il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2017 (p.d.)
Problemi annosi, che i cambiamenti climatici rendono più drammatici, trasformando sempre più spesso un acquazzone in temibile “bomba d’acqua”. In questa situazione, è di importanza vitale una riflessione sul “tempo di ritorno”, cioè l’intervallo medio con cui si verificano eventi meteorologici di particolare intensità. Calcolare il tempo di ritorno di precipitazioni estreme è una collaudata tecnica statistica: l’Istat diffonde annualmente la serie storica dei dati climatici dal 1866 a ieri, consentendo di stabilire il livello “normale” di piovosità e, per distinzione, la frequenza di eventi straordinari nelle varie aree geografiche. Ma le principali opere pubbliche (per non dire dell’edilizia privata) sono state progettate ed eseguite tenendo conto di tempi di ritorno ormai radicalmente trasformati a seguito dei cambiamenti climatici a livello planetario. In altri termini, il tempo di ritorno di una “bomba d’acqua” si è ridotto di anno in anno, e presumibilmente si ridurrà ancora. È dunque essenziale, se si vuol fare un buon lavoro di prevenzione con alto grado di probabilità, incrociare le serie storiche sulla piovosità con valutazioni accurate sulle modificazioni del clima, e ricalcolare anno per anno il tempo di ritorno degli eventi estremi.
“La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi se si vuole salvare il suolo in cui vivono gli Italiani” (1951): questo monito di Luigi Einaudi, allora Capo dello Stato, è rimasto inascoltato. Continuiamo a violentare la natura, che “si vendica” sempre più spesso: anzi proprio gli anni del dopoguerra hanno visto un’indiscriminata espansione edilizia, informi periferie cresciute a macchia d’olio senza tener conto della fragilità del territorio. La legge nazionale di protezione del suolo invocata da Einaudi non vide mai la luce, anzi dal 1977 la protezione idrogeologica passò alla competenza delle Regioni (Dpr 616). Andava così dispersa l’esperienza accumulata da alcuni organi statali, dal Genio Civile agli Ispettorati forestali, all’Azienda Foreste demaniali, irresponsabilmente soppressa nel 1977 senza nemmeno trasferirne le strutture alle varie amministrazioni regionali. Le Regioni poi, per lo più, trasferirono le relative competenze alle Province o alle Comunità montane, frazionando e segmentando il territorio in modo quando mai irragionevole e contrario a qualsiasi seria pianificazione di azioni manutentive o preventive. In Toscana questa riduzione del territorio a uno spezzatino per minuscoli e spesso pretenziosi ras locali si è ancora complicata, con l’attribuzione di ulteriori competenze ai Consorzi di bonifica.
Quel che ci vorrebbe è uno sguardo unitario, calibrato sulla geografia e la geologia, e non sui confini fra comuni, province e regioni. Si è invece generato un pulviscolo di competenze, sostanzialmente immodificato anche dopo la legge del 1989 (n. 183) sulla difesa del suolo. L’autonomia regionale, anziché consolidare la difesa del suolo, ha ferito a morte ogni cultura ed esperienza nella gestione dei complessi problemi idrogeologici, spesso affidati a “esperti” improvvisati di nomina esclusivamente politica. Situazione ulteriormente aggravatasi dopo la pessima riforma costituzionale del 2001, che trasferiva alle Regioni ulteriori competenze e funzioni, e dopo l’ancor peggiore riforma del 2016, per fortuna sgominata dal referendum del 4 dicembre: ma ne sopravvive, per “merito” di Delrio, la cosiddetta abolizione delle Province (peraltro ancora previste dall’art. 114 Cost.), che ha portato a ulteriori frantumazioni di funzioni e competenze, per non dire della recentissima abolizione della Guardia Forestale. Per riassumere: oggi spendiamo molto più di una volta per tenere in piedi un disordinato arcipelago di enti di tutela, con efficienza vicina a zero. E il principale ostacolo a una vera difesa del suolo è che non si sa bene chi dovrebbe farla.
Secondo una ricerca condotta due anni fa dall’Associazione Nazionale Costruttori e dal Cresme (Centro di ricerche economiche e sociali sul mercato edilizio), in Italia perdiamo mediamente 3,5 miliardi l’anno per la mancata manutenzione del territorio, per non dire delle vite umane: secondo il Consiglio Nazionale dei geologi, negli ultimi 25 anni si contano 12.600 morti o dispersi, e 1.600 eventi su un totale di 4.000 hanno comportato vittime. A fronte di questo disastro perpetuamente annunciato, secondo Ance-Cresme un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio richiederebbe un investimento annuo di 1,2 miliardi per 20 anni. Ma il principale ostacolo è la frantumazione delle normative, l’arroccarsi di micro-signori della guerra nelle loro roccaforti locali: una navigazione di piccolo cabotaggio che consente solo analisi e provvedimenti di limitatissimo orizzonte, ma fornisce un alibi ai Soloni dei governi nazionali, che avendo delegato tutto se ne lavano cinicamente le mani. Intanto, l’Italia frana e la gente muore.
Ecco come la Regione Campania rinvia ad un futuro - che via via retrocede - la determinazione organica di regole per l’uso pianificato del territorio, e consente intanto forme dissennate di densificazione edilizia e di abusivismo
A giudicare dalla produzione legislativa della Regione Campania, le finalità effettive cui deve rispondere il “governo” del territorio secondo le visioni della maggioranza che la amministra appaiono molto preoccupanti. Lo documentano bene – io credo – un provvedimento compiuto (ora impugnato dal ministro Delrio) ed uno in itinere.
Il primo è costituito dalla legge regionale 19/2017.
Fra parentesi, vale la pena di evidenziare, con la sensibilità scaramantica che affligge noi partenopei, che il numero 19 non porta bene al territorio e all’ambiente in Campania. Nel 2001 la legge regionale 19 è stata quella con cui si è dato il via alla costruzione di parcheggi sotterranei, piccoli, grandi e grandissimi – tantill’ tant’, cchiù tant’ e tanton’, per dirla con il napoletano antico de ‘o guarracin’ – al posto degli agrumeti e dei giardini della penisola sorrentina. Nel 2009 la legge regionale 19 è stata quella con cui si è “disciplinato” in Campania il famigerato piano casa berlusconiano, poi più volte rimaneggiata e prorogata, sempre peggiorandola.
Ora, nel 2017, con la nuova legge 19 la maggioranza che sostiene la giunta De Luca ha annunciato «linee guida regionali per supportare gli enti locali che intendono azionare misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi ai sensi dell’articolo 31, comma 5, del DPR 6 giugno 2001, n. 380 (testo unico […] in materia edilizia)».
In concreto, la sullodata maggioranza impegna l’esecutivo regionale a fornire ai consigli comunali, ormai entro pochi giorni (devono essere 90 a partire dal 22 giugno 2017), suggerimenti utili a:
- individuare i «prevalenti interessi pubblici» che possano giustificare la mancata demolizione di edifici abusivi;
- affittare o vendere, «anche con preferenza per gli occupanti per necessità», gli immobili abusivi acquisiti al patrimonio comunale e non demoliti;
- determinare quindi canoni o prezzi differenziati per le superfici adeguate al nucleo familiare e per quelle eventualmente eccedenti;
- definire e verificare l’originale requisito di “occupante per necessità”;
- determinare i parametri relativi all’adeguatezza della superficie abitativa rispetto alla composizione familiare;
- comunicare le deliberazioni consiliari in materia ai magistrati che – arrassosia ! – abbiano ordinato, per gli stessi immobili, la demolizione ai sensi dell’art. 31 comma 9 del DPR 380/2001.
Con la medesima legge 19/2017, poi, non solo è stata concessa un’ulteriore proroga, rispettivamente fino al 31 dicembre 2018 ed al 31 dicembre 2019, per l’adozione e per l’approvazione dei Piani Urbanistici Comunali (PUC) nelle province dotate di un piano territoriale approvato (tutte, meno quella di Napoli, dove pertanto non vige praticamente scadenza alcuna), ma viene anche consentito nei comuni sprovvisti di piano di ampliare, nel frattempo, gli edifici artigianali o industriali fino ad un rapporto di copertura pari al 60 % del lotto.
In parole povere, la Regione Campania rinvia ad un futuro che via via retrocede la determinazione organica di regole per l’uso pianificato del territorio, consente intanto forme dissennate di densificazione edilizia con l’alibi delle destinazioni produttive e, comunque, resiste all’idea di demolire gli edifici abusivi, dei quali auspica invece la vendita ai medesimi abusivisti, con evidenti ammiccamenti – fora le zeze e fora lo scorno, disse la vavosa malezziosa – a tutti coloro che di diventare abusivisti stanno meditando.
E nei territori sui quali le regole sono già state compiutamente determinate ? Per esempio, nell’area sorrentino-amalfitana, che è dotata di un piano urbanistico-territoriale (in sigla PUT) con specifica considerazione dei valori paesaggistico-ambientali approvato, ai sensi della 431/1985, con la legge regionale 35/1987 ? Nella seduta del 20 luglio 2017 la commissione consiliare regionale competente ha licenziato per l’aula, con qualche prudente emendamento, la proposta di legge del consigliere regionale Alfonso Longobardi, del Gruppo “De Luca Presidente”.
La proposta licenziata prevede numerose modifiche della l.r. 35/1987, che costituisce il testo normativo del PUT. Modifiche tendenti tutte a consentire interventi edilizi non ammessi oggi, specie nelle more della formazione dei PUC conformi al PUT (in particolare per quanto concerne ristrutturazioni ed ampliamenti edilizi anche in ambiti fortemente tutelati), oppure a ridurre la portata delle disposizioni volte a salvaguardare il paesaggio o a soddisfare esigenze collettive.
Le possibili modifiche più gravi sono diverse. Ci limitiamo perciò a citarne alcune esemplificando.
Si propone innanzitutto di introdurre nell’art. 3 la specificazione che il PUT «ha efficacia sull’attività di trasformazione edilizia ed urbanistica soltanto attraverso i piani urbanistici comunali e/o intercomunali», in frontale conflitto con la natura del PUT, che ha valore ed efficacia di piano paesaggistico, ed è dunque immediatamente, direttamente ed universalmente cogente.
Si vorrebbe poi introdurre l’obbligo, per il dimensionamento dei piani comunali, di calcolare il fabbisogno abitativo computandovi la «somma dei fabbisogni di ciascuna abitazione sovraffollata»; l'interpretazione letterale del testo integrativo porterebbe a considerare sovraffollata ogni abitazione in cui risieda una famiglia con un numero di componenti superiore a quello delle stanze, quindi anche un'abitazione di 3 stanze in cui viva una famiglia di 4 persone o una di 4 stanze con 5 residenti o una di 5 stanze con 6 residenti, e via dicendo. Di conseguenza, il vano che risulterebbe necessario in ognuno di questi casi confluirebbe nel monte vani di fabbisogno da tradurre in nuove abitazioni programmate, ma l'abitante in più nell'abitazione sovraffollata non ne riceverebbe alcun beneficio, continuando a dover vivere in quella che usa: in altri termini, il disagio di alcuni si tradurrebbe nel vantaggio parassitario di altri. E non è un caso, infatti, che si preveda anche di cancellare radicalmente la norma che oggi obbliga a riservare i nuovi alloggi necessari in rapporto al disagio abitativo alle sole famiglie residenti in abitazioni malsane o sovraffollate. Tali proposte appaiono in definitiva capaci di produrre soltanto un sovradimensionamento speculativo dei piani comunali.
Si intende inoltre cancellare integralmente l’art. 11 che prevede specifici standard urbanistici per i comuni dell’area, incrementati rispetto agli altri della Campania per ciò che riguarda il verde pubblico, in considerazione della loro vocazione turistica.
Si propongono ancora forti modifiche alla disciplina degli interventi stradali, consentendo dovunque, anche per la viabilità minore o poderale, di realizzare sezioni stradali praticamente doppie rispetto a quelle minimali oggi ammesse in rapporto alla variegatissima e fragile morfologia del territorio ed ai suoi valori paesaggistici.
Si ammettono infine ampliamenti volumetrici, nuove pertinenze e nuove piscine per tutte le strutture ricettive esistenti, a prescindere dalla loro ubicazione, che spesso insiste invece in tessuti edificati storici o in ambiti extraurbani delicatissimi e più che vulnerabili.
Il senso dell’iniziativa legislativa è chiarissimo: non potendo abrogare il PUT, se ne persegue l’erosione, con esiti certamente più lenti, ma non meno distruttivi.
Perché in Campania governare il territorio deve ormai significare, nella visione programmatica dell’attuale maggioranza, ridurre “lacci e lacciuoli” e promuovere senza eccezioni la logica dello slogan “padroni in casa propria”. Proprio com’era per la maggioranza che sosteneva la giunta Caldoro nella precedente consiliatura.
Repliche di Paola Bonora su Articolo 9 blog - la Repubblica e di Piergiovanni Alleva alle dichiarazioni dell'assessore Donini a seguito dell'articolo di Tomaso Montanari sul disegno di legge urbanistica dell'Emilia-Romagna. 14 agosto 2017 (p.d.)
L'8 agosto ho pubblicato su Repubblica un articolo dedicato alla pessima legge urbanistica che sta per essere approvata dal Consiglio Regionale dell'Emilia Romagna. Il giorno dopo ha replicato, con molto spazio e nessun argomento, l'assessore Donini. Io non ho avuto occasione di replicare. Lo fa ora, con la lettera che pubblico di seguito, una delle massime esperte di consumo di territorio, la bolognese Paola Bonora. (t.m.)
Caro Tomaso,
avevo letto con grande piacere il tuo articolo su Repubblica dell’8 agosto sulla legge urbanistica dell’Emilia-Romagna. Speravo nell’apertura di una discussione nazionale visto con quanto impegno il giornale affronta il tema dell’abusivismo e del destino del territorio martoriato da troppe costruzioni. Ma la risposta dell’assessore di due giorni dopo sembra aver messo un macigno su qualsiasi confronto, a conferma che l’Emilia appartiene a un universo parallelo inscalfibile, non è chiaro se per l’antica reputazione o se per disegni neogovernativi che solo qui possono mostrare consenso.
Una legge che consentirà una liberalizzazione insensata grazie a deroghe prive di margini, controproducente sotto il profilo economico in una situazione che ancora risente del surplus produttivo, irrazionale in termini urbanistici nel rifiuto di piani istituzionalmente definiti, antidemocratica sul versante delle potestà municipali schiacciate dalle opzioni di investimento private. Figlia dell’insana passione neoliberista del centro-sinistra per il cemento e l’asfalto. Al cui riguardo l’assessore rivendica la primazia emiliana: sempre i primi della classe questi ligi emiliani, peccato l’affermazione soffra anche di un grave difetto di informazione. Persino Confindustria, nell’audizione consultiva, ha protestato per gli eccessi di indeterminatezza e vacuità del ruolo istituzionale: non se la sentono, i costruttori, di assumersi la responsabilità di sostituirsi alle istituzioni. Che ognuno si assuma le proprie. Paradossale. E desolante.
Ma da noi l’ipocrisia legalista è prassi consolidata, non si abusa, si deroga. Molto più semplice, si inventano le scappatoie e si legittima a priori. Tutto regolare. Condoni preventivi. Avrei casi scandalosi da raccontare di insediamenti, regolarmente licenziati attraverso fantasiose normette ad hoc, privi di opere di urbanizzazione tra cui addirittura le fogne. Dov’e la differenza con il Sud? Quando anche le entrate fiscali diventano sempre più misere - come la legge in discussione ora prescrive.
Questo chiasso tardivo sull’abusivismo (fenomeno notissimo e denunciato da tempo) rischia di diventare un altro modo per distrarre l’attenzione da problemi e contraddizioni ancor più gravi. Nel silenzio assordante che in nome della crescita consente scempi “legali”. Sarebbe il momento di aprire una discussione seria sui principi di legalità e di interesse pubblico, in urbanistica continuamente strapazzati e distorti. Ma siamo vittime della retorica di quest’epoca barbara che ha perso intelligenza e cerca di abbagliarci con giochi di parole cui non corrispondono realtà.
Paola Bonora
italianostra.org, 8 agosto 2017 (p.d.)
3) Maggior ingerenza della politica nelle procedure tecniche
La nuova legge urbanistica della regione Emilia-Romagna, una volta all'avanguardia del buongoverno del territorio, legittima l'abusivismo della speculazione immobiliare. la Repubblica, 8 agosto 2017
il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2017 (p.d.)
