loader
menu
© 2025 Eddyburg

Avrebbe compiuto 75 anni a ottobre. È morto dopo una lunga malattia Per tutta la vita ha denunciato i maltrattamenti che il nostro patrimonio storico, paesaggistico e monumentale ha subito ad opera di incompetenti retori e speculatori Le sue battaglie per una Italia diversa Personaggio antico, un eroe o un poeta infuriato E l’Urbe si sviluppava a macchia d’olio santo

È scomparso l’uomo che voleva sconfiggere il cemento. Antonio Cederna stava per compiere settantacinque anni, e la sua contesa con una forza più potente della ragione e della storia - la Costruzione che diventa Distruzione - durava da quasi mezzo secolo. Ora che s'è interrotta, ripensando alla sua vita si può tracciarne un bilancio amaro: Cederna non ha vinto. Non poteva vincere. Era un'antiretorica, la sua, che coalizzava contro di sé interessi, convenzioni, mitologie bugiarde, seducenti demagogie: lo sviluppo, il lavoro, l’avvenire contrapposto al passato, l’asfalto delle autostrade confrontato ai sassi delle vie consolari, edifici sontuosi capaci di ridicolizzare gli umili tessuti urbani lavorati dal tempo. Una coalizione di interessi e di pretesti che avrebbe scoraggiato chiunque.

Antonio Cederna non si lasciava né intimorire né sedurre. Studiava. S'informava. Si documentava "sul campo" con la destrezza di un segugio e la passione di un missionario. Paragonava questa nostra Italia sventata a tanti paesi europei meno favoriti dall’arte ma più attenti a non offenderla. Nella redazione del Mondo, il settimanale che lo scoprì, fioccavano per lui i nomignoli. Lo chiamavano "l’Indignato speciale", l’"Appiomane", il "piccolo Borgese", con allusione alla sua discendenza, per parte di madre, dal celebre scrittore Giuseppe Antonio Borgese. Scherzi che nascondevano una grande stima per quel giovane don Chisciotte e le sue "campagne".

Il primo articolo di Cederna lo lessi nella primavera del 1950. S' intitolava "Via degli Obelischi". Era l’Anno Santo, e Roma lo festeggiava a modo suo: inaugurando via della Conciliazione con i suoi ventotto obelischi, disegnati dagli architetti Piacentini e Spaccarelli. Uno sconcio storico. Storico era anche il legame che in quell’occasione si stabilì, o si confermò, tra fascismo e Repubblica italiana. Già Mussolini aveva infatti progettato lo sventramento della "spina di Borgo", un modesto tessuto edilizio costruito nei secoli, che si apriva all’improvviso sullo scenario berniniano. Ora l’opera si completava, sommando al danno estetico il disastro ecologico. Dopo lo sventramento, migliaia di persone che abitavano quelle vecchie case vennero sbattute altrove. Antonio Cederna, allora ventinovenne, si scatenò.

Quello che uscì dalla sua penna era un intervento critico. Ma era soprattutto un’invettiva. Accorata. Sdegnata. Furente. Dopo quell’esordio, lungo sedici anni, il settimanale di Pannunzio ospitò più di quattrocento note, servizi, inchieste di Cederna. Tema: i maltrattamenti che il nostro patrimonio storico, paesaggistico e monumentale subisce ad opera di incompetenti, retori e speculatori. Antonio, poco più d’un ragazzo, sembrava un personaggio antico, un eroe o un poeta infuriato. Anche se diventò ben presto un maestro di giornalismo, il suo mestiere di partenza era un altro. Lombardo, si trovava a Roma per caso. S'era laureato in archelogia a Pavia e ora frequentava nella Capitale una scuola di perfezionamento, oltre a partecipare a certi lavori di scavo a Carsoli, in Abruzzo. Erano le sue mansioni di studioso. Al Mondo affidava le sue denunzie di cittadino. E con grande efficacia. Nei suoi scritti cultura e giornalismo coincidevano.

Gli anatemi del giovane archeologo toccavano nervi scoperti dell’intellighenzia italiana. Agivano su una minoranza, ma in profondità. Comunicavano sdegno. Creavano allarme nei colpevoli. Se ora penso alle battaglie combattute da Cederna, mi trovo di fronte a un’ininterrotta sequenza di titoli. Alla "Via degli Obelischi" seguono "I vandali in casa". È il 1951. Il delirio distruttivo dell' Italia repubblicana prosegue. Il Comune di Roma rispolvera ancora un progetto di sventramento, compreso nel piano fascista del 1931, che dovrebbe spaccare il centro storico fra piazza di Spagna, il Babuino, via del Corso e l'Augusteo. Vogliono picconare le vecchie case sostituendole con palazzoni in uno stile "littorio ritardato". Chi potrebbe trattenere l’archeologo-urbanista? Anatema, anatema! Un altro titolo: "I gangsters dell’Appia". Cederna era stato raggiunto da decine di telefonate capaci di sconvolgerlo: si tenta di distruggere l’Appia antica. Nel suo appassionato talento semplificatorio, Antonio sceneggiò il destino di quella strada veneranda: stavano privatizzando i monumenti, i paesaggi, i tramonti di fronte ai quali Goethe, Gibbon, Gregorovius, Byron, Stendhal, De Brosse, Mommsen erano venuti a meditare sulla fine del mondo antico, l’invidia del tempo e la varietà della fortuna. Cinematografari, prelati, generoni anelavano a costruirsi la villa. Proprio lì. Cederna si scatena di nuovo. E lo seguono, nella sua ira, urbanisti insigni come Luigi Piccinato e Ludovico Quaroni, mentre gli architetti di regime soffrono di fronte a questa intromissione nei loro progetti per la Roma del futuro.

C'è sempre un futuro in nome del quale sembra urgente disonorarsi. In Campidoglio governano sindaci che si chiamano Rebecchini e poi Cioccetti, nomi passati in proverbio anche per merito dell’"Indignato Speciale". A questo punto Antonio Cederna non è più un archeologo e neppure più soltanto un giornalista. È, a seconda di chi lo giudica, uno spauracchio o una provvidenza. Diventa un centro di raccolta per le novità, spesso agghiaccianti, che si profilano in materia di speculazione edilizia a Roma. La battaglia per la difesa del centro storico è vinta, o quasi. Ma, appena fuori, la città si sviluppa secondo i desideri delle grandi proprietà, titolari di migliaia di ettari a ridosso delle strade consolari, Tiburtina, Prenestina, Tuscolana, Aurelia, Portuense. Una dilatazione incontrollata e irresponsabile. Immobiliare, Torlonia, Gerini, Scalera, Lancellotti sono i nomi segnati nel taccuino di Cederna, il reporter dello scempio. La vicenda reca impresso lo stemma del Vaticano.

"L’Urbe si sviluppa a macchia d’olio santo", scrive Mino Maccari sotto le sue vignette. I titoli-slogan di Cederna maturavano a grappolo. "La città Eternit" (sui nefasti della baraccopoli romana) l'inventò Flaiano, che del Mondo era allora caporedattore. "Mirabilia urbis" era un’immagine riesumata dallo stesso Cederna spulciando le antiche guide turistiche di Roma. E poi "Napoli città omicida", "La morte a Venezia", "Palermo decomposta", "La caduta di Milano", "Il turco a Bologna", "Cremona sventrata", "Urbino in pericolo", "Ravenna al macello". Il Mondo morì nel 1966. Per la cultura italiana fu una sconfitta, ma Cederna non aveva fallito. I suoi temi diventavano di dominio comune. Era nata Italia Nostra, uno strumento di vigilanza, denunzia, intervento in campo urbanistico. In materia di tutela ambientale, la periferia rispondeva agli appelli emanati dal centro. Cederna fungeva da terminale per un enorme flusso di segnalazioni, suggerimenti, memoriali, proposte provenienti da ogni angolo d’Italia. Dighe fasulle al servizio di un'agricoltura che non c' è più, autostrade inutili, scempi di edifici storici, musei inagibili, parchi nazionali che stentano a nascere. I giornali accolgono queste campagne.

Ma a Cederna non basta mai. Dopo un breve flirt con L' Espresso, ecco la sua firma sul Corriere della sera, in una fase in cui su quelle pagine influisce Giulia Maria Crespi, assai sensibile ai temi cederniani. Antonio lavora con tre direttori, Alfio Russo, Spadolini e Ottone. Poi, dal 1980, comincia a collaborare alla Repubblica. I suoi libri sono ormai dei classici: ai Vandali in casa e a Mirabilia urbis si affiancano La distruzione della natura, Mussolini urbanista, Brandelli d' Italia. I lettori non sono più soltanto una pattuglia nobile e unanime. Crescono di numero. E Cederna agita le sue campagne anche in sedi politiche. Eletto consigliere comunale e poi deputato come indipendente nelle liste del Pci, si scontra, nella sua materia, con antiche sordità. C'è da lavorare e da litigare. Anche a sinistra, lungo buona parte degli anni Ottanta, l'abusivismo edilizio viene protetto o tollerato perché lo si considera un'arma nella mani dei poveri. Il ricatto "occupazionale" domina.

Eppure, nella vicenda dell'Indignato Speciale non manca qualche trionfo della ragione. Il suo candore mette a segno punti insperati. Contribuisce a impedire (e siamo alla fine degli Ottanta) che nella piana occidentale di Firenze la Fiat e la Fondiaria piantino milioni di metri cubi di cemento: è la "Grande Firenze", che non si fa, anche per l' opposizione del Pci. Va in fumo il progetto Venezia Expo, così caro a Gianni De Michelis. Vanno a buon fine, almeno sulla carta, la legge su Roma capitale e quella sull' istituzione di parchi e riserve naturali. Uno degli ultimi progetti sul quale si sia accalorato il tenace Cederna riguarda i Fori imperiali. Si tratta di portare alla luce una delle illustri zone archeologiche del pianeta, da piazza Venezia ai piedi dei Castelli romani. L’urbanista raccoglie consensi importanti: quello, ad esempio, del sindaco di Roma, Luigi Petroselli. Ma gli ostacoli sono imponenti, il disegno rivoluzionario. Armato d’una vecchia macchina per scrivere, lui non demorde. Lo assiste la convinzione, o almeno la fiducia, di guadagnare ogni giorno qualcuno di più alla sua causa.

Gli articoli più recenti, usciti sulla Repubblica, parlano della nascita del Gran parco sul Litorale romano, in zona Maccarese; della creazione del Porto di Traiano, a Fiumicino; della sistemazione di piazza Augusto Imperatore, a Roma. L’elegia più sferzante, quando cadde la cupola della cattedrale di Noto, portava la sua antica firma. L’Indignato speciale non aveva cessato di esserlo. Adesso, pensando al Giubileo, ci domandiamo come faremo a sopportarlo senza ispirarci alle sue angosce e alle sue speranze.

Non è facile assorbire l’entusiasmo dei suoi estimatori, confrontarsi con i giudizi sbrigativi dei suoi detrattori, accettare che una persona con cui hai avuto un rapporto esclusivo sia trasformata in un monumento. Per fortuna, tra le cose che mi ha insegnato mio padre c’è innanzitutto il rispetto per i beni comuni.

Più difficile ancora è scriverne in forma privata. Con il passare degli anni, la tela che la fama comincia a tessergli intorno finisce per avvolgere i ricordi più intimi. Per scrivere questo articolo ho scelto di giocare in contropiede: ho tirato fuori dai cassetti decine di ritagli ingialliti e li ho sparpagliati sul tavolo. Elzeviri, interviste, testimonianze. “Scompare a 75 anni il difensore del Belpaese”. Mio padre avrebbe sorriso. “Il paladino dell’ambiente”. Si sarebbe schernito. “Addio a Cederna, tenero efurioso”. Si infervorava declamando l’Ariosto, Dante, Manzoni e Shakespeare. Per il resto era una persona pacata, non ricordo di avergli mai sentito alzare la voce. “Muore Cederna, il pioniere della coscienza ambientale”. E’ stato certamente uno dei primi a scrivere di beni artistici e naturali, poi di natura, quindi di ambiente, infine di ecologia e di limiti dello sviluppo. Ma allo stesso tempo è difficile immaginare un pioniere dai tratti più urbani di lui. “Intellectuel?” gli aveva domandato a bruciapelo un ufficiale svizzero, colpito dalla precisione con cui aveva portato a termine la corvée che gli era stata assegnata: pulire i cessi del campo di lavoro dove era recluso. Era il 1943, mio padre aveva appena varcato clandestinamente la frontiera per fuggire dalla guerra e dal fascismo.

“All’inizio incompreso. Ma rigoroso, pieno di coraggio, integerrimo”. Ricordo un’intervista a metà degli anni Settanta: “Cederna, lei è un ambientalista quindi le piace la campagna?”. “Preferisco la città”. “Conduce una vita sana?” “Fumo due pacchetti di sigarette al giorno”. “Fa passeggiate?” “Faccio la Settimana Enigmistica”. Allora si confondeva l’impegno per l’ambiente con la bucolica aspirazione di un ritorno alla natura…ma anche in seguito non è andata meglio. “E’ morto Cederna, l’uomo che voleva fermare il cemento”. Boom! A Don Chisciotte preferiva Sancho Pancia. Denunciava la “cementificazione” delle coste, le speculazioni dei palazzinari, le autostrade di Prandini, ma era favorevole alla riqualificazione delle periferie, alla costruzione di servizi, di quartieri più umani e perfino di strade che avessero un senso. (Ricordo una visita al cantiere della bretella autostradale di Roma, lo sguardo diffidente dei tecnici dell’Anas, l’articolo elogiativo pubblicato sull’Espresso). Per alcuni era “l’intellettuale che aveva il coraggio di dire di no”. (In famiglia ci aveva provato una volta: “o me o il gatto”, aveva intimato a mia sorella Camilla tanti anni fa, naturalmente erano rimasti entrambi). Altri lo accusavano di voler “imbalsamare le città”. (del tutto improbabile, era molto superstizioso, aveva il terrore delle mummie).

"Nel nome di Cederna a Roma si è consolidato un vincolismo selvaggio – hadichiarato qualche anno fa Caltagirone su Panorama - Per decenni chiunque voleva intervenire sul territorio era combattuto come uno speculatore. Risultato: le altre capitali si adeguavano ai tempi, a Roma si impedivano le trasformazioni del semicentro". La solita (vecchia) tesi dei palazzinari aveva il potere di fare ritrovare a mio padre l’allegria e perfino il suo accento meneghino (“Oh signùr, signùr”). La responsabilità dell’arretratezza di Roma non era da rintracciare nell'intreccio di politica e affari che aveva governato la capitale per decenni, ma nella penna dei suoi critici! (“Il mondo alla rovescia”, avrebbe detto sorridendo). Non poteva immaginare che la stessa tesi sarebbe finita sui libri di storia. “Vittorio Vidotto mette sotto accusa anche Cederna e Insolera”. “La loro visione di Roma si è tradotta in una sostanziale incomprensione storica della città, incapace di cogliere e di volgere in positivo la complessità dei fattori della trasformazione urbana... Ispirata a un dirigismo illuministico, raramente una battaglia politico-culturale fu così avara di successi”. Non ho i titoli per entrare nel merito di questa polemica. Chi è curioso di sapere che cosa fosse e dove avrebbe portato “la complessità dei fattori di trasformazione urbana” a quei tempi, può leggersi I Vandali in Casa, appena ristampato da Laterza. Il riferimento all’illuminismo, invece, mi spinge a pensare che mio padre avrebbe citato Candide, il suo libro preferito, e in particolare le gesta del saggio Pangloss, che scambiava cause ed effetti, credeva di vivere nel migliore dei mondi possibili e, a chi gli faceva notare che gli uomini si sterminano a colpi di baionetta, rispondeva: “Anche questo è indispensabile. I guai privati compongono il bene generale; così che più ci sono guai particolari e meglio vanno le cose”.

Ricordo il coraggio scostante di Antonio Cederna, circondato spesso dall’irrisione, e, ora che è scomparso, elogiato con debita ipocrisia da quelli che lo dileggiavano”, scriveva Giuseppe Pontiggia nel 1997. Mio padre non si sarebbe scomposto, sapeva che sarebbe stato osannato soltanto da morto. Se fosse vivo starebbe scrivendo sempre lo stesso articolo sulle responsabilità della sinistra, “la casa politica dell’ambientalismo italiano – come ha scritto Michele Serra - a cominciare dal padre di tutte le battaglie Antonio Cederna… E’ normale che oggi le attese siano più pressanti che in passato. Perché non si può parlare, per anni, di sviluppo distorto e poi non sentirsi, una volta al governo, costretti a trarne delle conseguenze”.

Antonio Cederna era figlio della borghesia milanese, una borghesia ora assai difficile da immaginare: laico, antifascista, sobrio e ironico, rigoroso, con una forte passione civile. Impegnato dal dopoguerra nello sforzo per la ricostruzione dell’etica pubblica del nostro Paese. A partire dalla tutela del territorio, dei centri storici, dei beni culturali e ambientali, assunti quali beni comuni e valori in sé. E’ stato un archeologo che per dedicarsi alle battaglie di tutela ambientale e del paesaggio, per amore delle nostre bellezze divenne innanzitutto giornalista (il Mondo di Pannunzio dal 1950 al 1966, il Corriere della Sera della Mozzoni Crespi e di Ottone dal ’67 al 1981 e poi a Repubblica) ma anche urbanista, critico d’arte, saggista. E poi amministratore locale, parlamentare di rango, tra i fondatori dell’ambientalismo italiano ma anche concreto e attivo presidente del parco dell’Appia.

E’ davvero impressionante la mole di attività svolte da Antonio Cederna con libri, saggi, interventi, proposte di legge, articoli sui giornali; e sempre sul valore della conoscenza, dei beni storici e culturali, dell’ambiente, delle nostre radici nelle articolate e complesse identità territoriali.

Nei suoi articoli era capace di dissacrare i luoghi comuni del nostro Paese, ricco di tecnici e tecnicismi ma debole di cultura. Così scriveva oltre trent’anni fa, nel 1975: “In questa cultura dimezzata spiccano quelli che per mestiere operano direttamente sul territorio, la legione di architetti, ingegneri e geometri al soldo dei costruttori e della immobiliari. Vittime di un’educazione sbagliata e di una scuola retrograda, costoro credono ancora che scopo del costruire sia l’affermazione della loro “personalità”, che architettura moderna sia produzione di capolavori da pubblicare sulle riviste, che foreste e litorali ci guadagnino ad essere lottizzati, che le “qualità formali” riscattino l’errore sociale, economico ed urbanistico del loro intervento.” Considerazioni di un’attualità addirittura sorprendente, che Eddy Salzano mantiene scolpite sul bellissimo sito internet eddyburg.it, e che così commenta: “Parole oggi più vere che mai. Le città non competono scommettendo sulla migliore qualità della vita (migliori servizi, più verde, comunicazione tra gli abitanti, bellezza d’insieme, solidarietà) ma sulla più fantasiosa Grande Opera.”

Cederna intuì prima di altri che il grande problema del Paese era ed è l’aggressione al territorio, il bene comune che dà un senso effettivo alle comunità. Con lui intere generazioni di romani hanno imparato a sentir proprie le bellezze del territorio in cui vivevano. Un milanese pungente che divenne un profondo conoscitore e tutore intransigente delle bellezze ambientali, storico-culturali e paesaggistiche dell’area romana. Basti solo ricordare l’impegno profuso per l’Appia Antica e per il Progetto Fori, per unificare, liberare e far riemergere da sotto il cemento il più grande patrimonio archeologico del mondo e restituirlo a Roma. E in questo impegno trovò sponda attenta e appassionata in un “grigio funzionario di partito”, Luigi Petroselli, il sindaco più amato che la sinistra abbia avuto a Roma.

Con Cederna emerge un’etica fondata sulle regole e sul governo pubblico e democratico dei processi territoriali, in grado di coniugare istanze sociali e attenzione prioritaria ai beni ambientali e culturali. In particolare a Roma, dove pure non si sottrasse mai a misurarsi con le esigenze di una città che assommava alle esigenze di metropoli in crescita le funzioni di capitale nazionale e internazionale. Per questo avanzò la proposta di legge per Roma capitale (1989), con soluzioni coraggiose di riassetto metropolitano per una città moderna da edificare nella periferia orientale (il sistema direzionale orientale, lo Sdo) dove trasferire terziario, uffici e ministeri, per liberare un centro storico divenuto invivibile. E, come racconta Vezio De Lucia su Carta del 30 gennaio 2006, doveva trattarsi di un’operazione a “saldo zero”: gli immensi spazi lasciati liberi dagli uffici del centro non dovevano essere sostituiti con altri carichi urbanistici, ma divenire vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e zone pedonali, con la piena valorizzazione delle aree archeologiche poste nella Roma storica. L’archeologia, la memoria, l’identità stratificata diveniva il punto di partenza per un diverso assetto della città, per una nuova socialità. La modernità di Cederna è proprio nella sua idea di città imperniata sul bene comune della convivenza nella bellezza condivisa, sul benessere, assolutamente lontana da chi continua a delegare al mercato, al Pil, ad immobiliaristi e costruttori la definizione dei destini delle nostre comunità.

Tra i maggiori fenomeni che si vanno affermando, possiamo indicare i seguenti. L'enorme aumento della motorizzazione privata che, mentre crea una mobilità sconosciuta in passato, fa sorgere complessi problemi nelle aree urbane, dall'intasamento del traffico all'inquinamento, ed esige programmi ad ampio respiro. La creazione di grandi infrastrutture (superstrade, autostrade, eccetera), mentre accorcia le distanze, rende raggiungibile e quindi anche tendenzialmente edificabile ogni angolo del paese, creando nuovi problemi economici, sociali, urbanistici. Le migrazioni interne portano all'abbandono delle campagne e aggravano la situazione delle città che, in mancanza di adeguati controlli urbanistici, si dilatano confusamente ad abbracciare grandi "aree metropolitane", congestionate e insufficientemente dotate di servizi.

La ripresa economica porta alla realizzazione di impianti industriali, la cui localizzazione deve essere accuratamente programmata per evitare i peggiori effetti negativi, dall'inquinamento dell'aria e dell'acqua alla distruzione delle risorse naturali. La riduzione degli orari di lavoro, l'aumentato benessere, la disponibilità del mezzo privato consentono a masse sempre più numerose l'impiego del tempo libero, portando allo sfruttamento turistico delle zone più interessanti dal lato paesistico e naturale: le coste dei mari e dei laghi, colline, foreste e montagne vengono investite dall'edilizia; col pericolo che venga distrutta proprio la materia prima del turismo, cioè l'integrità del paesaggio, il prestigio della natura, il verde, la purezza dell'aria e dell'acqua.

Sono alcuni aspetti, coi loro vantaggi e i loro rischi, della seconda rivoluzione industriale. Termina il ciclo della città tradizionale, statica e chiusa: e l'occasione per il sorgere della città contemporanea, dinamica e aperta sulla natura circostante, il cui elemento essenziale è la mobilità. Vengono meno alcuni dei vincoli che hanno condizionato la città della prima rivoluzione industriale (con conseguente concentrazione delle industrie presso le fonti di energia, sviluppo indifferenziato lungo le principali arterie destinate al trasporto dei prodotti, loro saldatura in interminabili suburbi, crescita abnorme, eccetera): ha inizio una fase nuova e diversa, caratterizzata dalla libertà geografica degli insediamenti, dalla dispersione territoriale delle fonti di energia e della rete dei trasporti, da una più facile e rapida distribuzione dei prodotti, dall'attenuazione dei contrasti tra città e campagna, grazie alla disponibilità sempre più ramificata dell'energia e alla diffusione della motorizzazione e delle telecomunicazioni.

All'età precedente, di concentrazione e congestione, subentra l'età che può essere del decentramento e della decongestione: l'urbanistica cambia di scala, acquista la sua dimensione moderna, estesa a tutto il territorio. Essa si presenta necessariamente come il risultato di una programmazione economica che coordini tutti gli interventi, per garantire un massimo di benefici e un minimo di errori e di costi sociali. Due soprattutto sono i pericoli opposti da evitare: l'elefantiasi, il crescere incontrollato e continuo dei maggiori agglomerati urbani e, dall'altro lato, soprattutto nelle zone turistiche, l'indiscriminata disseminazione edilizia, che porta alla privatizzazione del suolo; alla costosa moltiplicazione di strade e servizi, col pericolo di ricoprire l'Italia di una coltre uniforme di cemento e di asfalto, cancellandone la fisionomia. Si tratta dunque, nel quadro di una pianificazione generale, di garantire l'equilibrata utilizzazione, cioè il miglior uso possibile di quella risorsa preziosa, limitata e non recuperabile che è il territorio, identificando quella che vien detta la "vocazione" delle sue varie zone, al fine di evitare il disordine, la degradazione, il caos: evitare ad esempio, come poi è abbondantemente capitato, di costruire impianti industriali sopra aree archeologiche, di inquinare irrimediabilmente spiagge e mare costruendo raffinerie sulle coste, di lottizzare pinete e persino parchi nazionali (e tutte quelle altre aree che devono invece servire alla ricreazione e alla cultura, in un ambiente naturale intatto), di "bonificare" ovvero trasformare insensatamente in campi di grano le superstiti paludi, essenziali valvole di sfogo per i corsi d'acqua, garanzia contro alluvioni ed altri disastri di cui il nostro paese è vittima a intervalli regolari.

Per raggiungere l'obbiettivo e ridurre al minimo gli errori occorreva dunque anche in Italia considerate e praticare più urbanistica come espressione di scelte civili e progredite. Scelte politiche, intese a riformare il nostro arcaico ordinamento, giuridico e combattere la rendita fondiaria; scelte economiche, e sociali, intese ad assicurare operazioni vantaggiose alla comunità e ad esaltare la qualità degli insediamenti; scelte culturali, perchè venissero risparmiati e riqualificati i valori della storia, del paesaggio, della natura. Ma è proprio questo che non si è voluto fare.

Riportiamo di seguito la relazione illustrativa. In calce il link al testo in formato .pdf, assieme all’articolato e alle note di accompagnamento

La legge regionale 30/2005, che porta norme in materia di Piano Territoriale Regionale, ha recentemente stabilito che la Regione abbandoni molte delle attribuzioni storiche per dare corso ad una nuova politica urbanistica caratterizzata da una forte devoluzione di competenze in direzione dell’ente locale più vicino al cittadino, il Comune, ma allo stesso tempo dichiara che la devoluzione non è il punto di arrivo o l’obiettivo, ma il mezzo per corrispondere meglio alle esigenze dei cittadini e delle imprese.

L’urbanistica del Friuli Venezia Giulia è stata tradizionalmente caratterizzata da un ruolo molto forte della Regione che si è manifestato con molti aspetti positivi e taluno anche negativo. Nel corso del tempo quel ruolo è purtroppo scivolato sempre di più verso un profilo caratterizzato da una invadenza negli aspetti procedimentali più minuti e da una riduzione dell’autorevolezza nel programmare e governare le grandi questioni strategiche di scala regionale. La recente legge regionale 30/2005 statuisce il ribaltamento di tale situazione, assegnando la gestione del territorio al Comune e ridisegna la mission della Regione alle sole azioni di interesse regionale e a queste conferisce una forte cogenza. Sono azioni di governo che trovano riferimento nelle risorse essenziali, anch’esse definite in legge, qualora superino una determinata soglia. La legge regionale stabilisce che il territorio sia governato secondo i principi di pari dignità ed adeguatezza e non più secondo il principio gerarchico, in cui i contenuti del piano sovra ordinato si ripercuotono su quello sotto ordinato, con effetto “a cascata”. La nuova legge impone che la Regione presidi in modo molto efficace i cardini portanti della pianificazione comunale intervenendo sulla struttura del piano, sulle scelte essenziali, divenute patrimonio dell’intera collettività regionale e come tali non più assoggettabili a rivalutazioni sul “se”. La struttura del Piano urbanistico comunale (Piano strutturale comunale – PSC) deve pertanto proporre senza riserve le scelte dello strumento regionale di pianificazione. Tutto il resto rimane nelle determinazioni autonome del Comune, che potrà decidere come organizzare e regolare il proprio territorio, sempre garantendo che gli strumenti attuativi non stravolgano, ma si armonizzino, con il Piano Territoriale Regionale.

La legge regionale 13 dicembre 2005, n 30, oltre a regolamentare le procedure di formazione, adozione ed approvazione del PTR, delinea in modo netto ed innovativo il quadro istituzionale dei soggetti partecipi della pianificazione territoriale. Ne esce il seguente quadro: la legge ripartisce le attribuzioni della pianificazione territoriale tra la Regione e i Comuni e stabilisce che la funzione della pianificazione intermedia è svolta dai Comuni.

In questo quadro è forte la scelta del legislatore regionale, peraltro meditata, di affidare la pianificazione di livello intermedio, di area vasta, al Comune e non più alla Provincia, come previsto dalla vigente legge urbanistica regionale. Le ragioni di tale scelta sono molteplici e sono state ampiamente esposte nel dibattito, talora anche aspro, che su questa tematica si è svolto in Consiglio regionale.

In quale modo la legge regionale ha ripartito le competenze, con quali criteri? La legge regionale è precisa nella sua sinteticità.

La funzione della pianificazione territoriale è del Comune che la esercita nel rispetto dei principi di adeguatezza, interesse regionale e sussidiarietà, nonché nel rispetto delle attribuzioni riservate in via esclusiva alla Regione in materia di risorse essenziali di interesse regionale e in coerenza con le indicazioni del PTR.

Il Comune, in forza del principio di sussidiarietà e di adeguatezza, esercita anche con enti pubblici diversi dal Comune, la funzione della pianificazione territoriale a livello sovraccomunale quando gli obiettivi della medesima, in relazione alla portata o agli effetti dell’azione prevista, non possano essere adeguatamente raggiunti a livello comunale.

La legge regionale stabilisce i casi nei quali il Comune svolge la funzione della pianificazione territoriale a livello sovraccomunale e le forme di cooperazione istituzionale con cui la esercita, quali le associazioni intercomunali previste dall’ordinamento in materia di Autonomie locali.

La funzione della pianificazione della tutela e dell’impiego delle risorse essenziali di interesse regionale è della Regione.

I criteri per individuare le soglie oltre le quali la Regione svolge le proprie funzioni per mezzo del PTR sono stabiliti con norma di rango legislativo.

Con norma di pari livello sono stabilite, altresì, le procedure attraverso le quali la Regione assicura che la tutela e l’impiego delle risorse essenziali siano garantiti dagli strumenti urbanistici di livello subordinato.

Dunque la Regione abbandona una rilevante quantità di funzioni e prerogative, venendo limitata per legge la propria competenza alla pianificazione della tutela e l’impiego delle risorse essenziali di interesse regionale. Vengono in questo modo introdotti i criteri cardine, i pilastri, su cui poggia la nuova disciplina. La competenza regionale può esercitarsi esclusivamente al superamento di una data soglia con riferimento alle risorse essenziali di interesse regionale. I criteri di individuazione delle soglie sono coperti da riserva di legge. La traduzione in atto regolativo dell’interesse regionale avviene per mezzo delle previsioni del PTR.

Il ddlr prevede, in armonia con la tecnica legislativa più evoluta, disposizioni di regolamentazione generale della materia e di principio, mentre la disciplina di dettaglio ed attuativa viene affidata al regolamento di attuazione delle legge, da emanarsi entro termini ristretti (massimo 120 giorni), in modo da assicurare la sostanziale contemporaneità dell’entrata in vigore. Con l’entrata in vigore della nuova disciplina urbanistica saranno abrogate le previgenti leggi regionali di settore, in primis la L.R. 52/1991 e la L.R. 30/2005.

Il ddlr si articola in Parti, Titoli e Capi. Le Parti sono cinque e trattano l’urbanistica (I), l’attività edilizia (II), il paesaggio (III), l’attività regolamentare (IV) e le norme transitorie e finali (V).

La Parte I Titolo I si occupa delle disposizioni generali; precisa le finalità della legge, contiene definizioni utili alla comprensione delle norme, precisa le attribuzioni dei Comuni e della Regione, prevede che la Regione, nello svolgimento delle funzioni attribuite dalla legge, promuove il raggiungimento delle intese obbligatorie con gli organi statali competenti, quanto agli eventuali mutamenti di destinazione dei beni immobili, appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato, e contiene l’autorizzazione a stipulare, in attuazione a quanto previsto dal decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 e s.m.i. (Codice dei beni culturali e del paesaggio), con i Ministeri competenti l’intesa per la valenza paesaggistica del PTR.

La Parte I Titolo II contiene la disciplina della pianificazione territoriale.

Il Capo I delinea quella regionale, precisando le finalità strategiche del PTR ( già definite dalla L.R. 30/2005), gli elementi costitutivi, la procedura di formazione, i contenuti prescrittivi e l’efficacia. In particolare si stabilisce che le risorse essenziali di interesse regionale, i livelli di qualità, le prestazioni minime e le regole d’uso individuati nel PTR, costituiscono elementi strutturali della pianificazione territoriale regionale e sono recepiti negli strumenti urbanistici comunali. Sono altresì definiti i criteri per l’individuazione delle soglie, oltre le quali si configurano le risorse essenziali di interesse regionale, che si informano ai criteri funzionale, fisico-dimensionale, prestazionale, regolativo e, per il paesaggio e gli edifici, monumenti e siti di interesse storico e culturale, vocazionale.

Quanto all’efficacia, il Comune è tenuto ad adeguare i propri strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica comunale dalla data di entrata in vigore del PTR e delle sue varianti. L’adeguamento è assolto con l’adozione del PSC entro il termine di due anni, ovvero di tre anni nell’ipotesi in cui Comuni contermini vi provvedano in forma associata. Il decorso infruttuoso di detto termine provoca la sospensione di ogni determinazione comunale sulle domande di rilascio dei titoli abilitativi edilizi, che siano in contrasto con le previsioni del PTR.

Il Capo II tratta dei Piani di settore approvati dalla Regione in applicazione di leggi statali e regionali, imponendo l’obbligo di conformarsi alle prescrizioni del PTR, attraverso una relazione di coerenza con il PTR medesimo. I Piani di settore possono peraltro costituire variante al PTR qualora formati nel rispetto delle finalità, dei contenuti e delle procedure di formazione del PTR medesimo. In questa parte vi è la disciplina dei piani territoriali infraregionali, intesi quali strumenti di pianificazione di enti pubblici, ai quali è attribuita per legge una speciale funzione di pianificazione territoriale per il perseguimento dei propri fini istituzionali. Il piano territoriale infraregionale si conforma alle prescrizioni del PTR e contiene una relazione di coerenza alle previsioni del PTR. I Piani territoriali infraregionali si armonizzano con gli strumenti urbanistici comunali secondo le procedure indicate nel regolamento di attuazione della legge e sono approvati dal Presidente della Regione.

Il Capo III tratta degli strumenti e contenuti della pianificazione comunale, definisce le finalità strategiche del PSC, rapportandole a quelle del PTR, ne stabilisce la durata illimitata e i contenuti (costituisce il quadro conoscitivo idoneo a individuare, conservare e valorizzare le risorse essenziali, recepisce le prescrizioni di PTR, fissa gli indicatori di monitoraggio per la Valutazione Ambientale Strategica (VAS), stabilisce i criteri per l’utilizzazione delle risorse essenziali di livello comunale, individua gli ambiti territoriali urbanizzati e non urbanizzati e la rete delle infrastrutture, definisce le metodologie e gli ambiti di perequazione urbanistica, compensazione urbanistica e compensazione territoriale), individua la Procedura di formazione del PSC, stabilendo in particolare il suo assoggettamento alle metodologie di Agenda 21 e alla procedura di VAS.

Nell’ambito della procedura di formazione del PSC rivestono particolare importanza i nuovi istituti della Conferenza di pianificazione e dell’Intesa di pianificazione.

La Conferenza esprime valutazioni preliminari di natura istruttoria sul DPP, verifica la completezza e l’aggiornamento del quadro conoscitivo del territorio, raccoglie e integra le valutazioni dei soggetti partecipanti e ne condivide i risultati nel provvedimento finale. Alla conferenza di pianificazione partecipano di diritto la Regione, la Provincia territorialmente competente, i soggetti pubblici che svolgono funzioni pianificatorie, le Amministrazioni statali competenti, nonché i Comuni contermini partecipano Il Comune ha facoltà di convocare altri soggetti pubblici. Nella Conferenza di pianificazione sono prioritariamente promosse le intese necessarie a definire le previsioni urbanistiche di beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato o della Regione, nonché di quelli ricadenti in ambito territoriale di competenza di soggetti di diritto pubblico ai quali leggi statali o regionali attribuiscono specifiche funzioni di pianificazione.

L’Intesa di pianificazione tra Regione e Comune recepisce nel PSC le prescrizioni di PTR e considera i progetti dichiarati di interesse regionale ai sensi dell’art. 10 L.R. 13 dicembre 2005, n. 30 e s.m.i. Il Comune può proporre che nell’Intesa siano previsti interventi di trasformazione del territorio e scelte urbanistiche relative a risorse essenziali di livello comunale. Il Consiglio comunale adotta il PSC nel rispetto dell’Intesa con la Regione; qualora il PSC approvato non rispetti i contenuti dell’Intesa, la Regione restituisce gli atti al Comune per il necessario adeguamento e il PSC non trova applicazione.

La legge disciplina in questo Capo anche l’istituto della Salvaguardia e dispone che il Comune, a decorrere dalla data della delibera di adozione del PSC o delle varianti al piano in vigore e sino alla data di entrata in vigore del Piano medesimo, sospende per un termine massimo di due anni per il PSC comunale e per un termine massimo di 3 anni per il PSC sovracomunale ogni determinazione sulle domande di rilascio di titoli abilitativi edilizi che siano in contrasto con le previsioni del PSC adottato. Si fanno salvi peraltro interventi edilizi di manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché per gli interventi di pubblica utilità ed interesse pubblico.

In questo Capo trova collocazione la disciplina del POC, predisposto dal Comune in conformità delle previsioni del PSC, e se ne stabilisce l’efficacia conformativa della proprietà e la durata indeterminata.. La legge ne definisce i contenuti (il POC ripartisce il territorio comunale in zone omogenee con relative destinazioni d’uso ed indici edilizi, stabilisce norme tecniche di attuazione degli interventi di trasformazione e di conservazione, stabilisce gli standard, individua e disciplina le aree destinate alla realizzazione del sistema delle infrastrutture e dei servizi pubblici e di interesse pubblico, nonché le attrezzature di interesse collettivo e sociale, individua gli ambiti da assoggettare obbligatoriamente a pianificazione di settore ed attuativa, stabilendone le regole e le modalità d’intervento, disciplina gli interventi di trasformazione da attuare in forma unitaria con la tecnica della perequazione urbanistica, della compensazione urbanistica e della compensazione territoriale ed individua le aree destinate al trasferimento dei crediti edilizi, nonché i relativi limiti di incremento edificatorio). La nuova disciplina tende a favorire gli interventi tra Comuni aggregati, mentre mira ad ostacolare interventi singoli, dissipatori del territorio. In questo senso si stabilisce che nuove zone industriali, artigianali, commerciali, turistiche e residenziali di espansione ovvero l’ampliamento di quelle esistenti non sono ammessi, se non in sede di pianificazione sovracomunale, salvo diversa prescrizione di PTR. Il POC non necessita di alcuna approvazione regionale, in quanto non incide sull’intesa di pianificazione conseguita sul PSC. In coerenza con le determinazioni della Costituzione e della Suprema Corte viene precisato che le previsioni del POC che assoggettano singoli beni a vincoli preordinati all’esproprio decadono qualora non siano state attuate o non sia iniziata la procedura per l’espropriazione degli immobili entro cinque anni dall’entrata in vigore del POC medesimo. La decadenza non opera ovviamente qualora i vincoli abbiano validità permanente in quanto imposti da disposizioni di legge. Il Comune in sede di reiterazione dei vincoli di cui al comma 1, provvede all’equo ristoro a favore dei proprietari degli immobili interessati, mediante previsione di indennizzo o con tecniche di perequazione e compensazione urbanistica. Nelle more della reiterazione dei vincoli di cui al comma 1, sono ammesse varianti che non assoggettino a vincolo preordinato all’esproprio aree destinate a servizi. Sono comunque ammesse varianti per la realizzazione di lavori pubblici e quelle conseguenti a una conferenza di servizi, un accordo di programma, una intesa ovvero un altro atto, anche di natura territoriale, che in base alla legislazione vigente comporti la variante al piano urbanistico.

In questo Capo infine vengono disciplinati i PAC. I PAC sono adottati ed approvati dalla Giunta comunale in seduta pubblica. Il Comune, su richiesta del proponente un PAC di iniziativa privata, può attribuire all’atto deliberativo valore di titolo abilitativo per tutti o parte degli interventi previsti a condizione che siano stati ottenuti i pareri, le autorizzazioni ed i nulla osta cui è subordinato il rilascio del titolo abilitativo medesimo. I rapporti derivanti dall’attuazione degli interventi previsti dal PAC sono regolati da convenzione tra Comune e proponente.

Il Capo IV porta la disciplina della cosiddetta area vasta e definisce in modo originario soggetti e contenuti di Pianificazione sovracomunale. Si stabilisce che la funzione della pianificazione sovracomunale è svolta direttamente dai Comuni capoluogo e dalle Città metropolitane. I Comuni possono delegare o affidare il coordinamento dell’attività di predisposizione degli strumenti urbanistici a:

a) Province;

b) Comuni e Unioni di Comuni, organizzati in ASTER;

c) Comuni capoluogo;

d) Comunità montane;

e) Città metropolitane;

f) Consorzi tra Enti locali ed Enti pubblici.

I Comuni posso delegare la funzione della pianificazione ai soggetti di cui alle lettere da a) ad e) e loro consorzi. La delega o l’affidamento possono essere esercitate previa stipula di apposita convenzione che disciplini oggetto, durata e modalità delle attività.

Il ddlr disciplina ancora la possibilità per i Comuni di trasferire la propria funzione pianificatoria ad altro soggetto pubblico, dotato di personalità giuridica e che sia costituito da Enti locali. Si stabilisce infatti che Comuni contermini possono altresì istituire l’Unione Speciale di Pianificazione (USP) per l’esercizio della funzione della pianificazione sovracomunale, per il periodo necessario all’elaborazione, adozione ed approvazione dello strumento di pianificazione. La costituzione e il funzionamento dell’USP sono disciplinati dall’art. 23, commi 3 e ss., della L.R. 1/2006 e s.m.i.

La funzione della pianificazione sovracomunale si esercita mediante gli strumenti urbanistici e le procedure di cui al Capo III, nel rispetto delle prescrizioni di PTR.

Per quanto attiene ai contenuti si precisa l’ambito di competenza (la pianificazione sovracomunale consente la previsione di nuove zone residenziali di espansione, industriali, artigianali, commerciali, turistiche ovvero l’ampliamento di quelle esistenti, la previsione di infrastrutture ed attrezzature collettive di scala sovracomunale).

Per contro i Comuni che non svolgono la funzione della pianificazione sovracomunale possono approvare strumenti urbanistici o loro varianti esclusivamente per adeguare le attività già insediate nelle zone industriali, artigianali, commerciali turistiche e residenziali esistenti ad obblighi derivanti da normative regionali, statali e comunitarie.

Il Capo V tratta infine della perequazione urbanistica e della compensazione urbanistica e territoriale, quali tecniche facoltative di pianificazione.

Si dispone che il Comune può utilizzare la tecnica della perequazione urbanistica in sede di pianificazione operativa ed attuativa relativamente ad immobili destinati a trasformazione urbanistica. La disciplina della perequazione urbanistica per gli interventi di trasformazione da attuare in forma unitaria è stabilita nel POC e nei PAC, in modo tale da assicurare la ripartizione dei diritti edificatori e dei relativi oneri tra tutti i proprietari degli immobili interessati, indipendentemente dalle destinazioni specifiche assegnate alle singole aree.

Il Comune può concordare con i proprietiari delle aree da destinare a servizi la cessione a proprio favore delle medesime, a fronte di una compensazione, attuata mediante il trasferimento dei diritti edificatori in altre aree del territorio comunale, a ciò preventivamente destinate.

La compensazione può aver luogo mediante convenzione fra il Comune e i proprietari delle aree interessate dagli interventi, che stabilisca le modalità di calcolo dei crediti edificatori, la localizzazione delle aree sulle quali trasferire i diritti edificatori, il tempo massimo di utilizzazione dei crediti edificatori, la corresponsione di un importo pari all’indennità di esproprio per il caso di impossibilità di utilizzazione del credito edificatorio nel periodo convenuto.

I Comuni contermini che provvedono alla pianificazione in forma associata possono utilizzare la tecnica della compensazione territoriale per realizzare lo scambio di diritti edificatori, contro equivalenti valori di natura urbanistica o economica.

La Parte I titolo III disciplina l’informatizzazione e il monitoraggio degli strumenti urbanistici. Stabilisce chela Regione e il Comune formano i propri strumenti di pianificazione territoriale e le loro varianti con metodologie informatiche standardizzate. Gli strumenti di pianificazione territoriale adottati ed approvati, formati con le metodologie informatiche sono inseriti nel Sistema territoriale regionale (SITER). L’inserimento nel SITER dei piani costituisce certificazione di conformità all’originale. Il ddlr stabilisce inoltre che le modalità tecniche da assumere nella redazione degli strumenti di pianificazione e negli atti di convalida saranno definite con regolamento, secondo modelli standardizzati.

E’ prevista a cura della Regione l’organizzazione di una banca dati informatica, nella quale sono raccolti, elaborati ed interpretati i dati numerici e di documentazione cartografica, riguardanti le dinamiche del territorio, ed é fatto obbligo agli Uffici regionali, alle Province, ai Comuni e agli altri enti pubblici di inviare periodicamente alla struttura regionale competente le informazioni territoriali a disposizione per l’implementazione della banca dati informatica. La medesima struttura fornisce i supporti tecnici, informatici e cartografici per la formazione e gestione degli strumenti di pianificazione territoriale nonché i supporti tecnici e cartografici di base per la predisposizione di cartografie tematiche da curare in collaborazione con le altre Direzioni dell’ Amministrazione regionale.

Viene infine prevista un’importante attività di monitoraggio sugli strumenti urbanistici comunali.

La Parte II del ddlr reca norme per la disciplina dell’attività edilizia.

Il principio su cui si fonda la norma è quello del recepimento della normativa statale e della regolamentazione mediante regolamento della parte di dettaglio.

Il recepimento delle disposizioni contenute nel Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), e successive modifiche ed integrazioni viene operatto con riferimento a:

- sportello unico per l’edilizia;

- definizione degli interventi edilizi;

- destinazione d’uso degli immobili;

- regime edificatorio e titoli abilitativi edilizi;

- contributo del costo di costruzione;

- attività edilizia delle pubbliche amministrazioni e su aree demaniali;

- attività edilizia libera;

- controllo e vigilanza sull’attività edilizia e relative sanzioni.

Viene ribadita l’obbligatorietà per i Comuni di dotarsi del Regolamento edilizio per la disciplina delle attività di costruzione e di trasformazione fisica e funzionale delle opere edilizie, mentre si dà la facoltà ai Comuni di istituire la Commissione edilizia, quale organo tecnico-consultivo del Comune in materia urbanistica ed edilizia.

Di particolare importanza ai fini della semplificazione del procedimento la previsione dello Sportello unico per l’edilizia, da costituire anche in forma associata. I Comuni, attraverso lo Sportello unico per l’edilizia, forniscono altresì una adeguata e continua informazione ai cittadini sui contenuti degli strumenti urbanistici ed edilizi.

Tra i contenuti del ddlr va rilevata la declaratoria delle Categorie delle destinazioni d’uso e la previsione del Certificato urbanistico e valutazione preventiva che consente al proprietario dell’immobile o chi abbia interesse di chiedere al competente ufficio comunale il certificato contenente l’indicazione della disciplina urbanistica ed edilizia prevista nella strumentazione urbanistico-territoriale, vigente o adottata.

Il regolamento edilizio può prevedere che il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo richieda una valutazione preliminare sull’ammissibilità dell’intervento.

Il certificato urbanistico e la valutazione preventiva conservano validità per un anno dalla data del rilascio a meno che non intervengano modificazioni degli strumenti urbanistici vigenti. In tal caso, il Comune notifica agli interessati l’adozione di varianti agli strumenti urbanistici generali e di attuazione.

Sono state infine adeguate le disposizioni vigenti in tema di Autorizzazione edilizia in precario.

La Parte III disciplina il paesaggio operando il sostanziale recepimento della disciplina introdotta dal decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 e s.m.i. (Codice dei beni culturali e del paesaggio).Il Capo I tratta le disposizioni generali e sancisce che la legge costituisce attuazione della normativa statale per la valorizzazione del paesaggio e si conforma agli obblighi e ai principi derivanti dalla legge dello Stato.

Vengono definiti beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all’art. 134 del D. Lgs. 42/04 e s.m.i.

Il Capo II si sofferma sulla pianificazione paesaggistica e nello specifico sulla valenza paesaggistica del PTR. La disciplina si sostanzia nella seguente sintesi:

- la valenza paesaggistica è attribuita al PTR, ai sensi e per gli effetti dell’art. 143 del D. Lgs 42/04, qualora il medesimo sia predisposto nel rispetto di procedure, tempi e metodologie indicate dall’Intesa interistituzionale tra Stato e Regione;

- il PTR qualifica i tipi di paesaggio e individua le Unità di Paesaggio che si presentano omogenee in base alle caratteristiche naturali e storiche ed in relazione alla tipologia, rilevanza e integrità dei valori paesaggistici;

- il PTR definisce per ciascuna Unità di Paesaggio la specifica destinazione d’uso mediante prescrizioni da recepirsi direttamente negli strumenti urbanistici comunali, nonché criteri e metodologie per la definizione in ambito comunale degli aspetti paesaggistici di dettaglio;

- la Regione ai fini di cui all’art. 135, comma 3, D.Lgs. 42/04 e s.m.i garantisce con l’Intesa di pianificazione che il PSC e il POC dei Comuni interessati dall’Unità di paesaggio abbiano i contenuti previsti dal PTR.

Il Capo III disciplina le attività di controllo e gestione dei beni soggetti a tutela, prevedendo coerentemente con le disposizioni nazionali l’obbligatorietà della preventiva autorizzazione per i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree tutelati con il PTR ai sensi dell’articolo 143 del D. Lgs 42/04 l’obbligo di sottoporre i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, affinché ne sia accertata la compatibilità paesaggistica e sia rilasciata l’autorizzazione a realizzarli. Si stabilisce in via generale la delega regionale al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche ai soggetti pubblici, che esercitano la funzione pianificatoria in forma associata, nonché ai Comuni, che abbiano provveduto all’adeguamento dei propri strumenti urbanistici al PTR. In caso di delega ai Comuni, il parere della Soprintendenza di cui al comma 8 dell’ articolo 146 del D. Lgs 42/04 resta vincolante.

Si dà risposta ai principi generali stabiliti a livello nazionale con l’istituzione delle commissioni locali per il paesaggio, di cui la Regione si fa promotrice per assicurare supporto ai soggetti delegati al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche. Le Commissioni sono costituite per ambiti sovracomunali e sono composte da soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio.

Il Capo IV regolamenta la prima applicazione e porta le opportune norme transitorie. Stabilisce l’Autorità competente al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in via transitoria, fino alla operatività in ambito comunale del piano paesaggistico, con una regolamentazione che riconferma l’ attuale delega ai Comuni, parzialmente ampliata.

La Parte IV disciplina la potestà regolamentare della Regione sia in materia urbanistica, che per l’attività edilizia e per il paesaggio.

Il ddlr fissa i principi generali in base ai quali opererà il regolamento, stabilisce criteri, tempi e materie. Nello specifico dovrà definire in dettaglio le seguenti materie:

a) soglie di interesse regionale;

b) contenuti del DPP;

c) procedura e funzionamento della Conferenza di pianificazione;

d) contenuti e procedura dell’Intesa di pianificazione;

e) contenuti ed elaborati di PSC, POC e PAC;

f) procedure di armonizzazione dei piani territoriali infraregionali;

g) metodologie informatiche di rappresentazione degli strumenti di pianificazione;

h) banca dati del SITER;

i) tecniche di pianificazione sovracomunale;

j) termini e procedure di adozione ed approvazione degli strumenti di pianificazione;

k) intese interistituzionali;

l) Osservatorio;

m) certificato di conformità urbanistica dei lavori pubblici da eseguirsi dalle amministrazioni statali, da enti istituzionalmente competenti, dall’Amministrazione regionale e da quelle provinciali, nonché dai loro formali concessionari;

n) parametri urbanistici ed edilizi;

o) commissione edilizia;

p) regolamento edilizio;

q) sportello unico;

r) certificato urbanistico;

s) elaborati progettuali a corredo dei titoli abilitativi;

t) controllo e vigilanza sull’attività edilizia e relative sanzioni;

u) autorizzazione edilizia in precario;

v) convenzione tipo per l’edilizia abitativa convenzionata.

w) composizione e funzionamento delle Commissioni locali per il paesaggio;

x) procedura e termini di rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche.

Il regolamento è emanato entro centoventi giorni dalla pubblicazione della legge, previo parere delle competente Commissione consiliare. La Commissione consiliare esprime il parere entro sessanta giorni dalla data di ricezione della relativa richiesta. Decorso tale termine si prescinde dal parere.

Sono abrogate, a decorrere dalla data di entrata in vigore del regolamento le disposizioni vigenti, anche di legge, con esso incompatibili, espressamente indicate nel regolamento medesimo.

La Parte V si occupa infine delle numerose norme di legge oggetto di modifica ed abrogazione e detta le disposizioni finali.

La Sardegna dopo tanti anni anni è di nuovo dotata di un piano paesaggistico, il primo in applicazione del Codice Urbani. E' riuscito il presidente Soru nel suo intento, seppure con qualche difficoltà dentro la maggioranza, e si tratta di una buona notizia che dovremmo festeggiare, perché di buone notizie non ce ne sono poi tante sui temi del governo del territorio in questo Paese. Per la Sardegna, in balia delle pulsioni del centrodestra fino allo scorso anno, e anche delle indecisioni di passati governi di centrosinistra, è il segno che una brutta fase è già alle spalle; e che ora si può guardare alle cose da fare, per valorizzarlo il territorio e non per vendere le parti migliori.

E' un'altra storia: emerge subito la distanza dall'altra stagione politica quando prevaleva il rito delle distribuzione mercanteggiata dei volumi.

Quando i piani dei comuni erano le riproduzioni fedeli dei propositi delle imprese di strafare qui o lì, nei luoghi più belli, in genere case da vendere e non alberghi.

Quando i ragionevoli principi, contenuti nell'ultima legge e nei vecchi strumenti, venivano piegati per condiscendenza della stessa legge con previsione di varchi per favorire importanti imprenditori dell'edilizia (non operatori turistici che investono in attrezzature ricettive, ma costruttori).

Il paesaggio come bene comune, il senso profondo dei luoghi, è al centro del progetto e le trasformazioni eventuali sono pochissime. I territori che non hanno subito modifiche - per fortuna sono tanti - saranno conservati. Perché si vuole dare la certezza di ritrovarla integra quella spiaggia, quella scogliera, quella campagna. Sono previsti progetti estesi di riordino urbanistico per provare a rimediare a forme di degrado che non mancano; e l'idea di fondo è quella di valorizzare e potenziare gli insediamenti esistenti - soprattutto quelli veri, vissuti tutto l'ann - che sono in grado di dare ospitalità molto meglio dei villaggi frontemare.

Il processo decisionale ha alla base il metodo delle informazioni condivise ed è rilevante che tutte le fasi siano in rete, nel sito della Regione, e che nessuno detenga documenti riservati da distribuire per favore agli amici. Tutti possono già in questa fase accedere agevolmente agli atti e farsi un'opinione.

Vedremo nei prossimi mesi, luogo per luogo, il grado di consenso attorno al progetto da parte dei sardi e di tutti quelli che, dovunque stiano, hanno mostrato interesse al programma di tutela della Sardegna che va oltre il piano paesaggistico. E' un aspetto importante: i detrattori sono al lavoro e la tenuta del piano dipende da questo. Vedremo le reazioni dei comuni nel merito e le modalità attraverso cui costruiranno le proposte di pianificazione. Sarà una fase delicata, un laboratorio per consegnare alle generazioni future un'isola bellissima che non può più consentirsi sprechi.

L’Italia si dà una legge “organica” sulla pianificazione del territorio, buona ultima fra le nazioni europee, e con un ritardo di quasi tre lustri sui primi tentativi di riforma, nel pieno della guerra mondiale. Alcune delle (poche) letture storiche sulla genesi della legge urbanistica attribuiscono tra l’altro proprio al clima anomalo generato dal conflitto il merito dell’approvazione, che varie correnti politiche avversavano apertamente, sin dal primo tentativo parlamentare del 1933.

Il testo che si approva è così in gran parte più “legge degli urbanisti” che “legge urbanistica”, nel senso che propone un’idea di città forse razionale ed equilibrata, ma espressione del solo ceto professionale emerso dalle facoltà di Architettura, di Ingegneria e dalle strutture corporative che lo rappresentano: non certo di altre importanti componenti sociali, per quanto elitarie.

La stessa architettura generale, che dalla dimensione territoriale vasta, a quella della città, arriva sino alla definizione spaziale del piano particolareggiato, appare più come il frutto di una discussione emersa da convegni teorici e commissioni di concorso, che derivata dalla dialettica fra le esigenze di governo dell’assetto territoriale e i complessi intrecci degli enti locali, della loro organizzazione interna, delle competenze reali e circoscrizioni amministrative. Curiosamente, proprio nello stesso articolo del 1928 in cui si tratteggia la futura “gerarchia dei piani”, Gustavo Giovannoni ricordava di prestare la massima attenzione alle “provvidenze amministrative e combinazioni finanziarie”, ovvero enti locali e forze economiche. Senza questa centralità, qualunque piano rischiava di rimanere sulla carta, o peggio di far danni pur con le migliori intenzioni.

Ma è proprio con questi presupposti che nasce, nel 1942, la legge. E una delle principali difficoltà degli urbanisti, a guerra conclusa e nel nuovo contesto dell’Italia democratica, della Costituente, delle Regioni, sarà quella di cercare la legittimazione sociale che alla legge in gran parte manca. Significativo il fatto, ad esempio, che un esponente della Democrazia Cristiana inaugurando ancora a metà anni ’50 un convegno ideologico del partito sui piani territoriali, li definisca candidamente una “idea di alcuni architetti”. A riprova del vizio di fondo di una legge ottima, ma che fatica e faticherà ad imporsi come prassi comune, “idea di città” condivisa.

I testi – d’epoca e non - che compongono la cartella dedicata alla Legge Urbanistica del 1942, sono scelti per la loro capacità di ricostruirne alcuni punti salienti riguardo al percorso culturale, tecnico, dei soggetti via via impegnati nella sua definizione, e infine qualche cenno al passaggio dall’Italia fascista al dopoguerra.

Fabrizio Bottini, Urbanisti e Legge Urbanistica (da Storia dell’Architettura Italiana: il Primo Novecento, Electa 2004) riporta brevemente il percorso culturale che dagli anni ’20 all’approvazione della Legge porta gli urbanisti ad imporre un proprio modello, certamente valido ma non pienamente condiviso da parte del ceto politico

Vezio De Lucia, La Legge Urbanistica del 1942 (da Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2001) ripercorre l’evoluzione normativa nazionale e i piani regolatori più significativi, che contribuiscono a costruire la struttura della Legge

Virgilio Testa, Politica e legislazione urbanistica: cause di errori urbanistici e possibili rimedi (Urbanistica n. 1, 1935) descrive lo “stato dell’arte” disciplinare a metà anni ’30, dopo il rinvio del progetto di legge del 1933 e nel pieno del dibattito sul futuro della città e del territorio italiani

Vincenzo Civico, Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione (Critica Fascista, 15 maggio 1942) alla vigilia dell’approvazione della legge passa in rassegna i grandi problemi del rapporto fra organizzazione territoriale e governo dello sviluppo economico alla scala vasta

Alberto Calza Bini, Il Nuovo Ordine Urbanistico (Urbanistica n. 5, 1942) espone le prospettive – e i problemi - che si aprono per la disciplina e le decisioni, dopo l’approvazione della legge

Giovanni Ortolani, Legge Urbanistica e deurbamento (Il Rinnovamento amministrativo, n. 9, 1942) si sofferma sul significato e le implicazioni dell’articolo (1) e le sue intenzioni di “frenare la tendenza all’urbanesimo”.

I cenni sul Dibattito parlamentare tra fascismo e Costituente (Camera dei Deputati, Segreteria Generale, Ricerca sull’Urbanistica– Parte I, Servizio Studi e Inchieste Parlamentari, Roma 1965) rendono conto sia del perdurare di alcune opposizioni politiche, sia dell’articolazione degli interessi con cui la legge viene ad interferire

Ancora a dodici anni dall’approvazione, e dopo il tumultuoso periodo dei piani di ricostruzione, in pieno boom economico, la Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici, Istruzioni per la Formazione dei Piani Regolatori Comunali: Generali e Particolareggiati (1954), stimola le amministrazioni locali ad applicare la legge del 1942

Camera dei Deputati, Segreteria Generale, Ricerca sull’Urbanistica– Parte I, Servizio Studi e Inchieste Parlamentari, Roma 1965

LA LEGGE URBANISTICA DEL 17 AGOSTO 1942, N. 1150

Dopo l'approvazione del nuovo Piano Regolatore Generale della città di Roma si sviluppò in Italia un vasto interesse per i problemi urbanistici, che proprio dagli studi e dalle discussioni svoltesi intorno alla Capitale furono posti alla più generale attenzione a causa soprattutto delle dimensioni e della complessità da essi assunti per la città di Roma. Del resto non poche delle soluzioni adottate per Roma furono riprodotte nella successiva legge urbanistica generale del 17 agosto 1942, n. 1150, i cui autori furono in parte gli stessi del piano di Roma del 1931.

La proposta di una legge organica, che superasse le necessità contingenti che fino ad allora avevano determinato interventi legislativi limitati a singole città, fu presentata alla Camera dei fasci e delle corporazioni dal ministro dei lavori pubblici, Gorla il 23 giugno 1942 (Atto n. 2038 della Camera) nel testo predisposto, dalla Direzione generale dell'urbanistica di recente istituita, in base ai lavori di una Commissione appositamente nominata con la rappresentanza dei Ministeri più direttamente interessati.

Le ragioni che avevano determinato la presentazione di tale legge sono indicate nella relazione del ministro proponente.

Esse consistono essenzialmente nella ormai dimostrata inadeguatezza delle disposizioni della legge del 1865, cosi individuata: a) assenza di ogni facoltà per l'Amministrazione comunale di contemplare nel piano regolatore le aree da destinare ad edifici pubblici o ad impianti di interesse collettivo; b) distinzione, sempre più inattuale, tra piano regolatore edilizio e piano di ampliamento; c) assenza di ogni considerazione per gli interessi di ordine estetico, storico ed artistico; d) mancanza di ogni facoltà del Comune di espropriare le aree necessarie per la costruzione di edifici pubblici e per la costituzione di un demanio comunale, che è ritenuto lo strumento adatto per frenare gli eccessi della speculazione privata; e) inesistenza di ogni vincolo di «zonizzazione» per la determinazione del tipo o della destinazione delle costruzioni nei diversi quartieri...

Tra le considerazioni relative alle finalità prefisse si dichiara che la disciplina urbanistica è concepita come fondamento di una sana convivenza sociale nella distribuzione delle forze produttive e dei nuclei demografici sul territorio nazionale e pertanto la legge urbanistica si appalesa come il mezzo più efficace per attuare il deurbanamento. In questa direttiva vengono inquadrati gli istituti del « piano territoriale di coordinamento » e del «piano regolatore generale» esteso alla totalità del territorio comunale.

Si dichiara di considerare i piani regolatori in prevalente funzione dell'interesse generale, senza tuttavia prescindere

« ...da una giusta tutela degli interessi privati sia mediante il corrispettivo di una congrua indennità per tutti gli obblighi e i vincoli di carattere non generale, sia attraverso il riconoscimento di diritti di prelazione e di retrocessione, quando non vi sia necessità di mantenere le preminenti potestà dell'amministrazione comunale ».

(Raccolta di atti e documenti della Camera dei fasci e delle corporazioni -XXX Legislatura- Vol. XXI - Stampato n. 2038, pag. 3).

Affermata l'esigenza di «unità di criteri sostanziali e procedurali» tra norme regolatrici dell'attività edilizia e disciplina urbanistica, si dichiara, viceversa, che, per rendere omogeneo il contenuto della legge urbanistica, era stato omesso di regolare alcuni istituti - come quelli del contributo di miglioria o dell'indennità di espropriazione - che «pur interessando in alto grado l'attuazione dei piani regolatori, hanno tuttavia più largo campo di applicazione»: per la parte da essi regolata si effettuano rinvii alle disposizioni vigenti ( che, per quel che riguarda l'indennità di espropriazione, sono quelle della legge del 1865!) delle quali si promette una «eventuale rielaborazione», da effettuarsi « ...a parte ».

L'esame e l' approvazione del progetto di legge urbanistica ebbe luogo, alla Camera, in seno alla Commissione lavori pubblici e comunicazioni, in sede deliberante, nella seduta del 2 luglio 1942. Durante la discussione il relatore Begnotti sottolineò, tra l'altro, che merito particolare della legge era quello di aver creato un potere accentrato, capace di garantire l'applicazione dei nuovi principi urbanistici contro l'indisciplina delle Amministrazioni periferiche. Dopo che il deputato Massimino ebbe sottolineato l'alto valore morale e urbanistico della possibilità di creare, attraverso l'espropriazione, un demanio comunale di aree, e dopo che il dep. Cavallazzi, raccomandando il massimo rigore per la integrale applicazione delle norme intese a reprimere le speculazioni fondiarie, ebbe richiamata l'attenzione sulla situazione finanziaria dei Comuni incaricati di attuare tali misure, il ministro Gorla replicò difendendo l'impostazione della legge contro ogni proposta di modifica che ne avrebbe alterato i concetti fondamentali. Infatti furono successivamente respinti tutti i numerosi emendamenti (tranne qualcuno riguardante l'aspetto formale degli articoli) presentati dal deputato Spinelli rappresentante della Federazione dei proprietari di fabbricati.

Anche al Senato l'approvazione avvenne in seno alla commissione lavori pubblici e comunicazioni, in data 21 luglio 1942. Nella sua illustrazione il relatore Cozza, sottolineò, in particolare, come l'indirizzo voluto dalla legge, attraverso

« ...la formazione dei piani regolatori regionali, dei piani regolatori generali per il territorio di ogni Comune e... dei piani particolareggiati, assicura che lo sviluppo delle varie attività interessanti i singoli aggregati urbani e i territori connessi sarà studiato con quella visione d'assieme non prima raggiunta e che il graduale svolgersi di tali attività avverrà in modo organico e completo ».

(Resoconto delle discussioni delle Commissioni parlamentari del Senato del Regno -XXX Legislatura -Commissione dei lavori pubblici e delle comunicazioni - pag. 584 ).

Tra gli interventi è da segnalare quello del senatore Theodoli di Sambuci che si compiacque vivamente del ritorno al principio della legge del 1865 per la liquidazione delle indennità (rammaricandosi che i piani già approvati rispondessero ad altro criterio) ed avanzò alcune riserve sulla opportunità e sul rendimento dell'art. 18 relativo alla costituzione del demanio comunale di aree edificabili.

Il disegno di legge fu quindi approvato senza modifiche e fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 244.

REGIONI E URBANISTICA NELLA COSTITUZIONE

L’art. 117 della Costituzione, tra le materie di competenza legislativa regionale, contempla anche l'«urbanistica ».

Il problema dell'autonomia regionale ebbe la sua prima impostazione ed elaborazione - sin dalla fase preliminare dei lavori della Commissione per la Costituzione - presso la II Sottocommissione che doveva occuparsi dell'ordinamento costituzionale della Repubblica. Nella seduta della Sottocommissione del 27 luglio 1946 {Commissione per la Costituzione, Discussioni, II Sottocommissione, 27 luglio 1946, pagg. 6, 7), il deputato Ambrosini nello svolgere una relazione orale sull'impostazione generale da dare al problema delle autonomie locali, riparti le materie che si sarebbero dovute attribuire alla competenza legislativa della regione in tre gruppi distinti: un primo gruppo di materie, attinenti ad interessi prevalentemente locali, da attribuirsi alla competenza esclusiva della Regione; un secondo gruppo di materie per le quali si sarebbe dovuto lasciare agli organi legislativi dello Stato la facoltà di stabilire i principi fondamentali, lasciando alla Regione la facoltà di dettare norme di esecuzione; per un terzo gruppo di materie infine, assegnate in principio alla competenza degli organi legislativi dello Stato, la Regione avrebbe potuto dettare norme fino a quando lo Stato non avesse fatto uso della propria facoltà di legiferare in materia (competenza concorrente).

La relazione del deputato Ambrosini fu seguita da un'ampia discussione; vanno sottolineate le dichiarazioni del deputato Uberti (Atti, cit., 29 luglio 1946, pag. 25), il quale rivendicò alla Regione la competenza legislativa per quanto riguarda i «piani regolatori delle città», trattandosi, a suo avviso, di una materia di spiccato interesse locale.

Il 1° agosto 1946 la Sottocommissione incaricò un comitato di dieci membri della stesura di un progetto articolato. Del Comitato furono chiamati a far parte i deputati Ambrosiani, Bordon, Castiglia, Codacci Pisanelli, Einaudi, Grieco, Lami Starnuti, Lussu, Uberti, Zaccagnini.

Nello schema di progetto elaborato da tale «Comitato di redazione per l'autonomia regionale» la competenza legislativa della Regione è regolata dagli artt. 3 e 4, cosl formulati:



Art. 3. -Compete alla Regione la potestà legislativa nelle seguenti materie, in armonia con la Costituzione e coi principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato e nel rispetto degli interessi nazionali:

● agricoltura e foreste, cave e torbiere;

● strade, ponti, porti, acquedotti e lavori pubblici; pesca e caccia; urbanistica;

● antichità e belle arti; turismo;

● polizia locale urbana e rurale ; beneficenza pubblica; scuole professionali;

● modificazione delle circoscrizioni comunali.



Art. 4. -Compete alla Regione la potestà legislativa di integrazione delle norme direttive e generali emanate con legge dello Stato per le seguenti materie:

● industria e commercio;

● acque pubbliche ed energia elettrica; miniere;

● riforme economiche e sociali ; ordinamento sindacale; rapporti di lavoro;

● disciplina del credito, dell'assicurazione e del risparmio; istruzione elementare;

e per tutte le altre materie indicate da leggi speciali.

Nella relazione scritta del deputato Ambrosiani, che accompagna tale schema, si rileva che le materie attribuite alla competenza del nuovo Ente sono «di carattere strettamente regionale» e di «importanza meramente locale». Tale concetto fu ribadito dallo stesso deputato Ambrosini quando riferì alla II Sottocommissione sull'anzidetto schema di progetto elaborato dal Comitato di redazione (Commissione per la Costituzione, Discussioni, II Sottocommissione, 13 novembre 1946, pag. 482).

Per quanto concerne in particolare l'urbanistica il deputato Fabbri, nel corso della discussione sull'art. 3 dello schema, dichiarò trattarsi a suo avviso di materia concernente quasi esclusivamente la competenza dei Comuni; il deputato Perassi chiarì che, dovendo i piani regolatori essere approvati per legge, era logico affermare la competenza legislativa della Regione. (Atti, cit., seduta del 20 novembre 1946, pag. 542).

Dopo un ampio dibattito, la Sottocommissione conservò il primo tipo di potestà legislativa (potestà legislativa esclusiva: art. 3 dello schema), aggiungendo la limitazione del rispetto degli obblighi internazionali; conservò parimenti il secondo tipo (potestà legislativa di integrazione ed attuazione delle leggi dello Stato: art. 4 dello schema), e aggiunse inoltre un terzo tipo di potestà legislativa, per l'attuazione in loco delle leggi nazionali, senza obbligo per queste ultime, per le materie elencate nella disposizione in parola, di limitarsi alla emanazione di principi e direttive generali (potestà legislativa concorrente). La nuova formulazione proposta dalla Sottocommissione si concretizzava quindi in tre articoli (109, 110, 111 del progetto di Costituzione).

Allorché il progetto di Costituzione, formulato in sede di Sottocommissione, fu portato all'esame della Commissione dei 75, si manifestarono numerose discordanze, e non poche critiche furono mosse alla soluzione accolta in materia di competenza legislativa delle Regioni.

Per evitare che tutto fosse rimesso in discussione, fu deciso di nominare un «Comitato di redazione dei 18» con l'incarico di riesaminare tutte le proposte formulate.

Per quanto concerne la materia trattata dagli artt. 109, 110, 111 del progetto, il Comitato di redazione elaborò un nuovo testo nel quale, rinunciandosi al tipo di legislazione esclusiva, si concentrarono in una sola figura la legislazione concorrente e quella integrativa. La nuova formulazione si concretizzava per- tanto in un solo articolo. L'urbanistica, che anteriormente era inclusa, sia nello schema predisposto dal Comitato di redazione per l'autonomia regionale (art. 3 ), sia nel progetto formulato dalla Sottocommissione (art. 109), tra le materie di competenza esclusiva della Regione, fu pertanto compresa nell'elenco di materie che l'articolo unificato predisposto dal Comitato dei 18 (poi art. 117 della Costituzione) assegnava alla competenza legislativa della Regione «nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempre che le norme stesse non siano in contrasto con l'interesse nazionale e con quello di altre regioni».

In sede di discussione all'Assemblea Costituente furono presentati ad iniziativa dei deputati Nobile, Di Fausto e Bernini emendamenti volti ad escludere l'urbanistica dall'elenco delle materie da attribuirsi alla competenza legislativa delle Regioni. Tale iniziativa fu sostenuta, nella seduta dell'8 luglio 1947, dal deputato Renato Morelli il quale sostenne che l'urbanistica non può essere ritenuta materia di interesse soltanto locale, specialmente in considerazione delle connessioni esistenti fra lo sviluppo urbanistico e la tutela delle antichità e belle arti (Atti della Costituente, Discussioni, pagg. 5520-5521) e, per motivi diversi, dal deputato Bozzi, il quale osservò:

«Sotto l'espressione urbanistica, in realtà, si comprende una somma di poteri e di facoltà che oggi, in gran parte, per ciò che riguarda le attività locali, sono demandati ai Comuni...: affidando questa materia alla Regione, non potrà avvenire domani che la Regione sottragga questa potestà normativa ai Comuni ? ...Questa è in sostanza una preoccupazione di carattere generale, perché mentre vogliamo smantellare l'accentramento statale, corriamo l'alea di creare un accentramento regionale, che sotto parecchi aspetti potrebbe essere peggiore del primo. Non solo, ma in materia di urbanistica vi è un complesso di aspetti per i quali è necessaria una legislazione unitaria; io richiamo, sorvolando, la vostra attenzione sulle espropriazioni per pubblica utilità. Voi sapete che la materia urbanistica comporta espropriazioni; domando: la Regione, disciplinando questa materia, sia pure con norme ristrette nell'ambito dei principi fondamentali delle leggi dello Stato, non potrà creare disparità fra Regione e Regione? Io credo che togliendo questa materia alla Regione non si sminuisca la potestà legislativa del nuovo ente ». (Ibidem, pag. 5521).

Il deputato Cingolani dichiarò infine che il gruppo democristiano avrebbe votato in favore dell'inclusione dell'urbanistica tra le materie di competenza legislativa della Regione, allo scopo, oltretutto, di evitare l'uniformità urbanistica conseguente all' accentramento del relativo potere decisionale; mentre il deputato Cifaldi preannunciò il voto contrario del gruppo di Unione democratica nazionale, affermando che, in particolare, i piani di ricostruzione delle città danneggiate dalla guerra - compresi nella competenza urbanistica - non avrebbero dovuto redigersi secondo visioni particolari ma in coordinamento con aspirazioni di interessi più vasti. (Ibidem) pagg. 5521-5522).

Abbiamo recentemente affermato (Critica Fascista del 1 marzo) che l'unità urbanistica non è più oggi la città, ma la nazione; e che pertanto uno dei compiti essenziali dell'urbanistica è quello di realizzare la organica distribuzione della popolazione su tutto il territorio nazionale. Lo strumento tecnico urbanistico è da tempo forgiato e non richiede che di essere usato: il piano territoriale. Ma perché l'opera dell'urbanista venga resa possibile ed efficace occorre prima l’azione politica. La distribuzione della popolazione è infatti la conseguenza, non la causa; è l'effetto ultimo di una causa fondamentale: il lavoro. La popolazione non si distribuisce a capriccio, ma si raggruppa e si organizza dove trova lavoro, cioè mezzi e possibilità di vita: è la legge umana più semplice e primordiale, elementare ed insopprimibile.

Ecco dunque la vera enunciazione del problema: distribuire il lavoro per poter distribuire la popolazione. E la distribuzione del lavoro è compito dell’uomo politico, del regime politico.

La distribuzione attuale della popolazione italiana è fondamentalmente sana e nell'insieme soddisfacente, ma presenta “punte” patologiche particolarmente gravi, ad eliminare le quali è stata indirizzata costantemente l'azione del Fascismo.

La lotta contro l'urbanesimo è stato uno dei fondamenti dell'azione politica del Fascismo. Il processo di inurbamento dura tuttora, ma è ormai contenuto e disciplinato; i risultati dell'azione del Regime sono già visibili e sarebbero ben maggiori se essa non avesse trovato molteplici ostacoli in troppi interessi precostituiti, in troppe cattive volontà, in troppe resistenze sorde e passive.

L'esagerato, spesso esasperato sviluppo delle città è stato determinato, fondamentalmente, dal nascere e dallo svilupparsi delle industrie le quali, non controllate ne disciplinate, si sono polarizzate verso le città, le hanno invase con i loro impianti ed i loro stabilimenti, con le migliaia e migliaia dei loro operai, si sono moltiplicate a libito, senza che i reggitori, né dello Stato né delle singole città, si preoccupassero per avventura di esaminare se questo vertiginoso addensamento di nuove fonti di lavoro in così ristretto spazio potesse minare l'organismo urbano e lederlo con gravissime malattie o se, peggio ancora, potesse sottrarre braccia al lavoro della terra, spopolare le campagne, minare le basi stesse della salute e della potenza della nazione, dando libero sfogo alla mania suicida dell'inurbamento.

È ben vero - è questa la comoda e semplicistica spiegazione del fenomeno che tanti vogliono dare - che la corsa alla città trova fondamento nel desiderio di vivere una vita più piacevole, più comoda, meno faticosa e nello stesso tempo più redditizia; di godere i cosiddetti “piaceri” delle città; ma è anche e soprattutto vero che ci si inurba sperando di trovare nelle città da lavorare più e meglio che in campagna o in paese; speranza ben giustificata dalla constatazione che tante e così cospicue fonti di lavoro sono state e continuano ad essere addensate quasi esclusivamente nelle città, Ma poiché, anche in una città grandissima e gonfiata all'inverosimile, le fonti di lavoro restano pur sempre limitate, si è giunti invece all'effetto nettamente opposto, che aveva raggiunto, sotto i passati regimi, proporzioni gravissime: la disoccupazione. Altro che piaceri della città, maggior guadagno, vita allegra e via dicendo.

Appare pertanto chiara, univoca, inequivocabile la soluzione vera del problema: togliere gradualmente, ma decisamente, dalle città maggiori una partedelle fonti di lavoro e, principali tra di esse, le industrie. Lo ripetiamo: è necessario compiere a ritroso il processo storico. Se le industrie addensatesi nelle città, verranno tolte e distribuite organicamente in altre zone del territorio, le rispettive maestranze non potranno non seguirle: cosi le città vedranno diminuire la loro popolazione e il fenomeno dell'urbanesimo si esaurirà poco a poco. Tolta la causa, tolto l'effetto.

Si guardi, del resto, a quanto il Regime ha già realizzato nel settore agricolo. Con la bonifica integrale sono state offerte nuove terre, cioè nuove fonti di lavoro, agli agricoltori; le campagne bonificate danno oggi lavoro e vitto sano a migliaia e migliaia di famiglie ed hanno consentito, anzi reso necessaria, la creazione di centri abitati, nettamente funzionali, modesti di proporzioni, sani e ridenti come lo sono tutti i nostri centri minori, permeati di campagna, di aria, di sole.

Con la eliminazione del latifondo si va operando una diversa distribuzione del lavoro e di conseguenza una diversa distribuzione della popolazione, che da esso anche prima traeva i mezzi di vita: si guardi alle grandiose opere in corso in Puglia e in Sicilia. Dotando i nuovi villaggi rurali, ed anche le singole unità poderali, delle comodità e dei ritrovati della moderna vita civile, secondo il preciso comandamento del Duce, si va attirando in essi anche una parte di coloro che si erano distaccati dalla terra o, quanto meno, si elimina la ragione di continuare ad inurbarsi.

Come nel settore agricolo, cosi occorre operare nel settore industriale. Una grande nazione moderna, bene organizzata e potente, non può essere soltanto rurale, pena la sua decadenza: deve essere anche, in giusta misura, una nazione industriale. Tutto sta nel ripartire organicamente e accortamente su tutto il territorio nazionale le varie attività, siano rurali o industriali o di qualunque altro i genere.

Un concetto fondamentale va innanzi tutto affermato: è assurdo ritenere che l'organizzazione industriale debba far perno sulla grande città; è vero anzi esattamente l'inverso. Nella grande città non esistono quasi mai le fonti di produzione delle materie prime che l'industria deve lavorare: tutto deve giungervi, con perdita di tempo e di denaro, con difficoltà di trasporto, dalle materie prime all'energia elettrica al carbone alle maestranze, che difficilmente sarà possibile far abitare nelle vicinanze degli stabilimenti. I prodotti industriali saranno di conseguenza molto più cari: si pensi che, soltanto per quanto riguarda gli operai, i salari dovranno esser più alti, date le spese di trasporto e dato, soprattutto, che la vita nella grande città è enormemente più cara. L'ideale, per una industria economicamente e socialmente sana, è di poter lavorare alla fonti le materie prime, aver a portata di mano, in quartieri di abitazione appositi a breve distanza, le proprie maestranze: e potremmo citare esempi cospicui felicissimi, se non temessimo di esser accusati di far gli agenti di pubblicità.

Ma v'è una ragione vitale che impone il decentramento industriale, l'allontanamento dai centri abitati: la ragione bellica. Ragione, si badi bene, non contingente, ma permanente: l'avvento del mezzo aereo ha abolito di fatto le frontiere tra gli Stati, ha reso possibile l'offesa su tutto il territorio nemico.

Certo il problema è particolarmente grave e complesso, non foss'altro in considerazione degli impianti esistenti nelle città, molti dei quali recentissimi, Ma ecco innanzitutto una norma inderogabile da sancire e far assolutamente rispettare: vietare la creazione di nuove industrie nelle città già inurbate, portandole invece possibilmente nelle zone di produzione delle materie prime o dell’energia motrice necessaria al loro funzionamento, in prossimità di linee di comunicazione, sia stradale che ferroviaria o per via d'acqua, per la organica rapida economica distribuzione dei prodotti in tutte le zone necessarie, ubicate in modo da esser il più possibile sottratte all'offesa aerea. Ed avviare, intanto, la sistematica smobilitazione e la nuova, accorta distribuzione delle industrie ubicate nelle città, a cominciare da quelle più vecchie e più bisognose di radicale rinnovamento.

Il processo di decentramento industriale porterà con sé, di conseguenza, un grandioso, complesso e interessantissimo e sano processo urbanistico. I lavoratori di queste industrie decentrate daranno vita a grandi e piccoli nuclei abitati a fondamento e funzione nettamente industriale, ma che presto si completeranno, per processo naturale, di tutti gli altri elementi di vita di un qualsiasi centro urbano, dal commercio all’artigianato e via dicendo. Si avrà così tutta una fioritura di nuovi centri, nei quali la popolazione sarà organicamente distribuita, perché organicamente distribuito sarà il lavoro. Questi nuovi centri a base industriale, stabilimenti da un lato, quartieri di abitazione dall'altro, opportunamente distaccati e organicamente distribuiti a servizio delle industrie, potranno esser veramente perfetti e sani, pieni di luce e di aria, e tenuti in quei limiti di popolazione che si vorranno; basterà infatti dosare per ognuno il numero e il genere delle industrie autorizzate a crescervi i propri impianti e a svolgervi la propria attività.

Cesserà, allora, per spontaneo esaurimento, l’affannosa, speculativa costruzione dei nuovi, brutti, spesso malsani quartieri di ampliamento, tutti a casoni e grattacieli, nelle città esistenti. Queste anzi, gradatamente, si svuoteranno di quanto di artificioso, di pleonastico, di assurdo vi aveva accumulato un secolo di errori e di “lasciar correre”, e un po' alla volta guariranno del loro male, torneranno a più efficienti e sane funzioni nel grande quadro delle attività della nazione.

Non si dimentichi che se ancor oggi, malgrado tutto, la nazione è sana, ciò è dovuto al fatto che la massima parte della popolazione è distribuita nelle campagne in ben ottomila circa centri abitati, dei quali appena due-trecento superano i ventimila abitanti. Quando questi centri maggiori - e soprattutto quelli che contano a centinaia di migliaia i propri cittadini - si saranno ridotti a poche diecine; e quando saranno sorte altre migliaia di piccoli centri, sia rurali che industriali, il problema potrà dirsi definitivamente risolto, Sarà infatti, un totalitario, autentico ritorno alla terra, non nel senso che tutti divengano contadini, ma che ognuno sia contatto diretto con la natura e con la campagna, divenute spesso un miraggio, un'utopia per i cittadini delle grandi città, Ne deriverà una maggiore sanità fisica e morale, ne scaturirà un sicuro potenziamento della razza.

L'indirizzo politico del Regime è tutto volto a questa grande mèta: ed è superfluo ricordare ancora parole e fatti del Duce. Basti citare, per quanto riguarda appunto il settore industriale, la legge per il decentramento industriale nel Mezzogiorno e nelle isole. Ma, anche qui tutto sta ad assicurare che la volontà limpida e lungimirante del Capo non venga tradita o comunque deformata nelle pratiche realizzazioni, C'è una legge: ma occorre darne la giusta interpretazione, garantirne la piena efficacia. Non per nulla F.M. Pacces ammonisce che quello del decentramento industriale è un tasto che bisogna continuare a battere, anche se fosse necessario un piano decennale … unicamente per la battuta del tasto.

Che cosa sta accadendo, infatti? Mentre si sancisce legislativamente la necessità assoluta del decentramento industriale, non soltanto per contingenti necessità belliche ma per creare il presupposto della potenza e della granitica invulnerabile solidità avvenire della nazione, assistiamo proprio ora al dilagare di un'altra pericolosissima moda, da noi già più volte denunciata: quella delle “zone industriali”, cioè di vaste estensioni di territorio tutte zeppe di stabilimenti ed impianti industriali, che vengono create e sviluppate - realtà romanzesca - proprio e specialmente nelle grandi e grandissime città, e cioè proprio nei centri urbani che abbisognano di una energica, drastica azione di svuotamento, di disurbanamento. Dopo la mania metropolitana, ecco la mania industriale prendere i capoluoghi: Bolzano, Ferrara, Apuania, Palermo, Roma e via dicendo, hanno già le loro grandi zone industriali consentite da appositi provvedimenti legislativi; molti altri brigano e si agitano per ottenere provvedimenti analoghi, come Pescara Pistoia ecc. Non basta. Lo stesso decentramento nel Mezzogiorno e nelle isole come viene attuato, in effetti, in molti, in troppi casi? Creando industrie, o zone industriali, non accortamente decentrate e distribuite fuori dei centri urbani, ma proprio in essi, anzi nei maggiori di essi, a cominciare da Napoli e da Bari.

C'è di che rimaner perplessi - per non dir altro - di fronte a questa singolare interpretazione del concetto di decentramento industriale: non resta che augurarsi che, come per il settore del risparmio e dei prezzi, giunga l’inflessibile volontà e la decisa azione del Duce, con le buone se possibile, con la forza se necessario.

La nuova legge urbanistica è dunque ormai Legge dello Stato con tutti i crisma ufficiali.

Chi ha seguito su questa stessa Rivista il nostro tenace lavoro preparatorio, chi ha letto sui giornali politici o sui resoconti parlamentari il nostro pensiero, o ha seguito attraverso la radio o le comunicazioni in convegni di studiosi l'appassionata alternativa delle speranze o dei timori, immagina quale sia la nostra esultanza per la meta raggiunta, e la nostra legittima soddisfazione per la non inutile opera compiuta.

Al Ministro Gorla che da uomo di fede di volontà e di competenza tecnica ha saputo superare le non lievi difficoltà conducendo intatta in porto la navicella della sua legge, abbiamo espresso già, e ripetutamente, il nostro plauso e la nostra riconoscenza.

Ma da questo nostro organo, al Duce che ha voluto che, anche in momenti duri e difficili come quelli che attraversiamo, non venisse trascurata la preparazione fondamentale della disciplina e dell’ordine urbanistico di domani, e al Ministro Gorla, artefice presentatore e difensore della legge, vogliamo rinnovare il fervido commosso ringraziamento degli urbanisti italiani, che nella legge vedono lo strumento di un feconda disciplina, e di una vera rinascita dell'arte urbanistica. Arte e disciplina che varranno, vogliamo sperarlo, a dare ordine e bellezza al volto della Patria nei giorni avvenire, quando sarà possibile riprendere in pieno quel fervore di attività creatrice che è stato proprio del primo ventennio del Fascismo e che, dopo la Vittoria, dovrà tornare ad essere una delle più significative prerogative del Regime.

Abbiamo espresso la nostra fede nella bontà dello strumento che il Governo Fascista ha predisposto, e altrettanto ripetiamo a proposito del Regolamento che con celerità veramente eccezionali il Ministro dei lavori pubblici sta per emanare. Naturalmente l'efficacia dei più sani e lungimiranti provvedimenti dipende dal buon senso, dalla rettitudine e dalla intelligenza con cui sono applicati; e a coloro che al nostro entusiasmo oppongono lo scetticismo sulla incapacità e malavoglia degli uomini, rispondiamo che abbiamo invece piena fiducia che gli organi di propulsione e di controllo che la legge crea al centro e alla periferia gioveranno ad assicurare la buona realizzazione dei postulati della più sana ed evoluta urbanistica italiana.

La nostra Segreteria ha commentato la legge articolo per articolo, e quel commento fa seguito in questa nostra pubblicazione, al testo della legge e alla riproduzione delle interessanti discussioni alla Camera e al Senato.

Qui vogliamo porre in rilievo solo i lineamenti essenziali profondamente innovatori della legge.

Primo: il concetto di Piano Territoriale

Si ricorderà che la nostra Rivista iniziando il nuovo ordinamento lo scorso anno, impostò proprio sui Piani territoriali il suo primo articolo di fondo, ponendo in rilievo la importanza fondamentale che per una giusta e sana distribuzione delle forze produttive del paese e per una efficace azione di disurbamento ha una buona politica di previsione e di coordinamento di tutte le attività urbanistiche in una determinata estensione di territorio. Il Ministro Gorla ha voluto che i Piani territoriale si chiamassero appunto di coordinamento, e ne ha avocata la compilazione diretta o indiretta allo stesso Ministero dei lavori pubblici attraverso le Sezioni Urbanistiche.

Secondo: la creazione delle Sezioni Urbanistiche

Uffici periferici con funzioni tecniche autonome, anche se amministrativamente collegati col Genio Civile. Sezioni che hanno delicati e difficili compiti di propulsione, di incitamento, di controllo, e di raccolta di elementi e dati da fornire agli organi centrali; e che pertanto dovranno essere affidate a funzionari provetti ed esperti della materia.

Una legge preesistente, non ancora prima applicata, ha posto il Ministero nella condizione di poter assumere per chiamata diretta alcuni egregi camerati che conoscono le discipline urbanistiche per aver a lungo, per quanto giovani, militato nella schiera dei combattenti per la buona causa dell’urbanistica; ad essi, tutti a noi cari e tutti assai favorevolmente noti nel campo degli studi per opere, pubblicazioni e concorsi va la nostra sicura fiducia.

Ma non basta: le Sezioni Urbanistiche sono sedici; e manca ancora un buon gruppo di giovani autorevoli per la riconosciuta competenza e salda preparazione. Facciamo pertanto voto che i nostri giovani urbanisti che ormai dalle Facoltà di Architettura, e da qualche anno anche da quelle di Ingegneria, escono agguerriti e consapevoli, accorrano alla chiamata del Ministro e si accingano a dare alla pubblica Amministrazione, e attraverso essa alla Patria, il meglio delle loro energie.



Terzo: la netta e decisiva definizione di piano generale e di piano particolareggiato

La precisazione dei caratteri dei primo, che possono dirsi di esclusivo valore tecnico e programmatico, e del valore giuridico assunto dai secondi con la imposizione, solo a tempo limitato, di oneri e vincoli.

Insistiamo su questo concetto che è fondamentale; e che non vuol dire affatto che il piano generale possa essere una espressione vaga e indecisa che i piani particolareggiati debbano poi precisare in modo completo; ché anzi nulla dovrebbe vietare che il passaggio dal piano generale alla preparazione dei piani particolareggiati possa essere immediato. Ma resta ben fermo il concetto fondamentale che, anche se predisposti in linea tecnica per una più ampia zona, i piani particolareggiati possono essere approvati anche per piccoli settori, e solo allorché i Comuni stessi hanno la sicurezza di poter presentare un piano finanziario organico e saldo, e quindi realizzare di fatto nel tempo prescritto.

Tralasciamo di dilungarci sul valore tecnico di molti dei principi fondamentali che la legge instaura: come quello della rettifica dei confini della obbligatorietà dei comparti, con i quali sarà possibile vedere finalmente rimossi quegli inconvenienti ce sino ad oggi, per la esistenza di tante piccole proprietà frazionate e intersecatesi, impedivano la realizzazione armonica di un qualsiasi complesso urbanistico; o quelli della prescrizione degli isolati in tutto corrispondenti ad unità fabbricabili secondo la tipologia prescelta; o della obbligatoria presentazione delle sagome e dei profili dei fabbricati lungo le vie o piazze principali; o infine delle precise norme per il regolamento edilizio.

Tutti principii di assoluto valore tecnico oltre che giuridico, che verranno finalmente a permettere l concezione di un piano regolatore nella sue terza dimensione.

Ci preme però di far rilevare ancora una volta come le disposizioni relative alla espropriabilità delle aree, specialmente riferite alle zone di espansione, mettano una buona volta i Comuni nella condizione di poter disciplinare le attività edilizie, consentendolo solo nelle zone e nelle direzioni dove, con un organico piani di realizzazione di opere di Piano Regolatore, l’espansione dell’aggregato urbano e la creazione di nuovi nuclei satelliti corrispondano al preventivo programma urbanistico; non solo, ma anche, le disposizioni medesime, permettano ai Comuni, con la attenta manovra dei prezzi delle aree, di consentire una edilizia veramente sana, moderna, corrispondente alle esigenze estetiche igieniche e politiche della nostra razza.

Questo punto non sarà mai abbastanza illustrato e posto in rilievo ed è senza alcuna incertezza che noi vediamo in esso, se sarà bene compreso e bene applicato, la chiave di una vera rinascita della urbanistica nostra tanto sotto il profilo estetico quanto sotto quello sociale.

Ai più o meno disinteressati tutori dell'assurdo quanto astratto diritto di proprietà, secondo il quale ogni proprietario di aree, sebbene tuttora utilizzate a sola destinazione agricola, dovrebbe avere la libertà di far trasformare in qualunque tempo, e a spese del pubblico erario, i loro campi in zone edilizie per arricchirsi con fantastici sopraprofitti, opponiamo solo la visione di una più sana ed equa giustizia, che nulla tolga alla proprietà di quanto è già in essere, acquisito o anche di prossima acquisizione; ma che permetta anche alla oculata politica amministrativa dei Comuni, di poter regolare l'attività edilizia dei privati nel tempo e nello spazio, evitando inutili spese e dannosi sperperi di pubblico denaro; e permetta anche di garantire a tutta la popolazione presente e futura il godimento di quartieri di abitazione sani e ridenti, di ampie riserve verdi per la gioia e la sanità dell'infanzia, di tutto quel complesso di provvidenze e di istituzioni accessorie, politiche, religiose, sportive, assistenziali che dovranno fare dei nostri centri abitati dei vari modelli di urbanistica italiana e fascista.

A chi teme che tutto ciò resti nel campo degli ideali sognati per difetto di mezzi o incapacità degli uomini possiamo rispondere: che sì, il difetto di mezzi è purtroppo prevedibile, poiché per procedere alla espropriazione delle aree che occorre pagare al giusto valore venale senza riduzioni di capitalizzazione di imponibile o coacervo di fitti, occorrono dei mezzi finanziari che non si sa ancora bene dove e come i Comuni potranno procurarsi.

Può darsi che il Governo voglia provvedere con qualche speciale accorgimento in considerazione che si tratterebbe di una esposizione finanziaria la quale dovrebbe, ad opera compiuta, dare invece un certo margine di utile col quale provvedere a nuove opere.

Chi legge queste nostre note ricorderà che proprio per ovviare all'inconveniente di un notevole disborso di denaro, e all'altro più grave di un possibile arresto di attività produttiva nel campo agrario, noi dell'Istituto avevamo proposto un sistema di valutazione e di catasto economico che avrebbe permesso lo stesso congegno di disciplina e di coordinamento, quasi senza anticipazione di fondi da parte dei Comuni.

La proposta è parsa acerba ed è rimasta allo stato di proposta; ma noi abbiamo fede che l'avvenire ci darà ragione. Comunque è a ritenersi che in un modo o nell'altro i Comuni potranno, e noi diciamo anzi dovranno, giovarsi delle benefiche disposizioni di legge.

Quanto all'argomento della eventuale incapacità degli uomini ... è argomento vecchio quanto la storia del mondo. E nessuna legge potrebbe mai essere presentata se non sorreggesse la fiducia della sua bontà intrinseca e della onestà e capacità di chi deve applicarla.

Prima di iniziare la trattazione dei problemi urbanistici sotto il profilo legale è forse opportuno dare uno sguardo, per così dire, panoramico alla situazione urbanistica italiana, al fine di esaminare se e fino a qual punto lo stato attuale della legislazione abbia influito o possa influire sulla progettazione e sull'esecuzione di buoni piani regolatori.

Quando, nel settembre 1929, fu inaugurata in Roma la I Mostra Nazionale Urbanistica, molti delegati stranieri, convenuti in Italia per prender parte al XII Congresso Internazionale dell'abitazione e dei piani regolatori, ebbero espressioni di plauso e di meraviglia nel constatare, attraverso una documentazione di inoppugnabile evidenza, che l'Italia, da molti giudicata un paese ancora agli albori della scienza urbanistica, aveva invece compiuto e stava compiendo un lavoro notevole per la preparazione di piani di trasformazione e di ampliamento delle proprie città rispondenti alle moderne esigenze dell'igiene, del traffico e dell'estetica.

Quella mostra nazionale ebbe, quindi, il merito di svolgere un'utile funzione di propaganda presso scienziati e uomini politici stranieri, fornendo una prova del grande impulso dato dal Fascismo al rinnovamento del paese anche in questo settore importantissimo riflettente il miglioramento delle condizioni di vita materiale delle popolazioni.

Ma un altro vantaggio assai notevole essa recò, e fu quello di richiamare l'attenzione di molte amministrazioni municipali, rimaste fino ad allora pressoché inerti, sulla necessità di risolvere i problemi di sistemazione e di ampliamento dell'aggregato edilizio, come mezzo per eliminare molteplici inconvenienti più o meno gravi nello svolgimento della vita cittadina, e per assicurare la conservazione e il miglioramento del patrimonio di bellezze artistiche e panoramiche, che la maggior parte dei nostri comuni posseggono in misura doviziosa.

Infatti, mentre fino al 1929 solo poche grandi città avevano provveduto a preparare e far approvare piani regolatori edilizi e di ampliamento, da quell’anno in poi si moltiplicarono i progetti degli uffici municipali e numerosi furono i concorsi banditi per fissare i criteri più idonei da seguire nella loro compilazione, Ne il movimento di rinnovamento urbanistico si fermò alle città maggiori, che anche amministrazioni di centri appartati di provincie vollero fissare in piani più o meno bene studiati nuovi criteri di assetto dell'abitato.

Dall'Annuario delle Città Italiane, importante pubblicazione edita in questi ultimi mesi dall'Istituto Nazionale d'Urbanistica, risulta che dei 93 capoluoghi di provincia, 32 hanno oggi un piano regolatore approvato e 4710 hanno in compilazione; di guisa che solo 13 non hanno ancora affrontato la soluzione integrale dei problemi urbanistici.

Non è mia intenzione affermare che siffatti risultati debbano unicamente ascriversi alla funzione di richiamo e di propaganda esercitata dalla Mostra del 1929. A queste importanti realizzazioni contribuì in grande misura la parola appassionata di vecchi e di giovani urbanisti, di scienziati e di neofiti, i quali non cessarono di far presenti in tutti i modi, dalla cattedra e dalle colonne dei quotidiani, dalle Commissioni edilizie e dalle adunate di tecnici, i dannosi effetti di un'attività edilizia disordinata. Vi contribuì una conoscenza più approfondita delle esigenze demografiche, economiche, culturali e sociali in genere dei nostri aggregati urbani da parte di amministratori e di organi centrali e locali di controllo. Vi contribuirono le polemiche fra studiosi di problemi municipali, dalle quali quasi sempre emerse chiaro che alle esigenze predette non corrispondeva la struttura degli aggregati edilizi o non vi avrebbe più corrisposto in avvenire se non si fosse pensato a indirizzarne in modo idoneo la trasformazione e l'accrescimento.

Certo è che molte amministrazioni municipali riconobbero in questi ultimi anni la necessità di provvedere ad un conveniente assetto dell'abitato e affrontarono i problemi edilizi con una sollecitudine e con una buona volontà che talvolta disorientarono coloro stessi che avevano protestato contro l'inintelligente neghittosità di Consigli e di Giunte comunali, rimaste per lungo tempo impassibili di fronte all'incalzare dei bisogni relativi allo sviluppo cittadino.

Vi sono state esagerazioni? Alcuni ne dubitano. Altri lo affermano in modo reciso, dichiarando che la vanità personale di amministratori, desiderosi di legare il loro nome ad opere colossali, più che il reale bisogno di trasformazioni edilizie ha dato esca alla formazione di piani implicanti vaste demolizioni di edifici dove si sarebbe potuto provvedere con semplici modificazioni di dettaglio, ha spinto all'esecuzione di opere giustificate con necessità di traffico, d'igiene, di decoro, talvolta assolutamente inesistenti, spesso artatamente amplificate, ha condotto alla previsione di nuovi estesi quartieri di abitazione, con conseguenti vincoli alle proprietà private per la formazione di reti stradali, laddove il coefficiente d'incremento della popolazione avrebbe potuto render necessaria la costruzione di poche case in un periodo abbastanza lungo, ha spinto infine alla creazione di zone verdi e di spazi liberi dove questi risultavano superflui o comunque non indispensabili, impedendo un conveniente sfruttamento edilizio di vasti appezzamenti di terreni situati in ottima posizione.

Con il corredo di ben colorite relazioni anche sulla disoccupazione locale, si è detto, sono stati imbastiti grandiosi piani di sventramento, mastodontici progetti di bonifica igienica, sontuose trasformazioni estetiche, che, mentre hanno gravato molti bilanci comunali di pesi insostenibili per mutui o per anticipazioni onerose, non hanno risoluto definitivamente i problemi messi allo studio, giungendo quindi all'unico vero risultato di peggiorare la situazione dei contribuenti e di infliggere alla proprietà privata inutili limitazioni.

Il quadro è alquanto catastrofico! Non si può tuttavia negare che talvolta si sia andati troppo innanzi e che non solo sia stata Eseguita qualche opera non del tutto necessaria, ma che numerosi vincoli siano stati imposti sui beni privati senza la certezza di poter dar corso alle sistemazioni relative. Inconveniente questo assai grave, perché, se è fuori dubbio che l'interesse privato debba cedere di fronte a quello della collettività, è da considerare iniquo, e perciò inammissibile, che il cittadino debba soffrire una diminuzione del suo patrimonio senza che ne derivi un corrispondente vantaggio per la collettività. Di vera diminuzione patrimoniale deve, infatti, parlarsi quando un immobile, gravato della « servitus non aedificandi», perché destinato a passare nel demanio comunale con l'attuazione del piano regolatore, viene di fatto ad essere posto fuori commercio e subisce quindi una svalutazione più o meno grave, quasi sempre non compensata da altro beneficio economico per il proprietario.

Ne ad eliminare tali inconvenienti ha giovato il sistema del pubblico concorso per la preparazione del piano regolatore, sistema largamente usato in questi ultimi tempi, che, si riteneva, avrebbe assicurato i migliori risultati, chiamando a collaborare ad un compito così importante le migliori energie. Di fatto molto spesso le Commissioni giudicatrici si son trovate di fronte a proposte geniali e a piani profondamente studiati, ma altrettanto gravosi per le finanze comunali e non meno criticati dai rappresentanti degl'interessi della proprietà privata rispetto a quelli preparati direttamente dagli uffici municipali.

Quali le cause di una situazione tanto strana? Forse l'eccessivo ardimento di tecnici portati a seguire principi teorici senza la preoccupazione delle possibilità pratiche di realizzazione? O forse il carattere incompleto e anacronistico delle disposizioni che regolano in Italia la formazione e l'esecuzione dei piani regolatori?

Noi vorremmo poter scartare la seconda ipotesi: invece onestamente dobbiamo riconoscere che proprio a questa causa sono da attribuirsi in gran parte gli eccessi deplorati nel campo urbanistico.

Purtroppo, mentre per la parte tecnica sono stati compiuti progressi notevolissimi e i nostri architetti ed ingegneri si sono messi alla pari dei loro colleghi stranieri, se non li hanno addirittura sopravanzati, nella formulazione di progetti in tutto rispondenti alle esigenze dei centri da sistemare, le norme che regolano la materia sono rimaste ancora quelle di settanta anni or sono, contenute negli ultimi nove articoli della legge 24 giugno 1865 sull'espropriazione per pubblica utilità, norme emanate quando in tutti i campi, estetico, igienico, sociale, le esigenze erano infinitamente minori di numero e profondamente diverse nella sostanza.

Che le predette disposizioni siano ormai sorpassate è dimostrato da un cumulo di considerazioni. Ne accenneremo alcune rapidamente.

Anzitutto la legge del 1865 vuole il piano regolatore limitato a quelle parti dell'aggregato edilizio nelle quali si notino inconvenienti igienici o di traffico. Questa limitazione era concepibile moltissimi anni fa, quando piccole modificazioni nell'allineamento dei fabbricati e l'apertura di una via o l'allargamento di un'altra bastavano a risolvere problemi gravi di assetto edilizio. Oggi le cose sono totalmente cambiate, e non è più possibile predisporre provvedimenti edilizi in una parte dell'abitato senza considerare le conseguenze che ne deriveranno in altre parti anche lontane. Infatti, con 10 sviluppo dei mezzi di trasporto a trazione meccanica e con l'aumentata rapidità della circolazione, può una trasformazione edilizia avere ripercussioni in zone assai distanti dando luogo a rarefazione o congestionamento della circolazione in misura più che notevole.

La legge del 1865 esige che nella formulazione del piano regolatore si tenga conto dei bisogni attuali: principio assolutamente inammissibile, poiché, dato l'alto costo delle trasformazioni edilizie, si deve evitare la necessità di attuarne altre nel futuro, e quindi si devono considerare nella preparazione del piano anche bisogni che prevedibilmente si manifeste- ranno a scadenza più o meno lontana.

Nell'ambito del diritto urbanistico vigente è possibile riservare, attraverso il piano regolatore, solo le aree necessarie per costruzione o trasformazione di strade. Ora, se più di mezzo secolo fa, in un regime di vita che comincia ad apparirci patriarcale, nulla o quasi era la necessità di grandi impianti per servizi pubblici, all'epoca attuale, in cui Stato e Comuni provvedono direttamente alla soddisfazione di numerosi bisogni della collettività, i servizi pubblici si sono moltiplicati, ed è assolutamente inconcepibile che il piano regolato re si disinteressi totalmente dei problemi relativi alloro impianto, data l'influenza che essi esercitano sulle condizioni di vita della popolazione.

La legge del 1865, infine, non contiene disposizioni intese ad attuare una disciplina rigorosa delle costruzioni. Ora l'attività edilizia del dopo guerra ci ha dimostrato che cosa significhi lasciar sorgere interi quartieri senza un controllo accurato da parte delle autorità locali. Nel corso di pochi mesi vasti aggruppamenti di abitazioni sono sorti alla periferia dei maggiori centri urbani, senza collegamento con l'abitato esistente, disposti in modo da rendere quanto mai difficile l'estensione dei pubblici servizi.

Donde un triste spettacolo di miseria in w ne che apparivano prima veramente suggestive, sfoghi capricciosi di mania edilizia in località che per evidenti ragioni estetiche avrebbero dovuto rimanere molti anni ancora libere da costruzioni, imbarazzi gravi di amministrazioni, impossibilitate a curare il materiale benessere di molte centinaia di famiglie, dimoranti in località prive di ogni servizio pubblico, mentre altre zone, già da lungo tempo sistemate, erano disertate dalle nuove costruzioni!

Non può quindi recare meraviglia se, di fronte a siffatto stato di cose, sono stati invocati provvedimenti di eccezione, capaci di ovviare agli inconvenienti più gravi; ne può impressionare il fatto che, una volta riconosciuta la necessità di derogare al!a legge generale, le amministrazioni locali si siano spinte a richiedere posizione e privilegi speciali, e abbastanza facilmente le autorità centrali si siano indotte ad eccedere a tali domanda, anche se eccessive.

Gli eccessi sono derivati in questo caso dalla scheletrica semplicità della legge urbanistica, la quale non offre mezzi sufficienti per impedire mali, che possono in taluni casi raggiungere proporzioni preoccupanti ed avere conseguenze dolorose dal punto di vista della sanità fisica e morale del popolo, e assai scarsamente si presta a realizzare il canone fondamentale della scienza urbanistica, che è quello di assicurare la sistemazione degli aggregati edilizi in modo che la vita dei cittadini vi si possa svolgere nelle migliori condizioni possibili.

Ma v'è di più: in molti casi i rimedi che la legge pone a disposizione per eliminare deficienze edilizie, specialmente nei riguardi dell'igiene, applicati integralmente, risultano tali da favorire soluzioni criticabili urbanisticamente, perché assai costose per le amministrazioni comunali, rovinose per l'estetica cittadina, gravemente lesive degl'interessi della proprietà edilizia. Poche argomentazioni sono sufficienti a chiarire il fondamento di questa che può sembrare, e non è, affatto paradossale.

Un metodo generalmente riconosciuto adatto a realizzare il risanamento di quartieri antigienici, salvando le peculiari caratteristiche dei nostri aggregati urbani"e tuttavia assicurando l'eliminazione di quello stato di miseria edilizia, che solo pochi visionari o qualche turista in cerca di sensazioni di dubbio valore estetico vorrebbero mantenuto a tutela del cosiddetto «colore locale», è quello del diradamento, le cui particolarità furono più di venti anni or sono chiaramente indicate dall'Accademico d'Italia, professore Giovannoni. È possibile, con tale sistema, portare aria e luce in mezzo ai tuguri e assicurare un singolare miglioramento del patrimonio artistico-architettonico di molte nostre città, senza attuare nessuno di questi disgraziati «sventramenti» che hanno rovinato molti ambienti deliziosi, provvedimenti altrettanto brutti nel nome quanto deprecabili nelle loro conseguenze. Basta adoperare sapientemente l'arma della demolizione, procedendo ad un oculato abbattimento di costruzioni addossate, in tempi di oscura decadenza, agli edifici maggiori, basta creare piccoli slarghi là dove fabbricati di minore importanza si prestano a parziali e poco costose trasformazioni, basta tendere al miglioramento delle condizioni dell'igiene e della circolazione non preoccupandosi di attuare rettifili insignificanti e monotoni.

Molti compilatori di piani non hanno forse tenuto presente questo importante principio urbanistico nello studiare il risanamento di vecchi quartieri, ma dobbiamo pur riconoscere che, anche se lo avessero fatto, sarebbe poi loro mancata la possibilità di giungere alla formulazione di un piano eseguibile, perché la legge generale vigente non fornisce i mezzi per attuare soluzioni del genere di quelle che formano l'essenza del metodo del «diradamento edilizio».

Una prova convincente si ha in quello che è accaduto a Roma quando si è voluto affrontare in pieno la questione dell'assetto del quartiere del Rinascimento. Lo studio del delicato problema, iniziato fin da epoca anteriore alla guerra, completato e tradotto in un piano di massima da una Commissione nominata nel 1923, non è stato mai potuto trasformare in provvedimento definitivo perché si è riconosciuto che le norme in vigore non offrivano allora, come non offrono oggi, la possibilità di svolgere quell'azione complessa che si richiede per l'esecuzione di una sistemazione fondata su trasformazioni di dettaglio non precisabili attraverso un comune piano regolatore.

Nella stessa condizione si sono trovate molte altre amministrazioni comunali, alle quali si presentavano problemi analoghi da risolvere: esse hanno quindi creduto opportuno seguire la via più semplice, anzi l'unica che la legge loro offriva, quella del risanamento edilizio attraverso demolizioni su vasta scala, quella della bonifica dell'abitato radendo al suolo interi quartieri o aprendo grandi squarci nelle costruzioni, a costo di cambiare totalmente l'aspetto di determinate zone e sacrificare definitivamente quanto di bello esse offrivano.

A questo proposito, peraltro, s'insiste nell'affermare che troppo spesso si è ricorso agli sventramenti, anche quando il bisogno di risanamento igienico non era molto sentito; ma in ciò è da riconoscere un' altra prova dell'imperfezione della legge 25 giugno 1865, per la parte riflettente la formazione e l'approvazione dei piani regolatori. Essa esaurisce, si può dire, tutta la materia in due brevi disposizioni: quella dell'art. 86, nel quale è detto che «i Comuni con popolazione accentrata di più di 10.000 abitanti possono per causa di pubblico vantaggio, determinato da attuale bisogno di provvedere alla salubrità e alle necessarie comunicazioni, fare un piano regolatore, nel quale siano tracciate le linee da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell'abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifici, per raggiungere l'intento»; e quella dell'art. 93, in cui è stabilito che «tutti i Comuni, pei quali sia dimostrata l'attuale necessità di estendere l'abitato, potranno adottare un piano regolatore di ampliamento, in cui siano tracciate le norme da osservarsi nella edificazione di nuovi edifici, a fine di provvedere alla salubrità dell'abitato ed alla più sicura, comoda e decorosa sua disposizione».

Ora è la tacitiana laconicità della legge la causa principale della indecisione che vige nella disciplina dell'assetto degli aggregati edilizi. Pur senza seguire il metodo di una regolamentazione dettagliatissima adottato in altri paesi, se la nostra legge o il regolamento generale per la sua applicazione {che la legge prevedeva ma che non è stato mai emanato) fornissero un criterio qualsiasi di orientamento, o se, quel che sarebbe preferibile, fosse affidato ad un organo autorevole e urbanisticamente attrezzato il compito di dettare norme per la formazione dei piani regolatori e per indirizzare l'attività urbanistica con criteri idonei, forse nei concorsi non si avrebbero proposte che le commissioni giudicatrici debbono, sia pure con molto riguardo, deplorare piuttosto che segnalare come meritevoli di essere prese a fondamento per la formazione del piano definitivo, forse non si avrebbero progetti di uffici municipali che, una volta compilati, pubblicati e discussi, assai difficilmente possono essere respinti, anche se sostanzialmente errati ed anche se gli organi chiamati a dar parere sul loro contenuto intendono assumere una posizione di netta intransigenza.

Nelle condizioni attuali, pertanto, vi è chi si augura che molti Comuni si astengano dal formulare un piano regolatore, affermando che è meno dannosa un'attività edilizia non controllata affatto che uno sviluppo delle costruzioni disciplinato da un piano sbagliato.

A questo augurio noi non possiamo certo associarci. Occorre evitare gli inconvenienti, ma non si può rinunciare alla formazione dei piani, poiché, se è impossibile erigere un fabbricato di grande mole senza la guida di un progetto che tenga conto dell'uso cui l'edificio è destinato, dell'ambiente in cui deve sorgere e dei materiali con i quali deve essere costruito, è assurdo ritenere che un'opera molto più complessa, quale è la costruzione o la trasformazione di un nucleo edilizio di una certa importanza, dalla cui disposizione più o meno indovinata dipenderà la migliore soddisfazione di innumerevoli esigenze della collettività, possa essere compiuta senza un piano prestabilito. Quando per un complesso disgraziato di circostanze questo si verifichi, l'amministrazione municipale finirà, prima o poi, per trovarsi in questa alternativa: o tollerare uno stato di cose pregiudizievole dal punto di vista igienico ed estetico, e sarà un danno grave per la collettività, o adottare provvedimenti edilizi, che nella maggior parte dei casi porteranno a demolizioni, cioè a distruzioni di ricchezze, e anche questo rappresenterà un danno grave per la collettività, poiché su essa in definitiva si riverseranno le conseguenze economiche di tali distruzioni.

Del resto, direttive precise in questo campo sono indispensabili anche perché è attraverso un razionale sviluppo dell'abitato che la spesa per l'estensione dei servizi pubblici può essere contenuta in limiti convenienti. Questo lato del problema acquista, oggi che le finanze dei Comuni devono essere liberate da ogni inutile peso, importanza grandissima. Nell'impossibilità di gravare ulteriormente il contribuente, le amministrazioni municipali debbono essere messe in condizione di impiegare bene i fondi stanziati per la costruzione di nuove strade, per l'impianto di linee tranviarie, per l'estensione di canalizzazioni elettriche, idriche, telefoniche e soprattutto di ottenere che abbiano uno sfruttamento adeguato quelli erogati per siffatti impianti nell'aggregato edilizio esistente.

Quali sono, allora, i rimedi indispensabili per ovviare ai temuti eccessi nel campo urbanistico e per assicurare una disciplina dell'attività edilizia in tutto rispondente alle necessità della vita moderna?

Secondo il nostro avviso, essi sono essenzialmente due. Il primo deve consistere in una propaganda fra i nostri tecnici, tendente a far conoscere la portata delle norme vigenti nel campo urbanistico e i criteri da seguire nella loro attuazione, allo scopo di soddisfare le esigenze dei singoli aggregati edilizi senza contravvenire alla lettera della legge, ma adattando questa, per quanto è possibile, ai nuovi tempi e ai nuovi bisogni. A tale scopo di grande utilità sono senza dubbio i corsi di cultura urbanistica, sul tipo di quello fondato presso gli Istituti superiori di ingegneria e di architettura di Roma.

L'altro rimedio deve necessariamente consistere nell'emanazione di una legge generale urbanistica che sostituisca le antiquate disposizioni contenute nella legge sull'espropriazione per pubblica utilità, offrendo ai Comuni la possibilità di formare piani regolatori completi e perfetti e l'opportunità di attuarli razionalmente.

A giustificare la generale aspirazione verso norme urbanisticamente più appropriate alle condizioni attuali bastano gl'interessi estetici connessi con un conveniente assetto dell'abitato. Come, infatti, poter contribuire alla salvaguardia dell'importante patrimonio artistico e archeologico di molti nostri centri se la legge attuale non permette di tener conto di siffatta esigenza nella formazione di piani regolatori, ma solo di considerare i bisogni dell'igiene e del traffico? Come tutelare le bellezze paesistiche, che la natura ha profuso nella nostra tetra, se la legge non contempla la formazione dei piani regionali, con i quali soltanto è possibile assicurare il rispetto di una zonizzazione che vada oltre i-confini del territorio di un solo Comune? E come raggiungere questo scopo, anche entro i ristretti limiti di una circoscrizione municipale, se la zonizzazione stessa è principio sconosciuto alla nostra legge urbanistica, talché solo mediante legge speciale si è potuto finora disciplinare i vari sistemi di fabbricazione previsti dai recenti piani regolatori?

L'incompletezza delle disposizioni generali in vigore dà ragione dell'uso ormai invalso di approvare per legge ogni piano regolatore, unico mezzo per riparare alle deficienze delle disposizioni stesse. Ma evidentemente non potremo ridurci ad avere tante leggi di piano regolatore quanti sono i comuni d'Italia. Già troppi sono i provvedimenti legislativi speciali, nella cui congerie è difficile orientarsi anche al più colto fra i nostri urbanisti.

D'altra parte con una nuova e più completa legge urbanistica deve anche essere colmata la lacuna, che tuttora esiste, riguardante la precisazione dei criteri direttivi per la formazione dei Regolamenti edilizi comunali. Agli effetti del razionale sviluppo di un aggregato edilizio il piano regolatore non è tutto. La sua compilazione non esaurisce tutte le esigenze di un organismo urbano, al quale si vogliano dare sani elementi di vita. Se ci si consente un raffronto con altra arte, diremo che il piano regolatore è, nell'urbanistica, quello che in pittura è il disegno. Il disegno serve ad assicurare una opportuna distribuzione delle masse e dei piani: ma il colore, il particolare originale del quadro è dato dal pennello. Così nel campo urbanistico, il piano regolatore fissa i criteri di trasformazione o di sviluppo dell'abitato, ma i dettagli fisionomici dei singoli quartieri sono disciplinati dal regolamento edilizio. E questo che permette, nelle linee generali tracciate dal piano regolatore, di mantenere l'unità di direttive, senza la quale il piano regolatore è praticamente annullato. È questo solo che impedisce che il tracciato solenne e maestoso delle vie venga tradito da costruzioni inadeguate, o troppo meschine o troppo sfacciate: che il beneficio di spazi liberi e di parchi pubblici, disegnati perché la città respiri, venga in pratica neutralizzato dalla fabbricazione di case antigieniche; che l'intensità delle costruzioni in determinati quartieri annulli le precauzioni prese nel piano regolato re per assicurare al traffico un andamento normale.

Attualmente così delicata materia è pressoché lasciata in balia dei Comuni, poiché il regolamento esecutivo della Legge comunale e provinciale, nel disciplinare la compilazione dei regolamenti edilizi, si limita a circoscrivere il campo nel quale essi possono spaziare, e due circolari, una del Ministero dei Lavori Pubblici e una del Ministero dell'Interno, ambedue vecchie e in molte parti contrastanti fra loro, forniscono criteri invero molto arretrati circa la formazione di queste importanti norme urbanistiche locali. Siamo perciò in condizioni tutt'altro che propizie nei riguardi di un severo controllo delle costruzioni: e ad assicurarlo in modo conveniente nuove disposizioni generali occorrono, orientate sul principio dell'etica fascista, che vuole rispettato il diritto sacro della proprietà privata, ma non permette che il ius utendi attribuito al proprietario trascenda in un colpevole ius abutendi, raramente vantaggioso per il soggetto che vi si abbandona, sempre assai dannoso per gli interessi della collettività.

La necessità di un'ondata rinnovatrice nel campo della legislazione urbanistica balza, del resto, evidente dall'esempio di quanto è stato fatto in tutti gli Stati europei, compresi quelli di recente formazione.

In Inghilterra la legge urbanistica del 1919, benché relativamente recente, è stata aggiornata due volte: col «Town Planning Act» del 1925 e col «Town and Country Planning Act» del 1932.

In Francia si sono avute nell'ultimo ventennio le leggi generali urbanistiche del 24 marzo 1919 e del 19 luglio 1924.

In Prussia dopo la legge sui piani di allineamento del 1875 sono state emanate la cosiddetta legge Adickes del 28 luglio 1902 sulle lottizzazioni, le leggi 2 giugno 1902 e 15 luglio 1907 contro il deturpamento degli abitati, nonché le leggi del Reich 28 marzo 1918 sulle abitazioni e 6 giugno 1931 per la tutela dell'economia tedesca, che contengono anch'esse un aggiornamento delle norme urbanistiche.

In Sassonia la legge generale urbanistica del 1° luglio 1900, generalmente considerata la migliore del mondo, anche se contenente troppo dettagliate disposizioni, è stata modificata con le leggi 20 maggio 1904 e 20 luglio 1932 per venire incontro alle nuove esigenze relative all'assetto degli abitati.

In Baviera l’ordinanza edilizia del 2 ottobre 1863 è stata in progresso di tempo sostituita da quelle in data 30 agosto 1877, 31 luglio 1890 e 17 febbraio 1901, completata quest'ultima dall'ordinanza del 3 agosto 1910 sugli allineamenti e dalla legge del 4 luglio 1923 sulla disciplina della sistemazione di zone inedificate.

In Olanda la legge urbanistica del 22 giugno 1901, impropriamente chiamata «Legge sulle abitazioni» è stata modificata nel 1921 e completata nel 1931 con disposizioni riguardanti la formazione di piani regionali.

In Isvezia le precedenti disposizioni generali in materia urbanistica sono state aggiornate con legge 29 maggio 1931 e uguale aggiornamento è stato operato in epoca recente in Norvegia con legge 22 febbraio 1924.

In Polonia nuove disposizioni generali in materia urbanistica sono state dettate con decreto-legge del Presidente della Repubblica in data 16 gennaio 1928.

In Jugoslavia una legge urbanistica informata a principì modernissimi è stata emanata il7 giugno 1931.

In tutta Europa, quindi, per tacere delle altre parti del mondo, un'attività legislativa modernizzatrice si è svolta, in questi ultimi anni, nel campo urbanistico, partendo dal presupposto che norme intese a disciplinare la sistemazione dell'ambiente dove la vita di una collettività deve svolgersi non possono essere influenzate dalle modificazioni sostanziali verificatesi nei mezzi e nei modi di soddisfazione dei bisogni umani.

In Italia, invece, se numerosi sono stati i provvedimenti di eccezione per Comuni singoli, la legge generale urbanistica è rimasta quella del 25 giugno 1865, che regola insieme I'espropriazione per pubblica utilità e la formazione dei piani regolatori. Ciò significa che, all'epoca delle automobili-razzo e degli aeroplani capaci di attraversare in poche ore gli oceani, lo sviluppo degli abitati è regolato ancora con norme pensate, discusse e approvate quando non esisteva nemmeno la bicicletta!

La necessità di eliminare questa incongruenza lasciataci in eredità dai regimi passati è stata perfettamente compresa dal Governo Fascista. Infatti nel nuovo testo unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934, nella cui compilazione il Governo era autorizzato, sentito il Consiglio di Stato, a modificare e a integrare le disposizioni di legge emanate in materia sanitaria, è stata inserita all'art. 230 la seguente disposizione: «Sono sottoposti al parerei del Consiglio superiore di Sanità i piani regolatori generali dei Comuni, i piani regolatori particolareggiati dei Comuni, tenuti per legge alla compilazione del piano regolatore generale ed i regolamenti edilizi dei Comuni predetti».

Si parla qui di piani regolatori generali e di Comuni tenuti per legge a compilarli: ma sta in fatto che ne la legge del 1865 ne le altre posteriori contengono disposizioni in proposito. Solo Leggi speciali sono state finora emanate, non per imporre la compilazione di piani generali bensì per approvare quelli compilati di loro iniziativa dai Comuni interessati e che in base alla legge 1865 non avrebbero potuto riportare l'approvazione per Decreto Reale.

Come si spiega, dunque, la norma contenuta nell'art. 230? Forse i compilatori del Testo Unico e lo stesso Consiglio di Stato ignoravano le norme urbanistiche generali in vigore in Italia? Tutt'altro! La ragione, molto chiara e semplice, è fornita dalla circolare interpretativa diramata dal Ministero dell'Interno (Direzione Generale della Sanità) il 20 agosto successivo. In essa è detto che l'art. 230 «riporta le disposizioni dell'art. 22 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 2889, modificate in modo da essere armonizzate con le disposizioni contenute nel progetto di legge urbanistica generale, predisposto dal Ministero dei Lavori Pubblici ed in corso di approvazione».

Possiamo quindi considerare la predetta norma come l'araldo annunziatore della tanto invocata legge urbanistica, la quale provvederà a regolare in modo completo la trasformazione e lo sviluppo dei centri abitati: e questo ci permette di guardare all'avvenire urbanistico dei nostri Comuni con la fiducia in uno stato di cose assai migliore dell'attuale. Infatti con l'emanazione di norme generali più appropriate alle esigenze della vita moderna non solo sarà eliminato una stato di incertezza, che è incentivo a programmi edilizi mirabolanti o è causa di inerzia assoluta, ma sarà portato un notevole contributo a quel processo di meditata evoluzione legislativa, che ha caratterizzato fin dal suo inizio l'attività del Regime Fascista e che ha condotto l'Italia in tutti gli altri campi alla avanguardia delle Nazioni più progredite.

L’affermazione di una certa idea di urbanistica, e di piano regolatore, è il risultato di un conflitto, che si sviluppa in Italia parallelamente al trionfo del fascismo, ed insieme il frutto di una precisa scelta “politica” tra due opzioni. La storia della legge urbanistica nazionale, che introduce l’idea di piano generale esteso indefinitamente nel tempo e nello spazio, è insieme anche la storia del prevalere di un’opzione su un’altra, e del sostituirsi di nuove contraddizioni a quelle antiche, che avevano generato il conflitto.

Negli anni del primo dopoguerra, cresce l’interesse per le città, per il loro futuro, per le strategie da adottare e le relative conoscenze scientifiche e tecniche da mettere in campo. Due punti di vista si fronteggiano. Da un lato un approccio vicino alle esigenze dei municipi, attento alla multidisciplinarità, ma che eredita le “colpe” di una cultura accusata di essere burocratica, tecnicista, poco sensibile alla storia e alle istanze sociali emergenti. D’altro canto, gli architetti, portatori di un punto di vista maturato lentamente a cavallo tra i due secoli, ma che ora ha una nuova legittimazione professionale, che intende allargare al campo della città nel suo insieme. [1] Chiameremo urbanismo l’approccio municipalista allo studio della città, per distinguerlo dalla urbanistica degli architetti.

La Mostra di Attività Municipale di Vercelli del 1924 [2], o il congresso di “urbanesimo” di Torino del 1926 [3], sono occasioni di visibilità e rilancio dell’ urbanismo. A Torino il segretario comunale Silvio Ardy propone una scuola/associazione di funzionari a scala nazionale, [4], e parallelamente su iniziativa di Cesare Albertini si costituisce a Milano con riconoscimento internazionale la Associazione Nazionale per l'Abitazione e i Piani Regolatori[5].

Semplificando al massimo, l’ urbanismo si articola secondo dodici linee di azione, tante quante dovrebbero essere le sezioni dei servizi tecnici comunali [6]. In questo spazio si colloca l’azione delle varie professionalità, interne o esterne all’amministrazione ma con ruoli ben distinti, ferma restando la centralità del ruolo decisionale politico. L’unitarietà di azione è quindi da ricercarsi nell’equilibrio con cui i vari aspetti progettuali e gestionali si collocano via via nel processo di attuazione, piuttosto che nella sola “organicità” di un’idea prefigurata di spazio fisico.

Al “dodecalogo” dell’ urbanismo, Gustavo Giovannoni indirettamente contrappone in un “decalogo” l’idea di piano degli architetti/urbanisti: piano regionale; piano regolatore generale comunale; piano dei quartieri di espansione; piano di diradamento e valorizzazione del centro storico; distribuzione delle funzioni per zone; coordinamento del piano stradale e di azzonamento con un piano del traffico [7]. Sono gli elementi base della “ricetta” che si sta imponendo nell’approccio alla città, e negli anni a venire sarà perfezionata, prima nel Bando tipoper concorsi di piano regolatore, poi nel dibattito per la legge urbanistica.

La prevalenza dell’ urbanistica sull’ urbanismo ha sanzione ufficiosa al XII Congresso Internazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori, convocato a Roma sul tema dei centri antichi nel 1929. L'intervento di Cesare Chiodi ben riassume lo stato del dibattito nazionale: buone intenzioni, rare esperienze concrete, nessuna azione istituzionale. Oltre e sopra i confini amministrativi, agiscono le forze economiche, occorre affrontare la questione spostandola dalla scala comunale a quella metropolitana [8]. La “regione” posta da Giovannoni in apertura al suo decalogo diventa così elemento costante di riferimento, senza che si discuta delle questioni amministrative, o semplicemente geografiche. Questi temi, affrontati a Torino nel 1926, resteranno, semplicemente, in sospeso.

Resta comunque, ancora da tradurre in legge qualunque idea di piano, regionale e non, diversa da quella del 1865, via via definita e innovata per frammenti, in modo insoddisfacente, a definire un piano tutt’altro che “generale”. Gli studi sulla riforma dell'esproprio per pubblica utilità, pubblicati nel 1928 [9], deludono la cultura urbanistica italiana. Ci si aspettava uno stimolo a procedere in direzione almeno di un abbozzo di legge “urbanistica”, ma lo sviluppo delle città è quasi ignorato dai legislatori [10]. Appare evidente che per la legittimazione della disciplina uno stretto collegamento con i meccanismi gestionali rappresenta una tara: molto meglio scorporare le norme sui piani regolatori da quelle sull’espropriazione, e affermare almeno in linea di principio la nuova idea di città [11].

Gli urbanisti ritengono improcrastinabile una legge generale, meglio se modellata sul “decalogo” disciplinare. Solo per fare un esempio pratico di questa urgenza, a cinquant’anni dal dibattito sul risanamento di Napoli esiste ancora all’ordine del giorno una urgente questione igienica urbana, al punto che «si comprende come l'urbanista e il medico sociale siano dei veri alleati» [12]. Il tema della città “malata”, richiama la questione del decentramento, dei relativi piani regionali: unico concreto strumento di bonifica, attraverso la modernizzazione delle campagne e l’eliminazione del divario tra le qualità della vita [13]. Una singolare proposta in questo senso, è quella sostenuta da L’Industria, che propone, né più né meno, un modello decentrato per company towns[14]. È un’interpretazione nemmeno troppo forzata del pensiero di Giovannoni: là dove nelle «Questioni urbanistiche» si indicava la centralità dell’impresa nel determinare il successo o il fallimento di un piano, ora L’Industria propone l’interesse privato anche come promotore/controllore dello sviluppo. In questo contesto nasce l’Istituto Nazionale di Urbanistica, e si emargina in buona parte l’ urbanismo, centrato sulle professionalità interne ai municipi. Contemporaneamente, assumono grande visibilità i concorsi di piano regolatore, le prime realizzazioni nei centri cittadini, e nei nuclei di fondazione, la richiesta di una legge. Su quest’ultimo aspetto, si concentra la maggior parte delle aspettative.

Istituzioni e associazioni lavorano alacremente [15], sostenute dal ministro dei Lavori Pubblici, Araldo Di Crollalanza, che istituisce una Commissione ad hoc[16] con il compito di dare forma di articolato alla nuova idea di città e di urbanistica [17], Il piano della città moderna, della città fascista, dovrà articolarsi secondo tre zone distinte: l’area edificata, indicando le trasformazioni degli spazi saturi e di quelli ancora disponibili; l’espansione, studiando in base all’incremento demografico le linee generali dei nuovi quartieri; l’area rurale, soggetta o meno a futura urbanizzazione. Né più, né meno, che lo schema di massima del “decalogo”, o di uno qualunque dei bandi di concorso che le riviste pubblicano ogni mese. Uno schema di ampio respiro che accoglie, anche se in forme piuttosto confuse, l’idea di regional planning[18], per lo sviluppo delle grandi reti infrastrutturali, il sistema dei centri minori, la localizzazione produttiva, la tutela ambientale. Le aspettative dell’INU sulla legge urbanistica, però, devono fare i conti con le necessità di carriera politica del suo maggiore sponsor: per evitare un controproducente scontro con interessi confliggenti (militari, industriali, ferrovie), Crollalanza ritira il progetto.

Fallito il primo approccio istituzionale, l’urbanistica punta sull’ampliamento del consenso sociale. I concorsi di piano regolatore si trasformano in una sorta di laboratorio, e la città italiana sembra vivere soprattutto sulle pagine delle riviste specializzate dove si restringe lo spazio dedicato alle questioni teorico/istituzionali, mentre si dilata e ristruttura quello dedicato alle singole città, alle mostre degli elaborati presentati ai concorsi, alle spigolature dei giornali locali [19]. Questa strategia, anche se in piccolo, necessita di strumenti normativi e di unificazione nazionale, come il Bando Tipo per concorsi di piano regolatore, e l' Annuario delle Città Italiane[20], per il controllo qualitativo dei piani, e una relativa garanzia “scientifica” nell’impostazione.

La neonata urbanistica rurale convive con l’idea secondo cui «L'urbanesimo è il fenomeno che accompagna l'ascendere della nostra civiltà e l'intensificazione di tutte le manifestazioni umane ... annientarlo vorrebbe dire retrocedere» [21]. Ma l’antiurbanesimo sarà il tema centrale, se non altro per visibilità, al primo Congresso nazionale INU, convocato a Roma nel 1937 [22]. Anche l'intellettuale progressista Giuseppe Bottai, propone «l'urbanistica come antiurbanesimo, come antidoto dell'urbanesimo» [23]. In generale, il Congresso potrebbe apparire il sintomo di uno stallo nel dibattito. La stessa urbanistica rurale è presentata come «sistemazione igienico-edilizia e organizzazione dei servizi pubblici nella campagna nell'ambito del piano regionale» [24]: definizione ineccepibile, ma piuttosto generica in una sede di dibattito specializzato. Ma va considerato che il senso del congresso è, soprattutto, politico. Le forze tecniche e culturali italiane si contano: ai funzionari, accademici e professionisti, si affiancano ora amministratori, tecnici, intellettuali, la pubblica opinione più informata.

Con accresciuto potere contrattuale, si invoca l'approvazione della legge nazionale che ora, indipendentemente dai contenuti, appare anche come spazio di interazione delle diverse anime della cultura urbanistica cresciute in questi anni. È del 1938 un significativo cambio di “nome”: visto che la dizione “piani regionali” disturba la cultura centralistica di qualche gerarca, ci si affretta a ribattezzarli “territoriali” [25], senza chiarirne ancora una volta estensione e autorità preposte.

La fine degli anni Trenta sancisce il ritorno dei temi istituzionali al centro del dibattito [26], ma anche una vera e propria rivincita della città, ovvero dei temi che oltre la cortina fumogena dell’antiurbanesimo occupano la maggior parte delle ragionevoli aspettative professionali. Basta osservare, ad esempio, la Tavola sinottica dell'urbanistica che Piero Bottoni propone alla Triennale [27], e l’interpretazione del tema del decentramento nel Piano provinciale per l'abitazione operaia[28], che della tavola è figlio legittimo, per toccare con mano il nocciolo di buona parte della cultura del piano italiana. Non borghi rurali né idilli pastorali, ma immagini decisamente urbane, pur nella logica della bassa densità, dell’integrazione agro-industria, insomma di quanto intelligentemente era stato definito intercittà al congresso INU. I centri urbani, anche quelli medi, crescono in termini di popolazione, e di ruolo, e questo non scandalizza, anzi è considerato dagli operatori economici tutto sommato un buon segno [29]. Critica Fascista, diretta da Giuseppe Bottai, esamina la questione urbana, con una serie di articoli dedicati alla «funzione sociale dell'urbanistica», ospitando tra gli altri due contributi di Vincenzo Civico, che ripercorrono l'intero arco del rapporto tra deurbanamento, ideologia, sviluppo economico, e recuperano i temi della localizzazione industriale e del piano regionale [30]. Non sembra più l’epoca della Urbanistica Rurale = Urbanistica Fascista, come Civico stesso aveva intitolato un suo intervento nel 1937. Ora, molto più ragionevolmente, egli sostiene che un piano deve tenere massimo conto delle attività produttive e della scala a cui operano le maggiori forze economiche. Finita l’epoca della radicalità, dei proclami, è il momento del realismo e della contrattazione, come ben sa l’ingegner Giuseppe Gorla, neoministro dei Lavori Pubblici che ha deciso di farsi carico dell’antico progetto Di Crollalanza per una legge urbanistica nazionale.

Riecheggiano le precisazioni del decalogo giovannoniano: «non sono gli ingegneri o gli architetti a dar vita ad un piano regolatore, ... ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie» [31]. A queste “provvidenze” e “combinazioni”, come aveva imparato Crollalanza e come ben sa Gorla, si aggiunge l’intreccio di interessi pregiudizialmente contrari all’idea di piano sottesa alla legge urbanistica. Ma al contrario del Crollalanza, politico “puro”, Gorla è indirettamente coinvolto nella cultura urbanistica, e ritiene di aver ricevuto in questo senso un mandato pieno [32]. Così, pur tra numerosi conflitti, non solo si affermano i principi generali già maturi nel progetto del 1932, ma la struttura della legge arriva a coincidere quasi perfettamente con il decalogo del Giovannoni, con gli schemi dei bandi di concorso, insomma con la raffigurazione del piano ideale, così come almeno quindici anni di dibattito hanno contribuito a perfezionare. Ma, insieme a questa struttura, la legge si porta appresso anche una tara ideologica, figlia tra l’altro anche dei conflitti che, alla fine degli anni Venti, avevano visto l’ urbanismo municipalista sconfitto dall’ urbanistica dei professionisti. Forse anche a questa tara è da attribuirsi l’isolamento che circonda la legge dopo l’approvazione e che proseguirà [33]: «una legge che si ponga al di là dei traguardi già conseguiti dai conflitti sociali ... è destinata a rimanere sulla carta» [34].

NOTE

[1] Cesare Chiodi, ritiene che non sia possibile «concepire l’Urbanismo come un dominio esclusivo dell’architetto o del costruttore di città … Il problema è più vasto, si estende a tutte le condizioni infinite dell’esistenza umana, e principalmente – ma non esclusivamente – nelle agglomerazioni sovrappopolate e pulsanti che l’industria sviluppa sotto i nostri occhi». Cesare Chiodi, «Per la istituzione di una scuola di urbanismo», La Casa, febbraio 1926, p. 81. Commentando questo e altri tentativi di reazione (i vari convegni che negli anni Venti si organizzano soprattutto al nord per un’urbanistica non egemonizzata dagli architetti), è stato osservato che «prende … corpo lungo il fronte Torino-Vercelli-Milano l’ultima offensiva ufficiale contro le “teorie estetizzanti degli architetti” e del “loro preteso dominio sulle questioni urbanistiche”. Ma i “giochi” si decideranno a Roma». Guido Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1885-1942), Jaca Book, Milano 1989, p. 141. Lo stesso scontro ideologico e professionale, esteso all’intero arco della formazione e professione dell’architetto, è la tesi di: Paolo Nicoloso, Gli architetti di Mussolini. Scuole e sindacato, architetti e massoni, professori e politici negli anni del regime, Franco Angeli, Milano 1999.

[2] Cfr. Cesare Albertini, «L’attività municipale a Vercelli», Le Vie d’Italia, dicembre 1924; «La premiazione alla prima Mostra italiana di attività municipale», Il Rinnovamento Amministrativo, n. 2, 1925

[3] Cfr. «Congresso di Urbanesimo a Torino, La Casa, marzo 1926.

[4] Cfr. Silvio Ardy, Proposta di creazione di un Istituto di Urbanesimo e di Alti Studi Municipali, Congresso Internazionale dell’Urbanesimo, Torino, 28 maggio 1926, IV Tema, S.AV.I.T., Vercelli 1926. La critica più radicale a questo progetto, e insieme una proposta alternativa (e vincente): Alberto Calza Bini,Per la costituzione di un Centro di Studi Urbanistici in Roma, Estratto dagli Atti del I Congresso Nazionale di Studi Romani, Roma 1928.

[5] Cfr. Cesare Albertini, «L'Associazione Nazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori», La Casa, maggio 1926

[6] Anche se certo non riassume la complessità dell’urbanismo, la ripartizione in dodici sezioni può essere presa a utile metro di paragone. Cfr. Silvio Ardy, «Rassegna Urbanistica», Grande Genova, gennaio 1928

[7] Cfr. Gustavo Giovannoni, «Questioni urbanistiche», L’Ingegnere, gennaio 1928. Giovannoni osserva anche che «A veder bene, non sono gli ingegneri o gli architetti a dar vita ad un piano regolatore, più o meno ben disegnato; ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie ne rappresentano il vero elemento dinamico che ne avvia l'attuazione, non solo nello spazio, ma anche nel tempo, con un ordine di successione che può secondare o può annullare il concetto informatore del piano stesso». È un indiretto ma esplicito riconoscimento delle ragioni profonde della cultura “gestionale” dei municipalisti, ma questo apparentemente ovvio realismo rappresenta una posizione niente affatto scontata, anzi piuttosto isolata nella cultura degli architetti dell’epoca. Cfr. Paolo Avarello,Cinquant'anni di legge urbanistica in Italia, in ANCE, La città del futuro - nuove regole per la crescita urbana, ANCE, Roma 1993

[8] Cfr. Cesare Chiodi, Lo sviluppo periferico delle grandi città in Italia, in Atti del XII Congresso Internazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori, