada Brebemi, controllata da Intesa, coop rosse e dal costruttore Pizzarotti), vuoi perché al concessionario viene garantita una remunerazione, in caso le cose vadano male, molto generosa. “In questo modo le concessioni affidate con il project financing diventeranno sempre più convenienti – spiega Cicconi – e la beffa è che sono quelle su cui lo Stato ha meno voce in capitolo”. Come si aggiudica un’opera in project financing?

Il privato presenta un progetto, sulla base del quale l'Ente pubblico avvia una gara, e se la vince un altro riceve almeno un indennizzo. Peccato però che nel 90% dei casi chi presenta il progetto vince la procedura. “Una non gara”, per Cicconi: “Se il progetto lo scrive il pubblico, tu privato che vinci l’appalto puoi anche affidare a chi vuoi i lavori. Se invece lo scrivi tu, come nella ‘finanza di progetto’, dovresti essere obbligato a fare lavori con gara. La delega invece stabilisce il contrario”.

In pratica non verrebbe sanato il sistema che solo apparentemente fa finanziare le grandi opere dai privati, ma alla fine paga comunque lo Stato. Il project financing ce lo siamo inventati noi, non esiste nelle direttive europee. Nel ‘94 la legge Merloni, obbedendo alle indicazioni dell’Ue, stabilì che i contratti di concessione andavano remunerati con il “diritto allo sfruttamento”, accompagnato eventualmente da “un prezzo”, cioè un contributo dello Stato, che però non poteva superare il 50% dell'investimento. Nel 2002, la legge obiettivo del governo Berlusconi ha soppresso il limite: il prezzo può arrivare anche al 100%. “Così il rischio di mercato si azzera, quindi avrebbe più senso che ci fosse più attenzione sugli appalti”, continua Cicconi.

La delega abolisce poi l’articolo 5 dello Sblocca Italia, che permetteva la proroga delle concessioni senza gara, e resta anche la figura del general contractor, altra figura tutta italiana illuminata dall’inchiesta grandi opere: una specie di concessionario anomalo, che prende in appalto i lavori ma che viene remunerato non con il diritto di sfruttamento dell’opera ma con denaro, e quindi non ha interesse a contenere i costi. Il neoministro dei Lavori Graziano Delrio aveva invece promesso di abolirlo.

Le ragioni della tutela

Mi piace ricordare, come ho fatto altre volte, un’affermazione di Cederna della fine del 1964, contenuta in uno scritto per Il Mondo, poi riprodotto per volontà dello stesso Cederna, in Brandelli d'Italia, nel 1991. Scriveva Cederna, invocando la definizione di una "nuova legge urbanistica", ed auspicandola prossima, che essa avrebbe dovuto "garantire un'effettiva tutela dei centri storici e dei comprensori naturali", segnando "la fine, finalmente, della sporadica, occasionale, tardiva e fallita politica dei vincoli apposti dal Ministero dell'Istruzione: la tutela dell'ambiente urbano e naturale viene finalmente inclusa nella pianificazione, ne diventa una sua parte integrante e essenziale, centri storici e paesaggio e complessi naturali, da semplici apparenze che erano, diventano destinazioni di zona, con funzioni previste, nell'ambito di tutti gli sviluppi urbanistici".

A ben vedere, la stessa impostazione era presente nei lavori delle commissioni istituzionali che hanno operato, lungo quasi tutto l'arco degli anni '60, al fine di proporre una riforma dei sistemi di tutela dei beni culturali. La prima di esse, nota come "Commissione Franceschini", nelle sue proposte finali precisava, ad esempio, relativamente ai centri storici, che "ai fini operativi, la tutela dei centri storici si dovrà attuare mediante misure cautelari (quali la temporanea sospensione di attività edilizie ad essi inerenti), e definitivamente mediante piani regolatori", e che i "piani regolatori relativi ai centri storici dovranno avere riguardo ai centri medesimi nella loro interezza, e si ispireranno ai criteri di conservazione degli edifici nonché delle strutture viarie e delle caratteristiche costruttive, di consolidamento e restauro, di risanamento interno igienico-sanitario".
Nel complesso, è indubbio ed esplicito, e non limitato all'argomento dei centri storici, l'orientamento della Commissione volto a ricondurre gli obiettivi della tutela dei beni e dei valori culturali nell'ambito dell'ordinaria pianificazione urbanistica. Per converso, è altrettanto certo e palese il suo tentativo di disegnare dei percorsi logici, metodologici e procedimentali che rispettino, pure puntando a ricondurla all'unitarietà ed alle coerenze del processo di piano, la concorrenza dei poteri locali e statali in vista della finalità della tutela dei predetti beni e valori, sulla base dell'assunto per cui, essendo essi patrimonio dell'intera collettività nazionale, non sono attribuibili alla piena ed esclusiva disponibilità di istituzioni rappresentative soltanto di parti di tale collettività.
Vale la pena di rammentare che la seconda commissione, nota come "Commissione Papaldo", proponeva, tra l'altro, che alcuni beni culturali fossero dichiarati tali dalla legge, ed altri, descritti dalla stessa legge, fossero "beni culturali presunti" e come tali "assoggettati [...] al regime dei beni culturali proprio della loro categoria" finché non sia emessa una "dichiarazione negativa". Tra questi "beni culturali presunti" proponeva che fossero inclusi "i centri storici e i nuclei insediativi di carattere storico o artistico".
Ritengo che i principi e gli assunti fondativi delle elaborazioni delle commissioni "Franceschini" e "Papaldo" (e se volgiamo aggiungerle, le opinioni di Cederna) avessero, e conservino intatta, grande validità. Purtroppo se ne è fatto scarso, insufficiente, parziale e quindi distorto e distorcente, tesoro.
Soltanto alla metà degli anni '80, con la legge 431/1985, si introducono rilevanti innovazioni in materia di tutela del "paesaggio”, inteso come la ”forma del Paese”. Sotto due profili vengono ripresi assunti delle elaborazioni delle commissioni "Franceschini" e "Papaldo". Si vincolano beni ope legis, e almeno per alcune loro categorie si può parlare di "beni culturali presunti", in quanto per essi può essere emessa una sorta di "dichiarazione negativa". E si prende coscienza del fatto che può aversi efficace tutela di tali beni solamente attraverso la definizione, mediante strumenti di pianificazione, delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili, stabilendo che almeno relativamente ai beni "vincolati", ope legis o con specifici provvedimenti amministrativi, le Regioni devono dettare una disciplina "mediante la redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali". Purtroppo, è assai malamente risolta la questione della necessaria concorrenza dei poteri locali e statali in vista della finalità di tutela dei beni “vincolati”.

È bensì previsto l'esercizio di poteri statali che, seppure censurando l'improprietà delle formulazioni di legge, la Corte costituzionale ha stabilito possano interpretarsi come “sostitutivi”, nella formazione dei "piani paesistici", in caso di inadempienza regionale. Ma l'esercizio di tali poteri può conseguire soltanto dalla totale inattività regionale, ovvero, con qualche forzatura, da un adempimento regionale che sia, incontrovertibilmente, “elusivo” dell'obbligo posto in capo alle Regioni, cioè tale da non rispondere affatto alla finalità di tutela, se non da contraddirle. In altri termini, la concorrenza dei poteri non è definita nella forma piena dell'obbligo dell'intesa, tra i poteri medesimi, sui concreti contenuti dei previsti strumenti di pianificazione. Di fatto, ad oltre tredici anni dall'entrata in vigore della legge, delle regioni a "statuto ordinario", sei non hanno adempiuto affatto, due hanno adempiuto in termini assolutamente “elusivi”, cinque in termini parziali, lacunosi, comunque assai discutibili, e soltanto due in termini pieni. Lo Stato ha esercitato i poteri sostitutivi soltanto nei riguardi di una delle regionali totalmente inadempienti.

Nel disegno di legge recante "Norme per le città storiche", del quale ha parlato il senatore Chiarante, si prevede, tra l'altro, che i "centri, quartieri e siti storici", perimetrati dai comuni con l'assenso vincolante del competente Soprintendente per i beni ambientali e architettonici (oppure su proposta del Soprintendente in caso di inattività comunale), siano sottoposti alle disposizioni di cui alla legge 1 giugno 1939, n. 1089.

I "centri, quartieri e siti storici" verrebbero, insomma, unitariamente considerati "beni culturali" come proposto dalle commissioni per la riforma dei sistemi di tutela dei beni culturali degli anni '60. Rispetto a quelle elaborazioni, peraltro, manca pressoché totalmente la consapevolezza della necessità di ricondurre gli obiettivi della tutela dei beni e valori culturali nell'ambito dell'ordinaria pianificazione urbanistica, ma stabilendo per quest'ultima percorsi procedimentali che garantiscano la concorrenza dei poteri locali e statali. Nello schema del disegno di legge, infatti, manca ogni riferimento alla pianificazione dei "centri, quartieri e siti storici", nel contesto della più generale pianificazione del territorio, ma si tratta soltanto di non meglio identificabili "programmi per interventi a salvaguardia del patrimonio storico urbano", che dovrebbero essere approvati dai comuni, soltanto "sentiti" i competenti Soprintendenti. Ai quali ultimi competerebbe, invece, di autorizzare, caso per caso, le trasformazioni proposte su qualsiasi immobile ricadente nei "centri, quartieri e siti storici".
Credo, invece, fermamente, che sarebbe il caso di rilanciare con forza la “cultura” (e la pratica) della pianificazione, ed al contempo di sancire che, limitatamente ai beni e valori culturali, la vigenza degli strumenti di pianificazione urbanistica sia subordinata all'intesa dei poteri locali con i poteri statali preposti alla tutela dei medesimi beni e valori, rappresentativi degli interessi dell'intera collettività nazionale, dei quali i predetti beni e valori sono patrimonio (correttamente applicando il "principio della sussidiarietà", nei termini in cui è definito dalla "costituzione" europea, non nella sua mistificata versione italiota). Così facendo, tra l'altro, si risponderebbe positivamente ad alcune argomentazioni, di inconfutabile validità culturale, che hanno supportato il largo fronte di coloro che, all'apparire dello schema di legge recante "Norme per le città storiche", l'hanno aspramente criticato, e si lascerebbe coloro che volessero continuare a stracciarsi le vesti del tutto ignudi nel loro ruolo di vestali di quella bizzarria, anch'essa italiota, che è il "federalismo municipalistico".
Ad ogni buon conto, il principio per cui gli strumenti di pianificazione per quanto disciplinino beni (in senso patrimoniale-economico) dello Stato, in termini tali da incidere sulla loro finalizzazione, possano diventare efficaci soltanto previa "intesa" con lo stesso Stato, è stato da tempo chiarito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, ed è presente nel diritto positivo sia statale, con riferimento a specifici "oggetti", che di talune regioni, in termini più generali. Non pare quindi dovrebbe esservi alcun ostacolo concettuale, né di diritto costituzionale, stante anche l'articolo 9 della Costituzione, a estendere tale principio a quel ben più rilevante "patrimonio nazionale" che è costituito dai "beni culturali", ed in genere dai beni in cui si incarna e si manifesta l'”identità culturale” del Paese.
Ancora: negli strumenti di pianificazione, formati attraverso le “intese” di cui ho detto, potrebbe essere stabilito quali "oggetti", o per quali tipi di interventi, fosse ancor necessaria l'acquisizione dello speciale provvedimento abilitativo dell'autorità statale, o il mantenimento all'autorità statale del potere di annullamento dei provvedimenti abilitativi dell'autorità locale, e per quali “oggetti”, o per quali tipi di interventi, i provvedimenti abilitativi dell'autorità locale, verificando la conformità delle trasformazioni e utilizzazioni agli strumenti di pianificazione, possano assolvere pienamente le finalità di tutela. Propendo a ritenere che la prima fattispecie potrebbe risultare percentualmente minima. Ed ancora: anche la questione, recentemente riesplosa, dell'alienabilità di beni immobili degli enti locali, "beni culturali presunti" secondo la vecchia e tuttora vigente legislazione, potrebbe essere affrontata e risolta, assai meglio che con vaghi "regolamenti ministeriali", sulla base di strumenti di pianificazione formati attraverso le "intese" di cui ho detto, e pertanto in grado sia di emettere, per specifici immobili, delle "dichiarazioni negative", sia, eventualmente, di giudicare altri specifici immobili, pure considerabili "beni culturali", adeguatamente tutelati dalla stabilita disciplina delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili, anche nel venir meno della loro appartenenza al patrimonio (in senso economico) pubblico.
Peccato che, delle nuove proposte di legge organica in materia di urbanistica che sono state presentate o predisposte negli ultimi tempi, non una affronti il problema della concorrenza dei poteri statali e di quelli locali in vista delle finalità di tutela. Varrebbe la pena di richiamare con forza l'attenzione, su questo nodo, o snodo, problematico, delle forze politiche, dei gruppi parlamentari, dei ministri per i beni culturali e dell'ambiente. Confidando che la recente, e fortunata relativa "messa in sordina" dello smaniare "federalista", non comporti il perpetuarsi di un pluridecennale procedere frammentario, disordinato, a stop and go, complessivamente assai poco efficace, e di sicuro generalizzatamente deresponsabilizzante.
Luigi Scano,
Segretario dell'associazione Polis
1998

Sette anni fa ci ha lasciati Gigi Scano. È stata una perdita grave, per ciascuno dei suoi amici e per eddyburg. eddyburg ha perso un collaboratore prezioso per l'intelligente attenzione con cui informava e orientava sistematicamente non solo sulle questioni de jure relative all'urbanistica, ma anche sui più rilevanti eventi della cultura e della politica.