«Sono cresciuto in una strada malfamata, tra gente che viveva pericolosamente. Era povera ma bella. Oggi invece le città sono sempre più degradate e noi sempre più stressati». la Repubblica Robinson, 6 agosto 2017 (c.m.c)
«Ah, le prostitute e i ladri di una volta! Vogliamo mettere? » . Ecco un modo un po’ stravagante di iniziare una conversazione lunga e proficua con Pier Luigi Cervellati, architetto, urbanista che ha dato la prima grande sterzata in Italia, blindando e recuperando nei primi anni Settanta il centro storico di Bologna. Le prostitute e i ladri si diceva: « Beh più che nella fantasia entrano nei ricordi di un bambino che abitava in via Fondazza, strada frequentata da gente che viveva pericolosamente».
Oggi, a ottant’anni compiuti, Cervellati abita in una casa studio, non distante, nel centro di Bologna. Colpisce la presenza di alcuni manichini: « Li colleziono da anni e ho appena allestito una mostra». Guardo la loro attonita malinconia, che si spegne nella rigidità ortopedica di certe forme. È come se l’assenza di anima sia compensata da una necessità metafisica di stare al mondo. Non è questo in fondo che cercava de Chirico? Cervellati sorride e mi indica una bambola dalle fattezze graziose e naturali: «Vede quella lì, con l’aria distante e seducente? Serviva all’equipaggio della nave quando stava a lungo in mare e non c’erano né porti né donne».
È curioso che la nostra conversazione sia iniziata proprio su ladri, prostitute e bambole di servizio.
«Ma sa, perfino Lucio Dalla, che qui è ormai un mito santificato, parlava “di ladri e di puttane”».
E poi Bologna ha avuto sempre larghe vedute in fatto di erotismo. Come lo spiega?
«Non ho una spiegazione, se non che dopo Roma era la città con più chiese e conventi. L’eros forse richiede una certa dose di pentimento, non trova?».
Non sapevo di questo dispiegamento religioso.
«Bologna è stata una fabbrica di preti. Di ordini religiosi: benedettini, francescani, domenicani. I loro conventi erano la seconda cinta della città. Se ne contavano all’incirca centoventi. Vero baluardo, a nord, dello Stato pontificio».
Che fine hanno fatto quei conventi?
«La gran parte di essi, dopo l’arrivo di Napoleone e dei suoi generali, fu alienata. Nel tempo ci sono state lottizzazioni, o destinazioni amministrative: tribunali, scuole, caserme. È buffo».
Cosa è buffo?
«In piena controriforma, che qui fu particolarmente incisiva, Bologna sviluppò grande interesse per le scienze anatomiche. In quale altro posto il corpo umano era oggetto di una visione al tempo stesso profondamente sacra e profana?».
Lei ha respirato più il sacro o il profano?
«Non sono un uomo dalle spiccate tendenze religiose. Rimasi colpito che il mio maestro Leonardo Benevolo fosse intriso di una certa spiritualità cattolica. Era chiaramente una percezione diversa rispetto alla mia formazione».
Nata come?
«Nata da un padre, operaio delle ferrovie, saldamente ancorato alle traversine dell’esistenza. Non l’ho mai visto dubitare dei binari su cui aveva messo la sua vita. Aveva fatto la prima guerra per finire prigioniero degli austriaci; fuggì poco prima dell’armistizio. A quanto pare fu una fuga rocambolesca, ma non ne volle mai parlare. Nel 1938 si iscrisse al Partito Comunista d’Italia e per tutta la vita ha letto l’Unità e, finché c’era, il Calendario del popolo. Ricordo che negli anni Cinquanta compravo Il Mondo e lui si incazzava, non voleva che in casa circolasse la stampa borghese».
Tosto e ortodosso.
«Tostissimo. La prima Coca-Cola l’ho bevuta a cinquant’anni. Anche lì niet. Sapevo che alcune cose in casa non potevano entrare».
Ed è sempre stato così conflittuale il rapporto?
«Non fu mai una relazione temperata. Però è curioso: somigliando fisicamente a mia madre, una mattina, allo specchio vidi due rughe a parentesi che chiudevano il volto. Con stupore mi accorsi di avere la stessa faccia di mio padre».
Come reagì?
«Avevo passato metà della mia vita a detestarlo silenziosamente. Ma quella somiglianza disinnescava la bomba d’odio. Cominciai non dico ad amarlo, ma a comprenderlo. Perfino quella sua fedeltà assoluta al Partito comunista, che mai vacillò, mi sembrò innocente».
Lei è stato comunista?
«Non avrei potuto con quell’esempio in casa. D’altronde a Bologna il comunismo, più che un’ideologia, fu uno stile di vita. E per questo da indipendente l’ho appoggiato. Soprattutto quando ho fatto l’assessore».
Proviene da studi di architettura.
«Ho studiato a Firenze, entrai all’università nel 1956. Allora non tutte le università avevano la facoltà di architettura. Vi insegnava Ludovico Quaroni. Non era particolarmente simpatico, ma indubbiamente conosceva la materia. Ero abbastanza digiuno di cultura. Avevo scelto architettura dopo aver letto Storia dell’architettura moderna, di Bruno Zevi. Il libro era uscito nel 1950 e per me fu una rivelazione. O meglio all’inizio fu un testo importante».
Si è poi ricreduto?
«A suo modo resta un classico, anche se col tempo presi le distanze da quella impostazione. In fondo Zevi fu il fautore di una modernità che non risparmiava la città storica. Ricordo la sua frase ricorrente: quello che oggi è moderno domani sarà storico! Tanta baldanza mi dava fastidio. I suoi papillon, le pipe ostentate, le giacche di tweed divennero la divisa di ordinanza tra gli architetti. Una volta, durante un confronto pubblico, gli diedi del trombone».
E lui?
«Si offese mortalmente. Capitava che ci si incrociasse ai convegni: se c’è quello stronzo di Cervellati io non parlo! Esclamava veemente».
Cosa non andava nella concezione moderna di Zevi?
«Un fatto semplicissimo: per me la città storica va considerata come un unico monumento e come tale difeso. Arrivai a questa conclusione soprattutto grazie all’insegnamento di Benevolo. Il nostro rapporto ebbe inizio nei primissimi anni Sessanta ed è andato avanti fin quasi alla sua morte».
Cosa ha appreso da lui?
«Fondamentalmente l’idea che l’architettura è una costruzione sociale. Credo che l’avesse ereditata dal pensiero di Walter Gropius. E già con questa premessa si poteva misurare tutta la distanza da coloro che, come Zevi, interpretavano il mestiere dell’architetto alla stregua dell’artista o del creativo. Il passo perché questa figura diventasse l’odierna archistar fu brevissimo».
Con quali conseguenze?
«La parte individuale ha soffocato interamente la dimensione collettiva. Non ho motivo di credere che certi progetti siano frutto della malafede o dell’ignoranza, o del mero egocentrismo, ma ho il sospetto che si sia tenuto in poco conto il valore storico e l’evoluzione di una città. E la conseguenza più vistosa è il passaggio dalla città storica a un aggregato urbano senza alcun senso, che si disperde nella campagna».
« Non credo di avere un’idea antiquariale della città. Conservare non vuol dire opporsi alle spinte evolutive del tessuto urbano; significa però avere la consapevolezza che in Italia il bene culturale va tutelato perché parla della nostra identità».
Tutto parla della nostra identità, anche le cose peggiori, i misfatti urbanistici non fanno eccezione.
«So bene che antropologicamente siamo un misto di cose orrende ed eccelse; mi limiterei in questo caso a osservare che l’architettura non può lasciarsi andare all’insensato, alla mera prevaricazione speculativa. Guardi cosa è accaduto con il “centro storico”».
Cosa è accaduto?
«Si è scambiata la città storica con il centro storico. Si è privilegiato quest’ultimo ma a forza di chiamarlo “centro” lo si è esposto a tutte le mode e deturpazioni possibili e impossibili».
Quando dice città storica cosa intende?
«Il primo a dare una definizione accettabile fu Tommaseo: un insieme funzionale e comunitario soggetto alle medesime leggi e sottratto all’anarchia del caso o dell’individuo. La città dell’ancien régime ha le sue leggi, funzioni, identità. Ed era appunto una città non un centro storico».
Cosa pensa dell’architettura fascista?
«Non ho alcun pregiudizio verso quell’esperienza che ha avuto in Giuseppe Terragni l’espressione più geniale. Egli fu uno dei figli del razionalismo europeo e in particolare dell’elaborazione di Le Corbusier».
Fu anche uno dei “figli” del regime.
«Non c’è dubbio che il fascismo seppe fregiarsi di una certa modernità, quando questa gli servì. Ma città come Latina o Sabaudia le demolisci solo perché sei antifascista? Tra le molte cose che ho appreso da Benevolo c’è anche quella di andare oltre il furore ideologico che non è mai un buon criterio estetico».
Lei separa nettamente la politica dall’estetica?
«Mi capita di affermare che Ezra Pound è il più grande poeta del Novecento».
Aggiunga fascista e antisemita.
«Ho presente le sue disavventure politiche per le quali finì in quella specie di Guantanamo che fu la gabbia in cui venne rinchiuso dagli americani non lontano da Pisa. Nondimeno resta un grande della letteratura e continuo a leggere con infinito piacere La terra desolata di Eliot che lui rivide a fondo».
Quindi cultura e fascismo non necessariamente si escludono?
«Non la metterei su questo piano. Marcello Piacentini passò per una specie di genio dell’architettura e dell’urbanistica. Mentre l’ho sempre considerato retorico, trionfalistico, inutilmente monumentale. O, per fare un esempio in campo filosofico, Giovanni Gentile fu indiscutibilmente fascista e lo fu fino in fondo. Ma la condanna politica implica automaticamente la condanna del suo pensiero?».
Se potesse sentirla suo padre.
«Già, chissà cosa direbbe. Però penso che alla fine lui abbia non dico accettato ma capito la mia contrapposizione a tutte le ortodossie. Anche se ero io tra i due a sentirmi più stupido».
Più stupido?
«Non avendo attraversato la temperie delle due guerre, non percepivo in me l’intelligenza che nasce dalla coerenza, ma anche dal rischio e dalla sopravvivenza. In fondo pur non condividendo nulla del suo comportamento, alla fine è cresciuto il mio affetto per lui».
Ci torna mai in via Fondazza?
«È qui a un passo. A parte il luogo della mia infanzia con il comune abbiamo realizzato una serie di case popolari per gli abitanti. Non c’era luce né i gabinetti; c’era, come le dicevo, la prostituzione. Confesso che un po’ mi vergognavo di abitare in via Fondazza, preferivo dire che la mia casa era di fronte allo studio di Giorgio Morandi. Ricordo nei primi anni Sessanta le passeggiate che con Francesco Arcangeli facevamo soprattutto il sabato».
Lo storico dell’arte?
«Sì, l’allievo di Roberto Longhi. Con lui aderii a Italia Nostra e conobbi Antonio Cederna. Antonio era una delle ragioni per cui compravo Il Mondo e fu comprensibile l’emozione che avvertii davanti a quest’uomo integerrimo, i cui articoli in difesa del paesaggio italiano mi riempivano di ammirazione. Lo invitammo con Arcangeli a spendersi per la difesa della chiesa di San Giorgio, che il cardinal Lercaro voleva trasformare in un albergo. Furono due uomini straordinari, che dovettero subire la ferocia dissipativa del loro tempo».
A cosa pensa?
«Beh, Antonio non faceva che ripetere quanto la sua voce fosse rimasta inascoltata. Di Arcangeli ricordo il trauma che gli provocò Morandi quando, leggendo in bozze il libro su di lui, non vi si riconobbe per niente. E Arcangeli non si diede mai pace per quel giudizio così duro. D’altronde, sotto l’apparente bonomia, Morandi aveva il cuore ricamato con il fil di ferro. Per non parlare infine delle delusioni di Benevolo».
Provocate da cosa?
«Penso alla sua vicenda universitaria e al fatto che per tre volte fu respinto al concorso a Roma. Al quarto tentativo riuscì ad andare a Firenze. E poi a Venezia dove venne chiamato da Giuseppe Samonà, rettore allo Iuav. Noi assistenti lo seguimmo. Credo si sentisse fuori luogo, soprattutto dopo l’arrivo di Manfredo Tafuri. Quando, qualche tempo dopo, Benevolo passò all’università di Palermo, Tafuri ci fece trovare tutte le nostre cose sul pianerottolo. Fu un gesto piuttosto brutale, ma credo che alla fine rappresentasse i reali rapporti di forza. Tafuri, con una barba da profeta, interpretava perfettamente lo spirito del tempo. Benevolo per volontà e stile ne era immune».
E il suo tempo?
«Se guardo a ciò che ho fatto e a quello che è rimasto, ho l’impressione di far parte di una foto ormai ingiallita. Sono stato fortunato di essere cresciuto nella bellezza di una strada, anche se malfamata. Ma l’ho capito tardi. A volte mi chiedo se sia stato testimone e artefice di qualcosa di importante. Vedo le cinquanta sfumature di nulla: il turismo sempre più di rapina, le città sempre più degradate, gli uomini sempre più stressati e non ho la certezza che il mio mestiere di urbanista sia servito per chiarire o per difenderci da tutto questo. Però devi continuare a credere in quello che hai fatto. E se la vita ti ha dato troppo o troppo poco fallo dire agli altri. Oggi ammazzo il tempo prima che il tempo ammazzi me. Ho una sola preoccupazione, meglio una speranza: che i neuroni non si ritirino come le basse maree. Prego. Signore, allontana da me questo calice di stupidità».
E il bello è che il prodigio del condono infinito si è ripetuto ( per ora) quattro volte consecutive, poco importa se con una maggioranza di destra o di sinistra. L’ultima, giusto qualche giorno fa.
É il caso di ricordare che la CILA non è un titolo abilitativo di interventi edilizi: è una modalità prescritta per alcuni casi di attività edilizia libera che apportano modificazioni allo stato di fatto che vanno registrate a futura memoria: recinzioni, demolizioni, modifiche interne, modifiche dell’uso... Restauro scientifico e restauro e risanamento conservativo vengono quindi accomunati per importanza all’allargamento di un bagno o alla conversione di un laboratorio in magazzino.
Perché farne scandalo? Fino ad ora il restauro è rimasto (disgraziatamente) assoggettato a SCIA, e anche con questa è il progettista ad attestare conformità e bontà del suo progetto. Per gli interventi su costruzioni classificate di valore storico-architettonico, culturale e testimoniale dai piani urbanistici, si tratti di CILA o di SCIA, è comunque obbligatorio il parere della Commissione per la qualità architettonica e il paesaggio, e in entrambi i casi i lavori possono avere immediato inizio. In fin dei conti non sembra esserci una gran differenza. E invece la differenza c’è, eccome: riguarda le sanzioni in caso di violazioni, che il dis-ordinamento nazionale e regionale del controllo edilizio differenzia secondo le opere eseguite siano soggette a permesso di costruire o a SCIA. In un intrico di disposizioni confuse e contraddittorie le violazioni di carattere qualitativo, quali rilevano per gli immobili con vincolo urbanistico a restauro, ricadono fra gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla SCIA, e come tali sanzionate, anche se con troppa clemenza.
"? Il Sole 24 Ore online, 13 luglio 2017 (p.s.)
«L’architetto Piero Cavalcoli, sentito oggi in commissione Seta, esprime le critiche di Articolo 1 alla legge voluta da Bonaccini». LaPressa, 6 luglio 2017 (m.c.g.)
Si è tenuta oggi l'audizione degli esperti in commissione consiliare Seta del Comune di Modena sulla legge urbanistica in fase di discussione in Regione. Per Articolo UNO-MDP è intervenuto l’architetto Piero Paolo Cavalcoli. Secondo i bersaniani la nuova Legge regionale va cambiata radicalmente a partire dal ripristino della pianificazione e della potestà reale dei Consigli comunali su questa materia.
