loader
menu
© 2025 Eddyburg

Sono passati più di 4 mesi dalla scomparsa di Dinu Adamesteanu, e i ricordi continuano a sfilarmi nella mente.

Capitai in Basilicata la prima volta nel 1972, giovane studentessa universitaria di II anno, per uno scavo a Ruoti, nel Potentino, con l’Istituto di Archeologia Classica dell’Università La Sapienza di Roma.

Per me fu come essere catapultata in un altro mondo. Ricordo Dinu Adamesteanu, grande, imponente, dietro la sua scrivania a Potenza, mi fece un’enorme impressione. Non ero abituata al clima informale che regnava sovrano nella sua Soprintendenza, da poco fondata. Non avevo allora grandi frequentazioni con le Soprintendenze e questo fu il vero impatto che, devo dire, mi lasciò un segno.

Vi era appena stata la mostra “Popoli anellenici”, a Melfi, nel 1971, che aveva rivelato la ricchezza straordinaria di un territorio fino allora sconosciuto.

Nel suo Ufficio regnava un moto perpetuo, un via vai incessante senza orari, scandito dalla venerazione per lui. Era un generoso e tutte le iniziative intraprese venivano suggellate davanti ad una tavola imbandita, in lieta compagnia

Ricordo di quegli anni un grande fervore scientifico, una grande apertura verso il mondo accademico e internazionale, missioni di tutto il mondo chiamate a lavorare in terra incognita, com’era allora la Basilicata. Era anche un modo, raffinato e altamente scientifico, per supplire alla carenza di personale specializzato, di cui non disponeva, e grazie a lui molti giovani di allora furono lanciati verso la conduzione di Soprintendenze, cattedre universitarie o direzioni di prestigiosi Istituti culturali stranieri in Italia. Tante amicizie sono iniziate allora, grazie a lui e continuano ancora oggi.

Ebbi da lui il materiale per la tesi di laurea, grazie alla disponibilità dell’unica ispettrice dell’epoca per la provincia di Potenza, Giuliana Tocco; a Roma, negli ambienti piuttosto severi della Sapienza dell’epoca, ebbi non pochi problemi, che allora mi apparivano incomprensibili; l’argomento affidatomi veniva giudicato troppo complesso per una tesi di laurea, andavano di moda sterili discussioni su singoli oggetti e lo studio di un complesso veniva giudicato un azzardo per un laureando.

La sua visione del territorio era infatti rivoluzionaria per l’epoca; il suo sguardo spaziava su larghi orizzonti, affrontando i problemi topografici impostati sullo studio delle fotografie aeree - a lui si deve la fondazione dell’Aerofototeca nel 1959 - e risolvendoli successivamente attraverso gli scavi. L’esplorazione archeologica era supportata da una serie di scienze ausiliarie e ilcontrollo topografico del territorio era costantemente aggiornato attraverso i supporti cartografici. La documentazione in Basilicata si avvaleva dei mezzi più all’avanguardia dell’epoca, al contrario di quanto avveniva invece nello stesso periodo e anche in epoche successive in altre regioni.

La modernità del suo agire è ancora oggi stupefacente se si considera il grande lavoro compiuto con gli Enti locali, per cui anche il più piccolo paesino della Basilicata era fiero di essersi riappropriato del proprio passato.

E tutto questo senza bisogno né di leggi né di devolution e la più bella testimonianza di ciò sono stati tutti i gonfaloni dei Comuni della Basilicata, oltre che di Gela, di cui il Professore senz’altro sarebbe stato contento, a dargli l’estremo saluto, insieme con la Sua vecchia Soprintendenza e tanti scarafoni.

Dal giorno della Sua scomparsa, molto è stato già detto, ma bisogna ancora sottolineare il suo impegno per la salvaguardia del territorio, non solo a tutela dei siti antichi -a lui si devono grandi provvedimenti di tutela, incentrati sulla conoscenza topografica del territorio - , ma anche a tutela del contesto ambientale.

Memorabili le sue grandi lotte per salvare dalla devastazione industriale per es. interi tratti di costa del Metapontino, opponendosi all’installazione “di una tra le più inquinanti industrie finora conosciute in una zona ben nota per gli i nsediamenti antichi”. Mi sono trovato il progetto davanti e non avevo altro da fare che firmarlo ! Cosa che non ho fatto e credo non sarà fatto nemmeno dai nostri superiori del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali” (D. Adamesteanu, L’attività archeologica in Basilicata, in Locri Epizefiri, Atti del XVI Convegno di Studi sulla Magna Grecia, 1976, p. 822).

Quando l’ho visto l’ultima volta, a Natale 2003, per comunicargli che finalmente stavo per dare alle stampe lo studio di una delle necropoli arcaiche di Siris, che lui aveva scavato e che mi aveva affidato, alla felicità per la notizia si era frapposto in lui il rimpianto per non aver fatto abbastanza.

E come in un flash back mi sono passate davanti agli occhi le lotte di questi anni per evitare lo smantellamento delle Soprintendenze, in contrapposizione alla Sua opera -lui, che ha istituito una Soprintendenza territoriale-, per mantenere dignità al lavoro tecnico-scientifico dei funzionari del Ministero, in contrapposizione al suo lavoro di valorizzazione delle risorse umane, per evitare lo smantellamento graduale della tutela, lui, rumeno ma che amava profondamente il Sud d’Italia e soprattutto la Basilicata, tanto da rimanervi per sempre, che ha tutelato, con pochissimi mezzi e con l’accordo dei Comuni e degli Enti locali, porzioni enormi di territorio, come mai oggi si potrebbe mai fare.

E in tempi così miseri, che dire del bisogno disperato di uomini che facciano le Istituzioni??

Come quando diceva: “Vado a Roma !!!”

E calava il pugno sul tavolo annunciando tempesta.

Direttore: Maria Filomena Boemi

e-mail:
boemi@iccd.beniculturali.it

tel centralino ICCD +39 6 585521

L'attività dell'aerofototeca è indirizzata alla ricerca, al recupero, alla catalogazione e alla conservazione del materiale di archivio che copre un arco temporale dalla fine dell'800 ad oggi.

L'Aerofototeca viene fondata nel 1958 come sezione distaccata del Gabinetto Fotografico Nazionale con lo scopo di raccogliere e produrre materiale fotografico rivelatosi di fondamentale importanza per lo studio e la salvaguardia del territorio e delle incidenze architettoniche e archeologiche ivi diffuse.

Dal 1959 l'Aerofototeca inizia la sua attività, sia pure in forma ridotta e settoriale, sotto la guida dell'archeologo Dinu Adamesteanu il quale, fin dal 1954, si era battuto con energia per superare tutti gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione di un simile obiettivo. Le scoperte che in quegli anni avevano portato alla ribalta l'aerofotografia quale insostituibile ausilio per la ricerca archeologica ed inoltre la più ampia disponibilità da parte degli organi competenti del Ministero Difesa Aeronautica - cui, per legge spetta il controllo sulla esecuzione e diffusione del materiale aerofografico - concorsero inoltre a rendere possibile la creazione dell'Aerofototeca, la cui attività sia in campo operativo sia in quello di raccolta archivistica, è a tutt'oggi particolarmente viva.

Da un uso corretto e mirato della enorme quantità di informazioni contenute in ciascun documento derivano varie possibilità di lettura, disponibili per una utenza diversificata che può acquisire il materiale fotografico in copia o esaminarlo e studiarlo presso il servizio con l'assistenza di personale specializzato.

L'archivio, di oltre 2 milioni di immagini tra positivi e negativi, è costituito da:

negativi catalogati e registrati (oltre 282.000)

diapositivi inventariati (oltre 16.500)

positivi catalogati ed inseriti negli archivi di consultazione (oltre 250.000)

collezioni FOTOCIELO, I.BUGA, EIRA e LISANDRELLI in fase di inventariazione e/o precatalogazione

immagini georeferenziate catalogate su banca dati grafica e alfanumerica (oltre 126.000)

Premessa

La presente tesi si propone di contestualizzare il gioco basato sul web, GioCoMo – che si presenta come uno strumento interattivo di consultazione e di costruzione di nuove ipotesi progettuali, applicato al contesto dello studio di fattibilità di un sistema di metrotranvia in Como – all’interno della sfera degli strumenti partecipativi della pianificazione territoriale ed urbanistica.

Nell’ultimo decennio, il tema della partecipazione dei cittadini nei processi di trasformazione della città e del territorio – abbandonate le connotazioni più ideologiche ed istituzionalizzate del passato – ha acquisito maggiore risalto all’interno del dibattito urbanistico e destato l’attenzione di alcuni istituti universitari e culturali che, in risposta alle strategie inclusive e di best practice europee e internazionali, hanno avviato un percorso disciplinare dai molteplici tracciati teorici e sperimentali. Tuttavia, di fronte alla proposta di adottare approcci di tipo consensuale, la pubblica amministrazione risponde quasi sempre con diffidenza e riluttanza adducendo motivazioni di carattere pratico (mancanza di risorse, iter procedurali troppo lunghi e complessi, ecc.), ma in realtà temendo che ciò comporti una perdita di potere e prestigio, nonostante i numerosi vantaggi, riconosciuti da più parti, che queste nuove modalità decisionali, se gestite adeguatamente, apporterebbero alla pratica urbanistica (tra tutti, la definizione di soluzioni condivise, conformi ai problemi sollevati dalla comunità, più efficaci e durature nel tempo). Pertanto, l’urbanistica partecipata non si pone come alternativa alla pianificazione tradizionale, ma anzi, intende restituire credibilità e fiducia ad un processo di gestione del territorio fortemente in crisi, perché impreparato a governare uno scenario sempre più complesso, morfologicamente governato dalle regole del mercato, socialmente mutevole, instabile, e culturalmente diversificato, e soprattutto incapace di gestire i conflitti scaturiti dalla crescente richiesta dei cittadini di una maggiore considerazione delle proprie opinioni sulle iniziative politiche di cui saranno i destinatari. La crisi di legittimazione del consolidato modello di pianificazione sembra dunque frutto di un più diffuso malessere, individuabile nell’elevata diffidenza e sfiducia nei confronti degli organi rappresentativi del governo, che porta alcuni ad affermare di essere di fronte ad una crisi dell’attuale sistema democratico.

Partendo da queste considerazioni generali, dapprima è stata affrontata la questione della "democrazia" ed in particolare di come le diverse nozioni teoriche si siano evolute dal concetto classico di "demokratia" fino ad arrivare alla concezione moderna (capitolo 1), che oggi è messa fortemente in discussione dalla crisi di legittimazione della politica, fenomeno presente non solo nel nostro paese. La crescente disaffezione nel sistema politico (talvolta attribuibile ad un reale disinteresse degli elettori) e la diffusa sfiducia verso le istituzioni, possono anche tradursi nella richiesta di una maggiore partecipazione, soprattutto nei casi in cui i cittadini desiderino non delegare totalmente la responsabilità decisionale ai propri rappresentanti. Tale necessità, sentita in particolar modo nell’ambito della gestione del territorio (elemento forse più vicino e quindi più sentito dalla popolazione che si è rivelata capace di attivare proteste anche molto intense e durature) e oggi agevolata dallo sviluppo delle nuove tecnologie, ha portato alla formulazione di nuovi approcci di stampo argomentativo e partecipativo, in grado di restituire un ruolo centrale ai cittadini attraverso una serie di tecniche sperimentali che si adattano al contesto in cui si sta operando e al tipo di comunicazione che si vuole instaurare (capitolo 2). In seguito, l’analisi sull’evoluzione della pianificazione partecipata dagli anni settanta ad oggi, e sulla tendenza assunta nell’ultimo decennio dalle politiche internazionali e italiane, hanno reso necessario approfondire cosa si intenda per "partecipazione", esplorandone le caratteristiche e le ragioni a favore e contro (capitolo 3), e come possa concretizzarsi nei processi di pianificazione, presentando le principali tecniche partecipative. La descrizione di come il coinvolgimento attivo dei cittadini nei processi di trasformazione urbana possa assumere distinti gradi di intensità e di influenza, consente infine di introdurre una particolare tipologia di strumenti partecipativi, i giochi di simulazione, ed in particolare di presentare le caratteristiche, gli obiettivi, i pregi e i difetti di GioCoMo (GIOco COmo MObilità).

Introduzione

La crescente complessità delle moderne società industriali, caratterizzate dalla convivenza – talvolta forzata – di molteplici razze e culture, dalla presenza di interessi corporativi che possono sfociare in aspri conflitti e dall’impossibilità delle fasce più deboli della popolazione di intervenire nel processo decisionale, associata alla sempre maggiore sfiducia nei confronti dell’elitaria rappresentanza politica, ha condotto progressivamente la pratica urbanistica tradizionale alla crisi. L’incapacità nel gestire comunità «sempre più differenziate e in rapido mutamento», ha infatti portato la pianificazione «dirigista e autoritaria» a rivendicare solo «più autorità, più poteri, spesso peggiorando la situazione» [1], ossia accrescendo il divario tra sfera pubblica e privata, indotto dalla mancanza di comunicazione e di fiducia. Si è reso quindi necessario individuare e promuovere un alternativo approccio progettuale e comunicativo – la pianificazione partecipata e condivisa – che prevedesse la collaborazione dei cittadini alla costruzione di politiche pubbliche, in particolare urbanistiche, di cui saranno poi i destinatari. Negli ultimi anni, queste pratiche "innovative" stanno diventando sempre meno sporadiche, grazie anche all’iniziativa di alcuni istituti culturali (come l’INU) e universitari (come il "Laboratorio Ombrello" dello IUAV e il "Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti" dell’Università di Firenze) che hanno sollecitato un dibattito costruttivo attorno a questi temi, e incoraggiato l’attuazione di processi di partecipazione nelle politiche urbane, come confermano le numerose rassegne sulle esperienze partecipative presenti nella letteratura di settore.

La partecipazione, che sarà analizzata in seguito più dettagliatamente, può avvenire in diversi modi, a seconda del grado di coinvolgimento effettivo: «Ci sono i casi, più semplici, di consultazione, in cui i cittadini sono chiamati a esprimere il loro punto di vista sul progetto predisposto dall'amministrazione, come avviene nelle inchieste pubbliche ( public inquires) britanniche. Ci sono esperienze più complesse in cui viene riconosciuto ai cittadini il potere di discutere il merito del progetto e a negoziarlo con l'amministrazione o in cui il compito di definire l'intervento pubblico viene interamente delegato alle comunità destinatarie. Esistono anche esperienze in cui una specifica politica locale è affidata alla discussione e alla valutazione di un gruppo di «cittadini comuni» o di utenti di un servizio ( citizens panels o citizens juries).» [2].

La scelta di ricorrere a pratiche partecipative di questo e di altro tipo è dettata dalla necessità di costruire quadri di significato condivisi – attraverso un «processo di reframing, cioè di de–costruzione delle immagi­ni conflittuali e di ricostruzione di possibili prospettive condivise» [3] – che consentano di ridurre i conflitti ideologi­ci e sociali, e di prevenire, o almeno mitigare, l’opposizione delle comunità direttamente coinvolte negli interventi pubblici. È dettata inoltre dalla volontà, sia di rendere la cittadinanza maggiormente consapevole e informata, sia di fornire uno strumento – alternativo a quello del voto – che permetta di esprimere consenso (o eventualmente dissenso) sull’operato pubblico.

Il passaggio dalla democrazia diretta alla democrazia rappresentativa - indotto anche dalla presenza, nei moderni Stati democratici, di popolazioni sempre più numerose e disperse sul territorio – ha reso le periodiche elezioni (e gli occasionali referendum e plebisciti, adatti solo in casi particolari) gli unici mezzi legittimi di espressione della volontà popolare.

« Dall’antichità classica al diciassettesimo secolo, la democrazia è stata largamente associata con la riunione assembleare dei cittadini e con i luoghi pubblici dedicati a tali incontri. Alla fine del diciottesimo secolo essa cominciò ad essere pensata in termini di diritto della cittadinanza a partecipare alla determinazione della volontà collettiva tramite la mediazione di rappresentanti eletti.» (Held,1997)

Anche se «tutte le democrazie funzionanti» autorizzano, oltre al voto, «anche l'espres­sione extraparlamentare del dissenso (marce, dimostrazioni di piaz­za, scioperi di ogni specie)», eccetto, com’è ovvio, qualsiasi forma di violenza o di «altro atto che costituisca reato» [4], queste manifestazioni di malcontento godono sempre meno di una effettiva considerazione da parte dei governanti che scelgono di non "cedere alla piazza", cercando di mantenere il processo decisionale il più possibile al di fuori della sfera pubblica, e quindi di negoziare le decisioni politiche "dietro le quinte". Delegando l’esercizio del potere, i cittadini hanno perso il controllo sulle decisioni politiche, ovvero la possibilità di sollevare problemi, proporre soluzioni alternative, intervenire sull’agenda del governo, «devono limitarsi ad attendere le elezioni successive per giudicare se [il leader eletto] ha governato bene o male» [perché] ogni altro atteggiamento altererebbe la logica maggioritaria» (Rodotà, 2002). Dato che ciò «può trasformarsi, e sovente si trasforma, in aliena­zione del potere decisionale, comportando l'annullamen­to di fatto dei controlli democratici», e vi è il rischio che «i bisogni concreti» siano «manipolati dalle interpretazioni di me­diatori avulsi dalle contingenze della vita quotidiana», «sembra imporsi la necessità di superare la democrazia rappresentativa per realizzare una democrazia di­retta» (Bobbio, 1981; Dahl, 1987).

Per questo motivo, di fronte ad una «"democrazia senza popolo"», determinata non solo da una crescente astensione elettorale, ma anche dalla presenza di «assemblee elettive [che] si svuotano di senso e di potere; diventano luoghi di registrazione meccanica della volontà di maggioranze "blindate"», e ad un trasferimento della politica «nel sistema dei media», molti cittadini, spinti dal «bisogno di vivere collettivamente la politica», sono tornati ad occupare le piazze per far sentire la loro voce [5]. Appare quindi necessario rispondere a questo «bisogno di autorappresentazione» derivante alla scarsa fiducia dell’opinione pubblica per i politici, offrendo ai cittadini una partecipazione che vada oltre la scelta elettorale o la consultazione attraverso referendum elettronici che riguardano proposte elaborate senza la loro presenza. In tutto ciò, le tecnologie, spesso già sperimentate a livello locale, avranno un ruolo determinante nel consentire alla cittadinanza di intervenire effettivamente nelle diverse fasi del processo decisionale.

Da quanto detto, si evince che democrazia e pianificazione partecipata sono strettamente interconnesse. Non è quindi possibile approfondire il tema della partecipazione nell’ambito della pianificazione urbanistica, senza prima aver presentato almeno una rapida rassegna dei modelli di democrazia presenti nella letteratura (ponendo particolare attenzione alla legittimazione del potere, la formulazione delle decisioni, la regolamentazione della partecipazione di base).

[1] Balducci A., (1996), "L’urbanistica partecipata", p. 18

[2] Bobbio L., (2002), I governi locali nelle democrazie contemporanee, p. 192

[3] Balducci A., (1995), "Progettazione partecipata fra traduzione e innovazione", in Urbanistica, n.103, p. 116

[4]Luttwak E. N., Creperio Verratti S., (1996), Che cos’è davvero la democrazia, p. 56

[5] Rodotà S., (2002), "Democrazia senza popolo", in La Repubblica, 8 aprile 2002

Cher lecteur,

J'aimerais t'emmener cheminer avec moi, sur des sentiers fantasmagoriques, à l'image d'un Walter Benjamin[1] (modestement). "Lire la ville" ensemble, en appréhender les dimensions sémantiques, dans une sorte de "phénoménologie de la vie", de la ville.

Un parcours qui nous emmènera à la découverte d'un récit de la ville; à l'observation de quelques définitions et de différentes manières théoriques d'appréhender la ville. Pour nous retrouver ensuite à Venise, après avoir traversé certains événements historiques choisis, qui marquent aujourd'hui encore les représentations que l'on a de cette ville lagunaire[2]; et pour finir je te donnerai un aperçu de quelques lieux de référence de l'imaginaire urbain et du débat sur la nature de Venise, et de toutes les villes, en dernière analyse.

Le sujet de ma recherche sera Venise.

Une ville en représentation, les représentations d'une ville, de toutes les villes. Venise, comme emblème de la construction mythologique que sont toutes les villes, ou - pour reprendre ce que Walter Benjamin dit de Paris dans son livre "Paris, capitale du XIXème siècle" -, une ville "de fantasmagories où la réalité s'affuble des atours de l'opérette d'Offenbach".

"Ville en représentation, représentations sur la ville, ville à paraître, ville être-à-part: on ne perdra pas de vue le risque d'anthropomorphisation qu'impliquent ces termes, comme si la ville se donnait à voir alors qu'on la donne à voir, selon des règles des lois du marketing et de stratégies sur l'espace, et en faisant appel à nos cartes mentales.

[...]

Praesens c'est le présent, repraesentare c'est rendre présent quelque chose; à partir de là, on ne peut qu'accumuler une gerbe de synonymes: présentation, exhibition, description, évocation, figuration, illustration, image, portrait, tableau, spectacle, comédie, mais aussi symbole, allégorie ou emblème, ou encore figure, croquis, dessin schéma, plan et carte.

«Paraître», c'est tout cela."[3]

Pour pouvoir explorer les rapports emblématiques à la ville que l'on trouve à Venise (et qui ne seront qu'esquissés dans le cadre de ce mémoire de licence, mais ça c'est une autre histoire), des rapports parfois épidermiques tant ils sont intenses, il me faut dans un premier temps effectuer un travail théorique qui cherche à tracer une définition de la ville, au travers d'un parcours historique d'abord, et de la reproduction d'une grande partie des discours portés sur elle ensuite.

Et l'on verra qu'il y a presque autant de définitions qu'il y a de villes...

Mais tout de suite, délimitons mon sujet de recherche. Définir, au moins d'un point-de-vue spatial, ce que j'entends lorsque j'écris: "le sujet de ma recherche sera Venise".

La Commune de Venise est - depuis 1926 - une "ville-territoire". Elle est une articulation territoriale savante et fragile entre l'archipel d'îles de la lagune, la terre ferme, et les littoraux. Mais cette ville-territoire est sans nom.

Ainsi, lorsque l'on parle de Venise, c'est bien le centre historique insulaire qui vient immédiatement à l'esprit. Et ce sera donc la délimitation de mon sujet de recherche, Venise tel que l'entend le sens commun relayé par les guides touristiques, un centre historique composé de six Sestieri: San Marco, Castello, Cannareggio, Santa Croce, San Polo, et Dorsoduro.

D'ailleurs, dans l'imaginaire des Vénitiens eux-mêmes, il est rare que le "reste" soit considéré comme faisant intrinsèquement partie de Venise. C'est ce que Michele Casarin, historien vénitien, a analysé. Il s'est penché attentivement sur l'identité urbaine des habitants de Venise au sens large.

Lorsqu'en 1926 - suivant en cela l'idée de Giuseppe Volpi - les communes de la terre ferme furent annexées à celle de Venise, aucun nom ne fut donné à cette nouvelle entité territoriale. Probablement est-ce là un choix idéologique délibéré du régime fasciste de Mussolini. Quoi qu'il en soit, ce territoire sans nom véritable peine à devenir un objet d'identification pour ses habitants, aujourd'hui peut-être même plus qu'hier.