Le sue scelte e i suoi commenti (e cosí i consigli che generosamente offriva a chiunque glieli chiedesse) erano sempre, dichiaratamente, di parte: era un giacobino, un uomo per il quale, secondo l’aurea definizione di Lucio Villari, "il buon governo consiste nella soggezione dell'interesse privato a quello pubblico". La politica, nel significato più alto di quel termine oggi tanto sputtanato, era il suo humus. Forse non a caso scomparve quando la politica cominciava a diventare cosa radicalmente diversa, e anzi antitetica, rispetto a quella che lui aveva conosciuto e praticato. Sempre in ombra, sempre al servizio degli altri.

Luigi Scano ha lasciato una grandissima eredità di scritti, suoi e altrui, e di documenti. L’insieme delle carte e dei materiali digitali è stato raccolto dai suoi amici. Non aveva una casa di sua proprietà (Gigi è morto povero, come aveva vissuto) nel quale si potesse custodirlo. Il materiale cartaceo è stato ospitato prima in un locale del Comune di Venezia, grazie a Enzo Castelli, oggi a Villa Hériot, sede dell’Istituto veneziano per la storia della Resistenza, grazie al suo direttore Marco Borghi.

Crediamo che il lascito di Gigi sia un patrimonio prezioso, la cui conoscenza potrebbe aiutare oggi tutte le persone di buona volontà che volessero attingervi. Per conto nostro cominceremo col riprendere dal nostro archivio digitale, o da testi ancora cartacei scanditi per l’occasione, alcuni scritti che ci sembrano ancor oggi di grande attualità.

Ci piacerebbe festeggiare, fra tre anni, il decimo anniversario della sua morte con l’avvio di un lavoro più sistematico sul patrimonio che ci ha lasciato. Ma è un’impresa per la quale eddyburg non ha neppure le risorse per cominciare. Per ora, vi ricordiamo che alcuni scritti di Gigi sono raggiungibili nel vecchio archivio di eddyburg e altri via via ne inseriremo, nelle cartelle “Scritti di Gigi Scano” e “Per la sua Venezia”, mentre altri materiali raccolti alla sua scomparsa sono riuniti in altre cartelle qui.

La Repubblica, 15 febbraio 2015

Un regalo ai concessionari, l’ennesimo. Un danno agli utenti. C’è una partita da cinque miliardi di euro all’anno che si sta giocando in queste ore in Italia: la gestione delle autostrade. Una partita che ruota attorno a un articolo del decreto Sblocca Italia, il numero cinque, e che vede da una parte il Governo e dall’altra il presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, il quale ha già scritto una lettera al ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, e domani sarà ascoltato in commissione Ambiente alla Camera. «Se non si cambia quella norma - sostiene Cantone - si rischia che vengano affidate concessioni senza alcun tipo di procedura ad evidenza pubblica, in violazione, tra l’altro, dei principi di concorrenza ed economicità ».

La storia, dunque. Grazie all’articolo 5 gli attuali concessionari (Benetton, Gavio, Toto oltre a una serie di enti locali pubblici e privati) potranno chiedere il rinnovo degli attuali permessi nel caso decidano di unificare la gestione di tratte interconnesse. «Il senso della norma - spiegano dall’Anticorruzione - è dare la possibilità di accorpare le concessioni, che al momento sono 25 e fruttano in media cinque miliardi netti all’anno, per favorire gli investimenti e una riduzione delle tariffe al casello». Nei fatti però si può arrivare al risultato opposto. «Accorpando le concessioni si prende come data di scadenza, chiaramente, quella più lontana. Se ce n’è una che si chiude nel 2015 e un’altra nel 2025, la scadenza viene portata automaticamente al 2025 per entrambe. Di fatto è una proroga mascherata». Dei 25 concessionari, almeno 9 hanno il contratto in scadenza (ad esempio quello del gruppo Gavio per la Torino-Milano finisce nel 2017), e per l’Autobrennero è addirittura già scaduto nel 2014. Lontano invece il termine per Autostrade per l’Italia, che da sola gestisce il 50 per cento dei chilometri in Italia: se ne riparla nel 2038.
Una posizione, quella di Cantone, che è condivisa dall’Unione europea e dal Garante della Concorrenza, Giovanni Pitruzzella, che alla Camera ha parlato di «un meccanismo di proroga implicita che elimina del tutto e potenzialmente per periodi significativi un essenziale fattore concorrenziale del settore». Non esattamente un dettaglio, questo. L’attuale regime aiuta a tenere alti gli utili dei concessionari, come dimostrano i bilanci, e molto bassi i vantaggi per gli automobilisti visto che non si sono riscontrati sensibili abbassamenti nelle tariffe. Secondo Cantone non ce ne saranno nemmeno negli anni a venire. Perché nonostante lo Sblocca Italia punti all’obiettivo di raggiungere «prezzi e condizioni di accesso più favorevoli per gli utenti », il commissario Anticorruzione ha più di un dubbio su come andrà a finire questa storia. Oggi quella dei pedaggi è una vera giungla, le autostrade che hanno interesse ad accorparsi hanno tariffe diverse ed è complicato pensare che si adeguino al ribasso. «Dove sarà quindi il vantaggio per gli automobilisti?», si chiedono all’Authority. Senza bandire le gare, si rimane in condizioni di sostanziale monopolio.

Stesso discorso vale per gli investimenti. La nuova legge lega la possibilità di unificare, e dunque prorogare le concessioni, al «potenziamento e adeguamento strutturale, tecnologico e ambientale delle infrastrutture». Ma in realtà questo è previsto già nei contratti in vigore, dunque le società che vogliono ampliare le corsie di una tratta, ad esempio, ne hanno già facoltà. E hanno pure un altro vantaggio: se gli scade il contratto e non sono ancora rientrati dell’investimento, sarà chi subentra a saldare il conto.

A Cantone, ha già risposto nei giorni scorsi il ministro Lupi, il quale difende le scelte del governo sostenendo che «le modifiche del rapporto concessorio sono subordinate alla realizzazione di investimenti, essenziali per la sicurezza e l’adeguamento tecnologico della rete, altrimenti privi di copertura finanziaria. Se non lo facessimo potremmo arrivare a un inasprimento delle tariffe». Ma all’Anticorruzione, che sta vagliando tutti i 25 contratti delle autostrade italiane, non ne sono convinti.

Il manifesto, 28 gennaio 2015

Sono pas­sati molti lustri da quando il filo­sofo fran­cese Henri Lefeb­vre mandò alle stampe una rifles­sione sulla città - Le droit à la ville - cri­tica nei con­fronti di una visione della metro­poli allora domi­nante. A distanza di decenni, quell’analisi cono­sce un ine­dito e a tratti con­di­vi­si­bile revi­val, gra­zia a un lavoro di risco­perta che fa leva sui movi­menti sociali che pun­tano alla riap­pro­pria­zione della metro­poli dopo una cor­ro­siva pri­va­tiz­za­zione dello spa­zio pub­blico. Molte le dif­fe­renza tra l’ordine del discorso allora domi­nante e quello attuale. Nei tur­bo­lenti anni Ses­santa, infatti, gli urba­ni­sti, affa­sci­nati dalle oscure decla­ma­zioni di Tal­cott Par­son sulla realtà come un «sistema chiuso», soste­ne­vano che la città era da con­si­de­rare appunto un sistema auto­re­fe­ren­ziale che sta­bi­liva cor­ro­sivi rap­porti di feed­back con l’ambiente cir­co­stante al fine di ripro­durre una forma del vivere sociale che non ammet­teva alter­na­tiva al suo dive­nire.

La prima edi­zione del sag­gio di Lefeb­vre è del 1970, ma fu pre­sto archi­viato per­ché rite­nuto un mano­scritto incom­pleto. Da alcuni anni, però, il geo­grafo David Har­vey ha attinto a Il diritto alla città come una miniera di sug­ge­stioni per ana­liz­zare il ruolo della metro­poli come un hub delle dina­mi­che eco­no­mi­che e sociali della con­tem­po­ra­neità. Ha dun­que fatto bene la casa edi­trice ombre corte a ripub­bli­carlo, cor­re­dan­dolo di una utile pre­fa­zione di Anna Casa­glia, che inqua­dra sto­ri­ca­mente il sag­gio del filo­sofo fran­cese (Il diritto alla città, pp. 138, euro 14).

I monu­menti del potere

Il fun­zio­na­li­smo rap­pre­sen­tava per Lefeb­vre un maci­gno che impe­diva un’adeguata ana­lisi della città, anche se invi­tava comun­que a pren­dere ciò che di buono ave­vano pro­dotto gli emuli euro­pei di Par­son: l’idea cioè che la città è la forma del vivere asso­ciato che meglio di altre con­sente a defi­nire il luogo, meglio i luo­ghi della pro­du­zione della ric­chezza. È su que­sto cri­nale che Lefeb­vre usa una famosa frase di Marx lad­dove scri­veva che se il mulino sta al capi­ta­li­smo mer­can­tile, la mac­china al vapore sta al capi­ta­li­smo indu­striale. Lefeb­vre la evoca per sin­te­tiz­zare la suc­ces­sione delle diverse forme di città che hanno accom­pa­gnato lo svi­luppo eco­no­mico. Così la città orien­tale è con­na­tu­rata al modo di pro­du­zione asia­tico, men­tre la città antica è fun­zio­nale all’economia schia­vi­stica, così come la città medie­vale ha potuto imporsi solo in pre­senza del feudalesimo.

Al di là di que­sta tas­so­no­mia, tanto la città orien­tale che quella medie­vale erano i luo­ghi dove re, impe­ra­tori, ari­sto­cra­tici e mer­canti osten­ta­vano il loro potere e sta­tus. La città è imma­gi­nata come un’opera che rispec­chi una con­ce­zione domi­nante delle rela­zioni e gerar­chie sociali. Ma in quanto «opera», non può rima­nere indif­fe­rente al dive­nire sto­rico e sociale. Deve cioè mutare. La città, dopo il Rinan­sci­mento, diventa così il luogo dove il reale deve mani­fe­stare una intima coe­renza, un’armonia monu­men­tale che occulti la dimen­sione sociale, con­flit­tuale che è insita a que­sta forma del vivere. Una coe­renza del reale che non verrà mai rag­giunta. I monu­menti, le opere archi­tet­to­ni­che, i dipinti e dise­gni rina­sci­men­tali sono cioè da con­si­de­rare la rap­pre­sen­ta­zione ico­no­gra­fica di una città ideale che non è mai esi­stita, né che esi­sterà mai.

