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La riforma urbanistica arriverà in commissione la prossima settimana, preceduta da un coro di critiche e di riserve che si preparano a entrare nel dibattito parlamentare. Per gli autori della riforma, Bruno Gabrielli, Giuseppe Trombino e Giuseppe Gangemi gli urbanisti ritrovatisi a lavorare nell´assessorato guidato da Francesco Cascio, si tratta soprattutto di semplificare le procedure di pianificazione per renderle effettive e ancorarle alle risorse disponibili. Per gli ambientalisti e per il cartello di urbanisti ritrovatisi nei Laboratori siciliani di ricerca territoriale l´impianto della legge, piega il territorio a logiche squisitamente economiche e scardina il sistema dei vincoli di salvaguardia dell´ambiente.

Dei tre saggi Bruno Gabrielli, urbanista di fama internazionale e assessore nella giunta di centrosinistra di Genova, ride di gusto e parla di equivoci.

Perché equivoci, professore?

«Noi non ci sogniamo affatto di fare a pezzi il territorio, né tantomeno di favorire nuovi scempi. È una cosa talmente lontana dal vero che non è neppure oggetto di discussione»

Insomma non si aspettava questa levata di scudi?

«Mi aspettavo critiche e riserve ma non con le motivazioni che sono circolate, la lettura della legge non le autorizza, sono prive di fondamento. Sono solo frutto di equivoci nati sulla base di una bozza incompleta poi corretta per evitare proprio dubbi di interpretazione».

Vi accusano di abrogare i vincoli esistenti e la legge ha un articolo apposito, non è così?

«È così, ma ce ne è un altro, quello sulle norme di salvaguardia. Recita espressamente che i vincoli che tutelano coste e boschi restano fino a che non sarà adottata la pianificazione provinciale».

E se la pianificazione non avviene?

«I vincoli sono raddoppiati. Il limite che impedisce qualsiasi cosa entro i 150 metri dalla costa raddoppia».

Con la pianificazione però i vincoli vengono meno. Si obietta che abolite delle certezze per sostituirle con una indicazione che forse tradisce un eccesso di fiducia nella capacità di pianificazione. Trova anche questo inaccettabile?

«È possibile che le critiche vengano da lì, ma è esattamente questo il punto: l´apposizione di vincoli che non tengono conto della realtà territoriale, che corrispondono a una dichiarazione indiscriminata, sono tecnicamente definiti stupidi, cioè ciechi. In altre parole prescindono dalla effettiva rispondenza a principi di pianificazione».

Crede che non ci siano spazi per nuovi abusi?

«La legge in sé non offre margini, né tantomeno crea aspettative di sanatoria, dunque tecnicamente la risposta è no. Poi vi è anche un problema di prospettiva. Se il sistema della pianificazione funziona meglio e più celermente ottiene l´effetto di una maggiore salvaguardia dell´ambiente».

E l´obiettivo della celerità credete di averlo raggiunto?

«La legge fa compiere un balzo in avanti in questa direzione, tuttavia è ancora troppo complicata, si possono sveltire ancora di più le pratiche. È l´assenza di piani a generare i vuoti che producono i guasti, ed è fondamentale avere piani che una volta pronti non siano già vecchi».

Qual è secondo lei il merito maggiore della norma?

«Quello di far chiarezza: una legge contro 29 abrogate, quello di avere una visione unitaria della pianificazione distribuita su più livelli, di garantire l´autonomia delle realtà comunali all´interno di una pianificazione provinciale e di una strategia regionale. Il nostro intento dichiarato è quello di un piano veramente unico. È ovvio che questo incontri resistenze, talvolta anche legate a gelosie sulle competenze dei vari assessorati e rendite di posizione».

Lei è assessore di una giunta di centrosinistra, che effetto le fa essere attaccato soprattutto da quel versante politico?

«Io non solo non ho alcuna simpatia politica per l´assessore Cascio e il governo Cuffaro, ma sono esponente di una giunta di segno contrario, tuttavia in questa vicenda ho messo la mia storia e la mia dignità su una riforma che ovviamente condivido e per la quale non ho subìto pressioni di sorta, né dall´assessore, né dal suo staff».

Le critiche degli ambientalisti

L’opinione di E. Salzano

L’opinione di V. De Lucia

Il testo della legge

Il testo del ddlr, approvato dalla Giunta regionale del Friuli Venezia Giulia nella seduta del 29 agosto 2005, ricalca in sostanza la bozza già divulgata informalmente da alcuni mesi e disponibile nel sito della Regione (sezione “Trasparente”).

Gli aspetti di maggior problematicità, dovuti anche ad una stesura assai carente sotto il profilo della tecnica legislativa, paiono essere i seguenti.

L’indeterminatezza

Il Titolo I (artt. da 1 a 8), secondo quanto dichiarato al c. 2 dell’art. 1, “esercita la sua efficacia nelle more del riordino organico della normativa regionale in materia di pianificazione territoriale e urbanistica”, ma non è chiaro in cosa consista tale “efficacia”, poiché gli artt. da 1 a 8 consistono sostanzialmente in una serie di dichiarazioni di principio o di intenti, da riempire di contenuti mediante successivo provvedimento normativo “di riordino organico della normativa regionale in materia di pianificazione territoriale e urbanistica”. Per quest’ultimo non vengono neppure indicate scadenze temporali di sorta.

L’art. 2 elenca ad esempio le “risorse essenziali di interesse regionale”, che appaiono tali (aria, acqua ed ecosistemi ; paesaggio e documenti della cultura ; sistemi infrastrutturali e tecnologici ; sistemi degli insediamenti) da esaurire di fatto l’intero ambito della pianificazione territoriale e che vengono attribuite (art. 3, c. 1), alla competenza della Regione, salvo poi aggiungere che la successiva legge regionale stabilirà “i criteri per individuare le soglie oltre le quali la Regione svolge le funzioni di cui al comma 1 per mezzo del Piano Territoriale Regionale”. Anche il PTR, quindi, in funzione del quale apparentemente il ddlr è stato redatto, viene così rinviato ad un imprecisato domani, come del resto conferma anche l’art. 8, c. 1.

Assolutamente incomprensibile appare tuttavia il c. 2 dell’art. 8, che sembrerebbe sancire l’abrogazione delle procedure di formazione del PTRG previste dalla L.R. 52/1991 (artt. 5 e 6), senza però che tale abrogazione sia esplicita. Né d’altronde è pensabile si possano abrogare norme vigenti, mediante il semplice rinvio alle “disposizioni della presente legge” che, come detto, nulla dicono in merito alle procedure relative al PTR, in quanto si limitano a rinviarle ad una successiva futuribile legge regionale.

Per quanto concerne i livelli di pianificazione, si dichiara d’altronde (art. 1, c. 1) che “la funzione della pianificazione intermedia è svolta dai Comuni”. Concetto ribadito dal successivo art. 4, cc. 2 e 3, che tuttavia non aggiungono nulla in merito alle modalità attraverso le quali il Comune (singolo ? associato ?) potrà esercitare la funzione della pianificazione sovraccomunale, salvo aggiungere l’indicazione circa la possibilità che ciò avvenga “anche con enti pubblici diversi dal Comune”. Enti (anche economici ?) che peraltro non vengono individuati, essendo la materia rinviata alla successiva legge regionale.

Sia la definizione dei confini delle competenze pianificatorie tra Regione e Comuni, sia la strutturazione del ruolo comunale nella pianificazione sovraccomunale, vengono perciò rinviate al successivo atto normativo.

L’economicismo “sviluppista”

L’art. 5, elencando le “finalità strategiche del PTR”, delinea un’impostazione della politica territoriale in Friuli Venezia Giulia completamente sbilanciata sul versante – alquanto obsoleto –dello sviluppo economico inteso in senso tradizionale, cioè come crescita (del PIL).

Vengono infatti citate, nell’ordine, le seguenti finalità :

“le migliori condizioni per la crescita economica del FVG e lo sviluppo della competitività del sistema regionale ;

le pari opportunità di sviluppo economico per tutti i territori della Regione ;

la coesione sociale della comunità nonché l’integrazione territoriale, economica e sociale del FVG con i territori contermini ;

il miglioramento della condizione di vita degli individui, della comunità, della fauna, della flora e in generale l’innalzamento della qualità ambientale;

la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale, storico e paesaggistico”.

Balza altresì agli occhi l’assenza di qualsiasi riferimento a :

- criteri di sostenibilità ambientale dello “sviluppo” (che comporterebbero l’adozione di opportuni indicatori nell’attività di pianificazione e soprattutto nella valutazione degli esiti della pianificazione stessa) ;

- l’individuazione e la tutela delle “reti ecologiche” e del patrimonio naturalistico in genere (che non coincide con il patrimonio “culturale, storico e paesaggistico”) ;

- la necessità di arrestare il consumo di suolo non urbanizzato, agricolo e naturale o semi-naturale, privilegiando per converso il riuso di aree già urbanizzate e degradate o sottoutilizzate.

L’equivocità

Il PTR avrebbe altresì (art. 6, c. 2) valenza di piano paesaggistico, ai sensi del D. Lgs. 42/2004, ma è evidente che l’indeterminatezza su tempi e modalità di redazione (v. sopra) è tale da vanificare alla radice questa indicazione. Nulla si dice, invece, rispetto al destino degli strumenti con valenza di piano paesaggistico già predisposti ai sensi della L.R. 52/1991, come in particolare il PTRP per la costiera triestina. Nulla si dice neppure rispetto alla valenza del PTR, in quanto piano paesaggistico, rispetto agli strumenti di pianificazione di livello locale, laddove il rapporto tra (mancata) pianificazione sovraordinata – in particolare quella con contenuti paesaggistici – e PRGC rappresenta nei fatti uno degli elementi più critici della concreta pratica urbanistica in FVG (come gli esempi della baia di Sistiana e dell’intera costa triestina dimostrano ad abundantiam).

Del tutto privo di effetti concreti appare altresì il richiamo (una sorta di “pro memoria”) alla Direttiva 2001/42/CE sulla V.A.S. ed alle “metodologie di Agenda 21”, che dovrebbero presiedere (art. 7) alla formazione del PTR. Non si comprende, d’altro canto, perché tale richiamo non venga esteso – come la logica e lo stesso contenuto della Direttiva citata vorrebbero – a tutti gli strumenti di pianificazione territoriale.

Balza ancora agli occhi l’assenza di qualsiasi riferimento a norme di salvaguardia, assolutamente indispensabili nel contesto dell’annunciata redazione di uno strumento con valenza di piano paesaggistico, per evitare che lo stesso intervenga “dopo che i buoi sono già scappati dalla stalla”.

Tale assenza è tanto più vistosa ed inspiegabile, alla luce di quanto previsto al Titolo II (“Norme in materia di localizzazione di infrastrutture strategiche”), laddove la salvaguardia – sotto forma di “sospensione temporanea dell’edificabilità” – è prevista (art. 10, c. 1) per tre anni, al fine di salvaguardare da edificazioni incompatibili i progetti dichiarati “di interesse regionale”.

Norme cogenti sono cioè previste nel ddlr, soltanto allo scopo di favorire la realizzazione di opere infrastrutturali (prescindendo, a quanto sembra, dalla compatibilità ambientale delle stesse e dall’esito delle relative procedure di VIA e/o valutazione di incidenza), mentre invece non sono previste per il PTR, nella parte diretta a tutelare valori ambientali e paesaggistici.

Le infrastrutture (di ogni tipo e natura)

Il vero contenuto normativo del ddlr in questione è infatti quello rappresentato dal Titolo II, il cui scopo è chiaramente dichiarato all’art. 9 (“preservare la possibilità di realizzare infrastrutture strategiche ovvero dotare la Regione di strumenti che ne facilitino la realizzazione”).

L’individuazione dei progetti “strategici” (non meglio identificati e non necessariamente soltanto relativi ad infrastrutture) di interesse regionale, viene rinviata a successive delibere della Giunta regionale, previa intesa con i Comuni interessati (art. 10, c. 2). Intesa che dev’essere raggiunta mediante una “conferenza con i soggetti interessati” (art. 10, c. 3). Non viene precisato in alcun modo chi siano tali soggetti, potendosi quindi ipotizzare trattarsi sia – ipotesi “di minima” - dei proponenti (anche privati) dei progetti stessi, sia – ipotesi “di massima” – di tutti i portatori di interessi (compresi quindi gli interessi diffusi), in qualche modo coinvolti dai progetti stessi.

Non viene neppure precisato se la “conferenza” di cui sopra sia da intendersi strutturata e con i poteri di una conferenza dei servizi, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, ovvero rivesta altra natura.

Né viene in alcun modo contemplata l’ipotesi che l’intesa di cui al citato art,. 10, c. 2 non venga raggiunta. Parrebbe quindi di poter dedurre che il mancato raggiungimento dell’intesa comporti l’archiviazione del progetto. Si stabilisce invece (art. 10, c. 4) che l’individuazione dell’”interesse regionale” relativamente ad un progetto, costituisca variante rispetto alle destinazioni d’uso del PRGC (nulla si dice invece rispetto a quelle del PTR).

A sua volta, l’approvazione del progetto (non è chiaro in base a quali procedure) costituisce accertamento di conformità urbanistica e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori (art. 10, c. 5).

Appare evidente che scopo principale del ddlr è quello di costruire una “corsia preferenziale” per qualsivoglia progetto (anche privato) si decida, in sede prettamente politica, di qualificare come “di interesse regionale”, consentendone una sollecita realizzazione anche – ove necessario – in difformità dai PRGC. Sia pure, a quanto sembra, soltanto previa intesa “obbligatoria” (come detto sopra) con i Comuni. Sicuramente la norma è stata pensata anche in funzione dei progetti di nuovi elettrodotti (oltre 20 in FVG), proposti da vari soggetti per lo più privati, per l’importazione di elettricità da Austria e Slovenia. Progetti che, nei casi in cui è già iniziato l’iter di valutazione, stanno incontrando forti resistenze soprattutto da parte delle comunità locali principalmente per ragioni di impatto ambientale e paesaggistico.

Del tutto anomala, ed in alcun modo motivata, appare invece la previsione esplicita (art. 10, c. 1) di norme di “salvaguardia” – sospensione per un massimo di tre anni di ogni determinazione su concessioni o autorizzazioni edilizie in contrasto con i progetti - relativamente ai progetti “di interesse regionale” che si riferiscano alle “opere ferroviarie di attuazione del Corridoio V e quelle ad esso complementari” ed alle “opere del nuovo collegamento stradale Cervignano-Manzano e quelle ad esso complementari”.

Sfugge il motivo per cui un collegamento stradale di caratteristiche abbastanza modeste venga posto sullo stesso piano dell’imponente infrastruttura ferroviaria AV/AC compresa nel Corridoio 5, salvo l’ipotesi maliziosa che si tratti una sorta di “merce di scambio” in vista dell’acquisizione del consenso da parte di alcuni Comuni interessati dal tracciato dalla nuova linea ferroviaria. Attualmente è infatti ancora aperta la procedura di VIA (ex D.Lgs. 190/2002) sul progetto preliminare della linea AV/AC, tratta Ronchi Sud – Trieste (opera di circa 35 km., prevalentemente in galleria, con un costo complessivo di almeno 1.930 milioni di €), mentre si sta lavorando al progetto preliminare della tratta Venezia – Ronchi-Sud (circa 120 km., per un costo approssimativo di almeno 4.200 milioni di €), tratta che attraverserebbe l’intera pianura friulana interessando sia il Comune di Cervignano, sia altri Comuni della “Bassa”.

Va però detto che sul progetto della Ronchi Sud – Trieste è stato espresso, nell’ambito della citata procedura di VIA, parere nettamente contrario da parte del ministro dei beni culturali e ambientali, mentre risulta che anche la Commissione speciale VIA presso il ministero dell’ambiente abbia predisposto un parere decisamente negativo. Da ciò, tra l’altro, la diffida inviata lo scorso luglio dal WWF Italia al presidente del Consiglio dei ministri, al ministro dell’ambiente ed a quello delle infrastrutture, affinché la procedura di VIA tuttora aperta (ben la di là dei limiti temporali previsti dal D.Lgs. 190/2002) venga conclusa con esito – necessariamente - negativo.

La previsione della “salvaguardia” per tre anni, in funzione di un progetto il cui iter appare quanto mai lungo e incerto, potrebbe perciò interpretarsi come un mezzo per guadagnare tempo, in vista della futura approvazione del PTR, che dovrà vincolare definitivamente – sottraendole alla competenza comunale - le aree interessate dal progetto della linea ferroviaria in questione (così come altre aree interessate da “sistemi infrastrutturali e tecnologici”, secondo quanto previsto all’art. 2, c. 1, lett. a), n. 3).

Le STUR

Dulcis in fundo, il ddlr prevede (art. 11) la possibilità che la Regione costituisca Società di Trasformazione Urbana Regionale (STUR), nella forma giuridica della spa (art. 11, c. 3), con il compito di “conseguire gli obiettivi di cui all’art. 3, c. 2” (si tratta probabilmente – almeno si spera ! - di un refuso, trattandosi della norma che rinvia alla futura legge regionale i criteri per l’individuazione delle soglie oltre le quali la Regione svolge le funzioni di pianificazione territoriale con il PTR sulle “risorse essenziali di interesse regionale”), nonchè di “attuare i progetti di interesse regionale di cui all’art. 10”. Vale a dire quelli dichiarati di interesse regionale.

La STUR (art. 11, c. 2) acquisisce gli immobili interessati dall’intervento, alla trasformazione e alla commercializzazione degli stessi. L’acquisizione può avvenire consensualmente o tramite esproprio. Alle STUR possono partecipare anche azionisti privati (non viene precisato se i privati possano eventualmente acquisire la maggioranza delle azioni…).

Dario Predonzan, Responsabile settore territorio WWF Friuli Venezia Giulia

31 agosto 2005

Postilla

Ho partecipato ad alcune riunioni di un gruppo di lavoro che ha "affiancato" l'assessore Sonego. Inserisco in allegato una nota che avevo redatto quando ho visto la prima stesura della legge. Alcune parti del primiitivo disegno sono state soppresse, ma mi sembra che rimangano immutate nel didegno di legge quattro elementi gravissimi: la subordinazione d'ogni valore, qualità, risorsa all'idolo dello sviluppo quantitativo delle infrastrutture; l'abolizione delle province come ente cui è attribuita la responsabilità di pianificazione territoriale; l'asservimento del comune alla Regione; la riduzione della pianficazione regionale a mera copertura delle decisioni, prese volta per olta, dalla Regione.

Legambiente Sicilia, con l’adesione del coordinamento dei Laboratori Territoriali aderenti alla Rete Nazionale del Nuovo Municipio, denuncia i gravi pericoli contenuti nel disegno di legge di riforma dell’ordinamento urbanistico regionale promosso dall’assessore Francesco Cascio ed in discussione presso il comitato delle professioni tecniche.

Il provvedimento, formalmente motivato dalla volontà di snellire le procedure (Legge Obiettivo, indebolimento della VIA, ecc.), cela in realtà lo smantellamento della logica e degli impianti normativi di gestione, governo e regolazione della attività urbanistica sul territorio siciliano.

Questo presunto riordino si configura come il portato della peggiore deregulation ed è tale da cancellare qualsiasi razionalità normativa per intere aree tematiche di grande rilevanza per lo spazio ambientale regionale.

“Nella gran parte delle altre regioni italiane - afferma Mimmo Fontana, presidente di Legambiente Sicilia - si tenta con la dovuta serietà di riformare il concetto di Piano Regolatore onnicomprensivo andando nella direzione di una pianificazione strutturale che ridisegni il modello di assetto locale in funzione della domanda di riqualificazione del territorio e di sostenibilità ambientale facendo poi seguire l’indispensabile pianificazione operativa. In Sicilia, invece, si pretende di cancellare tout court il concetto di Piano regolatore quale elemento di razionalizzazione e di gestione del territorio per sostituirlo con un elenco di attività dipendenti dalla maggiore o minore disponibilità economica e finanziaria degli enti e, in ogni caso, legato non alle esigenze del territorio, dell’ambiente e del paesaggio, ma alle intenzioni ed agli interessi trasformativi presenti”.

A dimostrazione di ciò, nella proposta di Legge balza agli occhi l’assoluta mancanza di una strumentazione principale di governo qual è il Piano regolatore il quale, al livello comunale, viene sostituito dal regolamento urbanistico - concepito unicamente come conseguenza operativa e normativa di scelte di natura economica, quando non speculativa - mentre, ai livelli più alti, la pianificazione è ridotta sostanzialmente a quadri di riferimento regionale e provinciale senza alcuna forza né competenza di gestione e regolazione sostanziale.

"Altrettanto grave è, inoltre - come sottolinea Salvatore Granata, componente della segreteria di Legambiente Sicilia - la cancellazione di fondamentali organi di controllo regionale, quale il C.R.U., cancellazione emblematica della volontà di smantellamento degli organigrammi che garantivano un minimo di verifica sul piano tecnico scientifica, ma soprattutto un livello di controllo non direttamente condizionato dagli interessi particolaristici locali". La proposta di Legge, peraltro, non è solo il portato della volontà deregolatrice ma contiene anche gravi errori di natura giuridico-programmatica che, ove ribaditi, troverebbero sicuramente le doverose bocciature di legittimità da parte degli organi di controllo esistenti (a meno che con provvedimenti analoghi non si pretenda di cancellarli).

Per i motivi sovresposti, Legambiente Sicilia richiederà di incontrarsi con urgenza con l’assessore regionale al Territorio e Ambiente, Francesco Cascio, ed invita tutti gli organismi, le associazioni culturali e tecnico professionali a mobilitarsi contro i pericoli contenuti in tale provvedimento. Dal canto suo, Legambiente preannuncia una campagna su tutto il territorio siciliano per l’allargamento della denuncia e della mobilitazione.

Sull'argomento si registra un prezioso intervento dell'urbanista Alberto Ziparo, docente dell'Università di Firenze ed animatore dei Laboratori di Ricerche Territoriali avviati in Sicilia in collaborazione con Legambiente.

Allegato in formato pdf: Intervento di Alberto Ziparo

Link a DDL Sicilia Norme per il governo del territorio, contenente la relazione e il testo dell'articolato in formato .doc, nella versione del 12 giugno 2005

Dana Beach, Coastal Sprawl: the Effects of Urban Design on Aquatic Ecosystems in the United States, Pew Ocean Commission, Arlington 2002 – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

Strategie e strumenti di intervento

I dati sulla popolazione e l’uso del suolo, e insieme le abbondanti ricerche scientifiche disponibili sui bacini idrici, chiariscono quanto siano necessari cambiamenti nei modi d’uso dello spazio per la conservazione degli ecosistemi costieri. Tali riforme devono iniziare nella prima metà di questo decennio per evitare gravi e irreversibili danni alla funzionalità degli ecosistemi. Le domande chiave che dobbiamo porci sono le seguenti:

● Quale tipo di insediamento può sostenere gli ecosistemi acquatici?

● Se lo sprawl non funziona, qual’è il modello valido?

● come è possibile applicare praticamente un nuovo modello di uso dello spazio in tutte le regioni costiere d’America?

Può essere utile raggruppare le riforme urbanistiche secondo la scala di intervento. In primo luogo, c’è il caso di come organizzare l’insediamento entro una regione metropolitana. Un’area metropolitana può contenere anche una decina di bacini idrici e interessare una superficie di milioni di ettari di terreno. Queste sono le dimensioni alla scala regionale. In secondo luogo, c’è il problema dell’organizzazione insediativa: come si disegnano le strade, come si combinano le funzioni e con quali densità. È la dimensione del quartiere. Terzo, ci sono i modi di realizzazione dei progetti: che tipo di rapporti con le acque piovane, impermeabilizzazioni, fasce di interposizione riparie da usare. Questa è la scala del singolo intervento.

La conservazione degli ecosistemi dipende dalla capacità di cambiare i modi di insediamento a ciascuna di queste tre dimensioni. Tradizionalmente, i programmi di regolamentazione operano quasi esclusivamente al livello del singolo intervento. In modo indipendente, i riformatori in campo urbanistico hanno lavorato alla scala regionale promuovendo strategie come le fasce di margine urbane [urban growth boundaries / UGB] o i programmi di tutela delle aree agricole. Sino a tempi molto recenti, la dimensione del quartiere ha ricevuto molta poca attenzione costante, e pure, come nel caso della scala regionale, ha una grande importanza negli sforzi per proteggere gli ecosistemi marini.

La scala regionale

Sappiamo dai dati nazionali sulla copertura dei suoli, che il 14% delle coste è edificato. Con gli attuali ritmi di sviluppo questa percentuale salirà al 25% entro il 2025. Secondo la regola del dieci per cento [trattata in paragrafi esclusi da questa scelta n.d.T.], se tutta la costa fosse un solo bacino, ci vorrebbero dieci anni per entrare nella zona di pericolo. Ma la costa è suddivisa fra migliaia di bacini, alcuni con livelli di impermeabilizzazione vicini al 100%, e altri praticamente inedificati. Il principio chiave di una strategia di protezione marina è quello di individuare i bacini che siano impermeabilizzati in misura inferiore al 10%, e tentare di mantenerli il più possibile inedificati. Un principio complementare è quello secondo cui i bacini impermeabilizzati per più del 10% dovrebbero assorbire la maggior parte dello sviluppo insediativo costiero dei prossimi decenni.

Ciò non implica che si debbano sacrificare i bacini urbanizzati. Pratiche di gestione locale delle acque piovane, sistemi di interposizione, nuove tecniche di pavimentazione, una dipendenza dall’automobile ridimensionata e altre riforme a scala di quartiere e di singolo intervento, possono aiutare a conservare questi sistemi. La Sezione 6217 del Coastal Zone Management Act specifica le pratiche di gestione delle acque piovane che possono efficacemente ridurre carichi inquinanti e impatti ambientali dell’urbanizzazione. Comunque, l’attuale situazione delle salvaguardie locali non ci consente di ignorare la regola del dieci per cento. I soli sistemi acquatici in grado di mantenere in pieno il proprio ruolo ecologico, saranno quelli dove meno del 10% del superficie risulta impermeabilizzata. L’obiettivo, dunque, deve essere quello di conservare la maggior parte possibile di questi sistemi.

Le nuove tecnologie cartografiche e satellitari consentono oggi di avere una mappa aggiornata per aree metropolitane dei bacini non urbanizzati. In più, entro queste regioni è possibile analizzare il potenziale edificatorio entro i bacini idrici già intaccati. Questi due dati insieme forniscono le informazioni necessarie per adottare a scala regionale politiche urbanistiche per orientare l’edificazione verso le zone più adatte, e a proteggere così gli ecosistemi costieri.

Una volta che all’interno delle regioni si siano determinate le migliori localizzazioni per i nuovi insediamenti (bacini idrici edificati e in corso di edificazione), e le are dove l’insediamento debba essere ridotto al minimo (bacini con impermeabilizzazione inferiore al 10%), amministrazioni locali e stato devono adottare politiche per attuare i piani. Gli strumenti attuativi si articolano in tre categorie: norme di zoning; progettazione infrastrutturale e programmi di tutela dei suoli. Si tratta di strumenti applicabili in centri di qualunque dimensione, dalla piccola cittadina rurale all’area metropolitana interessante più stati.

