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Caro Eddyburg, Ho letto con grande attenzione l’intervento di Luigi Scano, dal titolo “ non mitizziamo le misure di salvaguardia”, in cui sono evidenziati spunti interessanti, in merito ai quali ritengo utile contribuire con alcune riflessioni.

Nell’intervento relativo alle “misure di salvaguardia” così come strutturate dalla L.R. della Campania n. 16/2004, volevo porre l’attenzione su alcuni aspetti applicativi delle innovazioni introdotte, di cui forse non ho evidenziato con la giusta chiarezza le ricadute e gli aspetti più problematici.

La L.R. n. 16/2004, prevede che nelle procedure di formazione ed approvazione dei piani generali comunali, le “misure di salvaguardia” non sono efficaci, in un momento molto delicato, quale l’esame delle osservazioni inoltrate alla Pubblica Amministrazione e l’elaborazione delle controdeduzioni. Infatti, la legge campana, prevede che l’atto deliberativo della Giunta Comunale, da inizio alla fase di pubblicazione, mentre successivamente il Consiglio Comunale “adotta” il Piano con atto deliberativo, in cui esamina anche le osservazioni ed in relazione ad esse controdeduce. Quindi la delibera di Giunta Comunale non propone semplicemente al Consiglio l’adozione del “Piano”, ma da inizio alla fase di pubblicazione e recepimento delle osservazioni. In pratica nella fase della pubblicazione, ed esame delle osservazioni, e quindi approvazione dell’atto deliberativo, da parte del Consiglio Comunale con cui si “adotta” il Piano, non sono efficaci le “misure di salvaguardia”.

Non ho mai creduto che le norme abbiano virtù salvifiche, meno che mai nelle materie urbanistiche, ma anzi esse, oltre ad essere espressione di una “visione del mondo” da parte di una maggioranza che legifera, hanno valore temporaneo, proprio perché modificabili sulla base dell’esperienza diretta applicativa, ed in conseguenza del modificarsi degli obiettivi che una collettività si prefigge.

Credo, che i “Piani” debbano essere patrimonio di una maggioranza, la più ampia possibile; essi per loro natura sono atti pubblici, nel senso più profondo, e le Amministrazioni Comunali che li elaborano, hanno l’obbligo, non solo normativo, di cercare la massima condivisione e partecipazione alla collettività, sia nella fase di elaborazione che nelle procedure di formazione ed approvazione. In merito a questi ultimi aspetti, nessuna norma impedisce alle Amministrazioni Comunali di cercare di attuare le più efficaci forme di partecipazione, di scelte importanti, come quelle riguardanti il territorio in cui vive una comunità, e questo dovrebbe avvenire, ed avviene in molti casi, dopo aver deciso di elaborare un nuovo “Piano”, nelle fasi precedenti al momento in cui un’amministrazione decide formalmente di iniziare l’iter di approvazione di uno strumento urbanistico generale.

Nelle fasi di partecipazione e condivisione di uno strumento urbanistico generale, spesso con difficoltà e pazienza si forma una maggioranza, che condivide delle scelte di assetto territoriale, e penso, nelle esperienze migliori, cerca di porre un argine alle spinte più retrive della speculazione. Nei casi in cui, dopo aver ricercato la massima partecipazione, si decide di iniziare l’iter di approvazione del “Piano”, con l’adozione dell’atto deliberativo, da parte della Giunta Comunale, si da inizio alla fase di pubblicazione (L.R. n. 16/2004), ed a questo punto, l’impianto della Legge n. 1150/1942 prevedeva che con la delibera che dava inizio alla fase di pubblicazione, iniziasse anche l’efficacia delle “misure di salvaguardia”, mentre il legislatore campano, ha spostato in una fase ancora successiva le necessarie “salvaguardie”. Non si comprende la necessità dell’innovazione introdotta, anche perché non risponde ad un principio di semplificazione delle procedure, infatti il procedimento non avrebbe subito alcun “appesantimento” dall’efficacia delle misure di salvaguardia, nel momento in cui si inizia la fase di pubblicazione, in pratica sarebbe rimasto inalterato, sia nei tempi che negli adempimenti amministrativi.

In relazione alla possibilità di “secretare” le previsioni di uno strumento urbanistico, ritengo che oltre ad essere impossibile, sia anche esercizio inutile e dannoso; però non capisco quale utilità abbia, alla fine di un tortuoso percorso di partecipazione delle scelte di Piano, eliminare una semplice forma di garanzia, nella fase in cui l’amministrazione comunale recepisce e controdeduce rispetto alle osservazioni.

Prevedere che le misure di salvaguardia siano efficaci solo dopo che l’amministrazione ha pubblicato il Piano, recepito ed esaminato le osservazioni, provoca la possibilità che una minoranza portatrice di interessi “altri” e “minoritari” potrà far sentire, ancora, il proprio peso, con tutte le conseguenze immaginabili, a discapito di una maggioranza che si è formata nel dibattito e nella partecipazione delle scelte operate; anche perché il legislatore dovrebbe prevedere le forme più chiare e corrette di interventi da parte di soggetti interessati, mentre in questo caso , si provoca a mio parere una dannosa sinergia tra le motivazioni che potranno formare le osservazioni, ed istanze di Permessi di Costruire non conformi al Piano in corso di approvazione. Le norme, credo che devono tendere ad evitare “zone” di pressione al di fuori dei procedimenti formali, e probabilmente il legislatore del 1942, a questo tendeva “garantendo” la fase in cui l’amministrazione esamina le osservazioni al “Piano”.

L’aspetto che qui evidenzio penso che non sia trascurabile, soprattutto nella Regione Campania dove la presenza pervasiva della “criminalità organizzata”, si esplica anche incidendo sulle dinamiche territoriali. In merito a quest’ultimo punto, sono convinto, che in ampie zone della Regione Campania, la “forma” attuale del territorio è l’espressione, anche della “storia delle organizzazioni criminali”, e non sembri paradossale ma ritengo che si potrebbe scrivere una “storia dell’urbanistica della criminalità organizzata”, che riserverebbe molte sorprese interessanti.

Quindi, senza “mitizzare” le misure di salvaguardia, mi sembra poco proficuo che esse non siano efficaci, ripeto, in una fase delicata e cioè nel momento in cui si esaminano le osservazioni e si decide in merito ad

esse.

Sono auspicabili tutte le innovazioni normative che tendono a semplificare i procedimenti ed a ridurre i tempi di approvazione degli strumenti urbanistici, ma a volte sembra che alcune novità vadano solo nella direzione di ridurre le già scarse forme di garanzia di affermazione di un interesse generale, rispetto agli interessi di “pochi”, ma economicamente rilevanti, e trovano la massima giustificazione nel “liberare” gli operatori economici da “lacci e laccioli”, come il “Cavaliere” definisce le norme che prevedono qualche forma di garanzia per la maggioranza dei cittadini.

Le norme regionali, in tutte le materie, ma in particolare per quelle che riguardano la programmazione del territorio, credo che debbono avere nella giusta considerazione le condizioni della società nella quale saranno applicate, ed esplicheranno effetti; quindi in Campania il legislatore non può ignorare quello che ha permesso al legislatore nazionale, in alcuni momenti, di emanare norme per rendere più efficace la lotta alle “mafie”, e cioè una profonda consapevolezza delle reali forze che incidono sull’evoluzione degli assetti del territorio.

Nel ringraziarvi per aver letto questa nota, vi saluto con stima e ammirazione.

Risponde Luigi Scano

Ritengo inutile postillare cavillosamente il nuovo intervento di Salvatore Napolitano sul tema dell'applicazione delle misure di salvaguardia secondo i dettati della legge regionale campana 16/2004, anche perchè l’intervento nella sua sostanza è del tutto condivisibile. Nel mio scritto (Non mitizziamo la salvaguardia) volevo semplicemente, a partire dal precedente intervento di Salvatore Napolitano, indurre a riflettere sull'insanabile contraddizione tra l'obiettivo di realizzare anche il primo momento sub-procedimentale della formazione di uno strumento di pianificazione, cioé l'adozione, con la più ampia partecipazione democratica, istituzionale e magari non soltanto, e l'obiettivo di impedire che, nelle more delle discussioni e dei confronti sulle scelte più innovative proposte dal nuovo strumento, i soggetti interessati alle rendite e ai profitti ricavabili dall'attuazione delle trasformazioni ammesse dallo strumento tuttora vigente, e che si ritengano penalizzati dai nuovi precetti pianificatori proposti, chiedano e ottengano (come "atti dovuti") i provvedimenti abilitativi a operare quelle predette trasformazioni, vanificando di fatto, in tutto o in parte, l'applicabilità di questi nuovi precetti.

Avanzo una proposta provocatoria (peraltro adombrata in vecchie leggi sia del Friuli-Venezia Giulia che del Veneto) : non sarebbe il caso di sancire che alla deliberazione, di competenza dell'organo esecutivo dell'ente territoriale, della proposta dell'atto di avvio di un procedimento di formazione di uno strumento pianificatorio (lo si chiami così, o "atto di indirizzo", o "documento preliminare", o come accidenti si voglia), sia conferita la possibilità di stabilire delle speciali misure di salvaguardia, consistenti nella sospensione (rigorosamente a tempo determinato, ragionevolmente commisurato a quello di presumibile redazione materiale e adozione, da parte dell'organo democratico rappresentativo dello stesso ente territoriale, del nuovo strumento) dell'efficacia di talune previsioni trasformative, afferenti a taluni ambiti territoriali, dello strumento tuttora vigente.

Sia chiaro: questa ipotesi di disposto legislativo non porrebbe rimedio al rischio che qualche dipendente pubblico, o consulente o contrattista privato, addetto alla formulazione tecnica della proposta dell'atto di avvio del procedimento, e delle collegate speciali misure di salvaguardia, ovvero lo stesso assessore competente, ovvero qualche suo collega, ovvero ancora un usciere origliante dietro le porte, informi proprio i portatori degli interessi che sarebbero più incisi delle determinazioni in corso di elaborazione, o di decisione. Ma questa è questione che rimanda, ove si riesca a provare la natura di reato di siffatti comportamenti, alla legislazione penale e all'amministrazione della relativa giustizia, e, per il restante, alla tendenziale propensione al peccato dell'essere umano, derivante, almeno per le culture di radice giudaico-cristiana, al peccato originario, nell'Eden, dei progenitori dell'umanità: alla quale, fortunatamente, negli stati secolarizzati e più o meno soddisfacentemente liberali e laicizzati, non è più da un pezzo richiesto alla produzione legislativa di porre rimedio.

(Luigi Scano)"

La pianificazione della deregulation, viene teorizzata e utilizzata inizialmente a Milano per poi trovare a Roma il luogo di sistematica sperimentazione. Era prevedibile che alcune proposte di deroga urbanistica si sarebbero venute a trovare in aperta contraddizione con quanto previsto dalla pianificazione paesistica o dagli altri strumenti della tutela del territorio. In tre casi specifici dei “Programmi di recupero urbano” previsti dall’articolo 11 della legge 493/93, in aree localizzate all’interno di alcuni parchi urbani, le indicazioni della tutela paesistica rendevano impossibile la concretizzazione delle ipotesi di trasformazione urbanistica. Quando il rischio del blocco dei programmi di recupero urbano si è fatto più concreto, sono arrivate nuove norme legislative.

Nella legge 18 del 2004, la Regione Lazio ha variato la legge fondamentale della tutela del territorio regionale (n. 24/98) ed ha stabilito (art. 36 ter) che “…gli accordi di programma aventi ad oggetto programmi di recupero urbano di cui all’articolo 11 del dl 5 ottobre 93, n. 398 ed altri interventi di edilizia residenziale pubblica finanziati dalla Regione possano comportare variazioni ai Piani territoriali paesistici vigenti.”.

Nel 1985, con l’approvazione della legge 431 “Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale“ veniva, come noto, riconosciuto il principio che la tutela del paesaggio non riguarda singole bellezze naturali o culturali, ma attiene all’intero ambiente come segno e testimonianza della cultura. Veniva confermato il principio che la tutela dell’ambiente è elemento che dal punto di vista logico e procedurale precede la redazione degli strumenti di pianificazione urbanistica: questi sono dunque subordinati alle più generali ragioni della tutela, ne recepiscono i vincoli e le indicazioni di salvaguardia.

La regione Lazio capovolge questo ragionamento e afferma la prevalenza dei contenuti della pianificazione locale sugli strumenti di tutela, e cioè alla subordinazione degli interessi generali rispetto a quelli particolari. A differenza del trattamento riservato ad altre Regioni per fattispecie di ben minore rilevanza giuridica, il Governo non ha impugnato la legge.

Notizie dalla Lombardia.

Approvata la nuova legge regionale per il governo del territorio

Il giorno 16 febbraio il Consiglio della Regione Lombardia ha approvato, con una ristrettissima maggioranza di voti, la nuova legge urbanistica regionale dal titolo "Legge per il governo del territorio".

La legge vorrebbe configurarsi anche come "testo unico" di tutte le leggi e leggine vigenti sino ad oggi in materia che dall'art. 104 del nuovo testo vengono drasticamente - ma non proprio totalmente - abrogate, comprese anche quelle di recente e recentissima emanazione.

La nuova e definitiva versione uscita dal Consiglio non si differenzia nella sostanza dal testo presentato dall'Assessore Moneta che su questo sito è già stato ampiamente analizzato e criticato dallo scritto di Gianni Beltrame.

Si tratta in sostanza di una legge del tutto in linea con gli orientamenti "ultraliberisti" del progetto Lupi-Mantini che in certa misura vengono già anticipati.

Il disordinato ed affannato dibattito consiliare - moltissimi gli emendamenti richiesti anche dalla stessa maggioranza - ha comportato l'inserimento nel testo di alcune inaspettate norme e novità come, ad esempio, quella che reintroduce inaspettatamente i tanto esecrati "standard" minimi urbanistici, che nel testo dell'Assessore Moneta erano stati eliminati del tutto.

A sorpresa il testo dell'art. 9 che definisce i contenuti del Piano dei servizi afferma oggi che "In relazione alla popolazione stabilmente residente e a quella da insediare secondo le previsioni del documento di piano, è comunque assicurata una dotazione minima di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale pari a diciotto metri quadrati per abitante". (Si ricordi che lo standard minimo regionale stabilito dalla precedente legge regionale n. 51 del 1975, oggi naturalmente abrogata, assommava a mq 26,5 per gli insediamenti residenziali ai quali andavano aggiunti altri mq 17,5 per le attrezzature pubbliche di interesse generale ( nei comuni con capacità insediativa superiore ai 20 mila abitanti).

Un'altra sorpresa riguarda l'inaspettata abrogazione dell' art. 63 sul recupero a fini abitativi dei sottotetti, essendo stato ribadito che l'applicazione di questa pericolosa norma andava riferita solo ai sottotetti esistenti e non a quelli di nuova progettazione come, purtroppo, in atto.

Una sorprendente norma, introdotta all'ultimo momento, stabilisce che alcune prescrizioni urbanistiche non riguardano subito l'intero territorio regionale ma esentano i Comuni inferiori ai 15000 abitanti (ben 1454 su 1546) i quali dovranno aspettare "criteri, modi e tempi per l’adeguamento alla presente legge" forniti da una fantomatica "Autorità per la programmazione territoriale" di apposita invenzione (art. 5).

Le opposizioni sono riuscite ad ottenere ben poco se non il ribadimento della natura di Piano Territoriale di Coordinamento per il Piano provinciale che la versione portata in Consiglio aveva degradato - con l'obiettivo di ridurne ulteriormente la portata e l'efficacia - a semplice Piano territoriale provinciale (art. 15)

(Una amara nota finale che riconferma come la sinistra attraversi oggi, per quanto riguarda le scelte e le leggi urbanistiche, un periodo di totale obnubilamento: giunge notizia che due consiglieri della sinistra non abbiano votato. Con due voti contrari in più la legge non sarebbe mai passata!)

Qui l'articolo di Michele Sacerdoti e il testo della legge

Caro Eddyburg,

Salvatore Napolitano, nel suo scritto pubblicato da "eddyburg.it" con il titolo "Campania: innovazioni legislative pericolose", ricostruisce perfettamente i procedimenti di formazione degli strumenti di pianificazione generale comunale, e i relativi rapporti con l'inizio dell'applicazione delle ordinarie misure di salvaguardia delle previsione degli strumenti in corso di formazione, definiti dalla legge urbanistica della Campania 16/2004. Egli prefigura ineccepibilmente i rischi che tali previsioni siano più o meno largamente vanificate dall'ottenimento di permessi di costruire conformi alla disciplina precedente, e ancora vigente, ma contrastanti con la nuova disciplina proposta, e divenuta, nei suoi contenuti, di dominio conoscitivo pubblico, ma non ancora adottata, e quindi non ancora protetta dalle misure di salvaguardia.

Vorrei fare presente che, nella prassi applicativa della legge 1150/1942, e delle leggi regionali riproduttive dei suoi contenuti, nulla impediva che tra il momento della trasmissione degli elaborati dei nuovi strumenti di pianificazione proposti dalla Giunta al Consiglio e la loro adozione da parte del Consiglio (con conseguente attivazione delle misure di salvaguardia) intercorressero tempi assai lunghi, e che essi fossero ampiamente conosciuti dalla comunità locale. Per non dire che la nuova legislazione sull'accesso pubblico agli atti delle pubbliche amministrazioni ha reso praticamente impossibile "secretare" le previsioni innovative degli strumenti di pianificazione completati nei loro elaborati e deliberati da una Giunta (per la trasmissione al Consiglio). E molto spesso, in tutta Italia e non soltanto in Campania, proprio le più "ghiotte" informazioni circa gli strumenti di pianificazione in corso - addirittura - di redazione venivano infallibilmente risapute proprio dai soggetti più interessati alle stesse.

Un possibile rimedio (non all'ultima "distorsione" che ho prospettato) consisterebbe proprio in quella traslazione della competenza ad adottare gli strumenti di pianificazione dai Consigli alle Giunte che la legge regionale campana 16/2004 ha effettuato per gli strumenti di pianificazione generali regionali e provinciali, ma incomprensibilmente non per quelli comunali. Traslazione che è stata duramente criticata da alcuni amici, per motivazioni che mi guardo bene dal chiamare peregrine. Critiche che hanno trovato spazio anche in "eddyburg.it", pur se la predetta traslazione era stata proposta da me e da te in almeno due bozze di disegno di legge urbanistica regionale.

Quali conclusioni trarre? Per quel che mi riguarda, provvisoriamente: che quel che realmente conta è la diffusa (negli uffici tecnici, nei professionisti consulenti, nei pubblici amministratori membri degli esecutivi e dei consigli, di maggioranza e di minoranza) coscienza degli interessi generali, collettivi, pubblici, mentre quasi sempre le diverse soluzioni normative si configurano quali mezzi da temporaneamente sperimentare nei loro effetti, escludendone qualsiasi virtù salvifica definitiva.

Per uno come me, che di mestiere compila normative, non è una conclusione esaltante. Epperò amicus Plato, sed magis amica veritas.

Venezia, 25 novembre 2005

Non lo dico solo per salvare il tuo mestiere: a me sembra che, sebbene la “diffusa coscienza degli interessi generali, collettivi, pubblici” da parte degli operatori sia essenziale, finchè essa non sarà raggiunta ovunque in modo certo, la stampella della norma sia essenziale. Così come resto convinto che un atto rilevante come uno strumento urbanistico generale, valido a tempo indeterminato e avente un carattere “statutario”, debba essere formato con il più largo coinvolgimento.

PARTE I PIANIFICAZIONE DEL TERRITORIO

TITOLO IOGGETTO E CRITERI ISPIRATORI

Art. 1 (Oggetto e criteri ispiratori)

TITOLO IISTRUMENTI DI GOVERNO DEL TERRITORIO

CAPO I DISPOSIZIONI GENERALI

Art. 2 (Correlazione tra gli strumenti di pianificazione territoriale)

Art. 3 (Strumenti per il coordinamento e l’integrazione delle informazioni)

Art. 4 Valutazione ambientale dei piani)

Art. 5 (Osservatorio permanente della programmazione territoriale)

CAPO II PIANIFICAZIONE COMUNALE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO

Art. 6 (Pianificazione comunale)

Art. 7 (Piano di governo del territorio)

Art. 8 (Documento di piano)

Art. 9 (Piano dei servizi)

Art. 10 (Piano delle regole)

Art. 11 (Compensazione ed incentivazione urbanistica)

Art. 12 (Piani attuativi comunali)

Art. 13 (Approvazione degli atti costituenti il piano di governo del territorio)

Art. 14 (Approvazione dei piani attuativi e loro varianti – Interventi sostitutivi)

CAPO IIIPIANO TERRITORIALE PROVINCIALE

Art. 15 (Contenuti del piano territoriale provinciale)

Art. 16 (Conferenza dei comuni e delle comunità montane)

Art. 17 (Approvazione del piano territoriale provinciale)

Art. 18 (Effetti del piano territoriale provinciale)

CAPO IV PIANO TERRITORIALE REGIONALE

Art. 19 (Oggetto e contenuti del piano territoriale regionale)

Art. 20 (Effetti del piano territoriale regionale – piano territoriale regionale d’area)

Art. 21 (Approvazione del piano territoriale regionale. Approvazione dei piani territoriali regionali d’area)

Art. 22 (Aggiornamento del piano territoriale regionale)

CAPO V SUPPORTO AGLI ENTI LOCALI

Art. 23 (Supporto agli enti locali)

Art. 24 (Erogazione di contributi)

CAPO VI DISPOSIZIONI TRANSITORIE PER IL TITOLO II

Art. 25 (Norma transitoria)

Art. 26 (Adeguamento dei piani)

PARTE IIGESTIONE DEL TERRITORIO

TITOLO IDISCIPLINA DEGLI INTERVENTI SUL TERRITORIO

CAPO I DISPOSIZIONI GENERALI

Art. 27 (Definizioni degli interventi edilizi)

Art. 28 (Regolamento edilizio)

Art. 29 (Procedura di approvazione del regolamento edilizio)

Art. 30 (Commissione edilizia)

Art. 31 (Albo dei commissari ad acta)

Art. 32 (Sportello unico per l’edilizia)

CAPO II PERMESSO DI COSTRUIRE

Art. 33 (Trasformazioni soggette a permesso di costruire)

Art. 34 (Interventi su beni culturali e paesaggistici)

Art. 35 (Caratteristiche del permesso di costruire)

Art. 36 (Presupposti per il rilascio del permesso di costruire)

Art. 37 (Competenza al rilascio del permesso di costruire)

Art. 38 (Procedimento per il rilascio del permesso di costruire)

Art. 39 (Intervento sostitutivo)

Art. 40 (Permesso di costruire in deroga)

CAPO IIIDENUNCIA DI INIZIO ATTIVITA’

Art. 41 (Interventi realizzabili mediante denuncia di inizio attività)

Art. 42 (Disciplina della denuncia di inizio attività)

CAPO IV CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE

Art. 43 (Contributo di costruzione)

Art. 44 (Oneri di urbanizzazione)

Art. 45 (Scomputo degli oneri di urbanizzazione)

Art. 46 (Convenzione dei piani attuativi)

Art. 47 (Cessioni di aree per opere di urbanizzazione primaria)

Art. 48 (Costo di costruzione)

CAPO V SANZIONI

Art. 49 (Sanzioni)

Art. 50 (Poteri regionali di annullamento e di inibizione)

CAPO VI DISCIPLINA DEI MUTAMENTI DELLE DESTINAZIONI D’USO DI IMMOBILI E DELLE VARIAZIONI ESSENZIALI

Art. 51 (Disciplina urbanistica)

Art. 52 (Mutamenti di destinazione d’uso con e senza opere edilizie)

Art. 53 (Sanzioni amministrative)

Art. 54 (Determinazione delle variazioni essenziali)

TITOLO IINORME IN MATERIA DI PREVENZIONE DEI RISCHI GEOLOGICI, IDROGEOLOGICI E SISMICI

Art. 55 (Attività regionali per la prevenzione dei rischi geologici, idrogeologici e sismici)

Art. 56 (Componente geologica, idrogeologica e sismica del piano territoriale provinciale)

Art. 57 (Componente geologica, idrogeologica e sismica del piano di governo del territorio)

Art. 58 (Contributi ai comuni e alle province per gli studi geologici, idrogeologici e sismici)

TITOLO IIINORME IN MATERIA DI EDIFICAZIONE NELLE AREE DESTINATE ALL’AGRICOLTURA

Art. 59 (Interventi ammissibili)

Art. 60 (Presupposti soggettivi e oggettivi)

Art. 61 (Norma di prevalenza)

Art. 62 Interventi regolati dal piano di governo del territorio)

TITOLO IVATTIVITA’ EDILIZIE SPECIFICHE

CAPO I RECUPERO AI FINI ABITATIVI DEI SOTTOTETTI ESISTENTI

Art. 63 (Finalità e presupposti)

Art. 64 (Interventi ammissibili)

Art. 65 (Disciplina degli interventi)

Art. 66 (Ambiti di esclusione)

CAPO II NORME INERENTI ALLA REALIZZAZIONE DEI PARCHEGGI

Art. 67 (Localizzazione e rapporto di pertinenza)

Art. 68 (Disciplina degli interventi)

Art. 69 (Utilizzo del patrimonio comunale)

Art. 70 (Regime economico)

CAPO IIINORME PER LA REALIZZAZIONE DI EDIFICI DI CULTO E DI ATTREZZATURE DESTINATE A SERVIZI RELIGIOSI

Art. 71 (Finalità)

Art. 72 (Ambito di applicazione)

Art. 73 (Rapporti con la pianificazione comunale)

Art. 74 (Modalità e procedure di finanziamento)

TITOLO VBENI PAESAGGISTICI E AMBIENTALI

CAPO I ESERCIZIO DELLE FUNZIONI REGIONALI

Art. 75 (Elenchi dei beni soggetti a tutela)

Art. 76 (Modificazioni e integrazioni degli elenchi dei beni soggetti a tutela)

Art. 77 (Contenuti paesaggistici del piano territoriale regionale)

Art. 78 (Coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione)

Art. 79 (Commissioni provinciali)

Art. 80 (Adempimenti della Giunta regionale)

CAPO II AUTORIZZAZIONI E SANZIONI

Art. 81 (Ripartizione delle funzioni amministrative)

Art. 82 (Istituzione delle commissioni per il paesaggio)

Art. 83 (Modalità per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica)

Art. 84 (Sanzioni amministrative a tutela del paesaggio)

Art. 85 (Criteri per l’esercizio delle funzioni amministrative in materia di tutela dei beni ambientali)

Art. 86 (Supporto agli enti locali)

Art. 87 (Interventi sostitutivi in caso di inerzia o di ritardi)

TITOLO VIPROCEDIMENTI SPECIALI E DISCIPLINE DI SETTORE

CAPO I DISCIPLINA DEI PROGRAMMI INTEGRATI DI INTERVENTO

Art. 88 Programmi integrati di intervento)

Art. 89 (Ambiti e obiettivi)

Art. 90 (Interventi su aree destinate all’agricoltura)

Art. 91 (Aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale)

Art. 92 (Attivazione dei programmi integrati di intervento)

Art. 93 (Approvazione dei programmi integrati di intervento)

Art. 94 (Attuazione dei programmi integrati di intervento)

Art. 95 (Programmi di recupero urbano e programmi integrati di recupero)

CAPO II ALTRI PROCEDIMENTI SPECIALI

Art. 96 (Disposizioni generali di raccordo con leggi regionali di finanziamento)

Art. 97 (Modifiche alla legge regionale 12 aprile 1999, n. 10 “Piano territoriale d’area Malpensa. Norme speciali per l’aerostazione intercontinentale Malpensa 2000”)

Art. 98 (Sportello unico per le attività produttive)

Art. 99 (Disposizioni straordinarie per la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico)

Art. 100(Norma finanziaria)

TITOLO VIIDISPOSIZIONI TRANSITORIE E FINALI

Art. 101(Norma generale di riferimento)

Art. 102(Programmi pluriennali di attuazione)

Art. 103(Piano territoriale paesistico regionale)

Art. 104(Disapplicazione di norme statali)

Art. 105(Abrogazioni)

Allegato A(Canali-Laghi)

Art. 1 - Pianificazione paesaggistica regionale.

1. La Giunta regionale, entro dodici mesi dall'entrata in vigore della presente legge, adotta il Piano Paesaggistico Regionale (PPR) principale strumento della pianificazione territoriale regionale ai sensi dell'articolo 135 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), al fine di assicurare un'adeguata tutela e valorizzazione del paesaggio.

2. Il PPR costituisce il quadro di riferimento e di coordinamento, per lo sviluppo sostenibile dell'intero territorio regionale, degli atti di programmazione e pianificazione regionale, provinciale e locale ed assume i contenuti di cui all'articolo 143 del decreto legislativo n. 42 del 2004.

3. In sede di prima applicazione della presente legge, il PPR può essere proposto, adottato e approvato per ambiti territoriali omogenei.

Art. 2 - Piano Paesaggistico Regionale - Procedure.

1. Per le procedure di redazione della proposta, adozione e approvazione del PPR si applicano le disposizioni di cui all'articolo 11 della legge regionale 22 dicembre 1989, n. 45 (Norme per l'uso e la tutela del territorio regionale), così modificato:

"Art. 11 Piano Paesaggistico Regionale - Procedure.