Nel diritto alla città ci sono pagine piene di sar­ca­stica cri­tica di tutte le meta­fore «natu­ra­li­sti­che» della città (il tes­suto urbano, l’habitat urbano), segna­lando che la nostal­gia per un pas­sato mitico sulla città rap­pre­senta l’incapacità del potere costi­tuito di pro­spet­tare una ricon­ci­lia­zione della società urbana con il ter­ri­to­rio. E se per la mag­gio­ranza della popo­la­zione diviene è al tempo stesso il luogo di un pos­si­bile riscatto da una con­di­zione di indi­genza e povertà e lo spa­zio dove i legami sociali pri­mari - la fami­glia, la paren­tela, per­sino le cor­po­ra­zioni - sono stra­volti dallo ormai inar­re­sta­bile svi­luppo capi­ta­li­stico, per gli urba­ni­sti è lo spa­zio dove imma­gi­nare una ricon­ci­lia­zione tra l’«ordine pros­simo» (le rela­zioni sociali deter­mi­nate dal regime della pro­prietà pri­vata) e l’«ordine remoto» (lo stato). Per que­sto, secondo Lefeb­vre, gli urba­ni­sti sono gli ideo­logi per eccel­lenza del capi­ta­li­smo, per­ché con i loro pro­getti e inter­venti fanno sì che la città diventi la «media­zione delle media­zioni», cioè lo spa­zio dove il potere costi­tuito ha la sua legittimazione.

L’impossibile sin­tesi

Non sem­bri però una nota sto­nata che in que­sto pic­colo, ma denso sag­gio non com­pa­iano mai rife­ri­menti ai filo­sofi, socio­logi che tra gli anni Venti e Qua­ranta del Nove­cento hanno scritto pagine impor­tan­tis­sime sulla città. Georg Sim­mel è infatti igno­rato, così come il Wal­ter Ben­ja­min della Parigi capi­tale del XX secolo. E nulla viene detto sulle rifles­sioni di un moder­ni­sta con­vinto come lo sta­tu­ni­tense Lewis Mun­ford. Un solo pas­sag­gio liqui­da­to­rio è dedi­cato a Le Cour­bu­sier, rite­nuto un fun­zio­na­li­sta che ambi­sce a diven­tare l’«uomo di sin­tesi» di quella che viene iro­ni­ca­mente chia­mata la società urbana. L’obiettivo di Lefeb­vre, infatti, non attiene allo sve­la­mento di come si è for­mata la metro­poli, bensì di regi­strare un’altra «grande tra­sfor­ma­zione» in corso tra gli anni Ses­santa e gli anni Set­tanta del Nove­cento. Il pro­getto razio­na­li­sta di ripor­tare ordine nelle metro­poli è stato scon­fitto da un’alleanza tra urba­ni­sti, ammi­ni­stra­tori e immo­bi­lia­ri­sti tesa a tra­sfor­mare la città in una «infra­strut­tura» del governo poli­tico della società e della pro­du­zione di merci. La metro­poli non è cioè un luogo pas­sivo che riflette ciò che avviene nel mondo della pro­du­zione, ma è il con­te­sto dove l’urbano inter­viene diret­ta­mente nella produzione.

Il diritto alla città auspi­cato da Lefeb­vre è così un anti­doto a una tota­lità dove pro­du­zione, con­sumo e cir­co­la­zione della merci sono ormai tre momenti non distinti, ma com­ple­men­tari l’uno all’altro nel tempo e nello spa­zio. Per que­sto la città diventa a tutti gli effetti il luogo del desi­de­rio, dei biso­gni sociali, della dimen­sione ludica, tra­sgres­siva ine­rente i rap­porti sociali, ma anche lo spa­zio dove il potere punta ad eser­ci­tare una fun­zione di con­trollo a distanza attra­verso incen­tivi alla pro­du­zione di segni che rispec­chino sì la dimen­sione mul­ti­forme dei rap­porti sociali, ma per pie­garla alla ripro­du­zione dei rap­porti sociali.

Può sem­brare un’ironia della sto­ria, ma Lefeb­vre scrive del con­flitto sem­pre più evi­dente tra un 99 per cento della popo­la­zione e un 1 per cento che si appro­pria di tutta la ric­chezza pro­dotta. Lo scrive due anni dopo che nel quar­tiere latino di Parigi oltre a bru­ciare le auto­mo­bili è stato archi­viato il sogno razio­na­li­sta di una città ordi­nata e facil­mente con­trol­la­bile attra­verso le forze pre­po­ste all’ordine pub­blico. Ma all’orizzonte non c’era nes­sun Occupy Wall Street, né movi­mento sociale teso alla riap­pro­pria­zione dello spa­zio urbano tra­sfor­mato in un ate­lier pro­dut­tivo. Lefeb­vre annota sola­mente che la tota­lità costi­tuita dalla città ha biso­gno di stru­menti sofi­sti­cati per essere destrut­tu­rata. La filo­so­fia e la socio­lo­gia, certo, ma anche la lin­gui­stica, l’antropologia, la teo­ria dell’informazione. Le ultime pagine del libro indi­cano solo un pro­gramma di lavoro che Lefeb­vre con­ti­nuò a svol­gere, inter­se­can­dolo con altri libri anche’essi assenti da molti anni nelle libre­rie, come la monu­men­tale cri­tica della vita quo­ti­diana e l’altrettanto ambi­zioso stu­dio sullo Stato.

Le comu­nità recintate

Il diritto alla città potrebbe essere dun­que con­si­de­rato un libro anti­ci­pa­tore di quanto sarebbe acca­duto una man­ciata di anni dopo la sua pub­bli­ca­zione. Da allora molto cemento è pas­sato sotto i ponti. Le metro­poli sono diven­tate un ate­lier pro­dut­tivo che ingloba il ter­ri­to­rio all’interno di un pro­cesso che vede la com­pre­senza di finanza, pro­du­zione e coo­pe­ra­zione sociale, dove la città deve con­ti­nuare ad essere la media­zione delle media­zioni.

C’è chi ha scritto (Mike Davis) di metro­poli che vedono quar­tieri recin­tati dove la sovra­nità dello stato si ferma ai can­celli delle gated com­mu­nity, spin­gen­dosi a decre­tare la morte della città, ridotta ormai a una som­ma­to­ria di slums dove il 99 per cento della popo­la­zione è sus­sunta den­tro logi­che pro­dut­tive che asse­gnano all’economia infor­male di sus­si­stenza una fun­zione di soft gover­nance della coo­pe­ra­zione sociale.
C’è inol­tre da regi­strare la pre­gnante ana­lisi di Saskia Sas­sen, che ha fatto delle «città glo­bali» il punto di par­tenza per un’analisi della glo­ba­liz­za­zione libe­ri­sta che vede nelle metro­poli mani­fe­starsi una sovra­nità sovra­na­zio­nale che pla­sma a sua imma­gine e somi­glianza il rap­porto tra potere ese­cu­tivo, legi­sla­tivo e giu­ri­dico. Segnali di una rap­pre­sen­ta­zione disto­pica della città sono venuti dalla nar­ra­tiva di genere (Wil­liam Gib­son, Bruce Ster­ling) che guarda alla metro­poli come un immane depo­sito di segni e infor­ma­zioni pie­gate a una logica del con­trollo sociale che non con­sente nes­suna via di fuga.

I nuovi comunardi

Si deve però a David Har­vey la ripresa delle tesi di Henri Lefeb­vre. Anzi si può dire che il filo­sofo fran­cese ha fun­zio­nato come un invi­si­bile filo rosso che tiene insieme l’analisi cri­tica del capi­ta­li­smo svolta da Har­vey sul capi­ta­li­smo del nuovo mil­len­nio, lad­dove indi­vi­dua nella città il luogo dove l’intreccio ormai ine­stri­ca­bile tra finanza e pro­du­zione sono fun­zio­nali a un uso capi­ta­li­stico del ter­ri­to­rio.

Ciò che per il filo­sofo fran­cese era una esile ten­denza, la tra­sfor­ma­zione della metro­poli in un ate­lier pro­dut­tivo è diven­tata una realtà acqui­sita. Per que­sto sulla città si adden­sano, tanto nel Sud che nel Nord del pia­neta, stra­te­gie di gover­nance e pro­getti di par­chi tec­no­lo­gici, di distretti uni­ver­si­tari che favo­ri­scano pro­cessi di inno­va­zione sociale e pro­dut­tiva. La metro­poli deve essere cioè uno spa­zio dove il sapere sans phrase è forza pro­dut­tiva. E che per que­sto, devono essere defi­niti mec­ca­ni­smi di inclu­sione sociale dif­fe­ren­ziata in base al lavoro svolto, il colore della pelle e il genere ses­suale di appar­te­nenza.
La città diviene così il luogo dove agi­sce una com­po­si­zione sociale che eccede la figura dell’operaio di fab­brica, come invece soste­neva Lefeb­vre. E se per il filo­sofo fran­cese il diritto alla città era una con­di­zione neces­sa­ria per non soc­com­bere a una per­va­siva e alie­nante pro­du­zione di segni, per il pre­sente è da con­si­de­rare un vet­tore per l’azione poli­tica di figure pro­dut­tive sem­pre sul con­fine che separa il lavoro dal non lavoro, tra tempo di lavoro e tempo di vita, sia che si tratti di pre­cari dei fast-food, di kno­w­ledge wor­kers, di migranti o «indi­geni». Ciò che per Lefeb­vre era solo un mirag­gio, il diritto alla città, è da con­si­de­rare l’orizzonte ine­lu­di­bile di un’attitudine «comu­narda» per la riap­pro­pria­zione della ric­chezza prodotta.

Un grande evento politico e culturale – di quelli che i nostri media normalmente ignorano per incompetenza e superficialità – rischia di passare inosservato ...>>>

Un grande evento politico e culturale – di quelli che i nostri media normalmente ignorano per incompetenza e superficialità – rischia di passare inosservato sotto le convulse vicende dello scontro politico dei nostri giorni. E' l’accordo sottoscritto dal Ministro per i Beni e le Attività culturali, Franceschini e dal Presidente della Regione Puglia, Vendola, che approva il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR.). Si tratta del primo piano paesaggistico elaborato in attuazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio e della Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta nel 2000, che raggiunge questo importante traguardo. In attesa che anche quello della Toscana, già ultimato, giunga in porto.

La Puglia dunque, una regione del nostro Sud, a livello programmatico, segna una svolta nella storia del rapporto tra la propria popolazione e il loro territorio con un progetto all'altezza di una grande pagina dell'elaborazione culturale europea dell'ultimo quindicennio. Alla costruzione del piano, hanno concorso - con il coordinamento di Alberto Magnaghi- amministratori, tecnici, imprenditori, associazioni culturali, ordini professionali, sindacati, singoli intellettuali. Il testo del Piano accenna, a questo proposito, alle «forti tensioni etiche di un ceto intellettuale cosmopolita» operante nelle città della Puglia, che hanno concorso a tale esito. Dunque, un grande laboratorio. attivo per diversi anni, i cui risultati meriterebbero una conferenza nazionale delle regioni italiane, per avviare una discussione generale, ma anche per innescare un movimento di imitazione e competizione tra i nostri amministratori, volto all'innalzamento degli orizzonti della politica territoriale nel nostro Paese.