Azzonamento agricolo e Fasce di Margine Urbane [UGB ]

Negli ultimi decenni, alcune città hanno tentato di controllare la diffusione urbana attraverso la regolamentazione delle densità insediative nelle zone rurali. Uno dei primi esempi è la legge urbanistica dell’Oregon del 1973, che richiedeva ad ogni centro di fissare fasce di margine urbane (UGB) ampie a sufficienza per assorbire 20 anni di sviluppo programmato. Oltre le UGB, l’azzonamento agricolo fissava unità minime di 30 ettari, considerate le più piccole per sostenere l’agricoltura. Varie amministrazioni in tutto il paese, dalla Virginia alla California, hanno stabilito norme per la pianificazione in area rurale con densità simili.

In alcuni casi, la pianificazione “agricola” consente insediamenti alla densità di circa una unità abitativa per ettaro. Sono norme ampiamente criticate, perché accelerano lo sprawl. Le situazioni variano, nelle varie aree del paese, ma ci sono alcuni principi generali che dovrebbero aiutare ad adottare norme urbanistiche per le aree agricole nelle varie regioni. In primo luogo, queste norme dovrebbero basarsi sul legittimo interesse delle aree metropolitane per sostenere le funzioni agricole e forestali, proteggere gli ecosistemi marini e in genere acquatici dal degrado, ridurre al minimo i costi di fornitura dei servizi urbani, e altri obiettivi pubblici. Nella maggior parte dei casi, le densità residenziali nelle aree inedificate dovrebbero essere inferiori a una unità ogni otto ettari.

Azzonamento agricolo e fasce di margine urbano possono avere effetti collaterali negativi se le amministrazioni municipali non sostengono ragionevoli densità insediative entro la propria circoscrizione. Se, ad esempio, le norme locali prevedono principalmente lotti da 2.000 metri quadrati o più grandi, la superficie disponibile per lo sviluppo urbano verrà utilizzata rapidamente. Ciò fa aumentare i prezzi delle case e dei terreni e obbliga di fatto allo sviluppo verso le zone rurali e i bacini idrici inedificati. Per questo motivo, la pianificazione delle zone rurali dovrebbe accompagnarsi a strategie come quelle della legge urbanistica dell’Oregon del 1975, dove le municipalità dovevano consentire una crescita adeguata entro i propri confini.

La progettazione infrastrutturale

L’investimento pubblico in nuove strade, fogne, reti idriche, servizi antincendio rapidi e altri servizi urbani, accelera lo sviluppo in zone che altrimenti resterebbero rurali. Pensando a ciò, alcune amministrazioni hanno tentato di attenuare la crescita dell’urbanizzazione verso le zone rurali evitando le infrastrutture urbane. Lexington, in Kentucky, ha adottato nel 1958 i primi limiti alla estensione dei servizi.

Lo stato del Maryland di recente ha approvato una norma di governo dello sviluppo che orienta l’investimento pubblico verso zone già edificate o per cui è stata approvata l’urbanizzazione da parte dei comuni. Lo stesso investimento non viene effettuato per le zone rurali giudicate non adatte al nuovo insediamento.

Ogni anno, uffici federali e statali spendono miliardi di dollari in prestiti e mutui per infrastrutturare aree rurali. Gli esempi più notevoli sono quelli delle strade, dei condotti fognari e delle reti idriche finanziate dal Dipartimento dell’Agricoltura e U.S. Environmental Protection Agency (EPA), o la tutela per le inondazioni dalla Federal Emergency Management Agency. Questi progetti spesso non sono verificati nella prospettiva dei piani regionali di crescita, e pure hanno un grosso potenziale per indebolirne obiettivi e strumenti di governo dello sviluppo. Per proteggere in modo efficace gli ecosistemi marini e costieri, tutte le spese infrastrutturali dovrebbero essere verificate secondo i criteri dei piani regionali di sviluppo.

Programmi di conservazione del suolo

Molti governi statali e locali stanno tentando di incanalare l’urbanizzazione lontano da importanti zone rurali, utilizzando le risorse pubbliche per acquisire i diritti edificatori dai proprietari di aree strategiche. Questi programmi di Purchase of Development Rights, PDR, individuano terreni agricoli o boschivi importanti e offrono fondi per rimuovere i diritti edificatori dalle superfici. In alcuni casi, si acquisisce la proprietà dei terreni ed essi diventano parte del patrimonio pubblico di una regione. Le amministrazioni locali spesso sviluppano programmi PDR in modo congiunto a land trusts privati, che contrattano le cessioni, mantengono le servitù, e aggiungono risorse private a quelle pubbliche.

Ci sono circa 1.200 land trusts che operano negli USA. Queste organizzazioni acquisiscono o sollecitano la concessione di asservimenti di terre private a scopo conservativo. Al 31 dicembre 2000, i vari land trusts locali avevano tutelato un totale di 2,6 milioni di ettari a livello nazionale. Le strutture a carattere nazionale come The Nature Conservancy, Ducks Unlimited, Conservation Fund, o Trust for Public Lands, tutelano più di 6 milioni di ettari.

Gli sforzi coordinati dei land trusts con quelli federali, statali e delle amministrazioni locali possono essere estremamente efficaci nella tutela dei grandi bacini idrici. L’iniziativa su quello Ashepoo/Combahee/Edisto (ACE) sulla costa del South Carolina, per esempio, ha tutelato in modo definitivo oltre 60.000 ettari, sui 142.000 del programma totale, in soli 13 anni.

[...]

La dimensione di quartiere

Densità

L’aspetto complementare del mantenere inedificati alcuni bacini idrici, è quello di concentrare l’edificazione in quelli già urbanizzati, a densità adeguate ai bisogni dello sviluppo regionale. Oltre a rallentare la diffusione urbana, gli aumenti di densità offrono enormi vantaggi in termini di trasporti, con conseguente riduzione nell’inquinamento dell’aria e dell’acqua.

Gli studi dimostrano che all’aumentare della densità residenziale e delle attività, diminuiscono quantità e lunghezza dei viaggi in automobile. Diminuiscono anche gli inquinanti dell’aria: ossidi di azoto, monossido di carbonio, particelle volatili. Una ricerca conclude che la quantità di chilometri percorsa per famiglia scende del 35% quando le densità residenziali salgono da 5 a 25 per ettaro. Gli studi sull’uso del trasporto pubblico fissano a 15-20 unità residenziali l’ettaro la densità minima per sostenere un servizio regolare. Ciò è incoraggiante, perché suggerisce che le regioni possono ottenere riduzioni nell’uso dell’auto, aumenti in quello del trasporto collettivo, e miglioramento per ciò che riguarda l’inquinamento di aria e acqua, senza spostarsi verso tipologie residenziali sostanzialmente diverse. E a ben vedere, alcuni fra i più apprezzati quartieri tradizionali del paese sono di tipo “transit-oriented”, con circa 25 unità residenziali l’ettaro.

E pure, le densità residenziali urbane sono drammaticamente scese negli scorsi trent’anni. Nell’area della baia Chesapeake, per esempio, la dimensione media del lotto è aumentata da 0,072 ettari negli anni ’50, a 0,26 ettari negli anni ‘80. Fra il 1973 e il 1995, le densità residenziali nel sud della Florida sono scese da 6,6 unità/ettaro a 5,9. Ci sono molti motivi per questo. In primo luogo, un significativo numero di famiglie americane si sono spostate verso insediamenti con lotti di dimensioni maggiori nel suburbio, alla ricerca di privacy, spazio, e scuole migliori. Questa tendenza è stata accelerata dai programmi federali come quello per le autostrade Interstate, che ha consentito spostamenti pendolari su lunghe distanze, oppure l’assicurazione sui prestiti per l’acquisto di case, la cui attuazione ha favorito le nuove case unifamiliari rispetto al riuso della residenza urbana.

Le amministrazioni locali nelle zone suburbane hanno ampliato questa tendenza approvando norme urbanistiche che favoriscono i grandi lotti occupati esclusivamente da case unifamiliari. La maggior parte delle ordinanze di zoning derivano dal modello Uniform Zoning Code del Dipartimento del Commercio. Sviluppato all’inizio del ‘900, lo Uniform Zoning Code era pensato a separare le funzioni residenziali da quelle industriali. Infine, il disinvestimento pubblico e privato dalle città ha indotto un degrado delle infrastrutture e della dotazione residenziale, spingendo altri abitanti verso le zone suburbane. Invertire questa tendenza alla diminuzione delle densità residenziali richiede uno sforzo concertato di ricostruzione delle città, e di eliminazione delle norme di zoning “esclusive” e a grandi lotti nel suburbio.

La sola definizione del problema è stata difficile. L’opinione pubblica associa il concetto di densità ai problemi urbani quali la criminalità o le cattive scuole, o lo accoppia a problemi suburbani come la congestione da traffico. In verità, è stato verificato che le cose che meno piacciono agli americani sono sprawl e densità. Il motivo di questo apparente paradosso è che negli ultimi 50 anni la pianificazione urbanistica e le norme si sono concentrate in modo sproporzionato sulle densità, mancando di trattare altri aspetti della costruzione della città, come i sistemi stradali, il verde, la miscela di funzioni entro il quartiere, o l’architettura. Di conseguenza, la reazione corrente a considerare i nuovi insediamenti “troppo densi” è diventata un riflesso automatico a livello nazionale.

C’è molto bisogno di spiegare i benefici di città più dense, non solo in una prospettiva ambientale, ma anche per i molti altri vantaggi offerti da spazi del genere. L’occasione migliore per farlo è quella di usare i casi concreti con abitazioni dense, e che tutti considerano desiderabili. Ci sono migliaia di esempi in tutto il paese, dai centri prerivoluzionari sulla Costa orientale – Annapolis, Boston, Savannah – ora importanti destinazioni anche turistiche grazie alla loro eccezionale forma urbana, ai sobborghi cresciuti lungo le linee tranviarie, come Shaker Heights a Cleveland, centri più nuovi della Costa Occidentale come San Francisco e Monterey. Tutte queste città, mostrano tipi di organizzazione spaziale tali da offrire vantaggi di tipo ambientale, sociale ed economico ai propri abitanti.

La rete stradale

Un altro aspetto dell’edificazione che ha enormi impatti sulla tutela degli ambienti marini e la qualità ambientale generale, sono i sistemi stradali. Sino alla fine del XIX secolo, praticamente tutte le città e cittadine erano realizzate secondo una griglia regolare di strade interrotta da verde e altri spazi collettivi. Gli esempi di questo tipo, ben noti, sono Savannah, in Georgia; Philadelphia, in Pennsylvania, e San Francisco, California.

Questo schema ad angoli retti offriva molte vie per spostarsi da un punto all’altro, e riduceva al minimo la lunghezza del percorso. Alle basse velocità consentite da cavalli, carri e a piedi, questa griglia con un alto grado di “connettività” era un aspetto chiave dell’efficienza urbana nell’America del XIX secolo.

In un primo tempo, le velocità più elevate consentite dall’automobile hanno liberato i progettisti dalla rigidità della griglia. Il movimento per la Città Giardino in Inghilterra, più tardi diffuso anche in America, immergeva l’ambiente dell’insediamento urbano in un quadro naturalistico che rifletteva il paesaggio rurale. Questi nuovi schemi suburbani contenevano strade ricurve attorno ai caratteri più significativi del paesaggio, o semplicemente vagavano a creare prospettive più interessanti per il viaggiatore. Gli isolati diventavano più grandi, e gli incroci meno numerosi.

A contrastare le alte velocità che le auto potevano raggiungere su queste strade, i costruttori facevano terminare le vie residenziali a cul-de-sac. Questo elemento progettuale si è diffuso in tutto il paese alla fine del XX secolo. Ora esiste nella stragrande maggioranza degli insediamenti di case unifamiliari.

La ripetizione di questo insieme di elementi progettuali in tutto il paese ha causato una forte ascesa nella lunghezza degli spostamenti in auto, e la diminuzione di quelli effettuati a piedi o in bicicletta. Una ricerca ha rilevato che le persone residenti in spazi costruiti dopo il 1977 effettuano un terzo di spostamenti a piedi o in bicicletta in meno di chi vive in centri costruiti prima del 1947. Negli ultimi 20 anni, il numero degli spostamenti a piedi è sceso del 42%. Questo ha causato un fortissimo incremento nella congestione da traffico, e nell’inquinamento dell’aria e dell’acqua correlato.

Molte amministrazioni locali hanno iniziato a promuovere un ritorno a sistemi stradali più funzionali, aumentando la densità interna agli isolati nei nuovi interventi, e collegandoli a quelli adiacenti. Le ricerche mostrano che una maggiore densità di isolato corrisponde a spostamenti più brevi e minori emissioni di ossidi di azoto. Ciò è particolarmente importante sulle coste, dove l’azoto è uno degli inquinanti più dannosi per le zone degli estuari. I più strenui oppositori di queste riforme, sono i gruppi di residenti, che osservano come le loro strade vengano “affettate”. Una reazione che suggerisce come, invece di interventi caso per caso, sia opportuno inserire le riforme entro un quadro urbanistico di dimensione cittadina.

Mixed Use

Lo zoning convenzionale separa i vari usi del suolo gli uni dagli altri. Originariamente giustificato dal bisogno di evitare fabbriche inquinanti nei pressi delle case, lo zoning ha poi raggiunto un ingiustificato livello di complessità. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda le densità previste per le residenze suburbane. Alcune amministrazioni hanno sino a dieci categorie di zone residenziali, distinte dalla dimensione del lotto e dal tipo di casa.

Oltre a separare i tipi residenziali, lo zoning separa le case dai negozi, uffici, e scuole. Le attività delle ore lavorative sono abitualmente raggruppate lungo le strade a grosso volume di traffico, a contenere l’esodo mattutino dalle aree residenziali. Questa rigida separazione di funzioni ha contribuito all’aumento degli spostamenti in auto e alla riduzione di quelli a piedi. Uno studio sulla costa del South Carolina ha rilevato che la percentuale di studenti che si recano a piedi nelle scuole costruite prima del 1983 è quattro volte quella degli studenti che frequentano quelle realizzate dopo il 1983.

Nota: di seguito, sono disponibili i files PDF, sia degli estratti trodotti, sia della versione integrale originale con tabelle, illustrazioni, bibliografia (f.b.)



Il disegno di legge recentemente approvato dalla Camera dei Deputati sul governo del territorio solleva perplessità di diversa natura: si pensi, per limitarsi a pochi esempi, al ruolo dello Stato, al quale addirittura sono riconosciute dall’art. 3, comma 1, funzioni amministrative in materia di “rinnovo urbano”, in palese violazione degli artt. 117 e 118, Cost.; alle modalità di svolgimento delle funzioni amministrative preferibilmente attraverso atti negoziali (art. 5, comma 4); alla sostanziale svalutazione della pianificazione provinciale (art. 6, comma 2, in violazione degli artt. 114, 117 e 118, Cost.). Più in generale, lo schema normativo appare privo di utilità, se si considera che, dall'entrata in vigore del nuovo titolo quinto della Costituzione, ben sei regioni hanno approvato nuove leggi sul governo del territorio (Calabria, Campania, Lombardia, Toscana, Umbria e Veneto). E rispetto a tali normative regionali il disegno di legge non dice alcunché di nuovo (piuttosto sembra limitarsi a recepirne, confusamente e approssimativamente, alcuni contenuti).

Un cenno a parte merita la disciplina della perequazione e della compensazione (art. 9), la quale, lungi dall'essere inutile, pone, se non altro in ragione della sua portata ideologica, rilevanti questioni di democrazia nella gestione del territorio e introduce il “debito edificatorio”, quale nuovo istituto della materia.

1. La perequazione e la compensazione nel disegno di legge

Conviene riassumere il regime giuridico della perequazione e della compensazione, contenuto nell'art. 9 del disegno di legge.

In generale, le disposizioni di cui all'art. 9 – al pari di molte altre contenute nel disegno di legge – si presentano in buona parte misteriose, anche a causa di una formulazione del testo sciatta e priva di rigore. E peraltro si ha l'impressione che sul punto i Deputati abbiano avuto in mente specifiche esperienze di pianificazione perequativa e compensativa, dalle quali hanno voluto estrapolare alcuni principi normativi, da imporre alla legislazione regionale (utile compendio per la lettura del disegno di legge può essere la l.r. Lombardia n. 12 del 2005).

In base al comma 1, il piano urbanistico (il piano strutturale) è attuato con piano operativo o con intervento diretto, sulla base di progetti compatibili con gli obiettivi stabiliti nel piano strutturale.

Il comma 2 dispone che “il piano urbanistico può essere attuato anche con sistemi perequativi e compensativi secondo criteri e modalità stabiliti dalla regioni”. Non è ben chiaro il senso della disposizione e segnatamente in che modo i “sistemi perequativi e compensativi” possano rappresentare uno strumento di attuazione del piano strutturale. Probabilmente, la maldestra formulazione si riferisce a forme di attuazione del piano urbanistico ad opera di coloro che sono titolari dei "diritti edificatori".

La perequazione è intimamente connessa ai “diritti edificatori” che rappresentano, in questa ipotesi normativa, figure assai inquietanti per motivi culturali, oltre che politici. Tali diritti, in base al comma 3, sono attribuiti alle proprietà immobiliari ricadenti in determinati ambiti territoriali, “in percentuale dell’estensione [sic] e o del valore di esse e indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso”. E sul punto non si riscontrano particolari novità rispetto alle norme regionali che si occupano del tema; norme che - in modo non molto diverso dai comparti di cui alla legge del '42 - in genere, ma non sempre, ancorano i meccanismi perequativi ad ambiti territorialmente definiti.

La novità sostanziale è data dalla precisazione posta alla fine del comma 3: detti diritti “sono trasferibili e liberamente commerciabili negli e tra gli ambiti territoriali” (art. 9, comma 3).

La proclamazione della libertà di commercio (cfr. l'art. 11, comma 4, l.r. Lombardia n. 12/05 cit.) vuol dire che la circolazione dei "diritti edificatori" può avvenire senza il consenso della pubblica amministrazione, al contrario di quanto attualmente avviene per i contratti di cessione di volumetrie. Il senso della trasferibilità dei diritti non risulta chiaro, non essendo specificato se la scelta circa la delocalizzazione spetti al titolare ovvero all’amministrazione. Probabilmente, si vuol dire che, attraverso trattative tra il comune e i titolari, si dovrà comunque trovare un accordo per la realizzazione dei diritti anche su area diversa da quella in relazione alla quale sono attribuiti i diritti stessi (ecco una delle implicazioni della preferenza accordata dal disegno di legge alla negoziazione rispetto all'urbanistica imperativa: art. 5, comma 4).

Lo schema di norma non specifica con quale atto (piano strutturale, regolamento urbanistico o piano operativo) si debba procedere alla distribuzione dei "diritti edificatori", rimettendo la decisione alle regioni (e, come noto, le regioni hanno ad oggi adottato discipline assai diversificate per quanto attiene ai compiti e ai contenuti del piano strutturale e di quello operativo).

Sono contemplate anche altre forme di attribuzione di questi diritti. Il comma 4 dell’art. 9, prevede che “anche allo scopo di favorire il rinnovo urbano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici, le regioni possono prevedere incentivi consistenti nella incrementabilità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici vigenti” (cfr. l'art. 11, comma 5 della l.r. Lombardia n. 12/05 cit.). A prescindere dalle ulteriori implicazioni che la norma può avere (ad esempio sulla natura non più ricognitiva delle prescrizioni territoriali a tutela del suolo o della incolumità pubblica), essa vuol dire che il comune può attribuire, per le finalità più varie (stabilite dalla legge regionale), una quantità maggiore di "diritti edificatori" rispetto a quanto stabilito in sede di pianificazione (con tutto quanto ne segue in termini di mancanza di valutazioni complessive).

Previsione sostanzialmente analoga, da questo punto di vista, è contenuta nel comma 5: il comune invece che indennizzare in forma monetaria un vincolo preordinato all’esproprio, può riconoscere al proprietario il diritto a una certa volumetria d realizzare altrove, anche su aree comunali. Questa è la cosiddetta compensazione.

2. I "diritti edificatori"

Effettuata questa sintesi della disciplina della perequazione e della compensazione, si può passare al punto centrale della materia: cosa sono, dal punto di vista giuridico, i "diritti edificatori"?

In via di prima approssimazione, si può affermare che essi si riferiscono a una certa volumetria, come detto, determinata in sede di pianificazione (strutturale od operativa), che il titolare ha il diritto di realizzare. Questa descrizione non esaurisce però l'argomento.

Come anticipato, è previsto che questi diritti (e dunque la volumetria cui essi si riferiscono) siano trasferibili e liberamente commerciabili "negli e tra gli ambiti territoriali": costituiscono dunque autonomi beni giuridici, in quanto tali, idonei a essere oggetto di contratti; beni giuridici che, attribuiti dal comune in ragione del diritto di proprietà su un immobile e delle sue caratteristiche (estensione e valore), possono però vivere e circolare separatamente dal bene in relazione al quale sono stati attribuiti.

Ma se il "diritto edificatorio" può esistere a prescindere dalla relazione del titolare con un bene immobile, non può essere qualificato come diritto reale (es. il diritto di proprietà, di enfiteusi su un bene immobile), né come facoltà di un diritto reale (quale era secondo alcuni lo jus aedificandi o come talvolta ha ritenuto la giurisprudenza con riguardo ai contratti di cessione di cubatura), né come potere attribuito dalla pubblica amministrazione in relazione a un diritto reale e alle relative modalità di esercizio. In altri termini, secondo la norma in commento, il "diritto edificatorio" perde potenzialmente le caratteristiche proprie della realità (ossia di relazione giuridicamente qualificata di un soggetto con una res). Esso sembra avere una diversa natura giuridica e segnatamente quella di diritto personale imputato al titolare: a fronte di un "diritto edificatorio", vi è un soggetto obbligato, un debitore.

Per comprendere il punto occorre ricordare che la distribuzione dei "diritti edificatori" ai proprietari di immobili inclusi in un determinato ambito di trasformazione (come accade, ad esempio, nel regime del comparto edificatorio), avviene ricorrendo a formule organizzatorie (variamente configurata in dottrina e in giurisprudenza: associazione senza personalità giuridica, comunioni tra proprietari, ecc.), intese comunque ad assicurare la realizzazione unitaria della trasformazione prevista. Queste forme di coordinamento tra i proprietari producono un effetto perequativo, ossia quello di ripartire tra tutti i partecipanti all'organizzazione i diritti e gli oneri connessi alla trasformazione nell'ambito del perimetro, in proporzione alla quota di partecipazione. Il che in sintesi vuol dire che gli aspetti organizzativi e reali della vicenda risultano assolutamente inscindibili.

Al contrario, la previsione della trasferibilità e della commerciabilità tra gli ambiti territoriali comporta la potenziale trasformazione della natura giuridica del "diritto edificatorio" che, perse le caratteristiche della realità, assume quelle del diritto di credito (e non è un caso che la giurisprudenza amministrativa, con riferimento a "diritti edificatori" relativi ad ambiti diversi da quelli in cui ricade il bene immobile del titolare, ha ripetutamente parlato di "credito volumetrico": cfr. Tar Campania, sez. di Salerno, sez. I, 6 dicembre 2001, n. 845 e 20 febbraio 2003, n. 845).

In questa logica, il debitore è il comune, il quale, a fronte di ogni "diritto edificatorio", deve consentire al titolare di realizzare la volumetria oggetto del diritto stesso e di acquisire su essa il diritto di proprietà: prima o poi, si dovranno soddisfare tutti i "diritti edificatori" distribuiti. Si può dunque affermare che al "diritto edificatorio" in capo a un privato, corrisponde senz’altro un "debito edificatorio" per il comune.

Vale la pena di precisare che, a dispetto della terminologia adoperata, il titolare del diritto in discorso, nei confronti del comune, è da considerare, da un punto di vista strettamente tecnico, come portatore di un interesse legittimo alla soddisfazione del suo diritto (precisazione questa rilevante da diversi punti di vista). Ma questa constatazione non cambia la natura sostanziale delle cose, ossia che il comune sia comunque obbligato ad assicurare la realizzazione della volumetria riconosciuta nell'atto di pianificazione; e ciò preferibilmente attraverso accordi con il relativo titolare (tanto è vero che il giudice amministrativo, con riferimento al c.d. "piano delle certezze" del Comune di Roma, ha già avuto modo di affermare, sia pure incidentalmente, che all'attribuzione dei "diritti edificatori" corrisponde per l'amministrazione un vincolo per quanto attiene alla decisione circa l'an della volumetria da realizzare, anche in assenza della determinazione delle concrete modalità di attuazione di tali diritti: cfr. Tar Lazio, sez. I, 19 luglio 1999, n. 1652, § 8.1.).

Come anticipato, i commi 4 e 5 dell'art. 9 si occupano parimenti dei "diritti edificatori", tuttavia nella diversa ottica di promuovere il rinnovo urbano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici, nonché di sostituire indennità monetarie. Nonostante la diversa funzione, anche in questa ipotesi mantengono la natura di diritti di credito nei confronti del comune.

Da un punto di vista teleologico, il "diritto edificatorio" assolve dunque a due distinte funzioni. Innanzitutto dovrebbe svolgere una funzione perequativa: a ogni immobile inserito in un ambito di trasformazione, come individuato dal piano strutturale, viene riconosciuto un certo numero di "diritti edificatori" in relazione alla sua estensione e al suo valore, come risultante prima del piano (“indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso”: cfr. art. 9 comma 4). Si dovrebbe così realizzare una condivisione di vantaggi e oneri per tutti i soggetti coinvolti dalla trasformazione (si usa il condizionale, dal momento che è pura illusione pensare che, attraverso l'astrattezza del "diritto edificatorio", si possa ottenere la piena indifferenza dei proprietari rispetto alle previsioni di piano: cfr., ad esempio, la sentenza del Tar Lazio, n. 1652/99 cit., § 8, lett. a e § 8.1.).

Inoltre, il "diritto edificatorio" può sostituire le indennità che il comune deve pagare a fronte di vincoli anche, ma non solo, espropriativi (art. 9, commi 4 e 5). Qui la perequazione non c’entra nulla, avvenendo l'attribuzione dei diritti in sostituzione di indennità monetarie dovute a vario titolo (chi sa se i Deputati avevano in mente gli assegnati, escogitati in Francia nel dicembre 1789?).

E' evidente che il meccanismo sinteticamente descritto, ove implementato, produrrà un incremento potenzialmente incontrollato del "debito edificatorio" dei comuni, in modo potenzialmente svincolato da ogni valutazione di sostenibilità (estetica, sociale, ambientale, ecc.), che dovrebbe essere effettuata nel piano strutturale, nonché da ogni correlazione con l’interesse pubblico (che, detto per inciso, al di là di proclamazioni formali, non sembra svolgere alcun ruolo nella struttura del disegno di legge).