"Dovendo parlare a uno straniero o a un italiano, anche veneto - persino veneziano - di quella «cosa» che sta all'interno dei confini amministrativi del Comune di Venezia dal 1926 (...), non si sa bene che cosa dire: si sente, e talvolta si legge, «Venezia, comprese Mestre e Marghera», «Venezia città e terraferma», «tutto il Comune di Venezia» - con la variante «tutto il Comune di Venezia compreso Mestre». Provando a utilizzare il termine «città», senza specificare, avviene un fenomeno di immediata associazione parziale, ma difficilmente si riesce a trasmettere l'idea di un complessivo. Peggio ancora se si prova a utilizzare «Venezia»: in quel caso l'associazione è senza equivoci alla città antica con pocchissimi casi di coinvolgimento della terraferma o persino delle isole."[4]

Pourquoi Venise ?

Pour des raisons subjectives, d'abord: j'ai eu l'occasion de m'y rendre en mai 2000, au cours d'un voyage d'études organisé par le Département de Géographie de l'Université de Genève. J'y ai rencontré alors le professeur Gabriele Zanetto, et Stefano Soriani, chercheur, travaillant tout deux au Département des Sciences de l'environnement de l'Université Ca'Foscari, avec qui (ce dernier surtout) j'ai eu d'intéressantes discussions sur la situation de Venise.

De nos discussions, ces questions sont restées en suspend: Faut-il vraiment sauver Venise ? Pour qui et pourquoi ?

Cela m'a mis la puce à l'oreille. Alliant alors le plaisir (de m'y rendre) et la nécessité (de trouver un sujet de licence, ce qui fait partie des raisons objectives), je me suis décidée à me pencher sur Venise, en tant que ville à part.

Venise est unique en ce sens qu'elle est, de par sa structure-même, une ville prémoderne. Elle contient en elle la ville historique d'avant la modernité: ce sont les formes élémentaires de l'urbain qui s'y présentent à nous. Des formes pures, donc, qui ne sont pas le résultat du fonctionnalisme, d'une conception mécaniste, et dans lesquelles on ne trouve pas trace des caractéristiques essentielles de la ville "moderne" (dans le sens de: ville de type occidental contemporaine): voitures, et foule (à l'exception des touristes, mais c'est une forme particulière - là encore - de foule).

Venise est ainsi un lieu privilégié où observer les rapports à la ville contemporains, les rapports au patrimoine, à l'environnement naturel, un lieu où rechercher les représentations sociales liés à l' "habiter" et au "vivre" la ville.

"- Oui, mais..." - vas-tu me dire, cher lecteur - "là nous sommes en pleine contradiction ! Alors, d'un côté tu dis qu'à Venise, on n'y trouve pas trace des caractéristiques essentielles de la ville moderne, et de l'autre tu prétends que c'est un lieu privilégié pour appréhender les rapports actuels à la ville."

Et je ne peux que te donner raison. À première vue, c'est totalement contradictoire. Mais, je pose l'argument suivant: ces caractéristiques de la ville moderne peuvent altérer, contaminer l'observation des rapports à la ville. En ce sens que les problèmes liés aux voitures (trafic, pollution, bruits, dangers de la route, encombrements, etc.), et ceux liés à la "civilisation de masse" (hétérogénéité culturelle, sentiment d'insécurité, etc.), prennent dans les discours et les représentations sur les villes une place telle, qu'ils occultent les autres composantes du rapport à la ville. Des caractéristiques auxquelles on pourrait peut-être aussi ajouter l'anonymat et la mobilité, en tant que "composantes principales de la forme sociale de la métropole moderne"[5].

Enfin, Venise nous permet d'aborder le thème de la mort de la ville, toujours au travers des représentations sociales, et des discours portés sur elle (dont la plupart parlent de la nécessité de sa sauvegarde physique et sociale). C'est ce thème qui, en dernière analyse, m'a amenée à consacrer ce travail de recherche à Venise.

"On a voulu moderniser Venise. On a repris en 1957 l'idée mussolinienne d'une autoroute translagunaire. Mais celle-ci a été heureusement abandonnée. On a envisagé de faire construire par L.F. Wright un home d'accueil pour les étudiants en architecture, face à la Ca'Foscari. On a envisagé de faire construire par Le Corbusier un hôpital de 1200 lits au nord-ouest de la ville, à l'emplacement des anciens abattoirs. On a envisagé de faire construire par Louis Kahn un ensemble culturel dans les jardins du Castello, comprenant un palais des Congrès de 150 mètres de long. Puis finalement, il semble bien que l'on va abandonner Venise à sa lente agonie. En voulant sauver économiquement Venise par l'adjonction d'une ville-satellite industrielle, on l'a en effet condamnée à mort."[6]

"Le thème de la mort de Venise, de la mort à Venise, du rapport entreVenise et la mort fait partie du mythe de Venise depuis plus de deux siècles."[7]

Voilà ce que nous dit (et il n'est pas le seul à le faire) Antonio Alberto Semi.

Pour effectuer ce parcours, je vais te proposer une sémantique de l'espace qui ne se plie pas au discours scientifique habituel. Un discours que je ne prétends pas avoir inventé, mais qui m'est familier. Pour reprendre Robert Ferras déjà cité plus haut et qui résume parfaitement mes intentions:

"On parlera de la ville considérée comme expérience vécue et non comme structure planifiée, de la ville pratiquée plus que de la ville qui affiche un site et propose une situation. Ces choix, en partie littéraires, ou - plus grave - artistiques, ou - bien plus grave encore - subjectifs, renvoient au document sur la ville, en une sorte de discours au deuxième degré. En étant plus proche du récit de voyage que du Plan d'Organisation des Sols, même si ce type de zonation existe; en étant plus soucieux des significations de l'espace urbain pour l'usager que de coefficients d'occupation des sols. Parler de «Venise la rouge» où rien de bouge, c'est parler comme Musset, et moins des gains d'une lagune qui n'a jamais cessé de bouger que de tout ce qu'a produit le récit et l'imaginaire sur un de ces hauts-lieux du discours urbain: Venise sous les citations. Venises." [8]

J'aurais aimé aborder mon sujet de recherche dans une lecture "marxiste", ou plutôt "marxisante"; cela se traduit dans le choix de certains des auteurs de référence. Et dans cette autoréflexion critique (ou cette autocritique réflexive): cela n'échappera pas à ta perspicacité, cher lecteur, mon style change au fil du travail. Comme si je subissais une contamination de la part des auteurs de référence. Mais cela tient à la fonction du chapitre où apparaît l'auteur, qui a lui-même été choisi pour son affinité avec le sujet traité, cela ne tient donc pas à une imitation stylistique.

Enfin, j'ai opté pour les citations en V.O. avec traduction en notes de bas de pages. J'ai modestement assuré les traductions, et je réclame ton indulgence si ta maîtrise de la langue de Dante est supérieure à la mienne: toute la bibliographie n'était pas disponible en français.

Par contre, les soulignés et autres mises en évidences des citations sont d'origine. Je me suis contentée, ici et là, d'ajouter entre parenthèses une définition ou une précision, en le signalant par un "ndlr", comme il se doit.

Ces précisions faites, nous voilà parés pour notre déambulation.

Alors, allons-y, cher lecteur. Partons à la découverte de ce "kaléidoscope théorique". Mais attends-toi à ce que notre parcours soit un peu cahotique: c'est la structure particulière de Venise qui le veut, sa forme céphalique qui nous entraîne non seulement dans les méandres physiques des calli et des campi, des fondamente et des campielli, mais aussi dans les méandres métaphysiques de la pensée humaine, celle des Vénitiens au cours de l'histoire, comme la mienne propre au cours de cette recherche.

Car, comme le dit si bien Antonio Alberto Semi, psychiatre vénitien,

"... Venezia altro non è se non un enorme, fantastico cervello e (...) il rapporto tra Venezia e il suo popolo altro non è che il rapporto stesso che esiste tra il cervello e la psiche !"[9]

[1]Walter Benjamin voit dans la notion de "fantasmagorie" - qu'il tire des études de Marx sur le fétichisme de la marchandise -l'effet magique dont finissent par être recouverts les rapports économiques et sociaux. Il faut lever ce voile - dit-il - et regarder. Pour constater quoi ? Que les "passages", par exemple, sont nés de faits économiques irréfutables qui ont commandé leur mode de construction et leur fonction: l'utilisation d'une nouvelle architecture métallique et l'expansion du commerce des textiles.

[2]De l'histoire à la mythologie, il n'y a parfois qu'un pas...

[3]Robert Ferras, (1990), pp. 10 - 11

[4]Michele Casarin, (2002), pp. 26 - 27

"Si l'on doit parler à un étranger ou à un Italien, même du veneto - voire même Vénitien - de cette «chose» qui se trouve dans les limites administratives de la Commune de Venise depuis 1926, l'on ne sait pas très bien quoi dire: l'on entend, et parfois on peut lire, «Venise, y compris Mestre et Marghera», «Venise ville et la terre ferme», «toute la Commune de Venise» - avec la variante «toute la Commune de Venise y compris Mestre». En essayant d'utiliser le terme «ville», sans spécifier, se produit un phénomène d'association partiale immédiate, mais difficilement l'on réussit à transmettre l'idée de globalité. Pire encore si l'on essaye d'utiliser «Venise»: dans ce cas l'association à la ville antique est sans équivoque, avec quelques rares cas où la terre ferme ou bien même les îles y sont inclues."

[5]Harvey Cox, in Michel Ragon, (1986, 3), p. 228

[6]Michel Ragon, (1986, 3), p. 144

[7]Antonio Alberto Semi, (1996), p. 97

[8]Robert Ferras, (1990), p. 17

[9] Antonio Alberto Semi, (1996), p. 32

"... Venise n'est rien d'autre qu'un énorme, un fantastique cerveau et (...) le rapport entre Venise et son peuple n'est rien d'autre que le rapport qui existe entre le cerveau et la psyché !"

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DEL LAZIO

SEZIONE III-Bís

Composto dai Magistrati:

Roberto SCOGNAMIGLIO PRESIDENTE,

Giulio AMADIO CONSIGLIERE

Vito CARELLA CONSIGLIERE, rel.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n.12804/2001 r. proposto da Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV), in persona dei Rettore pro-tempore, e da Facoltà di Pianificazione Territoriale, Urbanistica ed Ambientale dell'IUAV, in persona del Preside pro-tempore, rappresentati e difesi dagli avv.ti Sandro Amorosino e Marco Dugato ed elettivamente domiciliati in Roma presso lo studio del primo a Ciro Menotti, 24;

contro

Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (ora MIUR), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso la cui sede domicilia per legge;

per l'annullamento

- del decreto del Ministro dell'Università e delle Ricerca Scientifica e Teconologica in data 21 maggio 2001, pubblicato nella G.U. del 18 luglio 2001 n. 168, con il quale, (contrariamente a quantodisposto con il precedente decreto 11 maggio 2000 del medesimo Ministro) si é affermato che la laurea in Pianificazione Territoriale Urbanistica ed Ambientale (P.T.U.A.) non é equipollente alle lauree in Ingegneria civile ed Architettura ai fini dell'accesso ai concorsi pubblici per ruoli di urbanista, ma solo ai limitati fini dell'assegnazione delle borse di studio

- dei presupposti pareri del Consiglio Universitario Nazionale in data 8 febbraio e 7 marzo 2001, nei quali si é rovesciato (in senso restrittivo) i precedenti pareri del medesimo CUN in data 16 dicembre 1999 e 16 dicembre 1994;

- di ogni altro atto presupposto, conseguente e comunque connesso;

Visto il ricorso con gli atti e documenti allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Amministrazione intimata;

Viste le memorie prodotte dalle parti e gli atti tutti della causa;

Alla pubblica udienza del 24.6.2002, relatore il Consigliere Vito Carella, uditi i procuratori delle parti comparsi come da verbale di udienza;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Il provvedimento impugnato ha modificato il D.M. 11.5.2000, il quale aveva riconosciuto l'equipollenza della laurea in pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale alle lauree in ingegneria civile e in architettura ai fini della partecipazione ai concorsi pubblici. La modifica limita l'equipollenza alla partecipazione ai soli concorsi pubblici per borse di studio, alla stregua del parere rilasciato dal Consiglio Universitario nazionale nell'adunanza dell'8.2.2001.

Avverso tale limitazione ricorrono le parti in epigrafegià indicate che deduconodiversi aspetti del vizio di eccesso di potere e violazione degli art. 3, 4, e 97 della Costituzione.

Si é costituito in giudizio il Ministero intimato, che eccepisce preliminarmente vari profili di inammissibilità dell'impugnativa.

All'udienza del 24.6.2002 la causa é passata in decisione.

DIRITTO

In via preliminare deve essere esaminata l'eccezione sollevata dalla difesa statale di carenza di legittimazione attiva in capo alla Facoltà ricorrente perché organismo mancante di autonoma personalità giuridica rispetto all'Istituto Universitario di cui é parte.

Questa pregiudiziale, ancorché priva di riflessi pratici sullaprocedibilità del ricorso con riguardo alla concomitante presenza nella causa del Rettore in rappresentanza dell'IUAV ricorrente, pub trovare accoglimento con l'estromissione da giudizio della Facoltà di Pianificazione territoriale, Urbanistica ed Ambientale dell'IUAV stesso.

Non meritano accoglimento le altre eccezioni d'inammissibilità dell'impugnazione, per dedotta insussistenza di interesse attuale ad agire, in considerazione del carattere generale del provvedimento censurato.

E' noto, come da consolidata giurisprudenza, che gli atti a contenuto generale, cioé indirizzati ad una collettività o ad una categoria di soggetti nel suo complesso, possono essere connotati da aspetti precettivi di immediata lesività per interessi astrattamente tutelabili. Il decreto ministeriale contestato, non solo é astrattamente e direttamente lesivo degli interessi professionali degli urbanisti e píanificatori territoriali, limitandone l'accesso ai concorsi pubblici, ma é anche pregiudizievole per l'Istituto ricorrente, in quanto il valore legale della laurea rilasciata viene ad essere immediatamente compresso e compromesso dal provvedimento oggetto di impugnazione.

Nel vigente ordinamento, l'imputazione di un interesse ad un Ente pubblico avviene attraverso l'attribuzione di concreti poteri, idonei a consentire la cura, anche a mezzo di attivazione degli strumenti di tutela in via d'azione e per la difesa della propria sfera di competenza quando risulti lesa dai provvedimenti di un'altra Amministrazione.

Nella specie, dunque, non si può sostenere che l'IUAV, il quale ha attivato lo specifico corso di laurea, non abbia poi interesse diretto a protezione concreta sulla questione relativa all'equipollenza di tale titolo.

Nel merito, le tesi dell'Istituto ricorrente vanno condivise.

In proposito, si rammenta che l'originario testo del D.M. 11.5.2000, modificato dal D.M. 21.5.2001, in questa sede impugnato, recepisce un parere dei Consiglio universitario nazionale formulato nell'adunanza del 15.12.1999, il quale ha ritenuto che "nei limiti della partecipazione a pubblici concorsi ed in particolare, come nel caso in esame, per l'assegnazione di borse di studio, possa considerarsi equipollente la laurea in pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale alle lauree in ingegneria civile e in architettura".

Nell'adunanza dell'8.2.2001 il C.U.N., con riferimento al quesito posto con richiesta del 17 gennaio precedente, ha affermato in linea generale che "la problematica dell'equipollenza tra titoli di studio universitari richiede oggi un approfondito esame - cui dovranno contribuire il M.U.R.S.T. e gli organismi istituzionalmente connessi con l'esercizio delle attività professionali - a seguito delle nuove disposizioni legislative in tema di didattica negli atenei e, in particolare, dopo che il D.M. n.509/1999 ha introdotto le classi di corsi di studio, precisando nell'art. 4, comma3, che i titoli di studio conseguito al termine di corsi di studio dello stesso livello, appartenenti alla stessa classe, hanno identico valore legale.

Quanto al parere del 15. 12.1999, il Consiglio universitario ha asserito che intendeva riferirlo al solo caso specifico allora prospettato (un concorso per borsa di studio) e ha affermato che rientra nella prassi attuale del Consiglio rilasciare pareri solo in relazione a singoli casi "sui quesiti come oggetto equipollente, non in termini di equipollenze in senso generale, ma con riferimento allo specifico caso che ha generato il quesito e in particolare, quando si tratta di concorsi, esaminando le caratteristiche del bando".

Ha concluso nel modo seguente: "Il C.U.N., nel confermare la sua prassi sopra citata, ribadisce quanto al caso specifico che trattandosi di concorso per l'assegnazione di borse di studio (e quindi per un'attività formativa e non per l'esercizio di una professione) non ravvisa motivo per precludere la partecipazione ai laureati in pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale".

ll tenore alquanto ambiguo e sibillino degli enunciati non consente di evincere con chiarezza se il Consiglio universitario, affermando la prassi della decisone "caso per caso", si sia limitato a prendere in considerazione i soli concorsi per borse di studio, oppure in via, indiretta abbia affermato in generale l'esclusione dell'equipollenza per i restanti concorsi pubblici tra lauree in ingegneria e in architettura e laurea in pianificazione territoriale, in tal modo contravvenendo alla prassi conclamata nella stessa adunanza.

Nella prima ipotesi, non é congrua la motivazione del provvedimento ministeriale che esclude la suddetta equipollenzaper i concorsi che non abbiano ad oggetto il rilascio di borse di studio alla stregua di un parere, che invece, non ha considerato l'argomento.

Nella seconda ipotesi, il provvedimento é comunque viziato da mancanza di adeguata e approfondita motivazione nell'unico riferimento al parere del C.U.N., il quale, così interpretato, limiterebbe l'equipollenza ai soli concorsi per borse di studio e, nell'ambito, soltanto a quelli che comportano attività formativa senza accesso alle professioni.

E' noto, infatti, che alcune attività esercitabili dai pianificatori territoriali sono comuni alle attività degli ingegneri civili e degli architetti (cfr. artt. 15 e 17 del D.P.R. 5.6.2001 n. 328, che istituisce l'albo degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori, individuando il settore della pianificazione territoriale come settore comune di attività per tutte le suddette professionalità), così come sono comuni alle tre lauree alcune discipline di studi Universitari (cfr. D.M. 28.11.200, sulla determinazione delle classi delle lauree universitarie specialistiche).

Va considerato, inoltre, che un precedente parere del C.U.N., nell'adunanza del 16.12.1994, aveva riconosciuto l'equipollenza tra le lauree in pianificazione territoriale, in ingegneria civile, in ingegneria edile e in architettura ai fini dell'accesso ai concorsi pubblici per l'esercizio di alcune attività del ruolo di urbanista, in ragione del contenuto formativo dell'ordinamento didattico.

Dunque non sembra giustificata una generale esclusione di equipollenza per tutti i concorsi pubblici di accesso ad attività professionali.

Sussistono, pertanto e in ciascuna delle due prospettate e possibili ipotesi, i vizi di legittimità denunciati dell’Unversità ricorrente.

In conseguenza il ricorso deve essere accolto.

Sussistono motivi di compensazione in ordine alle spese processuali.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio - Sezione III-Bis, estromessa dal giudizio la Facoltà istante, accoglie il ricorso in epigrafe e, per l'effetto, annulla il provvedimento ministeriale impugnato.

Compensa interamente tra le parti le spese e gli onorari di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglia del 24.6.2002.

PUBBLICATA MEDIANTE DEPOSITO IN SEGRETERIA il 12 dicembre 2002

Idee per un progetto

1. Avvertenze.

Le analisi condotte su punti strategici del progetto, hanno messo in chiaro che per ognuno di questi (riequilibrio territoriale, internazionalizzazione, sostegno allo sviluppo) è cruciale un sistema istituzionale attrezzato per la elaborazione delle politiche e la loro messa in opera.

E’ il modo giusto di affrontare il tema delle istituzioni del governo locale, e per quanto qui interessa quello di Bologna e del suo Comune, perché proprio questi sono i compiti che quest’ultimo è chiamato ad assolvere e su cui va misurata la capacità di governo.

Si tratta tuttavia di un approccio che pur necessario non è sufficiente: certo è necessario, perché consente di evitare la maggior parte degli approcci (che fare con il titolo V Cost?, città metropolitana sì o no? il ruolo dei quartieri, della partecipazione, ecc.), tanto diffusi quanto poco producenti, perché partono dalle soluzioni e non dai problemi e dunque da dimensioni astratte e non da obbiettivi concreti.

Ma non è sufficiente perché oltre a questi aspetti, che restano pregiudiziali e determinanti, vi è anche un diverso profilo, quello cioè dei processi di trasformazione dei soggetti del governo locale in sé considerati, da valutare per il loro autonomo rilievo e per l’evidente incidenza sulla capacità o meno di sostenere i progetti strategici di cui si è detto.

In breve: a quali condizioni Bologna, nelle sua amministrazione comunale e nelle sue istituzioni, può essere effettivo protagonista delle innovazioni prima ricordate ?

2. I problemi.

Per rispondere è necessario prendere coscienza di un dato di fondo: la netta, profonda discontinuità che si è verificata negli ultimi decenni (e, in particolare, a partire dal 1990) in tema di governo locale, al punto che oggi non è neppure del tutto chiaro se e quanto “governo” locale sia davvero esercitato dal Comune, con quali forme questo avvenga, quali le funzioni astrattamente da svolgere e quali quelle in concreto esercitate, quale relazioni sia dato rinvenire tra il Comune come soggetto politico e Comune come macchina amministrativa, come azienda di servizi, come attore di processi, di decisioni, di gestione.

Addossare al Comune progetti strategici o illustrare la panoplia delle innovazioni istituzionali possibili senza rispondere a queste domande, o senza neppure porsele, è ovviamente sconsigliabile sul piano culturale ma del tutto pregiudizievole su quello dei progetti, perché mina alla radice qualunque proposta politica. Ed è questo che ora ci interessa.

Dunque: sappiamo che cosa vorremmo che le nostre istituzioni facessero (progetto strategico) ma ignoriamo in che stato queste si trovino e quanto e come si siano trasformate, cioè quanto e come possano concorrervi. E’ un grave deficit di analisi che in parte è riferibile a noi stessi, per esserci troppo concentrati sul colore delle maggioranze al centro e in sede locale quando questi processi di trasformazione erano già da tempo in atto, in parte è dovuto a fattori oggettivi, e in particolare alla profondità e rapidità dei mutamenti. Malgrado tutto ciò, e pur nei limiti della definizione di un primo quadro della situazione, è necessario provarci.

La discontinuità rispetto al passato è frutto principalmente di tre dinamiche tra loro fortemente contraddittorie: la crescita esponenziale dell’interdipendenza, che pone il problema del ruolo odierno dell’ente locale; la centrifugazione delle funzioni dalla sede istituzionale, che solleva il tema di come governarne lo svolgimento, e infine la concentrazione dei poteri pubblici e delle relative responsabilità in sedi limitate, che pone la questione delle forme della democrazia in sede locale.

Vediamole brevemente una per una.