«Come Articolo UNO-MDP Modena, assieme ai consiglieri presenti nei comuni della Regione, siamo convinti che la nuova Legge urbanistica inciderà e influenzerà parecchio il futuro dello sviluppo del territorio dei comuni emiliano romagnoli e per questo chiediamo con forza che i Consigli comunali possano ricoprire un ruolo determinante nella stesura definitiva e nel potere decisionale sugli Accordi Operativi che giungeranno in discussione nei Consigli comunali. Fra i punti richiesti ci sono: il ripristino di un vero ruolo centrale dei Consigli comunali sulla pianificazione urbanistica e non uno svilimento con inserimento della negoziazione diretta con i privati tramite Accordi Operativi; l’acquisizione preventiva, da parte della Regione, dei pareri di tutti i Consigli comunali della Regione; la riduzione delle troppe deroghe che di fatto concedono altro consumo di suolo ; una rigenerazione urbana meno occasionale e più mirata; limitare gli espropri solo nei casi di aree con progetti di destinazione pubblica; ruolo attivo dei cittadini e dei Consigli comunali sulla pianificazione del territorio, inteso come prezioso bene comune» -ha detto Vincenzo Walter Stella a nome del gruppo.
«Se si è d’accordo sull’individuazione dei problemi, non lo si è affatto sulle proposte di soluzione. Il disegno di legge non mantiene l’equilibrio tra i quattro temi che disciplina: i provvedimenti predisposti per la semplificazione rendono inoperanti quelli della difesa dell’ambiente, mentre quelli dello sviluppo economico e della riqualificazione urbana tendono a comprimere quelli necessari per garantire la legalità e il controllo. In questo senso ci sentiamo di affermare che l’impianto riflette in gran parte il punto di vista dei costruttori» - ha affermato l’architetto Piero Paolo Cavalcoli.
«Il “telaio” a cui riferire gli emendamenti che si vogliono proporre, costruito sui quattro punti citati, rappresenta una soglia “di minima” al di sotto della quale ogni modifica risulterebbe poco significativa ed in definitiva finirebbe col confermare un punto di vista che non può più appartenere alla disciplina e al suo carattere di pubblico interesse». Secondo Cavalcoli, quello proposto è dunque un insieme di modifiche che ha senso se viene discusso ed accettato nel suo insieme:
1. Sul tema dell’ambiente e del consumo del suolo è necessario portare a coerenza la proposta formulata dal progetto di legge innanzitutto cancellando le numerose limitazioni disposte (deroghe riguardanti interventi da sottrarre al calcolo), contrastando la vaghezza degli strumenti di verifica e di controllo ad essa collegati, ed infine, proponendo meccanismi di distribuzione delle quote concesse, sia sotto il profilo delle loro relazioni con le differenti caratteristiche dei luoghi (da disciplinare attraverso un consolidamento della pianificazione territoriale di area vasta) sia sotto il profilo dei tempi della loro attuazione (da programmare in funzione dell’obiettivo 2050), i soli strumenti che possono garantire un’ordinata e documentata applicazione dei dispositivi di limitazione del consumo di suolo. Ulteriori misure vanno poi proposte a rafforzamento delle procedure di verifica della sostenibilità degli interventi di trasformazione territoriale (VALSAT), in particolare riferimento all’esigenza, indispensabile per l’esercizio di questi strumenti di valutazione, di definire quantità e qualità delle previsioni
2. Sul tema della semplificazione e del contenuto dei piani comunali sembra necessario tornare a condizionare l’attività di negoziazione pubblico/privato alla definizione, pubblica e preventiva, del progetto di città che si vuole perseguire, da ottenere mediante definizione inequivoca delle quantità e delle destinazioni d’uso previste sia all’interno che all’esterno del TU. In questo quadro è necessario ripristinare le regole del dovuto rispetto dei centri storici e dei beni da tutelare nell’ambito del costruito e nel contempo eliminare ogni possibile contraddizione con i principi della legge nazionale, sia per quanto riguarda le necessarie dotazioni di spazi pubblici sia per quanto riguarda i parametri minimi di definizione dell’”ingombro” delle previsioni
3. Sul tema della legalità e delle procedure di approvazione e di controllo è necessario affiancare alle misure di adeguamento dei dispositivi di legge ai recenti indirizzi dell’ANAC un robusto rafforzamento del ruolo dei processi partecipativi alle decisioni di pianificazione e di attuazione, anche in attuazione della L.R 9 febbraio 2010, n.3, a partire dalle procedure di accordo previste per la maggioranza delle pratiche di attuazione dei piani, che vanno sottratte alla vaghezza delle prescrizioni dei PUG ed alla contemporanea responsabilità affidata prevalentemente agli organi tecnici comunali. Ulteriori misure vanno peraltro proposte per le procedure di controllo sugli effetti delle decisioni assunte nell’ambito degli accordi, introducendo clausole di dissolvenza in caso di mancato rispetto degli impegni o in caso di effetti negativi sotto il profilo ambientale o sociale valutati dopo l’esecuzione delle opere
4. Sul tema dello sviluppo economico e della rigenerazione urbana va decisamente contrastata la convinzione degli estensori del progetto di legge che la prospettiva di ripresa del settore edilizio sia esclusivamente fondata sugli interventi di“sostituzione e densificazione”, convinzione che esclude dagli incentivi il territorio urbano “consolidato” che è viceversa la parte più bisognosa di alleggerimento sul terreno delle pratiche burocratiche nonché bisognosa di strategie di riqualificazione dotate di qualità sia nella progettazione che nella esecuzione delle opere. Per quanto riguarda la parte “non consolidata” va viceversa riaffermata la necessità che essa sia prevalentemente dedicata al recupero delle dotazioni ambientali e di pubblico servizio della cui carenza soffre la maggioranza dei territori urbanizzati.
libertàegiustizia, 4 luglio 2017 (c.m.c.)
«E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi?». Questo dicono le leggi a Socrate, secondo un celeberrimo passo del platonico Critone. Più che padre e madre sono per Socrate le leggi, senza le quali non esiste Città dove ragione si oppone a ragione, ma solo la ragione del più forte, la guerra o il dispotismo. Perciò Socrate accetta la morte e non fugge, pur sapendo che la condanna è ingiusta. Antigone, nella più celebre tragedia di Sofocle, disobbedisce invece alla legge di Tebe e di Creonte – “fuorilegge, devota” a una legge non scritta, “misteriosamente eterna”, che a quella positiva si oppone.
Nelle figure di Socrate e di Antigone si incarnano le figure dell’obbedienza e della disobbedienza in quanto – entrambe – modi della libertà. Perché c’è obbedienza e obbedienza. Obbedire a una legge cui si consente – e non a un uomo che si pone al di sopra di essa – è esercizio di libertà come auto-nomia, sovranità su se stessi. E don Milani si rivolge ai ragazzi della sua scuola come ai “sovrani di domani”. Come ai cittadini che saranno, il cui esercizio di libertà è anche esprimere la volontà di leggi più giuste, e dunque anche obiettare, accettando socraticamente le conseguenze penali, a quelle ingiuste. Invece l’obbedienza che “non è più una virtù”, se mai lo è stata, non è un modo della libertà, ma del suo contrario – dell’asservimento, prigionia della mente e servitù del cuore. Può essere l’obbedienza a un uomo e non a una norma legittima, o può essere l’obbedienza cieca, o indifferente. Servitù – è il vero nome di quell’obbedienza che non è virtù. Questo è il cuore del pensiero di don Lorenzo Milani, cittadino e cristiano, quale si esprime in questi testi pubblicati nel 1965 in difesa dei primi obiettori di coscienza alla coscrizione militare, e in risposta all’accusa di apologia di reato, per la quale don Milani subì un processo.
L’orrore della servitù volontaria: è il punto di fusione – al calor bianco – fra il demone di Socrate, che libera con la critica dalla prigionia della mente, e la divinità nell’uomo di Cristo, figlio e non servo, che libera dalla sudditanza del cuore. Don Milani lo sa: lo dice nella Lettera ai giudici – la sua fiammante, socratica Apologia, che ogni ragazzo dovrebbe leggere appena si sveglia al dubbio e all’esistenza. Il Critone e l’Apologia di Socrate, insieme con i quattro Vangeli: ecco le prime due fonti di quella “tecnica di amore costruttivo per la legge” di cui il maestro di Barbiana si fa apprendista, insieme con i suoi ragazzi.
Si dovrebbe notare la delicatezza e insieme la densità di questa espressione, “tecnica di amore costruttivo”. Tecnica – perché l’amore per la cosa pubblica si esplica nella virtù del cittadino, che è innanzitutto rispetto per il valore della legalità, e quindi per i suoi delicati meccanismi, fra cui le leggi e le sanzioni. Non si esercita la virtù civile solo con lo slancio del cuore. Si esercita, ad esempio, nel “violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede”. I giovani che accettano la prigione conoscono quanto Socrate il valore della legalità. Amore costruttivo – perché “chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri”.
La legge: la legge civile, la legge della Città terrena, sia ben chiaro. E non conosco fra gli eredi di Agostino (se non forse per certe pagine di Rosmini) altro esempio altrettanto limpido e intenso di riconoscimento del valore autonomo, tutto umano, della legalità in quanto tecnica di autolimitazione del potere. Don Milani è evidentemente estraneo al pensiero (di radice agostiniana) che identifica la Città terrena con la civitas diaboli, e consente ai rappresentanti umani della Città celeste, dispersa e confusa nel peccato del mondo, ogni compromesso o addirittura compromissione con quel volto diabolico della politica che pure nell’intimo disprezza. Non conosco in epoca recente altra così grande eccezione al sottinteso disprezzo cattolico per la cosa pubblica e le virtù della cittadinanza, che ha forgiato nei secoli la nostra minorità civile e la nostra indifferenza all’etica pubblica.
E’ importante capirlo: non è la “legge divina” che suggerisce a don Milani il suo “costruttivo amore” per la legalità repubblicana, o se lo è, lo è solo in quanto questa legge divina non decreta affatto il primato, sulla legge dello Stato, di un’altra Sovranità, di una Chiesa, di un Libro o di una Dottrina, ma solo il primato della coscienza individuale – e con questa limpida affermazione, come nella difesa di quei testimoni solitari che erano gli obiettori, sfugge anche alla banalizzazione di chi lo classifica come catto-comunista. “La dottrina del primato della coscienza sulla legge dello Stato” è certamente, scrive con candore don Milani, “dottrina di tutta la Chiesa”. Era il 1965. E quello fu anche l’anno della Dignitatis Humanae, che in coda al Concilio Vaticano Secondo dichiarava: « Gli imperativi della legge divina l’uomo li coglie e li riconosce attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente… Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza ». Ecco: quell’anno fu pensata fino in fondo, e dimostrata possibile, la radicale laicità di un cattolicesimo che veramente avesse voluto rinnovarsi al fuoco dello spirito – o meglio, del Vangelo. Se questo pensiero avesse vinto, la storia del nostro Paese sarebbe stata diversa, e – per l’influenza della Chiesa – anche la storia del mondo. Per questo è importante capire fino in fondo questo pensiero, che fu invece sconfitto, e poi calunniato, e poi sepolto.
Che la legge divina consista qui nel liberare da ogni nome di Dio la legge terrena, quella che istituisce e protegge il pubblico confronto delle volontà e delle ragioni; che la legge divina stessa induca il sacerdote a ritirarsi, in primo luogo, per lasciar posto al maestro, che deve risvegliare la libertà e la coscienza critica dei futuri cittadini: perché questo è tanto importante? Perché porta alla luce il cuore dell’intuizione cristiana della vita, quel cuore che – se davvero ancora pulsasse – riscatterebbe la religione dalla sua vergogna, la vergogna di avere nei secoli legato la libertà e reso infante la coscienza. La riscatterebbe, mostrando che Cristo libera l’anima da questa religio. Le chiede di svegliarsi alla verifica personale dei valori e delle loro relazioni delicate, di superiorità e inferiorità. Thalita kumi: “svegliati, ragazza”. Dietrich Bonhoeffer l’aveva capito, ma quanto più arduo sarà stato capirlo per un sacerdote cattolico, quale don Milani voleva essere?
Questo pensiero nutre quella radicalità anti-idolatrica, o anti-ideologica, per la quale la coscienza parla, certamente, di fronte all’assoluto – ma non in nome dell’assoluto. Questo è il modo in cui lo esprime una delle più limpidi pensatrici del secolo scorso, e lo chiarisce così: “rimuovere dall’essere in sé le prese temerarie della mente; allontanarlo da ogni illusione possessiva, perché lo si tocchi meno e lo si veda meglio. Conoscere Dio come ignoto. Noli me tangere.”[1] E’ il pensiero che fu anche di Simone Weil nelle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione (1937): « tutte le civiltà veramente creatrici hanno saputo….creare un posto vuoto riservato al soprannaturale puro…tutto il resto era orientato verso questo vuoto »[2]. Così scrive quella stessa Weil che annoverava l’obbedienza fra i “bisogni dell’anima umana”, specificando immediatamente che l’obbedienza è di due specie: “a delle regole stabilite” e “a degli esseri umani considerati come delle guide”, e che anche in quest’ultimo caso “presuppone un consenso, non a ciascuno degli ordini ricevuti, ma un consenso accordato una volta per tutte, con la sola riserva, all’occasione, delle esigenze della coscienza”[3].
Non in nome di Dio dunque don Milani difende la disobbedienza alla legge umana, benché indubbiamente lo faccia al cospetto del suo Dio. Ecco perché a differenza di quanto abbiamo fatto noi, per introdurre le due grandi figure della coscienza in relazione alle quali comprendiamo l’obbedire e il disobbedire come modi della libertà, don Milani non parla di Antigone. Che pure sarebbe la figura che rappresenta la legge divina. No, tutto socratico resta il suo ragionare, anche quando cita Gandhi o altri. Certo, il passaggio potrebbe essere anche più immediato: non può servire un uomo chi serve un dio, e la legge di questo dio, non scritta, vale più di quella scritta da un re. Ma non è il passaggio che fa don Milani. Perché non è in nome di un particolare ethos, fosse pure quello della propria fede, che si può volere una legge dello Stato.
Una legge dello Stato, che vincola tutti, è giusta soltanto se la coscienza di chiunque – o almeno di chiunque riconosca la pari dignità di ciascun essere umano – può consentirvi indipendentemente dalla fede che ha, e che obbliga solo chi ce l’ha. Ecco perché l’ulteriore ragionamento di Don Milani è tutto fatto di ragione umana: parla della Costituzione, del suo articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli»; delle guerre di aggressione fatte e subite in passato, dei gerarchi nazisti che si giustificarono con “la virtù dell’obbedienza”. Parla di doveri e diritti, che stanno alla libertà dei cittadini come la sudditanza al potere illimitato sta alla libertà dei servi. L’opposizione è la stessa che corre fra “I care” e “me ne frego”, scrive il sacerdote.
E in questo senso don Milani è più avanti di Howard Zinn, cantore americano della disobbedienza civile, che non perdonava a Socrate il suo atto di obbedienza alla legge ingiusta. Don Milani ci consente di distinguere fra obbedienza e servitù. Anche se è dai tempi dell’Umanesimo e del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Etienne La Boétie che lo sappiamo: un tiranno non ha altra forza che quella che gli conferiscono i suoi sudditi, perché non c’è altra fonte di sovranità che il libero volere degli individui. E’ questa coscienza, infine, che ha permesso di intendere non solo la disobbedienza, ma anche l’obbedienza come un modo della libertà: l’obbedienza, s’intende, alla legge e non al capo. L’ auto-obbligazione responsabile dei cittadini, che ha dunque come ultima fonte di legittimità nient’altro che il rispetto della pari dignità di ognuno. In questa autolimitazione del potere che ci fa, governanti e governati, uguali di fronte alla legge, è il valore della legalità e il senso delle istituzioni democratiche, come la divisione e la relativa autonomia dei poteri.
Oggi, se rivolgiamo di nuovo lo sguardo al presente italiano, un dubbio ci prende che le categorie filosofiche dell’obbedienza e della disobbedienza, sulle quali si fonda in definitiva quanto di meglio abbiamo saputo dire sui fondamenti del potere politico nella coscienza delle persone, possano servirci ancora. In questa Italia, “terra di nefandezze, abiure, genuflessioni e pulcinellate”. In questo nostro Paese che “attraverso Machiavelli, ha mostrato al mondo il volto demoniaco del potere; che ha inventato il fascismo”; dove “la politica si è definitivamente trasformata in crimine, ricatto, delazione, scandalo, imbroglio”. Parole vigorose, come si vede. Sono di Ermanno Rea, nel suo recente libro, La fabbrica dell’obbedienza[4]. Questa fabbrica, è l’Italia.