1. La proposta di PPR è pubblicata, per un periodo di sessanta giorni, all'albo di tutti i comuni interessati. Al fine di assicurare la concertazione istituzionale e la partecipazione di tutti i soggetti interessati e delle associazioni costituite per la tutela degli interessi diffusi, individuate ai sensi dell'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349, il Presidente della Regione, entro i sessanta giorni di pubblicazione presso i Comuni svolge l'istruttoria pubblica ai sensi dell'articolo 18 della legge regionale 22 agosto 1990, n. 40, nella quale illustra la proposta di Piano.

2. Entro trenta giorni, decorrenti dall'ultimo di deposito, chiunque può presentare osservazioni indirizzate al Presidente della Regione.

3. Trascorso tale termine la Giunta regionale esamina le osservazioni e, sentito il Comitato tecnico regionale per l'urbanistica, delibera l'adozione del PPR e lo trasmette al Consiglio regionale nonché ai Comuni interessati ai fini della pubblicazione all'albo pretorio per la durata di quindici giorni.

4. La Commissione consiliare competente in materia di urbanistica esprime, entro due mesi, sul piano stesso il proprio parere che viene trasmesso alla Giunta regionale.

5. Acquisito tale parere, la Giunta regionale approva in via definitiva il PPR entro i successivi trenta giorni".

2. Per la redazione della proposta di Piano possono essere utilizzati anche gli elaborati dei Piani urbanistici provinciali di cui all'articolo 16 della legge regionale n. 45 del 1989, già approvati o in corso di approvazione.

3. Dopo l'approvazione del PPR la Giunta provvede al coordinamento ed alla verifica di coerenza degli atti della programmazione e della pianificazione regionale con il Piano stesso.

4. Al fine di conseguire l'aggiornamento periodico del PPR la Giunta provvede al monitoraggio delle trasformazioni territoriali e della qualità del paesaggio.

5. Al fine di promuovere una più incisiva adeguatezza ed omogeneità della strumentazione urbanistica a tutti i livelli, l'Amministrazione regionale procede ad un sistematico monitoraggio e comparazione dell'attività di pianificazione urbanistica, generale ed attuativa, mediante l'attivazione di un Osservatorio della pianificazione urbanistica e qualità del paesaggio in collaborazione con le Università e con gli ordini ed i collegi professionali interessati.

6. I Comuni, in adeguamento alle disposizioni e previsioni del PPR, approvano, entro dodici mesi dalla sua pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione sarda e comunque a partire dall'effettiva erogazione delle risorse finanziarie, i propri Piani urbanistici comunali. A tal fine, in sede di specifica norma finanziaria, sono previste adeguate risorse per il sostegno delle fasi di approvazione ed adeguamento alla nuova pianificazione paesaggistica regionale da parte dei comuni.

7. Entro tre mesi dall'entrata in vigore della presente legge, il Presidente della Regione espone al Consiglio regionale, che si pronuncia nel merito, le linee-guida caratterizzanti il lavoro di predisposizione del PPR.

Art. 3 - Misure di salvaguardia.

1. Fermo quanto disposto dal comma 1 dell'articolo 10-bis della legge regionale n. 45 del 1989, fino all'approvazione del Piano paesaggistico regionale e comunque per un periodo non superiore a 18 mesi, i seguenti ambiti territoriali sono sottoposti a misure di salvaguardia comportanti il divieto di realizzare nuove opere soggette a concessione ed autorizzazione edilizia, nonché quello di approvare, sottoscrivere e rinnovare convenzioni di lottizzazione:

a) territori costieri compresi nella fascia entro i 2.000 metri dalla linea di battigia marina, anche per i terreni elevati sul mare;

b) territori costieri compresi nella fascia entro i 500 metri dalla linea di battigia marina, anche per i terreni elevati sul mare, per le isole minori;

c) compendi sabbiosi e dunali.

2. Da tali ambiti territoriali sono esclusi quelli ricadenti nei comuni dotati di Piani urbanistici comunali di cui ai commi 1 e 2 dell'articolo 8 ed in quelli ricadenti nei comuni ricompresi nel Piano Territoriale Paesistico del Sinis (PTP n. 7, approvato con Delib.G.R. 3 agosto 1993, n. 272).

Art. 4 - Interventi ammissibili.

1. Il divieto di cui all'articolo 3 della presente legge non si applica:

a) agli interventi edilizi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico, di restauro e di ristrutturazione che non alterino lo stato dei luoghi, il profilo esteriore, la volumetria degli edifici, la destinazione d'uso ed il numero delle unità immobiliari. È altresì consentita la realizzazione di eventuali volumi tecnici di modesta entità, strettamente funzionali alle opere e comunque tali da non alterare lo stato dei luoghi;

b) agli interventi direttamente funzionali alle attività agro-silvo-pastorali che non prevedano costruzioni edilizie residenziali;

c) alle opere di forestazione, di taglio e riconversione colturale e di bonifica;

d) alle opere di risanamento e consolidamento degli abitati e delle aree interessate da fenomeni franosi, nonché opere di sistemazione idrogeologica;

e) agli interventi di cui alle lettere b), d), f), g), l), m), e p) dell'articolo 13 della legge regionale n. 23 del 1985;

f) alle opere pubbliche previste all'interno di piani di risanamento urbanistico di cui all'articolo 32 della legge regionale n. 23 del 1985;

g) alle infrastrutture di servizio generale da realizzarsi nelle aree di sviluppo industriale in conformità ai piani territoriali adottati dai consorzi di sviluppo industriale ed approvati dall'Amministrazione regionale anteriormente all'entrata in vigore della presente legge.

2. Negli ambiti territoriali di cui all'articolo 3 è consentita l'attività edilizia e la realizzazione delle relative opere di urbanizzazione delle zone omogenee A e B dei centri abitati e delle frazioni individuate dai Comuni ai sensi dell'articolo 9 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, purché delimitate ed indicate come tali nella cartografia degli strumenti urbanistici comunali. Sono, altresì, attuabili gli interventi edilizi ricadenti nelle zone C immediatamente contigue alle zone B di completamento ed intercluse tra le stesse zone B ed altri piani attuativi in tutto o in parte già realizzati. Nelle restanti zone omogenee C, D, F e G possono essere realizzati gli interventi previsti negli strumenti urbanistici attuativi approvati e convenzionati alla data di pubblicazione della Delib.G.R. 10 agosto 2004, n. 33/1 purché alla stessa data le opere di urbanizzazione siano legittimamente avviate ovvero sia stato realizzato il reticolo stradale, si sia determinato un mutamento consistente ed irremovibile dello stato dei luoghi e, limitatamente alle zone F, siano inoltre rispettati i parametri di cui all'articolo 6. E' pertanto, sospesa l'applicazione delle esclusioni di cui al comma 1, lettera a), e comma 2 dell'articolo 10-bis della legge regionale n. 45 del 1989, fino all'approvazione del Piano Paesaggistico Regionale. Ai fini della realizzazione dei singoli interventi edilizi, l'acquisizione dei prescritti nulla osta ed il versamento dei relativi oneri concessori, alla data di pubblicazione della Delib.G.R. 10 agosto 2004, n. 33/1 dà titolo al rilascio della concessione edilizia.

3. Nelle aree boscate, individuate con Circ.Ass. 2 luglio 1986, n. 16210 dell'Assessorato della pubblica istruzione, l'edificazione è consentita soltanto nelle radure naturali purché gli interventi, oltre che previsti dagli strumenti urbanistici attuativi, consentano una zona di rispetto dal limite del bosco non inferiore a cento metri.

Art. 5 - Studio di compatibilità paesistico-ambientale.

1. I piani urbanistici dei comuni, i cui territori ricadono nella fascia costiera di duemila metri dalla linea di battigia marina, devono contenere lo studio di compatibilità paesistico-ambientale quale documento finalizzato a:

a) supportare le scelte di pianificazione del territorio comunale in relazione al complesso delle risorse paesistico-ambientali;

b) individuare, per gli ambiti trasformabili, le caratteristiche urbanistico-edilizie dei nuovi insediamenti in relazione ai livelli di compatibilità e sostenibilità delle trasformazioni rispetto allo stato dell'ambiente e dei caratteri paesaggistici;

c) definire i criteri guida per lo studio di compatibilità paesistico-ambientale da porre a base della elaborazione dei piani attuativi.

2. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale allegato al PUC deve prevedere:

a) il quadro conoscitivo del territorio comunale derivato dalla rappresentazione ed analisi dei principali tematismi di carattere geologico, geomorfologico, idrologico, vegetazionale, paesaggistico e storico-culturale;

b) il quadro conoscitivo relativo alle trasformazioni avvenute circa gli insediamenti e le infrastrutture;

c) l'individuazione delle risorse paesistico-ambientali di maggior pregio ed interesse ai fini delle esigenze di tutela e valorizzazione;

d) il quadro territoriale di sintesi delle risorse paesistico-ambientali rappresentato per areali, in cui riconoscere una graduazione di valore delle risorse ed i corrispondenti livelli di trasformazione territoriale possibili con individuazione dei livelli di sostenibilità delle ipotesi di sviluppo e di compatibilità delle localizzazioni;

e) la determinazione dei parametri qualitativi e quantitativi delle trasformazioni compatibili con lo stato dell'ambiente e della relativa normativa d'attuazione.

3. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale va allegato ai piani attuativi dei comuni di cui al comma 1 e deve prevedere:

a) l'indicazione degli insediamenti previsti con illustrazione delle possibili alternative di localizzazione e con definizione della soglia massima di accettabilità in termini volumetrici attraverso l'analisi comparata di accettabilità dei tematismi utilizzati;

b) la simulazione degli effetti sul paesaggio delle localizzazioni proposte e la documentazione fotografica su cui riportare dette simulazioni;

c) le concrete misure per l'eliminazione dei possibili effetti negativi ovvero per minimizzarne e compensarne l'impatto sull'ambiente e sul paesaggio.

4. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale è redatto nel rispetto degli obblighi e delle procedure di cui alla direttiva 2001/42/CE (V.A.S.) concernente la valutazione degli effetti dei piani e dei programmi sull'ambiente.

5. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale relativo agli strumenti urbanistici generali viene sottoposto all'esame ed approvazione della Giunta regionale previo favorevole parere del Comitato tecnico regionale dell'urbanistica.

6. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale allegato ai piani attuativi rappresenta il quadro di riferimento urbanistico-territoriale e di disciplina paesistica per la procedura della valutazione di impatto ambientale di cui all'articolo 31 della legge regionale 18 gennaio 1999, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Legge finanziaria 1999) e successive modifiche ed integrazioni.

7. Gli esiti della procedura di valutazione di impatto ambientale, di cui all'articolo 31 della legge regionale n. 1 del 1999, riguardanti i piani urbanistici attuativi, sono trasmessi alle Commissioni provinciali per la tutela del paesaggio, di cui all'articolo 33 della legge regionale n. 45 del 1989 e successive modifiche ed integrazioni ed all'articolo 137 del decreto legislativo n. 42 del 2004, per il definitivo parere. Per le restanti procedure di verifica e di valutazione dell'impatto ambientale, non concluse alla data di entrata in vigore della presente legge, si applicano i divieti e le prescrizioni in essa contenuti.

Art. 6 - Zone F turistiche.

1. Il dimensionamento delle volumetrie degli insediamenti turistici ammissibili nelle zone F non deve essere superiore al 50 per cento di quello consentito con l'applicazione dei parametri massimi stabiliti per la suddetta zona dal Dec.Ass. 20 dicembre 1983, n. 2266/U dell'Assessore degli enti locali, finanze ed urbanistica.

Art. 7 - Interventi pubblici.

1. La realizzazione degli interventi pubblici finanziati dall'Unione Europea, dallo Stato, dalla Regione, dalle Province, dai Comuni o dagli enti strumentali statali o regionali, può essere autorizzata dalla Giunta regionale, anche in deroga a quanto previsto dalla presente legge, sulla base di appositi criteri determinati dalla Giunta regionale in sede di definizione delle linee-guida di cui al comma 7 dell'articolo 2 e pubblicati sul Bollettino Ufficiale della Regione.

Art. 9 - Abrogazioni e sostituzioni.

1. Sono abrogati gli articoli 10, 12 e 13 della legge regionale n. 45 del 1989.

2. I riferimenti contenuti nella legge regionale n. 45 del 1989 ai Piani territoriali paesistici sono sostituiti dal riferimento al Piano paesaggistico regionale.

Art. 10 - Entrata in vigore.

1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione.

Caro Eddyburg, Sono un operatore della Pubblica Amministrazione, per le materie urbanistiche, in una zona “difficile”, come l’area metropolitana di Napoli; e non sembri eccessivo, ma eddyburg.it è ormai un punto di riferimento quotidiano, e nei momenti di massimo scoramento professionale, un rifugio. In conseguenza di un’esperienza professionale che sto vivendo in questo periodo, mi sembra opportuno e doveroso segnalare i danni che possono provocare innovazioni normative, in materia di governo del territorio, che non prevedono adeguate forme di garanzia nelle procedure di formazione di nuovi strumenti urbanistici.

Dirigo il settore urbanistica di un grosso comune dell’area a nord di Napoli, penso ancora per pochi giorni, dove le problematiche territoriali non sembrano interessare più nessuno, mentre ad esse dedicano anche troppa attenzione la più retriva “speculazione edilizia”, (qui sembra esistere solo quella) ed ovviamente il capitale frutto di attività illegali (criminalità organizzata).

Grazie, la sua lettera denuncia ciò che accade quando si abbandonano le garanzie di un impianto legislativo consolidato (nel caso specifico, la salvaguardia sulle proposte del piano in itinere) in un ambiente dominato dalla speculazione e dal potere degli immobiliaristi. Inserisco la parte sostanziale della sua lettera negli “Interventi”, precisamente qui.



La legge urbanistica regionale del Piemonte

La legge regionale n. 56/77 su "tutela e uso del suolo" costituisce uno degli elementi portanti del progetto politico e culturale che hanno animato la giunta di sinistra formatasi nella regione Piemonte a seguito delle elezioni del giugno 1975.

Lo slogan elettorale “un nuovo modo di governare” si concretizzava in Piemonte in definiti comportamenti politici: programmazione come metodo di governo, pianificazione come metodo di gestione delle risorse, partecipazione come metodo di formazione delle decisioni. [1]

Si tratta di una definizione sintetica, che ben rappresenta lo spirito e le intenzioni poste alla base della legge, approvata nel dicembre 1977, cui sono state apportate numerose modifiche (diciotto per l’esattezza dal gennaio ’78 al novembre ’99), tuttavia ancora operante.

Qui interessa richiamare in sintesi gli elementi più significativi, che hanno operato da stimolo e sfondo per la politica urbanistica del Comune di Torino. [2]



Programmazione e pianificazione

Elemento importante è certo rappresentato dalla volontà, espressa dalla legge, di instaurare un rapporto stretto e continuativo fra programmazione regionale e pianificazione urbanistica. Siamo poco oltre la metà degli anni ’70 ed è ancora viva la carica culturale assolutamente presente nelle forze politiche della sinistra, che intende recuperare attraverso il governo regionale almeno in parte i temi della programmazione economica ormai offuscati a livello dello Stato.

Programmazione e pianificazione nella legge urbanistica regionale sono pertanto i pilastri portanti, che, attraverso l’attività della regione (il piano di sviluppo regionale), dei comprensori (i piani territoriali comprensoriali) e dei comuni (i piani regolatori comunali e intercomunali), debbono incidere sulle componenti economiche dello sviluppo, sulle condizioni degli aggregati urbani, sul territorio agrario, al fine di garantire condizioni civili nei luoghi di lavoro come della residenza, tutelando nel contempo i valori storici, culturali e del paesaggio ovunque, sia negli insediamenti, che in generale all’esterno di essi.

La legge poneva in sostanza l’esigenza di mutare radicalmente il comportamento delle amministrazioni locali e dei tecnici impegnati nella formazione degli strumenti di piano: in primo luogo il piano regolatore non più formato sull’onda delle attese speculative, di norma sovradimensionato, rispetto alle reali potenzialità di sviluppo di ogni singolo comune, ma strumento in grado di ordinare gli insediamenti opportunamente misurati in relazione sia ad ipotesi credibili di incremento quantitativo, formulate con riferimento alla pianificazione territoriale, sia ad assetti qualitativamente caratterizzati, dotati delle necessarie opere di urbanizzazione, tecnica (strade, fognature, acquedotti, etc) e sociale (scuole, verde, attrezzature comuni, etc.).



Articolazione per fasi

Nella piena consapevolezza che la condizione a regime non si sarebbe ottenuta in breve tempo, la legge si articola per fasi (e quindi per strumenti) di breve e di medio periodo. [3]

Nella prima fase rientrano:

- la perimetrazione degli abitati e dei nuclei storici a valere per i comuni ancora sprovvisti di piano;

- tempi contenuti per la formazione del primo piano regolatore, di cui si debbono dotare tutti i comuni piemontesi (essendo eliminato dalla legge l’istituto del programma di fabbricazione), o per la revisione dei piani vigenti da operare in coerenza con la nuova legge;

- tempi contenuti, assegnati ai comitati comprensoriali per la formazione delle linee territoriali in tutta la regione.

Superata la fase di avvio la legge prevede un rapporto continuativo e dialettico fra programmazione regionale, pianificazione territoriale e pianificazione comunale, senza fissare un prima e un dopo nella formazione delle scelte, dando luogo in tal modo allo scambio e all’aggiustamento continuo fra i vari livelli della pianificazione.



Gli strumenti della pianificazione

La pianificazione si avvale dei due strumenti principali: il piano territoriale ed il piano regolatore.

La legge concepisce il piano territoriale come un piano urbanistico, con contenuti e procedure di formazione definiti, dotato di piena efficacia giuridica.

A sua volta il piano regolatore generale è destinato a regolare tutto il territorio comunale, ovvero quello di più comuni riuniti in consorzio, se formato come piano intercomunale.



Ambiente agricolo

L’azione pianificatoria è da esercitare, anche nei confronti dell’ambiente agricolo, oltre che dell’ambiente urbano, il cui assetto è da collegare con i provvedimenti territoriali di intervento economico (i piani zonali di sviluppo agricolo, compito dell’ESAP, come si è accennato). La legge si rende pienamente conto che al di là di poche e sfuggenti connotati fisici, il piano regolatore può ben poco sul sistema agricolo, condizionato da fattori (le colture, le dimensioni e le tipologie aziendali, lo sbocco dei mercati per i prodotti, etc.), non governabili in sede locale.

Lungo quella direzione la legge compie uno sforzo indubbio per interrompere la lunga tradizione dei piani regolatori, in base alla quale il territorio agricolo è il luogo dell’indistinto, l’area di riserva, regolata solo da pochi e secchi indici di densità, in attesa di essere trasformata in area di espansione, in forza del processo di formazione della rendita fondiaria.



La novità dei contenuti

Numerosi sono i temi, nei quali la legge si sforza di introdurre elementi nuovi, frutto delle riflessioni, che la migliore cultura urbanistica ha compiuto nel corso di esperienze ormai trentennali, svolte in applicazione della legge nazionale urbanistica del 1942.

Una delle più significative riguarda la negazione del concetto tradizionale di “zone omogenee” della legge 1150/42, operata mediante l’individuazione delle caratteristiche specifiche, che fanno dei luoghi urbani entità per nulla riconducibili alla “omogeneità”. La legge fa dei vari connotati fisici ed ambientali, quali le destinazioni, le densità, le modalità di intervento (il recupero, il rinnovo urbano, l’espansione), i valori storico artistici, gli elementi per riconoscere le virtualità intrinseche del territorio, in base alle quali motivare le scelte di piano.

Proprio l’obbligo assegnato al piano regolatore di procedere al riconoscimento ed alla tutela dei beni storici, artistici ed ambientali, a partire dai singoli manufatti, conduce non solo alla maggiore efficacia in sede di tutela dei beni, ma altresì alla apertura nella loro identificazione nella totalità del territorio (anche in quello agricolo), indipendentemente dalla loro collocazione, superando i limiti di steccato derivanti proprio dal tradizionale concetto di “centro storico”.

Sforzi analoghi di maggiore penetrazione nelle regole di governo della realtà urbana la legge regionale compie nel settore degli standard; oltre ad incrementare l’entità delle aree a servizi per ogni abitante (da 18 a 25 metri quadrati), rispetto alle norma nazionale, entra nel merito delle esigenze di spazio, in relazione alle varie destinazioni: residenza, industria, terziario.

In particolare nel settore delle trasformazioni industriali la legge, avvalendosi fino in fondo del principio di separazione fra proprietà dei suoli e diritto ad edificare, affermato dalla legge nazionale 10/77, introduce una disciplina assolutamente originale (l’articolo 53). Quella disciplina, tradotta immediatamente con delibera regionale nella “convenzione quadro”, applicabile dai comuni, tende a regolare i trasferimenti, le ristrutturazioni degli impianti produttivi, come il riuso delle aree relative, sottraendo alla rendita fondiaria in larga misura i fattori di localizzazione industriale.



Nuove procedure

Infine per completare il richiamo sintetico della legge urbanistica regionale un cenno va rivolto al

..nuovo modo di fare piani, dunque, che la legge regionale propone non solo con la rifondazione dei contenuti, ma anche con nuove procedure di formazione che offrono un sistema di garanzie istituzionali per la partecipazione della collettività e delle forze economiche e sociali al processo di formazione del piano”. [4]

Conseguentemente la legge istituisce tre fasi per la formazione del piano regolatore:

- La formazione della “delibera programmatica”, con la quale sono definite scelte e criteri “sulla base dei contenuti del piano territoriale e di una prima indagine conoscitiva sulla situazione locale e sulle dinamiche in atto” [5]. A questa prima fase, di indubbia portata innovativa, il piano assegna un compito determinante (che purtroppo si è andato perdendo nel tempo), nel tentativo di suscitare nella realtà locale (politica, sociale, imprenditoriale, culturale) una discussione approfondita ed estesa, dalla quale, attraverso il metodo democratico, far emergere le scelte più importanti da porre alla base della formazione del piano regolatore.

- La formazione del “progetto preliminare”, definito in tutte le sue parti (grafiche, normative, illustrative), corredato degli elementi conoscitivi, quantitativi e qualitativi, nei vari settori della realtà urbana, maggiormente approfonditi rispetto a quanto già prodotto in sede di delibera programmatica. Esso è oggetto di consultazione da parte di chiunque abbia volontà ed interesse ad intervenire in modo formale.

- La formazione del progetto di piano, che, esaminate e discusse le osservazioni presentate nella fase precedente, compone le scelte originarie con quanto emerso nella seconda fase, in modo da presentare il piano compiuto all’approvazione regionale.

Il piano eventualmente approvato dalla amministrazione regionale diviene così la base per l’attuazione, attraverso il programma pluriennale e gli strumenti esecutivi, che il comune ed i privati operatori intendono formare.



Note

[1] Da “La pianificazione nella legge regionale” di G. Piazza, articolo contenuto nel n. 72 – 73 della rivista Urbanistica del dicembre 1981.

[2] Per una trattazione ampia ed approfondita sui presupposti, sulle finalità e sui contenuti della legge si rinvia al “Rapporto sulla pianificazione e gestione urbanistica in Piemonte; Volume I – La legislazione urbanistica”, a cura della Regione Piemonte, Assessorato alla Pianificazione e Gestione Urbanistica. Maggio 1980.

[3] Significativo per comprendere la gestazione della legge urbanistica regionale è quanto esposto nel documento (intitolato “Per una pianificazione operativa”, il cosiddetto “libretto rosso”) elaborato direttamente da G. Astengo in veste di Assessore regionale alla pianificazione e gestione urbanistica in data 22 settembre 1975.

[4] Da “La pianificazione nella legge regionale” di G. Piazza, articolo già citato, contenuto nel n. 72 – 73 della rivista Urbanistica del dicembre 1981.

[5] Quella virgolettata è la dizione contenuta nell’art. 14 della legge regionale urbanistica.

Una buona legge, con alcuni difetti

L’applicazione della legge 5/1995 alla pianificazione comunale (ci riferiamo in particolare a esperienze maturate a Lastra a Signa, Sesto Fiorentino, Pontassieve, Calenzano) conferma il giudizio che si era dato inizialmente sulla legge: una buona legge, con alcuni difetti.

Questo giudizio merita di essere articolato. L’impianto della legge è soddisfacente. Le novità introdotte vanno tutte in una direzione positiva. Tuttavia esistono alcune lacune che è opportuno riempire.

Più un generale, la fase di sperimentazione sollecita a risolvere alcune ambiguità della legge, su punti per i quali si sono date nell’applicazione risposte diverse in relazione non solo a situazioni oggettivamente diverse, ma anche a interpretazioni diverse (ma ugualmente legittime) della legge.

Tra le diverse interpretazioni è oggi è necessario scegliere. Non tanto per tentar d’imprimere omogeneità a impostazioni culturali e situazioni locali che possono legittimamente essere diverse, quanto per rendere confrontabili i risultati e le scelte, e possibile una politica unitaria del territorio ai livelli regionale e provinciale.

La cerniera del Piano strutturale

Le esperienze compiute riguardano soprattutto il Piano strutturale (PS). Nel lavoro concreto (con gli amministratori e gli altri attori) è stato in primo luogo necessario un forte e constante impegno per chiarire che il PS non è un PRG. Se la logica della nuova pianificazione è la distinzione tra i diversi strumenti della pianificazione comunale, e un’attenta calibratura di ciascuno di essi, è necessario insistere su questa linea sia nella diffusione della conoscenza sia nell’apportare alcune piccole modifiche legislative che rendano più chiara la diversità tra i differenti strumenti.

La redazione del PS ha consentito di individuare alcuni problemi che hanno una portata più generale. Essi riguardano soprattutto due rapporti:

- quello del PS con la pianificazione sovraordinata,

- e quello del PS con il Regolamento urbanistico (RU) e, più in generale, con gli altri strumenti della pianificazione comunale.

Leggero o robusto?

Appartengono al modo in cui si chiarisce il primo rapporto le risposte possibili a una domanda che emerge dal confronto tra le esperienze in corso. Il PS deve essere uno strumento “leggero”, che si limiti a fornire analisi e descrizioni, e su questa base a definire indirizzi e direttive e a delineare strategia (come fa un buon “documento preliminare”, oppure deve essere un atto “robusto” come parrebbe richiedere l’impegno a definire “invarianti strutturali”?

Il dilemma va risolto a partire dal risultato che si vuole raggiungere, e la sua soluzione non mette in gioco solo il PS. Se il risultato che si vuole è quello di definire una ragionevole sicurezza per quanto riguarda le localizzazioni d’interesse sovracomunale e le tutele dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio, allora la risposta può essere duplice:

- si può raggiungere questo risultato con un PS “robusto”, in cui lo statuto dei luoghi si traduca in una vera e propria normativa, resa immediatamente efficace dovunque ciò è necessario, che riguardi non solo la grandi localizzazioni, ma l’essenza delle regole del territorio;

- oppure si può raggiungere il medesimo risultato facendo discendere le scelte da una pianificazione sovraordinata ben più “robusta” di quella prevista dalla legge 5/1995.

Il problema del dimensionamento

Hanno una certa analogia i problemi che nascono dal dettato della legge circa il dimensionamento delle Unità territoriali organiche elementari (UTOE).

Da un punto di vista logico, il dimensionamento non è materia di scelta coerente con la natura del PS. Quest’ultimo dovrebbe definire soprattutto le “invarianti” ed essere rivolto al lungo periodo (sia pure con la possibilità di aggiornamenti). Il dimensionamento invece ha senso se è riferito al breve-medio periodo (l’arco di tempo ragionevole sarebbe il decennio, o meglio ancora il quinquennio se si tiene conto dell’influenza delle congiunture).

Sarebbe perciò ragionevole riferirsi, per le richieste dimensionali della legge, più al concetto di carico urbanistico che a quello di fabbisogno. In determinate situazioni ciò è ragionevole e sufficiente: dove ad esempio, come a Sesto Fiorentino, la forma compatta dell’abitato delimitata dalla collina e dalla piana delle quali si è confermata la tutela, e la definizione di precise condizioni per l’attivazione delle trasformazioni più pesanti, garantiscono da una rapida estensione delle urbanizzazioni ed edificazioni. In situazioni diversamente connotate la definizione, in sede di PS, di tutte le aree teoricamente urbanizzabili come riferimento al richiesto dimensionamento, senza introdurre altre limitazioni, potrebbe avere invece effetti devastanti.

Una soluzione possibile sarebbe quella si far discendere le soglie dimensionali dalla pianificazione sovraordinata. Ma ci si domanda se una simile soluzione ha senso un una realtà (come quella Toscana) dove tra la Regione e i Comuni non sembrano esserci autorità territoriali di riconosciuta autorevolezza, tale non sembrando oggi (piaccia o non piaccia) la Provincia.