2.1. La crescita dell’interdipendenza è dovuta alle prodigiosa espansione dell’integrazione, tanto in verticale che in orizzontale. L’integrazione verticale è enormemente cresciuta sia lungo la filiére dei poteri pubblici, grazie alle istituzioni comunitarie e all’avvio, negli ultimi decenni dello scorso secolo, delle regioni a statuto ordinario, sia per il trasferimento di un numero crescente di regolazioni al mercato e alla sua globalizzazione. Si tratta, ovviamente, di fenomeni diversi e solo in parte tra loro correlati, ma è indubbio che la loro azione congiunta ha generato due effetti:

- la stretta integrazione funzionale tra livelli di governo locale, nazionale e comunitario, nel senso cioè che non c’è processo di qualche rilevanza che non veda la partecipazione congiunta, a vario titolo (attivo, consultivo, di finanziamento e di controllo) e in tempi diversi (iniziativa, istruttoria, decisione, attuazione), di tutte le sedi istituzionali ricordate;

- l’enorme aumento delle forme di regolazione, cui sono state sottoposte non solo materie un tempo prive di apposita regolazione (e per questo, sul piano tecnico, neppure da considerare “materie” in senso proprio: v. tutela della salute e dell’ambiente) ma anche ambiti più riposti, riguardanti ad esempio le forme contrattuali delle pubbliche amministrazioni (dall’appalto di lavori pubblici alle forniture e ai servizi).

b) Altrettanto esteso, è poi l’incremento della integrazione orizzontale, dovuto principalmente a tre fattori:

- il primo, e probabilmente più importante, è dovuto proprio alla globalizzazione che a livello macro, prima ancora di tradursi in “privatizzazione” (cioè in una nuova relazione con il privato), si è espressa ed è collaborazione intergovernativa tra paesi, cioè un nuovo modo di agire dei poteri pubblici in ragione dell’evidente insufficienza dello stato nazionale;

- il secondo è rappresentato dagli effetti della privatizzazione che in realtà, vista dal lato delle istituzioni pubbliche, si traduce in processi estesi di “consensualizzazione”, vale a dire in una trama di relazioni basate su moduli negoziali e pattizi tra pubblica amministrazione e imprese

- il terzo infine, particolarmente evidente nella trasformazione delle aree verificatasi a livello locale, è costituito dal fatto che la riorganizzazione dei sistemi sociali e dei processi produttivi ( [1]) tende ad accentuare all’interno e all’esterno dei propri confini, dinamiche di specializzazione funzionale (produttiva, residenziale, di servizi, ecc.) delle proprie aree, con inevitabili e forti squilibri (qui si colloca la questione dei centri storici, della distribuzione dei servizi, delle aree ad alta densità abitativa, dell’inevitabile mobilità, ecc.) coinvolgendo territori ed enti territoriali anche non immediatamente confinanti. Fatti, questi, che inevitabilmente pongono l’esigenza di un inedito e robusto coordinamento inter-istituzionale.

In breve: oggi il comune di medie-grandi dimensioni è avvolto in una fitta rete di regolazioni, procedure, vincoli e compatibilità che condizionano profondamente l’esercizio dei propri poteri. Questi ultimi restano, naturalmente, ed anzi si sono largamente accresciuti nel tempo, specie a partire dagli anni ’90: ma la selezione e soddisfazione della propria “domanda” passa, almeno per le decisioni rilevanti, sempre meno per i moduli dell’autodeterminazione e sempre più per quelli della cooperazione con altri soggetti pubblici e privati.

Il che ci offre una prima importante indicazione: il grado e le prospettive dell’autonomia locale, oggi, vanno esaminati non tanto in termini di saldo, più o meno attivo, di poteri e competenze riconosciute ai Comuni o alle Province (e, correlativamente, sottratte ai livelli superiori, statali o regionali), ma soprattutto con riguardo alle forme di cooperazione e ai principi che ne ispirano l’esercizio. Anzi, specie per le scelte strategiche, è proprio questo il terreno su cui va misurata la possibilità degli enti locali di decidere del proprio destino: cioè, in breve, la loro autonomia.

2.2. La centrifugazione delle funzioni. In parallelo a quanto appena visto, il comune ha assistito ad una formidabile opera di riallocazione di poteri decisionali e di attività di gestione verificatesi in tempi, modi e settori diversi ma con un tratto comune: la fuoriuscita di tali poteri e attività dalle sedi politico-amministrative alle quali erano tradizionalmente affidate (e sulle quali, si noti, resta quasi intatta la responsabilità finale) a vantaggio di altre sedi o soggetti, alcuni dei quali addirittura esterni al circuito dei poteri pubblici.

Il primo esempio è rappresentato dalla generalizzata e netta separazione dei livelli politici dagli apparati e dal deferimento a questi ultimi (e più precisamente, alla dirigenza amministrativa) della quasi totalità dei poteri di amministrazione attiva.

Il secondo è costituito dal diffondersi, fino a divenire l’asse portante delle politiche di settore più innovative, di modelli di contrattualizzazione, e cioè di amministrazione negoziale che con forme pattizie giunge alla definizione delle politiche pubbliche per le imprese (programmazione negoziata), in materia di sviluppo economico, delle scelte e della attuazione degli interventi in materia di governo del territorio (convenzioni urbanistiche) e di infrastrutture, ecc..

Il terzo esempio, più operativo ma anche più capillarmente diffuso, riguarda tutto il versante delle esternalizzazioni (affidamento a terzi di compiti della amministrazione: propriamente, contracting out) e dell’acquisto all’esterno di prestazioni strumentali per il funzionamento degli apparati e delle istituzioni locali (propriamente, outsourcing).

Non basta. Forme ancora più marcate di autonomizzazione di segmenti del potere locale rispetto alle sedi istituzionali degli enti territoriali sono riscontrabili nelle dinamiche che hanno interessato interi macro apparati operanti in settori decisivi della società locale, restando ininfluente il mantenimento della propria natura formalmente pubblicistica (ASL) o le trasformazioni connesse a processi di privatizzazione (v. ente Fiera).

Il caso più eclatante, in ogni caso, è costituito dalle ex municipalizzate per la gestione di tutti i più rilevanti servizi pubblici locali, passate in rapida sequenza dalla condizione di organi (sia pure sui generis) del comune a enti strumentali, poi a società a capitale pubblico, poi a società miste con la presenza anche di privati generatrici a propria volta di una miriade di partecipate.

La sequenza giuridica rappresenta degnamente il processo di affrancamento sostanziale cui stiamo assistendo ed è anzi singolare come in alcuni casi (Hera [2][3], ad esempio) sembri sottovalutato il rischio della marginalizzazione degli enti locali sia per il peso (non solo economico) del nuovo soggetto e la complessità delle iniziative poste in essere, sia per la moltitudine (e dunque la tendenziale debolezza) degli enti locali rappresentati nelle assemblee societarie, sia infine per gli ulteriori condizionamenti che questi ultimi conosceranno dalla quotazione in borsa della società, perché le aspettative e le esigenze del mercato finiranno per rappresentare altrettanti limiti cui riferire l’accettabilità o meno delle domande espresse dalle collettività locali e dalle rispettive istituzioni territoriali.

2.3. concentrazione dei poteri e delle responsabilità. La terza direttrice di trasformazione del potere locale è costituita dalla straordinaria concentrazione dei poteri formali e delle responsabilità istituzionali in sedi ristrette e in particolare sui sindaci. Anche per questo aspetto il comune di oggi assomiglia ben poco a quello consegnatoci dalla tradizione e comunque esistente fino alla fine degli anni ’80. Le dinamiche che hanno portato a questa condensazione sono principalmente tre:

- quella lungo l’asse centro-periferia. I trasferimenti delle leggi Bassanini infatti, e più ancora l’attuale titolo V, implicano lo spostamento sugli enti territoriali e in particolare sui comuni di una massa ingente di compiti dei quali non è ancora acquisita la consapevolezza perché segnano sostanzialmente la fine, se non per aspetti specifici, dello Stato come amministrazione;

- quella del privilegio dell’autonomia territoriale su quelle funzionali. Il secondo segno del processo di concentrazione di poteri sugli enti locali è costituito dall’obbiettivo rischio di indebolimento di altri segmenti del pubblico operante a livello locale in parte già avvenuto (v. prefetto e amministrazione periferica dello Stato), in parte in atto (Fondazioni ex-bancarie), in parte ancora probabile vuoi per la mancata o debole tutela delle autonomie funzionali (istituti scolastici, camere di commercio) imputabile al nuovo titolo V, vuoi per dinamiche interne (il prevedibile indebolimento delle Università, specie medio-piccole, in ragione della crescente scarsità di mezzi è da mettere in conto);

- quella della forma di governo presidenziale o del sindaco. La terza direzione lungo la quale si è sviluppato il processo di concentrazione è il trasferimento formale o sostanziale (in ragione della elezione diretta introdotta nel 1993) dei poteri più rilevanti dai consigli al sindaco o al presidente.

Dunque, più poteri dal centro, più poteri dal restante tessuto pubblico e più concentrazione degli stessi sui presidenti e sui sindaci: dinamiche che trovano significativi riscontri anche nelle macro aziende pubbliche (ruolo del direttore generale nelle ASL o dell’amministratore delegato nelle spa a capitale pubblico) e che certo pongono seri problemi in sé e per il fatto che a questo forte processo di valorizzazione dell’esecutivo e delle sedi monocratiche non corrisponde affatto uno sforzo di bilanciamento e di equilibrio del restante tessuto istituzionale. Anzi molti fattori, tra i quali in particolare l’evidente perdita di peso dei partiti politici, la fragilità dei media e dell’opinione pubblica locale, la sostanziale mancanza di tutela giurisdizionale dovuta alla lentezza della giustizia, rendono ancora più grave e serio il problema.

3. Le risposte.

I problemi, come si è appena visto, sono di notevole complessità ma questo non significa che non si possa dare loro una soluzione, o almeno avanzare ipotesi. E in ogni caso, è proprio di questo che si deve discutere e approfondire.

3.1. Alla crescita di interdipendenza, intanto, è difficile che si possa rispondere limitandosi semplicemente ad ampliare la scala territoriale dell’ente di riferimento, cioè con un comune di Bologna più grande (o trasferendo le funzioni ad un livello istituzionale superiore, come la Provincia o la Regione) perché, al di là di altri aspetti, l’interdipendenza all’esterno sarebbe comunque destinata a rimanere mentre crescerebbe, sia pure in termini di rapporto tra nuovo ente e antiche municipalità, una complessità interna comunque difficile da gestire sia in termini politici che istituzionali.

Stando così le cose, è da ritenere che la costituzione di una autorità metropolitana (quali che ne siano le forme e la natura) sia più un punto di arrivo che di partenza, mentre il problema attuale è quello di porre mano alle regole della cooperazione tra enti, o più semplicemente a quelle che possiamo definire le regole della rete.

Queste ultime vanno individuate in un insieme di government, cioè di punti fermi definiti in via autoritativa dai livelli istituzionali di governo, e di governance, cioè di regole della cooperazione tra soggetti pubblici e tra pubblico e privato. E’ evidente che si deve agire, congiuntamente, sull’uno e sull’altro fronte.

Quanto al primo, è indubitabile che la natura processuale e cooperativa della definizione e della messa in opera delle politiche pubbliche di settore presupponga alcuni elementi di fondo senza i quali si aprirebbe uno scenario confuso, segnato dall’empiria e dall’improvvisazione dei diversi attori. In altri termini, non è possibile affidarsi alla cooperazione senza la definizione di un quadro di riferimento chiaro e stabile, cui possano rifarsi le opzioni pubbliche e private.

Di conseguenza, alcune scelte di fondo come quelle individuate nel piano strategico (riequilibrio dello sviluppo insediativo, residenziale e infrastrutturale, sviluppo sostenibile e qualità dell’ambiente, internazionalizzazione) non possono che costituire elementi fondanti definiti a priori (e congiuntamente) a livello bolognese e regionale, rappresentando in tal modo il parametro di riferimento necessario per le diverse politiche di settore.

Del quadro di riferimento, inoltre, sono elementi costitutivi la natura e la provenienza delle risorse finanziaria, che coinvolgono la responsabilità politico-amministrativa e quella tributaria degli enti coinvolti, nonché la precisa indicazione dei beni o interessi di particolare rilievo sottratti, per questa ragione, all’ambito della contrattazione o perché dichiarati a prori indisponibili dalla carta costituzionale (ambiente, salute, beni culturali e paesaggistici) o perché appunto, come quelli richiamati, qualificati come strategici in via preliminare e come opzione politico-amministrativa.

Si noti, tra l’altro, che questi punti fermi sono indispensabili anche per la messa in opera di corretti rapporti con il “privato”, sia in termini di riferimento per i relativi investimenti, sia come regole del gioco senza le quali la stessa contrattazione non sarebbe né concepibile né praticabile.

Quanto alla governance, e alle forme di cooperazione negoziata che ne costituiscono uno degli elementi essenziali, a fronte dei rischi più evidenti che ne conseguono in termini di deriva di interessi parziali e di settore e di conseguente contrasto tra deficit di generalità, nel momento della stipulazione dell’accordo, e esternalizzazione delle conseguenze anche a chi non vi ha preso parte, nella fase della attuazione, la sfida consiste nel chiedersi come recuperare appunto, in questi casi, la dimensione “generale” ( [4]).

In proposito, a parte l’ancoraggio agli elementi di quadro appena richiamati (di per sé necessario ma non risolutivo), è indispensabile concentrare i nostri sforzi su due fronti:

- il primo, per così dire interno, è costituito dallo sforzo di mettere a punto e di offrire strumenti atti a migliorare (nel senso appena detto) la qualità della negoziazione soprattutto in termini di equità, cioè di riequilibrio tra interessi forti e interessi, se non deboli, quantomeno disarmati. Vale a dire non soltanto comitati o gruppi a bassa organizzazione, ma anche categorie sociali o professionali marginali, comuni di ridotta dimensioni, singoli (cittadini, imprese, associazioni) che non dispongono della robusta serie di informazioni, ricerche, consulenti e visibilità sui media degli attori più forti.

Il modo per farlo è da un lato quello favorire la disponibilità di risorse e di strumenti di sostegno, tra le quali andrebbe annoverato quel personale qualificato che Luigi Bobbio definisce “tecnici di processo”; e d’altro lato, valorizzare (in sede normativa e contrattuale) l’esplicitazione dei principi generali che debbono presiedere a queste forme di amministrazione negoziale, in particolare quelli della buona fede e della tutela dell’affidamento, da considerare i flessibili ma chiari punti di riferimento sia per la questione del se e a quali condizioni dalle parti che partecipano all’accordo possano derivare implicazioni sui terzi che non vi partecipano, sia più in generale per la protezione degli attori pubblici e privati che partecipano al procedimento,

- il secondo, più esterno, concerne tematiche quali la pubblicità (spesso carente) di tali processi, la circolazione e l’accessibilità dei dati (idem), e anche una più efficace tutela rispetto alle controversie che possano sorgere in fase di stipulazione e attuazione dell’accordo (ADR, su cui infra).

Nessuno di questi accorgimenti, ovviamente, è di per sé risolutivo: ma il loro insieme può concorrere a migliorare le condizioni della negoziazione e a riequilibrarne le forze in gioco. Non è difficile vedere come, per questa via, potrebbero trovare soluzione ad esempio delicati problemi istituzionali (come il rapporto tra piccoli comuni della cintura e comune capoluogo) che, in mancanza d’altro, o restano insoddisfatti o cercano soluzioni strutturali che rischiano di creare più problemi di quanti ne possano risolvere.

3.2. Quanto alla fuga delle funzioni dalle sedi politico-amministrative, i rimedi vanno articolati a seconda dei diversi aspetti posti in luce.

Per quanto riguarda la separazione tra livello politico e apparati burocratici, con il serio rischio di rigidezze e autoreferenzialità di burocrazie facilmente più sensibili alle esigenze di garanzia (propria) che a quelle di realizzazione degli obbiettivi assegnati, il punto non è quello di tornare indietro riagganciandone l’operato ai governi e alle maggioranze del momento (v. additivi di rapporto fiduciario) ma di andare avanti, mettendo a regime e in pratica gli strumenti e i controlli della c.d. “amministrazione di risultato”, dalle direttive annuali all’esame dei programmi, dai controlli di gestione a quelli di valutazione dei dirigenti.

Della governance e della contrattualizzazione si è appena detto. Resta invece da soffermarsi sulla denunciata e crescente autonomizzazione dei macro-apparati (Asl, Fiera, Areoporto, ecc.) il cui governo richiede tavoli appropriati al livello degli interessi (pubblici e privati) in gioco e alla loro dimensione, accordi quadro nei quali comprendere sia le scelte strategiche che le implicazioni di settore (finanziarie, territoriali, ambientali, dei servizi di mobilità, ecc.) e che potranno credibilmente essere gestite dal governo locale solo superando l’idea del “governo dall’interno” (tramite i propri rappresentanti nelle assemblee o nei consigli di amministrazione), assai carente come l’esperienza insegna, e attrezzando invece i propri apparati per le funzioni di regolazione e di controllo per le quali sono visibilmente inadeguati.

Altrettanto, ma anche di più, può dirsi per il vasto arcipelago delle imprese pubbliche locali, che approfittando di dieci anni di sterile dibattito sulla riforma dei servizi pubblici locali si sono sottratte ai vecchi controlli amministrativi e politici, hanno evitato i nuovi (come credibili verifiche dei partners privati e del mercato), hanno assorbito anche quote di servizi comunali tradizionali, ma soprattutto si sono estese su aree di mercato in diretta (e non sempre paritaria) concorrenza con l’impresa privata ( [5]) lasciandosi alle spalle, con concentrazioni di dimensione ormai anche interregionale, l’originaria scala territoriale.

Sul punto è bene essere chiari: non sono in discussione, naturalmente, le ragioni di questi processi (necessità di rafforzare la dimensione delle aziende pubbliche locali per consentire loro di affrontare in condizioni adeguate la concorrenza di altre imprese nazionali ed europee o la possibilità di economie di scala) ma il loro effetto attuale di affrancamento rispetto ad un governo locale non ancora attrezzato per guidarne e controllarne l’azione, e ad un mercato e relativa concorrenza, palesemente ancora di là da venire.

L’autonomizzazione in atto di questo settore, cruciale per le attività svolte e per le risorse che (a differenza delle amministrazioni locali) è in grado di mobilitare, costituisce dunque un problema di prima grandezza la cui soluzione, in attesa del chiarimento della materia ormai da riporre in sede comunitaria, richiede l’uso dell’intera gamma di strumenti sopra ricordati e anche la messa a punto di ulteriori mezzi intervento, quali il diretto controllo comunale anche sulle partecipate, misure di sostegno per le forme di partecipazione/controllo da parte degli utenti, nuove e più penetranti regole sulle incompatibilità e i conflitti di interessi degli amministratori, uffici comuni tra gli enti locali interessati (specie quelli minori) con compiti di regolazione e di controllo, corsie privilegiate assegnate dai regolamenti consiliari per gli atti di controllo politico-amministrativo esercitati dalle assemblee comunali su tali settori.

Si è già sottolineato, come si ricorderà, quanto tutto ciò sia destinato ad aggravarsi con la quotazione in borsa delle società a partecipazione pubblica e non è necessario insistervi.

3.3. Resta da affrontare il tema concentrazione dei poteri e delle responsabilità, per chiedersi in che modo ovviare o almeno attutire le dinamiche che rischiano di alterare l’equilibrio democratico del sistema locale, sia nel senso di un eccesso di poteri condensato su sedi monocratiche come quella del sindaco, sia (e solo apparentemente) al contrario, nel senso cioè di un enorme sovraccarico di responsabilità politiche e istituzionali a cui, anche per i fenomeni appena richiamati, spesso non corrisponde una effettiva disponibilità di poteri.

Le ragioni di seria preoccupazione su questo fronte, già richiamate, sono le stesse che invitano a non coltivare illusioni sulla possibilità di identificare almeno a breve, se non contropoteri, almeno credibili garanzie in grado di ristabilire l’equilibrio che appare compromesso. Eppure qualcosa è necessario proporre e provare, per evitare che il sistema politico locale del XXI secolo si avvii ad essere per questi aspetti un sistema di feudi chiusi all’esterno e dominati da oligarchie poggianti sul combinato sindaco/fondazioni ex-bancarie/sistema delle società miste nel campo dei settori pubblici e dintorni, in grado di condizionare significativamente (tramite le esternalizzazioni e l’outsourcing) l’area della piccola e media impresa, dei soggetti del terzo settore, delle sedi universitarie di dimensioni contenute, di una parte non trascurabile delle attività autonome o professionali.

Un sistema, già lo si è detto, ormai non più condizionabile dall’esterno in via amministrativa (prefetto, controlli, ecc.) o politica (partiti nazionali o regionali); che tale è, ma solo parzialmente, sul piano delle risorse finanziarie; che per il resto appare affidato all’esile tenuta delle clausole generali stabilite dall’art.117.2 Cost. (v. livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali), mentre al proprio interno risulta privo di seri contrappesi (partiti locali, media, tutela giurisdizionale tempestiva) salvo forse, unico attore dotato di risorse autonome e incisive (stabilità, visibilità, ecc.), l’autorità ecclesiastica e la Curia.

Anche in questo caso, si tratta di battere contemporaneamente più piste. Accanto ad una politica di sostegno nei confronti di chi (comitati, associazioni) può mettere in atto forme di dialettica aperta, e certo c’è ancora molto da fare in termini di accesso ai dati, di pubblicità degli atti, di spazi disponibili a tali finalità, c’è da approfondire il tema delle incompatibilità e dei conflitti di interessi (meno vistosi ma qualitativamente altrettanto pericolosi di quelli che si verificano al centro), c’è da promuovere (anche accettando inevitabili rischi) una esplicita responsabilizzazione (consultazioni, pareri, ecc.) delle sedi tecniche o comunque terze (università e istituti di ricerca, ordini professionali, corpi e burocrazie tecniche) rispetto ai principali interessi in gioco. Internet e tutto ciò che vi si lega rappresenta uno strumento già disponibile per raccogliere e valorizzare queste realtà: si tratta solo di saperlo utilizzare in modo adeguato. Altrettanto è da dirsi rispetto alle tecniche, ormai sufficientemente attendibili, di verifica del consenso e delle opinioni della popolazione, mentre appare ineludibile una approfondita e aggiornata riflessione sul terreno media tradizionali e sulla loro utilizzazione.

Un discorso a parte, infine, va dedicato alla questione della giustizia nei rapporti tra cittadini e amministrazione, poiché è essenziale individuare strumenti in grado di risolvere celermente i conflitti che nascono con l’ente locale o in ordine a rapporti dei quali quest’ultimo è parte. Il ricorso a strumenti alternativi a quelli del giudice ordinario o amministrativo (ADR) non è nuovo: se ne discute da tempo a livello nazionale e esistono anche tentativi, con una resa peraltro incerta, di favorire in sedi decentrate (camere di conciliazione presso le Camere di Commercio) la loro utilizzazione.

Ma c’è spazio per l’autonoma promozione di una iniziativa della amministrazione comunale in materia. Il punto chiave della proposta, limitandosi agli aspetti generali mentre in altra sede si potrà dare conto pienamente dell’approfondimento dedicato alla questione ( [6]), è che riguarda la tutela fuori dal processo di posizioni soggettive giuridicamente rilevanti; che in questo caso il problema non riguarda i rapporti tra i privati ma, appunto, quelli tra privato e amministrazione locale; che, infine, la soluzione alternativa (conciliazione) nasce come impegno a praticare questa strada assunto direttamente dalla pubblica amministrazione.

I soggetti per i quali in particolare la misura è pensata sono coloro (utenti, piccole imprese) che non hanno rapporti abituali con l’amministrazione e che comunque sono sprovvisti degli strumenti a disposizione dei soggetti più forti i quali non hanno difficoltà a procurarsi legali esperti, dispongono di risorse sufficienti per attendere i tempi lunghi della giustizia ordinaria (e, talora, vi fanno affidamento) o, praticando relazioni continuative con l’amministrazione, sono in grado di proporre o accettare soluzioni compensatorie differite nel tempo.