Anche Ermanno Rea attraversa la questione morale, passando per i i nostri classici, l’Unità tradita, il fascismo, il dopoguerra democristiano, la svolta degli anni Ottanta, fino al presente di “un regime così corrotto e maleodorante che non si sa più con quale aggettivo bollarlo”. Ma questo libro ha una domanda, semplice e per così dire spettacolare, la stessa dei saggi su Rinascimento Riforma e Controriforma di Bertrando Spaventa, e dagli studi del filosofo napoletano trae ispirazione e respiro. Noi siamo stati i primi. Abbiamo inventato il cittadino responsabile – “molti secoli fa, tra il Trecento e il Cinquecento, con l’Umanesimo e il Rinascimento”. Come è successo che a questi centocinquant’anni di splendore sia seguita la nostra lunga servitù civile e morale, con il suo corredo di arti della sudditanza, della menzogna, dell’opportunismo e del cinismo che ritroviamo tanto ben descritte nella pagine dei nostri classici, da Guicciardini a Leopardi? Come ha potuto succedere che questa storia si sia inesorabilmente ripetuta dopo grandi, in qualche modo miracolose accensioni di speranza? Il Risorgimento finì di morire nel fascismo, la Costituzione nata dalla Resistenza si vede oggi che fine rischi di fare.
La risposta è nota. Colpa della Controriforma. O meglio di ciò che ne seguì, secondo l’analisi spietata, riproposta da Rea, di come si fabbrica la servitù del cuore e la prigionia della mente, che sono l’esatto contrario di tutte le figure di una coscienza della legge, antiche e moderne. Delle figure, cioè, dell’obbedienza e della disobbedienza. Del dovere e del diritto. Che stanno alla libertà dei cittadini come la sudditanza al potere illimitato sta alla libertà dei servi. A differenza della legge, il potere è “alla ricerca di un’obbedienza sempre contingente e perciò da rinnovare continuamente, senza mai esigere… una responsabilità totale, prolungata nel tempo”.
Che sia ottenuta attraverso la dipendenza spirituale, la tecnica della confessione e del perdono, o la dipendenza materiale e le tecniche del condono, del favore e del ricatto, la distruzione dello “spirito delle leggi” è una cosa sola con la polverizzazione dell’impegno personale: la riduzione della necessità del dovere alla contingenza della soggezione, del valore della promessa al prezzo dello scambio – in una parola, la demolizione della responsabilità personale, che obbedienza e disobbedienza autentiche presuppongono. Ricordiamoci che quel monaco agostiniano divenne Lutero in seguito al mercato romano delle indulgenze. Il cielo, erano arrivati a vendersi.
Ecco: don Milani, e la Dichiarazione sopra citata sulla libertà di coscienza della Dignitatis Humanae, hanno segnato l’ultima grande occasione di confutare, se non la risposta di Bertrando Spaventa e di Ermanno Rea, almeno la disperata convinzione dell’immutabilità della condizione di questa nostra “nazione cattolica”. Vale la pena, allora, di ripensarla sempre di nuovo, quell’ultima possibilità – che ancora potrebbe esserci offerta, se il vento del rinnovamento morale e spirituale ricominciasse a soffiare.
Oggi, quando a svuotare di sostanza la nostra democrazia non è certamente l’eccesso di obbedienza, ma il disprezzo della legalità, delle istituzioni, dello Stato da parte di coloro che dovrebbero esserne i “servitori”. E a sostenerli al potere è l’onda maleodorante della nostra foia, fatta di milioni e milioni di abusi condoni favori tangenti impunità indulgenze soprusi e perdoni. È la palude stigia che abbiamo fatto della nostra anima, con un sì dopo l’altro alla ventennale svendita della legalità in cambio di consenso. E’ l’ultimo capitolo della storia di minorità morale e cinismo che ancora affligge l’Italia – non fabbrica dell’obbedienza, ma della libertà dei servi. Con il beneplacito di quella Chiesa oggi politicamente impegnata sul fronte della disciplina di fine vita, e impegnata a fare in modo che una legge dello Stato italiano costringa anche chi disobbedire non può più a subire un trattamento fisico che ripugnava alla sua coscienza, quando era desta. Una legge capace di violare in un colpo solo il senso divino e quello umano del “noli me tangere”: il sottrarsi di Dio all’uso e abuso che ne fanno gli uomini, e l’habeas corpus.
E’ davvero tempo di rileggere don Milani.
il manifesto, 21 giugno 2017 (c.m.c)
I parchi, ovvero le 27 aree protette nazionali e le 120 aree protette regionali – il polmone d’Italia – cambiano registro con una nuova legge quadro approvata ieri dalla Camera e quindi tornata in seconda lettura al Senato. Ma su questo cambiamento di pelle non c’è per niente accordo.
Le associazioni ambientaliste – non proprio tutte ma 12 sigle, le più grandi incluso Wwf, Lipu e Greenpeace – sono sul piede di guerra e hanno chiesto ai parlamentari di non votare la nuova legge per come è sortita dalla commissione. In più ieri a Palazzo Madama il testo emendato è stato approvato da una maggioranza azzoppata: 249 voti a favore, ma ben 115 contrari e 32 astenuti. A esprimere pollice verso non ci sono state solo le opposizioni (M5s, Sinistra Italiana e Lega) ma anche i bersaniani di Mdp, mentre Forza Italia si è astenuta. La legge, a giudizio anche dei suoi critici, non è interamente da buttare, anche perché l’esigenza di ammodernare la precedente normativa risalente al 1991 è largamente condivisa.
Ad esempio la nomina dei direttori dei parchi esclusivamente tra gli iscritti all’apposito albo professionale è considerata quasi universalmente corporativa e burocratica, da superare. I modelli gestionali vanno effettivamente resi in grado di implementare e ottimizzare le risorse trasferite dallo Stato, che sono considerevoli: circa 80 milioni di euro a ogni finanziaria, ma spesso non interamente utilizzate o non al meglio.
Ciò che però proprio non piace agli ambientalisti è il modello di governance e più in generale l’impianto «economicista» – una visione in cui il parco deve essere una risorsa economica più che un bene pubblico da tutelare – che si consoliderebbe nel disegno di legge con le modifiche parlamentari e governative apportate. Due i nodi: le royalties sulle attività economiche impattanti sull’ambiente – da una fonte di acque minerali fino alle trivelle della Val d’Agri – già presenti nell’area protetta e il «peso» dei rappresentanti delle categorie economiche locali nella gestione degli enti, che verrebbero così trasformati in una sorta di nuovo ente locale non elettivo.
La riforma enfatizza il ruolo delle royalties volendo, a parole, rinforzare l’autonomia gestionale del singolo parco – con anche la valorizzazione del proprio marchio, e relativa merchandising – ma nello stesso tempo si prevede che questi prelievi sul fatturato vengano pagati anche una tantum, istituendo di fatto al più un indennizzo che una penalità o una compensazione.
Quanto alla governance, finora le nomine di presidenti e direttori generali degli enti parco erano appannaggio del ministero dell’Ambiente, (i direttori scelti nell’albo).
Con la nuova legge l’albo non c’è più, il singolo presidente viene scelto sempre dal ministero ma «d’intesa» con la Regione competente, la quale deve sottoporre una terna di candidati. Mentre il direttore generale viene individuato da una commissione composta da un membro di scelta ministeriale e due nominati dal consiglio direttivo, che a sua volta è composto da 4 rappresentanti «nazionali» e 4 «locali». Ma all’interno del consiglio direttivo si introduce anche una quota di rappresentanza considerevole per il «mondo agricolo e dei pescatori».
Gli ambientalisti avevano invece proposto che la figura gestionale fondamentale del direttore generale venisse selezionata attraverso un concorso dirigenziale pubblico. Mentre così, senza nessun requisito richiesto, alla politica, probabilmente locale se non clientelare, vengono lasciate le mani del tutto libere.
Interazionale online, 19 giugno 2017 (c.m.c)
«Io ero nella stanza accanto a fare scuola. Arrivò un ragazzino con una paginetta che diceva ‘Cara professoressa, lei è una poco di buono’ o cose simili. Io mi alzai e andai da don Lorenzo e gli dissi: ‘È una porcheria! È il foglio di un ragazzo arrabbiato!’. Il priore mi domandò: ‘La vuoi più bella? E noi la faremo più bella!’. Parlava sorridendo come uno a cui è venuta un’idea geniale; l’idea lo divertiva».
Così Adele Corradi racconta la scintilla che diede vita alla lettera più famosa della storia della pedagogia, scaturita dalla rabbia di un ragazzo che il suo maestro colse al volo, trasformandola nel cuore pulsante del suo laboratorio educativo per nove mesi, nel suo ultimo anno di vita.
Verso la fine di Lettera a una professoressa troviamo scritto: «Così abbiamo capito cos’è un’opera d’arte. È voler male a qualcuno o a qualcosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”. Per Pier Paolo Pasolini è “una delle più straordinarie definizioni di quello che deve essere la poesia».
Non si può certo dire che il cinquantesimo anniversario della morte di don Lorenzo Milani e dell’uscita di Lettera a una professoressa sia passato sotto silenzio. La meritoria pubblicazione delle opere complete – insieme a celebrazioni, articoli, polemiche talvolta pretestuose e perfino un pellegrinaggio riparatore di papa Francesco – ci ricorda che la figura del priore di Barbiana ancora brucia, nonostante i numerosi tentativi di neutralizzare gli spigoli più aspri e contundenti della sua testimonianza.
Provo a elencare cinque ragioni per cui tornare a quella esperienza è necessario a chi insegna e può aiutare a ragionare sui compiti dell’educare oggi.
Oltre l’individualismo
Spesso la pedagogia, per assumere la portata radicale della sua funzione sociale, ha bisogno di sguardi che vengano da altri mondi. È stato così con Maria Montessori, Ovide Decroly e Janus Korczak, tre medici che l’hanno profondamente messa in discussione all’inizio del novecento, mentre nell’Italia del dopoguerra c’è voluta la sensibilità e la determinazione di un prete per denunciare la feroce selezione di classe a danno dei figli degli operai e dei contadini. In questo caso, tuttavia, quella denuncia circostanziata non fu la presa di posizione di un singolo ma l’opera di una comunità e qui sta il primo aspetto straordinariamente attuale dell’esperienza educativa promossa da don Milani.
Lettera a una professoressa fu il frutto di una scrittura collettiva e rappresenta ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, una delle espressioni più alte di una pratica purtroppo assai rara nella scuola, luogo privilegiato di incontro, in cui maestro e allievi si mettono in gioco insieme creando cultura. La scrittura collettiva ha una lunga storia e Milani ebbe modo d’incrociarla nell’estate del 1963 grazie a Mario Lodi, che salì a trovarlo a Barbiana e condivise con lui la ricerca condotta da anni nel Movimento di cooperazione educativa, non solo in Italia.
«La ringrazio d’averci proposto quest’idea perché me ne son trovato bene», scrive Milani a Lodi nell’autunno successivo. «È successo un fenomeno curioso che non avevo previsto, ma che dopo il fatto mi spiego molto bene: la collaborazione e il lungo ripensamento hanno prodotto una lettera che pur essendo assolutamente opera di questi ragazzi e nemmeno più dei maggiori che dei minori è risultata alla fine d’una maturità che è molto superiore a quella di ognuno dei singoli autori. Spiego la cosa così: ogni ragazzo ha un numero molto limitato di vocaboli che usa e un numero vasto di vocaboli che intende molto bene e di cui sa valutare i pregi, ma che non gli verrebbero alla bocca facilmente. Quando si leggono ad alta voce le venticinque proposte dei singoli ragazzi accade sempre che o l’uno o l’altro (e non è detto che sia dei più grandi) ha per caso azzeccato un vocabolo o un giro di frase particolarmente preciso o felice. Tutti i presenti (che pure non l’avevano saputo trovare nel momento in cui scrivevano) capiscono a colpo che il vocabolo è il migliore e vogliono che sia adottato nel testo unificato. Ecco perché il testo ha acquistato quell’andatura e quel rigore da adulto (direi anzi da adulto che misura le parole! animale purtroppo molto raro)».
Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica
La lettera di cui scrive Milani è quella che i ragazzi di Barbiana scrissero nel novembre 1963 ai bambini di Piadena, riportata in un prezioso libro appena uscito: L’arte dello scrivere, curato da Francesco Tonucci e Cosetta Lodi.
Quell’incontro fu così significativo che Adele Corradi, nel ricostruire il metodo seguito per la stesura di Lettera a una professoressa quattro anni dopo, scrive: «Lo stile mi pare proprio che glielo abbiano dato i ragazzi. Ma certo nessuno di loro avrebbe saputo scrivere in quel modo senza l’aiuto degli altri. E anche a don Lorenzo non gli sarebbero certo nate in testa tante idee senza parlare con i ragazzi, senza ascoltarli, senza confessarli, senza discutere con loro (…). Per questo è giusto che di quegli otto che per nove mesi, tutte le mattine, hanno lavorato a quel libro, non si sappiano i nomi».
Quel metodo rese possibile, nell’Italia del boom economico, un incontro tra due culture che nulla avevano in comune: la millenaria cultura materiale dei contadini di montagna, in quegli anni già in via d’estinzione, e la vasta cultura borghese e cosmopolita, di radice ebraica, incarnata da Lorenzo Milani, figlio di un ricco possidente fiorentino.
Quell’incontro tra figli di analfabeti e un cultore quasi maniacale della parola precisa, capace di indagare e denunciare i mali del mondo, ha portato alla scrittura di un testo straordinariamente efficace che diventò, dal 1968 in poi, il più letto e discusso manifesto contro la scuola di classe in diversi paesi europei. Ciò che stava più a cuore al priore di Barbiana, nelle sei settimane che separarono l’uscita della Lettera dalla sua morte, fu che fosse riconosciuta come un’opera collettiva perché, in questo caso, il mezzo era davvero il messaggio. O, meglio, il modo in cui era stato forgiato il mezzo era il messaggio.
È importante ribadire con forza tutto ciò, in un tempo in cui ogni esperienza collettiva è guardata con sospetto e supponenza, mentre non c’è azione educativa degna di questo nome che non contempli il sincero e autentico tentativo di realizzare una impresa condivisa e plurale, capace di dare senso e sostanza a una comunità. A maggior ragione nelle scuole di oggi, in cui ogni comunità è sempre più, necessariamente, multiculturale.
Non è lecito parlare di Lorenzo Milani senza ricordare la tenacia e la coerenza con cui, per tutta la vita, ha costruito comunità per dare voce a chi non l’aveva e far sì che, a denunciare le malefatte di una scuola fatta su misura per i borghesi, fossero i figli dei contadini. «Dopo che si è fatta tutta questa fatica, seguendo regole che valgono per tutti, si trova sempre l’intellettuale cretino che sentenzia: ‘Questa lettera ha uno stile personalissimo’».
Contro la scuola di classe
Sulla montagna in cui il cardinale Florit provò a isolare e mettere a tacere il prete scomodo, si creò un gruppo di ricerca sociale capace di elaborare una denuncia circostanziata e stringente sul tradimento della costituzione, costituito dalla sistematica cacciata dei poveri dalla scuola: su dieci figli di operai, cinque venivano bocciati; su dieci figli di contadini, ne venivano bocciati otto!
Per raccogliere i dati che compaiono nelle ultime venti pagine della Lettera, i ragazzi guidati dal priore non esitarono a chiedere informazioni al ministero della pubblica istruzione, all’Istat, ai direttori didattici della zona e a chiunque potesse fornirgli conferme attendibili per circostanziare la loro denuncia.
Ora che abbiamo a disposizione Tutte le opere, è appassionante seguire, attraverso le lettere spedite da Barbiana, ogni dettaglio di quella lunga fatica, fino al bigliettino spedito ad Adele: «Venga a godersi lo spettacolo di Tranquillo che si mangia gli statistici come panini». Tranquillo era uno dei ragazzi che abitava quel microcosmo in cui stava avvenendo quella singolare rivoluzione culturale. Per una volta, infatti, gli esclusi dalla scuola non solo prendevano la parola, ma acquisivano gli elementi necessari per denunciare uno dei fondamenti dell’ingiustizia di classe, che consiste nel negare ai più deboli gli strumenti basilari della loro emancipazione.
E così, mentre alcuni ragazzi lavoravano con righe e squadre per rendere leggibili dati complessi, tutti insieme, ogni giorno, s’impegnavano a trovare parole all’altezza del compito. Un paziente lavoro di cesello che portò alla formulazione di frasi lapidarie indimenticabili, come quella che definisce la scuola come «un ospedale che cura i sani e respinge i malati».