Una soluzione possibile: le intese sovracomunali

Nel ragionare su questi argomenti, e tenendo conto della particolare realtà culturale, storica e istituzionale della Regione Toscana, è sembrato possibile configurare un’ipotesi basata più sul criterio della “copianificazione” che su quello della gerarchia delle competenze. L’ipotesi che si avanza è che il dimensionamento, come le altre scelte di carattere sovracomunale, venga definito in intese sovracomunali promosse e “governate” dalla Regione e dalla Provincia (o dalle province, dove gli ambiti interessino comuni di più province limitrofe), con il concorso delle autorità statali competenti (come ad esempio le Soprintendenze dell’amministrazione dei beni culturali).

Nell’ambito di tali intese, si dovrebbe partire da precise proposte provenienti dal livello sovraordinato, formulate in connessione con le linee di programmazione socio-economica (dalle politiche per la casa a quelle per il commercio, e così via) e riguardanti l’analisi del settore, o dei settori, coinvolti, le ipotesi di dimensionamento per ambiti intercomunali, le politiche attivabili e le risorse disponibili. Su questa base si potrebbero definire i dimensionamenti per ciascuno dei comuni coinvolti, tenendo conto delle specifiche strategie e delle possibili offerte di aree dei diversi comuni.

Il patrimonio storico

In generale la distinzione tra argomenti attribuibili alla competenza esclusiva dei comuni e argomenti la cui competenza appartiene a un livello diverso è abbastanza chiara nel testo della legge, e le attribuzioni di competenze e responsabilità ai diversi atti di pianificazione è condivisibile. Con una unica eccezione. Sembra infatti un evidente errore, o comunque una illogicità, aver attribuito alla competenza esclusiva del Regolamento urbanistico l’individuazione e la disciplina dei centri storici.

Si ritiene infatti che “la disciplina per il recupero del patrimonio urbanistico ed edilizio esistente” debba essere definita – nei suoi criteri di fondo, nei metodi di lettura da adottare, nella definizione delle invarianti – nelle medesime sedi e con gli stessi strumenti previsti dalla legge per l’individuazione e la tutela delle altre risorse territoriali, e in particolare quelle paesaggistiche e ambientali. E’ quindi alla pianificazione strutturale (e alle sovraordinati determinazioni della pianificazione regionale e provinciale) che dovranno far capo le regole relative alla tutela del patrimonio storico, per la quale non va del resto trascurato il ruolo degli interessi statali (Soprintendenze).

Altre questioni

Le questioni sopra indicate appaiono quelle più rilevanti. Altre questioni sono peraltro emerse, che richiedono anch’esse chiarimenti e scelte conseguenti

1. Il quadro conoscitivo è esplicitamente previsto, a livello comunale, tra i contenuti del solo piano strutturale. Viceversa, è opportuno che ogni piano sia dotato di un solido apparato conoscitivo. In particolare, è opportuno che il regolamento urbanistico, dei programmi integrati d’intervento e dei piani attuativi contribuiscano all’aggiornamento del quadro conoscitivo inizialmente formato per il piano strutturale.

2. La valutazione degli effetti ambientali corre il rischio di essere un poco utile documento integrativo. Occorre che essa diventi una fase del procedimento. Per essere realmente efficace la valutazione dovrebbe essere affidata ad un soggetto diverso dal proponente.

3. Che cosa devono essere le UTOE? Occorre precisare se esse siano semplici ambiti di calcolo, oppure (come sembra più opportuno) elementi dell’organizzazione del territorio (qualcosa di apparentabile ai quartieri o alle unità di vicinato).

4. Sarebbe opportuno garantire il raccordo con la pianificazione di settore. Se si sceglie l’ipotesi del PS “robusto”, appare possibile che il recepimento delle disposizioni che discendono dalla pianificazione di settore sovraordinata avvenga nel piano strutturale (soggetto al controllo provinciale e regionale).

5.È opportuno dare efficacia immediata alle scelte di lungo periodo. Alcuni dei contenuti del piano strutturale, quali il confine tra urbano ed extraurbano oppure la determinazione dei grandi ambiti di trasformazione, dovrebbero essere rese immediatamente cogenti, anche nei confronti dei terzi.

6. L’articolazione di un unico piano in più strumenti può provocare problemi pratici. In fase di gestione, è lecito prevedere possibili contraddizioni fra i diversi tipi di piano. Occorrerebbe pensare alla formalizzazione di una sorta di “piano unico”, o di “carta del territorio”, che riassuma tutte le indicazioni e prescrizioni derivanti dall’insieme dei documenti.

7. Si suggerisce la possibilità di mantenere la procedura dell’attuale articolo 25 (sostanzialmente coincidente con una decisione di consiglio sottoposta a osservazioni) per le sole decisioni di mero dettaglio.

8. È necessario elaborare un glossario, nella forma di “istruzioni tecniche” definendo il significato dei termini nuovi o nodali: definizioni dalle quali i comuni si possano scostare solamente attraverso specifiche motivazioni. Ciò contribuirebbe non poco a fare chiarezza, senza comprimere la facoltà di introdurre innovazioni sperimentali.

9. Infine, si ritiene che debba a questo punto essere introdotto qualche stimolo alla partecipazione. Si tratta certamente di un tema complesso, in cui l’individuazione ope legis di istituti, soggetti e risorse non è di per sé sufficiente, ma può essere comunque un utile incoraggiamento allo sviluppo di tensioni positive.

Edoardo Salzano, sulla base di materiali di M. Baioni e di ragionamenti svolti con M. Baioni, V. De Lucia, G. Frisch, C. Mele e L. Scano

Venezia, 18 ottobre 2002

Letto il testo "Governo del Territorio" all'esame del Consiglio Regionale, inviamo alcune osservazioni parziali che ci auguriamo siano condivise e speriamo ancora utilizzabili.

Un punto rilevante riguarda la possibilità prevista all'art. 32 di monetizzare aree per servizi. Se non si vuole peggiorare le condizioni di vita nelle città, va assicurata in tutte le operazioni di trasformazione urbana la necessaria dotazione di servizi. Nei PUA vanno cedute gratuitamente le aree attreazzate. Le dimensioni minime obbligatorie devono essere stabilite per legge e va precisato cio che è monetizzabile (percentuale per scuole e opere di culto). Oltre i 18mq/ab previsti dal decreto ministeriale è la Regione che stabilisce gli standard aggiuntivi, quindi nei PUA i servizi civici possono essere ceduti gratuitamente non solo in metri quadri di superfici scoperte ma anche in metri cubi edificati o edificabili. La legge regionale dovrebbe anche sollecitare l'inserimento nei programmi e nelle convenzioni delle previsioni di gestione delle aree e dei servizi pubblici. Secondo comma art 32- la fantomatica impossibilità di reperire le aree per servizi nei piani attuattivi indica un "intasamento edificatorio" che con il nuovo costruito o ristrutturato aggiunge criticità ad una zona evidentemente già congestionata. Sono i luoghi urbani in cui devono essere recuperate le aree per servizi che all'intorno mancano e non sono reperibili. Terzo comma art 34 nei nuovi insediamentie e ristrutturazioni urbanistiche il mancato reperimento di aree e la monetizzazione persino dell'urbanizzazione primaria è più che mai ingiustificato. E' un grave arretramento rispetto alla situazione vigente e persino rispetto ai vecchi piani di lotizzazione.

Per quanto riguarda gli articoli 35, 36,37 si trattadi una grande pasticcio. Non si può usare il mercato" per raggiungere fini di equità, il mercato può raggiungere l’efficienza (forse) ma mai l'equità. La perequazione nella formanondescritta può costituire un vero pasticcio. i criteri e le modalità sono rinviati ai Pat, quindi criteri e modalità che possono essere del tutto differenti tra i diversi Pat con buona pace per l'equità. I crediti edilizi sono un altro pasticcio e mettono in discuissione la possibilità di painificare, infatti per le aree di trasformazione, o almeno per alcune, non possono essere definite le volumetrie perchè non si sa qunati e quali crediti edilizi si spendereanno. Inoltre si tratta di una mezza truffa vereso i privati che non si indennizzazo ma si tacitano con dei crediti edilizi, ma allora se non si vogliono truffare bisogn che ci pia piena libhertà per spenderli e allora ... morte della pianificazione ma soprattutto della regolare crescita della città. I servizi, gli spazi pubblici, ecc. non sono altro che un modo di valorizzazione del territorio chi trasforma deve cedere le aree e basta perchè da queste cessioni deriva la stessa valorizzazione delle aree.

Qui sotto il testo della legge in formato .pdf:

PIANO PUBBLICO E PROGETTI PUBBLICO-PRIVATI: IL MODELLO TOSCANO DI GOVERNO DEL TERRITORIO E LE PROSPETTIVE DELLA LEGGE QUADRO NAZIONALE

L’iniziativa del Parlamento per definire una legge quadro nazionale in sostituzione della Legge Urbanistica del 1942 coincide con Il nostro lavoro per rafforzare la riforma del governo del territorio

Nel dibattito politico italiano il territorio, inteso come luogo dove si esplicano e prendono forma le ragioni dell’ecologia e quelle del vivere, le forme del paesaggio e le molteplici espressioni delle strutture urbane, dove trovano posto e consistenza beni culturali e ambientali e la rete delle infrastrutture, quel territorio è assente.

Non c’è mai stato e, probabilmente, non ci sarà se non cominciamo a porci il problema politico di cos’è il territorio oggi e come dobbiamo attrezzarci per governarlo, cioè per fare, per l’appunto, governo del territorio. Come ci chiede la nuova formulazione dell’art. 117 della Carta Costituzionale.

Problema politico reso ancora più evidente dai circa 8.000 assessori comunali con delega sul territorio, dai 123 assessori provinciali e regionali attualmente in carica, e da qualche centinaia di posizioni politiche di rilievo negli enti territoriali sovracomunali di secondo livello.

oblema politico reso ancora evidente dalle migliaia di persone che, quotidianamente, hanno a che fare con gli uffici tecnici comunali per problemi di natura territoriale.

Cos’è il governo del territorio

In Toscana, fin dal 1995, con legge regionale e a Costituzione non modificata, lo abbiamo inteso come l’azione dei pubblici poteri che indirizza le attività pubbliche e private a favore dello sviluppo sostenibile, e che al contempo garantisce la trasparenza dei processi decisionali e la partecipazione dei cittadini alle scelte; considerando il territorio come risorsa e la collaborazione interistituzionale un obbligo per assicurare coerenza a tutti gli atti di governo del territorio.

Nella rivisitazione della legge regionale oggi cerchiamo di rafforzare il concetto affermando che il governo del territorio è inteso come l’insieme delle attività relative all’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti la tutela, la valorizzazione e le trasformazioni delle risorse che lo costituiscono. L’azione del governo del territorio assicura, inoltre, il coordinamento delle politiche e la sinergia delle azioni di tutti i settori capaci di incidere sulle risorse stesse al duplice fine dello sviluppo sostenibile e della massima efficacia delle azioni dei settori. [1]

Ragionare sul territorio, senza ridurlo alla sola componente ambientale, oppure ai soli temi dei beni culturali, del paesaggio, o peggio ancora identificarlo solo con l’urbanistica intesa come disciplina dell’edificare, cioè con i soli regolamenti di uso del suolo, contribuirà a migliorare notevolmente il significato del termine e soprattutto a posizionare possibili politiche di governo a tutti i livelli istituzionali.

Una delle cause non secondarie della dissipazione del patrimonio culturale e della devastazione dell’ambiente e dell’alterazione del paesaggio sta proprio nella cattiva gestione del territorio, della frammentazione del suo governo, cioè della separatezza nella quale è ridotto il suo controllo.

Il territorio è oggi l’elemento chiave per governare i tempi contraddittori dell’economia contemporanea, ma anche quello più sensibile, perché le istituzioni e le amministrazioni del territorio sono oggi, rispetto al passato, più sole in confronto alla forza del capitale finanziario.

Le nuove dimensioni globali del mercato innescano competizioni sempre più estese e sganciate da regolazioni nazionali o regionali forti, per forza di cosa fanno emergere i territori locali e le forme locali di sviluppo e di organizzazione che, per funzionare o meglio per competere nella grigia omologazione del mercato globale, hanno bisogno di valorizzare le proprie specificità socio-economiche, ma soprattutto territoriali.

Qui entra in gioco prepotentemente il governo del territorio e le strategie politiche che su di esso e con esso è possibile attivare. È chiaro che non si può affidare il governo di questa strategia alla sola strumentazione urbanistica, ma appunto al governo del territorio.

Governare non per dirigere quanto per rendere coesa e coerente l’intenzionalità dei programmi politici con le politiche del territorio e con quelle della programmazione e questa con i programmi di sviluppo e i soggetti locali. Un’azione collaborativa e interistituzionale che coinvolge, stabilmente, le Regioni, le Province e i Comuni e che si apra alla democrazia partecipativa e sostantiva dal basso dei cittadini, rimettendo al centro del governo ordinario delle città e dei territori il metodo della pianificazione e della programmazione, come attività connotanti il ruolo stesso delle pubbliche amministrazioni.

Con una sottolineatura, che forse a molti non è ancora del tutto nitida: da un lato non possiamo più confondere il ruolo della programmazione e quello della pianificazione (intesa come strumento del governo del territorio oltre la dimensione dell’urbanistica), dall’altro non possiamo più considerarela pianificazione come il braccio esecutivo della programmazione come purtroppo è accaduto nell’esperienza italiana di questo secondo dopoguerra né viceversa, come avrebbe voluto qualche teorico di un’urbanistica onnipotente.

L’idea politica, in breve, è quella di mantenere vivo un legame fecondo tra politiche del territorio e politiche di sviluppo, in un tessuto che è tradizionalmente alla base del riformismo e di molta parte del regionalismo italiano più recente.

Pensiamo ad un modello di governo del territorio che coniughi sostenibilità ed efficienza, nel quale al piano è affidata la prospettiva temporale lunga, sia verso il passato che verso il futuro, con la quale definire le certezze, gli elementi saldi e le connessioni profonde che condizionano inevitabilmente qualsiasi comportamento umano sul territorio, ed al programma il compiti di sviluppare in una prospettiva temporale breve e flessibile le potenzialità che il territorio stesso esprime.

In questo senso intendiamo accentuare la distinzione che la legge regionale n. 5 ha fatto tra i contenuti strutturali e gli aspetti gestionali ed operativi degli strumenti per il governo del territorio.

Riteniamo che la legislazione nazionale debba solo affermare il principio sostantivo della materia governo del territorio e nulla più:

1) ricostruire il quadro completo dei principi del governo del territorio in raccordo esplicito con le altre materie trasversali che in base al dettato costituzionale attengono alla competenza statale esclusiva, quali l’ordinamento civile e penale, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, o concorrente, quali la tutela della salute, i porti e aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, la finanza pubblica ed il sistema tributario, la valorizzazione dei beni culturali.

Occorre tuttavia tener presente che il concetto di competenza esclusiva dovrebbe avere un confine dinamico: una cosa è la competenza legislativa, che la costituzione affida inequivocabilmente allo Stato , una cosa è la competenza amministrativa che la legge ordinaria affida secondo il principio vincolante della sussidiarietà, dell’adeguatezza e della differenziazione [2].

La contrapposizione tra territorio e ambiente dovrebbe, quindi, essere stemperata, anche se attualmente, nella legislazione, esistono diverse contrapposizioni duali. Il termine Territorio, normalmente, ha un significato prevalentemente spaziale e come tale è il punto di riferimento delle logiche e delle pratiche della pianificazione fisica.

Il termine “ambiente” nei due significati: biologico (che fa riferimento alle condizioni di vita fisiche) e storico-culturale (che si riferisce alle attività umane) è il punto di riferimento dell’ecologia . Va abbandonato il sistema della pluralità di discipline, regole e piani che caratterizza l’attuale sistema normativo. Il territorio con le sue funzioni e potenzialità è infatti un valore unitario e come tale va pensato, disciplinato e gestito.

2) stabilire i riferimenti etici del governo del territorio, in rapporto con gli orientamenti europei e con l’evoluzione delle consapevolezze culturali che dal concetto di urbanistica affermato dalla legge 1150 attraverso il DPR 616, fino alle leggi regionali non solo recenti hanno portato a quello di governo del territorio nella prospettiva dello sviluppo sostenibile.

Tra i vari temi degni di interesse sul piano normativo, ma anche culturale e amministrativo, vanno indicati alla riflessione del legislatore nazionale:

a) il processo di riforma relativo alla strumentazione urbanistica e territoriale che è andato di pari passo con l’attenzione per i temi ambientali all’interno della pianificazione degli usi del suolo

b) il progressivo spostamento di interesse dall’espansione edilizia ai temi del recupero e della riqualificazione urbana;

c) il territorio: da riferimento fisico indipendente a luogo di autopromozione

d) La partecipazione dal basso come elemento portante dell’aiuto alle decisioni pubbliche.

3) In conseguenza, stabilire in modo chiaro il ruolo ordinatore della pubblica amministrazione a tutela degli interessi della collettività ed a promozione e sostegno dello sviluppo, appunto, durevole, chiarendo quindi le ambiguità del rapporto pubblico–privato. Il che significa estendere la pianificazione e della programmazione a metodo ordinario nella gestione della pubblica amministrazione e nell’organizzazione dell’iniziativa privata.

Le modalità di funzionamento della pubblica amministrazione e il suo intervento e le forme organizzative e l’iniziativa privata non sono due fini in sé contrapposti; ma due modi a disposizione della società di conseguire, caso per caso, circostanza per circostanza, gli obiettivi e i risultati che si sono espressi e programmati.

Questo significa lavorare in cooperazione, ma con distinzione di ruoli racchiudibili nello slogan “ piani pubblici, progetti pubblico-privati o privati”, ma significa anche reinventare totalmente il governo e le sue modalità introducendo nei comportamenti, nella organizzazione e nelle scelte tecniche la pianificazione e la valutazione strategica, dando attuazione innovativa alla Direttiva 2001/42/CEE concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente.

Il principio nodale che deve essere esplicitamente richiamato è che la pianificazione e la programmazione costituiscono il metodo ordinario per l’organizzazione della pubblica e per le modalità del governo del territorio.

Si deve richiamare a questo proposito l’esperienza Toscana, dove, sin dagli anni ’70, lo strumento principale del governo del territorio, il Piano, da strumento regolatore, di vincolo passivo – che talora era considerato ostacolo alle esigenze dell’economia – ha sempre teso a diventare progetto, rappresentazione di un possibile sviluppo sostenibile, capace di sollecitare in modo ordinato le azioni dei soggetti pubblici e privati, capace di proporre.

Prendendo atto della necessità di superare la inaccettabile rigidezza che caratterizza la precedente generazione dei Piani regolatori, tanto da renderli estranei alle dinamiche economiche e incapaci di concorrere alla definizione ed all’attuazione di politiche di sviluppo sostenibile, si è scelta la via di recuperare il metodo della programmazione – pianificazione territoriale come attività permanente della pubblica amministrazione, con decisi correttivi per riallineare i tempi ed i contenuti della pianificazione alle reali esigenza delle politiche di sviluppo.

La conclusione logica è evidente: l’affermazione di principi fondamentali verso la collettività quali il diritto di tutti a partecipare alle scelte ed il non delegabile dovere della pubblica amministrazione di governare le trasformazioni territoriali nel rispetto delle risorse territoriali.

A questo riformismo si contrappone un liberismo anarcoide che sostanzia purtroppo alcune convergenze a livello parlamentare che tendono a sostituire i piani con labili documenti, che mostrano di ignorare il principio della sostenibilità e che tendono invece a tutelare la posizione dei poteri forti privati in una contrattazione in assenza di qualsiasi regola salda e condivisa a tutela dei diritti collettivi e del patrimonio comune.

UNA VALUTAZIONE DELL’ATTUAZIONE DELLA RIFORMA

Siamo consapevoli che la riforma che si sta realizzando in base alla legge regionale n. 5 del 1995 ha sortito esiti positivi:

- tempi procedurali enormemente ridotti rispetto al vecchi regime [3];

- c’è stata un’adesione massiccia dei Comuni e delle Province al processo di rinnovamento del sistema della pianificazione [4];

- si è accresciuta la consapevolezza dei valori del territorio e si sta acquisendo il senso della necessità del principio della sostenibilità;

- si è avviato un dialogo tra i settori e tra le istituzioni;

- nonostante l’affermazione del principio della sussidiarietà (in anticipo rispetto alla riforma del titolo V della Costituzione) i conflitti tra livelli istituzionali sono stati quasi sempre risolti senza ricorsi in sede giurisdizionale, assumendo dimensioni patologiche in pochissimi casi che hanno richiesto tale rimedio.

Siamo anche consapevoli dei limiti dell’esperienza di questi anni:

- sono ancora scarse le sinergie nell’attività di definizione delle scelte di governo del territorio, dato il permanere di molti procedimenti paralleli (le pianificazioni separate) i cui tempi ed effetti non risultano coordinati;

- I costi della pianificazione per il governo del territorio sono gravosi per i soggetti più deboli;

- non è ancora soddisfacente il controllo che la legge opera sulle scelte di singoli soggetti pianificatori che producono effetti su altri soggetti istituzionali;

- spesso è risultato incompleto il controllo sugli strumenti della gestione da parte degli strumenti strategici e tendenza a riproporre i vecchi modelli della pianificazione urbanistica rendendo incoerente il rapporto tra quadri conoscitivi di buon valore e scelte pianificatorie talvolta non giustificate.

LA NUOVA LEGGE COME: LEGGE QUADRO REGIONALE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO TESTO UNICO REGIONALE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO.

La nuova legge, come già anticipato dal PRS 2003-2005, intende riaffermare ed evolvere i principi affermati dalla 5/95 ed in particolare:

1. renderli del tutto coerenti con i nuovi principi costituzionali, comunque già in buona misura presenti nella legge attuale;

2. rafforzare le sinergie tra i soggetti e tra i settori, attraverso un procedimento unificato [5] che aumenti l’efficienza dei percorsi decisionali ed il riallineamento delle norme di riferimento in un Codice regionale per il governo del territorio;

3. di conseguenza, assumere i contenuti delle nuove disposizioni comunitarie [6] in ordine alla valutazione integrata degli atti strategici [7].

4. migliorare l’efficacia nel perseguimento degli obiettivi della riforma.

Quali in questa prospettiva gli obiettivi fondamentali del lavoro sulla nuova legge:

1. Pensare e realizzare gli strumenti per attuare davvero la sussidiarietà.

2. Disciplinare un procedimento unificato per la formazione degli atti di pianificazione.

3. Costruire riferimenti unificati per coniugare sviluppo e tutela, per garantire lo " sviluppo sostenibile"

4. Apportare i correttivi - chiarimenti che risultano opportuni in base all’esperienza di questi anni di gestione della 5/95

5. Fornire stabilità al quadro normativo nel lungo periodo.

FAR DA SE’ MA NON DA SOLI: IL NUOVO ASSETTO DELLE ISTITUZIONI RIDISEGNATO DALLA MODIFICA DEL TITOLO QUINTO DELLA COSTITUZIONE.

Uno dei motivi principali che spingono a rivedere le norme per il governo del territori è rappresentato dalla riforma del titolo V della Costituzione.

I punti consolidati, alcuni già presenti nella legge attuale e gli altri costruiti assieme al sistema delle autonomie, sono di grande rilievo politico istituzionale: andiamo verso un’attuazione piena della riforma costituzionale

Si afferma la pari dignità dei soggetti istituzionali all'interno del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione.

Principio di pari dignità

· Nella proposta ogni soggetto assume le sue decisioni senza sottostare ai condizionamenti di altri soggetti

· Ogni soggetto ha a disposizione gli strumenti per tutelare le proprie competenze dalle ingerenze altrui

Principio di sussidiarietà

· Il cittadino ha rapporti con l’ente che assicura l’adeguatezza e che gli è più vicino: per la gran parte della disciplina delle trasformazioni del territorio questo ente è il Comune, storicamente titolare della competenza in urbanistica.

L’attribuzione delle funzioni amministrative è riservata alla fonte legislativa competente ai sensi dell'articolo 117 (stato, per le sole funzioni di esclusiva competenza statale, o regione), secondo i criteri:

· di adeguatezza

· di differenziazione

Criterio di adeguatezza:

· Solo la legge può definire qual è il livello adeguato per svolgere una determinata funzione: l’articolato propone i ruoli di Regione (strategie territoriali e regolamentazione generale), Provincia (definizione dei limiti di utilizzabilità delle risorse) e Comune (disciplina dell’uso del territorio, urbanistica)

Criterio di differenziazione

·Nessun soggetto fa le stesse cose degli altri per consentire la non sovrapposizione e, dunque, la non gerarchia

PENSARE E REALIZZARE GLI STRUMENTI PER ATTUARE DAVVERO LA SUSSIDIARIETÀ E LA DIFFERENZIAZIONE

Cosa serve dunque ai Comuni in questa prospettiva che impone di partire dal soggetto più vicino al cittadino? Servono riferimenti certi entro cui gestire una completa autonomia. Gli stessi Comuni chiedono un controllo degli effetti sovracomunali delle scelte (C’è una grande domanda di AREA VASTA).

Questi riferimenti sono:

· gli indirizzi di programmazione del territorio.

· condizioni di ammissibilità certe ed esplicite per sviluppare ognuno il proprio autonomo potere di governo del territorio.

Ciò deve corrispondere alle competenze che si vanno a proporre per ogni livello di pianificazione:

La Regione

La Regione deve essere il soggetto che definisce le strategie generali: il Piano di indirizzo territoriale in raccordo con il piano regionale di sviluppo (sono quindi da precisare le relazioni tra i due strumenti secondo la logica affermata con l’ultimo PRS)

Si stabilisce comunque un forte rapporto fra programmazione generale dello sviluppo e pianificazione territoriale. Il Piano regionale di sviluppo ed il Piano di indirizzo territoriale operano in forte sinergia.

Il PIT è nello stesso tempo lo strumento territoriale del PRS e momento di proposta per le politiche di sviluppo.

La Regione deve definire le regole invarianti in riferimento ai livelli prestazionali irrinunciabili (la Regione esercita il potere regolamentare generale)

La Provincia

Alla Provincia è affidato il compito di definire le condizioni di sostenibilità ("tutti livelli di piano inquadrano prioritariamente invarianti strutturali da sottoporre a tutela, al fine di garantire lo sviluppo sostenibile". Articolo 5 della legge vigente – dove per invarianti s’intende i livelli prestazionali non negoziabili delle risorse del territorio per garantirne la riproducibilità nella qualità)

Al livello intermedio si definiscono i contenuti programmatici dello sviluppo sostenibile (obiettivi, azioni, progetti di sviluppo locale come cerniera tra top - down e bottom - up): al PTC è affidato il compito di raccordare con propri indirizzi le strategie regionali al governo del territorio comunale.

- Secondo il criterio della differenziazione il piano territoriale di coordinamento della Provincia (come afferma già la legge 5) deve differenziarsi dal piano strutturale comunale.

- Secondo il principio della sussidiarietà il piano territoriale di coordinamento della Provincia deve dire quelle cose che sono necessarie alla pianificazione comunale e che il comune non può governare in modo adeguato in quanto eccedono i suoi confini.

Il Comune

Al Comune è attribuita la competenza in ordine alla disciplina dell’utilizzazione e della trasformazione delle risorse del territorio nell’ambito comunale

in tal senso il Comune:

- riconosce le identità dei luoghi e tutela le risorse essenziali del territorio;

- definisce gli indirizzi per il governo del territorio comunale espressi dalla comunità locale, nel rispetto di quelli espressi dalla Regione e dalla Provincia, dei quali promuove ove occorra i necessari adeguamenti;

- stabilisce gli obiettivi delle proprie politiche di settore e ne definisce l’attuazione programmata.

I RAPPORTI TRA LE COMPETENZE DELLE ISTITUZIONI ED I RIMEDI PER LE EVENTUALI PATOLOGIE IN ORDINE ALLA LORO TUTELA

C’è chi ritiene che anche nell’attuale disciplina contenuta nella legge n. 5 l’autonomia comunale si eserciti in modo eccessivo e dunque vorrebbe tornare indietro e trasformare il processo di consolidamento della riforma in controriforma, chi ha nostalgia dell’autorità della Regione che approva e stralcia gli atti di pianificazione altrui, magari attraverso la CRTA

La legittimità costituzionale, la storia e la realtà presente dei rapporti tra le istituzioni toscane, l’affermazione stessa del ruolo del governo regionale vietano questo ritorno al passato: la logica delle gerarchie comprenderebbe anche una supremazia statale nei confronti di tutti gli altri soggetti.

Questa proposta si colloca invece sulla linea delle intese e della leale collaborazione definita dalla sentenza 303 del 2003 della Corte costituzionale.

Per evitare le patologie nei rapporti interistituzionali si propone un sistema di warning precoce (durante il procedimento unificato chi intende tutelare le proprie competenze viene interessato ordinariamente all’avvio del procedimento e prima dell’adozione dell’atto, e comunque ha facoltà di presentare osservazioni).

Se infine con ciò non si perviene ad una composizione delle divergenze, non essendo data ad alcun soggetto la potestà di intervenire autoritativamente, si deve ricorrere ad un soggetto terzo (che oggi è rappresentato dal giudice amministrativo) che sia rappresentativo di tutti i livelli istituzionali.