Gli oggetti per i quali prevedere la soluzione conciliativa riguardano ipotesi come la determinazione del quantum nel risarcimento del danno, le controversie relative a servizi fruibili per selezione (v.asili nido) o riguardanti la utilizzazione di beni pubblici (edilizia popolare, parchi, ecc.), conflitti relativi alla distribuzione e fruizione dei servizi pubblici (gas, acqua, trasporto, ecc.) nei rapporti con utenti singoli, il che significa che l’impegno assunto dalla amministrazione comunale dovrà riguardare anche tutto il sistema delle imprese pubbliche locali.

La strada della conciliazione, per questi oggetti sempre da praticare salvo ragioni particolari che ne sconsiglino il ricorso, comporterà l’obbligo per l’amministrazione di adeguarsi alla determinazione adottata dall’organismo terzo cui è deferito il giudizio e che è tenuto a pronunciarsi in tempi brevi: terzietà da considerarsi ovviamente essenziale, e che potrebbe essere assicurata senza troppe difficoltà con la collaborazione dell’Ordine degli avvocati e sotto la vigilanza degli organi giudiziari locali.

4. per concludere (e proseguire).

I problemi e le soluzioni che si sono proposte richiedono, come è chiaro, una verifica cognitiva e fattuale assai più articolata e approfondita di quanto è stato possibile compiere in questa occasione e rappresentano, già di per sé, un programma di interventi impegnativo e di ampio respiro anche in termini temporali, che non sarà possibile realizzare senza associare alla chiarezza del progetto capacità di sperimentazione e di autocorrezione.

Appare tuttavia utile indicare fin d’ora i punti di cerniera, vale a dire come le linee del progetto strategico delineate nelle parti precedenti di questo documento si innestano nel tessuto istituzionale che si è qui delineato.

E’ evidente, in primo luogo, che molti degli elementi che si sono riconosciuti propri al piano del government, sia in termini di regole della rete che di opzioni del piano strategico, si collocano in un’area tipicamente assegnata (specie dopo il nuovo titolo V Cost.) alla regione e a scelte necessariamente condivise tra quest’ultima e le istituzioni dell’area bolognese, cominciando ovviamente dal comune capoluogo.

La figura dell’accordo di programma, così come disciplinato dall’art.34 del TU delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, appare strumento adeguato (ancorché perfettibile) per definire con la dovuta ampiezza gli oggetti (definizione di programmi e relativa realizzazione), definire il processo di formazione delle volontà degli enti interessati, assicurare il coordinamento delle azioni, definire i tempi e le modalità attuative, stabilire il necessario finanziamento, disporre procedimenti arbitrali per la soluzione di controversie e interventi sostitutivi in caso di inadempimento.

In questa prospettiva, per un verso è chiaro che per ognuna delle aree indicate dal piano strategico si tratterà di analizzare le dinamiche e i problemi di settore, elaborare proposte di specifiche politiche pubbliche, individuare la scala territoriale (probabilmente diversa per ciascuna di queste) più adatta per porvi mano e, d’altro lato, proprio queste esigenze implicano un assetto a geometria variabile che difficilmente può essere soddisfatto con il ricorso, almeno nell’immediato, ad un ente metropolitano e che visibilmente suggerisce di affidarsi a procedure di cooperazione negoziata dimensionate, di volta in volta, alle caratteristiche dei singoli interventi.

La messa a punto e l’attuazione del piano strategico, in altre parole, richiede una azione di profonda riforma interna al sistema-comune secondo le linee che qui si sono indicate ma presuppone nello stesso tempo un insieme di iniziative da porre in essere su una scala più ampia e con il necessario coinvolgimento di altre istituzioni, prima delle quali la Regione.

E’ dunque fuori dal Comune che si gioca buona parte del successo degli interventi cui è affidato il compito di rilanciare Bologna e l’intera area circostante, così come è con riferimento al sistema bolognese che il governo regionale gioca molta della sua credibilità e del suo ruolo.

Se anche solo questo fosse ciò che delle presenti riflessioni risulterà condiviso da chi ha la responsabilità di queste due istituzioni, gli estensori di queste note si riterrebbero soddisfatti.

[1] Non è chiaro se l’aumento del tasso di delocalizzazione in questi processi (servizi in rete, telelavoro assistenza a distanza, ecc.) accentui (come in parte sembra) o corregga (come sarebbe lecito aspettarsi) la specializzazione funzionale delle aree territoriali

[2] Hera è una società nata dalla fusione di 11 aziende di servizi pubblici operanti in Emilia-Romagna, che prevede per quest'anno di raggiungere un fatturato di oltre 1,1 miliardi di Euro, con circa 4.500 dipendenti e un piano quinquennale di investimenti di 500 milioni di Euro.

[3]ADR è un acronimo, di derivazione angloamericana, sta per Alternative Dispute Resolution, che è ormai entrato a far parte del linguaggio comune per indicare gli strumenti alternativi al (tradizionale) giudice per risolvere i conflitti.

[4] Il problema, naturalmente, non è quello di (ri)andare alla ricerca del mitico “interesse generale” ontologicamente collocato a priori (e perciò legittimante) l’intervento pubblico ma, accettandone il carattere processuale (nell’incrocio dei vari interessi in gioco, pubblici e privati) e la identificazione per approssimazioni successive, come correggerne la possibile parzialità, impedendo cioè che l’amministrazione negoziale si riduca alla legittimazione pubblicistica della autopromozione di alcuni soltanto degli interessi in gioco o di quello semplicemente più forte.

([5] ) Dai dati Confesercizi, del 29 novembre 2002, risulta che il 38.6% delle ex aziende municipalizzate ha esteso la propria attività in settori diversi da quelli originari.

([6] ) In due riunioni svoltesi nel novembre 2002 cui hanno partecipato, muovendo da una scheda predisposta da Michele Giovannini, Paolo Biavati, Alessandra Corrado, Federico Gualandi, Roberto Manservisi, Fulvio Medini, Pietro Ruggieri e Alberto Ziroldi

Vedi anche:

Edoardo Salzano, Relazione al convegno “Governance e Government”, Ravello (2000)

Luigi Bobbio, introduzione al tema “Istituzioni” al convegno di Venezia (2002)

Edoardo Salzano, intervento per il convegno “Uso del suolo come difesa”, Roma (2002)

Gentili colleghi,

i segnali quotidiani di crisi - non solo «di fatto» ma anche «di principio» - del governo del territorio e delle città, sono oggi evidenti e indubbi, perché è esplicita e documentata l’invivibilità di molti territori e di molte città del Paese, che non hanno subito, nell'ultimo decennio, «balzi in avanti», come si era sperato quando la coscienza civile, risvegliatasi dopo gli anni delle truffe e delle tangenti ai danni della collettività, sembrava aver indicato con determinazione la necessità di un cambiamento profondo, anche per conseguenza dell'emergere dei cosiddetti «temi globali»; condizioni che imponevano al nostro Paese, alla sua classe politica, a quella imprenditoriale e a quella intellettuale, di riformare il patto con i cittadini: lo Stato doveva riprendere possesso del governo delle trasformazioni, dopo gli anni del liberismo selvaggio, ma soprattutto dopo gli anni del banditismo politico connivente con le mafie e i sistemi criminali.

L’esito di questo «processo di speranza» non è stato solo deludente, ma ulteriormente preoccupante: i fenomeni di corruzione non si sono placati, né l’attenzione per il governo delle trasformazioni territoriali è aumentata, né il supposto riformismo delle politiche urbanistiche ha prodotto condizioni reali per il progresso della vivibilità delle cittadine e dei cittadini del Paese. Ma alla delusione si è aggiunta una nuova preoccupazione, per una prassi emergente che trova la sua legittimazione nella filosofia individualistica che il neoliberismo deregolativo impone, e che oggi sembra essere «socialmente accettabile»: è una prassi che si candida a modificare, piegandolo o spezzandolo, il «principio» e spesso anche la «norma», che originano e sottendono il governo urbano e territoriale, e che nascono dalla collettività per governare l’interesse pubblico. E’ una prassi che sembra non essere più patologica ma organica o per così dire «endemica», come un «furbo parassita» che si è innestato nel corpo dello Stato e nasconde artificiosamente la sua natura per apparire simbiotico, ma producendo, nei fatti, dissesto, congestione, inquinamento, saccheggio, segregazione, che gli «anticorpi» non riconoscono più come malattie ma come manifestazioni normali, di un organismo sano.

Il mestiere dell'urbanista tuttavia implica una prassi che è per «principio» e per «norma» opposta a quella prassi più sopra ricordata, tesa alla sistematica eliminazione della cultura che fin qui ha contribuito a governare il territorio puntando esplicitamente agli interessi diffusi.

Si può senz'altro affermare infatti che la locuzione «urbanistica pubblica» sia una tautologia, allorché essa, nascendo e vivendo per sostanziare tecnicamente delle volontà politiche, non possa essere altro che pubblica, cioè non può esistere - almeno logicamente - un governo privato degli interessi pubblici: sussistendo questo principio, ogni tentativo di deviazione, dovrebbe intendersi illegittimo, sul piano formale e sostanziale, cioè si dovrebbe considerare «patologico».

Oggi però assistiamo, spesso inermi e muti, all'attività eversiva che trova nel corto circuito pubblico, cioè nella rottura della catena logica di decisione pubblica, l'obiettivo principale dell’azione di governo (non solo urbano e territoriale); eversione che produce gravi lesioni alle fondamenta democratiche del Paese. Stiamo assistendo cioè ad una fase in cui gli interessi pubblici non sono il principio ispiratore dell'azione di governo del territorio, ma in cui si teorizza e si pratica la massimizzazione degli interessi individuali tramite l'azione di governo pubblico, a cui la norma prima e la storia poi, si debbono piegare e, nel caso, spezzare, con esisti prevedibilmente disastrosi per le città e il territorio, ma con conseguenze ancor più preoccupanti per la tenuta democratica del Paese.

L'attività urbanistica non si risolve con gli adempimenti tecnici e burocratici previsti dalla legge, ma contiene uno specifico «mandato sociale»: è cioè inscindibilmente legata alla sua origine di disciplina politica e chi si trova a lavorare nella pubblica amministrazione, da urbanista, avendo il principale mandato di controllare (la coerenza e la liceità degli atti e dei fatti) e quello di progettare (il futuro di una città e di un territorio) è quindi depositario del «principio» e della «prassi» di una disciplina che abbiamo definito «d'interesse collettivo». Ma come svolgere l'attività di urbanista della pubblica amministrazione, nel momento in cui si comincia ad insinuare l'inconsistenza del principio nel confronto con la prassi e l'elasticità della norma di fronte alla necessità privata? Come «fare urbanistica» senza le garanzie codificate di interesse diffuso, che sono null'altro che la natura stessa di questa disciplina, e di questa attività?

A partire da queste domande ci siamo convinti che non sia più rimandabile una riflessione tra chi lavora nella pubblica amministrazione come urbanista, nei diversi settori che questa attività multidisciplinare implica. Siamo cioè convinti che il continuo attacco, che ciascuno di noi vive quotidianamente e con sofferenza, all’interesse pubblico dei processi di trasformazione territoriale, stia seriamente demolendo la nostra professione, compromettendone il significato tecnico e sociale.

Siamo sempre più spesso costretti ad attività di difesa e ripiegamento, chiusi nelle scomode e inefficaci maglie della burocrazia per impedire che abbiano corso nuovi danni alla collettività per i vantaggi privati di pochi individui.

Siamo continuamente posti nelle condizioni di piegare le norme, le prassi, le leggi, per liberare il passaggio a potenti interessi economici e a interessi politici paradossalmente poco pubblici.

Vediamo spesso luoghi del territorio e della città che si trasformano all’insegna della speculazione, con la nostra involontaria complicità.

Siamo insomma di fronte ad una prospettiva di oggettiva «vita impossibile dell’urbanistica» e degli urbanisti.

Riteniamo perciò urgente riflettere su questo stato di cose per tentare un’attività di rimedio, che non può che essere associativa: siamo cioè convinti che l’efficacia dell’attività di riforma delle condizioni di «vita» degli urbanisti della pubblica amministrazione, non possa prescindere da una loro unione, per condividere idee ed esperienza, e per sommare le forze che intendono spingere verso il cambiamento.

Per iniziare questo percorso, abbiamo convocato una riunione che si terrà a Bologna, il 16 aprile), alle ore 14.30, a via Zamboni 13. Cordialmente,

Elena Camerlingo, Piero Cavalcoli, Stefano Fatarella

Bologna, 9 maggio 2003

Allegati: Il Giuramento d’Ippocrate

Vezio De Lucia

Subject: Re: urbanisti pubblici

3 febbraio 2003

E' un testo lucido e convincente. Per quanto mi riguarda, non penso di essere presuntuoso se lo trovo "autobiografico", nel senso che riconosco in esso i principi, i valori e i giudizi che hanno informato la mia vita, anche quando sono stato costretto a interrompere il lavoro formale di urbanista pubblico. D'altra parte, proprio come sta scritto nel testo, l'attività urbanistica dovrebbe sempre e comunque essere pubblica. Quest'aspetto spero che possa essere approfondito. Devo confessare che ho letto il documento non senza un po' di invidia, che però, come ci ha insegnato quel grande urbanista pubblico che era Antonio Cederna, diventa facilmente un sentimento positivo: basta trasformarla in ammirazione. Vezio De Lucia

Mariangiola.Gallingani

Rif: urbanisti pubblici

3 febbraio 2003

caro eddy,

il testo sugli urbanisti pubblici è senz'altro condivisibile, tuttavia merita almeno una riflessione di fondo:

la drammatica temperie che si trova a vivere oggi (anche se non da oggi) l'urbanistica pubblica - così come è definita nel testo, nelle sue strette relazioni con ciò che va sotto la definizione di " norma", "garanzia", "legittimità" (ma anche, "legalità"), "principio", "convivenza democratica" - bè, questa situazione di "morte lenta" non riguarda soltanto l'urbanistica, e, soprattutto, non riguarda l'urbanistica in primis.

come è sotto gli occhi di tutti, almeno nel nostro paese, l'oggetto di questo reiterato tentativo di omicidio sono proprio i fondamenti logici che consentono all'urbanistica di essere (o di poter essere ritenuta) ciò che nel testo si dice di lei: esattamente, le norme, il diritto, la legittimità, la stessa nozione di democrazia (vedi la recente vicenda dei giudici e le sue code più o meno discutibili in tema di legittimazione e rappresentanza: conta di più, per seguire le parole di Berlusconi, essere stato eletto dal "popolo", cui costituzionalmente appartiene la sovranità, oppure aver vinto un concorso per un posto di magistrato?).

la malattia mortale, dunque, o almeno le gravi complicazioni che oggi ci troviamo sotto gli occhi, tende secondo me a distruggere prima i fondamenti (non solo dell'urbanistica, ma di molte altre pratiche legate ad un convivere democratico non più ritenuto idoneo), e solo in un secondo tempo, marginalmente, mi verrebbe da dire, ciò che di questi fondamenti vive e da essi trae le ragioni della propria "prassi".

in altre parole, l'urbanistica pubblica potrà (o potrebbe) senz'altro continuare a svolgere i propri compiti di "garanzia" nei confronti del rispetto di ciò che è "legittimo" o costituisce "norma" - così come potrà o potrebbe continuare (o, se proprio vogliamo, "cominciare") a perseguire l'Interesse pubblico.

il fatto è che allo stato sono proprio queste nozioni, interesse pubblico incluso, ad essere oggetto di assalti omicidi, il cui scopo è una violenta e profonda revisione; e alcuni assalti, non da oggi, hanno già avuto successo.

proprio in una situazione come questa, si potrebbe aggiungere, l'urbanista pubblico che si trovi a condividere come "valori" le nozioni oggetto di assalto, come individuo, si trova esposto (o costretto) ad un'esistenza operativa che diviene dapprima solo deprimente, in seguito sempre più schizoide, e che infine, in taluni casi (metaforicamente) sfocia, come è frequente nelle psicosi, nel suicidio:

l'urbanista rinuncia al proprio ruolo, se è fortunato e può permetterselo va in pensione, se non lo è altrettanto cerca occupazioni meno patogene e frustranti, o alle volte combatte e partecipa a gruppi di pressione;

se tuttavia l'urbanista è privo di coerenza etica, la sua vita non diviene affatto "impossibile", e la malattia non conduce alla morte: egli, secondo la migliore tradizione del darwinismo, si adatta - e, naturalmente, continua ad assicurare rispetto della norma e garanzia di legittimità in un contesto in cui norma e legittimità hanno un significato affatto diverso rispetto a quando questa triste storia è cominciata.

e questo proprio perchè l'urbanistica, come il testo riconosce, vanta origini di "disciplina politica" - come tale autonoma da vincoli etici o da finalità sociali proprie, essa stessa legata all'agire politico, intrinsecamente potenziale produttore/sovvertitore di ciò che è "norma".

del resto, non solo l'urbanistica versa in tale situazione; forse si dovrebbe inserire il discorso sugli urbanisti pubblici in quello più ampio di revisione dei fondamenti del diritto...

ciao, mariangiola

Roberto Gianni

Subject: Re: urbanisti pubblici

3 febbraio 2003

Caro Eddy,

dopo una prima sommaria lettura ti anticipo che condivido il documento e l'iniziativa che esso propone. Mi sembra ben delineata l'analisi di questa fase dell'azione urbanistica e corretta la definizione di urbanista pubblico. Farò avere il documento ai miei amici e colleghi perchè se ne possa fare una discussione approfondita. Mi farebbe piacere di essere sugli sviluppi dell'iniziativa. A presto. Roberto Giannì

Sefano Fatarella

Subject: Re: urbanisti pubblici

3 Febbraio 2003

Che dire: il documento lo sento totalmente mio, dalla prima all'ultima parola. Di più: rispecchia fedelissimamente il mio profondo disagio (incazzatura, come più volte ti ho trasmesso) nei riguardi dell'attuale situazione in cui versa lo stato della cosa pubblica e quindi, inevitabilmente, l'urbanistica per sua stessa definizione e funzione così come storicamente si è determinata. Se il documento è il preludio per la costituzione dell'associazione, va benissimo. Lo mando in giro fra tutti i miei colleghi, pubblici urbanisti, regionali e comunali.

Ciao e complimenti all'estensore.

Saverio Orselli

Subject: urbanisti si cresce!

5 febbraio 2003

Caro ingegnere,

forse la mia visione della società è più amara della sua. E forse no. Non credo affatto che l'aver scoperto il tumore delle tangenti significasse automaticamente aver debellato il male. Né tantomeno aver dato vita ad una sorta di rinascimento. In medicina i cicli di chemioterapia non danno alcuna certezza di estirpare il male e così, nella nostra società, l'aver messo in piazza corruzione e corrotti non ha significato naturalmente ritrovare il senso civico perduto. Al contrario, secondo il mio parere, la gente si è sentita come autorizzata a riappropriarsi di quel che pensava le fosse stato sottratto. Con gli stessi mezzi. Ecco perché se il governo avesse proposto un condono edilizio avrebbe incassato più che con tutti gli altri provvedimentucoli che si è inventato. Grazie a Dio, mi vien da dire, non se la sono sentita di arrivare a tanto, anche se in altri campi si erano già spinti oltre.

Oggi il grave problema è che sembra non esistere più il concetto di interesse pubblico. Neppure là dove era fino a ieri il fiore all'occhiello con cui portare avanti i rapporti sociali.

Se in Comuni dalla parte dei cittadini, si eliminano aree per servizi per accontentare privati che vogliono la villetta in centro o la lottizzazione in collina, non è l'urbanistica in crisi ma la politica e i rapporti sociali. Più ancora di bravi urbanisti, nella pubblica amministrazione occorrono amministratori intelligenti, che sappiano prima di tutto mettere in ordine per priorità il bene collettivo - non solo immediato - e i problemi di visibilità allo scopo di poter essere rieletti. Se in un amministratore prevale il proprio interesse elettorale non c'è urbanista che tenga. Salvo che non porti voti.

Oggi la città più che il luogo della convivenza civile e democratica, sembra il luogo ideale per una sorta di Far West dell'ognun per sé, fatto di paura, di diffidenza, di chiusura, di pretesa di poter fare tutto quel che si vuole (soprattutto in auto) e di impedirlo a tutti gli altri. È in questo scenario che devono trovare il proprio ruolo l'urbanistica e gli urbanisti. E il lavoro è semplice e quasi impraticabile: fare capire alla gente che vive spaventata da tutto, che ci sono modi di pensare la città meno terrorizzanti, con luoghi di incontro aperti e ugualmente sicuri, che non siano parcheggi. Manca a questo proposito nelle finalità proposte - o forse non l'ho saputo leggere - un incontro/confronto con la scuola di ogni ordine e grado. Anzi, soprattutto con le classi dei più piccoli. Perché, al di là di quel che ne può pensare la Moratti, se non si inizia con i bambini a scoprire la città in modo diverso, a disegnarla insieme a misura di tutti - e quindi democratica - rimarrà un discorso di livello elevato. Importante certamente, ma non incarnato. Perché il futuro lo costruiranno loro e, almeno in parte, sarà grazie a loro se potremo superare definitivamente l'idea che è meglio essere furbo che intelligente e appassionato.

Un'ultima segnalazione, legata proprio alla realtà infantile: esiste un vasto assortimento di giochi di simulazione di "urbanistica fai da te" al computer, nella quale il bambino si cimenta con la capacità di costruire città in epoche diverse. Giochi spesso guidati da una logica di economia più che di urbanistica, in grado di fornire al giocatore una visione del mondo limitata al puro guadagno, in linea c on il decadentismo diffuso. Non è forse anche questo un possibile campo di azione?

Mi piacciono le provocazioni.

Meravigliosa la citazione d'apertura.

Buon lavoro

Convenimmo anche sul fatto che l’urbanista pubblico ha un ruolo particolarmente rilevante in un momento – quello attuale – nel quale la funzione di strumento dell’interesse collettivo che caratterizza l’urbanistica viene negata , o dimenticata, o considerata marginale. Decidemmo di verificare la possibilità di costituire un’associazione che assumesse questo ruolo come fondativi, e si proponesse di rappresentare ed esprimere gli interessi culturali e professionali degli urbanisti impegnati sul fronte, oggi particolarmente difficile, dell’amministrazione pubblica.

Marco Guerzoni ha scritto questa nota, che condivido pienamente, e sulla quale invito alla discussione. Inserirò in questa stessa cartella le lettere che mi perverranno, che a questo testo esprimano adesione e/o commento.

Ragionando di utilità pubblica dell'urbanistica


«Esistono due modi per uccidere: uno, designato apertamente col verbo uccidere; l'altro, quello che resta di norma sottinteso dietro il delicato eufemismo: "rendere la vita impossibile". E' la forma di assassinio, lenta e oscura, consumata da una folla di complici invisibili. E' un "auto-da-fé" senza " coroza" e senza fiamme, perpetrato da un'Inquisizione senza giudici né sentenza (..)»

(Eugenio d'Ors, La vie de Goya) [1]

1. La «vita impossibile» dell'urbanistica

Ci sono segnali - non pochi e non nascosti - che portano a ritenere l'attuale condizione del governo del territorio e delle città, in crisi non solo «di fatto» ma anche «di principio».