3. Osservazioni critiche

Guardando alla sostanza del fenomeno, ci si accorge che i "diritti edificatori", come disciplinati nello schema normativo, in effetti rappresentano una potenziale distorsione delle dinamiche democratiche che dovrebbero presiedere alla funzione di governo e di gestione del territorio. Il tema, ovviamente, si potrebbe prestare ad ampie ed approfondite riflessioni, ma appaiono sufficienti le seguenti considerazioni.

Non si deve essere profondi conoscitori della teoria della "cattura del regolatore" o di quella comunemente denominata "Public Choice" (che, come noto, valse il premio Nobel per l'economia a J. Buchanan nel 1986) - teorie i cui presupposti peraltro non sono condivisibili -, per comprendere che i processi regolativi e di elaborazione delle politiche pubbliche, specie allorquando intercettano interessi economici forti (quali sono indubbiamente quelli connessi alla rendita immobiliare), necessitano di strumenti giuridici e istituzionali che mantengano l'amministrazione pubblica esente, per quanto possibile, da interferenze e condizionamenti indebiti, consentendole di assumere decisioni e di eseguirle autonomamente dal consenso dei privati interessati.

Tutto al contrario, il disegno di legge sembra fatto apposta per generare fenomeni di "cattura" dell'amministrazione pubblica da parte dei portatori di interessi forti ovvero per produrre indebiti vantaggi a favore di alcuni gruppi (es. i beneficiari della rendita) a scapito di altri (es. i cittadini). Infatti, da un lato, non contiene principi forti cui gli enti di pianificazione si devono ispirare nell'elaborare le politiche territoriali; e, dall'altro, anche attraverso la sintetizzata disciplina dei "diritti edificatori", depotenzia la potestà decisionale dell'apparato pubblico, rafforzando nel contempo la posizione dei titolari della rendita.

Ricorrendo ad altri concetti, si può osservare che la circostanza per cui i "diritti edificatori" possano circolare liberamente ed essere trasferiti nei diversi ambiti, a prescindere, come detto, da un retrostante diritto di proprietà su un bene immobile, consente a pochi soggetti di farne incetta, per poi magari concentrarli su determinate aree in loro disponibilità. Il disegno appare più chiaro se si considera che, a mente dell’art. 8, comma 8, i piani attuativi possono, nella sostanza, essere anche a iniziativa di soggetti privati (ossia dei titolari dei diritti edificatori) e che, a mente dell’art. 5, comma 4, “le funzioni amministrative sono esercitate (…) prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi (…)”.

Una volta che si permetta ad alcuni soggetti di acquistare dagli altri proprietari il diritto di realizzare una certa volumetria e successivamente di proporre l’adozione di strumenti attuativi (compibili con il piano strutturale solo per quanto riguarda gli obiettivi, ma non le volumetrie: cfr. art. 9, comma 1), ovvero di contrattare con il comune forme, tempi e modi di realizzazione, le amministrazioni comunali si troveranno, nella migliore delle ipotesi, nella condizione di non essere più titolari esclusivi della funzione di pianificazione operativa, ma, nella sostanza, di doverla condividere con i detentori dei "diritti edificatori", dalle stesse riconosciuti.

Il rischio vero che si corre è allora che, attraverso questa disciplina, si privatizzi il territorio (inteso come l’insieme di beni immobili, pubblici e privati, su cui è insediata e vive la collettività locale), attribuendo poteri incisivi a soggetti privati, i titolari dei "diritti edificatori", e deprivando le amministrazioni locali e i cittadini di adeguati strumenti per la tutela dell’interesse pubblico. E vale la pena di ricordare che, per quel che qui interessa, la natura pubblica della pianificazione territoriale risponde all’esigenza di garantire che siano effettivamente goduti i diritti e le liberà fondamentali dei cittadini: la potestà pubblica deve costituire, tra l’altro, un valido baluardo contro i poteri privati.

Queste considerazioni non devono però indurre a ritenere che si sia in presenza di uno schema normativo di tipo liberista, orientato cioè a far emergere le forze del mercato, sinora compresse e mortificate dall'invadenza dell'apparato pubblico e dalle sue regole. Infatti, qui il mercato e il gioco della concorrenza c'entrano poco o nulla.

La logica sottesa al disegno di legge è piuttosto quella del "debito edificatorio": rivive qui la stessa incultura che ha portato l’Italia ad accumulare un immenso debito pubblico, riversandone gli effetti devastanti sulle generazioni più giovani. Da questo punto di vista, la proposta risulta generazionalmente connotata e non contiene purtroppo nulla di nuovo, dal momento che si limita ad affermare che i comuni, attraverso l’attribuzione di "diritti edificatori", possono impegnare il loro territorio, per le finalità più varie. E questa operazione viene giustificata con riferimento alle esigenze di uguaglianza tra i proprietari (e, come noto, anche sull’incremento del debito pubblico hanno influito non poco esigenze di uguaglianze tra diverse categorie produttive); come se fosse questo il problema del territorio italiano. Il territorio è un bene limitato e pertanto un meccanismo come quello descritto, che fisiologicamente porta all’aumento incontrollato della quantità di "debiti edificatori" a carico dei comuni, è contrario al principio di solidarietà tra le generazioni.

La (in)cultura del debito pubblico (e dunque la ideologia dell’egoismo generazionale) consente forse di comprendere le ragioni per le quali la proposta, a quanto si legge, è stata condivisa anche da esponenti dell’opposizione.

4 settembre 2005

Per il Land Sachsen-Anhalt si tratta forse solo di uno stratagemma mediatico per attivare risorse altrimenti non disponibili. Come già nelle precedenti edizioni, anche questa volta l’esposizione internazionale cerca però di farsi strumento per affrontare un tema di particolare significatività: “la città in contrazione” ovvero “the shrinking city” (g.j.f.)

Titolo originale: Neue Perspektiven für Städte im Umbruch - Traduzione per Eddyburg di Georg Josef Frisch

Con l’ Iba ristrutturazione urbana 2010, il Land Sachsen-Anhalt vuole mettersi nella tradizione delle precedenti due esposizioni edilizie internazionali: negli anni Ottanta, l’Iba di Berlino propugnava i metodi di rinnovo urbano cautelativo; negli anni Novanta l’Iba Emscher Park si è occupata della rimodellazione dei paesaggi industriali nella Ruhr. Per la prima volta, con l’ Iba ristrutturazione urbana 2010 è un intero Land oggetto di un’esposizione edilizia internazionale.

Le città di domani non si possono più orientare all’immagine di una città in continua crescita. La qualità urbana e la capacità economica non dipendono da una crescita di abitanti e del consumo di aree, ma dalla crescita qualitativa di settori economici strategici e di progettualità: meno è più. Questi sono i pensieri guida dell’ Ibaristrutturazione urbana 2010 che viene organizzata, su incarico del governo del Land, insieme dalla fondazione Bauhaus Dessau e dalla società di sviluppo territoriale SALEG. L’esposizione internazionale ristrutturazione urbana 2010 a Sachsen-Anhalt si intende come “laboratorio” dove “strumenti” diversi della ristrutturazione urbana vengono usati e sperimentati.

Condizione per la partecipazione all’Iba è che le singole città coinvolte elaborino per se un profilo chiaramente riconoscibile, focalizzato sul rafforzamento e l’utilizzo dei propri potenziali economici, sociali e culturali e che possa servire nello stesso tempo come linea guida dello sviluppo edilizio e spaziale futuro. Su questa base, ogni città dell’Iba elabora un tema specifico della ristrutturazione urbana, che deve essere rilevante nel processo complessivo e i risultati del quale devono essere trasferibili in altre città.

Attualmente partecipano 15 città con una grande varietà di temi all’Iba. La partecipazione delle città e la loro valutazione annuale è decisa dalla giunta dell’Iba, presieduta dal ministro per l’edilizia. Il presidente del consiglio dell’Iba, composto da delegati del governo federale e regionale, delle associazioni di categoria, delle camere professionali e di esperti indipendenti è il presidente del governo Prof. Dr. Böhmer.

L’Iba non è un programma finanziato ad hoc. Il governo sovvenziona progetti nell’ambito dell’Iba prioritariamente tramite programmi già esistenti. Oltre ai lavori nelle singole città l’Iba organizza uno scambio di informazioni e opinioni sugli aspetti molteplici della ristrutturazione urbana: tramite colloqui internazionali, seminari e tramite la rete delle città dell’Iba composta dai 44 siti di ristrutturazione in Sachsen-Anhalt.

La prospettiva della città snella

Oggi, le città non si possono più orientare all’immagine di una città in continua crescita. Almeno nel medio periodo devono fare i conti con una dinamica demografica negativa e con una struttura generazionale diversa.

La qualità urbana e la capacità economica non dipendono però da una crescita di abitanti e consumo di aree, ma dalla crescita qualitativa di settori economici strategici e di progetti. Una concezione contemporanea della città del 2010 si basa dunque sull’accettazione positiva del nuovo spazio dovuto alla liberazione di aree: meno è più.

I cambiamenti strutturali nella società industriale influenzano massicciamente i tessuti urbani ma non determinano una contrazione automatica delle città dalle periferie fino al centro tradizionale. La pianificazione urbana deve quindi rispondere alla domanda con quali strumenti e in quali luoghi della città del 20. secolo si possa continuare a organizzare l’urbanità.

Nella Germania dell’Est il cambiamento strutturale, in collegamento con il cambiamento di sistema, si è impresso in modo talmente radicale sulle città che non era rimasto tempo per un processo lento di adattamento. L’alta e continuativa disoccupazione comporta in molte regioni un processo drammatico di migrazione. Per questo si devono compiere in pochissimi anni trasformazioni che altrove durano decenni.

A Sachsen-Anhalt ci sono 200.000 alloggi attualmente non occupati e dovranno essere demoliti. Grazie all’elaborazione precoce ed estesa di concetti per lo sviluppo urbano in complessivamente 43 città, le possibilità per un processo positivo di ristrutturazione urbana sono particolarmente alte.

Oltre ai concetti tradizionali, orientati allo sviluppo spaziale della città, è necessaria una precisazione del profilo economico, sociale e culturale di ogni città. Obiettivo dell’Iba è la promozione di questi profili con progetti utili sul luogo.

Il concetto dell’Iba

Un’esposizione internazionale non è un’esposizione convenzionale. I visitatori non aspettano quadri in un museo oppure teche in una fiera. Gli oggetti dell’Iba sono - oppure diventano - realtà. L’esposizione internazionale ristrutturazione urbana a Sachsen-Anhalt 2010 si propone come “laboratorio”, dove sperimentare e utilizzare in modo esemplare i diversi strumenti della ristrutturazione urbana. I progetti più innovativi vengono sostenuti e finanziati come progetti dell’Iba in parte dal governo regionale. Nell’anno conclusivo 2010 potranno essere visitati tutti i progetti realizzati.

Con l’obiettivo dello sviluppo di profili duraturi nel tempo e utili nel rafforzamento dell’identità, ogni città che partecipa all’Iba si occupa di uno degli argomenti fondamentali della ristrutturazione urbana. I temi e i progetti non si devono però caratterizzare soltanto per i propri contenuti di riqualificazione urbana e architettonica; essi si devono inoltre qualificare per modalità innovative nel finanziamento, nella cultura della pianificazione e nella partecipazione degli abitanti. Anche un progetto artistico che riguarda i temi della ristrutturazione e della diminuzione urbana può diventare un progetto dell’Iba.

I dieci principi dell’Iba

1. La ristrutturazione urbana riguarda tutti

Mediare fra gli interessi degli abitanti e dei proprietari, degli esercenti e dei comuni:

- tutte le forze sociali sono possibili pionieri della ristrutturazione urbana: gli abitanti si appropriano di spazi, formano reti e diventano attori urbani – fino a diventare “fondatori di città”;

- la ristrutturazione si dispiega quando gli obiettivi economici dei proprietari privati e delle società immobiliari si accordano con gli interessi degli abitanti. E’ compito delle amministrazioni pubbliche governare il processo di negoziazione;

- i pionieri dello spazio e le loro modalità innovative di comportamento all’interno delle strutture esistenti provocano modalità d’azione anticonformiste; questo vale soprattutto per i giovani e per chi intraprende una nuova attività, che deve essere sostenuto in questo;

- il tempo libero sovvenzionato degli abitanti si combina con lo spazio libero per l’appropriazione e per la formazione di proprietà. In questo modo nascono gli stimoli per l’autonomia e per la formazione di proprietà residenziale nei centri urbani.

2. Il cambio della struttura è un’occasione per il rinnovo urbano

Scoprire potenziali sconosciuti e svilupparli in modo creativo durante il processo di ristrutturazione:

- la ristrutturazione urbana comprende più che l’adeguamento del mercato abitativo tramite la demolizione e la valorizzazione urbanistica: la ristrutturazione urbana è un compito multidimensionale di formazione di strutture urbane, capaci di futuro;

- i concetti di ristrutturazione urbana devono valutare il riuso della struttura urbana complessiva, di singoli ambiti, gruppi di edifici o edifici singoli sullo sfondo di documentati potenziali di sviluppo e consolidamento;

- la ristrutturazione urbana incide sulla struttura urbana e sulla configurazione sociale e dura più a lungo di quanto prevedono gli orizzonti pianificatori e i periodi di finanziamento e di quanto i cicli biografici di vita degli abitanti necessitano;

- ristrutturazione urbana è la connessione fra concetti di risanamento urbanistici e determinazioni imprenditoriali delle imprese immobiliari nonché il riuso delle infrastrutture tecniche e sociali della città;

- spazi ed edifici a buon mercato offrono le possibilità per i mercati informali e le economie di servizio che devono diventare portatori della cultura urbana.

3. La forma della città cambia

Formulare scenari per la città ristrutturata e tradurli in concetti per i quartieri:

- la nuova occasione della ristrutturazione urbana consiste nella particolarità di ogni città di assumere, tramite l’eliminazione di sovrastrutture e incongruità, una forma più chiara: “meno è più”;

- il contesto non strutturato di frammenti urbani richiede nuove interpretazioni e forme di appropriamento dell’urbano. Forme d’azione post-industriali, comunicazione virtuale e reti sociali trasformati cambiano la percezione quotidiana e l’uso degli spazi urbani: stili di vita urbani non sono più legati alla forma tradizionale della città;

- in ogni città è necessario individuare in che modo i quartieri risalenti ad altre epoche, nonché le aree dismesse, quelle verdi, le aree dedicate alle infrastrutture per la mobilità e altro possono essere plasmati per continuare ad assolvere la propria funzione e rimanere spazi attrattivi anche in seguito a una contrazione urbana permanente;

- i quartieri di diverse densità e funzioni devono essere integrati come spazi urbani con specifiche caratteristiche funzionali e spaziali. L’urbanistica necessita di un’idea più ampia di pianificazione, di architettura e città come spazio sociale, di un cambio di paradigma nella successione temporale di pianificare, realizzare e riflettere le conseguenze.

4. Progetti modello caratterizzano la ristrutturazione

Con la progettazione sperimentale e innovativi mix funzionali ristrutturare in modo attraente le città:

- strutture edilizie esistenti e piante urbane subiscono una nuova interpretazione e vengono destinate a nuovi usi; le grandi strutture vengono suddivise in unità più piccole e adattate a nuovi usi;

- sperimentazioni urbanistiche connettono, in singoli progetti di ristrutturazione, il lavoro con l’abitare, con il tempo libero e la cultura. Queste connessioni mirano a mix funzionali nelle case e nei quartiere incidendo sulla produzione di città in forma di piccole unità spaziali. Progetti modello per la ristrutturazione urbana non vengono promossi soltanto negli ambiti soggetti a finanziamento pubblico, ma anche in parti urbane di particolare importanza per lo sviluppo urbano;

- al posto della demolizione bisogna valutare le forme del mantenimento del patrimonio esistente per rafforzare l’identità dei quartieri; anche le nuove costruzioni servono a questo fine.

5. Ogni città ha la propria via di sviluppo

Identificare le qualità delle città e inserirle all’interno della rete urbana regionale:

- ogni città definisce le proprie prospettive di sviluppo sullo sfondo delle proprie caratteristiche storiche che definiscono la loro posizione nella rete urbana di Sachsen-Anhalt. Le possibilità di consolidamento e di sviluppo risultano dai potenziali endogeni come dall’importanza regionale;

- le diversità nell’attrezzatura e lo sviluppo diacronico degli spazi offre la possibilità di stili di vita diversi: le diverse identità regionali non sono da livellare ma da incrementare nella loro dinamica produttiva;

- la formulazione di tipologie urbane verte sulla definizione di chiari contorni e attrattive immagini spaziali delle città nella regione: servono ai comuni per definire i scenari e per sviluppare le strategie della modernizzazione.

6. La ristrutturazione produce spazi liberi

Ricercare una relazione equivalente fra città e campagna:

- i paesaggi post-industriali connotano l’immagine della città nella forma di spazi dismessi, interruzioni e periferie interne;

- le zone di transizione e di confine fra lo spazio edificato e quello aperto sono zone produttive della ristrutturazione urbana; gli spazi liberi diventano campi di sperimentazione di un tipo nuovo di paesaggio urbano. Il desiderio di una vita ai bordi della città può essere realizzato anche in luoghi centrali;

- i paesaggi diventano mondi di vita nelle città.

7. I tempi del rivolgimento sono dinamici

Soffermandosi nei processi decisionali tenere aperte le occasioni future:

- “lasciare” e “aspettare” sono strategie della distensione in tempi di cambiamento; promuovono la tranquillità, la voglia e l’energia di pensare cose fuori dal comune;

- una coscienza positiva di “vuoto” e “cambiamento” è la premessa per poter percepire diversamente gli spazi e attribuirgli valori differenziati.

8. La ristrutturazione urbana attinge a fonti di finanziamento variegate

Intrecciare gli investimenti e sovvenzioni da parte delle politiche economiche, sociali e urbanistiche:

- i progetti modello promossi esulano dalle procedure, strumenti e metodologie tradizionali della ristrutturazione urbana e suggeriscono specifiche modificazioni legislative;

- le decisioni circa l’allocazione di risorse pubbliche devono garantire il finanziamento di progetti sperimentali con rilievo internazionale; le modalità di finanziamento si devono orientare ai progetti;

- i progetti di ristrutturazione urbana vertono al conseguimento di risultati nel mercato del lavoro pubblico e privato.

9. I media e la comunicazione determinano l’immagine della città

Sviluppare concetti di marketing urbano per la ristrutturazione:

- media, comunicazione e immagini esercitano un’importante influenza sulla configurazione urbana e devono essere utilizzati come strumenti della pianificazione e della costruzione;

- interventi estetici creano spazi mentali liberi e offrono immagini per la propria attivazione; strutture aperte e flessibili rendono possibili comportamenti urbani;

- il marketing urbano mette a fuoco l’immagine della città e crea, insieme alle iniziative culturali ed economiche, nuovi posti di lavoro.

10. Le città in diminuzione sono un fenomeno internazionale

Organizzare e promuovere la ristrutturazione urbana nel contesto globale

- la ristrutturazione urbana è un lavoro epocale, sia delle città della Germania dell’Est, sia di molte città europee ed extra-europee. La “la città in contrazione” (“ shrinking city”) è un tema generale che deve essere dibattuto e sperimentato in sede internazionale;

- la ristrutturazione urbana pone nuove domande e apre a nuovi campi di ricerca nei settori della tecnica, economia e cultura, che devono essere elaborati nello scambio internazionale;

- il know-how della ristrutturazione urbana nell’Est genera nuove soluzioni di rilevanza regionale e interregionale.

Nota: qui il sito ufficiale dell’Iba (G.J.F.)

Brisbane City Council, Response to the Homeless Strategy, 2002-2006, redazione di Suzanne Lawson, Social Policy Branch, Community and Economic Development, ottobre 2002; Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

Introduzione

Il Consiglio comunale di Brisbane è impegnato a fare di Brisbane una città inclusiva. Uno dei punti di questa idea è di assicurare che i gruppi emarginati non vengano ulteriormente colpiti dallo sviluppo della città come capitale moderna. Gli homeless sono tra i gruppi più emarginati di Brisbane.

Il consiglio comunale ha sviluppato la propria strategia per i senza fissa dimora come risposta al bisogno di queste persone che vivono in città, e di chi rischia di trovarsi in tale condizione. Il censimento del 2001 indica che esistono almeno 350 homeless nella sola area centrale di Brisbane. Nel 1996, era stato stimato un totale di 4900 persone nel territorio comunale.

In genere non si è senza fissa dimora per scelta. Gli homeless esprimono bisogni diversi, a cui devono corrispondere risposte differenziate. È quindi indispensabile che vengano coinvolti nel problema tutti i settori governativi, cittadini e i privati.

Il Consiglio si rende conto che esisteranno sempre e comunque a Brisbane degli homeless, incluso chi sceglie di non avere un alloggio fisso. In questi casi l’obiettivo è di migliorare l’accessibilità a strutture e servizi essenziali come i pasti, la sanità, la sicurezza.

Negli ultimi 12 mesi ci sono stati segnali crescenti del fatto che Brisbane City si trovi ad un punto critico per quanto riguarda la questione degli homeless. In particolare:

• problemi di conflitti begli usi degli spazi pubblici [...]

• una rapida gentrification e ristrutturazione urbanistica degli spazi della città centrale, con perdita di spazi pubblici

• continua diminuzione di adeguati alloggi a prezzi accessibili: chiusura di pensioni e demolizioni

• impatti di lungo termine della de-istituzionalizzazione delle cure mentali e dei servizi di riabilitazione

• incapacità dei servizi di rispondere a problemi i rapida emergenza e trasformazione

• aumento delle povertà e della disoccupazione permanente

• riduzione delle risorse pubbliche per i servizi sociali e la casa.

I vari piani e interventi delle autorità federali, statali e locali hanno avuto effetti sugli attuali livelli del problema. Il tutto è stato aggravato dall’incapacità dei servizi di rispondere alla domanda, e dalla mancanza di comprensione e tolleranza degli homeless da parte della cittadinanza.

Il Consiglio, nell’ambito del proprio impegno a costruire una comunità inclusiva e tollerante, attiverà una serie di interventi per gli homeless di Brisbane, in collaborazione con tutti i gradi di governo.

Le dimensioni del fenomeno

Il termine homeless a grandi linee si riferisce a persone prive di una sistemazione convenzionale. La definizione comunemente accettata comprende persone che:

• sono prive di qualunque alloggio (vivono nei parchi o comunque dormono all’aperto) – situazione di primo grado

• si spostano fra varie forme di alloggio temporaneo, come ad esempio ricoveri di emergenza, parchi, ospitalità di amici o parenti – situazione di secondo grado

• vivono in condizioni di precarietà, inadeguate ai loro bisogni, insicure, come nei casi di giovani che subiscono abusi a casa – situazione di terzo grado.

Il problema dunque può essere:

• di breve termine a causa di una crisi

• di lungo termine se una persona si adatta alla situazione di homeless

• in evoluzione nel caso in cui una persona a rischio si muove tra varie forme di sistemazione precaria.

È riconosciuto che le circostanze ed esperienze degli homeless sono individuali, e le risposte devono essere flessibili a sufficienza da adattarsi a bisogni vari e complessi. Comunque, in molti casi si verificano:

• povertà, e vicende di esclusione sociale e abusi

• mancanza di controllo sugli spazi dove vivono

• sensazione di non essere accettati nella comunità dove si vive

• maggiore probabilità di situazioni di svantaggio quali malattia mentale, dipendenza da sostanze, traumi e abusi.

Le risposte al problema homeless devono quindi essere rivolte alle esperienze individuali e insieme ai più ampi problemi della povertà, disoccupazione, accesso ad alloggi a basso prezzo e servizi adeguati. Le persone homeless devono anche vedere riconosciuti i propri diritti di cittadini, di partecipare alla vita urbana. [...]

Principi

• il Consiglio riconosce che esistono persone homeless per una quantità di motivi, e per l’assenza di valide alternative, esse non devono essere accusate o discriminate per il loro stato di senza fissa dimora.

Il Brisbane City Council accetta le persone homeless come parte della comunità, e collabora con esse alla soluzione dei loro problemi.

• le persone homeless sono tra le più svantaggiate della città. Il Consiglio si impegna ad assicurare che progetti urbanistici, programmi e procedure in atto nelle aree di sua competenza non aggiungano altri svantaggi.

• insieme a tutti gli altri livelli di governo, e alla cittadinanza, il Consiglio ha l’obbligo morale di rivolgersi agli homeless della città nell’ambito di un più vasto obiettivo, per una città più tollerante, funzionale e inclusiva.

• ciascuno all’interno della nostra comunità ha il diritto ad un alloggio adeguato. Il Consiglio collaborerà con le autorità statali e federali per assicurare la disponibilità di abitazioni stabili, sicure e a prezzi accessibili, sostenendo le possibilità delle persone homeless.

• il Brisbane City Council riconosce che le persone senza fissa dimora sono cittadini con gli stessi diritti e responsabilità degli altri che vivono in città. Le persone homeless, insieme agli altri membri della comunità:

• hanno il diritto di stare negli spazi pubblici sia senza timore di essere aggrediti, sia con la responsabilità di non infrangere i diritti altrui

• hanno a disposizione vari spazi della città significativi per gruppi particolari come i giovani homeless

• devono poter accedere alle strutture interne agli spazi pubblici che rispondono ad alcuni loro bisogni essenziali

• in quanto partecipanti alla vita della città, verranno consultati per quanto riguarda le decisioni del Consiglio che li riguardano.

• il Consiglio riconosce che molte persone homeless sono Indigeni, e che alcuni Indigeni preferiscono vivere e svolgere attività asociali all’aperto. Il Consiglio riconosce anche il significato culturale di alcuni luoghi della città per la popolazione Indigena. Il Consiglio consulterà la popolazione Indigena per quanto riguarda gli spazi pubblici che essa ritiene significativi. [...]

Evoluzione nei profili della popolazione homeless

All’interno della popolazione homeless esistono gruppi distinti che necessitano di servizi specifici. Ciò si connette sia ai limiti nelle strutture che ai mutamenti nei profili della popolazione. Tali gruppi comprendono:

• famiglie

• donne, in particolare donne Indigene

• giovani

• rifugiati.

I paragrafi seguenti delineano alcune questioni relative a questi gruppi. L’individuazione di tali questioni non esclude il fatto che molte persone senza fissa dimora esprimano bisogni critici.

La maggioranza della popolazione homeless ha oltre 40 anni, e si tratta in particolare di uomini, e altri uomini più anziani continuano ad avere una serie di necessità a cui non trovano risposta. Esistono limitate possibilità di includere anziani senza fissa dimora o persone che corrono questo rischio nell’ambito dell’assistenza corrente.

Il Consiglio ha una serie di iniziative concernenti questi gruppi. [...]