Nella proposta di legge si è prevista una commissione paritetica Regione, ANCI, URPT, alla quale, nel caso che lo warning preventivo non abbia funzionato, si potrà rivolgere il soggetto che riterrà violate dall’amministrazione procedente le proprie competenze, le prescrizioni del proprio strumento di pianificazione o la stessa legge.

Il ricorso produrrà l’automatica sospensione dell’atto fino alle determinazioni del comitato. Sono peraltro previste misure di salvaguardia e poteri sostitutivi a tutela delle competenze di ciascun soggetto istituzionale e infine si potrà comunque ipotizzare un eventuale ricorso al giudice amministrativo.

UN MODELLO EFFICIENTE E SOSTENIBILE: DISCIPLINARE UN PROCEDIMENTO UNIFICATO PER LA FORMAZIONE DEGLI ATTI DI PIANIFICAZIONE.

I principi del governo del territorio sono affermati anche per le azioni di settore attraverso la definizione di obiettivi valutati in relazione ad ambiti di sviluppo e ricercando sinergie intersettoriali. Punto fondamentale è la definizione di un procedimento unificato e di valutazioni integrate.

Spariscono dalla legge i procedimenti ora previsti per la formazione e l’approvazione dei diversi strumenti, sostituiti dalla definizione di uno schema di procedimento unificato a valere verso tutti gli atti incidenti sul territorio

Si prevede di ricondurre ai principi propri del “governo del territorio” una serie di procedimenti di settore, di origine regionale o statale, il cui esito operativo induce effetti e trasformazioni significativi sul territorio e sulle sue risorse e che, ad oggi, rispondono a criteri in varia misura separati, estranei, e talvolta conflittuali, rispetto ai procedimenti ed agli obiettivi della sostenibilità affermati dalla L.R.5/95.

Fra questi assumono evidente importanza i temi dei programmi complessi, degli sportelli unici, le tante procedure messe in campo dal settore ambientale, nazionale ed europeo, che generano ulteriori complessità e separatezze, rendendo sempre più complessi i rapporti fra le norme generali di governo del territorio e quelle di settore.

La nuova legge prevede un unico schema di procedimento per la formazione e l'approvazione di tutti gli atti aventi effetto sul territorio.

Si definiscono i capisaldi del procedimento (avvio, progressiva definizione del progetto, verifiche, formalizzazione, evidenza pubblica ecc.) definendo per ciascun caposaldo le funzioni da svolgere e le prestazioni qualitative da garantire . Il titolare del procedimento è l’unico responsabile della perfetta legittimità di esso, non essendoci alcun soggetto sovraordinato che approva. Tale assunto, già presente nella legge vigente, viene rafforzato eliminando tutte le residue ambiguità.

Particolare rilievo è dato all'avvio del procedimento che è il momento in cui il titolare del procedimento provoca l’incontro e la sinergia di tutti i soggetti dai quali si attende un sostanziale apporto in termini di qualità, di definizione del quadro delle conoscenze, delle regole e degli obiettivi, e di quelli che per competenza espressa sono tenuti ad esprimersi sul prodotto finale. Lo scopo evidente è quello di trasferire il massimo di conoscenze alla successiva fase di progettazione, dotandola così di quanto necessario per conseguire i dovuti livelli di qualità e rendendola consapevole da subito delle regole secondo le quali sarà valutata.

I soggetti interessati all'avvio non saranno, quindi, solo i livelli istituzionali, ma tutti quei soggetti, pubblici e privati che, per loro funzione e ruolo specifico, il titolare del procedimento ritenga essere effettivi portatori di conoscenza, ovvero gestori di regole formalmente espresse ed incidenti sul procedimento, oppure titolari di un potere decisionale concorrente loro assegnato dalla legge.

Nel corso dell'iter progettuale il titolare del procedimento può porre in essere momenti formali di verifica, da stabilire all'atto di avvio, per garantire progressivamente la correttezza dello sviluppo progettuale e per portare tempestivamente gli eventuali correttivi, evitando al massimo che essi intervengano nella fase terminale del procedimento.

Elaborato il progetto, la legittimità di questo e la compatibilità e coerenza con gli strumenti di riferimento viene certificata formalmente dalle strutture tecniche responsabili del procedimento (autocertificazione).

Tutto avviene prima che l’organo politico istituzionale del titolare del procedimento assuma le proprie determinazioni in modo autonomo e consapevole

Sono esclusi dall’obbligo di seguire tutti i passaggi del procedimento unificato (salvo che per l’autocertificazione) gli atti meramente gestionali che sviluppino i propri effetti nell’ambito esclusivo delle competenze di un unico soggetto (ad es. il Regolamento Urbanistico ed i piani attuativi del Comune per i quali sussiste solo l’obbligo della trasmissione alla Regione – per il R.U. - e alla Provincia)

Alla luce della riforma del titolo V della Costituzione e dei recenti orientamenti della relativa giurisprudenza, non sembra da escludere che la norma regionale possa incidere sui comportamenti degli organi statali nell’esercizio delle loro competenze amministrative in materia di governo del territorio. Sembra possibile che la legge individui nei suoi procedimenti forme e momenti di concertazione operativa per attivare processi di collaborazione secondo il principio della leale collaborazione.

La legge afferma inoltre la necessità di procedere a valutazioni integrate degli effetti ambientali/territoriali, economici, sanitari e sociali indotti dalle trasformazioni del territorio risorsa. La nuova legge prevede che tali valutazioni siano effettuate nella fase di predisposizione dei piani o programmi, comunque prima della loro adozione, così da permettere alle amministrazioni competenti di operare scelte coerenti (valutate) con i principi dello sviluppo sostenibile

La nuova legge stabilisce infatti che “ogni soggetto che intende adottare uno strumento della pianificazione territoriale o un atto del governo del territorio effettua la valutazione integrata degli effetti territoriali, ambientali, sociali, economici e sulla salute umana, anche in più momenti , a partire dalla prima fase utile delle elaborazioni, prima che vengano assunte determinazioni impegnative, anche per consentire la scelta motivata tra possibili alternative e per individuare aspetti che richiedano ulteriori integrazioni o approfondimenti.” Le valutazioni compiute in una fase di elaborazione non sono ripetute con lo stesso livello di approfondimento e con le stesse modalità nelle fasi successive.

La nuova legge conferma che le disposizioni di carattere territoriale degli atti delle politiche di settore sono preventivamente sottoposte ad una verifica tecnica di compatibilità relativamente all’uso delle risorse essenziali del territorio. Dell’esito delle verifiche è dato espressamente atto nel provvedimento di approvazione dell’atto di programmazione settoriale. Gli strumenti della pianificazione territoriale determinano quali atti del governo del territorio debbano essere sottoposti alle valutazioni

COSTRUIRE RIFERIMENTI UNIFICATI PER CONIUGARE SVILUPPO E TUTELA, PER GARANTIRE LO " SVILUPPO SOSTENIBILE": UN TESTO UNICO DELLE NORME PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO

L’ obiettivo è stato in primo luogo quello di sincronizzare e portare a coerenza le diverse norme, in primo luogo quelle regionali, in tutte quelle materie che direttamente e tradizionalmente attengono all'urbanistica ed al territorio e che, ancora oggi, risultano "esterne" alla 5/95, anche se in parte ne hanno assunto i principi.

L'elenco è consistente e riguarda aspetti che vanno dal recupero del patrimonio edilizio esistente agli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia nelle zone a prevalente funzione agricola, dalla normativa edilizia alla disciplina paesaggistica, dall'edilizia residenziale o produttiva di iniziativa pubblica al commercio, dalla mobilità alla gestione dei tempi, ai porti e approdi turistici.

Si tratta di argomenti di rilievo che, si ricorda, attengono, fra l’altro, ad alcune Leggi Regionali importanti quali:

· LR 59/80 "Norme per gli interventi per il recupero del patrimonio edilizio esistente";

· LR 21/84 "Norme per la formazione e l'adeguamento degli strumenti urbanistici ai fini della prevenzione del rischio sismico";

· LR 39/94 "Norme in materia di variazioni essenziali e di destinazione d'uso degli immobili"

· LR 64/95 e successive modificazioni "Disciplina degli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia nelle zone a prevalente funzione agricola";

· LR 68/97 "Norme sui porti e gli approdi turistici della Toscana";

· LR 52/99 “Norme sulle concessioni e le denunzie di attività edilizie”;

· LR 38/98 Governo del tempo e dello spazio urbano e pianificazione degli orari della città

· L.R. 78/98 Testo Unico in materia di cave, torbiere, miniere, recupero di aree escavate e riutilizzo di residui recuperabili.

· la normativa urbanistica relativa alle aree per l'edilizia residenziale o produttiva di iniziativa pubblica e privata (lottizzazioni, piani particolareggiati, aree "167", aree P.I.P. ecc.);

· la normativa urbanistica relativa ai parchi regionali.

· la normativa urbanistica relativa al commercio

In questa operazione si è affrontato il tema importante della disciplina paesaggistica. Per quanto ci riguarda intendiamo riaffermare la convinzione che da sempre ci ha caratterizzato, secondo la quale la presenza di un piano dotato di specifiche norme sulla qualità paesaggistica e architettonica degli interventi da trasporre nella disciplina urbanistica locale, possa e debba costituire condizione per una modalità di gestione della tutela del paesaggio diversa da quella attuale. Il riconoscimento della sussistenza nel piano di tali norme si porrebbe infatti come condizione di garanzia della correttezza e della qualità degli interventi più efficace ed efficiente dell’attuale procedimento autorizzativo. La compatibilità di questi ultimi con il piano, quindi, potrebbe essere adeguatamente verificata in ambito comunale, risultando non più necessario il puro vincolo passivo e la modalità autorizzativa della tutela.

APPORTARE I CORRETTIVI CHE RISULTANO OPPORTUNI IN BASE ALL’ESPERIENZA DI QUESTI ANNI DI GESTIONE DELLA 5/95

Occorre precisare la definizione dei contenuti degli strumenti del governo del territorio (PIT regionale, PTC provinciali, PS comunali) secondo i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, prevedendo per ognuno una parte “statutaria” strutturale ed una parte strategica più direttamente operativa;

E’ necessario rafforzare il controllo del Piano strutturale sulla gestione delle trasformazioni (regolamento urbanistico e piano complesso)

La nuova legge dovrà infine garantire la continuità, e la permanente adeguatezza e la certificabilità dei dati conoscitivi su cui si fonda e si valuta l’azione di governo del territorio, evitando vuoti di conoscenza, ridondanze, duplicazioni e costi economici fortemente crescenti a carico delle istituzioni e dei privati.

[1]Come emerge chiaramente, in Toscana, ci siamo orientati nel considerare la nozione “governo del territorio”, seguendo l’evoluzione delle elaborazioni disciplinari, amministrative e politiche di cinquant’anni intorno alla materia “urbanistica”,, dal concetto ridotto della legge del 1942, alla pan-urbanistica degli anni settanta, così estesa con il DPR 616 del 1977 da diventare un’altra cosa, così come, fin dalla nascita delle Regioni ordinarie, il regionalismo riformista auspicava e indicava.

In Toscana abbiamo dunque applicato il principio della continuità e al contempo il principio della continenza (nel più sta il meno), per cui nella nozione “governo del territorio” da una parte la consideriamo come la sintesi politica ed amministrativa più alta sul territorio, cioè quel complesso di istituti ed azioni che presiedono alla definizione, regolamentazione, controllo e gestione della principale risorsa in mano pubblica: il territorio, le sue regole, i suoi principi; dall’altra come inclusiva di tutti quegli aspetti tecnico-organizzativi che permettono di trasferire la sintesi nell’agire: l’urbanistica e l’edilizia in primis. Cioè il cuore normativo del governo del territorio è rappresentato anche dalla regolamentazione urbanistica e da quella edilizia, ma anche dalle regolamentazioni del paesaggio, dell’ambiente, ecc.

[2] Ad esempio, l’art. 9 della costituzione recita infatti che “la Repubblica…. tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico”; sottolineo la Repubblica, che come recita il successivo art. 114 “è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo stato”. E questo, operativamente, vuole pur dire qualcosa).

[3] Alla data del maggio 2003, dei 79 Piani strutturali giunti all’approvazione il più rapido è stato il caso di Bientina (PI) con soli 352 giorni effettivi; il più lento è stato quello di Terricciola (PI) con 2.419 giorni. La media tra tutti i piani strutturali approvati è di 1.245 giorni.

Alla stessa data, dei 39 Piani regolatori completi (Ps + Ru) il più veloce è stato quello di Bagno a Ripoli (FI), che ha chiuso l’intera procedura in 688 giorni effettivi; il più lungo quello di Scarlino (GR), che ha impiegato 2.450 giorni. La media è risultata pari a 1.506 giorni.

I dati si riferiscono al periodo che va dall’avvio delle elaborazioni all’entrata in vigore delle disposizioni. Entro cinque anni, l’arco del mandato amministrativo, nel 77% dei casi il piano giunge alla sua completa formalizzazione.

Prima della riforma i tempi di ratifica istituzionale non considera il periodo di elaborazione del progetto che nella maggior parte dei casi va attorno ai due anni: il 93% degli strumenti urbanistici necessita di altri tre anni per la sola fase di ratifica istituzionale, dall’adozione del piano all’esame regionale alla definitiva approvazione; addirittura il 37% supera la soglia dei cinque anni. Ciò significa che, sovente, una diversa Giunta comunale si trova a dover sostenere davanti agli organi tecnici regionali uno strumento urbanistico generale che non ha contribuito a definire.Infinitamente più breve è oggi il periodo di formazione delle varianti, che nei casi più semplici non supera i sei mesi dall’inizio delle elaborazioni all’efficacia.

[4]

[5] Vedi scheda n. 1 allegata

[6] Vedi scheda n. 2 allegata

[7] Vedi scheda n. 3 allegata

Il testo è scaricabile qui:

Il golpe di Capodanno si consuma dentro al consiglio dei ministri e prende la forma di un decreto legge che, di fatto, consegna al titolare delle Infrastrutture il potere di nominare o di rimuovere direttamente, senza nemmeno sentire gli enti locali, i presidenti delle autorità portuali. Un passo indietro clamoroso, che cancella gli ultimi vent’anni di battaglie sulle banchine italiane, combattute nel nome dell’autonomia, e riporta al centro il potere di nomina e di veto degli uomini e delle donne chiamati a guidare i porti. Un colpo a sensazione firmato dalla maggioranza che ci aveva già provato un paio di settimane fa, con un emendamento alla legge finanziaria. Allora il progetto era naufragato miseramente. Ma l’intenzione è rimasta e si è concretizzata ieri sera, nell’ultimo consiglio dei ministri dell’anno, al riparo da ogni possibile attacco. Ha atteso quasi la fine del suo mandato, il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, per sferrare l’attacco finale al cuore della portualità italiana. Non a caso, il provvedimento è diretto al controllo del potere di nomina dei presidenti di dodici porti considerati strategici per il Paese. Due di questi, Genova e La Spezia, sono in Liguria. Uno è appena più sotto, in Toscana, a Livorno. Con l’eccezione di Savona, quindi, l’intero sistema dell’Alto Tirreno è consegnato nelle mani del ministro. È lui a decidere il nome del presidente e a comunicarlo. Il provvedimento, spiega un portavoce del consiglio, è finalizzato a fermare questa stagione senza fine di ricorsi al Tar contro ai commissari nominati dal ministro. Di sicuro, con un provvedimento del genere, si cancellerà anche la possibilità di ricorrere al tribunale amministrativo, ma soltanto perché il ministro si arroga il diritto esclusivo di nomina. Inevitabili saranno le proteste del mondo del mare, già mortificato nei giorni scorsi dai tagli della Finanziaria e addirittura ridicolizzato da un altro esponente del governo, il ministro dell’economia Tremonti, che nel salotto di Porta a Porta ha dichiarato che la portualità italiana non va sostenuta perché alimenta il flusso crescente di merce in arrivo dall’Asia e dalla Cina in particolare. Se non ci fossero le registrazioni non ci sarebbe quasi da crederci. Invece è la verità. La verità di un governo che, a più riprese, non ha mai dimostrato di amare il suo mare e di considerarlo strategico.

1. Redigere la comunicazione richiesta implicava il rinvenire, e sommariamente valutare, l’insieme delle disposizioni presenti nell’insieme della produzione legislativa regionale riconducibili alla finalità di contenere al massimo l’utilizzazione del territorio non urbanizzato, sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale, per realizzarvi nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali, e comunque manufatti diversi da quelli strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale. Ho quindi verificato se la finalità dianzi enunciata è espressa come propria della legislazione regionale, ovvero dell’attività di governo del territorio dalla prima regolamentata, e se era stato previsto e approntato qualche strumento per assicurare il perseguimento della medesima predetta finalità. Ho inoltre esaminato se la legislazione delle diverse regioni avesse specificamente disciplinato le trasformazioni ammissibili nel territorio non urbanizzato e ho verificato se e in che misura le discipline dettate, ove lo fossero state, si allontanassero dal modello di disciplina che, compiendo la mia opzione certamente più soggettiva e quindi discutibile, ho qualificato (nei suoi elementi essenziali) come ottimale.

2. L’assunzione dell’ultimo criterio ora detto mi impone di provvedere, prima di procedere all’esposizione, secondo i suesposti criteri, di contenuti delle legislazioni regionali, a esplicitare quale sia, secondo il mio parere, quello che ho qualificato, per l’appunto, come ottimale modello di disciplina delle trasformazioni ammissibili nel territorio non urbanizzato. Ritengo che il principio che si deve assumere senza eccezione alcuna sia quello per cui nel territorio non urbanizzato possono definirsi ammissibili nuove costruzioni, demolizioni e ricostruzioni, consistenti ampliamenti, di edifici, solamente se strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali, ovvero da piani equipollenti previsti dalle leggi. Le predette trasformazioni devono essere assentite previa sottoscrizione di apposite convenzioni nelle quali sia prevista la costituzione di un vincolo di inedificabilità, da trascrivere sui registri della proprietà immobiliare, fino a concorrenza della superficie fondiaria per la quale viene assentita la trasformazione, nonché l'impegno a non operare mutamenti dell’uso degli edifici, o delle loro parti, attivando utilizzazioni non funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, e a non frazionare né alienare separatamente i fondi per la parte corrispondente all'estensione richiesta per la trasformazione ammessa. Devono essere disciplinate altresì le trasformazioni ammissibili dei manufatti edilizi già esistenti con utilizzazioni in atto non strettamente funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, limitandole a quelle di manutenzione, di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia senza ampliamenti, ovvero con ampliamenti fortemente contenuti. Parimenti devono essere disciplinati i mutamenti dell’uso dei manufatti edilizi esistenti alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni di legge. Nei casi di attivazione di utilizzazioni funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale devono valere le disposizioni attinenti le omologhe trasformazioni fisiche. Deve essere prevista la demolizione dei manufatti edilizi già utilizzati come annessi rustici, qualora perdano la destinazione originaria e per la parte in cui abbiano entità dimensionale eccedente le determinazioni delle leggi o degli strumenti di pianificazione, e siano privi di interesse anche soltanto storico-testimoniale. In ogni caso deve essere previsto che siano disposte ulteriori limitazioni, fino alla totale intrasformabilità, relativamente al territorio non urbanizzato, o a sue definite articolazioni, per ragioni di fragilità del territorio, ovvero per finalità di tutela del paesaggio, dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali e dell’interesse storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale, del patrimonio edilizio esistente.

3. Fatta questa indubbiamente lunga, ma non sopprimibile, premessa, vengo all’esame, sotto il profilo dei primi due caratteri assunti come significativi e dianzi enunciati, degli ordinamenti legislativi delle singole regioni, anzi delle leggi unitarie e organiche in materia di governo del territorio di cui si sono ormai dotate tutte le regioni italiane, tranne, tra quelle “a statuto speciale”, la Regione Sicilia, e, tra quelle “a statuto ordinario”, la Regione Molise, stante che è in questa tipologia di leggi che, constatamente, si rintracciano, laddove esistano, contenuti che, per l’appunto, si riferiscano ai suddetti primi due caratteri. Le Regioni Abruzzo, Basilicata, Lazio, Marche, Puglia, Sardegna e Umbria non enunciano, nelle rispettive leggi, finalità di contenimento dell’uso del territorio non urbanizzato. Alcune tra loro, peraltro, prevedono che la pianificazione comunale, nel calcolare i fabbisogni di spazi per le diverse funzioni, sia tenuta a rispettare disposizioni dettate dalla medesima regione (Regione Puglia, Regione Sardegna), oppure dalla medesima regione e, in via specificativa, dalla pianificazione provinciale (Regione Lazio), oppure ancora dalla sola pianificazione provinciale (Regione Abruzzo, Regione Marche). Analogamente, le Province autonome di Trento e di Bolzano, pur non affermando nello strumento legislativo finalità di contenimento dell’uso del territorio non urbanizzato, deferiscono la disciplina dei dimensionamenti delle trasformazioni edilizie e urbanistiche all’attività pianificatoria, fortemente gerarchizzata, sovraccomunale e comunale. Al contrario, finalità di contenimento dell’uso del territorio non urbanizzato, formulate variamente e con assai diversa perentorietà, sono espressamente proclamate nelle leggi in materia di governo del territorio delle Regioni Calabria, Campania, Emilia – Romagna, Friuli – Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Toscana, Valle d’Aosta e Veneto. Tra di esse, alcune prevedono anche che la pianificazione comunale, nel perseguire la prescritta finalità, debba adeguarsi a più puntuali disposizioni dettate dalla medesima regione (Regione Friuli – Venezia Giulia, Regione Valle d’Aosta, Regione Veneto), oppure dalla medesima regione e, in via specificativa, dalla pianificazione provinciale (Regione Calabria, Regione Emilia – Romagna, Regione Liguria), oppure ancora dalla sola pianificazione provinciale (Regione Campania). Altre invece affidano interamente il rispetto della proclamata finalità alla pianificazione comunale (Regione Lombardia, Regione Piemonte, Regione Toscana).

4. Per concludere, cioè per assolvere il compito prefissomi, procedo ora a esporre se e in quali termini la legislazione delle diverse regioni abbia specificamente disciplinato le trasformazioni (fisiche e/o funzionali) ammissibili nel territorio non urbanizzato, e se e in che misura le discipline dettate si approssimino o si allontanino dal modello di disciplina che ho all’inizio di questa comunicazione qualificato come ottimale. Delle regioni che si sono dotate, in tempi più o meno recenti, di una legge unitaria e organica in materia di governo del territorio, o almeno di pianificazione, la Regione Friuli – Venezia Giulia, la Regione Valle d’Aosta, la Regione Basilicata e la Regione Puglia non vi hanno affrontato lo specifico argomento del quale si sta trattando, il quale non è, da tali regioni, normato neppure da specifici provvedimenti legislativi di settore. Lo specifico argomento del quale si sta trattando è invece direttamente affrontato nella legge unitaria e organica in materia di governo del territorio, o almeno di pianificazione, delle Regioni Abruzzo, Calabria, Liguria, Lazio, Lombardia, Emilia – Romagna, Piemonte, Toscana, Umbria, Veneto, nonché delle Province autonome di Trento e di Bolzano. Gli elementi salienti del modello di disciplina che ho qualificato come ottimale sono peraltro presenti, in misura più o meno compiuta, ma accettabilmente soddisfacente, soltanto nelle leggi delle Regioni Calabria, Lazio, Piemonte, Umbria, e soprattutto in quelle delle Regioni Toscana e Veneto, nonché in quella della Provincia autonoma di Bolzano, mentre possono innestarsi quasi naturalmente (ma non vincolativamente) nelle disposizioni per il territorio rurale dettate dalla Regione Emilia – Romagna e, per contro, sono resi in termini parziali e quasi (verrebbe da dire) caricaturali, nella legge della Regione Lombardia. Due regioni non hanno affrontato lo specifico argomento del quale si sta trattando nelle rispettive leggi unitarie e organiche in materia di governo del territorio, ma ne hanno fatto oggetto di specifici provvedimenti normativi di settore: si tratta della della Regione Sardegna e della Regione Marche. In entrambi i casi sono presenti elementi del modello di disciplina che ho qualificato come ottimale, ma in termini assolutamente parziali e insufficienti. Costituisce un caso a sé la Regione Campania, che nella propria legge unitaria e organica in materia di governo del territorio, provvede, abrogando espressamente disposizioni di leggi previgenti, a far salvi, tra l’altro, alcuni elementi, presenti nella propria previgente legge più ricca di disposizioni sulla pianificazione comunale, che costituiscono, in sostanza, confusi lacerti del modello di disciplina che ho qualificato come ottimale.

C'è anche il silenzio-assenso per la concessione edilizia nel disegno di legge sul governo del territorio approvato dalla Camera martedì. L'ha introdotta, proprio all'ultimo comma, l'ultimo emendamento approvato su proposta di Forza Italia: quello che introduce l'articolo 13 con l'elenco delle norme da considerare abrogate in quanto incompatibili con la nuova disciplina. Il silenzio assenso sostituisce il silenzio rifiuto previsto oggi al comma 9 dell'articolo 20 del testo unico sull'edilizia ( Dpr 380/ 2001).

La modifica, qualora la legge fosse approvata anche dal Senato, comporterebbe un ulteriore spostamento delle domande dallo strumento della Super Dia, prevista nello stesso testo unico, verso la concessione. Un movimento già in atto, visto che non pochi sostengono già oggi che il procedimento della Super Dia tutela poco chi lo utilizza nel caso di pesanti operazioni di ristrutturazione.

A confermare il passo indietro sulla Superdia è lo stessa legge varata da Montecitorio.

Dopo il braccio di ferro con cui lo Stato aveva imposto alle Regioni l'allargamento della Dia, ora la " legge Lupi", attentissima a un rapporto equilibrato con i Governatori, fa una parziale marcia indietro: e lascia libere le Regioni, con il comma 1 dell'articolo 11, di individuare « le categorie di opere e i presupposti urbanistici in base ai quali l'interessato ha la facoltà di presentare la denuncia di inizio attività in luogo della domanda di permesso di costruire » .

Ma la legge sul governo del territorio è soprattutto riforma della legge urbanistica del 1942 ( è la n. 1150) e ammodernamento degli strumenti urbanistici.

Con l'obiettivo di sanare dieci anni di ritardo della legislazione statale rispetto alle legislazioni regionali e di consolidare le discipline regionali, andate avanti a forza di strappi. Formalmente, la legge approvata a Montecitorio è anche la prima legge di principi dello Stato sulle materie a competenza concorrente. Una legge leggera nella forma ( qualche detrattore la definisce " legge di slogan") ma pesante nella sostanza. Il salto rispetto alla disciplina statale vigente è enorme — una specie di crollo del muro di Berlino — con l'abbandono della vecchia urbanistica dirigista fondata sul Piano regolatore unico e sugli espropri e l'avvio di una nuova urbanistica cui non manca nessuno degli strumenti innovativi sperimentati dalle Regioni in questi anni: ! lo sdoppiamento del vecchio Piano regolatore generale, ora « piano urbanistico » comunale in « strutturale » per le invarianti di lungo periodo e « operativo » con le destinazioni di uso delle aree ( articolo 6); " l'utilizzo di strumenti di redistribuzione dei « diritti edificatori » all'interno di comparti omogenei, come la compensazione e la perequazione ( articolo 9); la priorità data agli interventi di rinnovo urbano rispetto alla nuova edificazione ( articolo 6, comma 4); il principio di sussidiarietà verticale che elimina le sovrapposizioni di competenza fra Regioni, Province e Comuni, assegnando al Comune le competenze di pianificazione urbanistica e di « soggetto primario titolare delle funzioni di governo del territorio » ( articolo 5); le premialità assegnate in termini di metri cubi aggiuntivi « al fine di favorire il rinnovo ubrano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici » ( articolo 9, comma 4); la legittimazione definitiva di strumenti di urbanistica negoziata che qui vengono individuati come prioritari ed elevati a sistema, per quanto debbano avvenire « nel rispetto dei principi di imparzialità amministrativa, di trasparenza, di concorernzialità, di pubblicità e di partecipazione al procedimento di tutti i soggetti interessati all'intervento » ( articolo 5, comma 4); la sostanziale riforma degli « standard » che abbandona il rigido rapporto quantitativo fra aree edificabili e aree da destinare agli interessi collettivi per prevedere, invece, in funzione della necessità delle singole aree, lo sviluppo di servizi adeguati ( si pensi a parcheggi o a centri sportivi) che potranno anche essere forniti direttamente da privati anziché attraverso il circuito esproprio opera pubblica ( articolo 7). Recepiti gli strumenti sperimentati in sede locale Dai privati le aree per parcheggi e centri sportivi

Una spinta all'innovazione

I provvedimenti regionali che hanno anticipato le nuove regole

Piano regolatore più flessibile, co pianificazione tra enti territoriali, perequazione di diritti edificatori, programmi pubblico privato, piano dei servizi.

Da dieci anni l'innovazione in materia di leggi urbanistiche arriva dalle Regioni, con lo Stato nel ruolo di vecchio padre tollerante, in ritardo nel seguire le novità ma quasi mai rigido nel dare via libera agli strappi rispetto alle leggi statali vigenti. Per la maggior parte delle Regioni, dunque, 13 su 21, molte delle novità della " legge Lupi" sono già in vigore.