E' evidente, perché esplicita, epidermica e documentata, che la vivibilità di molti territori e di molte città del Paese non ha subito, nell'ultimo decennio, «balzi in avanti», come si era sperato quando la coscienza civile, risvegliatasi dopo gli anni delle truffe e delle tangenti ai danni del territorio (e quindi della collettività), sembrava aver indicato con determinazione la necessità di un cambiamento profondo, anche per conseguenza dell'emergere dei cosiddetti «temi globali»; condizioni che imponevano al nostro Paese, alla sua classe politica, a quella imprenditoriale e a quella intellettuale, di riformare il patto con i cittadini: lo Stato doveva riprendere possesso del governo delle trasformazioni, dopo gli anni del liberismo selvaggio, ma soprattutto dopo gli anni del banditismo politico connivente con le mafie e i sistemi criminali.

L'inizio degli anni novanta quindi, per certi versi, è stato l'espressione quasi euforica della volontà di riscatto, e sarebbe lungo e qui inopportuno elencare i fatti che documentano questa ripresa civile.

Altrettanto complicato è spiegare il perché del fallimento sostanziale di questo tentativo di rinascita. Perché l'euforia si è presto consumata, la corruzione quiescente si è riattivata, e non hanno tardato a risvegliarsi il brigantaggio e le ruberie ai danni del territorio; mentre una «nuova» forma di comportamento socio-economico si è affacciata: il neoliberismo deregolativo.

Ma se i fatti, i comportamenti, e gli esiti di questo stato di cose sono - purtroppo - sufficientemente noti e prevedibili, la novità preoccupante di questa «nuova ondata» è il riconoscimento delle sue prassi come «socialmente accettabili»: la prassi cioè si candida a modificare, piegandolo o spezzandolo, il «principio» e spesso anche la «norma», che originano e sottendono il governo urbano e territoriale.

E' una prassi che trova la sua natura nella filosofia individualistica che il neoliberismo impone, secondo la quale la somma dei comportamenti privati, liberamente competitivi, genera benessere, privato e in fine collettivo; che affonda le sue radici nella concezione dell'inesauribilità delle risorse; che impone la coercizione come principio educatore.

La città e il territorio, nella cultura occidentale, non sono però, in alcun modo, l'esito formale e sostanziale di una siffatta prassi, al punto che in tempi ormai lontani questi stessi comportamenti hanno rappresentato la «patologia» per cui è collettivamente maturata la necessità di formare una disciplina - l'urbanistica - che potesse rimediare a queste deviazioni, che avevano reso invivibili quei luoghi in cui gli uomini hanno deciso di convivere democraticamente.

Oggi, questa prassi sembra non essere più patologica, ma organica o per così dire «endemica». E' come un parassita che si è innestato nel corpo dello Stato e sembra in apparente simbiosi, producendo dissesto, congestione, inquinamento, saccheggio, segregazione, che gli «anticorpi» non riconoscono più come malattie ma come manifestazioni normali, di un organismo sano.

L'urbanistica, in questo senso, non è stata assassinata: è il bersaglio di uno stillicidio poco eclatante, ma sistematico e scientifico, diretto a comprometterne gli organi vitali, tramite un anestetico che rende questo declino «socialmente accettabile».

2. L'interesse pubblico

Il mestiere dell'urbanista implica una prassi che è per «principio» e per «norma» opposta a quella prassi più sopra ricordata, tesa alla sistematica eliminazione della cultura che fin qui ha consentito di costruire e governare il territorio puntando esplicitamente agli interessi diffusi.

Si può senz'altro affermare infatti, che la locuzione «urbanistica pubblica» sia una tautologia, allorché essa, nascendo e vivendo per sostanziare tecnicamente delle volontà politiche, non possa essere altro che pubblica, cioè non può esistere - almeno logicamente - un governo privato degli interessi pubblici: sussistendo questo principio, ogni tentativo di deviazione, dovrebbe intendersi illegittimo, sul piano formale e sostanziale, cioè si dovrebbe considerare «patologico».

Chi svolge l'attività dell'urbanista sa bene infatti che ciascuna decisione di trasformazione urbana o territoriale è l'esito di un processo che parte da una domanda politica - legittimata democraticamente da una collettività - si traduce in contenuti tecnici e formali - validati secondo le norme e le leggi vigenti - per esplicitarsi con atti e fatti che risolvono (o almeno dovrebbero) il problema posto dalla domanda politica iniziale. Si tratta quindi di un processo che ha come principio e fine «il pubblico».

Esiste nei fatti però la possibilità che questa catena pubblica entri in corto circuito. Succede quando la domanda politica non interpreta - per diversi motivi, più o meno consapevolmente - le esigenze della collettività; quando l'interpretazione tecnica non è capace di sostanziare la domanda politica; quando, in fine, il processo decisionale non trova alcun esito, perché i mandati politici sono a termine.

In tutte queste occasioni di fallimento non sussiste mai - in linea teorica - la negazione del principio pubblico, che origina l'urbanistica: si tratta certo di fallimenti, ma connaturati ad incapacità soggettive o impossibilità processuali.

Quando si comincia tuttavia - com'è il caso di questi tempi - a diffondere l'attività eversiva che trova nel corto circuito pubblico, cioè nella rottura della catena logica di decisione pubblica, l'obiettivo principale, si producono gravi lesioni alle fondamenta democratiche del governo. Stiamo assistendo cioè ad una fase in cui gli interessi pubblici non sono il principio ispiratore dell'azione di governo del territorio, ma in cui si teorizza e si pratica la massimizzazione degli interessi individuali tramite l'azione di governo pubblico, a cui la norma prima e la storia poi, si debbono piegare e, nel caso, spezzare, con esisti prevedibilmente disastrosi per le città e il territorio, ma con conseguenze ancor più preoccupanti per la tenuta democratica del Paese.

3. Gli urbanisti della pubblica amministrazione

E' chiaro quindi come l'attività urbanistica non si risolva con gli adempimenti tecnici e burocratici, ma contenga uno specifico «mandato sociale», sia cioè inscindibilmente legata alla sua origine di disciplina politica.

Chi si trova a lavorare nella pubblica amministrazione, da urbanista, ha generalmente due compiti principali: quello di controllare e quello di progettare. Per quest'ultimo caso si tratta dell'attività più propriamente creativa, e significativamente organica alla disciplina, cioè quella di progettare il futuro, dando forma a quel mandato pubblico più sopra accennato.

Nel primo caso invece, gli urbanisti hanno il compito di garantire la coerenza degli atti pubblici e privati, con le leggi e le norme dello Stato e degli enti territoriali. Perciò gli urbanisti della pubblica amministrazione sono anche i garanti del rispetto formale e sostanziale, della democraticità del circuito decisionale in materia di governo del territorio.

Al di là delle propensioni politiche personali, ciascun urbanista della pubblica amministrazione, è quindi depositario del «principio» e della «prassi» di una disciplina che abbiamo definito «d'interesse collettivo».

Se l'analisi fin qui svolta è vera, allora sembra molto problematico, o meglio sembra «naturalmente» problematico, sia moralmente che professionalmente, svolgere l'attività di urbanista della pubblica amministrazione, nel momento in cui si comincia ad insinuare l'inconsistenza del principio nel confronto con la prassi, l'elasticità della norma di fronte alla necessità privata; sembra cioè impossibile «fare urbanistica» senza le garanzie codificate di interesse diffuso, che sono null'altro che la natura stessa di questa disciplina, e di questa attività.

4. Sindacare per difendere e promuovere

I tempi sembrano quindi maturi - verrebbe da dire «purtroppo» - per cominciare a rivendicare il valore pubblico dell'urbanista, e per tutelare la professione di chi, svolgendo questa attività nella pubblica amministrazione, si trova spesso nelle condizioni di dover negare - in modo implicito o esplicito - il proprio lavoro, piegandosi ad una prassi (anche politica) che disattende, negandola, l'urbanistica stessa.

Sembra opportuno allora costituire un'associazione col compito di riaffermare l'urbanistica come disciplina di pubblica utilità, e l'urbanista della pubblica amministrazione come la figura più completa e più idonea a garantire tecnicamente la trasformazione della domanda pubblica in atti e fatti che producono maggiore vivibilità, nel rispetto della democrazia.

Per questo le finalità di una Associazione di Urbanisti della Pubblica Amministrazione dovrebbero essere:

- promuovere la qualità dell'urbanistica e della pianificazione territoriale nelle politiche pubbliche;

- seguire e incoraggiare l'evoluzione professionale, partecipando attivamente alle riflessioni circa la qualificazione e la formazione (iniziale e continua) degli urbanisti;

- informare i giovani diplomati della «missione» del mestiere dell'urbanista;

- affermare l'identità di questa professione nell'ambito della «funzione pubblica»;

- organizzare scambi di esperienza e di analisi tra i diversi modi di esercitare questa professione in Italia e in Europa;

- promuovere l'interdisciplinarietà di questa professione;

- promuovere relazioni con le altre associazioni straniere che hanno medesime finalità;

- costruire una rete di informazione sulle pratiche dell'urbanistica nella pubblica amministrazione (sulla gestione delle risorse, sulla formazione del personale, sul coordinamento degli uffici);

- favorire il trasferimento di conoscenze tra i diversi enti del territorio;

Riuscendo a garantire un'adeguata presenza in ogni Regione, l'associazione potrebbe configurarsi come «gruppo di pressione» in grado di incidere sulle iniziative legislative, oltre che agire positivamente sulle dinamiche reali.

Documento proposto da Marco Guerzoni, urbanistagennaio 2003

[1] E' la stessa citazione che Antonio Gramsci, nel 1930, ha annotato su uno dei suoi celebri Quaderni del carcere.

Premessa

Le riflessioni sulla formazione in scienze della pianificazione sviluppate in queste pagine sono state stimolate da diverse e successive occasioni di discussione. In prima istanza, nascono dal dibattito sviluppatosi negli ultimi due anni in seno al Corso di Laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale di Reggio Calabria, in relazione all’attuazione della riforma nazionale degli ordinamenti universitari. In secondo luogo, sono state ulteriormente stimolate dal confronto avviatosi nell’istituendo Coordinamento Nazionale dei CdL in Pianificazione, sia in occasione dell’ incontro fondativo organizzato a Venezia dalla Facoltà di Pianificazione dello IUAV nel novembre 2001, sia in un secondo incontro tenutosi a Roma nel febbraio 2002. Infine, una prima versione di questo testo è stata presentata e discussa in un seminario di lavoro tenutosi nel gennaio 2002 presso la Facoltà di Architettura di Ferrara, nell’ambito del Modulo Europeo di Dottorato in Pianificazione dello sviluppo territoriale (EMRDP 1 . Il contributo della discussione collettiva a queste mie idee è, quindi, rilevante e ho cercato quando possibile di evidenziarlo. Tuttavia, mi ritengo interamente responsabile per il modo in cui ho strutturato quelli che ritengo essere gli elementi più rilevanti del discorso e per la prospettiva avanzata.

Voglio anche sottolineare che il mio punto di vista è inevitabilmente condizionato dal contesto istituzionale italiano, anche se ho potuto verificare come molti nodi siano comuni ad altri contesti europei e possano, quindi, essere estesi alla formazione in scienze della pianificazione in generale.

L’argomento si sviluppa a partire da due considerazioni preliminari:

Prima considerazione . Gli ultimi 20 anni, ma soprattutto gli anni ’90 sono stati caratterizzati da importanti mutamenti ideologici e istituzionali nel campo dell’intervento pubblico , che riflettono, in parte, alcuni mutamenti strutturali avvenuti nelle società occidentali in generale. Questi mutamenti non sono necessariamente coerenti; anzi, sono spesso contraddittori. Comportano, tuttavia, l’emergere di una nuova domanda sociale di pianificazione . Parte di questa nuova domanda è esplicita e ha già trovato sbocchi istituzionali, parte è ancora implicita.

Seconda considerazione . Questa nuova domanda di pianificazione, nei suoi diversi aspetti, deve trovare risposte adeguate nella professione e, conseguentemente, nella formazione in scienze della pianificazione. Si impone dunque una riflessione sui contenuti e gli obiettivi della formazione universitaria in questo campo, non solo per rispondere alla nuove esigenze, ma anche per non perdere terreno rispetto ad altre professioni. Le implicazioni della nuova domanda sociale investono la formazione ad almeno due livelli:

l’ampliamento e l’ulteriore diversificazione degli ambiti della pianificazione, in termini di conoscenze, competenze tecniche e strumenti;

una redifinizione del ruolo politico (ruolo istituzionale) della pianificazione e dei pianificatori.

1. I mutamenti della domanda sociale di pianificazione

L’ultimo quarto del XX secolo è caratterizzato da importanti mutamenti strutturali, ideologici e istituzionali nella maggior parte del mondo occidentale. Questi mutamenti hanno modificato in modo significativo il modo in cui la pianificazione è percepita e praticata. La pianificazione all’alba del Terzo Millennio è molto diversa da quella affermatasi nei “gloriosi trent’anni” del secondo dopoguerra. Per capire appieno l’evoluzione sia dell’idea di pianificazione, che della sua prassi, è necessario, in primo luogo, richiamare brevemente i principali mutamenti strutturali avvenuti nella maggior parte delle economie mature negli ultimi due decenni e, successivamente, evidenziare quelli avvenuti nel “discorso” sulla pianificazione e nelle istituzioni di piano. I tre livelli, come si è già detto, sono fortemente interrelati, anche se non necessariamente in modo coerente.

1.1 I mutamenti economici e sociali

Benché vi siano notevoli variazioni tra paesi, alcuni mutamenti possono essere considerati “strutturali” e caratteristici di quello che da molti è stato chiamato il “corso postfordista” delle società occidentali mature. Sono qui richiamati in modo estremamente sintetico:

Fine dell’Età dell’oro della crescita fordista e inizio di un era a basso tasso di crescita, caratterizzata dalla ricerca di un nuovo equilibrio tra “regolazione” e “accumulazione” (mi riferisco qui all’impostazione analitica della scuola francese della Régulation).

Globalizzazione e ulteriore rafforzamento del capitale transnazionale. Supremazia del capitale finanziario sul capitale produttivo.

Crisi fiscale degli stati e sviluppo della mobilitazione per la riduzione delle tasse ( tax revolts).

Fine dei processi di riequilibrio sociale e territoriale; ripresa di dinamiche di polarizzazione sociale e territoriale nella distribuzione di reddito e benessere in generale e riacutizzazione del dualismo tra ricchi e poveri. Riemergere di fenomeni di esclusione sociale anche nei paesi ricchi.

Ulteriore evoluzione dei rapporti sociali di produzione capitalistica e dei modelli di organizzazione produttiva, con un riaffermarsi degli interessi del capitale e dello sfruttamento del lavoro.

Fine della mobilitazione sociale di massa e frammentazione dei movimenti collettivi.

Pieno affermarsi dell’informatica come nuovo paradigma tecnologico, che comporta, tra l’altro, una crescita esponenziale dei sistemi informativi e delle reti di comunicazione.

1.2. Mutamenti ideologici

Questi mutamenti strutturali trovano legittimazione in un generalizzato spostamento ideologico a destra e nel riaffermarsi a livello egemonico di un “discorso” minimalista in tema di intervento pubblico.

Revival dell’ideologia del “laissez faire”, con i suoi corollari neoliberali della competitività, della flessibilità, della deregulation, delle privatizzazioni.

Archiviazione dell’approccio Keynesiano e, in generale, del paradigma “interventista” (affermarsi del discorso “meno Stato, più Mercato”), benché, come dirò meglio in seguito, questa retorica è contraddetta da un aumento del sostegno pubblico al capitale privato.

Spostamento dell’enfasi politica dal discorso redistributivo (“ equità”) a quello della produttività (“efficienza” ).

Parallelamente, e più nello specifico del dibattito in materia di teoria e politica dello sviluppo, si possono apprezzare alcuni importanti riassestamenti teorici e l’ emergere di nuove preoccupazioni:

Uno spostamento dell’attenzione dalle strategie basate su investimenti in capitale fisso di tipo “hard” (infrastrutture pesanti, investimenti industriali, etc.) a strategie “soft” (investimenti in capitale umano, ricerca e sviluppo, imprenditorialità, servizi avanzati, reti informative, etc.), così come dagli aspetti quantitativi della crescita ad aspetti più qualitativi.

Uno spostamento dall’approccio centralizzato, top-down , sostanzialmente “esogeno” del paradigma interventista dello Stato, ad un approccio decentralizzato, bottom-up , che privilegia l’azione a livello locale, la necessità di “ radicamento” dei processi ( embeddedness ) e l’avvio di processi “endogenamente” ingegnerizzati. E’ importante sottolineare, tuttavia, che il nuovo discorso sul “locale” accoglie diversi approcci, alcuni con una forte portata democratica e progressista, ma altri decisamente funzionali all’ideologia neoliberale e alla dismissione dell’intervento pubblico.

L’emergere di nuovi ambiti di approfondimento scientifico e politico, quali l’ ambiente e la sostenibilità dello sviluppo. A partire soprattutto dal Vertice della Terra di Rio del 1992, si sviluppano gli studi su questi temi e si affermano alcuni discorsi critici sui paradigmi dominanti dello sviluppo.

Assieme al discorso sulla globalizzazione , un riemergere del discorso “regionale”, ridenominato locale.

Il riemergere dell’attenzione alla partecipazione , come elemento fondante dei processi di pianificazione, con particolare enfasi su una sua nuova varietà, la concertazione , benché come dirò in seguito, quest’ultima sia spesso applicata in forma alquanto riduttiva.

1.3. Mutamenti istituzionali

Alcuni dei mutamenti sopra richiamati si sono già concretizzati in termini istituzionali, anche se forma e intensità variano significativamente da un paese all’altro. Si è assistito, in particolare, a:

Una contrazione dell’intervento dello Stato centrale in generale, sia per quanto riguarda il ventaglio delle competenze, sia in termini di spesa.

Una diminuzione delle politiche redistributive (sociali e territoriali) e dello stato sociale ( welfare state ), mentre aumenta il sostegno pubblico – in modo selettivo – all’ ;accumulazione privata.

Una riduzione della tutela del lavoro e un aumento del suo sfruttamento attraverso: riduzione della sicurezza del posto di lavoro, riduzione della previdenza sociale, istituzionalizzazione di forme contrattuali precarie e sottopagate (ciò che in genere passa per “flessibilizzazione” del mercato del lavoro). In generale, si assiste ad una contrazione della componente “fordista” del lavoro (salariati a tempo indeterminato) e ad un aumento dei lavoratori “autonomi” e a tempo determinato.

In Europa, un ruolo crescente delle normative sovranazionali, le quali limitano la sovranità degli Stati membri in numerosi settori tradizionali di intervento pubblico, da una parte, e introducono maggiori vincoli procedurali e normativi, dall’altro. Tra i mutamenti più rilevanti derivanti dall’integrazione europea nell’ultimo decennio va menzionata l’ assunzione di controllo/indirizzo delle politiche territoriali nazionali, attraverso i Fondi Strutturali.

Un processo di decentramento amministrativo, cioè la devolution di numerose competenze politiche alle amministrazioni periferiche, in particolare le competenze in materia di politiche di sviluppo economico . Questo è il risultato in parte di processi nazionali e in parte del discorso europeo sulla sussidiarità.

All’interno del decentramento amministrativo, la progressiva istituzionalizzazione (in modo più o meno formalizzato, a seconda dei paesi) di nuove competenze e procedure in materia di pianificazione a livello “locale”.

1.4. Un paradosso della nuova domanda di pianificazione

I mutamenti sopra schematizzati hanno contribuito, in modi anche contraddittori, a modificare sostanzialmente la domanda sociale di pianificazione. E’ importante, tuttavia, distinguere tra come la pianificazione è “considerata” e come è, nei fatti, “praticata”. Notevoli ambiguità circondano sia il discorso sulla pianificazione, che la sua realtà.

Da una parte, all’interno del discorso neoliberale, la pianificazione è ideologicamente liquidata, come freno al libero dispiegarsi dei meccanismi di mercato. E questo declino nello “status” della pianificazione si riflette nella riduzione del ruolo dello Stato centrale in termini di intervento diretto, indirizzo, regolazione, etc. D’altra parte, però, la “pratica” della pianificazione assume nuova rilevanza e forza a livello locale , come risultato sia del decentramento amministrativo, che delle politiche UE. In Italia, in particolare, i settori in cui gli enti locali hanno ricevuto mandato istituzionale a pianificare si sono enormemente allargati. Come ha sottolineato Balducci (2001, non solo hanno autorità in materia di pianificazione urbanistica, ma anche, adesso, in materia di pianificazione economica dello sviluppo locale . Nel Sud del paese, la maggior parte dei fondi strutturali destinati alle regioni Obiettivo 1 può essere spesa solo all’interno di progetti “integrati” e “concertati” di sviluppo, che rappresentano una forte domanda virtuale di competenze professionali.

Ci troviamo, così, di fronte a un paradosso: la necessità di pianificazione è ideologicamente marginalizzata e notevolmente ridotta a livello centrale; ma, allo stesso tempo vi è una crescente domanda “reale”di pianificazione a livello locale, parte implicita, parte esplicita, che non sempre si traduce in una domanda “istituzionale” di competenze professionali specifiche (il pianificatore).

2. La nuova domanda di pianificazione e le sue implicazioni per la formazione

La nuova domanda sociale di pianificazione, sia implicita, che esplicita, deve trovare adeguate risposte nell’offerta formativa universitaria. Le implicazioni dei mutamenti sopra sintetizzati sulla formazione possono essere analizzate secondo due chiavi: a) l’ampliamento e la diversificazione delle competenze; b) il ruolo politico della pianificazione e del pianificatore.

2.1. L’ampliamento e la diversificazione delle competenze

In primo luogo, l’evoluzione della domanda sociale di pianificazione comporta un ulteriore rafforzamento del carattere multidisciplinare di questo ambito formativo e, allo stesso tempo, l’inclusione di nuovearee di competenza e/o la revisione di alcune competenze tradizionali. Questo determina una tensione e la necessità di cercare un giusto equilibrio tra, da una parte, l’offerta formativa di tipo “generalista” (per rendere gli studenti in grado di comprendere le diverse ramificazioni della disciplina e le interazioni tra i diversi aspetti) e, dall’altra, l’offerta formativa di tipo “specialistico” (per formare professionisti capaci in almeno uno dei diversi settori di competenza).

In secondo luogo, l’accento sul locale comporta maggiore attenzione al delicato rapporto tra conoscenza delle macrotendenze (e dei grandi paradigmi), da una parte, e conoscenze “di contesto” 2, cioè conoscenze relative alle caratteristiche, ai vincoli, alle potenzialità “specifiche” di un dato territorio, dall’ altra. Le strategie di sviluppo del passato erano in larga misura la trasposizione di modelli “universalistici”; ma ancora oggi, molte strategie di “sviluppo locale” applicano acriticamente ricette derivanti da pochi casi regionali di successo, senza effettuare alcuna operazione di “contestualizzazione”.

Infine, il nuovo quadro istituzionale comporta l’uso di nuove conoscenze “operative”, cioè di nuove metodologie, strumenti e tecniche , sia per l’analisi, che per la pratica della pianificazione.

Di seguito sono elencati alcuni di questi nuovi (o rivisitati) campi di competenza e conoscenza operativa, in ordine sparso. Molti si sovrappongono in una qualche misura e sono trattati separatamente per chiarezza espositiva.

Sostenibilità . Questo è, in realtà, un nuovo “paradigma”, piuttosto che un semplice nuovo campo di ricerca scientifica, e comporta un ripensamento sostanziale dei modelli di sviluppo dominanti, spostando l’attenzione dalla crescita quantitativa alla conservazione delle risorse, agli aspetti qualitativi dello sviluppo e ad una distribuzione più equa del benessere.