Occorre dire, innanzi tutto, che il Piano rovescia la cultura territoriale che dal dopoguerra a oggi ha caratterizzato l'uso degli habitat della Puglia e dell'intero Mezzogiorno. Nel più nobile dei casi l'intervento pianificato ha visto nel territorio il neutro supporto per una industrializzazione importata dall' esterno, attraverso poli e nuclei di sviluppo, ma soprattutto la risorsa da consumare con fameliche e disordinate espansioni urbane. Un esito reso possibile dall'assenza di una cultura storica municipale, dalla pressione di forze economiche esterne, dai caratteri e dalle culture dell'imprenditoria locale ispirate a un «diffuso anarco-abusivismo privato», come si legge nel testo, accompagnato tuttavia anche da un «anarco-governo pubblico». Le istituzione pubbliche non sono state da meno nel rendere il territorio un contenitore vuoto da riempire con qualunque manufatto incarnasse un incremento economico.

Da quasi un decennio le cose sono cambiate in Puglia grazie al prezioso lavoro di Angela Barbanente, vicepresidente della Regione. Ma il Piano rovescia una lunga storia che va al di là del Mezzogiorno. Esso elabora orizzonti progettuali di grande ambizione, senza limitarsi alle aree monumentali e di pregio. Intanto mostrando come la pianificazione territoriale possa fare dell'eredità di bellezza e di lavoro - consegnataci nelle forme del paesaggio da numerose generazioni di contadini, architetti, urbanisti, imprenditori, artisti - non solo un percorso di nuove e sostenibili economie. Esso è certamente legislatore di divieti e di vincoli. Ad esempio, la costa è un bene comune di altissimo valore e non si costruisce più sulle dune e negli spazi agricoli. Le attività edificatorie si indirizzano verso l'interno al fine di rivitalizzare manufatti ed economie svuotate dall'esodo. In campagna si svolgono attività agricole, si fa ospitalità, ma non si deruralizza, né si impiantano capannoni industriali negli uliveti. «Regole certe e dure, ma proposte per creare un processo partecipativo vero, in grado di intercettare in modo coerente i mezzi tecnici, finanziari (ingenti!) e operativi di cui la Regione dispone, per nuove opportunità economiche».
Il piano è tutt'altro che una imbalsamazione dell'esistente. Esso si configura come un processo negoziale fra tutti gli attori in campo, senza centralismi soffocanti, chiama cittadini e imprese a partecipare attivamente realizzando economie compatibili, capaci di accrescere non solo i redditi individuali, ma anche i valori paesistici, il patrimonio comune. Esso si presenta come un vasto campo sperimentale di democrazia rappresentativa. Al suo interno sono previste istituzioni e strumenti di realizzazione, di cui non è possibile dar conto, come ad es. l’Osservatorio regionale per la qualità del paesaggio, l'Atlante del Patrimonio Ambientale, Territoriale e Paesaggistico, la Carta dei Beni Culturali, ecc. Un elemento di sicura originalità del Piano consiste nel fatto che le economie previste e incentivate si svolgono come agenti di potenziamento degli equilibri dell'habitat, di rigenerazione delle risorse, di tutela e restauro dell'esistente, di accrescimento dei valori paesaggistici, di estensione sociale del godimento della bellezza comune impressa nel patrimonio storico. Esso promuove filiere agroalimentari tipiche e di qualità, legate al territorio e ai paesaggi rurali storici, recuperando colture, culture e saperi locali ad essi connessi, «n forma non museale, ma funzionale ad un ripopolamento rurale in grado di promuovere qualità alimentare, ambientale, paesaggistica, urbana». L'accenno è alla produzione vitivinicola, olearia, alla frutticultura,ecc.
Al tempo stesso prevede il recupero delle produzioni artigiane (antica arte lapidea, della lavorazione del ferro, del legno); la riqualificazione degli immobili e delle aree compromesse o degradate, con la valorizzazione del reticolo policentrico di città d’arte piccole e medie che caratterizza i sistemi territoriali delle Puglie; l'incremento dell' autosufficienza energetica locale da fonti rinnovabili, grazie all'uso sostenibile delle energie presenti nel territorio (sole, vento, biomasse ecc); la ripresa dei sistemi tradizionali di conservazione e cura dell’acqua; lo sviluppo del turismo sostenibile come filiera integrata di ospitalità diffusa, culturale e ambientale; la promozione di progetti di cooperazione e scambio solidale “mediterranei”, che potenzi le peculiarità geografiche e storico-culturali della regione; l'incremento delle infrastrutture di mobilità, comunicazione e logistica di terra e di mare per la valorizzazione dei sistemi territoriali locali e la loro fruizione anche paesaggistica e turistica; il riconoscimento e la valorizzazione dell’immenso e pluristratificato patrimonio dei beni culturali; la tendenziale autoriproducibilità dei cicli dell’alimentazione (filiere corte fra produzione e consumo) dei rifiuti (rifiuti zero e riciclo della sostanza organica), dell’energia (produzione diffusa per autoconsumo) dell’acqua (equilibrio del bilancio idrico) e cosi via.
Sfidando la violenza omologante dei processi di globalizzazione, il PPTR ambisce a fondere in processi concorrenti e cooperanti le attività economiche, la salvaguardia dell'ambiente, la rigenerazione delle risorse, il restauro urbano, le culture locali, i monumenti urbani e rurali, la qualità conviviale del vivere insieme, la difesa della bellezza, la creazione di nuovo paseaggio. In una parola, il Piano non ambisce a promuovere sviluppo, come si dice da decenni, con un termine ormai sdrucito che testimonia l'esaurimento storico della cultura capitalistica dell'ultimo cinquantennio. Esso propone un percorso che porta a un nuovo assetto della nostra civiltà, progetta forme superiori di vita collettiva.
Il documento del Piano intanto mostra che cosa significa il termine paesaggio al di là delle retoriche correnti. Esso va «inteso non solo come veduta, “bello sguardo” ma indagato, decifrato si nella sua bellezza, ma soprattutto nelle regole della sua formazione storica, come specchio dell’anima dei luoghi e come teatro in cui va in scena l’autorappresentazione identitaria di una regione, “come parte essenziale dell’ambiente di vita delle popolazioni e fondamento della loro identità“ (art 5 della “Convenzione europea del paesaggio). In questa accezione esso è un giacimento straordinario di saperi e di culture urbane e rurali, a volte sopite, dormienti, soffocate da visioni individualistiche, economicistiche e contingenti dell’uso del territorio; ma che possono tornare a riempirsi di significati collettivi per il futuro. Il paesaggio è il ponte fra conservazione e innovazione, consente alla società locale di “ripensare se stessa”, di ancorare l’innovazione alla propria identità, alla propria cultura, ai propri valori simbolici, sviluppando “coscienza di luogo” per non perdersi inseguendo i miti omologanti della globalizzazione economica»,

Occorre, dunque, protendere uno sguardo lungo verso il futuro. Tutto il presente del capitalismo mostra una incontenibile tendenza: produrre sempre più merci con sempre meno valore. Avanza a scala mondiale una produzione standardizzata di beni sempre più vasta. Non è un caso che scompaiano i lavori e le professioni sostituibili con procedimenti automatizzati. Perciò il valore dei beni tende a rifugiarsi in ciò che non è standardizzabile, industrialmente riproducibile. Il nostro paesaggio, i nostri monumenti, la nostra storia, non sono replicabili, ma custodiscono una fonte inesauribile di valore. E non rappresentano delle nicchie, come amano dire riduttivamente gli sviluppisti: al contrario sono la nostra Arca, beni incontendibili dell'avvenire. Certo la Puglia, come qualsiasi altra realtà regionale e locale è un avamposto limitato. Nessuno può fermare la storia mondiale che avanza. Ma questa si può subirla, accettando gli interessi dominanti, soggiacendo alla sua furia omologatrice, o affrontarla da protagonisti, con progettualità, filtrandola e adattandola alla nostra storia originale, arricchendola dei nostri caratteri, contribuendo a valorizzare e a rafforzare, con una rete mondiale di alleati, gli elementi di emancipazione cosmopolita che essa pur sempre contiene.

L'articolo è stato contemporaneamente inviato al manifesto.

Carteinregola, 22 gennaio 2015

Il 10 gennaio 2015 è scaduto il termine per impugnare davanti alla Corte Costituzionale la legge 166/2014, la conversione del decreto “Sblocca Italia”. L’hanno fatto solo 6 Regioni su 20: Abruzzo, Campania, Lombardia, Marche, Puglia e Veneto. Gli articoli impugnati sono soprattutto il 37 e il 38 , che, secondo le associazioni ambientaliste permettono di autorizzare una nuova ondata di trivellazioni petrolifere con irrilevanti benefici economici e sociali ed elevati pericoli ambientali per aree di pregio naturalistico e paesaggistico, sulla terraferma e nel mare. Ma le impugnazioni si basano soprattutto sull’ipotesi che la legge violi le competenze amministrative e legislative delle Regioni stabilite dal Titolo V della Costituzione.

Colpisce soprattutto che, con l’eccezione della Puglia e delle Marche, le Regioni che hanno impugnato la legge sono a guida centrodestra: la Campania , la Lombardia, l’Abruzzo, il Veneto. E assai significativa è invece la latitanza delle altre Regioni a guida centrosinistra (non osiamo più dire “rosse”, piuttosto ci teniamo la ripetizione), a partire proprio dall’illuminata Toscana, che ha da poco varato una avanzatissima Legge urbanistica – impugnata dal Governo perchè troppo restrittiva sui nuovi centri commerciali in aree rurali – e da cui ci saremmo aspettati una maggiore attenzione sia rispetto alla tutela dell’ambiente, sia rispetto alla difesa delle prerogative regionali nel governo del territorio. Sulla stessa linea “non interventista”, nonostante le sollecitazioni, anche da parte di molti sindaci, le altre Regioni come il Piemonte, la Liguria, la Sardegna, il Lazio. Anche se la posizione di quest’ultima non ci sorprende molto, dopo che abbiamo avuto modo di constatare quale sia la sua “linea” con il Piano Casa Polverini-Zingaretti, che abbiamo battezzato “Sblocca Lazio”.

Ma soprattutto è impressionante la mancata impugnazione da parte di Regioni come la Sicilia e la Basilicata, che saranno le prime “vittime” delle trivellazioni e delle nuove regole imposte dal Governo. La Basilicata, in particolare, secondo fonti giornalistiche, vedrebbe quasi la metà del suo territorio interessato da interventi di trivellazione. Inutile è stata la strenua resistenza dei sindaci e il loro appello al Presidente Pittella perchè impugnasse il provvedimento. E anche la maggioranza di centro sinistra della Sicilia, guidata dal governatore Rosario Crocetta, non si è lasciata commuovere dall’ANCI siciliano, dalle associazioni, dai comitati, dalle forze sociali, dai molti consiglieri (varie mozioni sono state presentate dai Cinquestelle) che chiedevano di non mettere a rischio, non solo le bellezze naturali, ma anche l’indotto turistico e la pesca, capitoli importanti dell’economia regionale. Alla fine ci risulta che l’unica iniziativa del Consiglio siciliano sia stata l’approvazione di un Ordine del giorno, il cui peso è praticamente pari a zero, ma che fa sempre bella impressione con i cittadini.
E per dirla tutta, non c’è da essere completamente soddisfatti neanche dell’impugnazione della Puglia, che pure è stata la coraggiosa capofila della resistenza. Infatti ci saremmo aspettati l’impugnazione anche di quell’articolo 33 che potrebbe in futuro spalancare le porte ai poteri speciali di un commissario e alla speculazione privata per la “Bonifica ambientale e la rigenerazione urbana” di “aree ed edifici di rilevante interesse nazionale“. Speriamo che se capiteranno dei casi del genere in Puglia il presidente Vendola sappia tenere il punto e rispedire al mittente commissari, aggiramenti delle norme e “premialità edificatorie”.

In ogni caso questa è un’amara lezione, che conferma quanto ormai l’appartenenza al centrodestra o al centrosinistra non sia più ancorata ad alcuna diversità di prospettiva e di intenzioni, soprattutto dal punto di vista della tutela del territorio e del patrimonio collettivo, dato che – Piano Casa Zingaretti/Polverini docet – le posizioni dipendono solo dal ruolo momentaneamente interpretato dalla tal forza politica, se quello di governo o quello di opposizione. Un gioco delle parti, con la costante della produzione a ciclo continuo di leggi che favoriscono la speculazione, distruggono l’ambiente e comprimono l’esercizio democratico e le prerogative costituzionali. Mentre i cittadini che hanno a cuore l’interesse generale restano sempre più soli.