Dalla fine del 2001, poi, con l'entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione, è scomparso anche il visto preventivo del Governo sulle leggi regionali, e la spinta all'innovazione ha accelerato ancora di più.

La prima riforma urbanistica è arrivata dalla Toscana, con la legge 5 del 16 gennaio 1995. Prima di allora le Regioni, pur titolari fin dal 1970 della potestà legislativa concorrente in materia urbanistica, si erano limitate a fare leggi fotocopia rispetto alla legislazione statale. Ma dal 1995 è partita un'ondata riformatrice che ha coinvolto 13 Regioni su 21. Il vecchio piano regolatore, dettagliato e rigido, è rimasto solo in Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Provincia di Trento, Marche, Abruzzo, Molise, Sardegna e Sicilia. E di fatto anche in Puglia, dove la legge del 2001 è ancora priva dell'indispensabile regolamento attuativo.

Tra leggi di centrosinistra ( le prime e più numerose) e leggi di centrodestra, sono più le analogie che le differenze. Il trend riformatore è stato in gran parte unitario, sulla base delle idee lanciate dall'Inu ( Istituto nazionale di urbanistica) a inizio anni 90.

Il concetto base che troviamo in tutte le leggi regionali è l'obiettivo di rendere il piano urbanistico comunale più flessibile dividendolo in due: da una parte il piano strutturale, con gli indirizzi di fondo e i vincoli ambientali, valido a tempo indeterminato e non conformativo della proprietà, con indicazioni non dettagliate su indici edificatori e destinazioni; e dall'altra il piano operativo, dove si prevedono le grandi trasformazioni da attuare in cinque anni. Gli indirizzi di fondo, flessibili, restano stabili, ma i dettagli e la scelta delle aree prioritarie si decidono in base al mercato e alle scelte del sindaco.

Importante anche la disciplina dettagliata delle aree già costruite, con la possibilità di fare interventi di recupero senza aspettare fantomatici piani particolareggiati che per decenni avevano ingessato i centri storici. Questa è contenuta di solito in regolamenti urbanistici da approvare insieme al piano strutturale, ma nelle leggi più recenti, con ulteriore semplificazione, è stata incorporata nello stesso piano strutturale: così in Campania ( legge regionale 22 dicembre 2004, n. 16), Umbria ( 22 febbraio 2005, n. 11) e Lombardia ( 11 marzo 2005, 12).

Sempre presente anche la copianificazione Regione Provincia Comune e i programmi complessi pubblico privato, e quasi sempre la perequazione urbanistica, cioè l'assegnazione di diritti edificatori che rende più equa ed efficace la trasformazione urbana.

In ordine sparso sono invece arrivate altre innovazioni. Toscana e Lombardia hanno lanciato per prime, nel 1999, la Superdia in alternativa alla concessione edilizia, poi recepita nel 2002 a livello nazionale. La stessa Lombardia, sempre nel 1999, ha introdotto il concetto di standard prestazionale ( non in metri quadrati) per i servizi pubblici, previsto poi anche dall'Emilia Romagna ( legge 20/ 2000) e dalla Calabria ( 19/ 2002).

Lo stesso accordo con soggetti privati ai fini della pianificazione, uno dei punti innovativi della legge Lupi, è stato inventato dalla legge Emilia Romagna del 2000, ed è presente anche nella legge Veneto 11/ 2004.

Lo strappo più forte è comunque arrivato dalla Lombardia, con una legge ( la 12/ 2005) diversa da tutte le altre. Alla parte strutturale del piano, infatti, non segue un piano operativo generale su tutta la città, ma direttamente i piani attuativi su singole aree. Peso decisivo è così dato alle proposte dei privati e alle scelte caso per caso che su di esse fa la Giunta comunale ( i piani non vanno in Consiglio). La Lombardia da quest'anno punta all'attuazione su singole aree

30 giugno 2005

I “principi” della nuova legislazione

I "princìpi" della legislazione nazionale

Com’è noto, l’autonomia legislativa delle regioni in materia urbanistica deve esplicarsi nell’ambito dei principi della legislazione nazionale: principi derivanti da una legislazione nazionale d’inquadramento ad hoc, o principi desumibili dalla legislazione previgente. Non esiste una nuova definizione legislativa in materia. Esistono proposte, più o meno solide nel consenso ottenuto ma ancora prive di vigenza. Alcune di queste proposte (in particolare quelle che hanno ottenute, nelle due ultime legislature, il più vasto consenso) inseriscono tra i principi il meccanismo di pianificazione che ho prima illustrato. Ma oramai, per quanto riguarda il nuovo assetto interno del meccanismo di pianificazione, è difficile che il legislatore nazionale modifichi norme ormai consolidate a livello regionale. Conviene invece affrontare la questione dei principi a proposito di un tema nel quale l’intervento del Parlamento è senz’altro necessario: quello della ripartizione delle competenze, e dei raccordi istituzionali, nel rapporto tra i diversi livelli di governo: nazionale, regionale, provinciale, comunale.

Il “principio di pianificazione”

A mio parere non c’è reale e sostanziale differenza tra pianificazione territoriale e pianificazione urbanistica. La pianificazione infatti è, a mio parere, il metodo generale che gli enti pubblici elettivi di primo grado (in Italia: comuni, regioni, province, stato) adottano quando effettuano scelte suscettibili di incidere sull’assetto fisico e funzionale del territorio.

Questo criterio può essere definito come “principio di pianificazione”, e può essere così espresso. ogni ente elettivo di primo grado, rappresentante di interessi generali della cittadinanza, esprime le proprie scelte sul territorio mediante atti di pianificazione: atti cioè nei quali le scelte siano esplicite, chiaramente definite nei confronti di tutti, trasparenti e - ovviamente - precisamente riferite al territorio, cioè rappresentate su di una base cartografica di scala adeguata alla maggiore o minore definizione e precettività delle scelte.

Qusto principio è stato espresso in modo molto chiaro fin dal 1988, nell’ambito della “Commissione incaricata di procedere al riordinamento delle disposizioni legislative nazionali in materia di procedure urbanistiche, uso e assetto del territorio”, istituita dal Ministro Enrico Ferri e presieduta dal Direttore generale Vezio De Lucia. Il documento pone, al primo posto tra i principi da definire nella legislazione nazionale,

L'assunzione del metodo della pianificazione come criterio fondamentale di guida delle azioni della Pubblica amministrazione suscettibili di incidere nell'assetto del territorio.

Il medesimo principio è praticamente assunto - in modo più o meno chiaro - da tutti i disegni di legge in materia di urbanistica presentati al Parlamento. Ad esempio, la proposta di legge presentata nel luglio 1997 dai deputati del Pds recita:

1. Al governo del territorio si provvede mediante la predisposizione di piani territoriali e urbanistici, nonché di eventuali piani specialistici e di settore, e mediante la programmazione dei relativi interventi.

2. La predisposizione e l’approvazione di piani territoriali e urbanistici, e di piani specialistici e di settore, competono allo Stato, alle regioni, alle province, sulla base di quanto prescritto dalla presente legge e dalle leggi vigenti in materia di difesa del suolo, di tutela dell’ambiente e dei beni culturali.

3. Gli atti riguardanti trasformazioni fisiche e funzionali del territorio e degli immobili che lo compongono devono essere conformi agli strumenti di pianificazione e programmazione [i].

Se Stato, regioni, province e comuni hanno tutti poteri e competenze che comportano l’assunzione di decisioni suscettibili di modificare l’assetto del territorio, e se ciascuno di questi enti deve esercitare tali poteri mediante la pianificazione[ii], come fare per regolare, in modo corretto e compiuto, i rapporti tra tali livelli di governo (e i corrispondenti atti di pianificazione)? È un problema che è decisivo risolvere in modo convincente.

Il principio di sussidiarietà

Esistono molti modi di ripartire le competenze tra soggetti di diverso livello. Un tempo si praticava una ripartizione basata sulle “materie” (gli acquedotti spettano a Tizio, i trasporti a Caio, l’ambiente a Sempronio). Si può dire che questa concezione ha prevalso nel nostro paese grosso modo fino ai decreti di trasferimento delle competenze alle regioni, nel 1977. Oggi il criterio prevalente è quello di riferire le competenze a oggetti [1] e aspetti, adoperando per la ripartizione un criterio adottato dagli organismi europei per distinguere le competenze tra la responsabilità comunitaria e quella dei singoli stati. Si tratta del “principio di sussidiarietà”. In che cosa consiste? Riferiamoci al testo del Trattato dell’Unione Europea, solennemente sottoscritto a Maastricht dai rappresentanti di dodici governi il 7 febbraio 1992. L’articolo 3b afferma:

La Comunità interviene entro i limiti dei poteri ad essa conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ad essa assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità.

Il principio di sussidiarietà significa perciò che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (lo Stato nei confronti della Regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.

Così, ad esempio, si può mai ipotizzare che una strada di grande comunicazione, magari connessa a un sistemi di itinerari europei, abbia rilevanza solo regionale? È certamente un’opera di scala almeno nazionale, come lo è un elemento del sistema portuale o aeroportuale nazionale: per la sua scala, appunto, e non per l’ente che vi ha competenza amministrativa o patrimoniale. Forse che la grande rete dei trasporti, che connette le varie parti del paese e i nodi del sistema insediativo e di quello produttivo, non è al servizio della “Azienda Italia” nel suo complesso? E non richiede perciò forse un loro “governo” alla scala dell’intera nazione?

Del tutto analogo il ragionamento nel campo dell’ambiente. Del resto, con la legge 431/1985 si era affermato un modo di connettere le responsabilità dei livelli di governo, distinguendone le competenze in relazione alla scala degli interessi territoriali coinvolti, del tutto coerente con il principio di sussidiarietà (nella sua accezione europea, non in quella padana). Quella legge determinava infatti e vincolava, come abbiamo visto, i grandi elementi del paesaggio nazionale, rilevanti alla scala dell’intera Penisola (l’orditura del paesaggio costituita dalle montagne, le coste, i fiumi, i boschi) impegnando regioni, province e comuni ad approfondire l’analisi e le scelte di tutela alla loro scala.

E ancora. Se le opere di grande scala e la tutela del paesaggio sono responsabilità e competenza del governo nazionale (poiché solo a questa scala possono essere efficacemente governati), se alla medesima responsabilità e competenza appartiene orientare l’insieme delle politiche economiche e sociali (poiché il nostro capitalismo a tutto è disposto a rinunciare, non a essere assistito), come quelle per la mobilità e i trasporti, è davvero “moderno” e “federalista” rinunciare ad applicare quella responsabilità di definizione delle “linee fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”, che il Dpr 616/1977 attribuiva allo Stato? In effetti, se Il principio della sussidiarietà ci dice che il l’assetto del territorio nazionale non può nascere dall’assemblaggio delle singole decisioni regionali, il principio della pianificazione ci dice che i problemi delle reti e delle loro connessioni, quello dell’ambiente e delle risorse naturali e storiche, quello del sistema insediativo, non possono essere affrontati separatamente: a meno che non si voglia rischiare ancora i conflitti, le paralisi, le inefficienze che inevitabilmente nascono quando le decisioni relative a singole parti di un sistema solidale vengono prese separatamente.

La pratica della concertazionetra gli interessi generali

Accanto al principio della sussidiarietà, gli stessi orientamenti legislativi nazionali suggeriscono l’introduzione di una pratica: quella della concertazione. Si tratta, per la verità, di una pratica presente da decenni nella tradizione delle amministrazioni centrali dello Stato.

Le leggi regionali nuove (o, almeno, la maggior parte di esse) definisce questa pratica inventando un nuovo istituto (prevalentemente denominato “Conferenza di pianificazione”), e attribuendogli un ruolo di consultazione obbligatoria del corso del procedimento formativo degli atti di pianificazione. È interessante osservare che le regioni tendono, giustamente, a distinguere il ruolo degli enti pubblici da quello dei privati, riservando le conferenze di pianificazione (o simili) ai rappresentanti dei primi. Alcune, poi, distinguono il ruolo di partecipazione consultiva dei privati privilegiando (o riservando la partecipazione) alle associazioni che esprimono interessi diffusi.

Altrettanto rilevante è che le leggi regionali tendano a chiudere i troppi varchi che la legislazione statale ha aperto, con i numerosissimi “strumenti urbanistici anomali”, alla deroga generalizzata al sistema di garanzie che le procedure della formazione dei piani vuole assicurare. Anche nel caso di “acordi di programma” o di altre intese potenzialmente derogatorie, la maggior parte delle leggi regionali ribadiscono la necessità dell’approvazione esplicita da parte degli organi collegiali delle amministrazioni elettive interessate, e quella della sostanziale conformità alle regole, oltre che alle finalità, degli strumenti urbanistici ordinari.

Dall’approvazione alla”verifica di conformità”

Assumere pienamente il principio di sussidiarietà, distinguere le competenze per oggetti e aspetti anziché per materie consente di definire in modo soddisfacente e innovativo il rapporto tra i livelli di governo nelle procedure di formazione. Queste, come ho affermati fin dai primi capitoli, costituiscono un problema essenziale di qualsiasi processo di pianificazione legato ai procedimenti e agli istituti della democrazia rappresentativa. Fino ad oggi, il procedimento di formazione garantiva che gli interessi espressi dal livello di governo sovraordinato fossero tenuti in debito conto mediante l’istituto della approvazione. L’altro ieri lo Stato, ieri le regioni, oggi sempre più frequentemente le province approvano i piani comunali; la regione approva i piani provinciali (lo Stato decide e incide, ma non lo dice). L’assunzione del principio di pianificazione consente finalmente di risolvere questo problema in modo diverso.

Si tratta, in definitiva, di stabilire che, poiché ogni livello di governo esprime i propri interessi sul territorio (nei limiti che il principio di sussidiarietà attribuisce alla sua responsabilità) mediante un atto di pianificazione, all’approvazione (cioè all’ingerenza tendenzialmente discrezionale del livello sovraordinato sulle decisioni del livello sottordinato) si sostituisce la mera “verifica di conformità”: ossia la verifica che l’atto di pianificazione del livello sottordinato non sia difforme rispetto alle prescrizioni del livello sovraordinato. Si tratta, evidentemente, di un atto molto più snello e meno “impiccione” dell’approvazione.

Le leggi delle regioni

Le nuove leggi

Entriamo adesso più direttamente nell’esame di alcuni contenuti delle leggi regionali. Come ho accennato, fino all’inizio degli anni Novanta le regioni hanno legiferato agendo, nella generalità dei casi, nell’ambito del sistema della legge 1150 del 1942. È solo dopo l’entrata in vigore delle nuove norme sull’ordinamento degli enti locali (legge 142 del 1990) che nelle regioni si apre una nuova fase, ricca di innovazioni anche sostanziali. Le leggi più rilevanti mi sembrano le seguenti: Toscana, legge 5 del1995; Umbria, legge 28 del 1995 e legge 31 del 1997; Liguria, legge 36 1997; Basilicata, legge 23 del 1999; Lazio, legge 38 del 1999; EmiliaRomagna, legge 217 del 2000. Ne illustrerò alcuni aspetti che mi sembrano più significativi in relazione a quanto ho finora esposto. D’ora in avanti mi riferirò alle leggi tralasciando il numero e l’anno, e indicando solo il nome della regione.

I livelli di pianificazione

Tutte le regioni assumono come principio quello stabilito dalla 142 del 1990, in ordine alla individuazione, a livello substatuale, di tre livelli di pianificazione, corrispondenti ai tre livelli di governo elettivo di primo grado a rappresentanza generale: la Regione, la Provincia, il Comune. Le leggi regionali attribuiscono tutte il massimo valore precettivo e riassuntivo alla pianificazione comunale, attribuendo invece significati e perentorietà diverse alle pianificazioni regionale e provinciale.

Esse danno anche nomi diversi ai diversi documenti di pianificazione: la mancanza di un coordinamento nazionale sta provocando qualche problema dal punto di vista della comprensione da parte dei cittadini, italiani ed europei, i quali si trovano di fronte a oggetti spesso simili denominati in modo spesso molto diverso. Come si vede nella seguente tabella 1.

Tabella 1 – Denominazione degli strumenti di pianificazione generale, per livello


Regione Anno,

n° lex
Regionale Provinciale Comunale
Toscana 1995, n. 5

Piano di indirizzo territoriale[2]

Piano territoriale di coordinamento

Piano regolatore generale:

Piano strutturale

Regolamento urbanistico

Programma ntegrato d’intervento
Umbria 1995, n. 28

1997, n. 31

Piano urbanistico territoriale[3]

Piano territoriale di coordinamento provinciale[4] Piano regolatore generale comunale:

Parte strutturale

Parte operativa
Liguria 1997, n. 36

Piano territoriale regionale:Quadro descrittivoDocumento degli obiettiviQuadro strutturale

Piano territoriale di coordinamento provinciale:

Descrizione fondativa

Documento degli obiettivi

Struttura del piano
Piano urbanistico comunale:

Descrizione fondativa

Documento degli obiettivi

Struttura del piano

Norme di conformità e di congruenza
Basilicata 1999, n. 23 Carta regionale dei suoli

Quadro strutturale regionale

Piano strutturale provinciale

Piano strutturale comunale

Piano operativo

Regolamento urbanistico

Lazio 1999, n. 38 Piano territoriale regionale generale:

Disposizioni strutturali

Disposizioni programmatiche
Piano territoriale provinciale generale:

Disposizioni strutturali

Disposizioni programmatiche
Piano urbanistico comunale generale:

Disposizioni strutturali

Disposizioni programmatiche
Emilia Romagna 2000, n. 217

Piano territoriale regionale

Piano territoriale di coordinamento provinciale Piano strutturale comunale

Regolamento urbanistico ed edilizio

Piano operativo comunale

L’articolazione degli atti di pianificazione

Tutte le leggi regionali cui mi riferisco adottano, sia pure in maniera molto diversificata, la distinzione di due (o più) componenti, o parti, o disposizioni, nell’ambito degli atti di pianificazione generale, o, più ampiamente, di più piani con differenti denominazioni, contenuti, procedure.

Tutte le leggi attribuiscono alla pianificazione di livello comunale, e ai relativi documenti, un carattere complessivo e riassuntivo di tutte le scelte sull’assetto del territorio. Lo stabilisce in modo esplicito la legge dell’Emilia Romagna (articolo 19):

1. La pianificazione territoriale e urbanistica recepisce e coordina le prescrizioni relative alla regolazione dell’uso del suolo e delle sue risorse ed i vincoli territoriali, paesaggistici ed ambientali che derivano dai piani sovraordinati, da singoli provvedimenti amministrativi ovvero da previsioni legislative.

2. Quando la pianificazione urbanistica comunale abbia recepito e coordinato integralmente le prescrizioni ed i vincoli di cui al comma 1, essa costituisce la carta unica del territorio ed è l'unico riferimento per la pianificazione attuativa e per la verifica di conformità urbanistica ed edilizia, fatti salvi le prescrizioni ed i vincoli sopravvenuti, anche ai fini dell’autorizzazione per la realizzazione, ampliamento, ristrutturazione o riconversione degli impianti produttivi, ai sensi del D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447.

In relazione anche a questo suo carattere la pianificazione comunale è sempre articolata in più elementi. Così:

la Toscana articola la pianificazione comunale in “piano strutturale”, “regolamento urbanistico” e “Programma integrato d’intervento”: il primo con un carattere di individuazione e classificazione delle risorse territoriali, il secondo con efficacia di attribuzione di prescrizioni (e valori) agli immobili, il terzo con funzione programmatica e operativa:

la Basilicata e l’Emilia Romagna articola analogamente la pianificazione comunale in “piano strutturale comunale”, “piano operativo” e regolamento urbanistico”

l’Umbria articola il piano comunale in una “parte strutturale, che individua le specifiche vocazioni territoriali a livello di pianificazione generale in conformità con gli obbiettivi ed indirizzi urbanistici regionali e di pianificazione territoriale provinciale”, e una “parte operativa, che individua e disciplina le previsioni urbanistiche nelle modalità, forme e limiti stabiliti nella parte strutturale”;

la Liguria articola il “piano urbanistico comunale” in “descrizione fondativa”, “documento degli obiettivi”, “struttura del piano”, “norme di conformità e di congruenza”;

il Lazio articola il “piano urbanistico comunale” in “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche”.

Come si vede, alcune regioni prevedono più piani, tra loro connessi ma reciprocamente autonomi, per le componenti strategico-strutturali e pre quelle più direttamente operative; altri invece articolano in più componenti un’unica figura pianificatoria generale.

Alcune leggi regionali attribuiscono l’articolazione della pianificazione in più parti o componenti anche ai livelli sovraordinati. Così:

la Liguria prevede a ciascuno dei tre livelli un documento di analisi fondativa (“quadro descrittivo” a livello regionale, “descrizione fondativa” a livello provinciale e comunale), una trascrizione precettiva di tale analisi (“quadro strutturale” e “struttura del piano”).

il Lazio prevede la distinzione tra “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche” anche a livello regionale e provinciale. In particolare, la legge stabilisce che “la pianificazione territoriale ed urbanistica generale si articola in: previsioni strutturali, con validità a tempo indeterminato, relative alla tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio regionale, alla definizione delle linee fondamentali e preesistenti di organizzazione del territorio ed alla indicazione delle trasformazioni strategiche comportanti effetti di lunga durata; previsioni programmatiche, riferite ad archi temporali determinati, dirette alla definizione specifica delle azioni e delle trasformazioni fisiche e funzionali da realizzare e costituenti riferimento per la programmazione della spesa pubblica nei bilanci annuali e pluriennali” (articolo 4).

I contenuti ambientali

In tutte le leggi considerate la tutela e la riqualificazione dell’ambiente, la sostenibilità ambientale, le risorse naturali e storiche del territorio, la sua integrità fisica e identità culturale, l’ecologia – insomma, le diverse accezioni e definizioni e accentuazion delle risorse territoriali – acquistano un peso rilevante nella indicazione dei contenuti, degli obiettivi e anche (nei casi più interessanti) nei procedimenti della pianificazione.

Tra le asserzioni di carattere generale merita di essere segnalato il testo della legge della Toscana (articolo 5 - Norme generali per la tutela e l'uso del territorio, comma 3):

“Nessuna risorsa naturale del territorio può essere ridotta in modo significativo e irreversibile in riferimento agli equilibri degli ecosistemi di cui è componente. Le azioni di trasformazione del territorio sono soggette a procedure preventive di valutazione degli effetti ambientali previste dalla legge. Le azioni di trasformazione del territorio devono essere valutate e analizzate in base a un bilancio complessivo degli effetti su tutte le risorse essenziali del territorio”.

Al di là delle dichiarazioni di volontà e d’intenti (che possono essere fuorvianti o ipocrite) conviene verificare in che modo l’interesse per le risorse del territorio si esprime nei contenuti e nei meccanismi della pianificazione. Citando ancora la legge della Toscana, la conseguenza precettiva dell’asserzione ora citata è la seguente:

“Tutti i livelli di piano previsti dalla presente legge inquadrano prioritariamente invarianti strutturali del territorio da sottoporre a tutela, al fine di garantire lo sviluppo sostenibile nei termini e nei modi descritti dall'articolo 1” (articolo 5, comma 6).

Alcune regioni attribuiscono già al livello regionale la “attenta considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Così:

La legge dell’Umbria assume come missione dell’unico strumento di pianificazione regionale, il Piano urbanistico regionale, i seguenti: “a) disciplina e configura l'assetto territoriale regionale tenuto conto della salvaguardia dell'ambiente naturale, delle strutture produttive e insediative, nonché delle reti infrastrutturali; b) stabilisce gli indirizzi generali di tutela e valorizzazione del patrimonio di interesse regionale e fissa le modalità per il loro perseguimento; c) coordina le scelte regionali con quelle di carattere sovraregionale”(articolo 5 lex 28/1995) .

La legge della Liguria attribuisce sostanziali contenuti di individuazione delle risorse paesaggistiche e ambientali sia al “quadro descrittivo” che al”quadro strutturale della pianificazione regionale (articoli 9 e 11), e prevede uno “studio di sostenibilità ambientale per le “previsioni di trasformazione territoriale prefigurate in termini di localizzazione” (articolo 11).

la legge della Basilicata dedica il più “solido” dei suoi atti di livello regionale (la “Carta dei suoli”), alla “la perimetrazione dei Sistemi (naturalistico-ambientale, insediativo, relazionale) che costituiscono il territorio regionale, individuandoli nelle loro relazioni e secondo la loro qualità ed il loro grado di vulnerabilità e di riproducibilità” (articolo 10); l’altro strumento di livello regionale, il “Quadro strutturale regionale”, che è definito “l'atto di programmazione territoriale con il quale la Regione definisce gli obiettivi strategici della propria politica territoriale, in coerenza con le politiche infrastrutturali nazionali e con le politiche settoriali e di bilancio regionali”, definisce tali obiettivi strategici solo dopo “averne verificato la compatibilità con i principi di tutela, conservazione e valorizzazione delle risorse e beni territoriali esplicitate nella Carta regionale dei suoli” (articolo 10).

La legge dell’Emilia Romagna assume che Il Piano territoriale paesistico regionale “costituisce parte tematica del PTR, avente specifica considerazione dei valori paesaggistici, ambientali e culturali del territorio regionale, anche ai fini dell'art. 149 del D. Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490” e stabilisce che “Il PTPR provvede all'individuazione delle risorse storiche, culturali, paesaggistiche e ambientali del territorio regionale ed alla definizione della disciplina per la loro tutela e valorizzazione.

La legge della Toscana e quella del Lazio non attribuiscono invece particolare evidenza al contenuto ambientale della pianificazione di livello regionale.

Nella pianificazione di livello provinciale il contenuto ambientale, è sempre indicato con particolare incisività, con efficacia precettiva diretta o almeno indiretta. Così:

in Toscana il piano territoriale provinciale contiene: “a) il quadro conoscitivo delle risorse essenziali del territorio e il loro grado di vulnerabilità e di riproducibilità in riferimento ai sistemi ambientali locali indicando, con particolare riferimento ai bacini idrografici, le relative condizioni d'uso, anche ai fini delle valutazioni di cui all'articolo 32 ; b) prescrizioni sull'articolazione e le linee di evoluzione dei sistemi territoriali, urbani, rurali e montani” (articolo 16).

In Umbria il piano urbanistico provinciale, tra l’altro: “a) sulla base delle caratteristiche geologiche, idrogeologiche e sismiche del territorio stabilisce le linee di intervento nelle aree oggetto di difesa del suolo e delle acque e per le attività estrattive; individua altresì le aree che richiedono ulteriori studi ed indagini a carattere particolare, ai fini della pianificazione comunale; provvede alla tutela ecologica del territorio anche mediante la valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche ed alla prevenzione dall'inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo; b) individua gli ambiti del territorio agricolo e boschivo che presentano caratteristiche omogenee e detta criteri per le relative discipline d'uso; detta altresì criteri per la localizzazione degli allevamenti agro-zootecnici con particolare riferimento a quelli che comportano particolare impatto ambientale; (…) e) individua le parti del territorio ed i beni di rilevante interesse paesaggistico, ambientale, naturalistico e storico-culturale, comprese le categorie di cui all'art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431, da sottoporre a specifica normativa d'uso per la loro tutela e valorizzazione; indica le aree da destinare a parco o a riserva naturale con particolare riferimento a quelle individuate dal Sistema parchi ambiente regionale; f) definisce le vocazioni prevalenti per ambiti del territorio provinciale con particolare riferimento a quelli nei quali sono necessari interventi di tutela, conservazione e ripristino ambientale, indicando le relative destinazioni di massima, i criteri e gli indirizzi, al fine di favorire l'uso integrato delle risorse territoriali;

In Liguria il piano provinciale, nella “struttura del piano”, tra l’altro: individua “le parti del territorio provinciale atte a conferire organicità e unitarietà, sotto il profilo della rigenerazione ecologica, al disegno di tutela e di conservazione ambientale delineato dalla pianificazione (…) c) integra e sviluppa gli elementi del PTR nella sua espressione paesistica, secondo le indicazioni contenute nel piano stesso, come stabilito dall’articolo 12, comma 3; d) definisce i criteri di identificazione delle risorse territoriali da destinare ad attività agricole e alla fruizione attiva, anche a fini di presidio ambientale e ricreativi; (…) f) definisce le azioni di tutela e di riqualificazione degli assetti idrogeologici del territorio, recepisce ed integra ove necessario, a norma della vigente legislazione in materia, le linee di intervento per la tutela della risorsa idrica, per la salvaguardia dell'intero ciclo delle acque, fermo restando il disposto di cui all’articolo 2, comma 5, e coordina gli effetti dei piani di bacino sulla pianificazione locale.

In Emilia Romagna il piano territoriale provinciale, tra l’altro: “c) definisce i criteri per la localizzazione e il dimensionamento di strutture e servizi di interesse provinciale e sovracomunale; d) definisce le caratteristiche di vulnerabilità, criticità e potenzialità delle singole parti e dei sistemi naturali ed antropici del territorio e le conseguenti tutele paesaggistico ambientali; e)definisce i bilanci delle risorse territoriali e ambientali, i criteri e le soglie del loro uso, stabilendo le condizioni e i limiti di sostenibilità territoriale e ambientale delle previsioni urbanistiche comunali che comportano rilevanti effetti che esulano dai confini amministrativi di ciascun ente” (articolo 26).