Ambiente e salvaguardia ambientale . Nonostante abbia forti implicazioni paradigmatiche, questo è a tutti gli effetti un nuovo ambito di ricerca e competenze, che coinvolge numerose discipline (ecologia, biologia, botanica, zoologia, chimica, geologia, etc.) e comporta lo sviluppo e l’uso di nuove metodologie e strumenti per la valutazione e il monitoraggio del rischio e degli impatti, per la riduzione e il trattamento dell’inquinamento, etc. E’ anche un ambito dove il livell o di regolazione istituzionale è in crescita e, quindi, cresce la domanda di professionalità specifiche.

Patrimonio culturale . Come nel caso dell’ambiente, anche questo è un ambito relativamente nuovo di competenze, rispetto al quale numerose normative e azioni si stanno sviluppando (a livello europeo, ma anche locale) e cresce la domanda di professionalità. In aggiunta alla tradizionale conservazione del patrimonio architettonico, le azioni in questo campo si estendono ad un più ampio ventaglio di risorse: paesaggio, tecnologie, tradizioni, etc.).

Paesaggio . Fortemente intrecciato ai due punti precedenti è il revival di attenzione alla conservazione, valorizzazione e pianificazione del paesaggio: non solo il paesaggio rurale o agricolo – sia nella loro componente formale (estetica), che nella loro componente strutturale – ma anche quelle porzioni “residuali” di territorio ai margini o all’ interno di aree urbanizzate, le quali, avendo perso la loro funzionalità originaria, sono soggette a processi di abbandono e degrado.

Qualità della vita e riqualificazione dell’ambiente costruito . Si diffonde anche un atteggiamento di maggiore attenzione alla “ qualità” del vivere urbano e al miglioramento dell’ambiente urbano stesso, specie per quanto riguarda gli spazi di fruizione collettiva. Questo comporta una crescente domanda di azioni di riqualificazione, assieme alla formulazione e all’applicazione di nuove metodologie di valutazione e monitoraggio della qualità.

Pianificazione dello sviluppo locale . All’interno del più generale processo di devolution e, soprattutto, a partire dal primo Quadro Comunitario di Sostegno, in aggiunta alle responsabilità in materia di pianificazione urbanistica di tipo fisico (piani regolatori ed altri strumenti finalizzati a normare le destinazioni e l’uso del suolo), le amministrazioni periferiche della maggior parte degli stati membri dell’UE sono state investite della responsabilità di pianificare lo sviluppo locale. Questo comporta un’ampliamento delle competenze del pianificatore e una maggiore enfasi sulle discipline economiche – sia in termini di conoscenze teoriche, che di conoscenze operative. D’altra parte, la pianificazione dello sviluppo locale non può basarsi solo sulle teorie e gli strumenti dell’economia: all’interno del nuovo paradigma dello sviluppo sostenibile, un nuovo approccio integrato deve essere costruito, che tenga conto delle variabile economiche, sociali, politiche e istituzionali – in una parola della complessità dei processi – che concorrono allo sviluppo di un territorio (Moulaert 2000).

Pianificazione strategica . Parallelamente all’affermarsi di questa nuova domanda di pianificazione “dello sviluppo” locale, e all’interno di una crisi più generale della pianificazione urbanistica tradizionale di tipo vincolistico, afflitta, soprattutto in Italia, da rigidità e lentezza, si stanno diffondendo nuove metodologie e procedure di pianificazione – che definirò provvisoriamente modelli di “pianificazione strategica”. Questi modelli trovano formalizzazione istituzionale d iversa, a seconda dei paesi, ma si stanno decisamente affermando, anche attraverso la pubblicizzazione estesa di alcune esperienze di successo, diventate quasi paradigmatiche. All’interno di questa “famiglia” di esperienze e modelli, assumono rilevanza strumenti e competenze nuovi, quali il marketing territoriale (per attirare o mobilitare capitali) e la concertazione (tra le parti sociali interessate). Parte integrante delle nuove forme di pianificazione strategica e flessibile – incentivata in modo particolare dall’impostazione europea dei fondi strutturali – è la pianificazione “per progetti”. Si contrappone al paradigma della pianificazione razionale ( “comprehensive” planning ), ma presume forti capacità di “integrazione strategica” dei progetti stessi, per evitare che i progetti stessi si traducano in una mera “lista della spesa”.

Concertazione e partecipazione . Sia la pianificazione dello sviluppo locale, sia la pianificazione di tipo strategico, assegnano un ruolo determinante – quantomeno nel “ discorso” corrente – ai processi di concertazione . Per la professione questo comporta un accentuazione del ruolo di “ regia”. I pianificatori sono chiamati a svolgere un ruolo di “ facilitatore”: devono essere in grado di organizzare e dirigere il confronto, nonché mediare ( negoziare ) tra le diverse parti sociali coinvolte nel progetto/piano di sviluppo locale. Questo ruolo comporta l’acquisizione di conoscenze particolari, che non hanno ancora trovato un loro riconoscimento e una loro collocazione formale nell’offerta formativa in scienze della pianificazione. Nell’ambito della concertazione va anche incluso il timido revival del discorso sulla partecipazione. Quest’ultima ha una portata sociale maggiore della concertazione, nella misura in cui si prefigge di coinvolgere la maggior parte possibile delle popolazioni interessate da piani e progetti e, nelle sue forme più avanzate, di coinvolgere in modo particolare i segmenti più deboli, normalmente esclusi dai processi decisionali (donne, bambini, disoccupati, immigrati e tutte le frazioni sociali marginalizzate).

Valutazione . Con la progressiva istituzionalizzazione di alcune procedure di piano – specie in materia di ambiente, ma non solo – la necessità di effettuare procedure di valutazione formale delle azioni di piano (ex ante, durante ed ex post) è diventata requisito imprescindibile. La conoscenza e l’uso di metodologie e strumenti di valutazione sono diventati un imperativo per la professione.

Gestione e monitoraggio . Nel perseguimento dell’efficienza e dell’ accountability , le amministrazioni locali sono sempre più concepite come “ macchine gestionali”. Aumentano le pressioni per una gestione della cosa pubblica che sia in grado di rispondere e “consegnare” ( deliver ) rapidamente, che sia cioè efficiente e flessibile. Per la professione della pianificazione questo comporta l’acquisizione di conoscenze nel campo della gestione aziendale ( business administration ) e della gestione finanziaria, per poter meglio monitorare e coordinare i diversi e spesso complessi process i di piano, in un contesto che evolve continuamente e richiede rapidi aggiustamenti. In risposta a questi nuovi imperativi si è diffusa la prassi, tra le amministrazioni locali, di subappaltare a fornitori privati – in toto o solo in parte – alcune funzioni e alcuni servizi tradizionalmente di competenza pubblica. Al di là delle valutazioni sull’opportunità e la reale efficacia di tali scelte, anche in questo caso sono necessarie conoscenze specifiche per la gestione e il monitoraggio di queste deleghe o partenariati pubblico-privati.

L’uso di “sistemi informativi” complessi . In forte collegamento con la necessità di coordinare, monitorare, valutare le azioni di piano – e sfruttando gli straordinari sviluppi della tecnologia informatica – si stanno costruendo e si sta diffondendo l’ ;uso di sistemi informativi territoriali , che utilizzano tecnologie di rilevamento e archiviazione avanzati (GIS etc.). In molti programmi universitari di formazione in scienze della pianificazione – ma non solo – la progettazione, la realizzazione e l’uso di tali sistemi sono diventati un campo di specializzazione ben definito.

2.2. Alcuni nodi critici

Se le aree di competenza sopra descritte sono inequivocabilmente elementi forti della nuova domanda sociale di pianificazione, sia essa esplicita o ancora implicita, restano alcune ambiguità – o nodi critici – cui occorre accennare prima di affrontare la questione del ruolo politico del pianificatore.

Il decentramento della pianificazione: fenomeno positivo o negativo? Benché il decentramento amministrativo e la devolution di molte responsabilità di piano agli enti locali debbano essere considerati un rivolgimento istituzionale sostanzialmente positivo, le forme che esso sta assumendo in molti paesi e regioni sono ambigue. Storicamente sostenuto dalla sinistra, come strumento di democratizzazione e autodeterminazione, il decentramento politico/amministrativo è stato recentemente “ appropriato” dalla destra, per legittimare l’abicazione dello Stato al suo ruolo di controllo, indirizzo, coordinamento. In Italia, in particolare, il decentramento amministrativo non ha rappresentato un semplice trasferimento di potere ed una maggiore autonomia decisionale alle amministrazioni locali ( empowerment ): di fatto, si è ridotto il livello complessivo e si è profondamente trasformato il ruolo dell’intervento pubblico. In particolare:

i) Si è verificata una complessiva riduzione delle risorse pubbliche a sostegno delle aree depresse (politiche di riequilibrio territoriale) e le amministrazioni locali devono competere per tali risorse sulla base delle loro capacità progettuali.

ii) Il decentramento ha comportato una contrazione del ruolo di controllo, indirizzo e coordinamento strategico dello Stato centrale (quello che Moulaert chiama “topless bottom-up planning” ), il che solleva il nodo della pianificazione multilivello e dell’ articolazione tra scale territoriali (Moulaert 2002). Questo problema appare particolarmente rilevante in settori, quali la salvaguardia ambientale o le infrastrutture, dove gli in teressi locali possono essere in contrasto con il benessere della collettività più ampia.

iii) Le località dove società e istituzioni non hanno “ maturato” adeguate conoscenze e strumenti “collettivi” di gestione dell’intervento pubblico, o dove le condizioni economiche sono particolarmente critiche, si trovano ora in una posizione più rischiosa di quanto non fosse durante il regime “top-down” dell’intervento dal Centro. Benché il decentramento amministrativo renda la gestione pubblica più direttamente “accountable” da parte dell’ elettorato, l’introduzione di responsabilità amministrative complesse e di pratiche democratiche di governo nelle regioni più depresse può essere un processo molto lento. In alcune di queste regioni e località il decentramento della pianificazione dello sviluppo può rappresentare un semplice decentramento del “governo della crisi e del sottosviluppo” (la soluzione “Pilato”).

Ambiente e sostenibilità: verniciatura o paradigma? Nonostante siano diventate parole chiave nel discorso politico contemporaneo, la nuova attenzione alla salvaguardia ambientale e alla sostenibilità non sembra essere state effettivamente internalizzata. L’assunzione di questi aspetti come veri e propri “paradigmi” analitici e normativi comporta un ripensamento molto più strutturale del significato di sviluppo e la formulazione di modelli e strategie profondamente diversi.

Concertazione: tra chi? La progressiva istituzionalizzazione della pianificazione a livello locale sembra rispondere solo alla componente “esplicita” della nuova domanda sociale. L’attuazione dei nuovi metodi, strumenti e tecniche (pianificazione strategica, concertazione, procedure di monitoraggio e valutazione, etc.) si rivolge a, e coinvolge, soprattutto quei gruppi di interesse capaci di mobilitarsi e di esercitare la loro voce. Esclude, in genere, le componenti più deboli della società contemporanea (immigranti, disoccupati e sottoccupati, poveri, donne, bambini).

Pianificazione integrata o “lista della spesa”? L’approccio “per progetti” è una caratteristica saliente della nuova pianificazione, che dovrebbe combinare funzionalmente la pianificazione dello sviluppo con la dimensione territoriale. In Italia, i Patti territoriali e i Contratti d’area prima, e i PIT (Progetti Integrati Territoriali) e PIS (Progetti Integrati Strategici) nella più recente programmazione regionale legata ai Fondi Strutturali 2000-2006 (Programmi Operativi Regionali) rappresentano gli strumenti attuativi privilegiati di questo approccio. Tuttavia, come ho già detto, affinché la pianificazione per progetti sia efficace e non si traduca in una “lista della spesa”, occorre che i progetti siano effettivamente frutto di un processo di concertazione locale e siano integrati in un qualche disegno strategico. E’ ancora presto per effettuare una valutazione, ma sulla base delle sparse esperienze in corso, specie nel Mezzogiorno, non sembra che queste condizioni siano rispettate.

Locale/globale: un nesso analitico mancante . La nuova enfasi data al “locale” tende a oscurare il ruolo del “globale” e porta ad una sottovalutazione dei vincoli che quest’ultimo impone sulle dinamiche locali. Le località sono considerate singole entità sociali che competono, su basi più o meno uguali, all’interno del mercato globale. L’analisi delle macrotendenze e dei vincoli imposti dai global players sui percorsi di nazioni e regioni – ad esempio il ruolo della divisione internazionale del lavoro guidata dal capitale transnazionale – è generalmente assente. Le relazioni tra locale e locale, al di là delle generiche disquisizioni sul significato di “glocal” , sono sostanzialmente ignorate, così come, più in generale, l’articolazione – spesso in termini di rapporti di dominazione/subordinazione – tra diverse scale territoriali di analisi (Moulaert 2002). A questo proposito è anche importante menzionare il problema delle differenze (Rodriguez 2002; Massey), cioè come specifiche identità culturali – siano esse relative a territori o a gruppi sociali particolari – possono essere integrate nei processi di globalizzazione, evitando sia l’omologazione, che l’esclusione.

2.3 Il ruolo politico della pianificazione .

La pianificazione non è una pratica neutrale. Anche partendo dalla sua più comune definizione – il processo razionale di identificazione di problemi e/o obiettivi, di formulazione di strategie e di progettazione e attuazione di interventi, finalizzati alla soluzione dei problemi e/o al raggiungimento degli obiettivi – i risultati di questo processo, dipendono in larga misura da quali problemi/obiettivi sono identificati, quali strategie, strumenti e interventi sono selezionati e come sono attuati: in sintesi “per chi” e “da chi”. La pianificazione è, dunque, inevitabilmente un’azione “ politica”, che tenta di indirizzare il futuro in relazione ad una particolare prospettiva.

Queste considerazioni assumono particolare rilevanza quando restringiamo il campo alla pianificazione pubblica, cioè a quelle istituzioni e/o quegli attori che operano in nome di o per il cosiddetto “interesse” pubblico”, di cui la pianificazione territoriale è un sottoinsieme particolarmente articolato. Tentare di definire in modo univoco l’ interesse pubblico nella pratica della pianificazione territoriale è esercizio futile, ma si possono richiamare alcune tensioni caratteristiche dell’azione pubblica: a) il trade off tra equità ed efficienza; b) la tensione tra gli interessi particolari e quelli generali o più ampi; c) il diverso orizzonte temporale della legittimazione politica (breve termine) e dell’efficacia attuativa (lungo termine); d) lo scarto tra la retorica del piano (il discorso politico) e la pianificazione attuata (i processi reali). Un progetto, infatti, può avere successo sul piano della redditività economica, ma beneficiare solo alcuni interessi locali; allo stesso modo, un’iniziativa può essere vantaggiosa per la località che la attua, ma andare a detrimento della collettività più ampia; e ancora, un progetto “di bandiera” può essere attuato rapidamente e con successo, ma essere insostenibile nel lungo periodo o sottrarre ris orse a iniziative meno appariscenti e socialmente più utili.

Qual è il ruolo del professionista in questo contesto? Al di là del livello di conoscenze e del campo di specializzazione, il modo in cui il singolo pianificatore si pone rispetto alla sua funzione “pubblica” dipende, evidentemente, da scelte ideologiche ed etiche personali. Tuttavia, un tratto sembra guadagnare consensi: in contrasto con la tradizione tecnocratica, il pianificatore odierno non può più considerarsi “al di sopra” del piano; deve piuttosto operare “all’ interno” del processo di piano. Il suo compito non è tanto “ produrre” il piano, quanto ingegnerizzare e coordinare il “ processo” di piano (Ceccarelli 2002).

3. Alcune proposizioni per un “manifesto” della pianificazione

Cosa comporta tutto ciò per la professione e per la formazione? Dalle considerazioni fin qui sviluppate emerge, a mio avviso, la necessità di affrontare più direttamente alcuni dei nodi identificati e avviare iniziative concrete. Qui di seguito avanzo alcune “proposizioni”, alcune di carattere generale, altre maggiormente orientate a definire le caratteristiche di una pianificazione “progressista”.

3.1 In generale

Tre tasks mi sembrano urgenti per quanto riguarda la professione e la formazione in generale:

1) In primo luogo occorre ridare “visibilità” alla disciplina e alla professione, riaffermandone le specificità. Come ho già affermato, a fronte di una domanda sociale forse più forte che in passato, nel discorso neoliberale dominante il ruolo dell’intervento pubblico è screditato e/o marginalizato. Rilanciare la discussione su funzioni e obiettivi della pianificazione pubblica oggi è fondamentale per ridare legittimità alla professione, ma tale discussione non può essere autoreferenziale (Vendittelli 2002, Indovina e Ceccarelli 2002), cioè chiusa nell’ambito del dibattito accademico. L’importanza della funzione pubblica di indirizzo e armonizzazione delle trasformazioni territoriali deve essere riaffermata nel sociale, in collegamento con la realtà che rappresenta il suo bacino di domanda e di esplicazione: gli enti locali, le imprese, i sindacati, le associazioni, i cittadini. Il dibattito teorico deve essere continuamente verificato e riaggiustato rispetto alla prassi, che può solo avvenire in contesti reali.

2) Nell’ambito più specifico della formazione occorre trovare un giusto equilibrio tra formazione generalista e formazione specialistica . L’ampio spettro di aspetti e competenze che l’esercizio della pianificazione comporta impone, da una parte, una base di conoscenze articolate (dalla storia all’economia, dalla sociologia alle scienze politiche, dalla normativa alla strumentazione operativa) e, dall’altra, l’ approfondimento specialistico in alcuni ambiti (ambiente, sviluppo economico, housing, infrastrutture, urbanistica, etc.). I percorsi formativi devono pertanto articolarsi in modo da garantire l’acquisizione e l’ integrazione funzionale di entrambe queste forme di sapere.

3) Qualsiasi sia l’ambito di specializzazione, la formazione deve favorire l’acquisizione di un approccio integrato alla pianificazione e, allo stesso tempo l’assunzione di una prospettiva di processo più che di prodotto. La formazione multidisciplinare di base deve essere propedeutica ad un’approccio analitico e operativo che sappia integrare i diversi aspetti che concorrono alla formazione/trasformazione del territorio, all’interno di un processo di pianificazione che non si esaurisce nel piano in sé.

3.2 Per una pianificazione “progressista”

In aggiunta alle suddette proposizioni generali, ritengo che la funzione “ pubblica” della pianificazione, in un quadro ideologico e politico che definirò provvisoriamente“progressista”, sia ulteriormente definita da 4 principali attributi:

Posizione “critica”. Un primo attributo fondamentale del pianificatore “pubblico” progressista è, a mio avviso, il mantenimento di una posizione “ critica” rispetto ai discorsi egemonici o dominanti (Moulaert 2002; Edwards 2002). Nella congiuntura contemporanea, in particolare, occorre resistere alla supremazia dell’economico sul sociale , sia in termini di analisi, che in termini di progettazione . Le sollecitazioni ad “accodarsi” alle logiche del mercato e del capitale sono forti. La parola d’ordine “successo competitivo” ha sostituito quella di “benessere collettivo” (Ave 2002). I vecchi paradigmi dell’equità e dell’analisi sociale (marxista) dei processi economici, assieme al nuovo paradigma della sostenibilità devono essere riaffermati con forza.

L’obiettivo dell’equità . La funzione prima della pianificazione è quella di garantire un equa distribuzione dei benefici derivanti dall’intervento pubblico. In effetti, quello che differenzia la pianificazione “pubblica” da quella privata o aziendale è proprio l’enfasi sul “progresso sociale”, cioè su una visione del progresso che include tutti i gruppi sociali, anche quelli socialmente e territorialmente marginalizzati. L’obiettivo dell’equità, come ho già detto, è problematico nella pratica, nella misura in cui deve effettuare compromessi con quello dell’efficienza, anche sul piano della gestione finanziaria e politica delle risorse. Ma è precisamente quello che legittima il ruolo “pubblico” della pianificazione e deve essere riaffermato.

Democrazia e “empowerment”. Fortemente intrecciato alla preoccupazione redistributiva è l’ enfasi sulla pratica democratica e trasparente del processo di pianificazione. Se la pianificazione, come afferma Albrechts (2002) deve essere il veicolo per raggiungere obiettivi che siano condivisi dal maggior numero possibile di persone e integrino il maggior numero possibile di interessi, l’uso di procedure trasparenti e democratiche di concertazione è imprescindibile, specie in contesti sociali fortemente frammentati e conflittuali come quelli attuali. D’altro canto, come ho già detto, i processi di concertazione sono fortemente viziati da relazioni di potere ineguale. Nonostante l’enfasi posta sulla partecipazione e concertazione dai discorsi attuali, troppo spesso i tavoli di concertazione includono solo i gruppi di interesse più forti (proprietari di su oli, imprese immobiliai e di costruzione, imprenditori, etc.), cioè quelli che hanno voce e potere. Nella maggior parte delle aree depresse la mancanza di fiducia tra istituzioni e tra queste e i cittadini è un forte ostacolo alla concertazione, per non parlare della partecipazione. Il pianificatore pubblico deve identificare gli interessi e i bisogni in gioco, anche quelli muti, e creare i “meccanismi” della concertazione, per dar voce e potere ( empowerment) anche ai gruppi esclusi.

Sostenibilità. Infine, il pianificatore contemporaneo deve assumere appieno il paradigma della sostenibilità. Al di là della retorica e dell’uso indiscriminato e ambiguo che se ne fa, il concetto di sviluppo sostenibile ha due dimensioni fondamentali: da una parte significa formulare e attuare progetti/piani che non sottraggano irreversibilmente risorse alle generazioni future; dall’altra, significa formulare e attuare progetti che siano sostenibili nel lungo periodo, cioè che siano “durevoli” e diventino “autopropulsivi” da un punto di vista sociale oltre che economico, attraverso l’integrazione e la valorizzazione di tutte le risorse istituzionali, umane e materiali di un territorio. La costruzione di “capitale sociale” in un ottica sostenibile significa abbassare, tra l’altro, le aspettative di redditività economica degli investimenti. Significa sostituire una visione pubblica dello sviluppo – che dia maggior valore al capitale sociale e al futuro – alla visione privatistica – basata su rapidi ed alti tassi di profitto. Questa visione sostenibile è in totale contrasto con l’attuale concezione e pratica dell’intervento pubblico, che sembra orientata piuttosto alla privatizzazione dei benefici e alla socializzazione dei costi.

Le proposizioni qui avanzate sono fortemente ideologiche e politiche. Mi sembra tuttavia, che rappresentino gli attributi su cui si gioca la distinzione tra l’attuale visione egemonica della pianificazione e – come base minima di partenza – una rivisitata tradizione di riformismo democratico, che non può essere abbandonata.

Per Apollo Medico, per Esculapio, Igea e Panacea giuro, e tutti gli dei e le dee chiamo a testimoni che questo mio giuramento e questa scritta attestazione osserverò integralmente con ogni vigoria e intelligenza.

Il Maestro che mi insegnò quest'arte terrò in conto di padre; e quanto sarà necessario alla di lui vita e quanto avrà bisogno con animo riconoscente gli darò, e i suoi figli considererò come i miei propri fratelli; e, se quest'arte essi vorranno apprendere, senza compensi e senza patteggiamenti insegnerò; delle mie lezioni e dimostrazioni, e di tutto quanto ha attinenza con la disciplina medica, i miei figli e i figli dei miei precettori renderò partecipi, e con essi quanti per iscritto si saranno dichiarati miei discepoli ed avranno prestato giuramento; all'infuori, però, di questi, nessuno.