«Lavoriamo sodo alla lettera», scrive l’8 dicembre Milani a sua madre. «La facciamo anche leggere a tutti quelli che vengono, specialmente a gente di poca istruzione per controllare se capiscono tutto. (…) Si accettano i loro consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza”. E, poche righe dopo, con efficace semplicità, nella Lettera si afferma che “l’arte è il contrario della pigrizia».
Il tempo della scuola e quello della vita
La battaglia contro ogni pigrizia fu uno dei cardini di quella scuola. Con precisione puntigliosa, insieme ai suoi ragazzi Milani calcolò che, se si considerano tutti i giorni dell’anno, lo stato offre appena due ore di scuola al giorno. Troppe poche per colmare un divario linguistico antico e stratificato, perché i ricchi la lingua erudita la praticano altre 14 ore al giorno e così non sarà mai possibile raggiungerli.
Ad Alexander Langer, che salì più volte a Barbiana e tradurrà poi la Lettera in tedesco, Milani disse:«Dovete abbandonare l’università! Voi non fate altro che aumentare la distanza che c’è tra voi e la grande massa della gente non istruita. Fate piuttosto qualcosa per colmare quella distanza. Portate gli altri al livello in cui voi vi trovate oggi, e poi tutti insieme si farà un passo in avanti, e poi un altro ancora e così via. Altrimenti sarete al servizio solo del vostro privilegio».
«Non lasciammo l’università», racconta Langer in un articolo ora raccolto nel libro Il viaggiatore leggero, «ma demmo inizio ad un doposcuola a Vingone, presso Scandicci, basato sul volontariato di parecchi universitari, e frequentato prevalentemente da figli di immigrati meridionali».
A Barbiana la scuola funzionava dieci ore al giorno, 365 giorni all’anno. Il priore poteva pretendere una scuola senza feste né ricreazioni, perché l’alternativa per i ragazzi montanari era badare tutto il tempo agli animali e come disse Lucio, che aveva 36 mucche nella stalla, «la scuola sarà sempre meglio della merda». Nel 1963 si era finalmente arrivati in Italia alla scuola media unica aperta a tutti, ma il tempo limitato e le troppe bocciature compromisero la piena realizzazione di quella riforma, che pure permise un notevole miglioramento dell’istruzione di base nel nostro paese.
Molte cose sono cambiate da allora e le bocciature nella scuola elementare e media sono drasticamente diminuite. Rimangono tuttavia fortissime le disparità e le espulsioni, ora chiamate dispersione scolastica. Sopravvive, soprattutto, una forma più sottile ma non meno infame di emarginazione e discriminazione, che consiste nella creazione, in quasi la metà delle scuole del nostro paese, di sezioni ghetto in cui sono messi “a pascolare” – come s’usa dire a Napoli – i ragazzi che la scuola dà per persi prima ancora di accoglierli. Quei ragazzi sono separati dai più ricchi e privilegiati e spesso affidati a insegnanti di passaggio, precari, che cambiano in continuazione.
Si è dovuto attendere il 1971 perché fosse istituito il tempo pieno previsto dalla fondazione della scuola media unica, ma ancora oggi resiste l’assurda disparità per cui, tra i 917mila studenti che usufruiscono di questo necessario prolungamento del tempo a scuola, il 58 per cento frequenta scuole del nord, il 26 per cento quelle dell’Italia centrale e solo il 15 per cento quelle del sud e delle isole, cioè le regioni in cui ci sarebbe maggiore bisogno d’istruzione.
Una disuguaglianza che chiunque nomini Lorenzo Milani dovrebbe denunciare e contribuire a sanare, a partire dalla ministra dell’istruzione Valeria Fedeli, che ha dedicato una giornata al prete di Barbiana. In verità, la questione del tempo evocata da Milani non riguardava solo il tempo di studio, ma un’idea della vita che gli fece affermare, nella Lettera, «ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».
Educazione, lavoro, viaggi
Personalmente m’inquieta l’idea di un maestro presente in ogni frangente della vita dei suoi allievi e che arriva anche a confessarli. Una sorta di “monarca assoluto” – per usare una sua espressione – che guarda con apprensione al tempo della crescita: «Le mode gli hanno detto che i 12-21 anni sono l’età dei giochi sportivi e sessuali, dell’odio per lo studio. Gli hanno nascosto che i 12-15 anni sono l’età adatta per impadronirsi della parola. I 15-21 per usarla nei sindacati e nei partiti. A 21 si avvicina l’età dei pensieri privati: fidanzamento, matrimonio, figlioli, benessere. Allora non avrà più il tempo per le riunioni, avrà paura di esporsi, non potrà certo donarsi tutto».
Questo passaggio della Lettera mette in luce un tema molto delicato, presente in ogni atto della vita del priore. Donarsi tutto era il suo imperativo. Ma poiché Lorenzo Milani teneva sempre tutto insieme, diventò necessariamente anche il suo credo pedagogico. La sua personale ricerca di assoluto diventò necessariamente anche pressante richiesta di assoluto proposta ai suoi allievi, e questo gli provocò inevitabilmente forti delusioni.
Ora, mentre credo sia necessario per chi insegna essere consapevole di quanto il corpo, il comportamento e l’esempio educhino assai di più delle parole, pensare di essere depositari di verità assolute pone non poche questioni.
Lorenzo Milani non esitò a vietare ai ragazzi di guardare la televisione quando tornavano a casa la sera, si offese quando scoprì che alcuni di loro andavano a ballare il sabato e arrivò a scrivere una lettera che rivendicava senza remore il diritto del maestro di comandare fin nell’intimo l’allievo. A Francuccio, a cui aveva dato l’opportunità di andare a lavorare in Algeria, scrisse infatti:
«Io non cambio stile per i ragazzi che sono fuori di casa, nel senso che qui comando io e fuori lascio comandare loro. Il problema è solo di informazione. È evidente che comando anche a Algeri, solo incarico i due occhi e le due orecchie che ho a Algeri (cioè le tue) di informare il cervello che ho a Algeri (cioè il tuo) perché prenda delle decisioni per me».
Come spesso succede, tuttavia, le cose sono più complesse di come appaiono. Così, quando ho espresso a Edoardo Martinelli, uno degli otto ragazzi che parteciparono alla redazione della Lettera, i miei dubbi sugli integralismi e gli eccessi di controllo del priore sulla loro vita, si è messo a ridere e mi ha raccontato che per lui, partire per Londra a 15 anni avendo l’occasione di lavorare, ma anche di conoscere Bertrand Russell, andare ai concerti e incontrare ragazze, fu un’esperienza chiave.
A Barbiana non ci fu mai contrapposizione tra lavoro manuale e intellettuale. I ragazzi realizzarono da sé i banchi su cui studiare e un astrolabio di precisione, e contribuirono alla costruzione di un ponte che rendeva più agevole l’accesso alla canonica di un ragazzo. Questa particolarissima educazione al lavoro, offerta dal prete ai ragazzi del Mugello, che passava anche attraverso viaggi in Inghilterra, Francia, Germania e perfino nell’Algeria appena liberata dal colonialismo, fu un’esperienza formativa fondamentale a cui è utile tornare.
Mi ha fatto pensare a iniziative simili proposte a Napoli ai ragazzi del progetto Chance. Pratiche di didattica itinerante, necessarie per uscire dalla gabbia antropologica di un’emarginazione capace solo di moltiplicare la violenza, ben raccontate da Carla Melazzini in Insegnare al principe di Danimarca. Per Andrea Canevaro, il più sensibile ricercatore nel campo della disabilità, l’eredità più attuale dell’esperienza di Barbiana va rintracciata proprio nella relazione tra scuola e lavoro, di cui si torna a discutere oggi e a cui andrebbe dedicata una riflessione più attenta e radicale.
Educare alla disobbedienza
L’ultimo punto, forse il più necessario e dimenticato, riguarda il rapporto con la legge e dunque con la storia. Sulla necessità di educare alla disobbedienza, Milani usa parole inequivocabili nella Lettera ai giudici:
«Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (…) E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede».
Lorenzo Milani fu accusato e condannato e per arrivare alla legge che permise l’obiezione di coscienza al servizio militare ci vollero anni. Ma quella conquista la dobbiamo a lui e a testimoni convinti come lui. È figlia di un maestro capace d’insegnare con l’esempio ad avere coraggio, persuaso che i ragazzi «bisogna che si sentano ognuno responsabile di tutto».
Sentirsi responsabili di tutto è l’eredità di Barbiana più difficile da raccogliere. In un tempo in cui è venuta meno l’adesione a grandi organizzazioni collettive, torna con forza la necessità di educare alla responsabilità, sapendo compiere scelte coerenti per il futuro del pianeta e per la convivenza tra gli esseri umani. C’è una grande quantità di leggi ingiuste che perpetuano disuguaglianze e discriminazioni. Per dare spazio a un futuro più aperto, abbiamo bisogno del coraggio di testimoni che con le loro scelte e azioni diano corpo all’affermazione di Albert Camus: «Mi ribello, dunque siamo».
Un piano misconosciuto, ancora vigente e positivamente operante poiché costruito e gestito nei decenni in cui le scelte urbanistiche erano espressione di valori sociali e culturali altrove smarriti o contraddetti nei decenni successivi
Premessa
A rendere tragica la situazione concorse la sordida alleanza fra la camorra ele Brigate rosse che volevano impedire “la deportazione dei napoletani”. Fu rapitol’assessore regionale all’urbanistica Ciro Cirillo e furono uccisi l’autista eun poliziotto. La risposta istituzionale fu un’aggiunta alla legge indiscussione a favore dei comuni terremotati, subito approvata, che dichiarò “dipreminente interesse nazionale” la realizzazione di 20 mila alloggi e dellerelative opere di urbanizzazione nel comune di Napoli, affidando tutti i poterial sindaco della città nominato “opelegis” commissario straordinario del governo e soggetto soltanto alrispetto della Costituzione e dei principi generali dell’ordinamento.
L’approvazione della legge provocò il panico nel comune. Per aiutare Valenzi,la direzione del Pci inviò a Napoli Guido Alborghetti, vice presidente dellacommissione Lavori pubblici della Camera. Ero allora dirigente del ministerodei Lavori Pubblici e nella qualità di commissario di governo Valenzi ottenneil mio comando presso i suoi uffici. Alborghetti condusse subito, mirabilmente,con assoluta trasparenza e puntualità, l’affidamento dei lavori a un centinaiodi imprese raccolte in 12 raggruppamenti, fra lo stupore del mondo dellecostruzioni e della stampa nazionale.
Per l’organizzazione delle strutturetecniche, superando l’ostilità degli apparati burocratici municipali, decidemmodi far capo all’Ufficio studi urbanistici del comune, formato dai giovanitecnici che avevano ideato e progettato il piano delle periferie. Da allorafurono chiamati “i ragazzi del piano”. Li avevo conosciuti a Roma prima delterremoto in incontri di lavoro per la messa a punto del piano delle periferiee con alcuni di loro – Elena Camerlingo, Rosanna Costagliola, Maria Franca deForgellinis, Giovanni Dispoto, Giancarlo Ferulano, Roberto Giannì, MarioMoraca, Giuseppe Pulli, Laura Travaglini – si stabilì un legame che non si èmai interrotto.
Mi limito a citare i tre progetti più importantiampiamente discussi in quegli anni:" IlRegno del possibile", promosso da Confindustria, imprenditori privati edelle Partecipazioni statali, volto allo sventramento del centro storico; "Polis 2000", formato da Banco diNapoli, Iri – Italstat e costruttori interessati alla riorganizzazione dellazona orientale storicamente destinata alle attività industriali, ormai dismesseo in via di dismissione; infine "Neonapoli" – ambiziosa iniziativa patrocinata dal ministro del Bilancio PaoloCirino Pomicino e sottoscritta da altri sette ministri, riguardante l’interaarea metropolitana – assunta a simbolo della filosofia politica e affaristicache in quegli anni governava Napoli. L’unico esile legame con il potere localeera rappresentato dal “preliminare di piano”, una bozza di nuovo Prg che dovevasostituire quello del 1972, con il quale l’amministrazione comunale cercava ditornare in campo in materia urbanistica, al tempo stesso spianando la strada a.Neonapoli.
Ma la nostraimpostazione era che le decisioni in materia urbanistica dovevano essereelaborate dagli uffici comunali, discusse e votate, non solo ratificate, inconsiglio comunale (e poi sottoposte alle osservazioni dei cittadini), senzascorciatoie. Per questo fu deciso di produrre al più presto un’appositavariante per Bagnoli, la prima di altre varianti che, nell’insieme, avrebberoformato il nuovo piano regolatore. In concordanza con un apposito documento di indirizzi approvato dalconsiglio comunale nel 1994 furono elaborate la variante disalvaguardia e quella per Bagnoli e l’area. occidentale. Quindi quella per il centrostorico e le zone orientale e nord occidentale. Tutte poi unificate, conun medesimoimpianto metodologico e normativo,nelnuovo Prg definitivamente approvato dalla regione Campanianel giugno del 2004.
Il nuovo assetto di Bagnoli – luogo di anticae mitica bellezza, sotto le falesie di Posillipo, affacciato su Nisida e sulleisole del Golfo – fu salutato molto favorevolmente dalla stampa nazionale e damolti giornali stranieri. Nel 1999 un circostanziato vincolo di tutela delministero dei Beni culturali (mirabilmente scritto da Antonio Iannello),confermò, consacrandole, se così posso dire, le previsioni urbanistichecomunali. Ma intanto si era messo mano a una confusa operazione di bonificacondotta dal ministero dell’Ambiente e cominciò ad appannarsi la speranza dellanuova Bagnoli. Fra ritardi nei finanziamenti, inettitudini e peggio, labonifica non è mai finita.
Che il comune di Napoli disponga di un progetto urbanisticoregolarmente approvato e vigente il governo lo ignora, accredita anzi ilconvincimento che si sia all’anno zero e si debba cominciare daccapo,determinando così le condizioni per rimettere in campo gli energumeni delcemento armato E infatti le proposte del soggetto attuatore, per quanto sideduce dalle immagini dei soliti power point governativi, sono volte aconcentrare la polpa delle nuove funzioni sull’area Cementir di proprietà delgruppo Caltagirone. Ma a seguito di un ricorso del comune spetta adesso allaCorte costituzionale decidere in merito alla legittimità dello Sblocca Italiaper Bagnoli.
Giustizia in occasione della ricorrenza dell’uccisione dei Rosselli, il 9 giugno all’Archivio di Stato di Firenze». Libertà e Giustizia online, 11 giugno 2017 (c.m.c.)
«Di fronte al progressivo consolidarsi del fascismo, la nostra sistematica opposizione corrisponde ad un regolamento di conti fuori dalla storia: forse non avrà apparentemente nessuna positiva efficacia; ma io sento che abbiamo da assolvere una grande funzione, dando esempi di carattere e di forza morale alla generazione che viene dopo di noi, e sulla quale e per la quale dobbiamo lavorare».
È tutta racchiusa in queste parole – scritte da Carlo in Antifascismo perché, 12 gennaio 1925 – l’attualità della lezione dei fratelli Rosselli.
La loro testarda volontà di stare «fuori dalla storia», cioè di non pensare che – usiamo le parole di Gramsci – tutto ciò che esiste è naturale che esista.
In Italia l’apologia della necessità dello stato attuale delle cose ha una lunga e solida tradizione. In un passo struggente dei Diari (siamo nel 1939), Piero Calamandrei non si dà pace che i «giovani» (il figlio Franco e i suoi amici) pensino che «la storia è composta di fatti e non idee, e se Mussolini è riuscito a diventar dittatore, vuol dire che Mussolini è una realtà e che le idee impotenti degli oppositori sono un’irrealtà: per ora, finché c’è questa realtà, il migliore regime è questo, perché si regge. Rinunciano dunque a giudicarlo, a darne una valutazione morale: se noi non facciamo nulla per rovesciarlo, vuol dire che storicamente esso corrisponde alle necessità del presente che ce lo fa accettare».
Ebbene, Carlo e Nello Rosselli prima ancora che antifascisti sono anticonformisti: esercitano una critica radicale del reale che affonda le radici nell’essenza stessa della cultura umanistica, e segnatamente in quella storica.
È per questo che la giornata di oggi ha un doppio significato. Perché il ritorno a Firenze dell’Archivio Rosselli significa la possibilità di accedere non solo ad un fondamentale strumento storiografico, ma anche ad uno strumento di costruzione della coscienza civile. La voce dei Rosselli non torna a parlare solo agli studiosi, ma ad una comunità che ha un vitale bisogno degli anticorpi di una critica radicale.
La cultura come resistenza.