In Basilicata e nel Lazio i contenuti del piano di livello provinciale non forniscono indicazioni più precise rispetto a quelle generali.

La pianificazione attuativa

Molte leggi regionali in termini espliciti, la maggioranza in termini almeno impliciti, fa piazza pulita con la congerie di strumenti urbanistici attuativi accresciutasi sul ceppo della legge 1150 del 1942. Saggiamente, si tende a individuare un solo strumento urbanistico attuativo (anche qui, le denominazioni sono le più svariate: Liguria: Progetto urbanistico operativo; Umbria, Toscana e Basilicata: Piani attuativi; Lazio: Piani urbanistici operativi comunali; Emilia Romagna: Piani urbanistici attuativi) al quale volta per volta vengono attribuiti, con la delibera d’approvazione, gli effetti di questa o quell’altra legge.

Così, ad esempio, la legge della Toscana (articolo 31) stabilisce che:

“I piani attuativi sono strumenti urbanistici di dettaglio approvati dal Comune, in attuazione del regolamento urbanistico o del programma integrato d'intervento, ai fini del coordinamento degli interventi sul territorio aventi i contenuti e l'efficacia:

a) dei piani particolareggiati, di cui all'articolo 13 della legge 17 agosto 1942, n. 1150

b) dei piani di zona per l'edilizia economica e popolare, di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167

c) dei piani per gli insediamenti produttivi, di cui all'articolo 27 della legge 22 ottobre 1971, n. 865

d) dei piani di recupero del patrimonio edilizio esistente, di cui all'articolo 28 della legge 5 agosto 1978, n. 457

e) dei piani di lottizzazione, di cui all'articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150

f) dei programmi di recupero urbano, di cui all'articolo 11 del D.L. 5 ottobre 1993, n. 398, convertito con legge 4 dicembre 1993, n. 493.

e che “ciascun piano attuativo può avere, in rapporto agli interventi previsti, i contenuti e l'efficacia di uno o più dei piani o programmi di cui al primo comma”, mentre “l'atto di approvazione del piano attuativo individua le leggi di riferimento e gli immobili soggetti ad espropriazione ai sensi delle leggi stesse”.

Identica la formulazione della legge del Lazio (articolo 44), analoga quella della legge dell’Emilia Romagna (articolo 31) e della legge della Basilicata (articolo 17); analoga anche quella dell’Umbria la quale tuttavia distingue i piani attuativi d’iniziativa pubblica, quelli d’iniziativa privata e quelli d’iniziativa mista.

Il sistema delle conoscenze

Quasi tutte le leggi esaminate attribuiscono importanza rilevante al sistema delle conoscenze: ne sottolineano la decisività nelle parti generali ed finalistiche della legge, spesso legano con intelligenza le scelte sul territorio alla valutazione del patrimonio conoscitivo, quasi sempre prevedono la formazione di un sistema informativo regionale, coordinato (o coincidente) con quelli delle province e dei comuni. Vale la pena di citare alcuni casi.

Nella legge della Liguria (articolo 7) si afferma che

“le conoscenze che costituiscono il presupposto dell'attività di pianificazione sono patrimonio comune degli Enti che condividono la responsabilità del governo del territorio, nonché di tutti gli altri soggetti (…) che, mediante la propria attività, partecipano alle scelte inerenti l'assetto e le trasformazioni del territorio”.

Essa prescrive che,

“Al fine di garantire la corrispondenza qualitativa e temporale fra le attività di pianificazione e l'acquisizione delle necessarie conoscenze, ciascun Ente, nell'ambito delle proprie responsabilità e competenze, formula un quadro delle esigenze e definisce conseguentemente programmi di acquisizione delle informazioni territoriali, costituenti parte integrante dell'attività di governo del territorio”.

Sulla base di questo quadro la Regione

“acquisisce, organizza e mantiene aggiornato, anche ai fini della consultazione da parte di chiunque vi abbia interesse, il complesso delle informazioni connesse ai diversi livelli di pianificazione e di disciplina del territorio, attraverso la formazione di un sistema informativo territoriale; b)garantisce l'omogeneità e la compatibilità fra le informazioni di varia natura e di vario livello pertinenti alla pianificazione territoriale, definendo le necessarie specifiche tecniche; c) assume le iniziative più opportune al fine di uniformare le metodologie di indagine e di assicurare la raccolta e la circolazione delle informazioni territoriali, anche attraverso intese e convenzioni con gli altri soggetti a ciò interessati, con particolare riguardo ai competenti organi del Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali”.

Il patrimonio di conoscenze è alla base del “quadro fondativo” e delle “descrizioni fondative”, componenti fondative della pianificazione ai vari livelli. Lo strumento previsto è il SIT regionale, elemento di una rete informativa degli enti locali (articolo 65).

Anche per la legge Emilia Romagna: “Il quadro delle conoscenze è elemento costitutivo degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica” (articolo 4).

Analogamente si era espressa la legge della Toscana, per la quale “il S.I.T. costituisce il riferimento conoscitivo fondamentale per la definizione degli atti di governo del territorio e per la verifica dei loro effetti” (articolo 4). Del SIT vengono definit, nel medesimo articolo, i compiti:

a) l'organizzazione della conoscenza necessaria al governo del territorio, articolata nelle fasi della individuazione e raccolta dei dati riferiti alle risorse essenziali del territorio, della loro integrazione con i dati statistici, della georeferenziazione, della certificazione e finalizzazione, della diffusione, conservazione e aggiornamento; b) la definizione in modo univoco per tutti i livelli operativi della documentazione informativa a sostegno dell'elaborazione programmatica e progettuale dei diversi soggetti e nei diversi settori; c) la registrazione degli effetti indotti dall'applicazione delle normative e dalle azioni di trasformazione del territorio.

La legge della Emilia Romagna precisa infine che “il S.I.T. è accessibile a tutti i cittadini e vi possono confluire, previa certificazione nei modi previsti, informazioni provenienti da enti pubblici e dalla comunità scientifica”.

Per la legge della Basilicata

“il Sistema Informativo Territoriale (SIT) costituisce il riferimento conoscitivo fondamentale nella definizione degli strumenti di pianificazione Territoriale e Urbanistica e di programmazione economico-territoriale. Esso promuove pertanto la raccolta ed il coordinamento integrato dei flussi informativi tra i soggetti titolari della PT e U di cui al Titolo II, Capo 1°, al fine di costituire una rete informativa unica, assicurare la circolarità delle informazioni, evitando duplicazioni e sovrapposizioni di raccolta e di analisi delle informazioni stesse” (articolo 41)

Il SIT della Basilicata è elemento di base (articolo 42) della “Carta regionale dei suoli”, a sua volta elemento cardine della pianificazione regionale.

Anche la legge del Lazio prevede la costituzione di un Sistema informativo territoriale regionale, il quale “contiene dati ed informazioni finalizzate alla conoscenza sistematica degli aspetti fisici e socio-economici del territorio, della pianificazione territoriale e della programmazione regionale e locale” (articolo 17).

La legge dell’Umbria, “ai fini di favorire la conoscenza e la diffusione delle informazioni attinenti al territorio” istituisce uno specifico “ Sistema informativo territoriale (S.I.TER.), nell'ambito del Sistema informativo regionale (S.I.R.)”, in relazione al quale “la Giunta regionale, per le finalità indicate al comma 1, realizza sistemi informativi geografici, supporti tematici unificati ed emana apposite direttive e regolamenti, favorendo la redazione di norme tecniche unificate”; essa inoltre, “di intesa con gli enti aventi competenze territoriali, coordina lo sviluppo dei sistemi informativi territoriali” (articolo 35 legge 23/1999).

La struttura del territorio

Alcune leggi propongono, o prescrivono, una classificazione del territorio finalizzata alle scelte di pianificazione.

Così, ad esempio, la legge della Toscana:

- prescrive che il piano di livello provinciale individui gli ambiti “caratterizzati dalla ridotta complessità dei processi urbanistici ed insediativi, dalla omogeneità degli aspetti fisici e paesistici dei siti, dalla sostanziale identità dei processi storici di formazione delle organizzazioni territoriali ed insediative, dalla affinità dei processi socio-economici in atto e da un assetto delle reti e delle infrastrutture di urbanizzazione appoggiate su di un impianto principale di scala sovracomunale”, ai fini della semplificazione della pianificazione subprovinciale (per i comuni compresi in tali ambiti “la descrizione fondativa del PTC provinciale può essere assunta (…) come descrizione fondativa dei piani urbanistici dei Comuni compresi in ciascun ambito” (articolo 18);

- stabilisce che la pianificazione comunale individui: “1) gli ambiti di conservazione e riqualificazione, insediati e non insediati, nei quali il piano persegue finalità di sostanziale conservazione o di riqualificazione; 2) i distretti di trasformazione per i quali il piano configura scelte di rilevante trasformazione” (articolo 27);

- affida al piano comunale anche il compito, “sulla base dei criteri forniti dal PTC provinciale, individua, tra gli ambiti di conservazione e di riqualificazione, quale territorio di presidio ambientale: a) aree che presentino fenomeni di sottoutilizzo e/o di abbandono agro-silvo-pastorale e di marginalità e che non appaiano recuperabili all'uso agricolo produttivo o ad altre funzioni; b) aree che si trovino in precarie condizioni di equilibrio idrogeologico e vegetazionale, ivi comprese quelle attualmente adibite ad attività agro-silvo-pastorali diverse da quelle di effettiva produzione agricola; c) aree nelle quali siano in atto fenomeni di rinaturalizzazione spontanea e/o guidata; d) aree caratterizzate da insediamenti sparsi nelle quali si renda necessario subordinare gli interventi sul patrimonio edilizio esistente o di nuova costruzione al perseguimento delle finalità dipresidio ambientale” (articolo 36).

La valutazione

Più d’una legge regionale introduce la valutazione e il monitoraggio dei piani tra gli elementi essenziali del processo di pianificazione, sebbene i caratteri specifici vengano generalmente demandati a documenti regolamentari. Ad esempio la legge della Basilicata:

- dedica alla valutazione un intero Capo (3: Modalità della valutazione), distinguendo la “la verifica di coerenza (che) si applica alla pianificazione strutturale ed operativa dei diversi livelli”, la “verifica di compatibilità (che) si applica alla pianificazione strutturale ed operativa in relazione ai regimi di intervento definiti nella CRS”;

- stabilisce che, “al fine di rendere trasparenti ed oggettive le valutazioni di coerenza e compatibilità dei Piani, di cui agli artt. 29 e 30 precedenti, il Regolamento d'Attuazione della presente legge definirà i criteri ed i parametri da applicare alle previsioni dei Piani stessi”, che “detti parametri riguardano in particolare: a. gli indicatori di qualità attinenti la tutela e conservazione del Sistema Naturalistico-Ambientale; b. gli indicatori di efficienza e di funzionalità spazio - temporali dei sistemi infrastrutturali ed insediativo; c. gli indicatori di efficienza ambientale per i Regimi di Trasformazione e Nuovo Impianto” e che infine essi “troveranno riscontro nelle specifiche tecniche di definizione del Sistema Informativo Territoriale”;

- prevede l’istituzione di un Nucleo di valutazione urbanistica regionale.

E la legge dell’Emilia Romagna stabilisce:

- che la Regione, le Province e i Comuni provvedano, “nell’ambito del procedimento di elaborazione ed approvazione dei propri piani, alla valutazione preventiva della sostenibilità ambientale e territoriale degli effetti derivanti dalla loro attuazione;

- che nel documento preliminare siano “evidenziati i potenziali impatti negativi delle scelte operate e le misure idonee per impedirli, ridurli o compensarli”, che che “gli esiti della valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale costituiscono parte integrante del piano approvato e sono illustrati da un apposito documento”;

- che, infine, “la Regione, le Province e i Comuni provvedono inoltre al monitoraggio dell’attuazione dei propri piani e degli effetti sui sistemi ambientali e territoriali, anche al fine della revisione o aggiornamento degli stessi”.

La perequazione

Com’è noto, il tema della perequazione è stato proposto dall’INU come soluzione, alternativa rispetto a quelle proposte nel passato (esproprio generalizzato, attribuzione pubblica dello jus aedificandi), capace di risolvere la questione della legittimità dei vincoli. Questa velleità della proposta è stata più volte criticata, soprattutto perché non risolve la fondamentale sperequazione derivante dalla differenza di vantaggi tra proprietari i cui immobili sono inclusi tra quelli urbanizzabili e gli altri. Si tratta comunque, in questi termini, di questione che riguarda un argomento di riserva legislativa nazionale.

Alcune leggi regionali hanno tuttavia introdotto il termine “perequazione urbanistica”, e indicazioni tecniche a questa relative, tra quelli cui è dedicata particolare attenzione nel processo attuativo. Si tratta però, generalmente, di un’estensione all’urbanizzato e al costruito delle stesse regole di ripartizione degli oneri e dei vantaggi tra i proprietari già introdotto dalla legge 1150 del 1942 con il comparto edificatorio, e dalla legge 765 del 1967 con il piano di lottizzazione convenzionata.

Così, ad esempio:

- la legge della Basilicata afferma che “la perequazione urbanistica persegue l'equità distributiva dei valori immobiliari prodotti dalla pianificazione e la ripartizione equa tra proprietà private dei gravami derivanti dalla realizzazione della parte pubblica della città”, che “la pratica della perequazione urbanistica si basa su un accordo di tipo convenzionale che prevede la compensazione tra suolo ceduto o acquisito e diritti edificatori acquisiti o ceduti”, che “la valutazione dei valori da compensare viene effettuata assumendo come criterio l'indifferenza delle determinazioni del PO o del RU, rispetto al valore dei suoli che dipende esclusivamente dallo stato di fatto e di diritto in cui i suoli stessi si trovano al momento della formazione del piano”, e che infine “l'accordo fra e con i privati può essere determinato come esito di asta pubblica fra operatori, basata su condizioni di sostanziale equilibrio fra la domanda e l'offerta di suolo oggetto di trasferimento di diritti edificatori ” (articolo 33);

- la legge dell’Emilia Romagna asserisce che “la perequazione urbanistica persegue l’equa distribuzione, tra i proprietari degli immobili interessati dagli interventi, dei diritti edificatori riconosciuti dalla pianificazione urbanistica e degli oneri derivanti dalla realizzazione delle dotazioni territoriali”; a tal fine, il piano comunale “può riconoscere la medesima possibilità edificatoria ai diversi ambiti che presentino caratteristiche omogenee”, mentre “Il POC e i Piani Urbanistici Attuativi (PUA), nel disciplinare gli interventi di trasformazione da attuare in forma unitaria, assicurano la ripartizione dei diritti edificatori e dei relativi oneri tra tutti i proprietari degli immobili interessati, indipendentemente dalle destinazioni specifiche assegnate alle singole aree”.

Il punto da discutere è il seguente.

Introdurre la “perequazione urbanistica” come criterio di effettiva equiparazione di soggetti diversi è palesemente velleitario. Infatti, oltre a non risolvere la sperequazione tra proprietari e non proprietari, non risolve neppure quella in relazione alla quale l’intera problematica nacque nei lontani anni Sessanta: cioè quella tra proprietari inclusi nel piano e proprietari non inclusi. Molto più interessante sembra invece utilizzare la distinzione tra “vincoli ricognitivi” e “vincoli funzionali”, che la Corte costituzionale ha già reiteratamente accolto stabilendo che nessun indennizzo è necessario per i primi.

Introdurre la “perequazione urbanistica” come metodo per ottenere consensualmente le aree per la formazione di spazi pubblici e d’uso pubblico porterebbe a un gigantesco sovradimensionamento dei piani, con buona pace delle intenzioni ambientalistiche che permeano, come abbiamo visto, intere parti delle nuove leggi.

Introdurla invece, molto semplicemente, per estendere ad ambiti di trasformazione comprendenti parti già urbanizzate la tecnica di ripartizione degli oneri per comparti investiti unitariamente da un processo di trasformazione urbanistica appare cosa sensata e pragmaticamente utile: nulla a che fare, peraltro, con la “riforma urbanistica” né con quella del regime degli immobili.

[1] Con il termine “oggetti” non si indica qui l’elemento materiale dell’assetto del territorio (la strada o il centro storico, il centro commerciale o il bosco ecc.): Il termine “oggetto” è adottato invece in una logica simile a quella in cui è usato normalmente il termine “beni”. L’uno e l’altro termine configurano entità immateriali che, quand’anche si riferiscano a “cose” materiali, non si identificano con esse. Talché su di un’unica “cosa” può fondarsi una pluralità di beni ogniqualvolta in essa siano separabili diverse utilità o valori autonomamente riconoscibili. Ed analogamente un’unica “cosa”, un unico elemento materiale, può costituire il riferimento materiale di una pluralità di “oggetti” ogniqualvolta in essa siano separabili diversi “aspetti” autonomamente riconoscibili e incidenti su interessi la cui titolarità (esclusiva o prevalente) appartenga a diversi soggetti.

[2] In neretto tondo i piani che esplicano, o possono esplicare, efficacia diretta. In neretto corsivo quelli che esplicano efficacia indiretta (attraverso la pianificazione sottordinata).

[3] “I contenuti del P.U.T. sono vincolanti per la pianificazione provinciale e comunale e, nei casi stabiliti dalle norme tecniche di attuazione, per qualsiasi soggetto pubblico e privato”, lex 28/1995, articolo 10.

[4] “le norme di attuazione del piano, contenenti i criteri, gli indirizzi, le direttive per la predisposizione e per l'adeguamento dei piani di livello comunale, nonché la specificazione delle disposizioni immediatamente prevalenti in materia paesistica e ambientale sulla disciplina di livello comunale vigente e vincolanti anche nei confronti degli interventi settoriali e dei privati”, lex 28/1995, articolo 14, lettera e).

Nello spazio dedicato alla dimensione della Megalopoli (con particolare attenzione a quella padana), entrano ovviamente temi storici interdisciplinari, banalmente ampi almeno quanto il territorio considerato. Così, con riferimento a questioni aperte nella cronaca, o a luoghi di cui ci occupiamo quotidianamente per questioni “spicciole” di piano o progetto o aspettative varie, propongo questo testo coevo al dibattito costituzionale. Non credo dica “niente di nuovo”, e comunque lascio al lettore il giudizio sulla condivisibilità o meno di questo o quel punto, o della tesi generale sostenuta. Solo, mi pareva indispensabile almeno indicare qui, in modo poco più che folkloristico, una sensazione epidermica: ad ogni passaggio del testo di Giorgio Braga, inevitabilmente tornano in mente problemi attuali, o la loro passata manifestazione. Si pensi solo, e qui chiudo per eccesso di banalità, ai villaggi della moda a cui sono dedicate su Eddyburg tante semiserie “cartoline”: si collocano proprio nei nodi geografico-sociali che già all’alba della ricostruzione (e con ogni probabilità anche prima) si indicano con chiarezza. Insomma non è proprio vero (come invece ci insegnano), che la Storia la fanno gli Stilisti.

F.B.

Estratto da: Tracciati - Rassegna tecnica mensile della ricostruzione, marzo-aprile 1946

I confini convenzionali e talvolta naturali delle nostre regioni, così come li conosciamo, sono superati dal volgere delle attività industriali e commerciali in una fatale espansione su zone periferiche di altre regioni limitrofe

La necessità di autonomie locali va affermandosi sempre più in seno all’opinione pubblica. Non pochi sono giunti al concetto federalista, che sott’intende un forte decentramento anche politico. Molti si vanno fermando su di una concezione regionalista, che vorrebbe essere un “quid medium” fra le semplici autonomie amministrative ed il vero e proprio federalismo.

La popolarità dell’argomento è dovuta ad un duplice ordine di fatti: da una parte la carenza del governo centrale e delle comunicazioni con la capitale, dall’altra la rottura della cintura economica che dal 1882 fondeva in un solo complesso ambienti economici distinti.

Si può dunque affermare che il problema del decentramento regionalista è alla base della ricostruzione. Non si potrà mai ricostruire l’Italia se prima non si sarà messa ogni regione in condizione di fare da sé, senza aspettare il verbo da un centro di mentalità troppo diversa e dove la corruzione fascista ha più intimamente avvelenato gli ambienti.

Forse si sarebbe dovuto, per ricostruire, cominciare subito con il decentrare mediante norme precise. Così facendo si sarebbero evitati quegli abusi fatti da non pochi Prefetti e Sindaci, i quali hanno spesso dettato norme economiche a carattere protezionistico. Cosa che è ben lontana da un sano regionalismo.

L’argomento però fondamentale, per cui il decentramento regionalista è oggi un imperativo categorico, è il fatto che in una Italia che si sta avviando - voglia o non voglia - verso un’economia quasi liberista, è indispensabile articolare maggiormente fra di loro le regioni italiane, orientate economicamente nei modi più disparati. Mentre il regionalismo del periodo 1918-1922 fu un fenomeno essenzialmente di preservazione di nobili tradizioni locali, il nuovo regionalismo ha un substrato essenzialmente economico. Questo spiega perchè in questo secondo dopoguerra sia risorto con tanto maggiore impulso.

Ciò però pone dei nuovi problemi tecnici e cioè la delimitazione delle nuove regioni. Nel complesso l’Italia è costituita da cinque distinti ambienti economici: alta Italia, Italia centrale, Mezzogiorno, Sicilia e Sardegna. La ripartizione però del nostro Paese in cinque complessi così robusti porterebbe ad un federalismo, il quale scivolerebbe quasi inevitabilmente in una lotta economica fra Nord e Sud (divieti di immigrazione nel Nord e protezionismo nel Sud) che finirebbe con lo spezzare l’unità politica italiana.

Non è quindi ammissibile un’unica regione economica “alta Italia”, comprendente ben 20 milioni di abitanti. Le regioni italiane dovrebbero essere contenute tutte in proporzioni tali da non potersi opporre politicamente all’autorità centrale. Solo allora si potrebbe includere nella Costituente un articolo fondamentale che proibisse protezionismi e razzismi regionalistici, senza timore di vederne elusa l’applicazione.

D’altra parte anche l’alta Italia è tutt’altro che un complesso omogeneo. In essa notiamo due grandi centri industriali: Torino e Milano, fra di loro rivali. In essa esistono due porti il cui significato trascende i limiti nazionali: Genova e Trieste.

In generale però le regioni economiche alto-italiane non hanno limiti fra di loro ben definiti, ad eccezione delle grandi valli alpine, dotate di un’economia deI tutto peculiare, di norma poco conosciuta e quindi trascurata dai poteri centrali. Queste “regioni alpine” sono: VaI d’Aosta, Valtellina, Alto Adige, Trentino e Cadore. In ognuna di queste vi sono tendenze autonomiste, specie quando il fattore etnico si viene a sommare Il quello economico.

La stessa modesta importanza economica di tali regioni alpine, pone però dei limiti molto gravi ad una loro forte autonomia. Si tratta di complessi poco popolosi: dai 100 ai 350 mila abitanti, provvisti di un centro urbano modesto. Sarebbe per tali regioni necessario studiare una forma minore d’autonomia, che potrebbe essere denominata “provincia autonoma”. Ogni provincia autonoma potrebbe, a seconda dei casi, dipendere direttamente da Roma, ovvero inserirsi nel quadro della regione in cui sbocca la Valle. La prima soluzione appare indicata per l’Alto Adige (motivi etnici); la seconda soluzione per le altre Valli. Non mancano però elementi trentini i quali vorrebbero unire in una sola regione: Alto Adige, Trentino e forse anche Cadore.

Di norma, come dicemmo, non esistono limiti ben definiti alle varie regioni economiche; o per essere più esatti i limiti fra le varie regioni si spostano col mutare della potenza economica del centro regionale propulsore.

Il centro urbano di Milano con ben un milione e duecentomila abitanti, a cui fan capo oltre le proprie industrie pure tutte quelle della zona dei laghi (un complesso di quasi 700.000 lavoratori dell’industria) tende a “lombardizzare” le provincie di Novara e Piacenza, il circondario di Tortona, la Valgiudicaria ed in parte la stessa provincia di Verona.

La forza di reazione all’espansione milanese dipende dalla consistenza economica del relativo centro, ma anche dalla distanza rispettiva.

Così Novara può considerarsi ormai lombarda, dal punto di vista economico, perchè se Torino con i Comuni industriali limitrofi raggiunge gli 800.000 abitanti (nella provincia i lavoratori dell’industria sorpassano i 200.000), tuttavia non può trattener nella propria orbita una zona da lei troppo lontana. Si noti - di sfuggita - che Novarese e Lomellina, ora assegnate a due distinte regioni storiche, formano fra Sesia e Ticino un tutto economico, che non può essere suddiviso senza grave danno, fra due diverse regioni economiche.

Analogo ragionamento può essere fatto per la zona piacentina sottratta alla sfera di influenza di Bologna (solo 320.000 abitanti e 60.000 lavoratori dell’industria).

Invece, la maggiore distanza da Milano, lascia pur sempre la zona di Verona nell’orbita del complesso: Padova – Mestre - Venezia (450.000 abitanti e 70.000 lavoratori dell’industria); mentre l’Oltrepò mantovano può considerarsi economicamente, addirittura, emiliano. Emiliane inoltre debbono considerarsi due piccole zone ora toscane e marchigiane: quella parte della provincia di Firenze che supera la displuviale appenninica e l’alta valle della Marecchia.

Caratteristiche completamente diverse hanno le regioni economiche createsi intorno ai grandi porti internazionali di Genova e di Trieste. Il carattere preminentemente commerciale di tali centri (anche le loro industrie hanno in gran parte carattere di transito), fanno sì che per esse abbia ben poco peso l’estensione territoriale. Fatto questo caratteristico a tutte le antiche “città libere”.

Genova (porto non solo della Lombardia e del Piemonte, ma anche della Svizzera) sente la necessità di oltrepassare quegli Appennini che la schiacciano contro il mare. Ovada e Serravalle Scrivia, ora in provincia di Alessandria, sono già genovesi; ma anche Novi Ligure è forse d’interesse più genovese, che piemontese. Si prospetta così la possibilità di uno spezzamento in tre diverse regioni dell’attuale triangolo: Alessandria - Novi - Tortona.

Il complesso Trieste - Monfalcone è poi senz’altro porto più centroeuropeo che non italiano. La probabile mortificazione del suo territorio verso oriente, legherà sempre di più tale centro con il Friuli udinese e veneziano (Porto Gruaro). Per il Friuli però le caratteristiche etniche potrebbero anche consigliare l’istituzione di particolari locali autonomie.

Molto interessante è infine osservare come la Liguria, che è la regione geograficamente meglio definita dell’Italia settentrionale, si spezzi invece in tre distinte regioni, non appena la si osservi sotto l’aspetto economico.

I porti di Savona ed Imperia a ponente e quelle di La Spezia a levante sono rivali del grande porto genovese.

La minore regione di “Savona e ponente”, a malgrado della barriera appenninica, si lega intimamente con il Piemonte.

La Spezia, fino ad ora mortificata dal suo carattere di porto militare, va riaffermando l’unità della minore regione “lunigianense”. La suddivisione fra Liguria e Toscana fu dovuta alla marcia d’incontro, rispettivamente verso sud e verso nord, delle repubbliche marinare di Genova e di Pisa. Tale fattore storico, oltre ad idee particolaristiche locali, spezzò l’unità lunigianense fra le attuali provincie della Spezia e di Massa. La ricostituita unità permetterà di dare un nuovo aspetto alle comunicazioni che per la Cisa portano all’Emilia.

La minore regione lunigianense tende economicamente ad aggregarsi alla regione emiliana, come Savona e ponente a quella piemontese.

Lo studio cosi condotto (vedasi anche grafico annesso), non può certo avere carattere se non indicativo.

Un accertamento in luogo comporterebbe dei referendum in tutte le zone di influenza mista. Tali referendum permetterebbero in un momento in cui si decentra per ricostruire più rapidamente a tutti gli interessati di optare fra la tradizione cristallizzatrice ed il futuro economico.

Nel caso che le previsioni dell’autore si adempiessero, l’Alta Italia verrebbe ad essere così suddivisa:

1) regione subalpina (con la provincia autonoma di Aosta): 3 e mezzo milioni di abitanti.

2) regione lombarda (con la provincia autonoma della Valtellina): 6 e mezzo milioni di abitanti.

3) regione genovese: 1 milione di abitanti.

4) regione veneta (con le provincie autonome del Trentino e del Cadore): 4 milioni di abitanti.

5) regione emiliana: 3 milioni e mezzo di abitanti.

6) regione giuliana: 1 milione e un quarto di abitanti.

7) provincia autonoma dell’Alto Adige: 250.000 abitanti.

Come si vede, si giungerebbe ad un assetto del tutto diverso da quello tradizionale!

Il testo votato dal Consiglio regionale contiene alcune modifiche, rispetto al disegno di legge iniziale, che però non ne mutano la sostanza. Si veda, in proposito, il giudizio formulato dal WWF sul disegno di legge (v. allegato – Memoria sul ddlr 154 per la IV Commissione del Consiglio regionale, dd. 22 settembre 2005).

L’indeterminatezza.

Permane, infatti, l’indeterminatezza di una normativa che in realtà si limita per lo più ad alcune enunciazioni di principio, rinviando le scelte di fondo ad una futura legge per il ”riordino organico della normativa regionale in materia di pianificazione territoriale e urbanistica” (art. 1, c. 2).