Per quanto riguarda la cura dei malati prescriverò la dieta più opportuna secondo il mio giudizio e la mia scienza, e i malati difenderò da ogni danno e inconveniente.

Né presso di me alcuna richiesta sarà valida per indurmi a somministrare veleno a qualcuno, né darò consigli di tal genere.

Similmente non opererò sulle donne allo scopo di impedire il concepimento e di procurare l'aborto.

E, invero, proba la mia vita conserverò e immacolata l'arte mia. Né eseguirò operazioni per togliere la pietra ai sofferenti di calcoli, ma ciò lascerò fare ai chirurghi esperti in quest'arte.

In qualunque casa entrerò solamente per recare aiuto ai malati, e mi asterrò da ogni ingiusta azione e immoralità, come da ogni impuro contatto.

E tutto ciò che nell'esercizio della mia professione vedrò e udrò nella vita comune degli uomini, anche se indipendente dall'arte medica, in assenza di permesso, tacerò e terrò quale segreto.

Se a questo giuramento presterò intatta fede e se saprò lealmente osservarlo mi sia data ogni soddisfazione nella vita e nell'arte, e possa avere meritata fama in perpetuo presso gli uomini.

Ma, se al mio giuramento dovessi mancare, o se avessi giurato il falso, possa accadermi tutto il contrario.

-----------------------

Ippocrate

Nato nell'isola di Cos da una famiglia di origini aristocratiche e di antiche tradizioni mediche, è considerato il medico più famoso dell'antichità, fondatore dell' ars medica antiqua.

A quei tempi l'arte medica veniva tramandata di padre in figlio, e il grande merito di Ippocrate fu proprio quello di "iniziare" alla medicina anche persone non appartenenti all'ambito familiare del maestro, e di modificare l'antico concetto di malattia, secondo il quale questa era dovuta all'intervento degli dei.

Egli osservò che lo stato di salute dipendeva esclusivamente da circostanze umane e seguiva il naturale corso della vita.

Nel suo famoso giuramento gettò le basi di regole comportamentali mediche ancora oggi efficaci e creò il concetto del segreto professionale, mostrando tutta la modernità dei suoi insegnamenti.

Per Ippocrate il compito del medico era quello di osservare i sintomi della malattia e di affiancare la natura nella sua opera guaritrice, per cui aveva bisogno di sviluppare ampiamente vista, udito e tatto.

Nella sua teoria umorale codificò i quattro umori (sangue, bile gialla, bile nera, flegma) che secondo le quantità presenti nel corpo umano erano responsabili dello stato di salute o di malattia.

Numerose sono le opere che ci ha lasciato, tra le quali risaltano in maniera particolare quelle relative alla chirurgia, alla ginecologia, alle epidemie e al comportamento che doveva avere un medico davanti al paziente.

Tuttavia, in questo “Codice della condotta morale e professionale del planner” adottato nel 1981 dall’ American Institute of Certified Planners (me lo ha fornito Fabrizio Bottini) si riscontrano singolari analogia con le più classiche (e con le più avanzate) impostazioni europee. Anche oltre l’Atlantico, dove la committenza (a differenza che in Europa, è largamente privata, le prime responsabilità del Planner sono nei confronti del Pubblico: “Il primo dovere del planner è servire il pubblico interesse”. E sebbene egli debba “ accettare le decsioni del cliente concernenti gli obbiettivi e la natura dei servizi professionali prestati”, egli è sciolto da questo obbligo quando “lo svolgimento dell’azione determina una condotta illegale o incoerente con il dovere primario del planner nei confronti del pubblico interesse”. È certamente una lettura utile per chi ragiona attorno alla figura dell’urbanista.

This Code is a guide to the ethical conduct required of members of the American Institute of Certified Planners. The Code also aims at informing the public of the principles to which professional planners are committed. Systematic discussion of the application of these principles, among planners and with the public, is itself essential behavior to bring the Code into daily use.

The Code’s standards of behavior provide a basis for adjudicating any charge that a member has acted unethically. However, the Code also provides more than the minimum threshold of enforceable acceptability. It sets aspirational standards that require conscious striving to attain.

The principles of the Code derive both from the general values of society and from the planning profession’s special responsibility to serve the public interest. As the basic values of society are often in competition with each other, so also do the principles of this Code sometimes compete. For example, the need to provide full public information may compete with the need to respect confidences. Plans and programs often result from a balancing among divergent interests. An ethical judgment often also requires a conscientious balancing, based on the facts and context of a particular situation and on the precepts of the entire Code. Formal procedures for filing of complaints, investigation and resolution of alleged violations and the issuance of advisory rulings are part of the Code.

The Planner’s Responsibility to the Public

A. A planner’s primary obligation is to serve the public interest. While the definition of the public interest is formulated through continuous debate, a planner owes allegiance to a conscientiously attained concept of the public interest, which requires these special obligations:

1) A planner must have special concern for the long range consequences of present actions.

2) A planner must pay special attention to the interrelatedness of decisions.

3) A planner must strive to provide full, clear and accurate information on planning issues to citizens and governmental decision-makers.

4) A planner must strive to give citizens the opportunity to have a meaningful impact on the development of plans and programs. Participation should be broad enough to include people who lack formal organization or influence.

5) A planner must strive to expand choice and opportunity for all persons, recognizing a special responsibility to plan for the needs of disadvantaged groups and persons, and must urge the alteration of policies, institutions and decisions which oppose such needs.

6) A planner must strive to protect the integrity of the natural environment.

7) A planner must strive for excellence of environmental design and endeavor to conserve the heritage of the built environment.

The Planner’s Responsibility to Clients and Employers

B. A planner owes diligent, creative, independent and competent performance of work in pursuit of the client’s or employer’s interest. Such performance should be consistent with the planner’s faithful service to the public interest.

1) A planner must exercise independent professional judgment on behalf of clients and employers.

2) A planner must accept the decisions of a client or employer concerning the objectives and nature of the professional services to be performed unless the course of action to be pursued involves conduct which is illegal or inconsistent with the planner’s primary obligation to the public interest.

3) A planner must not, without the consent of the client or employer, and only after full disclosure, accept or continue to perform work if there is an actual, apparent, or reasonably foreseeable conflict between the interests of the client or employer and the personal or financial interest of the planner or of another past or present client or employer of the planner.

4) A planner must not solicit prospective clients or employment through use of false or misleading claims, harassment or duress.

5) A planner must not sell or offer to sell services by stating or implying an ability to influence decisions by improper means.

6) A planner must not use the power of any office to seek or obtain a special advantage that is not in the public interest nor any special advantage that is not a matter of public knowledge.

7) A planner must not accept or continue to-perform work beyond the planner’s professional competence or accept work which cannot be performed with the promptness required by the prospective client or employer, or which is required by the circumstances of the assignment.

8) A planner must not reveal information gained in a professional relationship which the client or employer has requested be held inviolate. Exceptions to this requirement of non-disclosure may be made only when (a) required by process of law, or (b) required to prevent a clear violation of law, or (c) required to prevent a substantial injury to the public. Disclosure pursuant to (b) and (c) must not be made until after the planner has verified the facts and issues involved and, when practicable, has exhausted efforts to obtain reconsideration of the matter and has sought separate opinions on the issue from other qualified professionals employed by the client or employer.

The Planner’s Responsibility to the Profession and to Colleagues

C. A planner should contribute to the development of the profession by improving knowledge and techniques, making work relevant to solutions of community problems, and increasing public understanding of planning activities. A planner should treat fairly the professional views of qualified colleagues and members of other professions.

1) A planner must protect and enhance the integrity of the profession and must be responsible in criticism of the profession.

2) A planner must accurately represent the qualifications, views and findings of colleagues.

3) A planner, who has responsibility for reviewing the work of other professionals, must fulfill this responsibility in a fair, considerate, professional and equitable manner.

4) A planner must share the results of experience and research which contribute to the body of planning knowledge.

5) A planner must examine the applicability of planning theories, methods and standards to the facts and analysis of each particular situation and must not accept the applicability of a customary solution without first establishing its appropriateness to the situation.

6) A planner must contribute time and information to the professional development of students, interns, beginning professionals and other colleagues.

7) A planner must strive to increase the opportunities for women and members of recognized minorities to become professional planners.

The Planner’s Self-Responsibility

D. A planner should strive for high standards of professional integrity, proficiency and knowledge.

1) A planner must not commit a deliberately wrongful act which reflects adversely on the planner’s professional fitness.

2) A planner must respect the rights of others and, in particular, must not improperly discriminate against persons.

3) A planner must strive to continue professional education.

4) A planner must accurately represent professional qualifications, education and affiliations.

5) A planner must systematically and critically analyze ethical issues in the practice of planning.

6) A planner must strive to contribute time and effort to groups lacking in adequate planning resources and to voluntary professional activities.

1. Che cosa si intende per pianificazione strategica

Le origini

Il termine “pianificazione strategica”, come spesso accade è ormai diventato di uso comune nel linguaggio urbanistico e non, ma non sempre con l’appropriato livello di precisione/consapevolezza. E’, in effetti, un’etichetta ormai applicata in modo disinvolto ad una varietà di esperienze.

L’origine del termine strategia va ricercato nella scienza militare, assieme a quello di tattica. Come sintetizza Salzano (2003):

"La strategia è finalizzata al lungo periodo, all’intera condotta della guerra; la sua missione è raggiungere il fine ultimo. La tattica è finalizzata al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di quell’evento più vasto che è il campo della strategia.

"La strategia è la guerra, la tattica è la scaramuccia, la battaglia, la ritirata. Per vincere una guerra (strategia) si può anche perdere una battaglia o ordinare una ritirata (tattica)."

La nozione di strategia è stata poi adottata in economia aziendale. Le imprese definiscono strategie di lungo periodo per raggiungere precisi obiettivi aziendali, attraverso misure ed azioni di breve periodo. La pianificazione strategica è ormai pratica consolidata nelle aziende moderne e tecnica basilare nelle scuole di business administration.

Dall’ economia aziendale il concetto è stato poi traslato alla pianificazione territoriale. A partire dagli anni ’80, e soprattutto negli anni ’90, in varie città d’Europa sono state sperimentate nuove procedure di pianificazione urbana, che travalicano gli strumenti urbanistici tradizionali di tipo vincolistico e legati essenzialmente alla destinazione d’uso dei suoli (Piano Regolatore Generale, Master Plan, ecc.) e vengono più o meno esplicitamente designate con il termine di pianificazione “strategica”. Con il nuovo millennio, il Piano Strategico ha fatto la sua comparsa anche in Italia.

Definizioni e caratteristiche della pianificazione strategica

Da allora sono state fornite innumerevoli, anche molto diverse, e spesso fuorvianti definizioni di pianificazione strategica territoriale (cfr. Salzano 2003). Qui di seguito ne riporto due che mi sembrano le più aderenti alla concezione attuale di PS.

"I piani strategici agiscono attraverso la costruzione ampia di un impegno collettivo che incorpora la molteplicità dei centri decisionali a partire dal basso e la fa convergere su una visione socio-politica della città e del suo territorio proiettata in un futuro anche lontano, ma realizzabile sulla base di partenariati, di risorse, di tempi individuati, di interessi convergenti, del monitoraggio dell’efficacia dei tempi di attuazione" ( Spaziante 2003, p.42)

"… approcci di pianificazione che si riferiscono all’area vasta: che aspirano a definire grandi indirizzi di sviluppo (economico, sociale e ambientale) di un territorio integrato (urbano/periurbano/rurale) e a renderne le dinamiche insediative più coerenti con i principi dello sviluppo sostenibile (competitività/solidarietà/cura dell’ambiente) attraverso modelli di governance capaci di costruire un’idea di cittadinanza metropolitana certamente rispettosa delle identità locali, ma più cooperante e lungimirante". (Gibelli 2003, p. 62)

Una differenza fondamentale della pianificazione strategica territoriale, rispetto a quella militare o aziendale, tuttavia, va subito segnalata. A differenza dell’ambito militare o aziendale, nella pianificazione territoriale non vi è centralizzazione dell’autorità e le decisioni non possono essere “imposte”. In un regime democratico e in una società ad economia di mercato con una pluralità di attori, qualunque strategia deve in qualche misura basarsi sul “consenso” (ci si può interrogare sulle somiglianze con la pianificazione “indicativa” del periodo corporativo).

"Ma assumere una prospettiva di lunga durata in un campo di decisioni diverso da quello militare (dove vige un regime monocratico) comporta la necessità di assicurare alle decisioni un consenso ampio, che vada al di là delle oscillazioni della politica e quindi possa garantire la continuità del processo. Ecco allora che, dove si opera in un ambito caratterizzato da un regime democratico, il concetto di strategia deve arricchirsi di quello di consenso". (Salzano 2003)

Al di là delle diverse definizioni vi è, tuttavia, una certa convergenza sulle principali caratteristiche che connotano la pianificazione strategica in ambito territoriale – e la distinguono dagli strumenti urbanistici tradizionali – alcune delle quali strettamente interconnesse (cfr. anche Fera 2002, Gibelli 2003):

a)il carattere negoziato e, possibilmente, partecipato – piuttosto che autoritario e prescrittivo – del piano, attraverso la costruzione di una “visione” del futuro condivisa dal maggior numero di attori locali;

b)il carattere operativo – cioè orientato alla promozione di azioni e progetti – piuttosto che passivo e vincolistico (si “promuovono” progetti, piuttosto che “concedere” licenze);

c) il carattere flessibile – cioè suscettibile di aggiustamenti e revisioni – invece che rigido;

d)l’approccio integrativo (economia, società, ambiente, cultura), che non solo supera e ricompone il tradizionale approccio settoriale della pianificazione, ma mette anche in relazione una pluralità di attori;

e)la funzione di quadro strategico di lungo periodo entro il quale assicurare coerenza ai singoli progetti;

f) la partnership pubblico-privato nella promozione (e nel finanziamento) degli interventi;

g)la dimensione territoriale di area vasta, cioè sovracomunale, che superando “gli eccessi del localismo”, rilancia la necessaria concertazione tra livelli di governo diversi (Gibelli 2003);

h)l’adesione ai principi dello sviluppo sostenibile, che comporta tra l’altro l’introduzione di valutazioni anche di tipo qualitativo (qualità della vita, sviluppo umano, conservazione delle risorse non rinnovabili, etc.).

La dimensione “mistica” del PS

Se queste sono le caratteristiche salienti della pianificazione strategica contemporanea. Vediamo quali sono le sue funzioni e i suoi scopi. Gli obiettivi della pianificazione strategica, possono essere analizzati secondo una duplice ottica. Da una parte vi sono gli obiettivi specifici del piano, generalmente articolati in funzione delle specificità dell’area e della “visione” del suo futuro: la riconversione, il rilancio, l’internazionalizzazione, il recupero, la competitività, l’innovazione, la decongestione, la qualità della vita, etc. Da un altro punto di vista, però, il piano strategico va inteso come un processo, non solo tecnico ma anche e soprattutto sociale. Tra gli obiettivi più ambiziosi della pianificazione strategica – intesa come processo – va menzionata la costruzione o il rafforzamento del capitale sociale locale, attraverso un processo di apprendimento collettivo. Anche di capitale sociale si poarla sempre più spesso e non sempre a proposito. Secondo Mutti (1998, p.13), il capitale sociale:

… consta di relazioni fiduciarie (forti e deboli, variamente estese e interconnesse) atte a favorire, tra i partecipanti, la capacità di riconoscersi e intendersi, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi reciprocamente e di cooperare a fini comuni.

Questo processo di costruzione e/o rafforzamento del capitale sociale dovrebbe avvenire attraverso la promozione della comunicazione, della partecipazione, della fiducia e della cooperazione, ovvero attraverso la mobilitazione di tutta la società civile attorno a quella “visione” condivisa del futuro locale che si configura nel piano strategico (Camagni 2003). Il piano strategico, inoltre, proprio attraverso la visione condivisa del futuro collettivo, può contribuire a creare/rafforzare un senso di identità territoriale nella cittadinanza. Contribuisce a rigenerare la fiducia nella nella pianificazione e quindi nell’intervento pubblico in generale, come garante dell’interesse collettivo e della democrazia (Albrechts et al. 2003). Può promuovere, infine, nuove forme di governance[1], intesa come gestione “dal basso”, attraverso le quali è la città intera e non più la sola amministrazione locale al centro dei processi di decisione e di trasformazione territoriale (Salzano 2003, Donolo 2003).

Questi obiettivi di costruzione di “capitale sociale” del piano inteso come processo sono, come ho detto, estremamente ambiziosi. Su questa sorta di visione “mistica” del piano si sta costruendo una vera e propria retorica della pianificazione strategica. Il piano assume funzioni “taumaturgiche” (Gastaldi, 2003). Ed è proprio all’interno di questa visione mistica del piano che si annidano anche i principali nodi. Per affrontarli è utile fare un breve riepilogo del contesto storico nel quale emerge la pianificazione strategica.

2. Alcuni nodi critici

Il contesto storico

La nuova stagione di pianificazione flessibile e strategica nasce e si sviluppa in Europa in un momento storico – gli anni ’80 – che vede il paradigma neo-liberale sostituire quello keynesiano-fordista e l’intervento pubblico contrarsi e ritrarsi in tutti i campi, incluso quello della pianificazione. E’ un periodo di profonda crisi della politica, durante il quale si sgretola il patto corporativo che aveva garantito stabilità al regime keynesiano-fordista. In particolare, la politica dei partiti – che erano profondamente radicati nelle classi sociali che rappresentavano e poteva esplicarsi su strategie di lungo periodo – è stata sostituita da un sistema di leadership fortemente personalizzata e da strategie – mandati – di breve periodo: risultati a tutti i costi. Si accorciano tempi della politica e si ricerca spesso il facile e demagogico successo.

La dimensione “globale” dello spazio economico, che contribuisce ad accentuare la concorrenza tra luoghi, da una parte, e a modificarte il ruolo dei diversi livelli di governo, dall’altro. E’ un periodo di re-scaling istituzionale, in cui alla globalizzazione crescente di alcuni attori (le grandi transnazionali) e istituzioni (OMC, UE, etc.) si contrappone una perdita di legittimità dei governi nazionali e un forte rilancio dei governi locali.

E’ anche un periodo di crisi della pratica (della gestione) urbanistica. Si è verificato uno scollamento tra tempi e approcci della pianificazione urbanistica tradizionale e tempi e dinamiche delle trasformazioni territoriali. Queste ultime sono molto più rapide e si caratterizzano per modalità affatto diverse da quelle previste dall’urbanistica tradizionale (città non più in crescita ma indeclino, urbanizzazione diffusa, aree dismesse, nuove modalità di comunicazione, etc.), a fronte di un peggioramento di alcune vecchie dinamiche (congestione dovuta al traffico automobilistico, immigrazione, peggioramento della qualità urbana, etc.). La funzione del piano tradizionale di regolare e contenere, attraverso un sistema di vincoli si è così svuotata. Questo scollamento ha portato ad una pratica urbanistica “in deroga” nei casi migliori e all’abusivismo più selvaggio nei casi peggiori.

E’ contro questo sfondo che si può leggere l’evoluzione della pianificazione strategica europea e si possono identificare le differenze di “generazione”, in particolare – come ha messo in luce Gibelli (1996) – tra la generazione dei PS degli anni ’80 (USA, Inghilterra, Olanda, Francia, Spagna) nei quali prevalgono la componente deregolativa e la logica aziendalistica, attorno ai grandi interventi di rivalorizzazione urbana, e la generazione dei PS della seconda metà degli anni ’90, più attenti a creare sinergie tra decisori, attorno ad una visione condivisa, con un approccio, appunto, di tipo “integrativo”. A questa generazione di piani sembrano appartenere i primi piani italiani degli anni 2000.

I nodi

D’altro canto, l’affermarsi della pianificazione strategica come nuovo ‘paradigma’ della pianificazione territoriale e l’adesione entusiastica – specie in Italia – a quella che ho chiamato dimensione “mistica” del nuovo corso rischiano di oscurare alcuni alcuni nodi critici, che configurano altrettanti rischi istituzionali e sociali e di cui occorre essere coscienti.

1. Un primo nodo è quello della effettiva partecipazione della società civile ai processi di formulazione e decisione. Attuare un vero processo partecipativo in una società complessa come quella attuale è molto difficile.

2. Un secondo problema, collegato al primo è quello della disuguaglianza tra soggetti/interessi, determinata dalla loro diversa capacità contrattuale. Tra gli interessi privati, vi sono quelli imprenditoriali e immobiliari “forti”(Camagni 2003) e vi sono quelli “diffusi” (Salzano 2003), cioè quelli di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse per una comunità, piccola o grande che sia. Questi ultimi attori generalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni, ma sono comunque in grado di organizzarsi. Vi sono poi gli interessi “deboli” che spesso non riescono nemmeno a mobilitarsi (gli “esclusi”). Chi rappresenta gli interessi deboli e dà voce agli esclusi?

3. Un altro nodo è connesso ai fallimentidella negoziazione senza una qualche forma di autorità che faccia da arbitro. Tra gli esiti possibili della negoziazione assunta a paradigma vi sono lo stallo e la deregolamentazione, che raramente garantiscono risultati socialmente accettabili nel lungo periodo.

4. Collegato al precedente è il nodo del rapporto tra autorità pubblica (teoricamente garante del bene collettivo) e interessi privati, specie nel caso di iniziative a capitale misto. Chi indirizza chi?

5. Strettamente collegato ancora è il problema della definizione dell’ interesse pubblico/collettivo/comune di cui l’autorità pubblica dovrebbe essere garante (su questo argomento si veda Moroni 2003). Evidentemente il bene comune non può essere determinatosolo dal processo partecipativo. Come osserva Salzano (2003) alcune istituzioni sono garanti di interessi e beni pubblici indiscutibili (soprintendenze, protezione civile, pubblica sicurezza, difesa del suolo, etc.), ma nella maggior parte dei casi la definizione di cosa costituisca l’interesse pubblico è molto più vaga.

6. Altro nodo ancora è il diverso orizzonte temporale tra pianificazione, progetti e politica: lungo per il piano strategico (10-15 anni); corto per i mandati elettivi di governo (sindaci, etc.) e per la realizzazione di progetti. Questo sfalsamento ha portato numerosi osservatori a sviluppare la distinzione tra quelli che devono essere gli elementi “strutturali” (invarianti) dei piani e quelli flessibili (i progetti). A questo nodo si ricollega, in effetti, quello del rapporto tra la pianificazione strategica e la strumentazione urbanistica tradizionale.

I rischi

I rischi, rispetto a questi nodi sono numerosi, alcuni dei quali si possono intravvedere anche nei casi che saranno presentati oggi.

Un rischio rilevante, è la strumentalizzazione del piano, attraverso la finzione demagogica del consenso, per legittimare scelte di gruppi di interesse ‘forti’, già prese altrove (il consenso maschera un compromesso tra interessi forti al di fuori del piano). Nei luoghi in cui il capitale sociale è debole, il pericolo di esiti deregolativi, contrabbandati come “flessibilità”, ma in realtà funzionali ad obiettivi di mera rivalorizzazione urbana o pura speculazione edilizia, è molto forte

In particolare, il PS non può essere usato per delegittimare il piano urbanistico ed il controllo pubblico sui meccanismi di trasformazione del territorio. L’ultima generazione di piani – in parte come ripensamento critico dopo i deludenti risultati dei meccanismi affidati al mercato dei primi piani – sembrano riportare la pianificazione strategica nell’alveo di una gestione pubblica delle trasformazioni. Come afferma Gibelli (2003), occorre ritornare ad una legittimazione delle istituzioni pubbliche nel campo della pianificazione e definire regole nella flessibilità.