Riferimenti
Per il rimando agli articoli dello "Sblocca Italia" e delle azioni delle Regioni si veda l'intero articolo pubblicato da Carteinregola
Vandana Shiva e Ilaria Agostini, l’ambientalista e l'urbanista, difendono la nuova legge urbanistica regionale, ferocemente attaccata da quanti, nei vari settori della società, sono interessati alla mercificazione del territorio. La Repubblica, ed. Firenze, 23 gennaio 2015

Sull’esempio della Germania e di altri paesi europei, la nuova legge urbanistica toscana 65/2014 (Norme per il governo del territorio), prima in Italia, impedisce ogni ulteriore consumo di suolo agricolo: è una legge ecologista, informata all’etica della terra, che oppone resistenza all’economia globalizzata delle multinazionali. Oggi, 2015, nell’anno internazionale del Suolo, la legge è bloccata, impugnata dal governo Renzi in nome della libera concorrenza: ostacolando la costruzione di ipermercati fuori dalle aree urbanizzate, contravverrebbe alla libertà di mercato.

Ma bloccare una legge che tutela terra e suolo non è solo una violazione del territorio e dei suoi caratteri peculiari. È una violazione del tessuto democratico: Roma eccede i limiti della sua giurisdizione e sovverte i diritti della Regione garantiti dalla Costituzione. È una violazione dell’economia locale e regionale basata sulla qualità, non sulle “merci-spazzatura” commerciate globalmente che distruggono l’occupazione nelle produzioni locali. È una violazione profonda della bellezza che è stata coltivata per secoli e che continua ad essere coltivata con la 65/2014; il mondo viene in Toscana non per i suoi malls, ma per la cura che è stata dedicata alla terra e al paesaggio.

Il suolo è la vita e ne è alla base, ma la civiltà industriale lo ha seppellito sia nelle menti che nel mondo reale, poiché è basata sull’arroganza dell’indipendenza dalla natura, e sull’illusione che a maggiore conquista, dominio e distruzione della natura corrisponda maggiore “sviluppo”. L’anno del Suolo costituisce, per l’Umanità, l’occasione per correggere i danni di cinque secoli di pensiero coloniale sul suolo extra-europeo come terra nullius, e di un centinaio di anni di agricoltura industriale basata su fertilizzanti chimici che distruggono suolo e società, espellendo le popolazioni rurali dalla terra e deportandole negli slums.

Oggi almeno la metà della popolazione mondiale vive in città e l’inurbamento pare inarrestabile. L’urbanizzazione incontrollata, formidabile dissipatrice di energie, è incapace di far fronte ai cambiamenti climatici e ne è anzi tra le cause. È perciò essenziale un cambio di paradigma economico: l’economia circolare, che chiude i cicli senza produrre rifiuti, deve sostituire l’economia lineare industriale. In quest’ottica, la base agroalimentare urbana è ancorata alla bioregione, e l’autoproduzione si attua negli orti intramuros e nei parchi agricoli sull’esempio di Milano Sud, e del previsto parco della Piana (FI-PO); il ripopolamento e la riconfigurazione dell’habitat rurale garantisce l’accesso delle popolazioni contadine ai servizi e ai vantaggi dell’urbanità, e incrementa la formazione di cultura autonoma. Il modello gandhiano policentrico si profila come soluzione allo sprawl: una costellazione di centri medio-piccoli, autonomi e interdipendenti, riduce i consumi dovuti agli spostamenti metropolitani; la vicinanza dei gangli politici aumenta la partecipazione democratica; la limitatezza del fronte urbanizzato favorisce l’osmosi tra città e campagna.

È necessario un nuovo patto col pianeta e col suolo. Un patto che riconosca che noi siamo il suolo, che proveniamo dal suolo, che da esso siamo nutriti. Questa è la nuova rinascita, è la consapevolezza che il suolo è vivo e che prendersene cura è il lavoro più importante svolto dai contadini. Dalla cura del pianeta, obbiettivo primario, discende il cibo buono e nutriente, da suoli sani. Quando sarà riconosciuto il ruolo fondamentale dei contadini nella salute umana e nella fertilità dei suoli, l’agricoltura cesserà di essere terra di conquista da parte di industrializzazione e urbanizzazione. I contadini, remunerati per il loro ruolo ecologico e sociale, rimarranno sulla terra e non si trasferiranno come profughi nelle aree urbane. Un nuovo equilibrio tra città e campagna scaturirà dal nuovo patto con il suolo.

Vandana Shiva è tra i fondatori dell’Internationale Forum on Globalisation; Ilaria Agostini insegna urbanistica all’Università di Bologna

eddyburg riprendo un intervento che scrissi per un'iniziativa dell'Università di Reggio Calabria, e fu pubblicato sul numero monografico della rivista trimestrale del Laboratorio Cinema-Città dedicato a Francesco Rosi. In calce una scheda e l’audio della scena principale del film.

E’ facile dire che Le mani sulla città è una lezione di urbanistica. Lo è in modo così evidente!
Certo, non è una lezione sulla tecnica dell’urbanistica, non spiega la cultura del piano regolatore né il procedimento della sua formazione, non affronta il tema delle analisi né quello del disegno del piano, non svela gli arcani della disciplina. E’ una lezione che molti professori d’oggi criticherebbero senza perdere troppo tempo nelle argomentazioni.

Ma è una lezione essenziale: perché racconta la sostanza del piano. Svela “di che lagrime grondi e di che sangue” il tentativo, che nella pianificazione perennemente si compie, di “temprare lo scettro ai reggitori”, di ridurre il peso dei padroni della città, di far sì che la città non sia una macchina per accumulare ricchezze private di un pugno di proprietari immobiliari, ma la casa di una società di uomini, donne, bambini.

E dimostra come il piano urbanistico sia il risultato di una scelta politica. Non a caso, il protagonista del film, l’antagonista dello speculatore Nottola (splendidamente interpretato da Rod Steiger), è il consigliere comunale comunista che, esprimendo i bisogni e gli interessi, magari inconsapevoli, dei cittadini si oppone all’intreccio, sempre perverso, tra la proprietà immobiliare e i governanti servizievoli verso i poteri economici forti.

È una lezione anche per oggi. E fa riflettere il fatto che il protagonista, l’eroe positivo del film, Rosi lo abbia potuto scegliere in una persona che ha svolto nella realtà il medesimo ruolo che svolge sullo schermo. Era un comunista del PCI, Carlo Fermariello. È stato facile allora, per Rosi, scegliere come attore un uomo che poteva essere assunto a simbolo: non solo per la sua persona, ma per la forza politica che rappresentava. E ripensare al film di Rosi fa nascere il desiderio di ricordare e ringraziare, per la realtà che quel film esprime, il Partito comunista italiano di quegli anni.

Molti anni sono passati. Grazie anche agli uomini e ai partiti che allora combattevano contro chi metteva “le mani sulla città” oggi le cose sono un po’ migliori. Ma è segno dei tempi che oggi non ci siano forze politiche come quelle che allora si adoperavano per un’urbanistica riformata e, nel frattempo, là dove potevano amministrare, applicavano le regole del buongoverno.

Venezia, 8 novembre 2003

Appendice
dal sito www.filosofia.unina.it

La questione meridionale è un argomento che affonda le sue radici nella storia del paese, ma è anche una materia profondamente attuale dal cui nucleo continuano a sorgere nuove e vecchie problematiche. Per il progetto è stato selezionato uno spezzone audio tratto da "le mani sulla città", come esempio cinematografico in cui la realtà del meridione viene rappresentata nella sua integrità, senza mistificazioni.

"I personaggi e i fatti sono immaginari, autentica è invece la realtà che li produce". Con questa didascalia (che accompagna le immagini iniziali del film) la sapiente regia di F.Rosi ci introduce nella Napoli della fine degli anni '50 descrivendo, sullo sfondo di una città da ricostruire, le vicende immaginarie ma verosimili di un consigliere comunale di ideologia comunista (De Vita) e di uno spietato impresario edile (Nottola), in lizza per diventare assessore e bramoso di grandi speculazioni.

L'ambientazione riproduce il clima di quegli anni, le tensioni e le lotte politiche tra una classe dirigente, irrimediabilmente compromessa con il potere economico, i cui interessi sono in contrasto con il bene pubblico, e l'opposizione, animata da passione politica e civile, la quale denuncia i crimini compiuti ai danni della collettività.

Nello spezzone selezionato abbiamo l'incontro-scontro tra le due figure centrali del film, il cui pensiero e la cui individualità vengono obiettivamente colte dalla camera. Da una parte, abbiamo il costruttore Nottola che, sullo sfondo di una città ridotta in macerie, vanta l'ambizione di un ammodernamento della città e dice che costruire nuovi palazzi porterà una speranza alle persone che vivono in condizioni di indigenza e miseria, ma in realtà nasconde solo la brama di successo e ricchezza personali. Dall'altra, abbiamo la figura del consigliere De Vita che si staglia nella sua purezza, sullo sfondo di una candida parete bianca e lancia il suo grido di condanna contro l'ipocrisia di Nottola e di chi come lui rappresenta la parte marcia della politica e auspica l'avvento di un cambiamento rigeneratore per le sorti della città.

Audio
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Scheda tecnica del film:
Francesco Rosi "
Le mani sulla città" (Italia, 1963, b/n - 105')
Sceneggiatura: F. Rosi, R. La Capria, Enzo Provenzale, ed E. Forcella.
Con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo d'Alessandro, Carlo Fermariello, Marcello Cannavale

Tratto da http://www.filosofia.unina.it/corsoperf/corsoperf01/qmfad/QPol_eco/lemani.html

«L’osservazione dal punto di vista femminile della città è capace di sovvertire il disegno razionalista dell’urbanistica del ’900 perché è basata sull’esperienza quotidiana, fatta di vita di quartiere e di spostamenti con mezzi pubblici o a piedi». Milleniumurbano.it, 23 ottobre 2013

Nel 1961 la giornalista del Washington Post Phyllis Richman decise d’iscriversi al Dipartimento di Pianificazione Urbana e Regionale della Graduate School of Design di Harvard. Come risposta al modulo che aveva inviato, ricevette la lettera di un assistente del dipartimento nella quale le veniva chiesto di motivare la sua scelta in considerazione del suo ruolo di donna sposata. La sua richiesta d’iscrizione sarebbe stata presa in considerazione se accompagnata da una relazione nella quale avrebbe dovuto esporre in che modo intendeva conciliare le responsabilità verso suo marito e la sua futura famiglia con la carriera da urbanista. Come se ciò non bastasse, nella lettera lo scrivente le comunicava la convinzione che le donne sposate, quando intendono dotarsi di una educazione professionale, esprimono una tendenza a sprecare tempo e sforzi.

Phyllis non rispose a quella lettera e non intraprese una carriera da urbanista, anche se ebbe un’esperienza professionale nella Commissione Urbanistica della città di Filadelfia. Lo scorso giugno, dopo 52 anni, la giornalista decise di pubblicare quella lettera sul suo giornale, insieme alla risposta che mai ebbe il coraggio di scrivere, con la quale denuncia quanto la discriminazione subita abbia pesato sulle sue scelte professionali.