Sarà questa futura (futuribile ?) legge, infatti, a dover “stabilire i criteri per individuare le soglie oltre le quali la Regione svolge le funzioni“ (art. 3, c. 2) in materia di pianificazione della tutela e dell’impiego delle risorse essenziali di interesse regionale.

Sarà ancora la futura legge a dover stabilire “le procedure attraverso le quali la Regione assicura che la tutela e l’impiego delle risorse essenziali siano garantiti dagli strumenti urbanistici di livello subordinato” (art. 3, c. 3).

Sarà sempre la futura legge a stabilire “i casi nei quali il Comune svolge la funzione della pianificazione territoriale al livello sovraccomunale e le forme di cooperazione istituzionale con cui la esercita, quali le associazioni intercomunali previste dall’ordinamento in materia di autonomie locali”(art. 4, c. 3).

Il tutto comunque nell’ambito di un’impostazione secondo cui “la funzione di pianificazione territoriale è del Comune” (art. 4, c. 1), laddove - come già accennato sopra - “la funzione della pianificazione della tutela e dell’impiego delle risorse essenziali di interesse regionale è della Regione” (art. 3, c. 1).

Il che d’altronde corrisponde perfettamente a quanto l’assessore regionale alla pianificazione territoriale (nonché “energia, mobilità e infrastrutture di trasporto”…) 1, Sonego (DS), ha detto e scritto ripetutamente, vale a dire che “il territorio è dei Comuni” (anche quella sovraccomunale !) e che la Regione avrebbe rinunciato a mettere il naso nelle scelte urbanistiche locali.

Resta da vedere, naturalmente, come questo indirizzo politico sarà contemperato (e se sia contemperabile) con quanto stabilito dal già citato art. 3, c. 3, laddove si menzionano“le procedure attraverso le quali la Regione assicura che la tutela e l’impiego delle risorse essenziali siano garantiti dagli strumenti urbanistici di livello subordinato”.

L’economicismo.

Rispetto al testo originario del disegno di legge, il testo votato dal Consiglio attenua apparentemente l’economicismo esplicito specialmente nell’elencazione delle “finalità” del PTR.Nella nuova stesura (art. 5) finalità “ambientali” ed economico-sociali sono apparentemente più equilibrate, almeno a livello verbale. Rimangono tuttavia notevoli dubbi circa la lucidità di chi ha voluto inserire tra le finalità strategiche del PTR “le migliori condizioni per la crescita economica e lo sviluppo sostenibile della competitività del sistema regionale” (art. 5, c. 1, lett. b). Pare si tratti della prima volta in assoluto in cui viene menzionato (in un testo di legge !) “lo sviluppo sostenibile della competitività di un sistema (economico, evidentemente) regionale”.

Più in generale, comunque, la commistione – senza la benché minima gerarchia di valori - di obiettivi e finalità del PTR così diversi e contraddittori tra loro, lascia aperta la strada a innumerevoli fraintendimenti e contraddizioni.

Ciò soprattutto perché si è voluto attribuire al PTR “anche la valenza paesaggistica”(art. 1, c. 1 ed anche art. 6, c. 2), senza tener conto del fatto che – com’è stato ripetutamente ribadito dalla dottrina costituzionale – la materia “tutela del paesaggio” è gerarchicamente sovraordinata rispetto alla materia urbanistica ed agli interessi (prevalentemente economici) da questa disciplinati.

Non sorprende, in simile contesto, che nessuna menzione faccia la legge dei contenuti del piano paesaggistico, così come definiti nell’art. 143 del D. Lgs. 42/2001.

Non sorprende neppure il fatto che la legge non preveda alcuna salvaguardia reale per i valori paesaggistici che il PTR dovrebbe tutelare. L’art. 12 prevede infatti (cfr. c. 2) che “nelle more dell’entrata in vigore del PTR e comunque non oltre 90 giorni dall’entrata in vigore della presente legge, la Giunta regionale definisce indirizzi per la salvaguardia delle aree assoggettate a vincolo paesaggistico…previa acquisizione del parere della competente Commissione consiliare… ”.

Ogni commento pare superfluo.

I processi decisionali (apparentemente) partecipati.

Una novità rispetto al testo originario è rappresentata dall’insistente richiamo alle procedure e metodologie di Agenda 21, previste sia a livello di PRGC (art. 4, c. 5), sia a livello di PTR (art. 7, c. 1), sia ancora per quanto concerne l’individuazione dei “progetti di interesse regionale” (art. 10, c. 2). Nulla peraltro è dato sapere sul come queste procedure saranno applicate e con quali garanzie di effettiva incidenza sulle decisioni e le scelte.

Un problema di non facile risoluzione è però rappresentato dalla palese contraddittorietà tra l’art. 7 e l’art. 8 della legge, relativi rispettivamente alla “Formazione del PTR” ed all’ ”Adozione e approvazione del PTR”.

Il primo dichiara infatti (art. 7, c. 1) che “La formazione del PTR avviene in conformità alla direttiva n. 2001/42/CE e alle successive norme di recepimento, nonché con le metodologie di Agenda 21”.

Il secondo prevede invece un percorso del tutto tradizionale : la Giunta regionale predispone il progetto e lo sottopone al parere del Consiglio delle Autonomie locali (art. 8, c. 1), dopo di che elabora il progetto definitivo di PTR (art. 8, c. 2), indi il progetto definitivo è sottoposto al parere della competente commissione del Consiglio regionale che deve esprimersi entro 30 giorni (art. 8, c. 3) ed è quindi adottato con decreto del presidente della Regione.

Il PTR adottato è pubblicato sul BUR e “depositato per la libera consultazione presso la Direzione centrale pianificazione territoriale, energia, mobilità e infrastrutture di trasporto”. Seguono i canonici 60 giorni per la presentazione di osservazioni, che possono essere presentate da “a) gli enti ed organismi pubblici ; b) le associazioni di categoria ed i soggetti portatori di interessi diffusi e collettivi riconosciuti in ambito regionale ; c) i soggetti nei confronti dei quali le previsioni del PTR adottato sono destinate a produrre effetti diretti” (art. 8, c. 4).

Infine, esperite le procedure previste e “tenuto conto delle osservazioni”, il PTR è approvato dal Presidente e pubblicato sul BUR (art. 8, c. 5). E’ arduo immaginare come possa conciliarsi una procedura de genere con quanto stabilito dalla Direttiva 2001/42/CE, che prevede l’obbligo di valutazione “ex ante”, “in itinere” ed “ex post” degli strumenti di pianificazione, mediante procedure che garantiscano la partecipazione a tutti i cittadini interessati (e non soltanto a quelli elencati dall’art. 8, c. 4 della legge in questione).

Lo scopo vero della legge : le infrastrutture.

Il Capo II “Norme in materia di localizzazione di infrastrutture strategiche” è quanto mai esplicito nelle finalità, dichiarate all’art. 9, c. 1 : “Le norme del presente capo hanno lo scopo di preservare la possibilità di realizzare infrastrutture strategiche ovvero di dotare la Regione di strumenti che ne facilitino la realizzazione”.

Il primo strumento è la “sospensione temporanea dell’edificabilità” che la Giunta regionale è autorizzata a deliberare “per un periodo massimo di tre anni” (art. 10, c. 1) “sulle domande di concessione o di autorizzazione edilizia in contrasto con progetti che siano stati dichiarati di interesse regionale”.Nel testo originario del disegno di legge, venivano esplicitamente menzionate due infrastrutture “strategiche”, vale a dire le “opere ferroviarie di attuazione del Corridoio V e quelle ad esso complementari” “opere ferroviarie di attuazione del Corridoio V e quelle ad esso complementari”, nonché le “opere del nuovo collegamento stradale Cervignano-Manzano e quelle ad esso complementari”.La menzione è stata soppressa dal testo della legge, ma è del tutto chiaro che il “Corridoio 5”, insieme a molto altro, rimane l’obiettivo che si vuol raggiungere con la legge in questione.Lo comprovano, se mai ce ne fosse bisogno, da un lato l’insistenza con cui la Giunta regionale ha cercato in ogni modo di accelerare i tempi del voto sul disegno di legge n. 154 (giungendo al punto di “richiamare all’ordine” il presidente della IV Commissione consiliare, “reo” di aver indetto delle audizioni sul testo prima del voto in Commissione), dall’altro il continuo succedersi di iniziative ed esternazioni da parte del Presidente Illy e dell’assessore Sonego, volte a “promuovere” il progetto, occultarne i contenuti reali, forzarne comunque l’approvazione contro ogni equanime valutazione tecnica che ne metta in luce i limiti ed i rischi.Basti dire che nel settembre 2004 la Giunta regionale esprimeva uno scandaloso 2 parere favorevole sull’impatto ambientale del progetto, salvo poi scoprire l’anno dopo (ma soltanto grazie al WWF che aveva scovato i documenti) che sia il Ministro dei beni e attività culturali, sia la Commissione speciale VIA del ministero dell’ambiente avevano espresso pareri negativi sul progetto 3. Pareri che, sia detto per inciso, coincidono pressoché interamente con le obiezioni avanzate dal WWF, da altre associazioni ambientaliste e dai Comuni, relativamente all’impatto verosimilmente devastante dello era sul sottosuolo carsico e sulle enormi incertezze circa la stessa effettiva realizzabilità di un’opera simile in un contesto ambientale in gran parte sconosciuto. Il che tuttavia non ha impedito alla Giunta regionale di attivarsi invocando la Coordinatrice europea Loyola de Palacio, affinché intercedesse con il Governo sloveno, la cui impostazione strategica in materia di infrastrutture e ferrovie è molto lontana dalla frenesia italiana per l’alta velocità (come gli sloveni hanno ribadito anche alla de Palacio).

Si aggiunga la recentissima iniziativa congiunta Illy-Bresso, per la richiesta al Governo di nominare un Commissario governativo per l’intero tracciato del “Corridoio” (dalla Val di Susa a Trieste), incaricato di sbloccare la situazione di fronte alle resistenze dei cittadini, degli enti locali, ecc. Un Commissario governativo per le opere della “Legge Obiettivo” nel nord est esiste, invero, già da tempo – si tratta dell’arch. Bortolo Mainardi, molto apprezzato e incensato dalla Giunta del Friuli Venezia Giulia – ma evidentemente si ritiene che non basti.

Va da sé che, “Corridoio 5” a parte, nella dizione di “progetti dichiarati di interesse regionale” può rientrare di tutto e di più, così come possono rientrare tanto i progetti di opere pubbliche, quanto progetti privati (strade di ogni genere, elettrodotti, impianti produttivi, ecc.). Se è vero, d’altra parte, che la dichiarazione di interesse regionale dei progetti dev’essere assunta “d’intesa con i Comuni interessati”(art. 10, c. 2), è anche vero che nulla si dice in merito a come l’intesa potrà essere esplicitata a livello comunale (delibera del Consiglio comunale, della Giunta, lettera del sindaco ?). Il disegno di legge originario prevedeva a tale proposito una “conferenza dei soggetti interessati” non meglio identificata, ma la menzione è stata soppressa nella legge.

Un precedente allarmante, sempre riferito al “Corridoio 5” giustifica i timori sui questo punto : due giorni prima di esprimere parere favorevole sull’impatto ambientale del progetto della Ronchi sud-Trieste, l’assessore Sonego stipulava un “accordo” – mai formalizzato in alcun modo - con i sindaci dei Comuni dell’area monfalconese (all’insaputa dei Consigli comunali che avevano ripetutamente votato delibere contrarie al progetto), nel quale si “concordava” l’assenso su un’alternativa di tracciato (tutta da studiare peraltro, si trattava soltanto di un tracciolino su una carta topografica…) teoricamente – ma solo teoricamente ! - meno impattante. Sconcerta il fatto che, di fronte a tale evidente forzatura, nessun Consiglio comunale si sia attivato ed abbia protestato in difesa delle proprie prerogative. Sconcerta ancor di più, comunque, che norme di “salvaguardia” rispetto alla realizzazione di infrastrutture e opere “di interesse regionale” non meglio precisate, vengano previste in assenza di un piano e senza alcun legame esplicito neppure con il PTR che la legge teoricamente dovrebbe avviare !

La privatizzazione dell’urbanistica.

Quanto al secondo strumento finalizzato alla realizzazione di “progetti di particolare rilievo”, cioè la STUR – Società di Trasformazione Urbana Regionale (art. 11), non vi sono modifiche di rilievo rispetto al testo del disegno di legge originario. Si aggiunge soltanto che la costituzione della STUR dev’essere preceduta (art. 11, c. 1) da un’intesa con i Comuni (vedasi a tale proposito quanto detto sopra in merito alla dichiarazione di interesse regionale dei progetti). Si aggiunge poi che “ulteriori nuovi soci diversi da Regione e enti locali territoriali possono essere individuati fra società controllate da Regione e enti locali” (art. 11, c. 3). Infine si stabilisce che “la Regione e gli enti locali territoriali indicano la maggioranza dei consiglieri di amministrazione della STUR” (art. 11, c. 5). Resta da vedere come possa essere compatibile una norma come quella sul CdA con la natura privatistica della STUR (una spa). Quel che è certo è che la STUR consentirà, tra l’altro, di operare bypassando “lacci e lacciuoli” come quelli rappresentati ad esempio dalle leggi sulla trasparenza (L. 241/1990, ecc.), che si applicano soltanto agli enti pubblici. Rimane invariata l’anomalia di una STUR che potrà procedere anche ad espropri (art. 11, c. 2).

Conclusione.

E’ difficile comprendere come un simile pasticcio abbia potuto essere approvato da un Consiglio regionale a maggioranza di centro-sinistra (voto negativo da un solo consigliere – indipendente - di centro-sinistra, più due astensioni dei consiglieri di Verdi e PDCI, tutti gli altri – Margherita, DC, PRC, “Cittadini per il presidente”, pensionati - favorevoli). Al di là del giudizio sui contenuti della legge, hanno verosimilmente pesato considerazioni di opportunità politica (opportunismo ?), trattandosi si un atto fortemente voluto dal Presidente della Regione, ancorchè non previsto nel programma della Giunta. Nel frattempo risulta sia già all’opera un gruppo di lavoro (coordinato da un’ex assessore all’urbanistica di quando Illy era sindaco di Trieste 4), che sta predisponendo gli indirizzi del PTR : ne vedremo delle belle.

Si vedano: Un commento di Paola Barban,

Il precedente commento al disegno di legge, di Dario Predonzan

Sintesi della legge urbanistica della Catalogna, approvata nel 2005, appositamente scritta per Eddyburg da Maria Lluisa Marsal, Departament d'Urbanisme i Ordenació del Territori, Escola Técnica Superior d'Arquitectura del Vallès, Universitat Politécnica de Catalunya

Uno dei primi impegni del nuovo governo socialista della Catalogna è consistito nel promuovere la revisione della legge urbanistica 2/2002 approvata dal precedente governo di centro. Si tratta della “Llei 10/2004, de 24 de desembre de modificaciò de la Llei 2/2002, del 14 de marc, d’urbanisme, per el foment de l’habitatge assequible, de la sostenibilitat territorial i de l’autonomia local”: a partire dalle revisioni ed innovazioni introdotte da questa legge, è stato recentemente approvato il Text refòs de la Llei d’Urbanisme, decreto legislativo 1/2005 del 26 luglio.

Occorrerà ricorrere ad altri testi di ambito e competenza statale per completare la legislazione in materia urbanistica in Catalogna (legge 6/1998 sulle valutazioni, vari regolamenti…). La redazione di leggi sulla materia continua a buon ritmo, con la preparazione della nuova Llei d’Habitatge, nel contesto del Decret del Pla pel Dret a l’Habitatge (2004-2007).

Le modifiche proposte dalla L.10/2004, rispetto alla precedente L. 2/2002, perseguono l’introduzione di alcuni miglioramenti che si concentrano su due obiettivi molto chiari: il suo carattere sociale e territoriale, insieme ad una grande preoccupazione dedicata a chiarire e riformare concetti che non erano sufficientemente chiari nella legislazione anteriore.

Una prima definizione migliorata è quella che appare nello stesso titolo della legge, in materia di sostenibilità. Il prologo della legge definisce il territorio catalano come una realtà ambientalmente sostenibile, funzionalmente efficiente, economicamente competitiva e socialmente coesa.

Ben diversa e fortemente contradditoria era la definizione contenuta nel testo di legge precedente (L. 2/2002), che recitava in ordine sparso: “...questa legge si pronuncia chiaramente a favore di uno sviluppo urbanistico sostenibile, sulla base dell’ utilizzo razionale del territorio, per rendere compatibili la crescita urbana e il dinamismo economico necessari con la coesione sociale, il rispetto dell’ambiente e la qualità di vita delle generazioni presenti e future.”

Allo stesso modo, continuando ad esaminare la premessa della L. 2/2002, si esprime la preoccupazione per fenomeni non desiderati, però includendo anche il loro contrario. Si individua la dispersione dell’urbanizzazione, la specializzazione funzionale dello spazio e il rischio della segregazione indotta dal mercato immobiliare, (…) rispondendo con la difesa della compattezza degli insediamenti, la diversificazione funzionale e l’integrazione sociale(…). Ma queste buone intenzioni non trovano una traduzione coerente negli articolati della legge.

Per concludere questa introduzione, centrata sull’analisi degli obiettivi che si perseguono nelle due leggi, faremo riferimento a un aspetto che non serve né chiarire né migliorare, ma semplicemente sradicare: la speculazione.

La L. 2/2002, credeva erroneamente che la disponibilità di più suolo avrebbe ovviato alle distorsioni del mercato e alla speculazione, “(…) questa legge modifica, attualizza e semplifica le procedure con l’obiettivo di imprimere celerità ed efficacia al processo decisionale così da disporre in ogni momento di suolo debitamente urbanizzato, come metodo per lottare contro le distorsioni del mercato e contro la speculazione, con la convinzione che non è soltanto il suolo urbanizzabile, bensì il suolo urbanizzabile necessario e, soprattutto, quello urbanizzato in anticipo, ad evitare situazioni di tensione nella domanda e ripercussioni conseguenti sul prezzo finale dei prodotti immobiliari.

La revisione introdotta con la L. 10/2004è molto piùambiziosa, poiché vuole promuovere nuove soluzioni che rafforzino i meccanismi esistenti per risolvere le problematiche relative al mercato delle abitazioni (si veda il punto successivo),

Possiamo a questo proposito distinguere le innovazioni introdotte dalla nuova legge e ordinarle secondo i due principali obiettivi che persegue, in ambito sociale e territoriale.

Con lo scopo di promuovere l’accesso della popolazione alla casa, un primo e nuovo strumento riguarda la realizzazione di un parco di abitazioni pubbliche(viviendas dotacionales publicas) per l’accoglienza temporanea di categorie di persone con bisogno di assistenza o emancipazione, all’interno di politiche sociali previamente definite. L’introduzione dell’abitazione come servizio pubblico è un concetto realmente corretto che però perde forza quando, dalla lettura dell’articolato di legge, si deduce che le risorse per realizzare questa offerta abitativa andranno detratte da quelle disponibili per i servizi pubblici locali, in misura pari al 5% al massimo. La percentuale che si propone non è molto rilevante (presuppone un totale di 1000 m2 in un nuovo settore di sviluppo di 10 ha., con una densità di 100 abitazioni/ha ); inoltre, è basata su un trasferimento di risorse dalla dotazione di servizi pubblici all’abitazione pubblica, con pregiudizio in uno dei due ambiti.

Sempre in materia di pianificazione residenziale, si introducono i Piani direttori urbanistici per la programmazione di politiche sopracomunali relative all’uso del suolo e alla casa, per la elaborazione dei quali si promuove la cooperazione intercomunale.

La pianificazione territoriale delle abitazioni è importante quanto molti altri aspetti, ragion per cui reclameremmo la stessa territorialità per questi ultimi, al fine di scaricare di responsabilità la pianificazione comunale, erroneamente titolare di queste funzioni.

Allo scopo di garantire la coerenza fra i Piani direttorie i Piani comunali, questi ultimi dovranno incorporare un nuovo documento, la memoria social, dedicato a garantire la produzione di abitazioni pubbliche e di altri tipi di edilizia sociale di competenza della legislazione di settore.

Una novità che rappresenta un progresso significativo rispetto alla L. 2/2002, è l’incorporazione di tutte le cessioni di titolarità pubblica con trasferimento al patrimonio municipale di suoli e abitazioni; patrimonio che, separato da altri beni municipali, sarà destinato alla attuazione delle politiche abitative, garantendo delle quote minime anche nei piccoli comuni.

Queste cessioni ai comuni dovranno corrispondere, nella maggior parte dei casi, al 10% delle opportunità edificatorie concesse ai privati nei settori di nuova urbanizzazione.

La nuova legge continua dunque a perseguire l’obiettivo di rendere prioritario lo sviluppo di nuovo suolo urbanizzabile, e pertanto gli interventi per la realizzazione di edilizia sociale si localizzeranno anche nei nuovi settori. Con l’introduzione della medesima regola di cessione di un 10% vigente nella città costruita, ma non consolidata, si otterrà una certa omogeneizzazione della rendita nei due ambiti urbani (è opportuno sottolineare che questa ultima ipotesi di cessione sarà valida nel caso di settori di riqualificazione urbana o comunque in aree di intervento che generino plusvalore).

Alla luce di quanto detto, è facile vedere che la grande questione aperta è la città costruita e consolidata, dove la mobilizzazione dello stock costruito è realmente un problema che si traduce in segregazione a causa della modesta diversificazione delle attività economiche e dei gruppi sociali. Il meccanismo possibile, probabilmente l’unico, persegue un’osmosi di usi fra i settori lucrativi e quelli non lucrativi.

Si amplia l’ipotesi di realizzazione di abitazioni pubbliche nelle cosiddette zone(gli ambiti affidati alla promozione da parte degli operatori privati). Se con la legislazione anteriore (L2/2002)la riserva obbligatoria di suolo era corrispondente al 20% del totale della superficieresidenziale realizzabile, ora vi si aggiunge un 10% addizionale nei comuni con più di 10.000 abitanti o nelle capitali di comarca. È opportuno sottolineare che la costruzione di queste abitazioni da parte del privato sarà condizionata da un calendario stabilito dal piano; il mancato rispetto dei tempi potrà determinare l’espropriazione dei terreni.

Il piano regolatore, generale o particolareggiato, potrà stabilire le riserve di abitazioni senza la necessità di approvare un nuovo piano o un nuovo programma municipale, prevedendo allo stesso tempo una distribuzione omogenea di queste abitazioni con lo scopo di evitarne la concentrazione spaziale.

Con la riserva di abitazioni pubbliche su suolo privato, 30% in molti casi, sommata a quella realizzata su suolo pubblico che va ad aggiungersi al patrimonio municipale di suolo e abitazioni, 10% in più, e all’opportunità di realizzazione delle viviendas dotacionales publicas (di cui sopra) si equipareranno praticamente gli stock di edilizia residenziale pubblica e privata. Si tratta di valori uguali o inferiori a quelli già realizzati nel resto delle comunità autonome (ad esempio: Madrid, 50% di abitazioni pubbliche, Paesi Baschi, 60%).

Dalle innovazioni introdotte dalla nuova legge urbanistica, che saranno ulteriormente approfondite dalla futura Llei d’Habitatge, si evidenzia un deciso impegno a favore dell’accesso all’abitazione per i gruppi più deboli, al fine di ridurre le distorsioni del mercato ed arginare la speculazione.

Il secondo cavallo di battaglia della legge è la sostenibilità territoriale, la tutela del suolo non urbanizzabile, la protezione del paesaggio e l’uso razionale delle risorse territoriali.

Una volta individuato e riconosciuto l’indesiderabile fenomeno della dispersione insediativa, la legge si propone di contrastare l’occupazione indiscriminata del territorio, con il divieto di urbanizzare terreni con pendenza superiore al 20% (sempre, e quando non si renda assolutamente impossibile la crescita di nuclei esistenti), o di classificare come urbanizzabili terreni che abbiano perduto i loro valori forestali per l’effetto di incendi.

Sulla stessa linea, e finché non si introdurrà la direttiva 2001/42/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alla valutazione di determinati piani e programmi di tutela ambientale, si prescrive che i piani debbano incorporare la valutazione di impatto ambientale.

Infine, si deve sottolineare la preoccupazione dedicata a rendere più agile la gestione urbanistica in tutti gli ambiti, da quello comunale a quello privato. Si aumentano le competenze dei comuni, autorizzandoli ad approvare piani e programmi municipali. In questo modo si velocizza l’attività urbanistica dei comuni.

Per quanto riguarda la pianificazione attuativa,si elimina una delle regole anteriori che obbligavano a mantenere una quota, eguale o superiore al 45% di suolo privato nei nuovi settori di sviluppo. A questa disposizione si aggiunge un ampliamento della legislazione anteriore: la possibilità di delimitare ambiti e settori discontinui non soltanto nelle aree di proprietà pubblica, ma anche privata. In questo modo si ritiene di poter progettare interventi migliori che aiutino a compensare gli squilibri nella città esistente, consentendo al comune la realizzazione di una propria strategia di intervento.

Allegati:

- il testo in lingua originale

- il testo della legge

Firenze, 15 dicembre 2005, sala Foresteria del palazzo della Giunta Regionale, via Cavour 18, ore 17.30

In sala due assessori regionali, buona parte dei docenti di Urbanistica e Pianificazione della Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, consiglieri regionali, sindaci, assessori, ricercatori e studenti.

Riccardo Conti (assessore regionale al Territorio e alle Infrastrutture) apre la presentazione ponendo innanzitutto “un tema di carattere politico: c’è stata una sufficiente mobilitazione, innanzitutto culturale, delle forze che si sono opposte al progetto di legge Lupi? C’è stato un fronte, quello delle Regioni e dei Comuni.” Qual è la ragione di ciò?

Le problematiche urbanistiche e di governo del territorio sono sfumate dall’agenda politica nazionale anche perché passate alla competenza delle regioni. Il “modello urbanistico lombardo” (sarebbe un errore non riconoscerlo come tale) nel quale le analogie con il modello liberistico/solidaristico applicato alla sanità sono drammatiche in quanto non c’è mai un punto fermo programmatorio di tipo strategico che non sia il prodotto della negoziazione, è stato assunto dal governo nazionale come riferimento. Alcuni precedenti negoziali sono penetrati anche nella mentalità della sinistra: programmazione contrattata, patti territoriali, accordi di programma ecc.

Il problema deriva dal fatto che lo scambio tra esperienze regionali e riflessioni nazionali s’era bloccato, a fronte di un evidente bisogno di riforma, a partire dal mutato rapporto Stato-Regioni-Enti locali, anche nel governo del territorio. L’epoca è matura per una riforma di insieme: far emergere dal basso come regioni un progetto di riforma. Come Regione Toscana abbiamo avuto 64 contenziosi in Corte Costituzionale contro il governo centrale, tutti vinti dalla Regione. Ma questo non è governare. Il territorio non può essere variabile dipendente, ma un valore patrimoniale anche ai fini delle politiche di sviluppo.

Non penso a una legge che possa essere “modello” per le leggi regionali: in una prospettiva autenticamente federalista, la regione Lombardia deve poter applicare il suo modello, noi il nostro. Che cosa dovrebbe dunque fare una legge statale?

- attivare una cultura federalistica, cooperativa, non gerarchica e solidale che consenta una articolazione fra le diverse realtà, inquadrandole in alcuni requisiti di fondo: quadri conoscitivi, regole, statuti del territorio;

- unificare e dare regole ai diversi interventi settoriali dello Stato;

- superare la separatezza tra istituti di tutela e istituti di gestione;

- arrivare al “se” dopo avere affrontato il “come”;

- dare strumenti di regolazione dell’esercizio dei diritti di proprietà: noi, nella situazione attuale, siamo tutti pianificatori disarmati.

Anche a tal fine, penso andrebbe recuperato il ruolo che l’Istituto Nazionale di Urbanistica ha svolto per decenni, ultimamente venuto meno.

Alberto Magnaghi (Università di Firenze, Presidente Rete del Nuovo Municipio) dopo aver ricordato le due anime del libro, una più aperta alla necessità di innovare, l’altra più difensiva degli strumenti tradizionali della pianificazione, pone alcune domande:

perché i progetti di legge INU (1995), Turroni (1996), Lorenzetti (1999) si sono persi senza che il governo nazionale di centro-sinistra sia riuscito a fare una legge?

perché questa inerzia è stata accompagnata da un processo di liquidazione dei beni comuni in tutte le Regioni, Toscana compresa?

perché non si prende posizione sulla tendenza d’insieme, in Italia, a spostarsi dagli investimenti produttivi a quelli immobiliari, di rendita?

Questo disegno non è isolato: fa parte del sistematico percorso di “liberazione” dei soggetti economici di mercato dal territorio e dall’ambiente intesi come beni comuni non negoziabili e non mercificabili. I condoni edilizi come istigazione a delinquere, la vendita dei beni pubblici demaniali per far cassa, la liquidazione per decreto di anni di legislazioni ambientali, la aziendalizzazione dei servizi pubblici, il taglio della finanza locale che costringe i comuni ad allearsi nel consumo di suolo col blocco immobiliarista per sopravvivere (oneri di urbanizzazione ed ICI), sono i contesti di desolidarizzazione che questo disegno di legge santifica come principi generali di governo del territorio.

Ma il dibattito intorno a questa controriforma richiede un salto in avanti nelle proposte della sinistra. Lo stato dell’arte del territorio italiano, il degrado delle periferie e degli spazi pubblici, la diffusione selvaggia delle urbanizzazioni “legali” di bassa qualità, i gravi squilibri ambientali, le devastazioni paesistiche, non datano dal governo Berlusconi, ma fanno parte di una cultura del territorio che lo ha visto come mero strumento della crescita economica identificata con il benessere. Da tempo questa identificazione è saltata: la qualità degli ambienti di vita, degli spazi pubblici, dei beni comuni e relazionali, dei processi partecipativi; la valorizzazione dei giacimenti patrimoniali locali come elementi fondamentali per la produzione di ricchezza durevole, sono diventati elementi fondativi del benessere e del ben vivere. Il territorio e il suo governo diventano momenti centrali della costruzione del benessere; una nuova legge nazionale dovrà fondarsi sulla valorizzazione di questi cambiamenti in atto nella cultura del territorio.

La discussione di questo instant book assume particolare pregnanza per il dibattito nazionale proprio nei locali della Regione Toscana che, con la legge 1/2005 sul Governo del territorio ha posto alcuni principi fondamentali sulla valorizzazione della qualità territoriale, sul riconoscimento identitario e statutario delle risorse essenziali del territorio come beni comuni, sull’applicazione piena del principio di sussidiarietà e della partecipazione; intesa quest’ultima come modalità fondamentale e necessaria del governo del territorio, tanto che la stessa Regione sta avviando il processo di formazione di una legge ad hoc.

Umberto Allegretti (docente di diritto costituzionale, Università di Firenze) evidenzia come il disegno di legge presenti molti aspetti di incostituzionalità. Sottolinea le convergenze di molti passaggi del libro sul fatto che si riduce il governo del territorio alla disciplina d’uso dei suoli, come se il passaggio da urbanistica a governo del territorio, art.117, non fosse avvenuto e non comportasse il dovere dello Stato di dare principi che inquadrino l’uso dei suoli in una problematica più vasta; principi la cui omissione configura un fatto di l’incostituzionalità, anche a fronte di tutta l’impostazione dell’Unione europea. Per quanto riguarda la possibilità di interventi speciali dello Stato, sono sì previsti all’art.119, ma come risorse aggiuntive, non come intervento diretto nei progetti di rinnovo urbano (negoziati con i privati). Sulla questione degli standard l’incostituzionalità è sfrontata, in quanto è evaso l’obbligo dello Stato di fissare standard minimi. Il silenzio-assenso, ancora, non può diventare un principio generale: sarebbe una rinuncia totale alle competenze e funzioni amministrative.

La diversità tra alcune posizioni del libro è notevole: ma dobbiamo proprio usare il termine negoziazione? Il negoziato giuridico indica vincoli e obbligazioni fra interessi di proprietà, a fronte degli altri interessi. L’art.8 comma 7 chiarisce che gli accordi sono con gli interessi privati (titolari di proprietà). Per i piani operativi posso capire che si arrivi alla negoziazione, ma per il Piano strutturale? Si negozia con i proprietari? Credo dovremmo insistere, nel nostro linguaggio, sulla partecipazione, che non esclude gli “interessati” proprietari o operatori immobiliari, ma riguarda tutti i cittadini. La direttiva europea sulla VAS prevede che la partecipazione anche del pubblico debba intervenire prima dell’adozione delle scelte, superando la concezione delle osservazioni a posteriori, che avvengono dopo l’adozione dei piani. La rivista Democrazia e diritto nel 2003 ha dedicato un fascicolo intero al “sistema Berlusconi”. Quel sistema, che forse richiede di rispolverare il termine “blocco fondiario”, è parte del paese, ahimé.

Ornella De Zordo ( “Un’altra città un altro mondo”, Consiglio comunale di Firenze) nota come questo libro, presentato come instant book, in realtà sia ben più di ciò. Quello che esso delinea è infatti un modello di governo del territorio che va oltre la fase dell’iter legislativo; per questo la sua lettura si rivela assai utile in molti ambiti, non necessariamente specialistici.

Le obiezioni a questa legge, emerge chiaramente dal libro, sono le stesse che molti soggetti, qui a Firenze, hanno mosso al Piano Strutturale in corso di redazione, malgrado l’iter partecipato che lo ha connotato. Non solo noi abbiamo mosso queste critiche, ma la stessa Regione Toscana ha fatto rilievi analoghi (il Comune di Firenze ha utilizzato l’art.25 della LR 5/95, che consentiva l’adozione del piano senza conferenza dei servizi preliminare). Il pericolo che questo “modello” venga adottato anche dal centro-sinistra è dunque ben presente.

Rossano Pazzagli (coordinatore nodo toscano Associazione Rete del Nuovo Municipio) sottolinea che il valore di questo libro non sta solo nella critica alla legge Lupi, ma a un berlusconismo che ha contagiato gran parte del paese, centro sinistra compreso. Come rete del Nuovo Municipio, con i nostri Comuni e le nostre Province si cerca di costruire una modalità condivisa di riconoscimento del territorio come bene comune.

La legge Lupi riflette una fase di decisioni post-democratiche. Con la crisi della rappresentanza in atto, e il sistema delle scelte in mano a lobbies, parlare di urbanistica contrattata oggi è molto peggio di quanto non fosse ieri. E quello che stupisce è il silenzio politico assoluto, cui fanno da contraltare soltanto alcuni enti locali. Dovremmo riaprire questa discussione generale sullo sviluppo: se non si esce dal paradigma della crescita, non si cambia. L’augurio è che la “fabbrica del programma” ne tenga conto.

Claudio Saragosa (Sindaco di Follonica): martedì scorso il libro è stato presentato a Follonica, su invito del Consiglio comunale, da Vezio De Lucia, e in effetti ciò che è emerso è che la legge Lupi ha tanti contenuti non noti ai tanti che potrebbero effettivamente avere buone ragioni per opporvisi. Noi come Comune abbiamo cercato di introdurre negli obiettivi del piano strutturale valori diversi da quelli fondiari, attraverso l’attivazione di processi di partecipazione ex ante (Forum per la città), per le trasformazioni urbanistiche, introducendo i grandi temi multisettoriali con molti attori. Di fronte a questa legge ci sentiamo depredati di un metodo sperimentato, con alto valore pedagogico influente sulle scelte di fondo del piano. Contro questa legge intendiamo deliberare una mozione in consiglio comunale.

Raffaele Paloscia (direttore del Dipartimento di Urbanistica, Università di Firenze): l’articolazione di questa legge assurda è chiara. Io starei attento a dire, come fanno molti, che è una legge liberista: questa legge prevede infatti l’estrazione del plusvalore da parte dello Stato. A chi preferiscono riferirsi Caltagirone e gli altri immobiliaristi per i progetti di rinnovo urbano, dove avvengono le più rilevanti operazioni finanziarie? Allo Stato. Come molti altri provvedimenti, questa legge è un misto di devolution e ricentralizzazione. Se parliamo solo di liberismo, sbagliamo obiettivo.

Monica Sgherri (capogruppo di Rifondazione Comunista in Consiglio regionale) osserva come “anziché esaltarci su quanto avviene in Regione Toscana, dovremmo riconsiderare quanto è avvenuto anche qui”. Ad esempio, il famoso passaggio sul risparmio di suolo (della buona legge regionale n.5/95) ha consentito poi un intervento come quello di Fiat-Fondiaria a Novoli, che non ha una effettiva domanda. Continuano a proliferare interventi che non rispondono a una domanda presente, e come tali “comprano” il futuro. Se già il Comune di Firenze non ha oggi poteri contrattuali sufficienti, rispetto alle grandi trasformazioni messe in moto dai privati, che cosa capiterà ai Comuni più piccoli? E a tutti i Comuni con questa nuova legge? Lo stesso non-consumo di suolo apre un mercato delle possibili dismissioni (ad esempio, ospedali: nuovi interventi di interesse collettivo su aree agricole, e riuso per interessi privati delle aree dismesse). C’è un’assenza di codice che indichi l’interesse collettivo. Credo che nell’urbanistica si sia aperta la frattura più ampia fra rappresentanti e rappresentati. Proprio nell’urbanistica manca il terzo soggetto, ovvero quando si va a trasformare il territorio, insieme all’amministrazione pubblica e al privato, ci sia anche il terzo soggetto che misura la qualità della vita e i bisogni dei cittadini, entrambi con la q piccola e la b piccola del quotidiano e delle sue difficoltà.

Giorgio Pizziolo (docente di urbanistica, Università di Firenze) si dichiara d’accordo nel rilevare l’assenza totale dell’interesse pubblico: nella legge Lupi, ma anche nelle pratiche attuali di trasformazione del territorio. Territorio che va considerato come soggetto vivente. In Toscana si predica bene ma si razzola male: il caso di Firenze è tragico, ma in molti casi la negoziazione è l’unica pratica di fatto. La densità dei comitati in cui la popolazione si organizza è un indicatore di come vengono compiute le scelte.

Anna Marson, data l’ora ormai tarda, rinuncia alle conclusioni previste per dare spazio all’intervento di Gamberini. Prima di passare la parola, richiama tuttavia due questioni.

La necessità e l’urgenza, se l’amministrazione regionale toscana ritiene di avere un modello e un’esperienza diversa (da quella negozial/liberista proposta dalla legge Lupi) da proporre alla riflessione innanzitutto politica del centro-sinistra nazionale, che essa stessa si faccia parte attiva nel sollecitare e promuovere con urgenza un dibattito sul governo del territorio.

L’apporto che questa riflessione sulla legge Lupi può dare a migliorare la stessa legge regionale toscana n.1/05 sul governo del territorio, o i suoi strumenti applicativi. Più in particolare: l’introduzione come obiettivo del consumo zero di suolo e una più attenta considerazione dei carichi urbanistici derivanti dal riuso delle aree già urbanizzate; sviluppare principi di coesione sociale e territoriale nella definizione operativa delle forme di compensazione intercomunale (già previste dalla legge) dei costi e benefici derivanti dai nuovi interventi; la sperimentazione di strumenti operativi per applicare il principio dell’interesse collettivo contro la rendita; la sperimentazione di nuovi standard urbanistici.

Marco Gamberini (dirigente settore Pianificazione, Regione Toscana) annuncia il fatto che si sta lavorando a una proposta di legge nazionale sul governo del territorio di iniziativa delle Regioni. La legge Lupi è infatti innanzitutto una legge arretrata: considera le infrastrutture, gli interventi speciali ecc. come qualcosa di esterno e diverso dal governo del territorio, esternalizzando ogni forma di controllo sui beni di interesse collettivo. E il governo del territorio allora cos’è? Noi abbiamo degli esempi, in Toscana, nel Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale di Prato così come nel Piano Strutturale di Follonica, di come il governo del territorio possa tenere insieme i diversi aspetti settoriali in un processo unitario di elaborazione e di decisione. In questa legge non c’è inoltre né partecipazione né valutazione. Tutto l’interesse collettivo è spostato altrove, fuori da quanto disciplinato da questa legge. Forse questa legge non sarà approvata, Ma è comunque necessario riprendere la riflessione su tutta questa materia, usando a tal fine anche l’attuazione della legge

Un piano nel mirino

Sandro Roggio

Prende forma il progetto del presidente Soru per una più rigorosa tutela dei paesaggi della Sardegna, specie di quelli costieri. La proposta di piano paesistico, completata nei giorni scorsi, entra nella fase del confronto con gli enti locali. Ed è davvero un'altra storia quella che si annuncia. Come sa chi ha visto la prima puntata, quella conclusa nel `93 tra tante omissioni e contraddizioni che hanno contribuito all'annullamento degli strumenti approvati. Il procedimento si caratterizza per l'accesso facile e senza mediazioni alle informazioni ( il lavoro è già consultabile in rete e non è sempre così). Ma soprattutto c'è da dire, e con forza, che nell'era delle leggi personalizzate - per stare al tema, di leggi molto accondiscendenti verso la rendita edilizia (come la legge Lupi approvata di recente dalla Camera)-, questo modello è davvero in controtendenza.

E non c'è dubbio che sarà un buon esempio per le altre Regioni.

Il cambiamento è profondo e richiede un approccio adeguato: è la struttura stessa di questo progetto che non ammette una lettura secondo le logiche di un'altra stagione politica, quando prevaleva il rito delle distribuzione patteggiata dei volumi. Quando i piani - specie quelli comunali- erano ratifiche di volontà manifestate dalle imprese di fare, qui o lì, - in genere nei luoghi più belli e accessibili - ciò che chiedeva il mercato. Quando i buoni principi contenuti nella vecchia legge, erano indeboliti dalle eccezioni previste nelle stesse disposizioni per favorire alcuni importanti imprenditori.

Il complesso delle regole proposte contraddice ogni cedimento discrezionale (tutti uguali di fronte alla necessità di entrare nella globalizzazione del mercato turistico «con la schiena dritta», come ha detto l'assessore all'urbanistica Gianvalerio Sanna presentando il piano). Cosa peraltro molto conveniente: non solo perché il turista si è fatto più esigente, e chiede di conoscere luoghi veri e non villaggivacanze di cartapesta. Ancora prima perché i sardi hanno iniziato a riconoscere la necessità di non svendere i luoghi preziosi dell'identità.

Il paesaggio- valore costituzionale- è nel progetto protagonista, presupposto per ogni scelta per cui le trasformazioni ammesse sono prevalentemente volte alla riqualificazione. I luoghi che sono stati risparmiati dall'assalto speculativo degli ultimi 30 anni saranno puntigliosamente conservati. E si prevedono programmi estesi di riordino urbanistico (perché ci sono molte brutte cose sparse da rimediare) e l'idea di fondo è quella di valorizzare e potenziare gli insediamenti esistenti - quelli abitati tutto l'anno - che con pochi adattamenti potrebbero essere in grado di offrire un'eccellente ospitalità. Insomma un altro modello di sviluppo.

La fase del confronto nei prossimi mesi sarà molto impegnativa: sono previste una ventina di istruttorie pubbliche che Soru stesso, si dice, presiederà.

Sarà un percorso difficile perché c'è da attendersi- già ce ne sono- organizzate reazioni alle previsioni che contraddicono ipotesi di intervento un tempo superprotette, ritenute oggi inammissibili. Per questo serve che la discussione, che non dovrà essere limitata ai comuni costieri, e neppure alla sola Sardegna, rinforzi il consenso attorno all'idea del governo regionale che si è rivelato più vasto di quanto ci sia aspettasse.

Solo da un profondo cambio di mentalità, normalmente lento su questi temi, la proposta potrà essere non solo approvata ma messa al riparo. Oggi, non è una novità, chi ha interessi - e fa politica- sta già preparano le mosse per una controriforma.

Renato Soru ridisegna la Sardegna

Coistantino Cossu

Salvacoste atto secondo: la giunta Soru ha approvato nei giorni scorsi il piano paesaggistico regionale. Vengono confermati i principi di salvaguardia, compreso il divieto di costruire entro i due chilometri dal mare, stabiliti dalla legge dell'agosto dell'anno scorso, ma si potrà riprendere l'attività edilizia negli insediamenti esistenti, quelli degli anni Cinquanta e quelli successivi, anche i più recenti. Qui, però, si potrà intervenire, prevalentemente, per riqualificare ciò che già esiste, con attenzione al recupero del degrado, alle ristrutturazioni, alla cancellazione graduale degli interventi più dissennati. Si potranno costruire anche nuove cubature, ma solo per interventi limitati legati all'attività turistica alberghiera di qualità, niente villaggi alveare o seconde case L'obiettivo è di evitare quanto più possibile nuove costruzioni e di migliorare quelle esistenti, riconvertirle. «Con la vecchia normativa - spiega l'assessore all'urbanistica Gian Valerio Sanna - prevalevano i piani urbanistici comunali e tutti attendevano di sapere quale cubatura poter utilizzare per le costruzioni. Ora il criterio è capovolto: si potrà costruire o modificare solo se c'è aderenza con il paesaggio circostante e se questa corrispondenza migliora l'utilizzo del territorio ed è funzionale al suo sviluppo». «Nelle campagne - aggiunge Soru - blocchiamo le lottizzazioni abusive vietando ogni nuova costruzione all'interno di appezzamenti inferiori ai dieci ettari. Si potrà costruire solo per la produzione, in caso di attività produttive agricole o legate all'agricoltura».

Che cosa Renato Soru esattamente abbia in mente lo si vede bene nel caso delle coste del Sulcis. Qui la chiusura delle ormai improduttive miniere di carbone e di zinco ha lasciato libera una cubatura enorme. Vecchi edifici abbandonati, case di minatori, uffici delle compagnie minerarie, impianti di superficie per lo stoccaggio e la pulitura dei materiali estratti dalle gallerie: per riqualificare tutto ciò la giunta Soru ha lanciato un bando internazionale aperto alle multinazionali del settore turistico.

Insomma, neppure un metro cubo in più in una delle zone e più belle della costa orientale della Sardegna, ma riqualificazione: villaggi di minatori trasformati in centri residenziali e in alberghi ad alto target. Non si costruisce niente in più, è vero; ma è altrettanto vero che la zona delle miniere, dopo l'intervento dei «soggetti qualificati», cambierà aspetto in maniera radicale; diventerà un comprensorio turistico di rilievo internazionale, capace di attrarre una domanda molto superiore rispetto a quanto accade ora. E infatti per il concorso bandito da Soru nella zona delle miniere hanno già manifestato interesse la Real Estate del gruppo Tronchetti Provera e la Colony Capital di Tom Barrack, il miliardario texano proprietario della Costa Smeralda.

Proprio la Costa Smeralda sarà un altro importante banco di prova del piano approvato dalla giunta regionale sarda. Lo scorso novembre è stato presentato in consiglio comunale ad Arzachena (la cittadina nei cui confini è compreso il villaggio creato dal principe Karim Aga Khan negli anni Sessanta) un progetto della Sardegna Resort (controllata dalla Colony Capital di Barrack) che prevede nuove volumetrie per circa 170 mila metri cubi, con un investimento complessivo di 180 milioni di euro, spalmati in sette anni di intervento. Una vera e propria colata di cemento vecchio stile. Soru e Barrack si sono incontrati. L'imprenditore americano ha detto che i suoi progetti di sviluppo rispettano l'ambiente. Come andrà a finire? Barrack sarà autorizzato a costruire visto che fa turismo di qualità? Oppure si dovrà accontentare di restaurare ciò che ha già? Per ora si sa solo che Soru ha invitato il successore dell'Aga Khan a dirottare gli investimenti sul progetto di recupero turistico delle miniere del Sulcis.

Proprio il caso del Sulcis, però, dimostra che riqualificazione può anche significare modificare radicalmente lo stato delle cose in un intero territorio. Barrack o Tronchetti Provera dovranno restaurare case cadenti e trasformarle in alberghi di lusso, ma bisognerà anche costruire infrastrutture, provvedere a servizi essenziali che ora mancano; aumenterà la pressione antropica su due gioielli naturalistici come le spiagge di Scivu e di Piscinas e su svariati ettari di dune sabbiose che sono uniche nel Mediterraneo; un sistema che ha equilibri delicatissimi. Tutta la zona è inserita all'interno di un'area protetta, il «Parco geominerario del Sulcis-Iglesiente», che non a caso sinora è rimasto solo sulle carte dei decreti istitutivi. A Piscinas come a Porto Cervo? «Il recupero dei siti minerari dovrà avvenire - sta scritto nel piano - senza snaturare il paesaggio minerario reinterpretandolo in falsa chiave turistica o in termini di rinnovo avulso dal contesto». E' un punto sul quale bisognerà fare molta attenzione che alle dichiarazioni d'intenti seguano i fatti. Come per tutto il piano approvato dalla giunta Soru.

Postilla

Il territorio costiero soggetto a particolare tutela come bene d'insieme di rilevanza regionale non è costituito, come si afferma nell'articolo, da una fascia di 2000 metri, ma da un'area a profondità variabile - ove superiore ove inferiore ai 2 km - delimitata sulla base di una specifica analisi delle caratteristiche strutturali del territorio. Le "sciabolate" geometriche (tot metri lineari) transitoriamente poste dalle leggi di salvaguardia sono uno strumento provvisorio che la pianificazione è chiamata a superare con più rigorose determinazioni, legate alle specifiche caratteristiche dei siti e della loro dinamica: lo fece Galasso nel 1985, lo ha fatto Soru nel 2004.

Roma, 15 dicembre, ex-albergo Bologna: presentazione del volume su La controriforma urbanistica, pubblicato da Alinea, Firenze.

Ne discutono, con attenzioni diverse, ma con valutazioni unanimemente critiche nel merito della legge Lupi, Paolo Berdini, Vezio De Lucia, Vittorio Emiliani, Maria Cristina Gibelli, Cesare Salvi, Patrizia Sentinelli, e Sauro Turroni

La sala è affollatissima di urbanisti, esponenti del mondo della cultura e della politica, amministratori.



M.G. Gibelli, che ha coordinato il volumetto, sottolinea le preoccupazioni da cui ha avuto origine la rapidissima messa a punto della pubblicazione: l’improvvisa accelerazione parlamentare su una legge urbanistica stesa in una forma approssimativa sotto molti aspetti; la disattenzione della stampa; il tentativo di far passare questa legge come bipartisan.

Ma è il clima generale in cui si è sviluppato il dibattito sulla legge Lupi uno dei motivi di maggiore preoccupazione per gli autori del volume collettaneo.

A questo aspetto Gibelli dedica alcune riflessioni introduttive. Sembra infatti che attualmente “un nuovo spettro si aggiri per l’Italia”: si tratta dello spettro del piano che non soltanto viene spesso evocato dalla maggioranza di centro-destra, e in particolare dall’onorevole Lupi, come il principale responsabile del “fallimento” delle nostre città, ma che sembra turbare i sonni anche di molti urbanisti.

In realtà, sottolinea Gibelli, siamo di fronte alla ennesima anomalia nazionale: in giro per l’Europa, lo spettro del piano non sembra incutere soverchio timore; anzi, si sta assistendo ad un rinnovato impegno riformatore e ad un deciso ritorno alle regole, dopo le esperienze deregolative degli anni ‘80/primi anni ’90: anche se le regole vengono ovunque riattualizzate sulla base delle problematiche e delle sfide emergenti.

Gli esempi non mancano. Traendo spunto da due leggi recentissime (la legge “Solidarité et rénouvellement urbains” approvata in Francia nel 2000, durante il governo Jospin, e la Ley de urbanismo para el fomento de la vivienda asequible, e la sostenibilidad territoriale y de la autonomìa local approvata dal governo socialista catalano nel 2005), Gibelli sottolinea la distanza siderale di queste leggi dalla “via italiana” alla riforma urbanistica. .

Si tratta infatti di leggi che affrontano alcun problemi che sono cruciali anche per il nostro paese (l’eccessivo consumo di suolo, la crescente doppia velocità urbana, la debolezza della pianificazione di inquadramento di area vasta,…), e che propongono con coerenza principi volti a dotare i poteri pubblici dei nuovi strumenti necessari per orientare l’attività di pianificazione in difesa dell’interesse generale e, in particolare, per la razionale utilizzazione delle risorse territoriali e la solidarietà sociale. Entrambe le leggi introducono alcune innovative regole non contrattabili in materia di sostenibilità e di risposta alla domanda abitativa dei gruppi più deboli.

La legge Lupi, in evidente controtendenza con quanto sta avvenendo in Europa, sancisce invece un solo principio: la rinuncia al ruolo pubblico come garante del bene collettivo, e il primato del privato (poiché privilegia un modello negoziale senza regole, elitario, corporativo e non trasparente).

Prende poi la parola Vittorio Emiliani (giornalista) che sottolinea come nella Legge Lupi, così come in altre leggi e provvedimenti recentemente approvati, o in corso di approvazione (quali la scandalosa legge delega in materia di ambiente; la vendita delle spiagge demaniali ai privati, concedendo gli arenili pubblici più intatti a chi vi costruirà grandi alberghi contenuta in Finanziaria; il colpo basso inferto alla Legge Merloni in materia di garanzie di concorrenzialità e di trasparenza negli appalti, contenuto nel decreto legislativo che dovrà essere approvato entro il 31 gennaio prossimo) si materializzi un lucido e perverso progetto: non certo di semplificare e flessibilizzare in direzione virtuosa il processo decisionale in materia urbanistica e di pianificazione, ma di affidare il governo del territorio a pochi, grandi detentori di aree, in aperta contraddizione con le moderne esigenze di un capitalismo avanzato.

I dati sui consumi di suolo sono per Emiliani l’indicatore più allarmante: dagli anni ’50, abbiamo consumato, ricoprendolo di cemento, quasi il 40 per cento della superficie non urbanizzata al 1951; superiamo i 100.000 e talora i 200.000 ettari all’anno (un ritmo come minimo doppio di quello tedesco, il quale si attesta sui 47.000 ettari l'anno).

E la legge Lupi, che esalta le opportunità di nuova urbanizzazione, se approvata è destinata ad accelerare questa tendenza perversa.

Paolo Berdini (urbanista) ritorna sul tema dei poteri forti e della esplosione della rendita, citando dati ANCE: dal 1998 al 2005 il valore degli immobili è cresciuto del 60%; e le responsabilità del governo Berlusconi sono state gravissime. Berdini cita lo scudo fiscale che ha consentito il rientro di 70.000 miliardi di lire, reinvestiti ampiamente nel settore immobiliare, in particolare dopo l’attentato alle torri gemelle; la vendita sistematica del patrimonio pubblico e degli enti previdenziali che ha prodotto l’esodo forzato di 300.000 famiglie dalle città; l’infinita serie di condoni, non solo edilizi; il decreto sulla competitività che introduce la possibilità di aumenti di cubatura. La demolizione della pianificazione e il premio al malaffare vanno insieme, conclude Berdini, e il ritorno alle regole, anche se più trasparenti e snelle, dovrà costituire un impegno prioritario del centro-sinistra.

Vezio De Lucia, urbanista e uno degli autori ospitati nel volumetto, ripercorre le tappe più significative dell’urbanistica post-bellica: dalla legge urbanistica del 1942 alle riforme realizzate negli anni del primo centro-sinistra, quando si definirono alcune regole fondamentali per il governo del territorio. Si sofferma poi su alcuni contenuti particolarmente nefandi della proposta Lupi: l’incentivo insensato a favore di ulteriori consumi di suolo (Art. 6, comma 5); l’abrogazione degli standard urbanistici; la separazione della tutela, riservata allo Stato, dall’ordinaria attività di pianificazione comunale .

La parola passa ai politici.

Cesare Salvi, vicepresidente del Senato, dichiara immediatamente di considerare la legge Lupi non emendabile, poiché tira le fila del peggio di un’onda lunga di restaurazione (iniziata con la stroncatura della Legge Sullo) che nel nostro paese ha senza tregua trasferito risorse imponenti a favore della rendita parassitaria.

Patrizia Sentinelli, della direzione del PRC, fa un intervento appassionato: elogia l’iniziativa collettiva che ha reso possibile il volumetto su “La controriforma urbanistica” poiché ha colmato un preoccupante vuoto di riflessione critica e sottolinea in particolare l’alibi fornito alle amministrazioni locali dal taglio drastico delle risorse finanziarie. A fronte di risorse sempre più scarse, le amministrazioni in difficoltà hanno scelto la strada della privatizzazione dei servizi pubblici e della perequazione urbanistica.

La Legge Lupi, anche se non verrà approvata, sottolinea Sentinelli, va analizzata anche per il “dopo”, poiché legittima un disegno perverso che si è manifestato anche in alcune leggi urbanistiche regionali già approvate o in alcune proposte attualmente in discussione (il riferimento va alla legge del Lazio). Si tratta di leggi che introducono il principio dello “scambio di cubatura”: un principio perverso, destinato a peggiorare la vita dei cittadini.

In questo senso la battaglia contro la legge Lupi costituisce un momento di importanza fondamentale per la politica.

Conclude Sauro Turroni (Senatore e Vicepresidente dalla Commissione Territorio, ambiente, beni ambientali) che riferisce dei lavori della Commissione, delle audizioni in corso e della possibilità che i tempi tecnici impediscano di arrivare all’approvazione della legge Lupi durante la legislatura.

Due sono le considerazioni avanzate da Turroni: la prima è che la Legge Lupi affonda le sue radici in anni relativamente lontani. Il riferimento è alla legge 142/1990 che ha legittimato gli accordi di programma come metodo ordinario di governo del territorio; la seconda riguarda la propensione a “fare cassa” che condiziona le politiche urbanistiche comunali. E’ con l’ introduzione del principio di autoapprovazione dei piani urbanistici locali, che ha interpretato in maniera opportunista, localista, di malinteso federalismo il principio di sussidiarietà, che tale propensione a “fare cassa” ha prevalso sui temi cruciali del cauto consumo delle risorse territoriali e della coesione sociale.

Mentre si svolge l’incontro, Turroni riceve una telefonata: il governo ha approvato l’ennesimo condono edilizio (questa volta per le proprietà delle Ferrovie dello stato)…

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