Altro rischio è l’adozione di una visione strategica ‘alla moda’ per ottenere ampi consensi, senza che vi siano i presupposti locali per raggiungere quel tipo di obiettivi. L’ossessione con la necessità di essere “competitivi” ha portato all’imitazione acritica di modelli già sperimentati in località centrali, contribuendo ad un “appiattimento” della visione strategica e alla scomparsa della diversità (Gastaldi 2003).

Nel Sud questi pericoli di un uso spregiudicato della pianificazione strategica sono maggiormente presenti: esiste una società civile potenzialmente ricca e motivata, ma è scoraggiata e priva di fiducia nel sistema politico ed amministrativo. Non si esprime. Questo si vede, ad esempio nella gestione di molti POR e PIT, dove se, da una parte, i tavoli di concertazione e negoziazione vedono in alcuni casi un effettiva interazione tra attori locali, cosa che costituisce senz’altro una significativa innovazione sociale, dall’altra, gli interessi “deboli” – imprenditorialità “diffusa”, società civile, immigrati – restano nella maggior parte dei casi assenti e i progetti finanziati sono promossi dai “soliti noti”.

Alcuni requisiti minimi

Sulla scorta dei numerosi casi europei ormai in avanzata fase di attuazione, ma anche alla luce delle prime esperienze italiane (come vedremo oggi), sembra possibile affermare che affinché la pianificazione strategica intesa nel suo senso più ampio possa funzionare, sono necessari alcuni requisiti minimi, alcune condizioni di partenza, da sole o congiunte:

- un’amministrazione capace (forte, autorevole, radicata, competente, con spirito di servizio) o alternativamente una nuova “figura” istituzionale che guidi il PS, anche con consulenza esperta, ma non solo;

- una figura carismatica (leadership);

- una società civile forte;

- attori privati che esprimono interessi imprenditoriali e non legati alla rendita fondiaria (Salzano 2003);

- un clima di fiducia nel governo e nelle possibilità di governance e di orgoglio civico;

un’attitudine alla cooperazione tra diversi livelli di governo.

3. Obiettivi del seminario

I casi presentati oggi sono molto diversi. Alcuni – almeno 3 dei casi stranieri – appartengono alla prima generazione europea di piani strategici (fine anni ’80); gli altri – in particolare quelli italiani – appartengono alla seconda e forse terza generazione (fine anni ’90, inizio millennio). Ognuno di essi si situa in un contesto socioeconomico e istituzionale particolare. Si notano notevoli differenze, sia negli obiettivi, sia nel metodo. E tuttavia proprio nelle loro differenze, questi casi possono essere utili per capire alcune cose.

Nella mattinata saranno presentate 4 esperienze europee: in primo luogo, quelle di Bilbao e Lille, tra le prime città metropolitane d’Europa ad affrontare il problema del loro riassetto territoriale in termini di pianificazione strategica già alla fine degli anni ’80; poi quella di Groningen (Olanda), che forse più di tutte appartiene alla tipologia dei grandi progetti di rinnovo urbano; infine l’esperienza di Praga, il cui piano strategico approvato nel 2000 è divenuto un punto di riferimento per lo sviluppo di molte città medie e grandi dell’Est Europa. I primi tre casi saranno presentati da docenti univeritari delle città in questione, che ne hanno seguito attentamente gli sviluppi nel tempo; il quarto dal direttore del piano stesso. A discutere dei casi Europei sono stati invitati la Prof. Maria Cristina Gibelli, docente di Urbanistica presso il Politecnico di Milano, che da anni segue l’evoluzione della pianificazione strategica in Europa, e il Prof. Louis Albrechts dell’Università Cattolica di Lovanio, il quale, oltre che docente di Urbanistica, ha anche contribuito alla recente revisione della legislazione urbanistica delle Fiandre.

Nel pomeriggio saranno invece presentati 3 casi italiani: quello di Torino, il primo piano strategico italiano, approvato il 29 febbraio 2000 e già al suo terzo anno di attuazione, quello di Firenze aaprovato nel dicembre 2002 e quello di Pesaro, approvato quest’anno. A discutere di questi casi sono stati invitati il Prof. Franco Corsico, docente di Urbanistica e assessore all’urbanistica di Torino dal 1993 al 2001, e il Prof. Giuseppe Fera, docente di Teorie dell’urbanistica della Facoltà di Architettura di Reggio Calabria e attento osservatore della realtà urbana meridionale.

Obiettivo della discussione è verificare in quale misura i “nodi” prima identificati sono stati affrontati e/o risolti nelle diverse esperienze. In particolare, si cercherà di affrontare le seguenti questioni:

Il ruolo dell’autorità pubblica. Che rapporto si è determinato tra amministrazione pubblica e attori privati – chi ha indirizzato chi? In altre parole, in che misura il pubblico è riuscito ad incidere sulle strasformazioni della città? E’ riuscito ad indirizzare le scelte in termini socialmente inclusivi o ha solo ratificato le scelte degli interessi economici forti?.

Sul piano degli esiti: ha avuto successo il piano? Nella sua duplice dimensione: a) rispetto agli obiettivi che si era prefissato, cioè gli obiettivi “ufficiali” del piano (riconversione, internazionalizzazione, etc.); b) come processo, cioè il piano come costruzione di capitale sociale. E’ riuscito a stimolare, rafforzare, sviluppare la partecipazione, l’identità territoriale, la fiducia, etc. E’ stato effettivamente un piano partecipato? E’ riuscito a coinvolgere anche gli interessi “deboli”?

Sul piano della metodologia: in che misura il PS ha rappresentato una innovazione istituzionale e sociale rispetto alla prassi urbanistica consolidata del paese o della regione? In particolare, in che modi si relaziona con la pianificazione urbanistica tradizionale (la pianificazione “fisica”)? Dialogo, sostituzione, conflitto? La risposta a questo quesito cambia evidentemente a seconda del contesto, ma credo sia cruciale soprattutto in Italia, dove la pianificazione urbanistica tradizionale è in una fase di profonda revisione, attraverso le legislazioni regionali.

E, infine, cosa possiamo imparare da ognuna di queste esperienze? Quale è la lezione che ognuno di questi esempi può darci? Si possono identificare prassi ottimali, o alternativamente errori da non ripetere?

Io credo che nel tentare di rispondere a queste domande dobbiamo cercare di restare critici, ma in modo costruttivo. Per quanto riguarda alcuni casi italiani, in particolare, io credo che l’essere riusciti a mettere in movimento meccanismi di discussione e interazione tra attori diversi – i tavoli di concertazione tra diversi livelli di governo, i tavoli di negoziazione tra organizzazioni rappresentanti gruppi diversi di interesse (da quelli imprenditoriali, a quelli sindacali, alle associazioni civiche e non-profit), le forme, anche imperfette, di comunicazione e partecipazione da parte della cittadinanza – sia già un risultato di grande portata, specie in un momento di crisi della gestione urbanistica in particolare e della politica in generale. Certo, il nodo degli interessi “forti” e della loro capacità di prevalere – in modo più o meno esplicito – resta e va valutato caso per caso.

Riferimenti bibliografici

Albrechts L., P. Healy e K. Kunzmann, Strategic spatial planning and regional governance in Europe, Journal of theAmerican Planners Association Vol. 69 n. 2, 2003

Albrechts L., Strategic (spatial) planning revisited, paper presentato al Congresso annuale della APSA, Hanoi, settembre 2003

Camagni R., Piano strategico, capitale relazionale e community governance, in Pugliese T. e A. Spaziante (a cura di) Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, F. Angeli, Milano 2003

Donolo C., Partecipazione e produzione di una visione condivisa, in Pugliese T. e A. Spaziante (a cura di) Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, F. Angeli, Milano 2003

Fera G., Urbanistica. Teorie e storia, Gangemi, Reggio Calabria 2002

Gastaldi F., Pianificazione strategica in Italia: prime riflessioni a partire dai casi, in Pugliese T. e A. Spaziante (a cura di) Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, F. Angeli, Milano 2003

Gibelli M.C., Flessibilità e regole nella pianificazione strategica, in Pugliese T. e A. Spaziante (a cura di) Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, F. Angeli, Milano 2003

Gibelli M.C., Tre famiglie di piani strategici: verso un modello ‘reticolare’ e ‘visionario’, in Curti F e M.C. Gibelli (a cura di) Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano, Alinea, Firenze 1996

Moroni S., L’interesse pubblico. Un concetto screditato o ancora rilevante per la pianificazione del territorio?, CRU - Critica della Razionalità Urbanistica n. 13, 2003

Mutti A., Capitale sociale e sviluppo, Il Mulino, Bologna 1998

Salzano E., Le nuove leggi urbanistiche: l’opportunità per costruire nuove strategie territoriali e nuove relazioni tra istituzioni, cittadini e operatori economici, materiali per il Corso per funzionari pubblici “Conoscere e ripensare per ripensare e pianificare”, ottobre 2003 (http://eddyburg.it, novembre 2003); ora in: Fondamenti di urbanistica, Editori Laterza, Bari 2003 (V edizione)

Spaziante A., Introduzione, in Pugliese T. e A. Spaziante (a cura di) Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, F. Angeli, Milano 2003

[1] Per governance, altro termine abusato senza adeguata definizione si intendono qui le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica (cfr. Salzano 2003 per una rassegna).

Ho letto con interesse l’articolo di Salvatore Bonadonna sulla proposta del nuovo Piano Regolatore di Roma, pubblicato su Liberazione del 15 marzo 2002, e condivido molte delle critiche che egli esprime ai suoi contenuti e ai limiti di partecipazione con cui essi sono stati individuati.

Ciò nonostante, mi pare che gli argomenti esposti indichino anche i limiti che il partito ha nell’affrontare il tema urbanistico, nell’utilizzare al meglio tutta la strumentazione legislativa che le forze di sinistra hanno saputo conquistare nel corso degli anni Sessanta e Settanta, prima della spinta deregolamentativa degli anni Ottanta e Novanta, che fu favorita anche da una deriva in tal senso dei governi di centrosinistra, e che, tuttavia, non ha cancellato del tutto quelle conquiste. Il problema è che la cultura diffusa nel partito spesso non ne ha memoria o, peggio, si fa convincere da un’opinione diffusa e interessata che dichiara quegli strumenti desueti ed impraticabili.

Sono, innanzitutto, un po’ sorpreso che tra gli obiettivi che Bonadonna cita tra quelli che Rifondazione intende verificare per esprimere il proprio giudizio sulla condivisibilità delle previsioni del Piano regolatore non venga indicato come fondamentale che contestualmente all’approvazione del P.R.G. si proceda alla verifica dello stato di attuazione del Piano di Zona dell’edilizia economica popolare, ed all’approvazione dell’aggiornamento delle sue previsioni in modo tale da garantire che un minimo del 40% (ma per legge si può arrivare sino ad un massimo del 70%) delle previsioni di fabbisogno residenziale stimate per la formulazione del P.R.G. e tra le aree a tale funzione destinate, sia soddisfatto da attuazione destinata all’edilizia economico popolare, nel rispetto delle vigenti disposizioni dell’art.3 della L. 167/62, tutt’ora vigente anche se spesso sempre più disatteso. Eppure questo era uno degli obiettivi per cui in precedenti articoli Bonadonna aveva dichiarato ci saremmo battuti strenuamente.

Inoltre mi sembrerebbe fondamentale chiedere che nei criteri di attuazione di tali Piani di Zona si privilegi l’assegnazione in diritto di superficie (la legge prevede che possa giungere sino all’(80% delle aree destinate all’edilizia popolare), in modo da costituire un demanio permanente di aree su cui promuovere un uso sociale della città e del territorio, senza che ciò comporti nel tempo la necessità di mettere ad edificazione nuove aree.

La questione che sto ponendo, non è quella di un’errata o insufficiente azione dei compagni del consiglio comunale di Roma, ma quella assai più di fondo di quale sia la cultura politica del partito a riguardo della questione urbana, del sapere chi si è e che cosa si vuole, per usare le parole di un recente articolo di Riccardo Bellofiore sulle tesi congressuali.

So, infatti, bene per esperienza diretta che tali linee di indirizzo non sono diffuse e popolari neppure all’interno del nostro partito: degli oltre cento comuni del Consorzio per l’edilizia popolare milanese uno solo - quello in cui sono stato assessore dal 1994 al 1998 - ha rifiutato la trasformazione delle aree di edilizia popolare da diritto di superficie a diritto di proprietà, per far cassa, come prima consentito e, poi, addirittura incentivato da due successivi disposizioni di legge finanziaria dei governi di centrosinistra. Nessun altro, nemmeno quelli amministrati dalle sinistre con Rifondazione, e talvolta con l’assessore all’urbanistica di Rifondazione ! E’ davvero troppo lungo rispetto ai tempi brevi della politica e dei mandati amministrativi l’orizzonte dei sessanta/novant’anni del diritto di superficie, per comprendere che i cicli di trasformazione della città si confrontano con i tempi della lunga durata, e che alla lunga ci si troverà stretti nell’alternativa o di non fare più intervento sociale nell’uso della città o di doverlo fare scontando una nuova espansione residenziale ?

E, ancora oggi, quando – come spesso mi capita – svolgo una consulenza tecnico-politica per i compagni dei circoli di alcuni comuni posti di fronte alle proposte di nuove previsioni di piano regolatore, spesso mi sento obiettare che chiedere di vincolare aree per l’edilizia popolare per un periodo di diciotto anni rischia di farci apparire responsabili di un lungo periodo di non attuazione di quelle aree di fronte alla mancanza di adeguati finanziamenti pubblici e che spesso l’esperienza passata è che l’azione della cooperazione edilizia è stata oggetto di comportamenti non limpidi. Sono obiezioni comprensibili: in fondo nei quattordici punti con cui il nostro partito tentò di segnare il discrimine su cui misurare la possibilità di continuare a collaborare con i governi di centrosinistra, il rilancio del finanziamento dell’edilizia popolare e la riforma in senso partecipativo della cooperazione edilizia non apparivano tra i punti qualificanti! Debbo concluderne che la critica che dovetti subire allora da parte delle opposizioni come assessore del comune di Rho e cioè di personalistico, testardo, quasi monomaniacale accanimento su una posizione che nemmeno il partito cui appartenevo sembrava troppo interessato a praticare, avesse un fondo di verità?

Ma, ancor di più, mi riesce incomprensibile nell’articolo di Bonadonna il punto in cui critica la riattivazione dell'efficacia dei Programmi Pluriennali di Attuazione (P.P.A.), indicati come strumento di costrizione dell’autonomia dei comuni. In realtà i Programmi pluriennali di attuazione istituiti dalla legge 10/77, la cosiddetta legge Bucalossi, furono una innovazione progressiva della legislazione urbanistica, votata anche dalle sinistre, che ha consentito ai comuni di articolare una modulazione nel tempo dell’attuazione delle previsioni di piano regolatore in grado di meglio raccordare edificazione privata e dotazione di attrezzature pubbliche. La loro sospensione di efficacia, disposta da leggi finanziarie del centrosinistra del ‘96/’98, si iscrisse in una deriva di deregolamentazione che puntava ad un rilancio “selvaggio” dell’edilizia, in crisi dopo le vicende di Tangentopoli, ed aprì le porte alla sempre più estesa diffusione di una serie di piani in variante, che giustamente Bonadonna chiede non possano costituire elementi di destrutturazione della logica espressa dal Piano regolatore.

In genere ai compagni amministratori per opporsi a questa tendenza suggerisco di battersi perché il limite di variabilità che questi piani deregolamentativi (purtroppo istituiti da leggi nazionali e regionali a partire dal 1992, e, quindi, non improponibili in assoluto) possono apportare al piano regolatore, venga definito dalle stesse norme tecniche del Piano Regolatore, modificabili – quindi - solo con le procedure di pubblicazione/osservazioni del piano regolatore (una forma di partecipazione limitata, ma sempre più garantista della variabilità assoluta e caso per caso, altrimenti possibile e sempre più spesso praticata).

E’ chiaro che si tratta di un espediente tattico. Il passo definitivo da fare per opporsi a questa destrutturazione del Piano regolatore come momento nel quale la collettività riflette e decide circa le modalità sociali con cui una comunità insediata utilizza il proprio territorio, da questo punto di vista, non può che essere una tempestiva riproposizione in questa legislatura del disegno di legge in discussione nell’VIII commissione LL.PP.della Camera e decaduto per termine della legislatura precedente, che riprendeva la proposta dell’I.N.U. di un’articolazione fra Piano Strutturale, dotato di caratteri di rigidità sui temi di più ampia condivisione ( dimensionamento complessivo del piano, aree di tutela ambientale, reti strutturali fondamentali, ecc.; insomma, una sorta di Carta costituzionale del territorio che, in quanto tale dovrebbe essere approvabile e trasformabile solo con ampie procedure partecipative e maggioranze qualificate, ben al di là di quanto avvenga oggi con il Piano Regolatore, approvabile anche con un solo voto di maggioranza), ed un Piano Operativo flessibile, che – nei limiti determinati dal Piano Strutturale – definisca le modalità attuative che nel corso di un mandato amministrativo si assume una determinata maggioranza politica.

Ciò che noi dobbiamo riuscire a cogliere è che l’approvazione di una tale impostazione pianificatoria generale farebbe giustizia di tutta quella congerie di piani-progetti attuativi (P.I.I., P.R.U., P.R.U.S.S.T., ecc.) escogitati nella fase di destrutturazione logica dell’urbanistica che abbiamo attraversato, facendo venir meno l’alibi della sudditanza ad un Piano Regolatore totipotente e, quindi, spesso accusato di essere troppo rigido e stantìo nelle sue previsioni, per non dover essere variato con frequenza.

Un Piano Operativo di una durata quinquennale non potrebbe venir invocato come troppo vetusto, essendo del tutto coerente in termini di tempo con una fase urbana di attuazione (i programmi pluriennali di attuazione hanno durata da tre a cinque anni, i piani attuativi al massimo di dieci).

Il mutamento di un Piano Operativo, possibile come tutte le cose umane, dovrebbe tuttavia in tal caso comportare una nuova sanzione di mandato politico, come da molte parti si invoca per quanto riguarda il quadro politico nazionale.

Il Partito sta discutendo in tal senso ? I gruppi parlamentari hanno promosso iniziative al riguardo ? Non sarebbe opportuno farlo, nell’ambito di una linea politica che rivendichi la necessità di una legge quadro in materia urbanistica, in un momento in cui le regioni – sull’onda della riforma regionale approvata nella scorsa legislatura, sancita per referendum, e da noi non condivisa - si stanno muovendo verso nuove legislazioni regionali del tutto eterogenee nelle procedure, ma accomunate da un regime di liberismo dei piani attuativi rispetto al Piano regolatore ? E, nel frattempo, perché prendersela col ripristino dei P.P.A., che certo non hanno la portata strategica di una legge quadro, ma sicuramente reintroducono alcuni elementi di controllo pubblico sui ritmi di crescita dell’organismo urbano ? Non sarebbe meglio battersi con più forza e determinazione contro le falsificazioni ideologiche che spacciano per innovazione lo smantellamento dei principi della legge urbanistica del 1942 per tornare a quelli di un’urbanistica fatta tutta per piani attuativi della legge del 1865 ? e, quindi, mobilitarci per fermare l’entrata in vigore il prossimo 30 giugno dell’art. 58 comma 62 del decreto delegato sugli espropri per pubblica utilità, che surrettiziamente e senza alcuna discussione parlamentare, introdurrà l’abrogazione dell’intero titolo II della gloriosa (almeno a confronto di ciò che ci viene prospettato oggi) legge urbanistica del 1942, cioè della previsione di piani particolareggiati di iniziativa pubblica, sancendo così che i piani regolatori si attuano per singole opere pubbliche e per piani urbani interamente proposti dai privati ? Non si fornirebbero così quegli strumenti di gestione partecipata alla costruzione dell’uso di città, che altrimenti rischiano di rimanere una condivisibile, ma impraticabile, rivendicata aspirazione ?

Nell’articolo 54 dello “Statuto dei luoghi” del Piano strutturale del Comune di Sesto Fiorentino, approvato dal Comune nel 2004, assume per la prima volta carattere ufficiale la volontà di intitolare il Parco della Piana a Edoardo Detti, che ne fu il promotore. Lo inserisco qui sotto

ARTICOLO 54

DISPOSIZIONI RELATIVE ALL’UTOE: PIANA

1. Per l’ UTOE (Unità Territoriale Organica Elementare - ndr) della Piana l’obbiettivo principale delle trasformazioni è la formazione di un grande parco, in connessione con la città – a Nord – con l’Osmannoro – a Sud - e con i più rilevanti poli funzionali di interesse sovracomunale posti al contorno (Università, aeroporto, impianto di selezione e compostaggio).

2. La definizione dell’assetto del parco è affidata ad un progetto direttore, da redigere tenendo conto delle indicazioni della pianificazione sovracomunale e, in particolare, dello Schema strutturale dell’area metropolitana Firenze-Prato-Pistoia, approvato con Delibera del Consiglio Regionale della Regione Toscana n. 212 del 21 marzo 1990.

3. Il progetto direttore articola il territorio del parco in tre ambiti: corpo centrale denominato “Parco Edoardo Detti”, area della discarica Case Passerini e area del polo universitario - stagno di Peretola, schematicamente indicati nella tavola 5 “Ambiti paesistici omogenei” e stabilisce specifiche indicazioni per ciascun ambito.

4. L’assetto da conferire al parco deve tendere al raggiungimento dei seguenti obbiettivi:

a. incrementare la continuità ecologico-territoriale fra le zone collinari e l’Arno, favorendo l'innesco di processi di autoriproduzione spontanea della vegetazione, di autoregolamentazione dei cicli idrici per la riproduzione della riserva acqua ad uso plurimo, di zone umide.

b. favorire la fruizione ricreativa, garantendo una facile accessibilità attraverso una rete di collegamenti ciclabili-pedonali connessa alla rete del trasporto pubblico;

c. garantire l’inserimento armonico nel paesaggio degli interventi necessari per la sicurezza idraulica degli insediamenti (sulle aste e nelle aree destinate alla laminazione delle piene) attraverso un uso degli impianti vegetazionali e delle sistemazioni morfologiche orientato a tal fine;

d. mantenere il prevalente carattere agricolo, favorendo le forme agricoltura parco e di produzione vivaistico-forestale più compatibili con le altre funzioni del parco e incrementando il livello di biodiversità.

5. Il regolamento urbanistico recepisce le indicazioni del progetto direttore, con riferimento a ciascuno dei tre ambiti, e stabilisce:

a. le eventuali rettifiche al confine del parco rappresentato nelle tavole del piano strutturale;

b. le direttive e le prescrizioni per i piani attuativi e per i progetti di sistemazione, riguardanti le caratteristiche degli spazi verdi e della viabilità; le attrezzature da realizzare; i parametri edilizi; le utilizzazioni compatibili.

c. le specifiche prescrizioni relative alle attività agricole e produttive esistenti all’interno del parco delle quali si prevede il mantenimento, nonché al campo nomadi, onde assicurare il corretto inserimento delle opere nel contesto paesaggistico nonché le eventuali misure di mitigazione e/o compensazione dell’impatto sull’ambiente.

Nota

UTOE: Unità territoriale organica elementare, ai sensi della legge urbanistica della Toscana n. 5/1995

© 2025 Eddyburg