Nello stesso anno in cui il progetto di Phyllis Richman di diventare un urbanista veniva così pesantemente frustrato, un’altra giornalista, Jane Jacobs, pubblicava il suo libro più famoso, The Death and Life of Great American Cities, che ha impresso un cambiamento epocale al modo d’interpretare il funzionamento delle città. Jacobs ha dimostrato con il proprio attivismo contro i grandi progetti di trasformazione urbana promossi da Robert Moses, che l’osservazione dal punto di vista femminile della città è capace di sovvertire il disegno razionalista dell’urbanistica del ’900 perché è basata sull’esperienza quotidiana, fatta di vita di quartiere e di spostamenti con mezzi pubblici o a piedi. Visione esattamente opposta a quella del deus ex machina dei lavori pubblici funzionali alla costruzione della città-macchina che separa i flussi in circuiti chiusi e gerarchizzati, dall’auto al pedone. Malgrado sia passato mezzo secolo dalla pubblicazione del libro di Jacobs, tradotto in italiano nel 1969 con il titolo Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, il punto di vista di genere nella pianificazione urbana è ancora ampiamente ignorato ed è assai probabile che gran parte di coloro che lo hanno letto non abbia affatto colto la precisa relazione che esiste tra la donna che l’ha scritto e le argomentazioni che vi sono sviluppate.

Nello scenario di predominanza culturale del modello della città razionale, pensata per il maschio adulto, lavoratore ed automunito, s’inserisce controcorrente l’esperienza di Vienna, dove a partire dagli anni ’90 più di sessanta progetti pilota nel campo della pianificazione urbana sono stati attuati secondo i principi del gender mainstreaming, ovvero l’orientamento alle questioni di genere delle politiche urbane.

Eva Kail, un’esperta di questioni di genere presso il nucleo cittadino di pianificazione urbana, intervistata da The Atlantic Cities, ha chiarito che l’approccio adottato da lei e dal suo gruppo si basa essenzialmente sull’osservazione dell’uso dello spazio pubblico, di chi lo stilizza e per quali scopi. Da questa analisi discende l’individuazione di cosa interessa e serve ai differenti gruppi di cittadini sotto forma di indirizzi alla pianificazione urbana. L’esperienza di Kail inizia nel 1991 con la mostra fotografica “Di chi è lo spazio pubblico – La vita quotidiana delle donne nella città”, che mise in evidenza come i differenti tracciati delle donne nello spazio urbano abbiano in comune la stessa richiesta di sicurezza e facilità di movimento. La mostra ebbe un gran numero di visitatori e notevole risalto mediatico, così i politici locali decisero di far proprio l’approccio di genere nelle politiche urbane. Il primo progetto realizzato fu un complesso di appartamenti, progettato da e per le donne nel ventunesimo distretto della città, chiamato Women-Work-City. All’interno del complesso, situato in prossimità del trasporto pubblico, si trovano aree verdi per il gioco dei bambini, un asilo, una farmacia ed uno studio medico. Il tutto aveva l’obiettivo di rendere più facile la vita delle donne divisa tra lavoro e funzioni di cura.

L’idea di realizzare insediamenti di edilizia residenziale dotati di servizi non è certo nuova e discende dalla tradizione del socialismo utopistico, vecchia di due secoli, che ha via via prodotto una serie di falansteri urbani pensati per comunità di lavoratori. In questo caso l’aspetto innovativo del progetto riguarda la trasmigrazione dal contesto edilizio a quello urbano dell’approccio basato sulla centralità dei bisogni degli utenti. Lo sviluppo successivo ha riguardato la progettazione delle aree verdi, i cui usi diversi secondo il genere erano stati registrati in particolare tra la popolazione giovanile. Nel 1999 i pianificatori urbani hanno riprogettato due parchi del quinto distretto della città con l’intento di allargare il numero ed il tipo di frequentatori, avendo precedentemente registrato che le ragazze erano meno propense ad utilizzare gli spazi verdi poiché spesso scoraggiate dall’invadenza maschile. Sono stati introdotti sentieri per migliorare l’accessibilità e aree per attività sportive che incrementassero l’utenza, così come accorgimenti progettuali del verde intesi a suddividere gli ampi spazi aperti. Il cambiamento non tardò a produrre risultati e, senza che scaturissero conflitti, differenti gruppi di ragazze e ragazzi cominciarono a frequentare i parchi.

Dello stesso anno è il progetto finalizzato a rendere più accessibile il trasporto pubblico e migliori e più sicuri i percorsi pedonali secondo le necessità espresse dalle donne. Il progetto discende dalle rilevazioni fatte a seguito di un’inchiesta rivolta a tutta la popolazione del nono distretto e relativa alle modalità ed alle ragioni degli spostamenti. Mentre la maggioranza degli uomini aveva dichiarato di utilizzare l’auto o il trasporto pubblico due volte al giorno per il tragitto casa-lavoro, le donne avevano messo in evidenza la molteplicità delle ragioni di spostamento, legate soprattutto al ruolo di cura di bambini ed anziani che è ancora loro prerogativa. Furono realizzati marciapiedi più spaziosi e meglio illuminati e infrastrutture che facilitassero l’accesso alle intersezioni del trasporto pubblico, dove anche chi spinge un passeggino o una sedia a rotelle possa raggiungere ed utilizzare facilmente i mezzi in transito.

L’approccio alla pianificazione urbana gender mainstreaming, malgrado i risultati promettenti, ha anche suscitato critiche e sarcasmo. Quando il gruppo di Eva Kail, propose la mostra fotografica “Di chi è lo spazio pubblico – La vita quotidiana delle donne nella città”, qualcuno disse cose tipo “allora dovremmo dipingere le strade di rosa?” La pianificazione orientata alla questione di genere può suscitare reazioni emotive, come sentirsi attaccati, tra coloro cui si fa presente quanto essa non sia stata presa in considerazione nel passato. C’è inoltre il rischio che nel caratterizzare i differenti usi della città tra uomini e donne si rinforzino gli stereotipi alla base delle differenze di genere. La stessa espressione gender mainstreaming è stata successivamente messa da parte dai funzionari pubblici che preferiscono usare l’etichetta “Città Equamente Condivisa”, forse ritenuta meno politicamente orientata.

Malgrado i limiti emersi, l’approccio alla pianificazione urbana utilizzato da Kail e dal suo gruppo ha lasciato un segno sulla capitale austriaca e si sta ora evolvendo verso il tentativo più ampio di cambiare la struttura ed il tessuto della città, così che i differenti gruppi di cittadini vi possano convivere senza conflitti. Si tratta di un visione politica della pianificazione della città, afferma Kail, con la quale si cerca di portare nello spazio urbano persone delle quali prima non si riconosceva l’esistenza o che si sentivano prive del diritto di esistere.

Ma vi è un altro aspetto dell’esperienza del gruppo di pianificatrici urbane viennesi che vale la pena di sottolineare ed è la dimostrazione che solo le donne, e non solo quelle professionalmente coinvolte nei processi di trasformazione delle città come nel caso di Jane Jacobs, possono farsi carico del compito di rappresentare gli interessi del genere a cui appartengono.

«La parola “urbanistica” cercava uno sbocco nell’immaginario collettivo, e per distinguersi dalle due componenti che l’avevano preceduta, abituate a poca pubblicità fuori dagli uffici dove si decideva tutto, si affidò agli architetti progettisti». Cittaconquistatrice.it, 28 dicembre 2014 (m.p.r.)

C’erano una volta due mondi distinti, che solo politica e necessità riuscivano a mettere insieme. Uno era fatto soprattutto di disegni, grandi tavole di schizzi o dettagli tecnici, singoli edifici, strade, e non mancavano neppure, e tratteggiare un quadro di insieme, le vedute a volo d’uccello di interi quartieri completi di alberature, piazze e viali monumentali. L’altro era assai più asettico: tabelle di numeri e brevi pagine di spiegazioni, che riguardavano sia i numeri che il modo per leggerli. Quei due mondi distinti si sovrapponevano l’uno all’altro per trasformarsi in realtà, quando abbastanza casualmente si intrecciavano le risorse e la volontà per farlo. Si scopriva però via via che c’erano parecchi vantaggi non solo a rendere più regolare nel tempo quell’incrocio, ma a governarlo in fasi prevedibili già a partire dalla prima concezione. Nacque più o meno così verso la fine del XIX secolo quella che poi divenne nota come urbanistica, nelle varie interpretazioni nazionali delle leggi e delle culture tecnico-amministrative.

Nascosti dietro le parole ci sono i fatti
Come tutte le innovazioni, anche la nuova parola “urbanistica” cercava uno sbocco nell’immaginario collettivo, e per distinguersi dalle due componenti che l’avevano preceduta, abituate di solito a poco pubblicità fuori dagli uffici dove si decideva tutto, si affidò mani e piedi a una delle sue componenti: gli architetti progettisti. Che nel giro di una ventina d’anni scarsi con la loro quasi miracolosa capacità comunicativa, attraverso le riviste specializzate, le mostre mutuate da quelle classiche d’arte, e altre iniziative, riuscirono a imporre al pubblico questa nuova idea di città, territorio, strategie di sviluppo spaziali. Riuscirono però anche a costruirsi a propria immagine e somiglianza un’idea piuttosto sbilanciata, di urbanistica e di territorio, in cui il loro tipo di progetto prevalentemente edilizio occupava quasi tutto, e il loro ruolo nelle decisioni anche. Intendiamoci: non è che il progetto di architettura, dei quartieri, del landscape, delle forme dello spazio pubblico, non fosse centrale, ma esistevano pur sempre tantissime altre componenti, magari meno immediate da comunicare al pubblico, ma altrettanto essenziali. Spesso anche da questo tipo di squilibrio, comunicativo e decisionale, nasceva la confusione di ruoli, o la sottovalutazione di alcuni aspetti, che spesso nel periodo del secondo ‘900 ha condotto al degrado certe zone, per esempio quando erano costruite senza ascoltare i consigli dei sociologi, o degli ambientalisti, o di altre discipline pure importanti tanto quanto gli architetti.

La greenbelt non è un progetto
Mi sono tornate in mente queste considerazioni, quando sulla rete hanno cominciato a girare alcuni post e commenti relativi a Metrobosco, una specie di progetto coordinato di trasformazione delle zone periurbane metropolitane. Tanti di quei commenti facevano una gran confusione, dicendo più o meno: “ah, che bella idea questa, della tutela delle fasce verdi attorno alla città, ci vuole proprio, la greenbelt”. E dimostravano di essere cascati in pieno nel vecchio equivoco che in modo un po’ partigiano confonde il piano col progetto, e qui mescola inopinatamente particolari e contestuali idee di trasformazione, con strategie di pianificazione territoriale e conservazione.

Fascia di interposizione verde, a destinazione agricola e naturale, è una destinazione d’uso vincolante dei terreni che circondano un centro urbano, di solito di grandi dimensioni, e necessita di strategie di lungo periodo. Dentro questa fascia, e anche grazie alla conservazione e al vincolo, poi si possono sviluppare progetti vari, singoli e puntuali come la riqualificazione di un borgo rurale, o più coordinati e in serie come nella proposta di Metrobosco, che comprende sia interventi di trasformazione che di promozione, ma alla dimensione appunto del progetto e su tempi medio-brevi. Fra gli esempi peggiori dell’architettura-urbanistica novecentesca, ci sono stati quei quartieri ghetto, in cui il medesimo soggetto decideva tutto sul medesimo tavolo da disegno: le regole, il modo di interpretarle, e i destinatari finali. Cerchiamo di non rifare il medesimo errore di metodo mezzo secolo dopo, in un altro campo come quello, piuttosto delicato, della tutela del territorio agricolo, scambiato come sfondo per esercitazioni formali.

Il Fatto Quotidiano,18 dicembre 2014

Per loro, se il provvedimento sarà approvato, l’Italia rischia di andare «definitivamente allo scatafascio». Perché dopo i disastri provocati dalle alluvioni degli ultimi mesi gli occhi sono puntati su una cementificazione a cui, nella sostanza, verrebbe così spianata definitivamente la strada. Prende forza dall’università di Firenze la critica degli urbanisti al disegno di legge Lupi in materia di governo del territorio, che ha l’ambizione di modificare le norme risalenti al 1942. Un gruppo di 45 docenti, tra cui Maria Cristina Gibelli, Edoardo Salzano, Alberto Asor Rosa e Roberto Camagni, ha sottoscritto un documento di dura critica.