La cultura come mezzo per comprendere perché la maggioranza degli italiani non reagisse contro la minoranza fascista.
La cultura: è questo il senso profondo della radice fiorentina dell’esperienza dei Rosselli. «Prima di agire – ha scritto Calamandrei – bisognava capire. Per questo, come primo atto di serietà e responsabilità, essi promossero quelle riunioni di amici tormentati dalle stesse domande e assetati anch’essi di capire, che dettero origine al Circolo di Cultura … ci riunivamo in quella sala a leggere e a discutere: temi di politica, di economia, di letteratura, di morale. Una breve introduzione di un relatore preparato che poneva il tema, poi una discussione animatissima, che spesso si protraeva per ore. In ogni riunione le idee si chiarivano, i propositi si rafforzavano. A rileggere ora, a distanza di venti anni, i programmi di quelle riunioni, vi si ritrovavano tra i relatori nomi di uomini che poi, nel ventennio successivo hanno portato la stessa chiarezza di idee, la stessa fermezza di propositi negli esili, nelle carceri, nel sacrificio della vita». Finché il 31 dicembre del 1924 «una squadra di fascisti invase le sale e le devastò: dalle finestre che davano in piazza santa Trinità furono gettati di sotto tutti i mobili, i libri e le riviste, e ai piedi della Colonna che porta in cima la statua della Giustizia fu fatto d’essi un gran rogo».
Dieci anni più tardi, mentre Carlo è in Spagna, Nello fa parte di un altro circolo, informale ma straordinariamente importante: «negli anni pesanti e grigi nei quali si sentiva avvicinarsi la catastrofe – racconta ancora Calamandrei – facevo parte di un gruppo di amici che, non potendo sopportare l’afa morale delle città piene di falso tripudio e di funebri adunate coatte, fuggivamo ogni domenica a respirare su per i monti l’aria della libertà, e consolarci tra noi coll’amicizia, a ricercare in questi profili di orizzonti familiari il vero volto della patria». In questo gruppo che, tra il 1935 e lo scoppio della guerra, lasciava ogni domenica la Firenze fascista per cercare nel paesaggio e nei monumenti dell’Italia centrale un nuovo Risorgimento c’erano – oltre a Nello Rosselli e a Calamdrei – Luigi Russo, Pietro Pancrazi, Alessandro Levi, Guido Calogero, Attilio Momigliano, Ugo Enrico Paoli, talvolta Benedetto Croce, Adolfo Omodeo e in qualche occasione Leone Ginzburg.
Era il vertice della cultura italiana: il meglio dell’Italia antifascista. Fu un’esperienza profondissima, e profondamente politica: «Io pensavo – scriveva Calamandrei a Pancrazi – che qualcosa di eterno ci deve essere, se noi prendiamo tanto gusto ed affezione a queste nostre gite: nelle quali circola nel nostro pensiero una parola che non diciamo, per pudore, ma che pure, a ripensarla così di paese in paese, torna nuova, e pura: “patria!”».
E quando Calamandrei apprese la notizia dell’assassinio scrisse questa lettera alla vedova di Nello, la signoria Maria Todesco: «Gentile Signora, non ho saputo trovare altro modo più eloquente per esprimerLe il mio dolore, che questo: di mandarLe qualche immagine del nostro Nello, tratta dalle fotografie delle indimenticabili passeggiate domenicali. Che erano, alla fine di ogni settimana, come un’attesa evasione dalla prigionia; e che ora, nel ricordo, sono una ragione per riempire di tristezza tutte le nostre giornate e per non poter posare gli occhi su paesi e su monti senza pensare a lui con un nodo alla gola».
È anche in questa particolarissima immersione nel paesaggio e nell’arte che affonda le sue radici quello che diventerà l’articolo 9 della Costituzione. Un articolo che, al primo comma, mette alla base della Repubblica nascente proprio quello «sviluppo della cultura» che il circolo dei Rosselli aveva eletto a strumento fondamentale della lotta al fascismo.
Nel 1944 un altro intellettuale europeo, lo storico francese Marc Bloch, scriveva, nella sua Apologia della storia: «Nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria che vergogna che il metodo critico della storia non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento».
Di fronte al nazismo e all’Olocausto il metodo critico della cultura umanistica sembrava ancora più necessario: Bloch – fucilato dalla Gestapo perché membro della Resistenza – la definisce «una nuova via verso il vero e, perciò, verso il giusto». Quel libro si apre con la domanda di un figlio a un padre: «Papà, spiegami allora a cosa serve la storia». Bloch risponde così: «L’oggetto della storia è, per natura, l’uomo … dietro i tratti concreti del paesaggio, dietro gli scritti, dietro le istituzioni, sono gli uomini che la storia vuol afferrare. Colui che non si spinge fin qui, non sarà mai altro, nel migliore dei casi, che un manovale dell’erudizione. Il bravo storico, invece, somiglia all’orco della favola. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda».
È il metodo critico che ci permette di esercitare davvero la nostra sovranità di cittadini, che riesce ad attuare l’articolo 1 della nostra Costituzione. «La sovranità appartiene al popolo»: non si esercita, questa sovranità, senza consapevolezza culturale. È su questo fondamento che, nel dopoguerra, sono state ricostruite le democrazie europee. Ed è appunto per questo che la nostra Costituzione impone alla Repubblica di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca».
E trovo straordinariamente felice che nella casa fiorentina dei Rosselli, in Via Giuseppe Giusti 1938, abbia oggi sede il Kunsthistorishces Institut, l’Istituto Germanico di Storia dell’arte, una delle più importanti istituzioni di ricerca della storia dell’arte a livello mondiale. Un luogo di produzione della conoscenza, un istituto tedesco in Italia, un pezzo dell’Europa della conoscenza che aiuta a vedere che non esiste solo l’Europa delle banche. Su quella facciata di Via Giusti fu sempre Calamandrei a dettare questa iscrizione, che è forse la migliore conclusione di questa giornata:
Da questa casa
ove nel 1925
il primo foglio clandestino antifascista
dette alla resistenza la parola d’ordine
NON MOLLARE
fedeli a questa consegna
col pensiero e coll’azione
CARLO e NELLO ROSSELLI
soffrendo confini carceri esili
in Italia in Francia in Spagna
mossero consapevoli per diverse vie
incontro all’agguato fascista
che li ricongiunse nel sacrificio
il 9 giugno 1937
a Bagnoles de L’Orne
ma invano si illusero gli oppressori
di aver fatto la notte su quelle due fronti
quando spuntò l’alba
si videro in armi
su ogni vetta d’Italia
mille e mille col loro stesso volto
volontari delle brigate Rosselli
che sulla fiamma recavano impresso
grido lanciato da un popolo all’avvenire
GIUSTIZIA E LIBERTA’.
sbilanciamoci.info, 9 giugno 2017 (c.m.c.)
Il 20 maggio 2017 è entrato in funzione il Decreto correttivo ed integrativo del Codice Appalti vigente, con la pubblicazione del Dlgs 56/2017 sulla Gazzetta ufficiale n.103 del 5 maggio 2017.
E’ stata una lunga gestazione, perché dopo pochi mesi dalla entrata in vigore del nuovo codice appalti ad aprile 2016, sono partite subito le polemiche per aver causato il blocco degli appalti, di essere troppo complesso, di avere un regime transitorio troppo breve: imprese, sindacati, concessionarie ed Enti Locali hanno chiesto fin da subito robuste modifiche.
Il nuovo testo approvato di recente ha complessivamente retto alla forza d’urto di chi voleva tornare ai vecchi sistemi, ma in diverse modifiche si leggono compromessi negativi ed arretramenti. L’appalto integrato, il subappalto, i lavori delle concessionarie autostradali, massimo ribasso, i poteri di Anac, l’estensione del regime transitorio, gli strumenti di tutela, sono stati tra i temi più controversi e dibattuti. Vediamo dunque alcune tra le principali modifiche.
Appalto integrato e ripristino dei vecchi progetti
Il nuovo correttivo introduce diverse eccezioni al divieto assoluto del Codice 2016 di utilizzare l’appalto integrato, cioè progettazione ed esecuzione congiunta che aveva prodotto progetti di scarsa qualità, più funzionali agli interessi dei costruttori che all’interesse pubblico. Con le integrazioni odierne, frutto di un compromesso, si potrà mandare in gara il progetto definitivo negli appalti ad alto contenuto tecnologico, per i beni culturali, per le manutenzioni. Inserita nelle modifiche l’allungamento della fase transitoria: tutti i progetti definitivi approvati entro il 19 aprile 2016 vengono salvati. Il periodo nel quale si potrà fare la gara sarà di dodici mesi: la finestra per gli appalti integrati si chiuderà quindi il 20 maggio del 2018. Si tratta di un arretramento della norma e resta poi da vedere in concreto quali saranno i progetti tirati fuori dai cassetti che andranno in gara nei prossimi mesi.
Il subappalto resta al 30%
L’impresa che si aggiudica l’appalto non potrà subappaltare ad altre imprese più del 30% del valore del contratto, come già avveniva prima e le regole saranno fisse per tutte le gare. Per i lavori sopra la soglia comunitaria di 5,2 milioni di euro e per quelli a rischio infiltrazione (noli a caldo e movimenti terra) qualunque sia l’importo, interviene l’obbligo di indicare con l’offerta una terna di subappaltatori disponibili e qualificati a eseguire le opere. Sul subappalto vi è stato un lungo braccio di ferro con ANCE, l’associazione dei costruttori, che ha invocato la liberalizzazione totale del subappalto secondo le Direttive Europee ed i sindacati, contrari ad eliminare la quota del 30%. I pareri del Parlamenti ed il Governo hanno scelto giustamente di confermare la quota, anche se questa previsione è già nel mirino di Bruxelles.
Cresce il massimo ribasso, più inviti nella trattativa privata
Sale da uno a due milioni la soglia di utilizzo del criterio del massimo ribasso con esclusione delle offerte anomale per assegnare le opere. Per arrivare fino alla soglia massima, l’appalto andrà assegnato con “procedura ordinaria” e sulla base di un progetto esecutivo, senza possibilità di modifiche del progetto da parte delle imprese che dovranno limitarsi a eseguire i lavori. Per la trattativa privata, sale da 5 a 10 il numero minimo di imprese da invitare alle procedure negoziate per i lavori di importo compresi tra 40mila e 150mila euro. E a 15 per le opere comprese tra 150mila euro e un milione. Infine i siti da bonificare vengono eliminati tra quelli ammessi a trattativa privata, per evitare che si lascino marcire i problemi per poi intervenire “d’urgenza” senza gara.
Meno trasparenza sotto 40mila euro
Per gli appalti, incarichi e consulenze fino a 40 mila euro si cancella l’obbligo di motivare la scelta dell’affidamento diretto ed il suggerimento di richiedere almeno due preventivi, come previsto dalle recenti Linee Guida approvate dall’Anac, l’Autorità Anticorruzione. Invece come richiesto da Comuni e Regioni, il correttivo archivia la proposta di Cantone per questi incarichi fiduciari affidati direttamente dalle Pubblica Amministrazione.
Autostrade, un anno in più per la trasformazione delle concessioni in house
Per le concessioni autostradali scadute, ci sarà un anno in più per portare a termine gli eventuali affidamenti in house, che quindi arriva fino ad aprile 2019. Inoltre con l’articolo 178 arriva la normativa che consentirà al MIT di assegnare le concessioni autostradali in house ad altre amministrazioni, con il controllo analogo di un Comitato appositamente costituito: due norme certamente pensate per le concessionarie AutoBrennero SpA ed Autovie SpA. Niente modifiche, dopo molte discussioni, per la percentuali di lavori che le concessionarie devono mettere a gara, che resta fissata all’80% mentre il restante 20% potrà essere realizzato con società in house. Ma va anche ricordato che questa previsione del Codice 2016 scatta ad aprile 2018 mentre ora la quota è ancora 60/40: c’è quindi ancora il tempo per modificare in peggio la norma come chiedono concessionari e sindacati.
Concessionari, si allentano i vincoli pubblici di controllo
Diversi articoli riferiti alle concessioni allentano il potere pubblico di intervento come nel caso dell’articolo 165 dove viene eliminata la previsione che se entro 12 mesi dalla firma del contratto non è perfezionato il contratto di finanziamento la concessione decade (il nuovo testo parla di 18 mesi e senza decadenza). O ancora all’articolo 176 dove vengono elencate le ragioni per la cessazione della concessione che si trasforma dal netto “cessa” in un più blando e discrezionale “può cessare” che aumenterà trattative e contenziosi. Infine si segnala sempre dell’articolo 176, il comma 5bis aggiuntivo di non chiara interpretazione e che ha il sapore di una proroga mascherata. Infatti si prevede che in caso di cessazione non dovuta ad inadempimenti del concessionario (per esempio una scadenza naturale) il concessionario ha “il diritto di proseguire nella gestione dell’opera, incassandone i ricavi da essa derivanti, sino all’effettivo pagamento delle suddette somme per il tramite del nuovo soggetto subentrante”.
Contributo pubblico al 49% nel project financing ai privati
Si tratta di un grave arretramento del correttivo con l’innalzamento dal 30% al 49% del tetto massimo per il contributo pubblico nelle opere finanziate con capitali privati. E’ una modifica che spazza via tutta la retorica sempre invocata che l’autofinanziamento è la soluzione per realizzare gli investimenti mentre in realtà si chiede sempre di più un robusto finanziamento pubblico, come conferma anche questa modifica del Codice. Pare molto critico del Consiglio di Stato su questa scelta perchè in contraddizione “con i criteri di ripartizione del rischio” mirati a ridurre “la compartecipazione pubblica” e perchè rivede in maniera radicale gli elementi che servono a pesare l’equilibrio economico finanziario della concessione.
Si riduce il potere di intervento per Anac, ma niente silenzio-assenzo
E’ la modifica a sorpresa che ha fatto sobbalzare Raffaele Cantone, perchè toglie il potere di “raccomandazione vincolante” di Anac. Infatti il correttivo cancella il comma 2 dell’articolo 211 del Dlgs 50/2016 sul precontenzioso, cioè la misura che autorizzava l’Anac a intervenire in tempo reale sulla gestione delle gare da parte delle stazioni appaltanti, intimando ai funzionari di correggere in corsa gli atti o le procedure giudicate illegittime, pena la minaccia di sanzioni fino a 25mila euro. Dopo le proteste di Cantone e le rassicurazioni del Presidente del Consiglio Gentiloni, la misura è stata recuperata, sia pure modificata nella direzione indicata dal Consiglio di Stato nel suo parere, con un emendamento alla “manovrina” all’esame del Parlamento. Il nuovo testo concordato con Cantone prevede che se Anac riscontra vizi ed illegittimità potrà richiamare la stazione appaltante ad adeguarsi al rispetto delle norme. Se si rifiuta allora Anac potrà ricorrere entro i 30 giorni successivi al giudice amministrativo che decide nel merito. Quindi Anac perde dei poteri ma si rientra più coerentemente nell’alveo del nostro sistema giuridico, come aveva anche richiesto il Consiglio di Stato nel suo parere.
Nel correttivo si elimina anche la norma che imponeva all’Autorità Anticorruzione di rispondere in trenta giorni alla richiesta di parere sulle varianti, facendo scattare, in caso contrario, una sorta di silenzio-assenso. Una precisa richiesta di Cantone, «perché la valutazione delle varianti prevede un esame molto complesso che presuppone peraltro una conoscenza approfondita del progetto». Per evitare una valanga di pareri positivi tramite silenzio assenso, il correttivo cancella questa previsione ed elimina ogni vincolo per i tempi di risposta.
Si estende il giro di vite sugli arbitrati
Si allarga in modo significativo la stretta sui compensi degli arbitri. Il correttivo ha imposto di applicare a tutti i nuovi arbitrati le regole più stringenti su nomine e compensi previste dal Codice 2016, senza scappatoie e colmando l’incertezza lasciata dalla prima versione del testo. Basterà che la procedura sia iniziata dopo l’entrata in vigore del Codice, anche se i relativi appalti sono stati banditi prima.
Costi trasparenti per manodopera e sicurezza
Più chiarezza tra costi della sicurezza e costi della manodopera: il correttivo punta a distinguere in maniera chiara la definizione dei due importi. Nei contratti di lavori e servizi la stazione appaltante, nel momento in cui determina l’importo posto a base d’asta, individua nel progetto i costi della manodopera. I costi della sicurezza saranno trattati a parte e dovranno essere scorporati dal costo complessivo. La distinzione è significativa perchè i costi della sicurezza non sono assoggettati, come è giusto, al ribasso d’asta.