1. Famiglie

Non esistono sistemazioni di emergenza per famiglie a Brisbane. Nel corso di una verifica trimestrale (settembre-dicembre 2001) nell’area della inner city, sono state assistite dieci famiglie. Si riportano casi di famiglie in stato di emergenza che dormono in automobile.[...]

2. Donne

Lo studio promosso dal Consiglio, Women in Brisbane, riferisce di sistemazioni di emergenza e alloggi temporanei per donne, considerati una questione chiave. Ciò comprende alloggi e servizi per donne con bambini, donne Indigene, donne asiatiche, e alloggi sicuri per giovani.

Lo Anglican Women’s Hostel, la San Vincenzo De Paoli, e il Good Samaritans offrono un totale di 28 posti letto per donne nella zona centrale. Le donne con bambini possono essere ospitate nella casa ad alloggio temporaneo della Good Samaritans.

Sono necessarie ricerche sui bisogni e le risposte più adeguate per le donne homeless e i bambini, comprese le connessioni fra lo stato dei senza fissa dimora e la violenza domestica, o la vita di strada in situazioni di violenza.

Lo Indigenous Women’s Safety Reportindividua fra le priorità:

• servizi mobili e flessibili in grado di rispondere ai bisogni immediati come assistenza medica, cibo, assistenza legale e sistemazione (Azione 1).

• possibilità di trasporto per partecipare ad importanti eventi comunitari come funerali e altre cerimonie (Azione 2).

• migliori strutture nei parchi per offrire pasti e assistenza a i bambini (Azione 3).

• fondi disponibili per donne in situazione di crisi per accedere ad un alloggio dove tenere i figli (Azione 4)

• offerta di luoghi sicuri/ drop in (Azione 5).

3. Giovani

Esiste un’ampia tipologia di circostanze e questioni per quanto riguarda i giovani homeless o a rischio di diventarlo, come:

• giovani homeless/a rischio che vivono in alloggi temporanei con amici o familiari

• giovani homeless di lungo termine ad alta visibilità, che tendono ad utilizzare case occupate, centri commerciali, parchi e altri spazi pubblici del centro

• mancanza di sicurezza per i giovani homeless, in particolare per le giovani donne

• vulnerabilità dei giovani dipendenti da sostanze

• giovani che non sono homeless ma sono attratti verso le zone centrali dalla periferia. Alcuni si fermano per un fine settimana ed è possibile aiutarli a rientrare a casa, altri stanno fuggendo da abusi in famiglia.

È critico un intervento rapido per prevenire i giovani rispetto all’ingresso nel cerchio vizioso homeless, dipendenza da droghe, sfruttamento. Programmi di intervento rapido e prevenzione, come il lavoro con le scuole per individuare giovani a rischio, programmi per le relazioni familiari, offerta di sistemazioni assistite, possono aiutare alcuni giovani a evitare il circuito dello stato homeless cronico. Per i giovani senza sistemazione servizi di assistenza sul posto e sostegno economico possono consentire di trovare soluzioni di breve termine dove possono essere sicuri.

I servizi notturni sono limitati ai giovani a rischio della inner city. La Inner Urban Youth Interagency individua i bisogni prioritari per i servizi notturni di persone giovani homeless e a rischio, in particolare in relazione all’uso di droghe, per:

• offrire luoghi sicuri

• fornire accessi di emergenza ai trasporti

• gestire attività sociali

• offrire docce, pasti, posto per dormire un paio d’ore.

Il Red Cross Café è cominciato come progetto pilota di quattro mesi nel luglio 2001, e offre un servizio notturno per giovani. Apre due sere a settimana e offre pasti, docce, un luogo sicuro e servizi di informazione a giovani homeless della città. Un’analisi del progetto condotta nel febbraio 2002 ha rilevato che circa 25-30 giovani usavano il servizio ogni sera, e di questi l’81% dormivano all’aperto o in case occupate. Da allora il numero di giovani che accedono al Café è salito a una media di 45 a notte. È in crescita la percentuale di giovani donne e di persone Aborigene e originarie delle isole dello stretto di Torres. [...]

4. Rifugiati

La Working with Refugees Strategy (2002) sottolinea le carenze di sistemazioni adeguate per i rifugiati, particolarmente per i giovani privi di sostegno e orientamento, e di case a prezzi accessibili per famiglie con molti bambini. Il Refugee Claimants Support Service riporta una media di 120 richiedenti asilo l’anno, ciascuno registrato come in cerca di una sistemazione. [...]

Uso degli spazi pubblici

Le persone prive di fissa dimora sono membri della nostra comunità e hanno i medesimi diritti e responsabilità degli altri cittadini verso gli spazi pubblici. Il Consiglio non ritiene che un approccio di polizia costituisca una risposta adeguata alle questione degli homeless, e che l’uso di tale potere spesso produca il riemergere del problema in altri diversi luoghi. Si sostengono così una serie di orientamenti per affrontare il conflitto nell’uso degli spazi pubblici.

Gli ambiti pubblici in centro e in periferia vengono utilizzati dalle persone senza fissa dimora in diversi modi, Ad esempio:

• gruppi di persone homeless di lungo termine, in particolare giovani e Indigeni, usano i parchi del centro [...]

• singoli homeless abituali, alcuni con problemi mentali, utilizzano alcuni spazi centrali e periferici

• alcune persone che attraversano periodi transitori di crisi usano spazi periferici in tutta la città

• una popolazione provvisoriamente homeless utilizza tettoie per autobus, rifugi nella zona terziaria centrale, centri commerciali

• persone in viaggio usano i parchi di periferia per alcune notti come campo, in particolare nelle aree boscose

• persone non necessariamente homeless utilizzano comunque i parchi come luogo di incontro, in punti dotati di particolare significato, come nel caso della popolazione Indigena [...].

Nelle zone centrali, il calcolo degli Homeless dell’ufficio Censimento nel novembre del 1999 ha rilevato 164 persone che vivevano per strada. Stime del novembre 2001 basate su valutazioni nei parchi della zona centrale indicano che la cifra dovrebbe essere salita ad almeno 275 unità. L’Ufficio Tecnico comunale ha individuato una lista di 20 luoghi disponibili per eventuali interventi di ristrutturazione urbanistica, e almeno dieci di essi sono noti per essere correntemente utilizzati da persone homeless. Vari servizi comunali hanno rilevato presenze di persone senza fissa dimora in periferia [...].

Come indicato sopra, le pressioni al riuso urbano e la diminuzione delle case a prezzi accessibili contribuiscono ad acuire il conflitto per l’uso degli spazi pubblici. Se alcune persone hanno scelto di non avere casa, la maggior parte degli homeless cerca di accedere a qualche tipo di sistemazione. Il Consiglio deve così rispondere per assicurare la sicurezza di tutti nell’uso degli spazi pubblici, e per assistere i senza fissa dimora ad accede a sistemazioni adeguate e ovunque possibile ai vari servizi.

Nota: di seguito è disponibile il file PDF scaricabile di questa traduzione. La versione integrale e originale del documento è disponibile invece nella pagina dedicata ai Piani Cittadini dell’amministrazione di Brisbane (f.b.)
Brisbane_homeless-it

Le seconde case non danno nessun contributo sostanziale e duraturo all’economia dei luoghi. Anzi, se diventano fenomeno di massa, fagocitano le risorse ambientali e paesaggistiche che ne hanno motivato la costruzione.

A questa conclusione dovrebbero essere arrivati un po’ tutti, anche se non si può ancora parlare di un sentire comune. D’altra parte, il sig. B., in questo come in altri dei settori economici su cui mette le mani, da il suo solito cattivo esempio, con le sue sette ville in Costa Smeralda e con gli illeciti che continua a compiere all’interno delle sue proprietà.

L’irriproducibilità della risorsa suolo non è il solo argomento contro le seconde case. L’analisi delle situazioni ormai consolidate nel nostro Paese, dimostra che obiettivamente le seconde case non alimentano nessuna economia duratura e che, al contrario, nei pochissimi casi in cui il fenomeno viene programmaticamente contenuto, i benefici per l’economia locale sono vistosi.

I dati del censimento 2001, confermano quanto già rilevato dopo il 1991. Basta riguardare in proposito quanto pubblicato nel volume degli Editori Riuniti, a cura di Edoardo Salzano, 1942-1992, Cinquant’anni dalla legge urbanistica italiana, in particolare i saggi di Vezio De Lucia, La legge incompresa, e quello di chi scrive, Gli effetti territoriali della legislazione.

Ho provato ad aggiornare quelle tabelle e i risultati, incrociati con i dati sul reddito, sono stupefacenti. Concentro l’attenzione dei lettori su tre graduatorie compilate sulla base dei dati censuari 2001 e dei dati sul valore aggiunto ai prezzi base per abitante del 2000.

La graduatoria delle regioni con le più alte percentuali di seconde case sul totale del costruito, vede in testa (è un dato stabile da molti anni, la Valle d’Aosta, 46,39% contro il 19,51 della media italiana) e poi, a seguire quasi tutte le regioni meridionali, in testa la Calabria con il 35,74%. Lo stesso dato, disaggregato a livello provinciale, vede dopo Aosta (in questo caso, il dato provinciale e quello regionale ovviamente coincidono), Crotone (42,63%), L’Aquila (41,61%), Savona (41,11%) e poi, con percentuali oltre il 35, Sondrio, Imperia, Cosenza, Rieti, Agrigento, Ragusa, Vibo Valenzia e Grosseto.

Spicca, per austerità, la provincia di Bolzano, che ha il dato più basso fra le province sottoposte a pressione turistica: solo l’11,96% di seconde case. E’ interessante confrontare il dato di Bolzano con quello di Trento, provincia nella quale la percentuale di seconde case è vicina a quella delle aree meridionali del Paese: 32,75%. Tre volte il dato della provincia di lingua tedesca. E’ evidente che il dato ha un riscontro anche percettivo: la differenza quanto a cura del territorio fra le due province è avvertita da qualsiasi viaggiatore.

Ma, ancora più interessante è cercare di comprendere quali siano gli effetti sul reddito di così distanti politiche d’uso del territorio. La graduatoria delle province per valore aggiunto sui prezzi base, che è un indicatore di sanità dell’economia locale, mostra che la provincia di Bolzano è la seconda dopo Milano con quasi 26 mila euro per abitante (la media italiana è quasi 18 mila euro), e precede di poco Bologna e Modena ma di almeno 4 mila euro Torino, Roma e Venezia.

La scelta di privilegiare la ricettività alberghiera rispetto alle seconde case, è sicuramente alla base di questi valori. Anche se la maggiore qualità del paesaggio del Sudtirolo è anche legata ad altri fattori: la pratica del maso chiuso, infatti, impedisce la frammentazione della proprietà agricola ed abbinata alle buone pratiche tradizionali di manutenzione del territorio da parte di famiglie che derivano il loro reddito dall’agricoltura oltre che dal turismo, garantisce, insieme alla piena occupazione, la qualità dei luoghi.

Vi sono, in sostanza, molti elementi di riflessione e di studio che emergono da questa raccolta di dati. E sarebbe bene approfondire i legami fra economie locali, uso del territorio, qualità dei luoghi, turismo.

Se guardiamo, infatti, alle regioni italiane a più elevata vocazione turistica e analizziamo i redditi pro capite, così come leggibili attraverso il dato del valore aggiunto ai prezzi base per abitante, rileviamo che Sardegna, Sicilia e Calabria sono in fondo alla graduatoria: rispetto alla media nazionale di quasi 18 mila euro, in Sardegna per ogni abitante abbiamo 13.333 euro, 11.728 in Sicilia e 11.113 in Calabria.

Inoltre, mettendo in correlazione le 25 province con una percentuale di seconde case superiore al 30%, con il valore aggiunto ai prezzi base per abitante, notiamo che solo 6 province presentano un differenziale positivo rispetto al valore medio nazionale. Tutte le altre hanno valori più bassi della media nazionale e in 11 casi la differenza in negativo, è superiore ai 5 mila euro pro capite.

La diretta dipendenza fra redditi elevati e una robusta struttura alberghiera, è infine rilevabile dall’analisi delle presenze negli esercizi ricettivi per regione e, in particolare, dagli ultimi dati disponibili, relativi al 2004. Il dato di gran lunga più elevato si registra in Trentino Alto Adige, con oltre 31 milioni di presenze. Tali presenze sono concentrate comunque in provincia di Bolzano, per un totale di quasi 21 milioni. Le regioni meridionali, Campania esclusa, si attestano su valori molto modesti: 7,3 milioni la Sardegna, 5,7 Calabria e Puglia. E’ interessante notare che la Valle d’Aosta, che ha il primato nazionale di seconde case, è la diciottesima nella graduatoria fra le regioni misurata sulle presenze alberghiere, con appena 2,4 milioni di presenze.

1. Graduatoria delle regioni con le % più alte di seconde case al 2001

Valle D'Aosta: 46,39

Calabria: 35,74

Molise: 30,55

Sicilia: 29,16

Abruzzo: 28,89

Liguria: 27,65

Sardegna: 25,99

Puglia: 24,99

Trentino Alto Adige: 24,37

Basilicata: 24,01

Media Italia: 19,51

Provincia di Trento: 32,75

Provincia di Bolzano: 11,96

2. Graduatoria delle province con le % più alte di seconde case al 2001

Aosta: 46,39

Crotone: 42,63

L'Aquila: 41,61

Savona: 41,11

Sondrio: 39,96

Imperia: 39,08

Cosenza: 38,51

Rieti: 37,82

Agrigento: 37,81

Ragusa: 36,56

Vibo Valenzia: 36,46

Grosseto: 35,56

Belluno: 34,62

Trapani: 34,31

Verbano - Cusio - Ossola: 34,01

Brindisi: 34,01

Catanzaro: 33,75

Caltanissetta: 33,44

Sassari: 33,22

Trento: 32,75

Nuoro: 32,29

Isernia: 31,21

Lecce: 31,03

Enna: 30,67

Campobasso: 30,28

Media Italia: 19,51

Bolzano: 11,96

3. Graduatoria per valore aggiunto ai prezzi base per abitante al 2000

Milano: 28.026,40

Bolzano : 25.963,40

Bologna: 25.303,30

Modena: 25.127,80

Firenze: 23.088,30

Torino: 21.883,50

Roma: 21.431,60

Venezia: 21.311,10

Media Italia: 17.982,40

Sardegna: 13.331,50

Sicilia: 11.728,60

Calabria: 11.113,00

4. Graduatoria delle province con le % più alte di seconde case al 2001 e confronto fra valore aggiunto ai prezzi base locale e nazionale al 2000

La prima cira indica la % seconde case sul totale abitazioni al 2001: la seconda la differenza fra valore aggiunto ai prezzi base per abitante locale e la media nazionale in € al 2000

Aosta: 46,39 - 4087,3

Crotone: 42,63 - -7901,8

L'Aquila: 41,61 - -3841,5

Savona: 41,11 - 1395,9

Sondrio: 39,96 - 264,9

Imperia: 39,08 - 841,5

Cosenza: 38,51 - -6852,2

Rieti: 37,82 - -3244,8

Agrigento: 37,81 - -8278,4

Ragusa: 36,56 - -5121,6

Vibo Valenzia:36,46 - -7716,6

Grosseto: 35,56 - -1966,2

Belluno: 34,62 - 4157,3

Trapani: 34,31 - -6746,4

Verbano - Cusio - Ossola: 34,01 - -561,7

Brindisi: 34,01 - -5947,1

Catanzaro: 33,75 - -5897,3

Caltanissetta: 33,44 - -7494,4

Sassari: 33,22 - -3826,3

Trento: 32,75 - 4083,8

Nuoro: 32,29 - -4984,6

Isernia: 31,21 - -3176,5

Lecce: 31,03 - -7456,8

Enna: 30,67 - -7576,9

Campobasso: 30,28 - -4371,6

Media Italia: 19,51 -

Bolzano: 11,96 - 7981

5. Graduatoria delle presenze (in milioni di unità) negli esercizi alberghieri per regione, 2004

1. Trentino Alto Adige:31,4

Provincia di Bolzano:20,8

Provincia di Trento:10,6

2. Emilia Romagna:29

3. Veneto:26,3

4. Lazio:23

5. Lombardia:21,2

6. Toscana:20

7. Campania:14,4

8. Sicilia:11,2

9. Liguria:10,3

10. Sardegna:7,3

11. Piemonte:6,3

12. Marche:5,8

13. Calabria:5,7

14. Puglia:5,7

15. Abruzzo:4,9

16. Friuli Venezia Giulia:3,5

17. Umbria:3,2

18. Valle d'Aosta:2,4

19. Basilicata:1,3

20. Molise:0,5

Titolo originale: An Assessment of New Urbanist Elements in “New Suburbanist” Communities of the Twin Cities, Minnesota – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Identificazione del problema

La realizzazione dei nuovi suburbi negli scorsi cinquant’anni ha cambiato il modo di vivere degli americani. Abbiamo case ampie dominate dai garages, che contengono l’automobile o il SUV, e che aggiungono comodità all’esistenza. Nonostante godano di queste ampie abitazioni, molti residenti suburbani sono alla ricerca di un senso comunitario, qualcosa che molti avvertono come carenza dell’ambiente suburbano. I new urbanists sostengono che utilizzando l’ambiente costruito si può realizzare un senso comunitario. I centri realizzati secondo i principi new urbanism stanno diventando sempre più popolari in tutti gli Stati Uniti, in particolare nelle città della Sunbelt. Ma, a causa delle regole di zoning, delle dimensioni minime del lotto richieste, e di numerosi altri ostacoli, spesso è difficile costruire centri autenticamente new urbanist. Ciò ha portato alla diffusione crescente di insediamenti “neo-suburbani”, spesso chiamati cittadine “con veranda” o neoburbs (Mandel, 1997).

Nei centri “neo-suburbani” si applicano alcuni elementi del New Urbanism a un contesto suburbano, senza introdurre quelli che sono difficili da utilizzare, come i vicoli di servizio, i lotti di dimensioni minori, le linee di trasporto pubblico. L’applicazione o meno dei vari elementi dipende dalle norme locali, e questo contribuisce a determinare una confusione poco chiara fra le forme suburbane e il New Urbanism.

L’obiettivo di questo studio è di rispondere alle seguenti questioni: 1) quali sono gli elementi comuni fra New Urbanism e realizzazioni “neo suburbane”? 2) quali sono le caratteristiche New Urbanism che attirano i residenti? Per ottenere le informazioni ho utilizzato sondaggi e interviste. Le conoscenze ricavate dalle risposte a queste domande possono aiutare urbanisti e costruttori a realizzare interventi che gli abitanti possano considerare interessanti e attrattivi. I costruttori potranno anche valutare in che misura i loro obiettivi di realizzare un “senso dei luoghi” interessino gli abitanti. Scopriranno così se sono riusciti a creare una comunità.

Sintesi della ricerca ed esposizione dei risultati

Lo sviluppo suburbano rappresenta sempre di più un problema per la maggior parte delle aree metropolitane, se non per tutte. Le norme stabilite dall’urbanistica e dallo zoning hanno costruito il suburbio contemporaneo a partire dagli anni ‘50 (Cullingworth, 1993). Lo zoning era stato introdotto per tutelare gli abitanti contro usi dello spazio non desiderabili, come attività industriali o discariche, perché non potessero legalmente avvenire all’interno della comunità. Ma creava anche spazi segregati richiedendo che abitazioni o lotti avessero determinate dimensioni, e limitando le case multifamiliari.

Il New Urbanism sostiene di offrire tecniche in grado di cambiare il modo in cui si sviluppano sobborghi e città. Spesso si associa alla smart growth, agli insediamenti basati sul trasporto collettivo, alle comunità neo-tradizionali. Questi tipi di insediamento sono compatti, a funzioni miste, per migliorare o comunque condizionare l’accessibilità, l’aspetto estetico, i valori immobiliari, l’equilibrio sociale fra gli abitanti.

Nonostante i modi di crescita che li hanno caratterizzati tanto a lungo, i suburbi tradizionali sono solidi nel loro modo di suscitare aspettative su forma e modi di progettazione. Gli abitanti sanno cosa troveranno quando si trasferiscono in un’area sottoposta a un rigido zoning di esclusione. Per questo motivo, molte comunità suburbane non consentiranno mai insediamenti mixed-use percepiti come impatto negativo sui valori immobiliari. Oltre le preoccupazioni finanziarie , i residenti semplicemente possono preferire l’insediamento a bassa densità. Se tentano di realizzare qualcosa che non si conforma alle modalità usuali di costruzione, gli imprenditori possono trovare difficili i finanziamanti, per quello che viene considerato un investimento a rischio (Talen, 2002). Il New Urbanism sfida queste regole consolidate, proponendo insediamenti mixed-use ad alta densità.

Anche se non tutti preferirebbero vivere in centri a funzioni miste e densità maggiori, si è comunque evidenziata una domanda di mercato, grazie al numero crescente di comunità tipo New Urbanist realizzate, che contengono alcuni elementi della cultura del nuovo urbanesimo. Sono i complessi “neo suburbani”, via di mezzo per progettisti e costruttori che non vogliono scontrarsi con una pletora di difficoltà normative, ma che offrono al cune delle piacevolezze new urbanism. Chi acquista in queste comunità - New Urbanist o “neo suburbane” – è attento ai contenuti, oltre che all’aspetto esteriore (Farnsworth, 1998). Sempre più, le persone scelgono il proprio quartiere in base ad accessibilità e desiderabilità, facendo dei centri “neo suburbani” alcuni dei modelli più “forti” per abitare (Wolf, 1999).

La forma dell’insediamento suburbano continuerà a dominare l’ambiente delle regioni metropolitane. Il New Urbanism può rappresentare una scelta diffusa in alcune zone, ma le rigidità delle norme urbanistiche ne impediscono un’accettazione integrale. Inserire il New Urbanism nella progettazione di tipo suburbano implica affrontare alcuni problemi del suburbio tradizionale, e insieme alcuni limiti all’applicazione del New Urbanism. Per i costruttori, a causa delle limitazioni dello zoning e delle preferenze dei consumatori, sono i complessi “neo suburbani” a costituire una possibilità attraente.

Alcune Conclusioni

Fra le varie comunità di tipo “neo suburbano”, ne ho individuate quattro da utilizzare per la mia ricerca. Sono tutte entro il perimetro della Twin Cities Metropolitan Urban Services Area (MUSA). Nell’area Twin Cities sono i sobborghi occidentali a sperimentare la crescita più rapida, mentre quelli orientali in genere sono più lenti. Per questo motivo, ho scelto due comunità a est (Stonemill Farms e Liberty on the Lake), e due a ovest (The Reserve e Clover). Le ho scelte anche perché ritenevo si collocassero su gradi differenti nel continuum neo-urbano-suburbano e fosse possibile verificare quali elementi prevalessero e a quali livelli.

Obiettivo 1: Quali sono gli elementi comuni New Urbanism dei centri “neo suburbani”?

Per individuare gli elementi New Urbanism più frequenti nei quattro centri prescelti, ho selezionato ventitre elementi da verificare o quantificare. Sono desunti dalla Charter of the New Urbanism (Lecesse, McCormick, 2000) e rappresentano le linee guida per chi afferma di condividere i principi New Urbanist in termini di strategie e progettazione. Ho lavorato a due livelli. Per prima cosa ho utilizzato i piani di lottizzazione, quelli generali e le carte di azzonamento. Ho osservato la progettazione fisica degli spazi. La seconda fase comporta analisi dirette sul campo, passeggiando per i vari insediamenti. Le informazioni ottenute nelle due fasi sono riportate su un foglio di lavoro. I dati del foglio sono esaminati in vari modi. La maggior parte degli elementi si riconduce a un sistema binario (si/no), come la presenza o meno di negozi, attività economiche, verande sul fronte, alberi. Altri fattori sono quantificati in modo lineare, come larghezza dei marciapiedi, strisce di verde, distanza dal centro ai margini dell’insediamento. Dopo aver raccolto i dati ciascun centro ottiene un punteggio sulla base degli elementi New Urbanist contenuti. Ho ricercato anche schemi o tendenze comuni, per determinare quali elementi sono usati più di frequente.

Fra i vari centri, alcune caratteristiche emergono come più frequenti, il che significa che in ciascun caso esistono almeno delle varianti di quel tipo. Le più comuni sono: alberature stradali, strisce a verde, verande sul fronte, varietà degli stili delle abitazioni, parcheggi a bordo strada, un centro di quartiere, attraversamenti pedonali, scuole entro un raggio di dieci minuti a piedi. Alcune delle altre caratteristiche più comuni, ovvero presenti in almeno tre dei quattro centri, sono: scuole all’interno del complesso, marciapiedi ampi, prati da gioco e village green. Gli elementi che mancano del tutto, o risultano presenti in un solo centro, sono: negozi interni al quartiere, negozi raggiungibili a piedi, piste ciclabili e giardini comuni. In tre dei quattro casi, i negozi sono rinviati a una fase futura, o sono in corso di realizzazione.

Obiettivo 2: Valutare quali elementi New Urbanist attirano i residenti nei centri “neo suburbani”

Il primo passo è stato un sondaggio postale. Come accennato sopra, ho scelto quattro centri interni all’area Twin Cities per la mia ricerca. Ho spedito 200 questionari a famiglie di 3 dei 4 centri, e 155 del quarto, per un totale di 755. Due settimane più tardi, ho inviato una cartolina di sollecito per la risposta a 300 abitanti (Bourque, Fielder, 1995). In due delle comunità ho ricevuto risposte superiori al 30%, mentre per le restanti due circa del 20%. Spero in una percentuale finale generale fra il 20-30%, che è la media per i questionari postali (Fink, 1995).

Questa indagine offre uno sguardo su cosa cerca l’abitante in una comunità “neo suburbana”. Stili tradizionali per le abitazioni (non semplici dadi), abbondanza di spazi a parco, scuole raggiungibili a piedi, sono i tre elementi di attrazione più diffusi fra i residenti delle quattro comunità esaminate. Anche la dimensione delle case e i sistemi di marciapiede-percorso pedonale sono molto apprezzati. Quelli non molto considerati sono: le fermate del trasporto pubblico, la disponibilità di un sistema intranet (per condividere gli avvenimenti locali).

Ad ogni modo, queste informazioni possono essere utili per costruttori e progettisti di un complesso residenziale. Come urbanisti, può essere difficile sostenere un certo stile di abitazione, ma è possibile porre l’enfasi su spazi verdi, marciapiedi, percorsi. Nello stesso modo, per un costruttore, le informazioni dimostrano che una certa qualità complessiva e un complesso che “si presenta bene” attirano residenti. Evidenziano anche che il coordinamento con alcune entità pubbliche locali, come i distretti scolastici, attira abitanti.

Nel progettare quartieri, villaggi e città, è a volte difficile reperire informazioni in grado di dare chiare risposte a cosa cercano gli abitanti in una comunità. Questo studio propone uno sguardo dal punto di vista dei residenti dell’area Twin Cities, una regione che può essere diversa da altre dove si usano New Urbanism o “neo suburbi”. Comunque, può essere utile per qualunque situazione suburbana.

Nota: testo originale e presentazione al sito American Planning Association (f.b.)

Opere Citate

Bourque, Linda B., Eve P. Fielder (2003), How to Conduct Self-Administered and Mail Surveys, Sage Publications, Thousand Oaks.

Cullingworth, J. Barry (1993), The Political Culture of Planning, Routledge, New York.

Farnsworth, Christina (1998), “Building Community”, Professional Builder, 63:14.

Fink, Arlene (1995) The Survey Handbook, Sage Publications, Thousand Oaks.

Leccese, Michael, Kathleen McCormick (2000), The Charter of the New Urbanism, McGraw-Hill, New York.

Mandel, Charles (1997), “It Fakes a Village”, This Magazine, 30:6, 13-16.

Talen, Emily (1999), “Sense of Community and Neighborhood Form: An Assessment of the Social Doctrine of New Urbanism”, Urban Studies, 36:8, 1361-1379.

Wolf, Peter (1999), Hot Towns: the future of the fastest growing communities in America, Rutgers, New Jersey.

Niente più cemento sulle coste sarde. In controtendenza rispetto al parlamento nazionale, che ha appena approvato il condono per gli abusi edilizii compiuti sulle zone costiere vincolate, il consiglio regionale della Sardegna ha dato il via libera alla legge salvacoste che impone il divieto di edificare sui litorali entro due chilometri dal mare e blocca la costruzione di nuovi impianti eolici nell'isola. Una partita, quest'ultima, sulla quale la giunta regionale di centrosinistra ha al suo fianco le associazioni ambientaliste, preoccupate per gli scempi al paesaggio che un ricorso indiscriminato all'eolico sta provocando in molte zone della Sardegna. Contro la legge salvacoste (più esattamente contro il decreto legislativo della giunta che anticipava i vincoli in attesa della legge) il centrodestra è ricorso anche all'arma del Tribunale amministrativo regionale. Ma proprio ieri mattina, a poche ore dall'approvazione del provvedimento da parte del consiglio, il Tar ha rigettato il ricorso presentato dai sindaci di tre città governate dal centrodestra: Olbia, Alghero e Arzachena. «La legge», ha sentenziato il Tar, «è tale da far ritenere non sussistente un danno irreparabile per i soggetti interessati, comuni e privati». I giudici del Tar non sono entrati nel merito, ma hanno per ora respinto l'istanza cautelare dei ricorrenti. Questi, oltre alla richiesta di annullamento del decreto della giunta, avevano sollecitato, infatti, la sospensione del provvedimento.

La legge è passata dopo un lungo braccio di ferro tra maggioranza e opposizione. Il centrodestra ha presentato più di duemila emendamenti e ha attuato un ostruzionismo durissimo (interventi ripetuti nel dibattito, su ogni emendamento, per dichiarazione di voto) per cercare di ritardare al massimo l'approvazione. L'altro ieri, poi, l'opposizione ha cercato di dilatare i tempi, confidando in un pronunciamento favorevole del Tar. Si puntava sull'accoglimento della richiesta di sospensiva prima dell'approvazione della legge, in modo da porre le premesse giuridiche per chiedere la non promulgazione del provvedimento. Ma il calcolo si è rivelato sbagliato.

La legge ha provocato tensioni anche all'interno della maggioranza. Settori dei Democratici di sinistra, lo Sdi e l'Udeur hanno cercato di far passare deroghe alla normativa anticemento che avrebbero reso i divieti molto più flessibili. Anche alcuni sindaci di paesi costieri della Gallura governati dal centrosinistra hanno fatto pressione per allentare i vincoli. Tentativi che si sono infranti contro il no secco di Renato Soru, presidente della giunta.

Sostegno pieno arriva, invece, dalle associazioni ambientaliste. «Il rispetto del territorio e del paesaggio», dice Ermete Realacci, presidente onorario di Legambiente, «è parte essenziale nella scommessa della Sardegna su uno sviluppo duraturo e a misura d'uomo. Tutelare le ricchezze naturali, il patrimonio paesaggistico e le bellezze dell'isola è un imperativo inappellabile. La legge salvacoste, e in particolare la norma di garanzia dei due chilometri, vanno in questa direzione. Perciò l'approvazione in Consiglio regionale e la risposta negativa del Tar alla richiesta di sospensiva sono due segnali importanti e incoraggianti, non solo per la Sardegna ma per il paese intero». E anche il Wwf si fa sentire: «Finalmente, dopo anni di immobilismo, la legge passata in Sardegna provvede a salvaguardare le coste e il paesaggio. Un patrimonio che ha subito danni incalcolabili, con complessi edilizi di fortissimo impatto che ne hanno alterato le caratteristiche. Ora la Sardegna potrà contare su uno sviluppo basato su una più corretta gestione del patrimonio ambientale e paesaggistico. Una linea, quella sulla quale si muove la Sardegna, che è un punto di riferimento importante anche a livello nazionale».

Per il centrodestra una sconfitta che brucia due volte: perché manda all'aria i piani di cementificazione e perché viene incassata in Sardegna, l'isola dove sorge Villa Certosa, simbolo di come l'interesse generale possa essere piegato, con assoluta protervia, agli affari privati.

CAGLIARI. Mancano sette mesi alla definizione del piano paesistico (in attesa del quale è stata fatta la legge salvacoste) e la giunta ha deciso di accelerare i lavori con l'apporto di esperti. E intanto, dopo le critiche a Giulio Tremonti per l'idea di vendere le spiagge, si è appreso che il presidente Renato Soru ha deciso di cedere i propri terreni di Scivu-Funtanazza, sul mare di Arbus, alla neonata Conservatoria delle coste. Un «gesto simbolico» che, però, potrebbe suscitare altre polemiche sul «populismo».

La cessione volontaria. Dopo aver fallito l'acquisto della Costa Smeralda e aver comprato dall'Eni («per sottrarli alla speculazione») i terreni sulla costa di Arbus, Soru aveva lasciato intendere di voler valorizzare la zona (ettari di verde di di dune) trasformando l'ex colonia per figli di minatori in un albergo a cinque stelle dove consumare solo prodotti sardi. Dopo le polemiche sulla legge salvacoste e per via del rigore imposto alla tutela dell'ambiente con la predisposizione del Piano paesistico, Soru deve aver rinunciato al progetto e, secondo quanto si è appreso, è andato dal notaio (mancano però ancora alcuni documenti) per fare una «cessione volontaria» dei terreni alla Conservatoria creata dalla sua giunta sul modello francese.

Per incoraggiare donazioni e lasciti da parte di chi è favorevole alla permanente tutela del territorio, il presidente della Regione ha fatto il primo passo.

«Un gesto simbolico - ha commentato ieri l'assessore all'Urbanistica, Gian Valerio Sanna - che alla luce delle ultime polemiche assume anche un preciso significato politico».

I tecnici all'opera. E' stato insediato ieri mttina il Comitato scientifico

del Piano paesistico regionale. Nella sala giunta si è svolta la prima riunione, presieduta da Renato Soru alla quale erano presenti numerosi assessori e i membri del Comitato: gli urbanisti gli urbanisti Giovanni Maciocco (università di Sassari), Enrico Corti (università di Cagliari), Edoardo Salzano (università di Venezia), Filippo Ciccone (università della Calabria), Roberto Gambino (Politecnico di Torino), il giurista Paolo Urbani (università di Roma), l'antropologo

Giulio Angioni, l?archeologo Raimondo Zucca, lo scrittore Giorgio Todde, lo zoologo Helmar Schenk, il botanico Ignazio Camarda (università di Sassari) e l'architetto Antonello Sanna (università di Cagliari). Il Comitato scientifico ha il compito di supportare il Comitato di indirizzo e coordinamento. «Lo scopo - spiega una nota della residenza della giunta - è di assicurare competenze e professionalità, su un ampio arco disciplinare, indispensabili a presiedere le molteplici tematiche utili alla pianificazione».

La riunione si è conclusa nel pomeriggio dell'assessorato dell'Urbanistica dove l'assessore Sanna ha illustrato il lavoro svolto sinora dagli uffici, e i materiali raccolti, la cartografia già a disposizione, anche gli strumenti informatici e le tecnologie adoperate e disponibili come supporto all'attività dei prossimi mesi. Al termine della giornata, Gian Valerio Sanna ha dichiarato: «Il lavoro nel suo complesso sta procedendo molto bene, contiamo non solo di predisporre un buon Piano paesistico ma anche di rispettare i tempi su cui ci siamo impegnati in consiglio regionale».

La nuova legge sul governo del territorio, approvata dalla Camera il 28 giugno scorso, meriterebbe un’attenzione ben maggiore di quella che vi hanno dedicato sia la stampa generalista (quasi nulla) che il milieu politico e tecnico del Paese. La riscrittura dopo sessant’anni dei principi generali della pianificazione territoriale e urbanistica; l’attesa per una ridefinizione di temi di grande rilevanza economico-distributiva come il regime dei suoli e i nuovi stili di una pianificazione che si vuole flessibile e aperta al privato (oltre che alla società civile); le nuove esigenze che emergono in tutti i Paesi avanzati per una rinnovata attenzione alle risorse territoriali, nei loro aspetti fisici, paesistici, culturali-simbolici ed economici; tutto questo giustifica ampiamente la necessità di una lettura attenta della legge, e di un dibattito quanto più possibile allargato e a più voci.

A queste aspettative rilevanti la legge fornisce una risposta modesta e anzi, per molti aspetti, inadeguata. La legge prende le mosse da esigenze di modernizzazione condivise, affrontate anche da leggi regionali, e accoglie molti suggerimenti e strumentazioni tecniche emerse dal dibattito urbanistico negli ultimi anni, cui io stesso ho cercato di apportare qualche contributo: la necessità di integrare la progettualità privata nei piani di sviluppo urbani e territoriali; il ruolo cruciale della concorrenza fra soggetti privati e fra progetti; la possibilità (ad avviso di chi scrive, la necessità) che il piano strutturale sia intercomunale; l’utilità degli strumenti perequativi nel limitare gli effetti della discrezionalità pubblica al livello micro-territoriale, generando tendenziale indifferenza della proprietà, a patto che si operi entro ambiti territoriali relativamente omogenei; le potenzialità degli strumenti di compensazione urbanistica nella flessibilizzazione delle decisioni; la repressione degli abusi edilizi; l’uso di strumenti di redistribuzione intercomunale di una parte delle imposte comunali sulle nuove urbanizzazioni, al fine di disinnescare la propensione sviluppista dei Comuni (generata dalla crescente scarsità di risorse), e altro.

Tuttavia queste innovazioni rilevanti sono inserite in un quadro complessivo che, in alcuni casi, ne rende la pratica altamente rischiosa per l’interesse collettivo, e in altri ne vanifica totalmente l’utilizzazione. Alcuni basilari principi sono totalmente assenti e su tematiche rilevanti, anche se complesse, come il regime dei suoli, si propone una soluzione non chiara e sotto alcuni aspetti non accettabile. Affronterò in questa sede tre tematiche maggiori: l’assenza di veri principi, la pianificazione per atti negoziali e il primato del Comune nelle funzioni di governo del territorio.

Assenza di princìpi

Una legge di governo del territorio – pur accettando una interpretazione estensiva del termine, che lo avvicina alla governance territoriale, includendovi dunque non solo attività regolative e amministrative ma anche attività negoziali col privato e di programmazione negoziata fra enti pubblici – deve innanzitutto chiarire perché oggi si ritiene necessario procedere per leggi al governo del territorio stesso. La risposta dovrebbe essere contenuta in un principio generale che, in termini economici, potrebbe suonare così: il territorio è bene pubblico e collettivo, che fornisce benefici alle comunità locali sotto forma di benessere degli abitanti ed efficienza dei settori produttivi, e che non viene adeguatamente garantito dal puro operare di rapporti di mercato a causa della presenza di effetti di rete, di esternalità e di beni pubblici (ben noti casi di fallimento del mercato), nonché dalla presenza di elementi di incertezza; esso richiede pertanto attività di pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa. Si potrebbe ribattere: una legge non è un trattato di economia territoriale; sta dunque ai giuristi trovare l’abito giusto per questo principio. Si potrebbe dire: è un principio pleonastico, già condiviso; ma sottolinearlo in un contesto culturale come quello italiano di crisi se non di delegittimazione della pianificazione può giovare alla pianificazione stessa.

Questo principio generale dovrebbe poi essere coniugato in modo più fine, individuando i processi, attuali e prospettici, che maggiormente rischiano di condurre a riduzione di benessere e i principi attraverso i quali si intende affrontarli. Se vogliamo, questi processi individuano, per contrapposizione, gli obiettivi del governo del territorio, che nella legge sono totalmente assenti (salvo qualche indicazione casuale e sparsa), mentre erano presenti nella bozza di legge ancora nel dicembre 2004, anche se in forma laconica e incompleta. Essi devono al contrario essere chiariti ed esplicitati, perché proprio sul loro perseguimento si basa la giustificazione di una legge di principi. I più rilevanti obiettivi, meritevoli di interesse dello Stato – visto che sono stati fatti propri anche dall’Unione europea e inseriti nel progetto di Convenzione europea col titolo di «coesione territoriale» come ambito di sua competenza concorrente (shared competence: articolo I-14.2) – dovrebbero essere i seguenti:

1) limitare i consumi di suolo per nuove urbanizzazioni. Sembra oggi indispensabile che una legge nazionale imponga alle Regioni almeno di considerare il fenomeno, di monitorarlo e misurarlo, e di limitarlo. Il relativo principio regolatore dovrebbe essere un principio di efficienza nell’uso delle risorse, da cui seguirebbe, per la risorsa suolo, l’onere di giustificare interventi su territori non urbanizzati, il possibile utilizzo di sistemi di tassazione di urbanizzazioni greenfield e di connessi sussidi al riuso di brownfield (aree industriali dismesse o degradate) o greyfield (aree commerciali dismesse, sull’esempio americano e canadese). Dal principio seguirebbe un elemento ancor più importante: la necessaria introduzione di una quarta categoria di aree (al di là delle tre indicate nella legge: aree di pregio ambientale, aree agricole e aree urbanizzabili), che potremmo chiamare «aree di riserva per funzioni ecologiche e paesistiche», da normare a cura delle Regioni, a evitare il messaggio rischioso, presente nell’attuale testo, che la maggior parte del territorio cada nella categoria residuale dell’urbanizzabile (o che i Comuni virtuosi siano costretti ad allargare i vincoli sulle aree di pregio o ad assegnare alle attività agricole aree che dall’agricoltura sono abbandonate o che non vi sono adatte). Per la risorsa energetica, il principio spingerebbe nella direzione di un addensamento dell’urbanizzato lungo le linee di forza del trasporto pubblico;

2) frenare la frammentazione e la banalizzazione del territorio. Il relativo principio sarebbe un principio di rispetto di massa critica, che significa un deciso contrasto alla dispersione insediativa, i cui ingenti costi collettivi sono sotto gli occhi di tutti, alla frammentazione delle reti ecologiche e alla messa a rischio dell’assetto idro-geologico;

3) affrontare la crescente dualizzazione e polarizzazione della società, effetto dell’aumentata competizione globale, della perdurante crisi europea e dell’emergere di una città multietnica con forti squilibri nelle opportunità e nelle capacità reddituali. Principio ispiratore deve essere un principio di solidarietà, che implica una crescente attenzione alla coesione sociale e territoriale, alle condizioni di segregazione e di povertà urbana, nonché la definizione di quote minime di edilizia sociale nei nuovi progetti urbani (come nelle più recenti leggi urbanistiche e nelle direttive di molti Paesi avanzati);

4) limitare gli effetti ambientali negativi generati dall’urbanizzazione e dalla localizzazione di grandi funzioni urbane, commerciali o industriali (ad esempio sulla mobilità), attraverso un principio di internalizzazione delle esternalità e di correzione del mercato. Tale principio giustificherebbe la possibile differenziazione territoriale degli oneri connessi al permesso di costruire, secondo la tradizione americana degli «impact fee», nonché una loro elevazione rispetto ai modestissimi parametri attuali. Soprattutto tale principio si applicherebbe al livello intercomunale, favorendo i Comuni contermini in presenza di esternalità negative generate nel Comune vicino; solo così il giusto dettato della legge sulla formazione di consorzi fra Comuni e la possibile redistribuzione dell’Ici (articolo 12, comma 2b)e degli oneri connessi al permesso di costruire avrebbe qualche possibilità di dare risultati concreti.

Inutile dire che di tali principi, che costituiscono le grandi direttrici su cui ci si sta muovendo in tutta Europa, non vi è traccia nella legge e anzi, come detto, vi si possono trovare abbastanza esplicitamente indicazioni esattamente contrarie.

Negoziazione senza rete

Il secondo ambito di profonda insoddisfazione nei riguardi del dettato di legge concerne l’indicazione (articolo 5, comma 4) che «le funzioni amministrative sono esercitate… prioritariamente mediante atti negoziali in luogo di atti autoritativi». Da tempo – anche quando, fino a pochi anni or sono, l’«urbanistica contrattata» era da molti vituperata – si è ripetuto che associare il privato alle scelte di pianificazione avrebbe consentito di raggiungere tre risultati fondamentali: di superare i limiti di informazione, di progettualità e di interpretazione dei bisogni collettivi della pubblica amministrazione; di rendere le decisioni di piano più aderenti alle possibilità congiunturali di realizzabilità e di profittabilità per gli operatori; di realizzare un coordinamento ex-ante fra decisioni pubbliche e decisioni private, così da superare l’intrinseca incertezza connessa alle innovazioni territoriali e conseguentemente migliorare l’economicità delle opere, sia pubbliche che private. In questo senso, la negoziazione sarebbe finalizzata al miglioramento della qualità della pianificazione, non certo alla sua sostituzione con una serie di contratti.

In realtà, i cosiddetti «atti autoritativi» avversati dalla legge sono in genere, in tutti i Paesi avanzati, non certo il frutto di un’autorità assoluta autoreferenziale, ma derivano da processi sia politici che tecnocratici che anche partecipativi e negoziali sottoposti a vaste garanzie e a obbligo di giustificazione tecnico-politica, mentre è proprio la negoziazione che ha bisogno di una giustificazione plurima preliminare: va giustificato l’interesse pubblico per la trasformazione (o nella trasformazione) del singolo sito, per il progetto e la funzione proposti, nonché la verifica delle condizioni di coerenza urbanistico-trasportistica, a evitare casualità nella scelta delle aree, banalità delle funzioni, eccessivo carico urbanistico e impatto insostenibile sulla mobilità. Purtroppo, proprio questi sembrano gli esiti di molta «urbanistica per progetti» in Italia.

Ma il problema di fondo è ancora un altro, e riguarda il modello di negoziazione senza rete e senza regole che si propone nella legge. Quali dovrebbero essere infatti gli obiettivi della pubblica amministrazione nella negoziazione? Chiaramente, coerenza del progetto urbano complessivo, di cui si è detto, e massimizzazione del vantaggio pubblico in termini di aree, verde e servizi. Come si affermava nei documenti dell’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) alcuni anni or sono – ma pare un secolo – si dovrebbe «creare la città pubblica attraverso i plusvalori della trasformazione della città privata». Orbene, quale forza contrattuale potrà avere una pubblica amministrazione che, come auspica la legge, rinuncia a operare in base ad «atti autoritativi» e soprattutto che viene privata del supporto normativo nazionale consistente nell’indicazione di quote minime di cessione di aree (poiché «perde efficacia» il Dm 1444/1968 sugli standard urbanistici)?

Nella legge si trascurano alcuni elementi importanti in proposito:

- l’esistenza di un’asimmetria informativa fra il settore privato e il settore pubblico sulle condizioni di costo e di profittabilità nella produzione edilizia,

- l’esistenza di una seconda asimmetria fra singoli Comuni, spesso piccoli e potenzialmente in concorrenza fra loro, e operatori immobiliari che operano su un ampio scacchiere territoriale;

- la circostanza che, come la storia recente ci ricorda, i grandi operatori immobiliari agiscono spesso in forma di oligopolio collusivo, limitando la concorrenza reciproca su singoli siti o progetti;

- e, infine, il fatto che nel nostro Paese vige una situazione di scarsissima trasparenza

sulle condizioni delle negoziazioni realizzate e soprattutto che nel settore pubblico sono assai scarse le professionalità necessarie per gestire al meglio questo tipo di processi negoziali.

Da tutto questo consegue che un modello contrattuale puro non garantisce affatto il perseguimento dell’interesse pubblico. In altri Paesi avanzati, allorché la negoziazione viene consentita per il raggiungimento di finalità particolari o per la rilevanza del progetto di trasformazione, al settore pubblico è assegnato comunque il vantaggio di un livello predefinito di cessioni di aree (per legge statale o federale), come punto di partenza per la vera contrattazione.

Uno strumento importante esiste per aumentare la forza contrattuale del Comune, la messa in concorrenza di progetti e di attori privati, ed esso è effettivamente citato dalla legge (articolo 8 comma 7). Purtroppo gli strumenti per realizzare «concorrenzialità» sul territorio – un obiettivo assai complicato per la presenza di un ineliminabile vantaggio del proprietario – non sono indicati neanche per sommi capi, e ciò costituirebbe un problema perché sull’intera materia della negoziazione e del partenariato col privato vi sono gli occhi puntati della Commissione europea e della Corte di giustizia, preoccupate giustamente per le possibilità di pratiche neo-corporative, elusive della concorrenza.

In sintesi, non sembra che quello della costruzione della città pubblica sia un obiettivo della legge: una città che continui (o torni) a essere un grande luogo di socialità e una fonte di efficienza e di benessere collettivo. Si afferma che «l’entità dell’offerta di servizi» deve «garantirne comunque un livello minimo», ma ci si astiene dall’indicare quale esso sia o debba essere, nonostante la pretesa di essere legge di principi generali per tutto il territorio italiano; si indica la possibilità in tale materia di «un concorso dei soggetti privati» (un’affermazione accettabile), ma si apre la strada all’utilizzo di un concetto rischiosissimo, che ha già dato luogo a interpretazioni e pratiche ai limiti dell’aberrante: quello della commisurazione degli standard sulla base di «criteri prestazionali » (articolo 7, comma 1). In Lombardia l’introduzione concetto di standard qualitativi o prestazionali ha portato alla scomparsa di qualunque riferimento legislativo alla nozione di servizi pubblici, e al rinvio alle decisioni (negoziate) dei Comuni, con la conseguenza che in taluni casi si è inclusa fra gli standard la categoria degli alberghi. Come si è sottolineato precedentemente, si aprono vasti spazi per proposte dissennate, oltre alla possibilità di malversazioni o contenziosi senza fine.

Quanto alle indicazioni in merito al regime dei suoli, la legge non appare chiara come avrebbe potuto essere e a mio avviso – ma è materia da giuristi – utilizza un lessico non sempre appropriato. Da una parte, non si giustifica in alcun modo l’onerosità del «permesso di costruire» (articolo 11, comma 2) né le modalità di una sua commisurazione. Dall’altra, il compito di «disciplinare il regime dei suoli» è assegnato, anziché alla legge nazionale, agli strumenti operativi comunali (che a mio avviso possono al più avere effetti conformativi della proprietà dei singoli suoli, ma non del regime complessivo).

La lettura, in particolare su questi argomenti, è forse fuorviata dall’osservazione del recente «laboratorio ambrosiano», campo di sperimentazione anticipata della legge nazionale, in cui si è azzerata la necessità di ricorrere al piano e si è avviata un’urbanistica negoziata per singoli progetti. In tale laboratorio si è affermato che «gli investitori hanno la massima libertà di proposta» e «se la proposta è accolta, le regole specifiche del progetto di trasformazione vengono definite contestualmente alla proposta di cambiamento e non preesistono ad essa» (Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche comunali, Comune di Milano, 2001). Si resta nel novero di coloro i quali vorrebbero vedere le regole preesistere, e non seguire, alle pratiche caso per caso.

In passato si è contestata la pretesa degli urbanisti di «combattere» o «ridurre» la rendita fondiaria, affermando che essa è ineliminabile, non essendo che la controfaccia in termini di valore del vantaggio localizzativo e della relativa domanda da parte di famiglie e imprese; paradossalmente, il buon pianificatore genera e anzi massimizza la rendita, creando accessibilità, qualità urbana e qualità ambientale. Ma ho anche affermato, con gli economisti classici, che essa può e deve essere tassata in quanto reddito, e anzi «reddito non guadagnato»; in termini moderni, possiamo dire che le leggi e le pratiche urbanistiche non sono altro che un «gioco» di distribuzione della rendita fra pubblico e privato, in cui la quota del pubblico dipende da fattori politici e di etica collettiva.

Comune, soggetto primario

Un ultimo aspetto rilevante della legge mi preme qui sottolineare. Vi si afferma infatti che «il Comune è… il soggetto primario titolare delle funzioni di governo del territorio» (articolo 6, comma 1) e si corrobora l’affermazione con una serie di indicazioni che suffragano abbondantemente tale primazia. Il piano urbanistico comunale «ricomprende e coordina » le disposizioni dei piani di settore e del piano territoriale; può «proporre espressamente modificazioni ai piani territoriali»; recepisce solo «le prescrizioni e i vincoli contenuti nei piani paesaggistici». Ebbene si ritiene che, se il concetto di governo del territorio abbraccia anche la «pianificazione territoriale», «di area vasta» (articolo 2, comma 1), non vi è alcuna ragione di pensare che il Comune sia, per questa funzione, il soggetto primario. Purtroppo la Provincia e il piano territoriale di coordinamento sono stati inseriti nella legge grazie a un emendamento dell’ultima ora, e non ottengono alcuno spazio effettivo nella sua logica complessiva. Al contrario, pur nella necessità di una co-pianificazione e di un accordo interistituzionale, alla Provincia, o comunque a un ente con competenza sovracomunale, dovrebbe essere attribuito il compito specifico e di ultima istanza del governo del territorio sull’area vasta. Il principio di sussidiarietà, se correttamente inteso, porta proprio a questa conclusione: esso attribuisce competenze al livello istituzionale più basso adeguato (un aggettivo che spesso si dimentica), e dunque non certo ai Comuni per quegli interventi in cui intrinsecamente si manifestano effetti di rete, le economie di scala ed esternalità transborder. Per tutto quanto precede, non si ritiene che alla legge bastino alcune correzioni da apportare al Senato per farne uno strumento accettabile e adeguato alle esigenze di un Paese moderno.

“Una prima analisi della riforma quadro approvata da un primo ramo del Parlamento evidenzia il grande spazio dato alla negoziazione con i privati. Questo diventa il principio guida che sostituisce quello della pianificazione imposta dall’alto. Ma vanno meglio definite le procedure.”

La riforma urbanistica approvata il 28 giugno 2005 dalla Camera in prima lettura è, a distanza di più di sessanta anni dalla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, e dopo numerosi tentativi di riforma rimasti privi di esito nelle passate legislature, del primo testo di una nuova disciplina generale del governo del territorio, evidentemente ancora subordinata all’esame del secondo ramo del Parlamento ma già oggetto di acceso dibattito. Prima di esaminarne i contenuti, sembra opportuno ricordare che, essendo il «governo del territorio» materia di legislazione concorrente ai sensi dell’articolo 117, comma 3, della Costituzione, lo Stato è legittimato unicamente a porre una normativa quadro cui le Regioni devono conformarsi nell’esercizio della propria potestà: questa è la ragione per la quale la proposta di legge si compone di appena tredici articoli, che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero codificare quei «principi » della disciplina degli usi del suolo a lungo ricercati dagli studiosi della materia.

La nozione di governo del territorio

La legge costituzionale 3/2001, nel modificare, tra l’altro, l’articolo 117 della Costituzione, ha sostituito il termine urbanistica con la locuzione governo del territorio, senza tuttavia darne una definizione. Il comma 2 dell’articolo 1 della proposta (A.C. 153 pubblicata sul n. 27/2005 di «Edilizia e Territorio ») tenta, quindi, di individuarne i contenuti includendovi: l’insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio; la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso; la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo; l’urbanistica; l’edilizia; l’insieme dei programmi infrastrutturali; la difesa del suolo; la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali; la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie (disposizione di chiusura, che rievoca le teorie dei poteri impliciti). La lunga elencazione corrisponde a una concezione aggiornata della materia urbanistica, ormai divenuta funzione consistente nel mettere a sistema i diversi possibili usi e interessi incidenti sul territorio (Amorosino, Stella Richter), con particolare riguardo anche ai fattori economici e sociali. Di certo non sfugge la rilevanza dei riferimenti alla mobilità o alle infrastrutture, né la portata della scelta di comprendere nel governo del territorio «la tutela del paesaggio ». Al riguardo, tuttavia, non si può fare a meno di rilevare che il successivo comma 3 tradisce una certa approssimazione del legisla- tore: infatti, è palesemente contraddittorio riservare allo Stato la tutela del paesaggio (si noti, mai menzionato dall’articolo 117) se essa è da includere nella nozione di governo del territorio, oggetto di competenza regionale concorrente. Infine, ci si potrebbe chiedere quale significato debba ora essere attribuito al termine urbanistica, che potrebbe riguardare sia la pianificazione degli usi del suolo sia, in senso più ristretto ed etimologico, la disciplina dell’urbs, dei centri abitati (Breganze). Noi propendiamo per la sostituzione tout court dell’espressione urbanistica con quella, presente nella Costituzione, di governo del territorio. Non per demonizzare l’uso della prima quanto piuttosto per evidenziare la natura polisensa e, dunque, scientificamente poco rilevante della nozione, che si presta a usi promiscui o convenzionali.

Le altre definizioni e le abrogazioni

Secondo una tecnica di redazione legislativa ormai diffusa, l’articolo 2 della Pdl 153 contiene una lista di definizioni e l’articolo 13 l’indicazione delle leggi abrogate. Per quanto riguarda le definizioni, l’elenco è per certi aspetti incompleto (non vengono menzionati, tra l’altro, i programmi di intervento di cui all’articolo 3, gli strumenti di programmazione negoziata di cui all’articolo 4, la perequazione, la compensazione) e non privo di inesattezze. La lettera a), ad esempio, identifica la «pianificazione territoriale» con la pianificazione di area vasta «che ne definisce l’assetto per quanto riguarda le componenti territoriali fondamentali» (rievocazione dell’antica dizione «linee fondamentali di assetto del territorio» ma meno elegante), mentre la successiva lettera d) precisa, tautologicamente, che il «piano territoriale » è appunto l’esito documentale del processo di pianificazione territoriale. Le lettere e) e f) distinguono il piano strutturale («piano urbanistico con il quale vengono operate le scelte fondamentali di programmazione dell’assetto del territorio») dal piano operativo («piano urbanistico con il quale vengono attuate le previsioni del piano strutturale, con effetti conformativi del regime dei suoli»). In realtà, il piano strutturale dovrebbe rappresentare il documento strategico di governo del territorio (e la strategia non coincide con la programmazione, che presuppone già una fase operativa, di gestione della realizzazione concreta delle scelte compiute), rispetto al quale il piano operativo non ha alcun vincolo di attuazione ma solo di compatibilità. Piano strutturale, piano operativo e regolamentazione urbanistica ed edilizia costituiscono la pianificazione urbanistica (lettera b), vale a dire la pianificazione funzionale e morfologica del territorio che disciplina le modalità d’uso e di trasformazione: la confusione tra gli istituti è macroscopica, poiché altro è un regolamento (vera e propria fonte del diritto di rango secondario), altro un piano urbanistico. Infine, vengono introdotti i concetti di «dotazioni territoriali» (lettera g) e di «rinnovo urbano » (lettera h): quest’ultimo è definito come l’insieme coordinato degli interventi di conservazione, ristrutturazione, demolizione e ricostruzione di singoli edifici o di intere parti di insediamenti urbani, finalizzato alla rigenerazione, riqualificazione, riabilitazione (concetto di per sé estraneo al settore), nonché all’adeguamento dell’estetica urbana. Vi è da rilevare che la nuova nozione rischia di confliggere, con effetti asistematici, sulle tipologie di interventi sull’edificato che il Dpr 380/2001 (testo unico dell’edilizia) ha mutuato dalla tradizionale disciplina dell’articolo 31 della legge 457/1978 (non abrogata). Con riferimento alle abrogazioni (articolo 13), si deve rilevare, in primis, che il tentativo, frutto di emendamenti bipartisan accolti in Aula, è assolutamente coraggioso e opportuno. Nel merito, talune disposizioni di legge vengono immediatamente abrogate dall’entrata in vigore della riforma, altre «perdono efficacia» – e la differente terminologia non è senza rilievo – in quelle Regioni che approvino normative sul medesimo oggetto. Vengono, inoltre, modificati i testi unici dell’edilizia e delle espropriazioni: per l’esattezza, viene disciplinata la decadenza e la reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio (articolo 9, commi 3 e 4, del Dpr 327/2001) ( vedi box a lato) e viene stabilita – la regola del silenzio-assenso per i procedimenti di rilascio del permesso di costruire (articolo 20, comma 9, del Dpr 380/2001), con gli inevitabili effetti negativi che essa potrà comportare nel caso di interventi di trasformazione del territorio dannosi e irreversibili.

Le competenze dello Stato

La Pdl 153 stabilisce che le funzioni statali sono esercitate attraverso politiche generali e di settore (da attuare tramite programmi di intervento), aventi a oggetto la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico- sociale, il rinnovo urbano. Non sfugga che, mentre l’ambiente e lo sviluppo economico- sociale costituiscono macroaree di intervento, l’assetto del territorio e il rinnovo urbano possono anche riguardare interventi localizzati, puntuali, rispetto ai quali risulta più arduo sostenere l’esigenza di intervento del potere centrale. Quanto alle funzioni amministrative, preme ricordare che l’articolo 118 della Costituzione attribuisce le funzioni amministrative ai Comuni, salvo conferimento ai livelli superiori di governo «per assicurarne l’esercizio unitario», secondo criteri di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. In base alla Pdl 153, sono quindi riservate alla competenza statale le funzioni (articolo 3, comma 4) riguardanti:

- l’identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale;

- la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e la difesa del suolo;

- l’articolazione delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, nonché (comma 5) quelle, connesse al governo del territorio, relative alla difesa e alle Forze armate, all’ordine pubblico e alla sicurezza,

alle componenti istituzionali del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, alla Protezione civile con riguardo alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (riferimento pleonastico, invero, alla luce di quanto già previsto dal comma 3).

Merita evidenziare che il comma 4 dell’articolo 3, a seguito dell’approvazione di un emendamento, riserva allo Stato anche le funzioni amministrative previste dal Dlgs 42/2004 (codice Urbani) relative alla tutela dei beni culturali, alla valorizzazione dei beni culturali di appartenenza statale nel rispetto del principio di leale collaborazione, all’individuazione in via concorrente dei beni paesaggistici, alla partecipazione alla gestione dei vincoli paesaggistici. L’articolo 4 del progetto in esame prevede, poi, «interventi speciali» dello Stato, il quale può predisporre programmi di intervento in determinati ambiti territoriali, da attuare «prioritariamente» con strumenti di programmazione negoziata, al fine di rimuovere condizioni di squilibrio territoriale, economico e sociale, promuovere la rilocalizzazione di insediamenti esposti al rischio di calamità naturali o dissesto idrogeologico e la riqualificazione di quelli danneggiati, superare situazioni di degrado ambientale o urbano.

Gli accordi con i privati

L’articolo 5 riguarda sia i rapporti tra soggetti pubblici sia i rapporti tra questi e i privati. Da un lato, esso prevede che il riparto di competenze tra i diversi soggetti pubblici, ma anche i rapporti con i cittadini, debba essere ispirato ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (già enunciati dall’articolo 118 della Costituzione), secondo criteri di responsabilità e tutela dell’affidamento (comma 1), invocandosi più in generale quel principio di cooperazione e leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni, più volte enunciato dalla Corte costituzionale e ora ribadito ai commi 2 e 7. Dall’altro, esso applica anche al governo del territorio il principio, per certi aspetti dirompente ma già codificato dalla legge 15/2005 di riforma del procedimento amministrativo, in virtù del quale «le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi» (comma 4). Tale disposizione deve essere coordinata con quella contenuta nell’articolo 8, comma 7, che ripete lo stesso principio per la pianificazione urbanistica. Per l’esattezza, si prevede che l’ente competente a pianificare «può concludere accordi con i soggetti privati […] per la formazione degli atti di pianificazione anche attraverso procedure di confronto concorrenziale, al fine di recepire proposte di interventi coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione». In tale ipotesi, pertanto, l’accordo con il privato non riguarda la fase di attuazione del piano (come accade, ad esempio, per una convenzione di lottizzazione) ma propriamente quella della sua formazione: in altri termini, la fase di assunzione della decisione pubblica. In definitiva, se la pianificazione dall’alto era in passato considerata strumento privilegiato di governo del territorio, oggi un ruolo centrale viene assunto dai mezzi contrattuali: è bene ripetere che tale mutamento non nasce con la Pdl 153 ma è l’esito di un più profondo cambiamento impresso alla funzione pubblica ormai dall’inizio degli anni Novanta e già codificato nella legge generale sul procedimento. Peraltro, il tema della negoziazione pubblico-privato pone talune questioni fondamentali a tutt’oggi irrisolte: dalla individuazione di eventuali interessi non negoziabili alla garanzia della trasparenza e della pari opportunità di accesso alla negoziazione stessa all’individuazione dei soggetti responsabili della decisione pubblica e della sua implementazione. Salve le osservazioni che ci apprestiamo a effettuare in sede di conclusioni, un elemento positivo della Pdl 153 può essere ravvisato nel tentativo di delineare taluni principi, sebbene ancora allo stato grezzo, di tale nuova modalità funzionale con l’espresso richiamo del comma 1 al criterio della responsabilità e della tutela dell’affidamento, nonché con la successiva previsione (articolo 5, comma 6) per la quale le Regioni «assicurano l’attribuzione in capo alla sola amministrazione procedente della responsabilità delle determinazioni conclusive del procedimento», con ciò attribuendo anche un rilievo più pregnante al momento dell’iniziativa procedimentale. Analogamente l’articolo 5, comma 2, prevede che «nella definizione degli accordi di programma e degli atti equiparabili comunque denominati, sono stabilite le responsabilità e le modalità di attuazione, nonché le conseguenze in caso di inadempimento degli impegni assunti dai soggetti pubblici» e quanto mai opportuno appare il riferimento dell’articolo 8, comma 7, ai principi di imparzialità amministrativa, trasparenza, concorrenzialità (rectius, concorrenza), pubblicità e partecipazione al procedimento.

Pianificazione del territorio

La Pdl 153 abbandona il sistema di pianificazione a cascata che era stato introdotto dalla legge 1150/1942 e mutua dall’esperienza anglosassone la bipartizione tra strategic plan e structural plan (piano strategico e piano operativo), peraltro già presente in numerose leggi regionali. Il nuovo piano urbanistico, quindi, è lo strumento di disciplina complessiva del territorio comunale e si attua attraverso modalità strutturali e operative. Il piano strutturale – come definito dall’articolo 2 – non ha efficacia conformativa della proprietà, mentre gli atti di contenuto operativo, comunque denominati, disciplinano il regime dei suoli (articolo 6, commi 3 e 7). Merita, inoltre, segnalare la sopravvivenza di due strumenti sovracomunali: il piano territoriale di coordinamento (in passato tanto criticato), di regola di competenza delle Province e il piano urbanistico intercomunale, che è facoltà delle Regioni disciplinare e incentivare. Quanto ai contenuti del piano urbanistico, secondo l’articolo 8, comma 3, il piano urbanistico deve recepire i vincoli paesaggistici e culturali: invero, non si comprende perché restino escluse altre categorie di vincoli, pure rilevanti, come ad esempio i vincoli idrogeologici. Inoltre, nell’affermare che «il piano urbanistico privilegia il rinnovo urbano, la ristrutturazione, l’adeguamento del patrimonio immobiliare esistente» (articolo 8, comma 3), la Pdl 153 distingue tra aree destinate all’agricoltura (ed è lecito chiedersi se esse coincidano con le aree agricole), aree di pregio ambientale e aree urbanizzabili (articolo 8, comma 5). La nuova edificazione sulle prime due è limitata alle sole opere e infrastrutture pubbliche e ai servizi per l’agricoltura, l’agriturismo e l’ambiente; sulle aree urbanizzabili (dizione di per sé ambigua, che non permette di comprendere se esistano anche aree non urbanizzabili, riserve territoriali per così dire); gli interventi di «trasformazione » – e, ancora una volta, non è dato sapere se la trasformazione escluda la nuova edificazione – sono finalizzati, con formula di scarsa sostanza, «ad assicurare lo sviluppo sostenibile sul piano sociale, economico e ambientale». Insomma, un principio di risparmio del bene-territorio, da tempo maturato in ambito disciplinare, avrebbe potuto essere tradotto in una disposizione ben più vigorosa. Da ultimo, con riguardo alla disciplina dei rapporti tra livelli di piano, la logica del testo in esame appare quanto meno discutibile. Da un lato (articolo 6, comma 3), si prevede che il piano urbanistico «deve» ricomprendere e coordinare ogni disposizione o piano settoriale o territoriale incidente sul medesimo ambito. Dall’altro (articolo 8, comma 6), si afferma che il primo può modifica- re i piani territoriali o di settore, per garantire la coerenza del sistema e che la variante è automatica qualora sussista il consenso dell’ente titolare del piano modificato.

Formazione del piano urbanistico

Sebbene la Pdl 153 individui nel Comune l’ente preposto alla pianificazione urbanistica e titolare delle funzioni di governo del territorio, le competenze attribuite alla Regione sono sorprendentemente pervasive. A quest’ultima spetta, tra l’altro, definire le misure di salvaguardia (articolo 10) e stabilire forme di compensazione intercomunale, con riferimento ai «costi sociali generati dalla realizzazione di infrastrutture pubbliche che potrebbero causare squilibri economici o ambientali sul territorio» (articolo 6, comma 2): tale previsione è senza dubbio da salutare positivamente, pur nella sua genericità, e tuttavia resta incerto il coordinamento della stessa con la perequazione intercomunale di cui all’articolo 9, comma 7. Viene da chiedersi, cioè, se si tratti dell’ennesima svista redazionale (magari dovuta alla circostanza che l’articolo 6 è l’esito dell’approvazione di un emendamento), o se la riforma abbia effettivamente inteso configurare due istituti diversi come sembrerebbe suggerire l’oggetto dell’articolo 9 («compensazione e riequilibrio delle differenti opportunità riconosciute alle diverse realtà locali e degli oneri ambientali su quelle gravanti», quasi a riecheggiare un ideale di giustizia distributiva). Compete, inoltre, alla Regione la disciplina del procedimento di formazione e approvazione dei piani urbanistici e territoriali (articolo 8, comma 1). Non ci soffermeremo in questa sede su principi già acquisiti, dalla pubblicità alla partecipazione all’esame motivato delle osservazioni. Sembra, invece, più utile tentare di individuare le novità che la Pdl 153 intenderebbe apportare alla disciplina tradizionale e che possono essere raggruppate in tre categorie:

1) l’obbligo di motivazione delle scelte di piano in capo ai soggetti responsabili delle stesse (articolo 8, comma 3): è noto, infatti, che su tale obbligo è insorto un contrasto giurisprudenziale, con prevalenza dell’orientamento negativo fondato sulla natura discrezionale delle decisioni assunte in materia dall’amministrazione e sull’articolo 2, comma 2, della legge 241/1990;

2) la verifica di coerenza con gli strumenti di programmazione economica e con ogni disposizione o piano concernente il territorio (articolo 8, comma 4), che è la conseguenza della nozione ampia di «governo del territorio» che si è tentato di evidenziare in apertura;

3) la necessità che le Regioni prevedano termini perentori per la sostituzione delle previsioni urbanistiche decadute, annullate anche giudizialmente o revocate (articolo 8, comma 5), così impedendo vuoti di disciplina eccessivamente prolungati.

L’attuazione del piano: la perequazione e la compensazione

Poiché, evidentemente, la principale critica mossa al sistema di pianificazione del 1942 ha da sempre riguardato la sua scarsa efficacia in termini di attuazione delle previsioni di piano, il legislatore della riforma offre sul punto un ampio spettro di strumenti. In pratica, il piano urbanistico può essere attuato:

- con piano operativo;

- con intervento diretto, sulla base di progetti compatibili con gli obiettivi del piano strutturale;

- con sistemi perequativi e compensativi (articolo 9, commi 1 e 2).

Si noti che attuare le previsioni di piano sulla base di tali ultimi criteri è una mera facoltà («possono»). La perequazione, che si afferma nella pratica locale prima ancora che come istituto giuridico, consiste nell’attribuire diritti edificatori alle proprietà immobiliari, in percentuale dell’estensione o del valore di esse e indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso. I diritti edificatori sono poi trasferibili e liberamente commerciabili, all’interno di un ambito territoriale (non definito dal legislatore) o tra diversi ambiti territoriali. L’obiezione mossa alla predetta formulazione dell’istituto è che, andando ad incidere sul diritto di proprietà, costituzionalmente riconosciuto e garantito, il legislatore statale non può non disciplinarne in dettaglio criteri e presupposti, anche al fine di determinarne i meccanismi di opponibilità ai terzi ovvero la tutela di questi ultimi (P. Urbani). L’articolo 9, comma 2, prevede, invece, che siano le Regioni a stabilire criteri e modalità perequativi e compensativi. Allo stesso modo, è arduo valutare positivamente la previsione del successivo comma 4, che autorizza una sorta di bonus in termini di incrementabilità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani vigenti, anch’esso rimesso alle scelte della Regione. Alla compensazione, invece, quale alternativa sia alla perequazione («su terreni non ricompresi negli ambiti oggetto di attuazione perequativa») sia all’indennità di esproprio, si riferisce, sebbene non sia detto espressamente, il comma 5. Essa può consistere:

- nel trasferimento dei diritti edificatori di pertinenza dell’area su altra area di disponibilità dello stesso proprietario;

- nella permuta dell’area con altra di proprietà dell’ente preposto alla pianificazione;

- nella realizzazione diretta degli interventi di interesse pubblico o generale, previa stipula di convenzione con l’amministrazione per la gestione di servizi (una sorta di baratto aree-servizi pubblici, che suscita qualche

perplessità in tema di tutela della concorrenza).

I nuovi standard

Il Dm 1444/1968, che individua, secondo un criterio quantitativo, gli spazi da destinare al verde, alle infrastrutture, ai servizi, a utilità collettive in genere è stato oggetto di critiche per aver imposto, a livello normativo, l’osservanza di regole che dovrebbero invece essere rimesse alle buone pratiche. È stato anche notato che gli standard quantitativi sono rimasti sostanzialmente inattuati e che la riserva di determinati spazi a finalità di interesse generale comporta l’ulteriore consumo del bene territorio. Per «assicurare il passaggio da una infrastrutturazione virtuale a una attrezzatura reale del territorio» (Portaluri), quindi, anche a fronte di una rinnovata domanda di servizi da parte della collettività, la Pdl 153 prevede standard urbanistici di natura qualitativa (o prestazionale), anche in questo caso codificando quanto già in parte recepito nella pratica locale (basti pensare al piano dei servizi configurato dalla legge 12/2005 della Regione Lombardia). Per l’esattezza, spetta al piano urbanistico:

a) documentare lo stato dei servizi esistenti in base a parametri di utilizzazione;

b) precisare le scelte relative alla politica dei servizi;

c) garantire la dotazione necessaria di attrezzature e servizi pubblici e di interesse pubblico o generale.

La prestazione di tali servizi potrà poi avvenire anche in concreto, senza connessione con le aree o gli immobili, e con il concorso dei soggetti privati, tanto che il successivo articolo 8, comma 8, parla di «piani convenzionali stipulati con soggetti privati e accordi di programma», che favoriscano appunto il recupero delle dotazioni territoriali. L’obiezione che può essere facilmente sollevata nei confronti della disposizione in commento è che essa lascia irrisolto il problema della soglia minima di dotazioni territoriali da garantire indifferentemente a tutti i cittadini sul territorio nazionale (P. Urbani), poiché la clausola di salvezza di quanto stabilito dall’articolo 117, comma 2, lettera m), della Costituzione (livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali) è una mera formula di stile.

L’attività edilizia

Il progetto di riforma (pur con i correttivi ottenuti in sede di votazione degli emendamenti) tende ad attribuire alle Regioni il ruolo di nuovo epicentro del governo del territorio. Spetta, infatti, a queste ultime individuare le attività di trasformazione non aventi rilevanti effetti urbanistici e non soggette a titolo abilitativo, nonché le categorie di opere e i presupposti urbanistici in base ai quali la Dia può sostituire il permesso di costruire (fermo il regime sanzionatorio previsto per la concessione edilizia dalle leggi statali vigenti). La nozione di «rilevanti effetti urbanistici ed edilizi», cui viene subordinata la necessità di ottenere il titolo abilitativo, è ambigua ed è ovvio che, se la determinazione di tale soglia di rilevanza viene rimessa agli enti territoriali, senza alcuna indicazione in merito da parte del legislatore statale, lo stesso tipo di trasformazione sarà assoggettato a trattamenti giuridici diversi da Regione a Regione. Non sfugga, poi, che, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, spetterà a tale ente anche l’individuazione dell’attività edilizia consentita in assenza di piano urbanistico o nelle more dell’approvazione del piano operativo. Resta, invece, ai Comuni il tradizionale potere di vigilanza e di controllo sulle trasformazioni edilizie, mentre la previsione delle relative sanzioni è di competenza del legislatore statale, salva la facoltà delle Regioni di imporre sanzioni amministrative di varia natura

– reale, ripristinatoria, pecuniaria, interdittiva

– «nei confronti dei responsabili degli abusi più gravi» (di nuovo, la determinazione della «maggior gravità» non sarà univoca).

La fiscalità urbanistica

L’utilizzo della disciplina fiscale in materia di governo del territorio rappresenta senza dubbio una delle novità maggiormente significative del progetto di riforma ma non sfruttata in tutte le sue potenzialità. Attraverso tale strumento, possono astrattamente essere perseguite varie finalità di politica urbana (a partire dalla redistribuzione dei vantaggi e svantaggi derivanti, rispettivamente, dalle esternalità positive e negative della pianificazione) ma scopo principale dell’articolo 12 – incisivamente modificato in sede di prima approvazione – sembra incentivare l’attuazione delle previsioni di piano: basti pensare alla perequazione e alla libera commerciabilità dei diritti edificatori, che sarebbe evidentemente compromessa da un carico fiscale eccessivo sulle compravendite. La Pdl 153 non pone una disciplina diretta della materia in parola ma sceglie il metodo della delega legislativa (verosimilmente per ragioni di copertura finanziaria), istituendo, dal 2006, un fondo per gli interventi di fiscalità urbanistica presso il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Il fulcro della disposizione è quindi costituito da quei «principi e criteri direttivi», elencati al comma 2 in cinque lettere, che il Governo dovrà rispettare nella redazione dei decreti delegati. Essi possono essere raggruppati in due categorie, comunque riguardanti misure incentivanti o premiali (mai disincentivanti):

- agevolazioni relative alle imposte sul valore aggiunto, di registro, ipotecarie e catastali, sui trasferimenti di immobili o di diritti edificatori;

- misure di perequazione fiscale intercomunale e, in dettaglio, «possibilità» (mera facoltà, quindi) di redistribuire il gettito derivante dall’imposta comunale sugli immobili (Ici) tra quei Comuni che abbiano formato un consorzio per la localizzazione di attrezzature di interesse sovracomunale, volte alla realizzazione di aree per insediamenti produttivi di beni e servizi (in base alla partecipazione delle singole amministrazioni al consorzio stesso).

Rispetto alle precedenti versioni, è stata soppressa la previsione sia di agevolazioni relative all’imposta sul reddito sia di vantaggi di natura contabile (esigibilità delle imposte in esercizi successivi) sia di un regime speciale per i progetti di recupero e riqualificazione dei centri urbani. Inoltre, la forza della misura incentivante sembra inevitabilmente compromessa laddove si ammette la futura «possibilità di rideterminazione, anche in riduzione, delle agevolazioni» (articolo 12, comma 2, lettera d): privare il destinatario del beneficio fiscale di ogni certezza sulla sua entità e durata nel tempo significa indebolire la funzione del beneficio stesso. L’articolo 12 nel suo complesso ha il sapore di una promessa che non sarà mantenuta.

Conclusioni

Il progetto di riforma ha senz’altro il merito di proporre dei principi fondamentali in una materia, come il governo del territorio, da anni alla ricerca di una nuova cornice normativa, adeguata ai mutamenti di fatto già intervenuti nelle pratiche e nella legislazione regionale. Il testo approvato dalla Camera dei deputati tradisce alcune imprecisioni, che speriamo di aver contribuito a evidenziare, e soffre di certe ambiguità che è bene qui riassumere. In primo luogo, se la negoziazione – come anticipato nel commento all’articolo 5 – deve essere assunta a modalità privilegiata di esercizio della funzione pubblica di governo del territorio, sarà necessario determinare, almeno in sede di pianificazione strutturale, le regole secondo le quali essa deve svolgersi. Merita qui riassumere che la Pdl 153 parla espressamente di accordi pubblico-privato almeno in tre diversi momenti di eccezionale rilevanza pratica:

a) all’articolo 5, con riferimento, in generale, all’esercizio delle funzioni amministrative;

b) all’articolo 8, comma 7, con riguardo alla formazione dei piani urbanistici;

c) agli articoli 7 e 8, comma 8, in merito alle dotazioni territoriali.

In secondo luogo, appare criticabile sia la generalizzazione del silenzio-assenso in sede di procedimento di rilascio del permesso di costruire sia i riferimenti confusi e sparpagliati alla tutela del paesaggio, non sufficientemente apprezzato nella sua dimensione di risorsa irripetibile del Paese. Da ultimo, a dispetto dei miglioramenti ottenuti in sede di approvazione degli emendamenti, la Pdl attribuisce un potere eccessivo alle Regioni (con una sorta di neocentralismo), a scapito di città metropolitane, Province e Comuni: laddove, peraltro, ancora non è risolta la sovrapposizione tra Città metropolitane e Province. In conclusione, molto deve ancora essere fatto perché il testo della riforma nazionale del governo del territorio possa essere considerato adeguato alle esigenze della materia e agli interessi del Paese che hanno nella valorizzazione del territorio e nella qualità dello sviluppo edilizio e infrastrutturale un asset fondamentale anche sul piano economico.

Ho letto l'articolo di prima pagina di ieri, di Roberta Carlini. Quello che è successo solo due giorni fa alla Camera è gravissimo: si è approvata l'ennesima controriforma portata avanti da questo goverrno nell'interesse dei più forti. La sostituzione degli atti autoritativi - a garanzia della collettività - con atti negoziali tra pubblico e privato renderà i nostri territori soggetti a ennesime espansioni edilizie che consumeranno il poco territorio rimasto libero e lo deturperanno.

Non c'è solo un aspetto di tutela ambientale; oggi, infatti, grandi somme vengono sottratte agli investimenti, quindi alla creazione di nuova occupazione e alla modernizzazione delle infrastrutture produttive, per essere investite sulle rendite fondiarie e immobiliari. Viene da ridere, quindi, quando i «signorotti» del nord e il ceto politico che trasversalmente li rappresenta, parlano di «pericolo cinese». Purtroppo questo provvedimento è passato in sordina; nessuno, neanche l'opposizione, ha tentato una minima mobilitazione per bloccare questo ulteriore sfregio al principio di eguaglianza e al diritto che ognuno di noi ha di fruire del territorio e di trovare le stesse condizioni. Viene spazzato via il pur minimo principio di perequazione urbanistica che, se diffcilmente applicato, è pure presente nelle leggi di governo del territorio e nei piani di gestione territoriale.

In un paese come il nostro dove le deturpazioni del paesaggio e del territorio stanno facendo pagare il conto in termini di dissesto idrogeologico e di sicurezza del territorio più in generale, la legge che il governo e la maggioranza stanno approvando, può determinare un punto di non ritorno.

Il costante aumento di risorse destinate alla protezione civile, l'aumento dei consumi energetici con conseguente dispersione, potrebbero essere regolate e limitate attraverso buone pratiche applicate alla pianificazione urbanistica, questo Pdl invece elimina alla radice qualsiasi idea di sviluppo sostenibile appoggiando cialtronescamente uno sviluppo economico basato sulla rendita, sulla speculazione mettendo sotto scacco il territorio.

Il nuovo piano di Parigi (Plan Local d’Urbanisme): come coniugare sviluppo, solidarietà e qualità ambientale costruendo strategie condivise e partecipate, e definendo innovative regole non contrattabili

In ottemperanza ai dettami della nuova legge urbanistica francese (SRU, 2000-1208), nell’ottobre del 2001 è stata avviata la revisione del piano di Parigi. Il PLU, che sostituirà il POS, ha già realizzato i tre passaggi cruciali previsti per legge: la Diagnostic, il PADD che ha messo a fuoco le linee strategiche dell’amministrazione, le prescrizioni regolamentari che si applicheranno al territorio comunale.

Le regole per l’uso dei suoli rappresentano dunque l’ultima tappa di un processo che è scaturito sia “dall’alto” che “dal basso”. Gli orientamenti generali sono stati indicati dalle linee guida contenute nello Schéma Directeur de la Region Ile-de-France (che in virtù dell’articolo L. 141-1 del Code de l’Urbanisme ha gli effetti di una Directive Territoriale d’Aménagement, con la quale pertanto i piani urbanistici comunali devono risultare compatibili) e dalle note del Prefetto concernenti la Revisione del PLU parigino. Ma le regole del PLU costituiscono soprattutto la ricaduta operativa di un vero e proprio “progetto di città” che, secondo le parole del sindaco Delanoë, ha l’ambizione di riequilibrare il territorio parigino ”en rupture avec le passé”: un progetto che si propone di migliorare sensibilmente la qualità della vita quotidiana, promuovere lo sviluppo e l’occupazione, attenuare gli squilibri esistenti in direzione di un modello di città più solidale.

La Diagnostic urbaine ha evidenziato le contraddizioni prodotte dalle scelte urbanistiche della amministrazione Chirac: la eccessiva concentrazione di funzioni ed iniziative edilizie nei quartieri dell’Est e del Nord-Est parigino, l’espulsione progressiva di gruppi sociali e funzioni deboli, la eccessiva specializzazione terziaria e il progressivo imborghesimento della popolazione.

Il PLU parigino estende le sue competenze rispetto al POS vigente: esso ricomprende infatti le ZAC (i grandi progetti affidati a società di economia mista), ad evitare la proliferazione incrementale di progetti in deroga svincolati da una quadro di coerenza complessiva. Ha inoltre predisposto un complesso apparato normativo-regolamentare (su alcune problematiche ritenute di rilevanza cruciale nel breve e medio periodo) la cui legittimazione è stata perseguita attraverso una impegnativa strategia di comunicazione/coinvolgimento continuo della cittadinanza e degli attori lungo tutto il processo di costruzione del piano: dal 2001 al 2004.

Il PLU è stato anche l’occasione, peraltro ben radicata nella prassi urbanistica delle amministrazioni locali delle grandi città francesi e delle loro Agences d’Urbanisme, per un impegno poderoso in termini di analisi, prospezioni, studi di settore, elaborati cartografici (“14 chili di documenti”, sottolineano con malcelato orgoglio i siti ufficiali dedicati al PLU).

Il piano, dopo alcune vivaci sedute che hanno prodotto emendamenti migliorativi sensibili, è stato approvato dal Consiglio Comunale il 2 febbraio 2005: conclusa l’inchiesta pubblica e pubblicati i risultati, la sua adozione definitiva è prevista entro il primo semestre del 2006. Una volta adottato, si sostituirà al POS (Plan d’Occupation des Sols) del 1977(revisionato nel 1989 e nel 1994).

Su alcuni aspetti qualificanti del PLU di Parigi, diamo qui di seguito una descrizione sintetica, allegando alcuni file in pdf tratti dai siti ufficiali e alcuni suggerimenti per una navigazione più di dettaglio per il lettore interessato all’approfondimento.

Il piano di Parigi ha tre obiettivi: 1. “Rendere la città più bella”, 2.“Salvaguardare la diversificazione sociale e lottare contro le disuguaglianze”, 3.“Sviluppare l’occupazione”

1. Con il primo obiettivo si intende rafforzare l’identità parigina salvaguardando il suo patrimonio architettonico, sviluppando la dotazione di verde urbano, promuovendo una architettura di qualità, limitando la circolazione delle automobili. Per il patrimonio costruito la tutela si estenderà dai 1900 monumenti e siti eccezionali protetti dallo Stato a 4.000 nuovi edifici individuati dai consigli di quartiere e dalle associazioni di base. Per il verde urbano, il PLU prevede 30 ettari di nuovi giardini e la salvaguardia dei 200 ettari di giardini privati esistenti. Si conferma una altezza massima per le nuove costruzioni che non superi i 18-37 metri a seconda dei quartieri (salvo deroghe eccezionali consentite soltanto a condizione di una sistematica consultazione degli abitanti: un “compromesso” cui si è giunti fra i Verdi, schierata a favore di un rigido controllo delle altezze degli edifici e il sindaco, più possibilista). Per ridurre l’uso dell’automobile, si conferma il piano di estensione delle corsie dedicate esclusivamente ai trasporti pubblici, delle piste ciclabili e delle aree pedonali; gli standard di parcheggi vengono ridotti: un posto auto per 100mq. di superficie abitativa e nessun obbligo di realizzazione di posti auto per interventi residenziali inferiori a 1.000 mq. (10-12 alloggi) e per uffici, commercio e grandi servizi.

2. Con il secondo obiettivo, il PLU dà priorità alla realizzazione di abitazioni nei quartieri del Centro e dell’Ovest eccessivamente terziarizzati, e in particolare all’edilizia sociale. Per quest’ultima le disposizioni regolamentari approvate nel febbraio prevedono che, all’interno di identificati perimetri “di deficit”, si applichi una quota obbligatoria del 25% per tutte le nuove iniziative immobiliari superiori a 1.000 mq di superficie: una regola avversata dall’opposizione che voleva fissare la soglia minima a 4.000 mq., ma approvata dal Consiglio Comunale.

3. Per sviluppare l’occupazione (un problema prioritario per il PCF), il PLU concentra nuove opportunità insediative nelle zone più fragili (il Nord, l’Est e il Sud), introducendo un sistema di premi edificatori per nuove costruzioni o interventi di recupero del costruito destinati a uffici, laboratori di ricerca, artigianato e commercio al dettaglio in stretta integrazione con le nuove destinazioni per abitazioni, spazi verdi e servizi di prossimità. In particolare, regole precise e impegnative riguardano la salvaguardia del commercio al dettaglio lungo gli assi a forte vocazione commerciale.

Il piano di Parigi ha costituito l’occasione per un esteso esercizio di democrazia locale

Si è proprio in questi giorni conclusa l’inchiesta pubblica avviata ufficialmente il 13 maggio 2005: nelle mairies degli arrondissements parigini i cittadini hanno potuto consultare i dossier e la cartografia del PLU, ricevere ragguagli ed esprimere pareri e valutazioni qualitative.

Nel terzo trimestre 2005 sarà elaborato un rapporto in merito ai risultati dell’inchiesta pubblica e nel primo semestre 2006 il consiglio comunale approverà definitivamente il piano.

Ma tutto il processo di elaborazione del PLU è stato accompagnato da iniziative di concertazione pubblica: sia in fase di Diagnostic, che nella definizione degli obiettivi strategici del PADD (in particolare attraverso gli “Stati Generali dell’urbanistica” che si sono tenuti nel giugno 2003), che in concomitanza con la elaborazione della cartografia e delle norme tecniche di attuazione. Il PLU ha costituito l’occasione per sperimentare per la prima volta a Parigi un modello di esteso coinvolgimento della popolazione, per meglio mettere a fuoco le ambizioni collettive di un progetto per la città che vuole proiettarsi oltre la durata prevista per legge per il PLU (dieci anni), ragionando in una prospettiva ventennale e facendosi carico con consapevolezza della eredità da trasmettere alle generazioni future.

Sia nella fase della Diagnostic urbaine che nella elaborazione del PADD, gli incontri con i cittadini, gli attori economici e sociali, gli esperti sono stati continui: presso le mairies degli arrondissements e presso i 121 consigli di quartiere, in diverse occasioni pubbliche e con una articolata ed esauriente disseminazione di pubblicazioni e informazioni via Internet.

In particolare: presso il Pavillon de l’Arsenal (l’urban center di Parigi) è stata costituita la “Maison du PLU; sono stati pubblicati regolarmente i “Cahiers du PLU”; si è somministrato un questionario a tutti i cittadini nel giugno del 2004 i cui risultati sono stati inseriti sul sito ufficiale del comune.

( www.paris.fr > Urbanisme&Logement > Elaboration du Plan Local d’Urbanisme > Concertation)

La normativa del piano di Parigi: quattro tipologie territoriali (grandes zones), 14 dispositivi regolamentari.

La cartografia a scala 1/2000 (più dettagliata di quella del POS vigente che è a scala 1/5000) copre l’intero territorio comunale (eccetto i settori sottoposti a tutela statale: Marais e Settimo Arrondissement); costituisce il quadro di riferimento regolamentare stabile per le trasformazioni insediative, anche se prevede dei meccanismi di flessibilizzazione alla scala del quartiere; persegue due grandi obiettivi generali: una migliore tutela e valorizzazione ambientale e una maggiore diversificazione funzionale locale.

I principi di zonizzazione si articolano su quattro grandi tipologie insediative:

- la Zona Urbana Generale (U.G.) che copre la maggior parte del territorio comunale ed è regolamentata dalla fissazione del COS massimo (3mq./mq rispetto a 3,75mq./mq. del POS attuale), da regole morfologiche relative alle altezze e ai volumi degli edifici, e da premi e disincentivi volumetrici volti a promuovere la diversificazione e il riequilibrio del mix funzionale locale (COS intégré); la Zona dei Grandi Servizi Urbani (G.S.U.) che riguarda tutti i servizi di rilevanza comunale che richiedono criteri di localizzazione e di progettazione mirati; la Zona Urbana Verde (U.V.) che individua tutte le aree a vocazione ecologica e ricreativa; la zona naturale e forestale del Boi de Boulogne e del Boi de Vincennes (N) cui si applicano regole di salvaguardia e di rigenerazione.

I dispositivi regolamentari riguardano, fra gli altri, le destinazioni d’uso ammesse o vietate; le quote di edilizia sociale da realizzare sulla base dei deficit stimati a livello di quartiere; la viabilità e la sosta; i servizi a rete; le altezze degli edifici e il trattamento estetico degli edifici e delle facciate; la tutela degli spazi aperti e, in particolare, degli spazi verdi e protetti, i coefficienti edificatori massimi ammissibili.

( www.paris.fr > Urbanisme&Logement > Elaboration du Plan Local d’Urbanisme > Du POS au PLU > Présentation générale du reglèment)

Il piano di Parigi: regole cogenti per la salvaguardia del commercio tradizionale

La Enquête Globale de Transport del 2001-2002 ha confermato un importante punto di forza di Parigi in termini di vivibilità e di sostenibilità: il 67% degli spostamenti per fare acquisti si effettua a piedi e il 24% con i mezzi pubblici, mentre soltanto il 7% avviene con l’uso del mezzo privato. La quota degli spostamenti a piedi sale all’88% per l’acquisto di beni di prima necessità.

Il PLU introduce regole strette per garantire un’offerta commerciale diversificata, proteggendola dalla concorrenza dei grandi centri commerciali attestati alle porte di Parigi e da indesiderabili cambiamenti della destinazione d’uso: per 230 km. di assi commerciali (il 16% delle strade parigine), individuati in fase di Diagnostic urbaine come significativi per diversificazione merceologica ed attrattività, si impone la conferma della destinazione d’uso dei piani terra a funzione di commercio al dettaglio per tutti i progetti di nuova edificazione o di recupero. Una regola particolare riguarda la salvaguardia delle botteghe e dell’artigianato alimentari più minacciati (macellerie, pescherie, rivendite di formaggi): essa riguarda 20 km. di assi commerciali specializzati (il 20% dell’artigianato alimentare parigino) dove non sarà consentito un cambiamento della specializzazione merceologica e produttiva.

Nota: allegati di seguito due gruppi di files PDF, un primo di documenti esplicativi di fonte Apur (Atelier Parisien d’URbanisme); un secondo di tavole, dal sito municipale Urbanisme&Logement dedicato al Piano (m.c.g.)

APUR Assurer la diversité du commerce
APUR Développer le végétal...
APUR Produire des logements sociaux à Paris
APUR Protéger le patrimoine..

Deficit logement
Equilibre emploi-habitat
Hauteurs
Végétale en UG
Zonage

Mentre in Italia, con l’approvazione alla Camera della “Legge Lupi”, paradossalmente titolata “Legge per il governo del territorio”, la pianificazione urbanistica e territoriale subisce una ennesima delegittimazione (nel silenzio-assenso di parte cospicua della cultura urbanistica ormai irresistibilmente attratta dal modello neo-corporativo), le innovazioni legislative recentemente introdotte in alcuni paesi europei e le loro ricadute in ambito attuativo, documentano una evidente tendenza: che il piano è tornato a svolgere un ruolo centrale nelle politiche pubbliche, come rimedio ai danni della deregolamentazione urbanistica e per far fronte alle complesse sfide di lungo periodo in tema di competitività, sostenibilità e coesione sociale. Vanno in questa direzione molte leggi e direttive recenti in materia di pianificazione urbanistica e territoriale, fra cui la legge di riforma urbanistica“Solidarité et Renouvellement Urbain” approvata dal governo Jospin (m.c.g.).

La legge Solidarité et Renouvellement Urbain(SRU), n. 2000-1208 del 13 dicembre 2000.

Proposta ed approvata dal governo Jospin, la legge ha rinnovato radicalmente gli strumenti della pianificazione comunale e di area vasta e, malgrado alcuni emendamenti peggiorativi introdotti dall’attuale governo di centro-destra, sta già producendo alcuni risultati interessanti, soprattutto nei contesti urbani e metropolitani più sperimentali e innovativi.

Come anche il titolo sottolinea con grande efficacia, la legge SRU persegue l’obiettivo di lungo periodo dello sviluppo sostenibile: uno sviluppo da perseguire attraverso politiche urbane più coerenti e alla scala pertinente, città più solidali, riqualificazione della città densa, cauto consumo delle risorse territoriali, trasporti ecocompatibili. La legge è scaturita da una lucida riflessione critica su alcuni effetti indesiderabili del decentramento amministrativo realizzato a partire dai primi anni ’80 dello scorso secolo; in particolare sono al centro dell’attenzione del legislatore gli elevatissimi consumi di suolo nelle aree di frangia urbana prodotti dalle dispersione abitativa, l’aumento del consumo di mobilità su gomma, la crescente doppia velocità e la caduta della qualità della vita nelle città e nelle frange suburbane: fenomeni che sono stati favoriti dal modello di autoapprovazione dei piani urbanistici comunali (POS) e dal simmetrico indebolimento della pianificazione di inquadramento di area vasta (opzionalità degli Schemi Direttori) realizzati con il decentramento amministrativo.

Due sono i nuovi strumenti urbanistici previsti dalla legge: lo SCOT (a scala sovracomunale) e il PLU (a scala comunale).

A. Gli Schémas de la Cohérence Territoriale (SCOT) sono piani di inquadramento di area vasta: ricevono competenze più ampie rispetto agli Schémas Directeurs (SDAU), sono più dirigisti e più normativi. Sono elaborati dalle associazioni intercomunali volontarie e sono preposti ad integrare pianificazione urbanistica e piani di settore.

Con gli indirizzi dello SCOT devono essere compatibili (e ad esso subordinati): il PLH (Programme Local de l’Habitat), il PDU (Plan de Déplacement Urbain), il PLU (Plan Local d’Urbanisme), la Carte Communale (il piano semplificato dei piccoli comuni), lo SDEC (Schéma Directeur de l’Equipement Commerciale), la ZAD (Zone d’Aménagement Différée), la ZAC (Zones d’Aménagement Concerté), la perimetrazione delle riserve fondiarie superiori a 5 ha., le grandi opere pubbliche finanziate dallo Stato.

Inoltre, gli SCOT perimetrano in maniera insindacabile gli spazi naturali e urbanizzati sottoposti a tutela.

Una importante regola non contrattabile volta a garantire una gestione prudente nel lungo periodo delle risorse territoriali è rappresentata dal principio di “constructibilité limitée” o di “extension limitée de l’urbanisation” che stabilisce che, in assenza di SCOT approvato, non sarà consentito ai comuni di urbanizzare nuovi territori o realizzare grandi superfici commerciali (il principio che, nella legge SRU si applicava a tutti i comuni che si situano a non più di 15 km dalla periferia di una agglomerazione di 15.000 abitanti, è stato ridimensionato dal governo Raffarin che ha innalzato la soglia demografica a 50.000 abitanti - emendamento introdotto con la legge “Urbanisme et habitat” del 2 luglio 2003).

E ancora, gli SCOT potranno subordinare le nuove urbanizzazioni al livello di dotazione di trasporti pubblici e allo sfruttamento preventivo dei suoli disponibili in aree già urbanizzate (una regola che rafforza il carattere prescrittivo dello SCOT e che ha molte assonanze con analoghe disposizioni olandesi, tedesche e britanniche).

Inoltre, una attenzione particolare dovrà essere dedicata alla pianificazione dell’offerta commerciale, prevedendo un sensibile abbassamento degli standard di parcheggi, per salvaguardare il territorio periurbano e le entrèes de villes dalla proliferazione di grandi centri commerciali. Una legge successiva approvata nel 2002 (DDUHC: Diverses dispositions relatives à l’urbanisme, à l’habitat et à la construction) ha rafforzato queste indicazioni, stabilendo che i comuni sprovvisti di SCOT non sono autorizzati a concedere permessi di costruire per centri commerciali e sale cinematografiche in zona non urbanizzata.

Infine, i Contrats de ville che canalizzano i finanziamenti statali a favore di progetti per la mixité abitativa, la lotta alla esclusione, l’offerta equilibrata di servizi pubblici rientrano anch’essi fra le competenze dello SCOT.

B. A scala comunale, il nuovo strumento urbanistico è il PLU (Plan Local d’Urbanisme) che sostituisce il POS (Plan d’Occupation des Sols).

Per la elaborazione del PLU, che si configura come il progetto urbano della municipalità, si richiedono alle amministrazioni locali, e alle loro agenzie tecniche, alcuni passaggi chiave obbligatori:

- una fase preparatoria di accurata diagnostic urbaine,

- la elaborazione di un progetto globale per il territorio comunale ( PADD: Projet d’Aménagement et de Développement Durable) che deve individuare gli obiettivi strategici del comune, in particolare in tema di riqualificazione urbana, trasporti, difesa della diversità commerciale dei quartieri, paesaggio, ambiente, tutela dei beni architettonici, eventuali progetti in deroga (ZAC) che non possono più essere approvati in sequenza incrementale, ma inseriti nel progetto globale della municipalità e compatibili con le indicazioni dello SCOT,

- la predisposizione delle norme tecniche di attuazione e

- la cartografia e gli allegati.

Da sottolineare infine che la normativa in materia di diritto dei suoli appare poco modificata rispetto a quella dei POS: soltanto la prescrizione del COS (Coéfficient d’occupation des sols) è resa facoltativa, ma nel caso venga fissata non ne è più autorizzato il superamento.

La legge SRU stabilisce per la prima volta in Francia che la concertazione con la popolazione dovrà diventare un processo continuo sia nella elaborazione dello SCOT che del PLU .

Per il PLU, già nello sviluppo delle prime due fasi ( Diagnosticurbaine e PADD), la legge prescrive infatti l’attivazione di un dibattito pubblico fondato su elementi chiari, semplici e comprensibili, con l’obiettivo di “accentuare l’intensità democratica” del processo di pianificazione. Una volta completate tutte le fasi, il PLU deve essere sottoposto a inchiesta pubblica prima della approvazione finale da parte del consiglio comunale.

Le differenze rispetto alla “via italiana” alla riforma degli strumenti urbanistici sono dunque evidentissime. In particolare, occorre ancora sottolineare che il PLU non distingue tra elementi strutturali e operativi: i primi spettano infatti al piano di inquadramento di scala sopracomunale (SCOT) e con essi devono risultare compatibili i grandi indirizzi dei piani comunali. E ancora, il PLU è un “piano comprensivo” a tutti gli effetti; è lo strumento, e il processo, per la integrazione dei piani di settore, sempre in coerenza con gli indirizzi dello SCOT: Plan Local de l’Habitat–PLH (obbligatorio per legge e finalizzato a garantire una adeguata offerta di edilizia sociale alla scala del quartiere); piano del traffico, piano per il sostegno e lo sviluppo delle attività economiche e commerciali, piano per la protezione e la valorizzazione dell’ambiente. Si tratta dunque di un vero “projet urbain” che definisce misure, azioni, progetti e regole non contrattabili che riguardano non più soltanto la definizione precisa dei diritti d’uso del suolo da parte dei privati (come avveniva nel POS), ma anche il progetto pubblico e di lungo periodo della amministrazione locale.

I principi fondamentali cui il PLU deve fare riferimento, e ai quali devono accompagnarsi adeguati e coerenti elementi prescrittivi e regolamentari, sono:

- il governo del consumo di suolo e la protezione degli spazi naturali e agricoli; una gestione prudente degli spazi urbani, periurbani, naturali e rurali; il contenimento degli spostamenti su gomma e dei correlati effetti ambientali negativi; la tutela del patrimonio costruito e la prevenzione dei rischi;

- la ricerca di diversità delle funzioni urbane e la mixité sociale, “prevedendo progetti ed interventi di recupero sufficienti per soddisfare, senza discriminazioni, i bisogni presenti e futuri in materia di abitazione, di attività economiche, in particolare commerciali, di attività sportive e culturali e d’interesse generale e di servizi pubblici, tenendo in conto particolare il riequilibrio emploi-habitat, i trasporti pubblici e la gestione delle acque” (nuovo art. L.121-1 del Code de l’Urbanisme).

Da sottolineare infine che la legge RSU per quanto riguarda la riduzione della “doppia velocità” stabilisce che tutti i comuni di una agglomerazione urbana con più di 50.000 abitanti devono garantire una offerta abitativa costituita, per almeno il 20% del totale, di edilizia sociale, prevedendo un prelievo sulle entrate comunali (che sarà versato alle associazioni intercomunali o allo Stato) ed, eventualmente, l’esercizio dei poteri sostitutivi per i comuni inadempienti. Per i comuni dell’Île-de-France, l’inadempienza potrebbe tradursi in un blocco delle licenze terziarie, di fatto reintroducendo l’Agrément en Blanc soppresso negli anni ’80.

L’attuale governo ha in parte indebolito gli aspetti più innovativi della RSU consentendo un regime di transizione fino al 2006 in cui restano in vigore i POS vigenti, non si applicherà il principio di extension limitée de l’urbanisation, i comuni potranno realizzare le ZAC già programmate. Inoltre, mentre nella formulazione originaria il 20% di edilizia sociale da realizzare nelle agglomerazioni con più di 50.000 abitanti era esclusivamente dedicato alle abitazioni in affitto, è stata consentita anche la realizzazione di alloggi in proprietà.

Sulla legge SRU, sul dibattito parlamentare e più in generale culturale sviluppatosi in Francia, sugli emendamenti successivamente introdotti dal governo Raffarin, si consiglia ai cultori di analisi comparativa una ricerca in Internet per parole chiave e la navigazione nel sito www.legifrance.gouv.fr., dove è possibile scaricare i testi di legge, le circolari esplicative ed anche il dibattito parlamentare. Ciò consentirà, fra l’altro, di apprezzare al meglio, al di là delle ovvie differenze istituzionali, la sconsolante distanza, anche formale oltre che sostanziale, fra l’apparato giuridico e il dibattito politico-culturale francese e quelli sviluppatisi nel nostro paese negli ultimi tempi.

Gli omissis e le deformazioni sono volte a proteggere la persona che me l’ha inviato: di questi tempi, non si sa mai.

Oggi. A pranzo con due colleghi. Siamo furiosi con l’Assessore e i suoi dirigenti e il loro modo di sfasciare tutto e lavorare alla cazzo di cane.

Ore 14.00. Chiamo al cellulare il mio direttore, Antonio.

Io: Gli chiedo lumi sulla riunione d'urgenza indetta dall’Assessore.

Antonio: L’Assessore vuole capire come la pensiamo, se abbiamo opinioni.

Io: Il Documento è una schifezza, sarebbe opportuno che L’Assessore decidesse di darsi un progetto chiaro. Gli faccio presente che essere critici con L’Assessore, dall'interno, conoscendo la sua prepotenza, è rischio. Averci convocati tutti è sleale, anche perché fino ad oggi ci hanno trattato a pesci in faccia. Se sei critico sei un sovversivo, perché metti i bastoni tra le ruote. Se stai zitto e dopo le cose non funzionano, è colpa tua perché avresti potuto avvertire e quindi non collabori. Comunque vadano le cose, chi è stato convocato ha torto.

Antonio: Se non avete capito cosa vuole il padrone e come funzionano le cose, voi urbanisti siete dei cretini.

Io: Non è il premio di produzione che ci interessa, ma il territorio e la città. Gli dico che noi abbiamo una certa idea di pubblico che forse non collima con quella dell’Assessore. Se a tutti noi non è del tutto chiaro che cosa lui intende fare, non si può sostenere che siamo tutti cretini. Ci sarà pure una ragione, poi, se tutti i promemoria scritti da ciascuno di noi, pur nella loro disomogeneità esprimono dubbi, perplessità, critiche sul taglio del Documento, a volte anche forti preoccupazioni.

Antonio: Tu sei tra i più critici. Sarebbe bella una pianificazione senza regole, anzi senza pianificazione sarebbe meglio. Se la Giunta ci chiede di fare gli affari della Confindustria, noi dobbiamo assecondarla.

Io: Lo stipendio non me lo dà la Confindustria. lo stipendio lo percepisco perché lavoro per l'interesse pubblico e generale. Ho fatto una scelta precisa nell'iscrivermi a urbanistica e una ancora più forte nell'entrare nella pubblica amministrazione. Io ho fatto il giuramento di fedeltà alle leggi, non al Capo. Uno Stato senza regole non mi piace: è anarco-fascista.

Antonio: Prima di entrare qui sono stato un dirigente in vari uffici privati o parapubblici. So come si fanno le cose. Bisogna garantire alle imprese di poter fare sviluppo. Bisogna quindi attuare il Piano strategico della Giunta.

Io: È na fesseria indecente aver chiamato Piano strategico il collage dei desideri di tutti gli attori. Chi lo ha scritto se ne dovrebbe vergognare, soprattutto per la parte che ci compete. Lo sviluppo non lo fanno le imprese: quelle sfasciano e fanno gli affari loro, ora e subito senza pensare al domani.

Antonio: Se a un commesso di un magazzino gli dicono che deve vendere un profumo che fa schifo, lui il profumo lo deve vendere per portare a casa lo stipendio.

Io: Non sono un commesso, l'urbanistica non è una merce. Non potete farci fare cose che negano mezzo secolo di cultura e di civiltà urbanistica. Fare l'urbanistica nella pubblica amministrazione non è spostare un pacco da un tavolo all'altro, non è servire il padrone. Bisogna pensare al domani con intelligenza e responsabilità nell'interesse generale. Invece che scrivere sciocchezze, perché non vi guardate attorno e cercate di capire che cosa hanno fatto gli altri? Copiate almeno!

Antonio: dobbiamo fare da soli. Me ne frego di chi critica il Documento!

Io: Se fallisci che fai ? [lui ride]. A voi dirigenti abbiamo detto sin dall'inizio che il Documento non si può fare tutto dal di dentro, è velleitario, è superbo e impossibile: c'è bisogno dell'apporto esterno. Devi dire all’Assessore che non è possibile fare il Documento in solitudine da dentro. Oltretutto siamo già oberati dall'ordinario e se non glielo dici, gli tagli le gambe.

Antonio: Costa troppo chiedere collaborazioni e voi non sapete indicarci con chi e per cosa. […] Vi siete bravissimi, dovete avere le idee per l’Assessore.

Io: […]. Non si può ridurre l'urbanistica a codicilli, a cose da avvocaticchi, perchè questo che volete. Il Documento l’Assessore l’ha scritto coi piedi. Hai ridotto il piano a una scatola di cartone vuota! Se uno è chirurgo non si può spacciare per ebanista: bisogna avere la consapevolezza delle proprie capacità.

Antonio: […] L’Assessore vi ha convocato per avere opinioni.

Io: Le idee non si formulano dall'oggi al domani come parlare di pallone al bar. Se chi ha la funzione di coordinare il lavoro non ci riesce e fallisce, che succede: va a fondo tutta la baracca? Ci chiedete idee quando avete l'acqua alla gola.

Antonio: Bisogna che diciate, ad esempio, perché nei paesi con meno di 20.000 abitanti non si possono fare pi zone industriali. Bisogna pensare allo sviluppo. Si farà la concertazione, la VAS, l'Agenda 21.

Io: […] L'Agenda 21 e la VAS vengono utilizzati come grimaldelli che santificano e giustificano tutto. Sai bene che l'agenda 21 è molto malleabile da parte di chi ha il coltello dalla parte del manico. L'istituto delle osservazioni ed opposizioni è democratico: è aperto a tutti. Con l'Agenda 21 invece scegli tu con chi, dove, quando, come e su cosa dialogare.

[…]

Antonio: Dobbiamo eseguire gli ordini.

Io: Non quelli sbagliati.

Antonio: Devi farlo.

Io: No se non c'è l’obbligo di legge.

Antonio: Puoi cambiare organizzazione.

Io: Non è escluso.

Antonio: Ci vediamo giovedì.

Io: Forse. Buona serata.

Sono stato male tutto il pomeriggio e stasera. Adesso prendo un calmante. Domani si vedrà.

Che conseguenze potrà avere la legge Lupi sul territorio rurale italiano? In linea di principio, è possibile osservare come la legge sia in netta controtendenza non solo rispetto agli indirizzi dettati in materia dall’Unione europea, ma anche alle esperienze di importanti stati membri (Inghilterra, Germania, Francia). I motivi di questa affermazione sono molteplici.

In ambito europeo è oramai prevalente il punto di vista secondo il quale lo spazio rurale rappresenta nel suo complesso un bene pubblico, al di là degli assetti proprietari e delle forme di conduzione. L’attenzione è rivolta alla multifunzionalità del territorio rurale, alla capacità cioè che esso ha di produrre un flusso di beni e servizi utili alla collettività, legati non solo alla produzione primaria, ma anche e soprattutto al riciclo ed alla ricostituzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo), al mantenimento degli ecosistemi, della biodiversità, del paesaggio; al turismo, alle occasioni di ricreazione e vita all’aria aperta ecc. Il territorio rurale è in grado di compiere tutte queste funzioni perché esso costituisce la porzione largamente prevalente dei bacini idrografici, degli ecosistemi e dei paesaggieuropei, cioè delle infrastrutture ambientali che sostengono, direttamente o indirettamente, la vita delle comunità insieme a buona parte delle attività economiche, sociali, culturali.

2. I principali documenti comunitari in materia di pianificazione e ambiente (vedi ad esempio lo Schema di Sviluppo Spaziale Europeo approvato dal Consiglio dei ministri nel 1999, ma anche le varie edizioni del Dobris Assessment curate dall’Agenzia Europea per l’Ambiente) considerano il consumo di suolo per espansione urbana come la principale minaccia alla conservazione delle risorse ambientali in Europa. Una possibile via di uscita viene indicata nel riciclo delle aree urbane esistenti, e nell’utilizzo del più appropriato mix di strumenti regolativi, incentivi e comportamenti volontari per governare entro limiti di sostenibilità complessiva la trasformazione urbana di aree rurali.

3. Molti stati europei, in risposta a queste esortazioni, hanno definito strategie nazionali per la tutela del proprio spazio rurale. Come racconta Jeorg Frisch nel suo articolo per Eddyburg, la Germania ha elaborato un piano nazionale per la riduzione del consumo di suolo dagli attuali 130 ettari giornalieri, a 30. La Gran Bretagna, che protegge da quasi settant’anni con le sue green belt un milione e mezzo di ettari - il 12% del paese -, ha scelto una strada differente, fissando l’obiettivo di soddisfare, mediante riciclo delle aree urbane esistenti, una quota della nuova edificazione, definita localmente, e comunque non inferiore al 50-60%. Per evitare la dispersione urbana, in Francia, le leggi sul paesaggio rurale e la montagna impongono che le nuove edificazioni avvengano esclusivamente in continuità con i nuclei insediativi esistenti. E’ superfluo aggiungere come tali strategie, pur con le debite aperture ad aspetti di negoziazione e partecipazione pubblica, presuppongono un ruolo forte della pubblica amministrazione, come garante della sostenibilità complessiva delle scelte, nonché del rispetto degli interessi diffusi, oltre che di quelli particolari degli stakeolders.

4. La strada perseguita dalla legge Lupi è diversa, e si ispira ad un contrattualismo radicale che non ha probabilmente riscontro in nessuna democrazia liberale al mondo, con le funzioni di regolazione e garanzia della pubblica amministrazione che vengono di colpo praticamente azzerate. In un simile contesto, al di là degli aspetti predicatori in materia ambientale, dai quali la legge non ha il pudore di esimersi, strategie di tutela dello spazio rurale simili a quelle adottate dalle principali democrazie europee diventano impraticabili, perché semplicemente illegittime. La logica è rovesciata: mentre in Europa il valore dello spazio rurale, nel suo complesso, rappresenta ormai l’assunzione di principio, ed è il proponente a dover semmai dimostrare la necessità impellente e non diversamente ovviabile di nuovi consumi di suolo, in Italia è il diritto edificatorio della proprietà fondiaria ad essere garantito, a spese di un “territorio non urbanizzato” che, sul tavolo dissettorio della Lupi, viene impietosamente smembrato in “aree destinate all’agricoltura, aree di pregio ambientale e aree urbanizzabili” (sic! se non è zuppa è pan bagnato).

5. Tutto ciò, all’interno di un contesto nazionale di involuzione regressiva della governance ambientale, che vede le Soprintendenze in disarmo; le Autorità di bacino e gli Enti parco operare allo stremo con risorse risibili, in un regime di spoil system tra i più spietati; la sospensione di fatto delle procedure di VIA, oggi più efficientemente surrogate da una delibera del Cipe, piuttosto che di un commissario governativo alle cave o ai rifiuti. Per non parlare dell’infelice momento in cui versano le associazioni ambientaliste, impegnate a leccarsi le ferite dopo mesi di cruente e dissolutive contrapposizioni.

Insomma, il ghe pensi mi al posto delle garanzie liberali, e poi per favore basta lagne: chi ha più capacità e iniziativa alla fine prevarrà: sulle macerie fumanti del bel paese. Ne riparliamo a settembre alla Scuola estiva in Val di Cornia.

Qui sotto potete scaricare il testo in formato .pdf (il testo ufficiale dai stampati del Senato). Spero che nessuno, fermandosi al primo firnmatario della prima legge "unificate", la chiamerà "Legge Bossi". La vergogna è già abbastanza. Se poi leggete la legge e cercate di comprenderla...

01/07/2005 - Approvato ieri alla Camera il disegno di legge Lupi sul governo del territorio che apre la strada ad una nuova legge urbanistica, vera e propria riforma della vecchia legge del 1942.

Si tratta di un primo atto concreto a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, ma anche a seguito del processo di sviluppo delle autonomie territoriali e amministrative avviato già dai primi anni Novanta, che riguarda anzitutto le Regioni ma anche Province, Comuni e le future Città metropolitane.

Il Ddl definisce il governo del territorio l'insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi di tutela e valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni e la mobilità. Il governo del territorio comprende l'urbanistica, l'edilizia, i programmi infrastrutturali e la difesa del suolo.

Con un emendamento presentato da Sandri del centro-sinistra è stata inserita la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali.

Il Ddl prevede che lo Stato mantenga le funzioni di predisposizione di politiche generali e di settore. Lo Stato, d’intesa con gli Enti locali, effettua interventi speciali in determinati ambiti territoriali per rimuovere condizioni di squilibrio territoriale, economico e sociale e promuovere politiche di sviluppo economico locale sostenibile, attraverso gli strumenti di programmazione negoziata.

La Legge introduce i criteri di sussidierietà, di concertazione tra i diversi livelli di governo e di semplificazione delle procedure, come già anticipato da molte recenti legislazioni regionali.

Le regioni individuano gli ambiti e i contenuti della pianificazione del territorio e fissano regole di garanzia e di partecipazione degli enti territoriali coinvolti, per assicurare lo sviluppo sostenibile e per soddisfare le nuove esigenze di sviluppo urbano, privilegiando il recupero e la riqualificazione dei territori già urbanizzati.

Confermando il Comune quale primario titolare delle funzioni di governo del territorio, il Ddl definisce il piano urbanistico comunale lo strumento che ricomprende e coordina i piani settoriali o di area vasta, che recepisce le prescrizioni e i vincoli contenuti nei piani paesaggistici e nelle normative statali in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio.

Il piano comunale sarà uno strumento pianificatorio diviso in due livelli: strutturale e operativo.

Con un altro emendamento viene ribadita l’importanza del piano territoriale di coordinamento provinciale che rivaluta il livello intermedio di pianificazione.

Alla valutazione quantitativa della dotazione di servizi si sostituisce un criterio di tipo prestazionale

È prevista la possibilità per gli enti di proporre modificazioni ai piani settoriali o di area vasta, così da assicurare la coerenza tra gli strumenti di pianificazione: si tratta di un passo in avanti verso il superamento della rigidità del modello gerarchico della pianificazione territoriale che in passato ha spesso dato risultati deludenti.

Sono anche consentiti accordi con i privati, nel rispetto dell’imparzialità amministrativa, e della trasparenza, nonché piani convenzionati stipulati con i privati e accordi di programma per il recupero delle dotazioni di servizi pubblici.

Il Ddl introduce i criteri della perequazione e della compensazione, e prevede il trasferimento e la commercializzazione dei diritti edificatori, utilizzabili anche in alternativa all'indennizzo previsto per gli espropri.

Tra gli emendamenti del centro-sinistra approvati dalla Camera vi è quello di Mantini che assoggetta gli abusi edilizi a sanzioni penali, civili e amministrative, e consente alle regioni di prevedere sanzioni amministrative di natura reale, ripristinatoria, pecuniaria, interdittiva dell'attività edilizia nei confronti dei responsabili degli abusi più gravi.

Altri emendamenti passati sono quello che introduce il glossario nell’articolo 1, quello che riformula l’articolo 11 relativo alla fiscalità urbanistica e l’articolo finale che abroga numerose leggi vigenti.

Contrastanti i pareri dei parlamentari del centrosinistra: Mantini apprezza il testo bipartisan approvato ma è critico sulle carenze della legge in termini di trasparenza dei rapporti fra privati e PA; Iannuzzi ritiene che la legge si limiti agli aspetti urbanistici trascurando una visione organica della tutela del territorio. Per Folena la legge non tutela l’ambiente e favorisce i poteri forti.

Confermata la delega al Governo per riscrivere le norme sulla fiscalità.

Ora la legge passerà all'esame del Senato.

Il sito Edilportale, con i links ad altri documenti (f.b.)

Governo. La Camera approva la legge “Lupi” sulla riforma urbanistica. La tutela del paesaggio e dei beni culturali si sottomette agli interessi economici. Nell'indifferenza generale

In questo periodo si era finalmente rotto il muro del silenzio sui temi della città. Da qualche settimana i riflettori mediatici si sono accesi su un gruppo di giovani e rampanti “immobiliaristi” e sulle enormi ricchezze accumulate in questi anni.

Addirittura si è iniziato a sentire la parola palazzinaro al posto del più paludato immobiliarista: una definizione certo più sommaria, ma che rende perfettamente il senso di quanto sta avvenendo. Mentre una parte della popolazione non ce la fa a sopportare i prezzi del mercato immobiliare (sono spesso i Prefetti a lanciare l’allarme sul diffuso dramma sociale degli sfratti) alcuni disinvolti operatori ne ricavano ricchezze con cui tentano di acquisire banche e giornali.. L’impoverimento di molti è compensato dall’arricchimento di pochissimi: una enorme bolla speculativa ha riempito le casse di nuovi ricchi e ha fatto il deserto della vita della fascia di popolazione meno difesa.

Ma non è solo con la bolla speculativa che si spiega l’ascesa dei palazzinari: da molti anni vengono infatti sfornate leggi che semplificano loro la vita, permettendo alla proprietà immobiliare di fare tutto ciò che vuole. Del resto nel programma elettorale dell’attuale governo era scritto “padroni a casa propria”, e questo concetto è stato poi arricchito da vergognose svendite del patrimonio pubblico e condoni.

In buona sostanza si è privatizzato il futuro della città: l’urbanistica è stata sistematicamente cancellata e sostituita dall’iniziativa della speculazione fondiaria. In questo clima, la Camera dei Deputati ha approvato la cosiddetta legge “Lupi”, dal nome del primo firmatario della proposta di riforma urbanistica. Essa, con l’appoggio esplicito dell’Istituto nazionale di Urbanistica e la pressoché totale indifferenza di molta parte dello schieramento ulivista, completa il percorso legislativo iniziato in questi anni. I piani urbanistici da atti pubblici diventano strumenti da costruire insieme alla proprietà immobiliare. Gli standard urbanistici, e cioè la storica conquista degli anni ’70, sono sostituiti da oscuri concetti “qualitativi” che nascondono un’ulteriore compressione dei diritti collettivi. La tutela del paesaggio e dei beni culturali è messa in subordine agli interessi economici.

Un brutto colpo per i progressisti, dunque. E un grande regalo per gli immobiliaristi-palazzinari.

Qui Aprile online

Approvata alla Camera la legge Lupi sul "Governo del territorio" con il voto contrario del centrosinistra e di Rifondazione. Ora si sposta al Senato la battaglia per impedire che questo vero e proprio scempio della cultura della pianificazione e della programmazione pubblica del territorio diventi legge dello Stato. Molti, e a proposito, l'hanno chiamata "la legge 30 dell'urbanistica" cogliendo appieno la forza precarizzatrice di ogni norma di garanzia e di tutela del territorio che il testo contiene. Certo si viene da anni di picconate robuste alla pianificazione pubblica, da anni di "urbanistica contrattata" con gli interessi immobiliari e la rendita fondiaria, e quindi qualcuno potrebbe dire che questa legge altro non è che un compendio di consuetudini già consolidate nelle leggi regionali e nella quotidiana deregolazione. Ma questa rappresenta un di più, un salto di qualità, una codificazione stabile non solo del principio liberista. Essa rappresenta la sanzione che la rendita fondiaria (e i suoi accoliti cementificatori) diventa il soggetto che propone e dispone delle trasformazioni territoriali e urbane. Esattamente il contrario di ciò che ha fatto la cultura urbanistica democratica che ha sempre individuato nella rendita l'avversario da battere o almeno da piegare per garantire un uso del territorio consono agli interessi della collettività e dell'ambiente. L'interesse pubblico, la salvaguardia del territorio, la preziosa difesa dell'ambiente naturale ed urbano, una volta diventati "merce", possono essere trasformati e privatizzati pagando. E figuriamoci quale baluardo possono opporre i Comuni, sempre alla disperata ricerca di euro per far quadrare i bilanci taglieggiati dalla contrazione dei trasferimenti dello Stato e dall'aumento delle competenze! Abbiamo già detto che la ridefinizione culturale, disciplinare e legislativa dell'interesse pubblico delle trasformazioni urbanistiche è punto importante di un programma alternativo all'uso liberista della risorsa territoriale e urbana, ma questa battaglia contro la legge Lupi ha un ulteriore significato generale: impedire la saldatura fra rendita finanziaria e rendita fondiaria, entrambe liberate da lacci e laccioli e dunque libere di esplicare il massimo del loro interesse parassitario. A guardare le ultime imprese (banche, media ecc) dei rentiers d'assalto palazzinari e non, viene il dubbio che l'Italia non sia più una Repubblica fondata sul lavoro, ma sulla rendita. Eppoi ci si stupisce se uno si butta a sinistra.

Postilla

Ma quanto è diversa la sinistra? Che cosa ha fatto la sinistra per fermare la legge Lupi? Una volta, aveva raccolto "le bandiere che la borghesia aveva lasciato cadere nel fango", adesso sembra aver dimenticato la verità liberale della necessità di regolare il mercato.

L’ Italia è già alla sete dopo poche settimane di caldo, col Po vicino ai minimi storici di due anni fa. Ma perché dovrebbe avvenire qualcosa di diverso visto che siamo tanto impegnati a "impermeabilizzare" il suolo italiano spalmando cemento e asfalto dove prima c'era la campagna? Perché dovrebbe avvenire qualcosa di diverso visto che la Camera ha appena licenziato - nell'assordante silenzio, mi pare, delle stesse associazioni ambientaliste e di tanta parte del centrosinistra - una nuova legge urbanistica che, travolgendo ogni argine, potenzia i meccanismi per i quali la superficie agricolo-forestale viene "mangiata" a tutta forza da cemento+asfalto? Una legge, questa, che l'on. Pier Luigi Mantini della Margherita ha definito, tutto sommato, "bipartisan", e che, non a caso, è stata accompagnata da un silenzio pressoché generale che suona vergogna per la residua civiltà urbanistica italiana.

Solo qualche cifra per capirci meglio. Fino a mezzo secolo fa il Bel Paese aveva circa 28 milioni di ettari coperti da boschi, pascoli e campagne. Nel 2000 ce ne eravamo mangiati più di 8 milioni. Siamo infatti scesi a 19,6 milioni di ettari, con una pazzesca accelerazione. Vi sono anni in cui ci "mangiamo" oltre 100 mila ettari. Il che vuol dire che, in capo ad un decennio, sparirà sotto la coltre cementizia una campagna intatta più grande di tutto l'Abruzzo. Del resto, se scendete in aereo su Venezia, potete constatare come la campagna non ci sia più fra Treviso, Mestre e Padova. Restiamo un attimo qui perché il professor Antonio Rusconi, idraulico dell'Università di Venezia (cito dal "Sole 24 Ore" di martedì), ridisegnando la pianura veneta, ha scoperto che in Veneto le acque sotterranee si sono abbassate di 10-15 metri e le risorgive sono quasi scomparse. In tal modo,"dal mare - afferma - le acque salse risalgono i fiumi per 30 e anche 40 chilometri e nel sottosuolo scacciano l'acqua dolce lungo tutto il litorale padano e romagnolo". Stiamo pompando acqua a tutto spiano (specie per l'agricoltura intensiva), trivelliamo pozzi di continuo, "rubiamo" l'acqua ai fiumi e alle falde, usiamo acqua potabile anche per fabbriche e campi, insomma la buttiamo via. Perché ? Perché siamo degli insensati, perché "ciascuno è padrone a casa sua", perché mille litri d'acqua costano niente, come una telefonata dal cellulare. A Roma - dove un metro cubo d'acqua potabile ha un prezzo sei volte più basso che a Berlino, quattro volte più basso che a Marsiglia, pari alla metà comunque della città europea più a buon mercato (Bristol) - si consuma ovviamente il doppio e anche più del resto d'Europa. Pure a Milano o a Torino gli sprechi galoppano Le cose vanno meglio, guarda caso, in città come Forlì, Ferrara o Pistoia dove l'acqua ha tariffe europee.

Questi sprechi assurdi di risorse idriche hanno impoverito le falde sotterranee, in modo spesso grave. Falde che le piogge non alimentano più come un tempo. Perché ? Perché stiamo "impermeabilizzando" i nostri suoli facendo avanzare cemento e asfalto nelle campagne. Così, l'acqua piovana - che cade più violenta - non filtra, non penetra, non resta più, ma scivola via più veloce in superficie, facendo disastri. Due danni in uno.

Dobbiamo ripensare l'intero uso delle acque. Dobbiamo ripensare l'intero uso del territorio. Dobbiamo risparmiare entrambe le risorse primarie : l'acqua e la terra. Farne grande, rigorosa economia. E invece la nuova legge urbanistica, primo firmatario il formigoniano Maurizio Lupi (Forza Italia), è destinata ad accelerare gli sprechi folli in atto. Essa infatti cancella sia i piani regolatori generali quali "atti autoritativi", sia gli standard minimi di verde, scuole, sport, sanità, cultura, ecc. previsti nei PRG, dalla legge-ponte in qua. Cancella la città dei cittadini e la sostituisce con la città degli immobiliaristi coi quali i Comuni contratteranno i loro piani (si fa per dire). Non solo : stracciando una tradizione che viene dalle leggi Bottai del '39 e dalla legge urbanistica del '42 passando per la legge Galasso e per le normative regionali, la legge Lupi esclude la tutela del paesaggio e dei beni culturali dagli impegni della pianificazione ordinaria delle città e del territorio. "Una legge che rende permanenti le regole della distruzione del Paese, avviate coi condoni. Una legge che rende evanescenti i diritti sociali della città, conquistati al prezzo di dure lotte. Una legge che rende dominanti su tutti gli interessi della rendita immobiliare". Cioè i Ricucci, i Coppola, gli Statuti di turno. Oltre ai loro fratelli maggiori. Così ha commentato, giustamente tagliente, l'urbanista Eddy Salzano animatore di un sito web aggiornato e combattivo su queste materie (Eddyburg). Nel silenzio dei siti ambientalisti, purtroppo, dove ci si balocca sovente con questioni laterali. Un tempo la sinistra aveva almeno una certezza in economia : che fosse indispensabile tagliare la rendita fondiaria e premiare il profitto d'impresa. E adesso ? La legge Lupi va al Senato : c'è tempo per uscire da questo silenzio rosso di vergogna, e per dare almeno battaglia, apertamente, contro la barbarie e per la salvezza di quanto resta del Bel Paese.

"Ci sono voluti 63 anni, ma alla fine ce l’abbiamo fatta da oggi l’Italia ha una nuova legge urbanistica".

Così si espresso Maurizio Lupi, responsabile infrastrutture di Forza Italia, commentando il provvedimento che riforma la legge urbanistica del 1942. Lupi ha sottolineato che "si tratta di un passaggio storico: mai prima d’oggi la Camera era riuscita a varare un testo di riforma nonostante se ne discuta da oltre 20 anni. La parola passa ora al Senato, ma il clima di collaborazione con l’opposizione in cui il testo e’ nato pone le basi per andare avanti".

Nel menzionare gli aspetti innovativi della legge, Lupi ha ricordato che "innanzitutto, si tratta di una legge di principi che fa un concreto passo avanti dopo la riforma del Titolo V della Costituzione". Un testo, prosegue il deputato, "snello (solo 11 articoli) che definisce in maniera inequivocabile cos’e’ il governo del territorio riorganizzando le competenze tra Stato, Regione e Comune. E’ una legge che mira alla riqualificazione e al rilancio del territorio attraverso l’applicazione concreta del principio di sussidiarieta’ orizzontale e verticale" e che porta "finalmente ad una semplificazione amministrativa. Una vera e propria rivoluzione - conclude - per un settore che, da 63 anni, aspettava una svolta".

Dal sito di Forza Italia

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