Gli esperti del dipartimento di architettura dell’Università lo hanno definito «inemendabile», decidendo di non partecipare neanche alla consultazione online lanciata dal ministro delle infrastrutture: «Malgrado le numerose prese di posizione critiche da parte di istituzioni come Italia Nostra, Legambiente, Fai, ecc, la discussione è stata scarsa – spiegano – solo cancellandolo si può ripartire da una proposta seria». Di recente era stato anche il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi a esprimere più di una perplessità: «Non mi convince perché continua a consentire edificazioni su lottizzazioni che devono essere tutelate, su aree che devono essere invece conservate. Quindi, dal mio punto di vista chiedo che venga modificato». Il nodo è che il ddl «conferisce al privato la possibilità di presentare la lottizzazione al Comune e di co-pianificare con l’ente pubblico. Sarebbe una disgrazia».

E sulle stesse linee si muove la critica degli urbanisti che nel loro documento smontano pezzo per pezzo il provvedimento inserito nel pacchetto di riforme del governo Renzi, presentato a luglio e di cui si attende la calendarizzazione nelle commissioni parlamentari. «Da un lato il governo annuncia lo stanziamento di 7 miliardi di euro per far fronte all’emergenza idrogeologica, dall’altro si agisce legiferando in senso opposto», spiega il professor Marco Massa, docente di urbanistica, che a dicembre ha organizzato due seminari per presentare nel dettaglio le critiche sui temi del rapporto fra pubblico e privato e dell’emergenza ambientale.

Per i professori dunque, accanto al ddl Lupi, questi stanziamenti sono l’ennesima toppa destinata a scollarsi presto, perché «il ddl non affronta in alcun modo i problemi reali del governo del territorio vistosamente testimoniati dai disastri ambientali». Nel dettaglio, secondo i promotori delle due iniziative, il ddl Lupi «propone la cancellazione, di fatto, della potestà pubblica in materia di pianificazione del territorio, istituzionalizzando la contrattazione con i proprietari fondiari di ogni scelta in materia». Un rapporto pubblico/privato che andrebbe così a sbilanciarsi ancora di più verso i privati, come in nessun altro paese europeo accade. In secondo piano finirebbe la funzione sociale e il governo del territorio sarebbe costituito dalla «sommatoria delle proposte immobiliari private», favorendo di fatto l’imprenditoria edilizia.

Secondo i firmatari del documento, inoltre, il ddl Lupi «azzera il ruolo dei Comuni» e «non si preoccupa di coordinarsi con le altre leggi vigenti», col risultato «di produrre contenziosi e mettere in difficoltà non solo gli enti pubblici territoriali ma anche i privati stessi che pretende di favorire». La semplificazione di cui c’è tanto bisogno per sburocratizzare l’Italia, insomma, è tutta un’altra cosa. «Il ministro Lupi ha aperto sul testo una consultazione pubblica online prorogata dal 15 agosto al 15 settembre – sottolinea la professoressa Maria Cristina Gibelli del Politecnico di Milano, che ha partecipato al primo dei due seminari organizzati a Firenze – Sul sito del ministero dicono che siano arrivate oltre cento osservazioni, peccato che queste non siano visibili. Scelte politiche che andavano sostanzialmente nella stessa direzione Lupi le aveva promosse da assessore al Comune di Milano, mentre nel 2005, da deputato del centrodestra, avanzò una proposta di legge simile, che naufragò solo per lo strappo di Fini da Berlusconi». Su sito Eddyburg una petizione per fermare il disegno di legge Lupi ha già raccolto oltre 500 adesioni, e quello di circa 60 gruppi e associazioni. Il logo, neanche a farlo apposta, è un lupo cattivo.

Riferimenti

Su eddyburgvi ricordiamo il nostro lAppello No alla legge Lupi e i documenti di critica che ci sembra più interessante richiamare ai nostri lettori: Città amica: Una lettera degli architetti sul DDL Lupi; DIDA (Dipartimento di architettura, Università degli Studi di Firenze): lex Lupi, un incredibile passo indietro; Legambiente: critiche e domande, ma adesione "a un percorso innovativo"; La posizione dell'INU sulla nuova proposta di legge urbanistica di Maurizio Lupi: Sapevamo già da che parte sta l’INU; Sergio Lironi: Un contributo alla discussione di una legge devastante; Sergio Brenna: La proposta di Lupi è ispirata a una vera furia iconoclasta

; SIU (Società Italiana degli Urbanisti): il testo predisposto per la consultazione on-line promossa da Lupi; Rosa Rinaldi: Il Territorio come il lavoro senza regole e senza tutele
In contrasto con la politica del territorio del governo Renzi la legge urbanistica toscana. La componente territorialista, il rigore delle prescrizioni, esempio per altre regioni che vogliano combattere il devastante consumo di suolo e restituire visione lungimirante al governo del territorio.
Nel clima di disfacimento dei valori democratici, sociali e ambientali che per più di mezzo secolo hanno sovrainteso all’urbanistica nazionale, la nuova legge urbanistica toscana (n. 65/2014, Norme per il governo del territorio), tenacemente voluta dall’assessore Anna Marson, oppone resistenza.

La legge è impostata sui principi di cura della città e del territorio, di riproduzione dei paesaggi regionali, di incremento delle pratiche partecipative e di interdipendenza delle comunità locali nel quadro della pianificazione sovracomunale. Al centro dell’architettura concettuale della nuova disposizione legislativa è il raggiungimento di un equilibrio stabile tra urbano e rurale, che si realizza a partire dalla presa d’atto del ruolo multifunzionale giocato dall’agricoltura nella salvaguardia idrogeologica, nel mantenimento della qualità paesaggistica e della biodiversità, e nell’incremento del benessere diffuso (anche economico) della popolazione. Il contenimento del consumo delle terre fertili, in quest’ottica, risulta perciò improrogabile.

Il superamento dell’idea di territorio come supporto inerte, o tabula rasa, assunto precipuo dell’urbanistica meccanicista, risulta finalmente compiuto. L’attribuzione di valore culturale all’ambiente rurale, ipotesi che costituisce lo scatto in avanti dell’approccio “territorialista”, è assicurata dalla definizione di «patrimonio territoriale» quale «insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future» (art. 3). Il cambio di paradigma promosso dalla legge è contenuto proprio nel passaggio dai concetti economicisti di “risorsa” e “prestazione territoriale” (impiegati nella passata legislazione) a quello di patrimonio territoriale, di matrice ecologista. Il richiamo alla «promozione» e alla «garanzia di riproduzione del patrimonio», inteso come bene comune territoriale, conferisce un’accezione genetico-evolutiva ai futuri atti di pianificazione.

L’articolato di legge conferma la bipartizione del piano regolatore comunale in parte statutario-strategica e parte operativa, ossia in «piano strutturale» e «piano operativo». Quest’ultimo, in sostituzione del vecchio regolamento urbanistico, disciplina l’attività urbanistica ed edilizia ed ha valenza conformativa dell’uso del suolo. Il piano strutturale contiene invece lo «statuto del territorio» da costruire con la partecipazione dei cittadini in quanto «atto di riconoscimento identitario mediante il quale la comunità locale riconosce il proprio patrimonio territoriale e ne individua le regole di tutela, riproduzione e trasformazione» (art. 6). All’interno del piano strutturale sono individuate quindi le strategie di disciplina e di trasformazione, tra le quali spicca l’innovativa perimetrazione delle aree urbanizzate, che merita di essere qui approfondita.

Si tratta in effetti di una “linea rossa” tracciata tra città e campagna (l’espressione è di Vezio De Lucia), che definisce con perentorietà il territorio urbanizzato, costituito «dai centri storici, le aree edificate con continuità dei lotti a destinazione residenziale, industriale e artigianale, commerciale, direzionale, di servizio, turistico-ricettiva, le attrezzature e i servizi, i parchi urbani, gli impianti tecnologici, i lotti e gli spazi inedificati interclusi dotati di opere di urbanizzazione primaria» (art. 4). A partire dall’entrata in vigore della legge, ogni nuova edificazione residenziale al di là della linea rossa – cioè sui terreni agricoli e fertili – sarà interdetta. Oltre tale linea, nuovi progetti per edifici produttivi e per grandi strutture di vendita costituiranno oggetto di verifica di conformità alle previsioni del PIT (piano di indirizzo territoriale) da parte di una «conferenza di copianificazione» nella quale il parere sfavorevole della Regione è vincolante (art. 25, c. 6). Resta valido comunque il principio che «nuovi impegni di suolo a fini insediativi o infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti».

Tuttavia, questo nuovo capitolo dell’urbanistica regionale toscana è oscurato dall’ombra lunga delle politiche governative e rischia di esserne travolto. Il progetto di legge Lupi (presentato nel luglio scorso) e la riforma, approvata in Senato, dell’art. 117 della Costituzione (che conferisce potestà esclusiva in materia urbanistica allo stato, ora invece concorrente tra stato e regioni) sono indirizzati all’indebolimento degli spazi democratici nel governo del territorio.

Importanti deformazioni della disciplina urbanistica sono in realtà già contenute nel DL 133/2014, detto “Sblocca Italia”, che ha trasformato in senso privatistico l’accordo di programma, attribuendo (con l’art. 26) valore di variante urbanistica a quelle convenzioni tra enti pubblici finalizzate alla realizzazione di progetti di recupero di immobili demaniali, in vista di una loro alienazione; a tali progetti, cui può ora partecipare anche il privato, è attribuito carattere di «pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza», o, per meglio dire, di “privata utilità”, naturalmente in deroga ai piani comunali.
L’art. 33 del decreto prefigura l’inquietante «commissario straordinario per la rigenerazione urbana» nominato dal capo del governo che indicherà anche le aree da rigenerare («sentita la conferenza stato-regioni»): un’anticipazione, «sulla base del principio di sussidiarietà» (sic, comma 2), del trasferimento della titolarità urbanistica dal livello locale a quello statale, previsto nel riformando 117.
La bozza Lupi, dal canto suo, è un provvedimento di taglio squisitamente economico-finanziario – in odor di eversione – completamente astratto dalla realtà strutturale – fisica e sociale – del territorio italiano. Con l’istituzione dei crediti edilizi esso favorisce la consustanzialità di proprietà privata e diritto a edificare; con peculiari meccanismi fiscali indebolisce i consolidati strumenti della pianificazione generale; con la disapplicazione degli standard istituisce una disparità di fatto tra le regioni italiane; con la compensazione economica alle limitazioni poste alla proprietà privata dai piani urbanistici, sottrae legittimità alla pianificazione. In mezzo a questa furia demolitrice, la legge toscana rappresenta un’importante costruzione disciplinare, dall’auspicabile efficacia applicativa. Prendano esempio i governanti di stato.

«Mentre noi combattiamo per salvare ogni singolo metro quadro di verde, un pezzo del nostro Dna, la Regione sta studiando un’inutile bretella da Vigevano a Malpensa da 200 milioni che distruggerebbe tutto il nostro lavoro passando in mezzo al territorio comunale». La Repubblica, 18 novembre 2014 (m.p.r.)

Cassinetta di Lugagnano (Milano). Superficie: 3,32 chilometri quadrati. Posizione: 45°25’27’’ Nord, 8°54’31’’ Est. Sulla mappa dell’Italia martoriata da alluvioni e frane dove ogni secondo (dati Ispra) spariscono 8 metri quadri di verde, c’è un fazzoletto di terra che — come il villaggio di Asterix in Gallia — resiste all’assedio della speculazione e alla sirena del Bancomat degli oneri di urbanizzazione: Cassinetta di Lugagnano, il primo Comune del Belpaese a consumo di suolo zero. Un borgo con 1.900 abitanti sulle acque limpide del Naviglio Grande, a una trentina di km. da Milano, dove dal 2007 il cemento è off-limits (o quasi) e dove è vietato cambiare la destinazione d’uso dei terreni da agricoli a edificabili. «Con il risultato che da allora — garantisce al bancone del bar della cooperativa locale Angelo Trezzi, simpaticissimo pensionato e volontario della Croce Azzurra — la qualità della vita è migliorata per tutti».

L’arma con cui Cassinetta ha costruito la sua «resistenza virtuosa » (copyright di Paolo Pileri, professore al Politecnico di Milano e membro del Centro ricerca del consumo di suolo nazionale) è semplice: non la bevanda magica di Panoramix, ma un Piano di gestione del Territorio (Pgt) varato sette anni fa dall’allora sindaco Domenico Finiguerra con un approccio rivoluzionario: stop alle nuove costruzioni. E via a un piano di sviluppo sostenibile in cui i campi continuavano a essere utilizzati per l’agricoltura e le case — se mai ne fossero servite di nuove — «sarebbero state ricavate sfruttando il patrimonio inutilizzato», come racconta l’attuale primo cittadino Daniela Accinasio, allora membro della giunta.
Il “se” non è una congiunzione a caso. «Per decenni i Comuni italiani hanno dato via libera a milioni di metri cubi di volumetrie solo per compensare a colpi di oneri di urbanizzazione i tagli dei trasferimenti dello stato», dice Pileri. E l’eredità di questa scelta — oltre a migliaia di villette a schiera, uffici e appartamenti sfitti o abbandonati da costruttori falliti — è il dissesto idrogeologico (un ettaro di suolo non urbanizzato trattiene 3,8 milioni di litri d’acqua) cui ci stiamo drammaticamente abituando in queste settimane. Cassinetta, prima di cementificare a pioggia, ha fatto i compiti a casa: «Abbiamo analizzato il trend della nostra popolazione — ricorda Accinasio — e da subito abbiamo capito che il fabbisogno di nuove case era limitatissimo ». Il Comune ha rinunciato così a faraonici progetti di mini-cattedrali nel deserto destinati a rubare spazio al verde. E per i nuovi arrivati in città ha ricavato 25 appartamenti restaurando la splendida villa settecentesca Clari Monzini e qualche altra unità abitativa sistemando un paio di antichi granai.
«Siamo un paese agricolo, abbiamo un’identità culturale e architettonica importante. Che senso ha costruire se non ne hai la necessità, mettendo a rischio geologicamente il territorio?», spiega il sindaco. Domanda retorica, qui lungo il Naviglio, visto che delle trenta villette a “stecca” costruite in paese negli anni ‘90 «solo dieci, per dire, sono oggi abitate ». Il piano Finiguerra ha fatto bene pure alla campagna: «Le aziende agricole della nostra zona non sono state costrette a cedere i terreni alla speculazione — continua Accinasio — si sono riconvertite al biologico. Così oggi hanno dimensioni che consentono loro di mantenere competitività.
«Cassinetta in questo è una mosca bianca», ammette Pileri. «Viviamo in una nazione che si mangia settanta ettari di verde al giorno (qualcosa come 100 campi da calcio) solo perché pensa che l’edilizia sia l’unico volano di sviluppo». «E la stragrande maggioranza dei Comuni utilizza da decenni il mattone per far cassa, senza pensare alla salvaguardia del territorio» conferma Damiano di Simine di Legambiente Lombardia. La storia di Cassinetta dimostra però che a volte essere virtuosi paghi. «Negli anni d’oro gli oneri di urbanizzazione valevano fino a 700mila euro su 2 milioni di entrate del nostro bilancio», dice Accinasio. Oggi sono solo qualche migliaio di euro. «Per questo abbiamo dovuto imparare a far di necessità virtù, facendo quadrare i conti senza il bonus-villetta ben prima della crisi edilizia che ha colto alla sprovvista molti altri enti locali». Come? Riducendo al minimo le spese (il sindaco ha 460 euro di stipendio, non ci sono consulenze e solo l’ufficio tecnico ha un telefonino a disposizione) e diversificando le entrate: «A esempio organizzando matrimoni e cerimonie nelle ville che abbiamo restaurato recuperando un altro pezzo della nostra identità», spiega il primo cittadino.
Piccoli esempi di pragmatica economia domestica, magari possibili solo in un Comune piccolo come questo. Il risultato è che alla fine — malgrado il “no” al cemento — il bilancio municipale (e non solo quello ambientale) è in attivo. Finiguerra ha lasciato ad Accinasio un conto in banca con diverse decine di migliaia di euro e oggi il saldo è positivo per 600mila. Soldi che «non possia-mo toccare», dice amaro il sindaco, per i tortuosi meccanismi del patto di stabilità.
L’oasi di Cassinetta però — come il villaggio di Asterix — è assediata e non dorme sonni tranquilli. La lobby delle costruzioni nel Belpaese, proprio perché ferita dalla crisi, è più viva che mai. E proprio in queste ore e in una Lombardia che piange le vittime da cementificazione, divampa la polemica sulla nuova legge del consumo del suolo regionale in discussione oggi al Pirellone. «L’obiettivo è il consumo zero come a Cassinetta — dice Di Simine — . Peccato ci sia un interregno di tre anni in cui i costruttori potranno accaparrarsi i progetti già pianificati». «Questa norma è un attacco al paesaggio e spalanca la strada al consumo di altri 55mila ettari di campagna in Lombardia, più dei 47mila bruciati tra il 1999 e il 2012», aggiunge Pileri. «Mentre noi combattiamo per salvare ogni singolo metro quadro di verde, un pezzo del nostro Dna, la Regione sta studiando un’inutile bretella da Vigevano a Malpensa da 200 milioni che distruggerebbe tutto il nostro lavoro passando in mezzo al territorio comunale», commenta preoccupata Accinasio. Soldi che, magari, potrebbero essere utilizzati con più profitto per contenere le piene del Seveso.
Il problema, forse, è che la felicità non fa ancora parte del calcolo del Pil. «Qui in paese il senso di appartenenza e di socialità è molto aumentato con il no al cemento », dice Trezzi nel bar di Cassinetta. «C’è gente che si è trasferita da Milano a qui proprio per questo - assicura Accinasio -. Persone più partecipi e attente ai bisogni di Cassinetta». La “rivoluzione virtuosa” continua. Sperando di non finire soffocata di nuovo nel cemento.

due vittime del neoliberismo: territorio e lavoro

Il testo preparatorio presentato a luglio 2014 dal Gruppo di lavoro “Rinnovo urbano” del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti dal titolo: “Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana” come premessa ad un conseguente disegno di legge governativo, sembra ispirato da una vera e propria furia demolitoria (v. in particolare art. 6, c. 6) nei confronti della tradizione di strumenti e procedure consolidatesi tra il 1967 con la L. 765/67 (c.d. Legge Ponte) e conseguente D.M. n. 1444/68 e il 1977 con la L. 10/77 (“Norme per la edificabilità dei suoli”, c.d. Legge Bucalossi) e sembra invece porsi come obiettivo il ritorno istituzionalizzato al “libero” confronto negoziale tra proprietà fondiario-immobiliare e amministrazioni locali che, negli anni Cinquanta-Sessanta, caratterizzò, anche dopo la fase di ricostruzione emergenziale delle distruzioni belliche, il periodo di renitenza da parte dei comuni a dare seguito al compito di indirizzo del processo urbanizzativo con modalità di valorizzazione economica compatibili con gli interessi pubblici e collettivi, compito loro già attribuito dalla L. n. 1150/42 (“Legge urbanistica”).

Ci si propone così di istituzionalizzare e rendere permanente ciò che nel decreto Sblocca Italia viene presentato come necessità emergenziale e contingente di fronte alla crisi economico-produttiva, soprattutto evidente nel settore edilizio-immobiliare e delle grandi opere.

In qualche modo si tenderebbe, cioè, ad applicare alla pianificazione di città e territorio ciò che in campo sociale si intende fare col mercato del lavoro: ogni contratto è un caso individuale a sé, senza regole di indirizzo generale.

L’esito del “libero” confronto negoziale tra proprietà fondiario-immobiliare e amministrazioni locali negli anni Cinquanta-Sessanta ebbe, come è noto, esiti caotici nello sviluppo urbano e territoriale dell’intero Paese in quegli anni (e di molto di questo esito paghiamo ancora oggi le conseguenze in termini di eccessive densità edificatorie e scarsità di dotazione di spazi pubblici nelle realizzazioni di quegli anni), sinché, dopo il clamoroso episodio della frana di Agrigento del 1966 (200.000 mc. malamente accatastati sul versante di una collina franosa antistante i templi della Magna Grecia), anche le forze politiche più restìe a porre limiti al “libero” contrattualismo tra proprietà fondiario-immobiliare ed enti locali dovettero riconoscere che quel compito non poteva essere adempiuto senza regole pubbliche di indirizzo generale (come già aveva riconosciuto un regime non certo contrario alla valorizzazione immobiliare come quello fascista con la legge del 1942, anche se la definizione di limiti edificatori e dotazioni pubbliche vi veniva demandato ad una cultura tecnico-professionale che negli anni del “boom” edilizio successivi al dopoguerra si rivelerà del tutto impari al compito affidatole).

C’è solo da sperare che non occorra un episodio altrettanto clamoroso quanto la frana del 1966 (magari, questa volta, non tanto e solo di tipo edilizio, ma ecologico-insediativo ed ambientale come quelli di Sarno, di Giampilieri, del Veneto, del Campidano, recentissimamente il Gargano e che tuttavia sembrano non aver sortito altrettanto effetto sull’atteggiamento di Governo e Parlamento) per rendersi conto della strada su cui ci si tornerebbe a mettere procedendo vinculis solutis dalle disposizioni normative in uso per i PRG).

Il venir meno di una dotazione minima di spazi pubblici garantita a livello nazionale (18 mq/abitante, aumentata a 24-28 mq/abitante da gran parte delle legislazioni regionali susseguitesi tra il 1975 (Lombardia) e il 1999 (Basilicata) farebbe venir meno quel minimo di garanzia, potendo dare origine a corse “al ribasso” con finalità di concorrenzialità economica tra territori e a danno della qualità insediativa. Per quanto la crisi economica morda ferocemente sembra difficile credere che regioni come Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia che amano paragonarsi per reddito e qualità della vita alle regioni europee più sviluppate non ritengano più garantibile ai propri cittadini ciò che si riteneva perseguibile negli anni Settanta e nell’intero Paese ciò che riteneva proponibile nel 1968.

A questa logica iper-liberista occorre saper contrapporre con forza e consapevolmente e da sinistra un disegno organico di ripresa riformatrice che superi le contraddizioni procedurali lasciate aperte dalle conquiste degli anni '70-'80 e dilatate a dismisura dalla stagione di deregulation dagli anni '90 in poi.

Mantenere un minimo di dotazione di spazi pubblici garantito a livello nazionale; vincolare gli oneri di urbanizzazione e le monetizzazioni di aree pubbliche non cedute dai privati alla effettiva realizzazione degli scopi cui sono destinate, anziché a tamponare le spese correnti nei bilanci comunali; destinare il già esistente contributo commisurato al costo di costruzione (4-6% del costo medio di costruzione) a incentivazione dell'uso di energie rinnovabili e del risparmio energetico, anziché gravare come riduzione degli oneri urbanizzativi; mettere a carico delle grandi trasformazioni urbane i 15 mq/abitante per parchi pubblici urbani e territoriali (oggi in gran parte inattuati, benché disegnati nei Piani regolatori, e spesso all'origine delle disastrose ipotesi di compensazioni edificatorie perequative); articolare gli strumenti pianificatori tra fase strategica di lungo periodo, da approvarsi e modificarsi con larghe maggioranze qualificate, e fasi attuative quinquennali, condotte anche in maniera semplificata dalle maggioranze di legislatura, ma all'interno dei limiti della pianificazione strategica di lungo periodo.

In questo modo le esigenze di alleggerimento degli oneri finanziari e snellimento procedurale dei vincoli che gravano su enti pubblici locali ed imprese potrebbero essere affrontate senza ledere il compito di tutela degli interessi generali della collettività e delle cittadinanze.

Rosa Rinaldi è responsabile dipartimento ambiente-territorio-beni comuni del Partito di Rifondazione Comunista

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