Il General Contractor si applica per opere superiori a 100 milioni
L’istituto del General Contractor resta nel codice appalti ma avrà un ambito di azione ancora più limitato che in passato. Secondo la modifica decisa per l’articolo 195, le stazioni appaltanti non potranno più procedere ad affidamenti a contraente generale per contratti il cui importo non sia almeno pari o superiore alla somma di 100 milioni di euro, quindi solo le grandi opere. Modifica rilevante anche sull’albo dei collaudatori, che sarà tenuto dal MIT, che sarà l’unica strada per partecipare agli appalti affidati tramite contraente generale con il ruolo di collaudatore o direttore lavori. Nel decreto che regola l’albo andranno definiti anche «specifici requisiti di moralità, di competenza e di professionalità» dei professionisti che accedono agli elenchi. Norme giuste ovviamente anche se poi abbiamo visto che la corruzione si può annidare ovunque, purtroppo, Ministeri inclusi.
Modifiche peggiorative sulle procedure di tutela dei progetti
Nel Decreto Correttivo sono contenute tre modifiche sui progetti e le procedure di tutela: si stabilisce (art.27, comma 1bis) che anche in caso di annullamento, revoca o ritiro di un progetto, restano sempre valide le autorizzazione ottenute per la durata di cinque anni. Evidentemente c’è sempre qualche vecchio progetto sbagliato da ritirare fuori dai cassetti.
Secondo, all’art. 216 sul regime transitorio si stabilisce, come già aveva fatto con un parere ANAC, che le infrastrutture strategiche di cui è avviata la procedura di VIA alla data di entrata in funzione del Codice (19 aprile 2016) dovranno concludersi con le procedure semplificate della legge Obiettivo. La terza modifica riguarda la verifica dell’interesse archeologico (art.25) in cui viene inserito un nuovo decreto da emanare per ottenere speditezza ed efficacia e per applicare procedimenti semplificati e dai tempi certi“ che garantiscono la tutela del patrimonio archeologico tenendo conto dell’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera”. Pessima definizione perché sembra di capire che tutelare il nostro patrimonio archeologico non equivalga a fare l’interesse pubblico! Inoltre nel medesimo articolo è modificato il comma 15 in cui si invoca l’applicazione del regolamento Madia di semplificazione per le grandi opere, che in pratica è una nuova Legge Obiettivo, ed è l’opposto di tutta la strategia annunciata dal Ministro Delrio per opere “utili, snelle e condivise”.
Infrastrutture: programmazione delle opere, progettazione e dibattito pubblico
Ed a proposito del superamento reale della Legge obiettivo resta confermato l’impianto del Codice 2016 (articoli 200-203) con la previsione di strumenti di revisione dei progetti, ricognizione e presentazione del Documento Pluriennale di Programmazione con gli interventi da realizzare, aggiornamento del Piano generale dei Trasporti e della Logistica, la gestione del regime transitorio. In riferimento a questo, il primo DPP è stato modificato dal correttivo e potrà essere presentato senza tutta la procedura di proposta di intervento da parte di Regioni ed Enti Locali e dovrà essere riferito a tutte le opere strategiche e non solo a quelle trasporti: questo perché il problema al MIT ed alla Struttura Tecnica di Missione è selezionare dalla sterminata lista e Obblighi Giuridicamente Vincolanti (OGV) della Legge Obiettivo, selezionando e facendo pulizia. Già l’Allegato Infrastrutture al DEF 2017 ha anticipato la strategia ma serve la presentazione del primo DPP che doveva già essere presentato ad aprile 2017, per superare davvero la Legge obiettivo.
Novità del correttivo anche sui livelli di progettazione (art.23) dove si prevede che il Progetto di fattibilità possa essere articolato in due fasi, ma ai soli fini di Programmazione del Piano Triennale, del Dibattimento Pubblico e dei Concorsi di Progettazione. Viene aggiunta la necessità di indicare le possibili soluzioni alternative progettuali sulla base di indicatori ambientali, economici, tecnici, di impatto sul consumo di suolo e la tutela del patrimonio, che dovranno far parte dello Progetto di fattibilità e poste alla discussione del Dibattimento Pubblico (art.22). Sul DP viene istituito un monitoraggio al MIT su tutte le esperienze effettuate. Ma comunque su DP e sui livelli di Progettazione servono i decreti e regolamenti attuativi che inoltre si dovranno raccordare con la procedura di VAS e di VIA. Valutazione di impatto ambientale di cui è in corso il recepimento della nuova Direttiva che si spera – dopo le proteste delle Associazioni ambientaliste ed i pareri del Parlamento – venga applicata adeguatamente sul progetto definitivo.
Salgono a 60 i provvedimenti attuativi del Codice
Infine va ricordato che per attuare il Codice Appalti – sia per il testo del 2016 e sia per le correzioni 2017 – servono 60 provvedimenti attuativi di varie istituzioni (ANAC, MIT, CSLP, Ministero Ambiente..). Di questi ne sono stati adottati 12 ma alcuni andranno già modificati alla luce del nuovo Decreto Legislativo correttivo Dlgs 56/2017. Un numero eccessivo, che pregiudica la funzionalità ed efficacia della nuove norme, ha scritto nel proprio parere il Consiglio di Stato.
Già sono partite discussioni ed interpretazioni su punti specifici, chiarimenti sul testo, difficoltà applicative: del resto sono abbastanza fisiologiche data la complessità ed estensione delle norme. Il lavoro quindi continua e sarà ancora lungo per ottenere una normativa efficiente a tutela della concorrenza e della trasparenza nel nostro Paese.
«L’informazione e la partecipazione dei cittadini (singoli o associati) vale finché non compromette l’opacità e la discrezionalità dei processi decisionali nei rapporti tra Regioni e amministrazioni comunali». lacittàinvisibile, 31 maggio 2017 (c.m.c.)
«Dalla precedente legge urbanistica, la legge 1 del 2005 la partecipazione non è più un esercizio di stile ma è parte attiva delle procedure già dall’avvio del procedimento. E questo ha un significato preciso: non si tratta solo di una questione culturale e di democrazia ma anche di legittimità. Se non si seguono i dettami della norma si rischia di produrre atti non validi.»
«Uno dei punti cardine della legge regionale 65 del 2014 (Norme per il governo del territorio) è quello del coinvolgimento nei processi urbanistici di tutti i soggetti interessati al governo del territorio. Al Capo V, infatti, si stabilisce che la Regione promuove e sostiene l’informazione e la partecipazione. Non si tratta di pura formalità, ma di un principio che la legge attiva in modo tale che i risultati di queste attività contribuiscano alla definizione dei contenuti degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica.»
Così l’Assessore Vincenzo Ceccarelli, intervenendo il 26 maggio al convegno «La partecipazione nel governo del territorio in Toscana: Il nuovo regolamento regionale» organizzato dalla Regione Toscana, in cui il Garante all’informazione ha presentato il nuovo Regolamento sulla partecipazione del governo del territorio. Peccato che Ceccarelli non si renda conto che le sue affermazioni suonano come l’ennesima controprova di una politica fatta solo di proclami, annunci, dichiarazioni, promesse, contraddette puntualmente dai fatti.
Nella fattispecie, né l’Assessore, né Aldo Ianniello, Dirigente del settore Pianificazione del territorio che fa capo all’Assessore medesimo, si degnano di rispondere a una precisa richiesta, più volte avanzata dalle associazioni ambientaliste: quale sia la prassi seguita dalla Regione Toscana nel valutare i risultati delle Conferenze di copianificazione quando queste non provvedano al dimensionamento delle previsioni di nuovi insediamenti nel territorio extraurbano: è la Domanda cui la Regione Toscana non risponde già pubblicata su eddyburg.
«La Regione promuove e sostiene l’informazione e la partecipazione” afferma Ceccarelli. Evidentemente la sua idea di promozione e sostegno consiste nel rispondere alle domande gradite, magari concordate con il compiacente giornalismo locale, mentre a quelle vere, che vengono dai “cittadini, singoli o associati, nonché di altri soggetti interessati pubblici o privati» (sempre dall’intervista di Ceccarelli) si oppone il silenzio. Evidentemente, l’informazione e la partecipazione dei cittadini (singoli o associati) vale finché non compromette l’opacità e la discrezionalità dei processi decisionali nei rapporti tra Regioni e amministrazioni comunali.
Stando così le cose, la pur volenterosa Garante all’informazione e comunicazione della Regione Toscana che in nove mesi non è riuscita a ottenere uno straccio di risposta dai propri “superiori politici” dovrebbe coerentemente dimettersi; o, per lo meno, risparmiare i soldi dei cittadini piuttosto che spenderli in inutili convegni.
Anche nel Veneto la truffa dei finti "stop al consumo di suolo". Promettono di arrestarlo quando non ci sarà più nulla da consumare. Nell'attesa, le deroghe sono più vaste delle limitazioni. E accrescono il peso delle aree già edificate da "rigenerare" con pingui premi di cubatura. Corriere del Veneto, 30 Maggio 2017
«Oggi è una giornata storica per il futuro del territorio veneto. Una legge di quelle che qualificano un’intera legislatura, che ho fortemente voluto - dice soddisfatto il presidente Luca Zaia -. Per primi in Italia abbiamo avuto il coraggio di affrontare una sfida delicata e difficile. Da oggi il Veneto fa da apripista dell’approccio a consumo zero nell’ambito della salvaguardia del territorio».
Il testo finale uscito dalla maratona di emendamenti mantiene fermi i capisaldi elencati all’articolo 3: si favoriscono le politiche agricole sostenibili, le azioni per il ripristino della naturalità, la demolizione degli edifici nelle zone a rischio idraulico, si incentiva il recupero e il riuso del già costruito. Il cuore della norma sta nell’articolo 4 che demanda alla giunta, entro sei mesi dalla pubblicazione della legge (ma l’orologio sarà fermato per acquisire i pareri della commissione), la quantità massima di consumo di suolo ammesso sulla base di indicazioni sul «consolidato» che dovranno fornire i Comuni e individua i criteri e gli obiettivi di recupero degli ambiti urbani di rigenerazione e quelli di individuazione degli interventi pubblici di interesse regionale. E pure, novità di ieri introdotta da un articolo 11 completamente riscritto dal relatore Calzavara, deciderà se i centri commerciali vanno costruiti in deroga o meno.
«La posta in gioco, a partire dall’esperienza emiliano romagnola è assestare un colpo durissimo alla concezione stessa del pianificare a livello nazionale». ilmanifestobologna.it, 17 maggio 2017 (p.d.)
nemmeno coordinato con la classificazione e con la definizione degli interventi individuati in ambito edilizio-urbanistico». ilSole24ore, 1 maggio 2017 (c.m.c.)
Il nuovo regolamento sulle autorizzazioni paesaggistiche (Dpr del 13 febbraio 2017, n.31) per gli interventi di lieve entità ha individuato le opere che non necessitano del nulla osta e ampliato l’elenco di quelle per le quali è prevista una procedura semplificata, con l’obiettivo di ridurre gli adempimenti e semplificare i procedimenti autorizzativi.
Chi intende eseguire dei lavori deve però prestare attenzione al fatto che fra autorizzazione paesaggistica e titolo abilitativo edilizio non c’è una corrispondenza assoluta: non è cioè per nulla scontato che un intervento che non richiede più il nulla osta paesaggistico rientri anche fra le opere in edilizia libera.
IL Dpr 31/2017
Sono 31 i gruppi di interventi edilizi, di arredo urbano, di manutenzione di alvei e impianti vari, localizzati nelle aree vincolate di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, che possono essere realizzati senza l’autorizzazione paesaggistica. Il loro elenco è riportato in uno dei due allegati al Dpr 31/ 2017, che contiene il regolamento con il quale sono stati individuati sia gli interventi esclusi dall’autorizzazione (allegato A), che quelli la cui realizzazione è sottoposta all’autorizzazione paesaggistica semplificata (allegato B).
Con l’entrata in vigore, lo scorso 6 aprile, di questo nuovo regolamento, va in pensione il Dpr 139/2010, che ha regolato, fino a quella data, il procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità. L’emanazione di un regolamento per l’individuazione degli interventi per i quali non è necessaria l’autorizzazione ordinaria e per lo snellimento e la semplificazione dei procedimenti, è prevista dal Codice dei beni culturali (il Dlgs 42/2004).
Considerati anche i 42 raggruppamenti per i quali è sufficiente l’autorizzazione semplificata diventano 73 i “gruppi di opere” realizzabili nelle aree di tutela senza l’autorizzazione paesaggistica ordinaria.
Il numero degli interventi puntuali che può essere classificato di lieve entità è, però, molto più ampio. Per esempio, tra gli interventi sui prospetti e sulle coperture degli edifici, esclusi dall’autorizzazione paesaggistica, sono compresi la coibentazione degli edifici per migliorare la loro efficienza energetica, la manutenzione di balconi, terrazze o scale esterne, la sostituzione di lucernai, comignoli, parapetti; gli interventi di sistemazione delle aree di pertinenza degli edifici esistenti, per i quali occorre l’autorizzazione semplificata, comprendono le nuove pavimentazioni, gli accessi pedonali e carrabili, la realizzazione di rampe e di opere fisse di arredo.
I titoli abilitativi
Questa pluralità di lavori puntuali, che si riscontra in varie descrizioni degli interventi riportati negli elenchi dei due allegati del Dpr 31/2017, rende difficile stabilire una corrispondenza stretta e univoca tra il regime di autorizzazione paesaggistica, esclusione o semplificazione, e il tipo di titolo abilitativo richiesto per la realizzazione dell’intervento edilizio, e, cioè, se l’intervento può essere realizzato in edilizia libera oppure se serve la comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila), la segnalazione certificata di inizio attività (Scia) o il permesso di costruzione. Vi sono interventi che possono essere realizzati con lo stesso titolo abilitativo, per non essendo esclusi dall’autorizzazione paesaggistica in determinati contesti, e avendo bisogno di quella semplificata in altre condizioni. Potrebbe essere questo il caso, per esempio, di alcune opere relative all’installazione di pannelli solari, oppure quello della realizzazione di alcuni interventi per il superamento delle barriere architettoniche.
Per abbinare autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio occorre soffermarsi sulle caratteristiche dello specifico intervento.
Le opere escluse
Sugli aspetti tecnici di realizzazione degli interventi, l’articolo 4 del nuovo regolamento, prevede, limitatamente agli interventi e alle opere escluse dall’autorizzazione paesaggistica (quelli riportati nell’allegato A), che i piani paesaggistici possano dettare disposizioni e direttive per specificare, negli strumenti della pianificazione urbanistica comunale, le metodologie che devono essere applicate. Naturalmente, in attesa di indicazioni, da subito si applicano tutte le disposizioni del Dpr 31/2017.
Il rinnovo
Il procedimento di autorizzazione semplificato (previsto per gli interventi dell’allegato B) si applica pure alle richieste di rinnovo dell’autorizzazione paesaggistica, anche ordinaria rilasciata ai sensi dell’articolo 146 del Dlgs 42/2004. Devono però ricorrere diverse condizioni. La richiesta deve riguardare un’autorizzazione scaduta da non più di un anno e l’intervento almeno in parte non deve essere ancora realizzato; inoltre, il progetto per il quale si chiede il rinnovo deve essere conforme a quello originariamente autorizzato e alle altre eventuali prescrizioni.
Un instant book per criticare la minaccia di legge neoliberista della regione ex leader del buongoverno urbanistico. A cura di Ilaria Agostini. Testi di Alleva, Berdini, Bevilacqua, Bonora, Caserta, Cervellati, Dignatici, Foschi, Losavio, Marson, Montanari, Quintavalla, Righi, Rocchi, Salzano.
È uscito Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna, a cura di Ilaria Agostini, prefazione di Tomaso Montanari (Pendragon, 2017, 112 pagine, 8 euro).
Il libro collettivo nasce a seguito della presentazione del progetto di legge Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio (4223) della Regione Emilia-Romagna. Per i suoi contenuti di stampo neoliberista e per il ruolo nazionale che la regione ricopre nella pianificazione, il disegno di legge urbanistica ha suscitato un immediato allarme tra intellettuali e urbanisti critici e, nelle forze politiche di opposizione, L’Altra Emilia Romagna e Movimento 5 Stelle.
Gli autori del libro, le moderne “cassandre” di cui scrive in prefazione Tomaso Montanari, denunciano pubblicamente i rischi di una legge che favorirà un inedito consumo di luoghi – urbani e rurali – e un restringimento degli spazi di democrazia e di autodeterminazione, in nome dell’interesse privato e speculativo.
Dietro gli slogan del risparmio di suolo e della rigenerazione urbana, della semplificazione e della negoziazione, si nasconde il pericolo di un’«eclissi della pianificazione». In particolare, se il DdL si trasformerà in legge: il piano urbanistico sarà sostituito da “accordi operativi”; il consumo di suolo sarà garantito per un altro 3%, pari a centinaia di chilometri quadrati di nuova edificazione; il tessuto delle città storiche potrà essere interessato da demolizioni; la semplificazione riguarderà solo i grandi operatori generando un doppio regime normativo.
Prefazione di Tomaso Montanari. Contributi di: Ilaria Agostini, Piergiovanni Alleva, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Paola Bonora, Sergio Caserta, Pier Luigi Cervellati, Paolo Dignatici, Anna Marina Foschi, Giovanni Losavio, Anna Marson, Cristina Quintavalla, Ezio Righi, Piergiorgio Rocchi, Edoardo Salzano.
. (segue)
Un decreto legislativo che sembra scritto da qualche lobby affiliata al potente Partito delle grandi opere (inutili, dannose, supercostose). Tale appare la proposta anonima, presentata, in un comunicato stampa del 10 marzo, dal Consiglio dei Ministri al fine di “efficientare" (sic) le procedure, di innalzare i livelli di tutela ambientale, di contribuire a sbloccare il potenziale derivante dagli investimenti in opere, infrastrutture e impianti per rilanciare la crescita (ovviamente) sostenibile”; proposta motivata come un adeguamento richiesto dalla direttiva 2014/52/UE.
Vediamo, invece, cosa si cela dietro al paravento dell’attuazione della direttiva, la quale non obbliga, ma consente solo delle possibilità in tutt’altro contesto. La Relazione, allegata al Decreto ora assegnato alle Commissioni Ambiente, Bilancio e Politiche dell’Unione Europea, è esplicita a questo proposito. Tutto si incardina su due possibilità che sono offerte ai proponenti di una grande opera da sottoporre a VIA. La prima è di presentare elaborati progettuali con un livello informativo e di dettaglio non più equivalente a quello del “progetto definitivo”, ma nella forma di "progetto di fattibilità" come definito dal Codice degli appalti.
Tuttavia gli estensori si devono essere accorti che i requisiti del “progetto di fattibilità”, formulati all’art. 23 del Codice, se seguiti correttamente, potrebbe essere troppo onerosi e lasciare troppi pochi margini alla discrezionalità del proponente e alla conseguente contrattazione tra poteri - opachi e lontani dai cittadini. Ed ecco che si provvede con una seconda possibilità offerta dal Decreto, quella di “aprire, in qualsiasi momento, una fase di confronto con l'autorità competente finalizzata a condividere la definizione del grado di dettaglio degli elaborati progettuali necessari allo svolgimento della procedura.” In parole povere: quando ci pare, possiamo metterci d’accordo su come deve essere documentato e approfondito il progetto di fattibilità.
Vi sono due altri provvedimenti, sempre nella linea di tagliare fuori ogni possibile opposizione, soprattutto se locale o dal basso: il primo è l’eliminazione della fase di consultazione del pubblico nella procedura di Verifica di assoggettabilità delle opere a VIA; il secondo è la riduzione dei tempi per la conclusione dei procedimenti, che ora diventano “perentori”, compreso il ricatto ai dirigenti responsabili dell’iter procedurale che ne risponderanno da un punto di vista disciplinare.
C’è di più: per “efficientare” le procedure il decreto rimodula (un eufemismo) le competenze normative delle Regioni, “alle quali viene attribuito esclusivamente il potere di disciplinare l'organizzazione e le modalità di esercizio delle proprie funzioni amministrative”. Anche se con una formulazione indiretta, sembra che il Consiglio dei Ministri e gli anonimi proponenti, scontenti del risultato del referendum del 4 dicembre 2016, abbiano deciso di provvedere con un decreto legislativo: le Regioni sono esautorate dalle loro competenze, sancite dalla Costituzione.
Sempre nella stessa linea, si propone di costituire un “Comitato tecnico” formata da 30 esperti che dovrebbe supportare la Commissione VIA (evidentemente fatta di inesperti o, forse, troppo poco malleabile da parte del potere politico) e di applicare, su semplice richiesta del proponente, la nuova normativa anche ai procedimenti già in corso. Un esempio potrebbe essere il progetto del nuovo aeroporto di Firenze, su cui la VIA ha espresso un parere positivo, ma con oltre 140 prescrizioni che il Ministro Galletti non rende pubbliche, né sottoscrive con la sua firma.
Quanto agli effetti positivi, la Relazione si limita a dire che “il provvedimento consentirà, in linea con la politica di semplificazione del governo, di dare risposta alle numerose istanze provenienti dagli operatori economici.
Il significato strategico del Decreto legislativo proposto è evidente. Si vuole che le procedure di Valutazione dell’Impatto Ambientale, lo screening decisivo per l’avvio della realizzazione di una grande opera, siano sottratte a ogni forma di partecipazione, che il grado dettaglio del progetto presentato sia puramente discrezionale e che il tutto si svolga come contrattazione tra governo, politici e imprese proponenti. Se già ora le procedure VIA sono soggette a indebite interferenze della politica, ora, non contenta, la politica vuole sancire la propria esclusiva competenza, a scapito di tutto ciò che può tutelare gli interessi dei cittadini, il paesaggio, l’ambiente. D’altronde, le vicende in corso suonano come campanelli di allarmi per il partito delle grandi opere. Alcuni progetti, giudicati strategici, sono osteggiati da Regioni, (come il gasdotto che ferirà la Puglia o le trivellazioni marine libere) o da enti locali (come la Provincia di Grosseto e un gruppo di Comuni, nel caso dell’autostrada tirrenica); inoltre è sempre più diffusa, forte, argomentata tecnicamente, l’opposizione di comitati alle tante opere inutili in progetto o in corso.
Vi è un ulteriore conseguenza in questo pericoloso tentativo di depotenziare le procedure VIA e renderle soggette al potere politico. Un progetto lacunoso e mal fatto, approvato in forma preliminare, implica numerose correzioni e integrazioni successive, nel progetto definitivo, in quello esecutivo, ma soprattutto in corso d’opera. In questo modo, come avviene per “prassi consolidata”, le imprese possono aggiudicarsi appalti a costi concorrenziali, sapendo di poterli moltiplicare nel corso della realizzazione, oltretutto fuori di ogni controllo. E’ noto che sono questi costi, triplici a dir poco rispetto la media europea, ad alimentare, per tutti i rami, il partito delle grandi opere e la corruzione diffusa.
Rimane un interrogativo: come si comporteranno le forze politiche che si dichiarano di sinistra (in particolare i fuoriusciti dal PD) quando il decreto sarà discusso nelle commissioni ed, eventualmente, in parlamento? E ancora: si opporranno i Governatori, quando consultati nella conferenza Stato-Regioni? Questo ci aiuterà a capire cosa significhi “sinistra” per molti protagonisti della politica italiana, se nelle parole o nei fatti.
Millennio urbano, 24 marzo 2017 (m.c.g.) con riferimenti
La sentenza del Consiglio di Stato n. 2921 del 30.6.2016 e la correlata decisione del TAR di Milano del febbraio 2015 hanno annullato parti rilevanti del piano generale di un comune per non avere tenuto adeguatamente conto delle indicazioni del piano territoriale provinciale. La sentenza tocca alcuni aspetti da sempre controversi, inerenti: il valore delle disposizioni non prescrittive dei piani di area vasta, la necessità di motivare le scelte assunte quando ci si discosti da tali disposizioni, la necessità per la pianificazione comunale di concorrere alla realizzazione degli obiettivi della pianificazione sovracomunale. Entrando nello specifico:
Il comune in questione prevedeva un incremento di consumo di suolo del 13% rispetto all’urbanizzato esistente, valore palesemente più elevato di quanto consentito dal PTCP (massimo 1% trattandosi di zona già oggi molto densamente urbanizzata). Anche se secondo la legge regionale il limite fissato dal piano sovracomunale non è prescrittivo, quindi vincolante per il comune, la sentenza afferma che lo scostamento doveva essere motivato dal comune, facendo riferimento a dati e analisi oggettivi. La provincia svolge dunque la funzione di coordinamento territoriale utilizzando il complesso delle disposizioni del PTCP, sia quelle prescrittive che quelle di indirizzo. Una considerazione che sembra ovvia, che finalmente fa luce su una prassi che si era invece consolidata negli anni, da parte dei comuni, di considerare i PTCP degni di attenzione solo per i pochi temi prescrittivi per legge.
Il piano comunale deve nella sua parte strutturale affrontare e declinare le indicazioni della pianificazione provinciale, dando indicazioni organiche ai successivi interventi attuativi. Nel caso specifico si trattava delle indicazioni dei piani regionale e provinciale relativi all’attuazione del progetto di rete ecologica. Non possono essere rinviate alla pianificazione attuativa dove rischierebbero di disperdersi in interventi frammentari (come faceva il piano comunale censurato, ma che era purtroppo diventata prassi in molti strumenti urbanistici).
La VAS del piano comunale non può omettere il confronto tra opzioni alternative strategiche e la valutazione degli effetti cumulativi delle azioni di piano. Viene affermata la dignità della VAS come strumento di conoscenza e supporto alle decisioni, e viene in sostanza nuovamente richiamata la necessità di affrontare nella parte strutturale del piano comunale le questioni ambientali, molte delle quali sono peraltro oggetto di disposizioni nei piani di area vasta.
Queste pronunce ricordano l’esistenza di due livelli di pianificazione, comunale e sovracomunale, che sono distinti ma anche complementari, che necessitano di essere tra loro tenuti in un continuo rapporto dialettico. Il comune è chiamato a concorrere alla realizzazione degli obiettivi sovracomunali, che il PTCP esplicita sia attraverso disposizioni prescrittive che di indirizzo (1). Sono ora più chiari, grazie a queste pronunce, i riferimenti utili per circoscrivere l’ambito di discrezionalità che esiste nel comma 1 dell’art 118 della Costituzione, che è stato reso ancora più incerto dall’arrivo degli amministratori comunali negli organi provinciali (2). Per mantenere il costruttivo confronto dialettico si deve trovare il modo di evitare il cortocircuito decisionale tra le due distinte cariche istituzionali di amministratore comunale e provinciale.
L’amministratore comunale si occupa di funzioni di prossimità nella sede municipale, ma deve trasferirsi nel palazzo della provincia per esercitare le funzioni di area vasta. Bisogna fare emergere e rafforzare le differenze di contesto, che non riguardano evidentemente solo l’edificio fisico, ma anche le strutture tecnico amministrative, gli statuti e i regolamenti. Non è facile, il percorso è molto stretto, insidioso, e in salita, ma fino a che non si scoprano strade alternative (sempre che esistano) non si può fare a meno di percorrerlo, se si vuole che le politiche di area vasta abbiano ancora un senso.
La Legge Delrio definisce gli indirizzi generali per la riorganizzazione del livello intermedio, ma lascia ai singoli enti ampia flessibilità interpretativa, e possibilità attraverso gli statuti di potenziare la capacità attuativa, per esempio organizzando in modo più efficace le attività degli organi politici e delle strutture tecniche. Il modo in cui la legge ripensa gli organi fornisce lo spunto per superare la separazione in settori che si era nel passato cristallizzata attorno alla tradizionale organizzazione per assessorati, con conseguenze soprattutto nelle materie, come il governo del territorio, dove un approccio interdisciplinare e una visione trasversale sono essenziali.
Gli uffici possono essere rafforzati nella loro rappresentanza esterna, delegando loro pareri e autorizzazioni. Per esempio il parere sui piani comunali potrebbe essere emesso direttamente dal dirigente o responsabile competente riconducendo a materia tecnica l’espressione di compatibilità (cosa che peraltro già avviene in alcune, anche se ancora poche, province). Ricondurre l’istruttoria di compatibilità in un ambito più tecnico, meno discrezionale, aiuterebbe a governare quegli aspetti di area vasta che richiedono un’adeguata distanza, nel senso di autonomia, rispetto agli interessi locali.
Si potrebbe più facilmente distinguere tra tutela e conformazione del suolo. La tutela della risorsa scarsa è tema prima di tutto ambientale, connessa con la competenza esclusiva assegnata dalla Costituzione allo Stato (3), e quindi con le leggi nazionali e con i limiti previsti dai trattati internazionali sulla sostenibilità. Ricondurla ad un ambito decisionale più tecnico aiuterebbe a mantenerla distinta dalla conformazione del suolo, più intimamente connessa con i poteri discrezionali degli amministratori comunali, e più vulnerabile alle pressioni locali.
Gli amministratori comunali dentro gli organi provinciali rappresentano prima di tutto i territori di provenienza, prima anche degli schieramenti politici. Nei nuovi enti intermedi sono i territori a confrontarsi, allearsi, eventualmente anche contrapporsi, sulla base dell’appartenenza ad ambiti omogenei nelle caratteristiche geografiche, nelle problematiche esistenti, negli interessi convergenti e negli obiettivi perseguiti. Così dovrebbe essere secondo il modello organizzativo introdotto dalla Legge Delrio, una della innovazioni più interessanti della legge, ma ancora inattuata.
Fino ad oggi negli statuti e nella pratica quotidiana si è ritenuto più semplice riproporre le previgenti modalità di funzionamento, anche riproducendo artatamente quanto cancellato dalla norma, come le vecchie giunte. Ma negli organi ad elezione indiretta la contrapposizione tra maggioranza e minoranza politica non ha più ragione di essere, o quantomeno non dovrebbe più essere determinante nel dettare l’ordine del giorno dei lavori consiliari.
Si sta rischiando di appesantire l’azione delle province invece di renderla più fluida, come dovrebbe invece essere secondo le intenzioni alla base della legge. Vantaggi in termini di efficacia si otterrebbero se le funzioni di linea venissero affidate ai dirigenti, orientamento già previsto dalle leggi degli anni Novanta ma mai completamente attuato, mentre i consiglieri potrebbero concentrarsi sugli obiettivi più strategici e trasversali, attraverso specifiche deleghe a progetto (4). I consiglieri continuano invece ad essere delegati per settori tematici, come accadeva per i vecchi assessorati.
Se l’articolazione per settori delle deleghe politiche ha già in precedenza mostrato di essere inefficiente, ha ancora meno senso oggi che i consiglieri delegati non hanno il tempo per seguire i lavori della provincia con l’assiduità necessaria. Potrebbero invece più utilmente presidiare obiettivi strategici trasversali alle funzioni di linea, che necessitano di essere guidati e monitorati per assicurare il raggiungimento dei risultati previsti in tempi compatibili con la molto più breve durata del mandato amministrativo.
Dal Decreto Salva Italia del dicembre 2011 la pianificazione di area vasta è sostanzialmente bloccata, in attesa di conoscere il destino delle province. La Legge Delrio ha confermato la pianificazione tra le funzioni della provincia, ma ha profondamente modificato la natura dell’ente intermedio introducendo gli organi ad elezione indiretta. I primi tre anni di applicazione della legge ne hanno evidenziato diversi limiti, ma esistono anche opportunità ad oggi poco esplorate. Archiviato il referendum è ora tempo di farle emergere, e ritornare a ragionare e decidere sui problemi di area vasta, che nel frattempo non hanno smesso di crescere diventando sempre più critici.
(1) Si richiama l’art 19 c.1 della Legge 135/2012 dove tra le funzioni fondamentali dei comuni sono previste: “la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla Pianificazione territoriale di livello sovracomunale”.
(2) Sulla discrezionalità nel comma 1art 118 Cost. si rinvia ai ragionamenti svolti nella prima parte di questo scritto, pubblicata su Millennio Urbano dell’11 febbraio 2017
(3) “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, tra le competenze esclusive dello Stato elencate all’art 117 Cost., comma 2 lett s)
(4) Se si va oltre il concetto di una contrapposizione politica tra maggioranza e minoranza, le deleghe di supervisione su obiettivi strategici potrebbero essere assegnate a tutti i consiglieri e non solo a quelli collegati con la lista vincitrice delle elezioni.
Riferimenti
La prima e la seconda parte del saggio, sono raggiungibile in eddyburg:Autonomia, discrezionalità e funzioni fondamentali e Tra conformazione della proprietà e tutela dei beni comuni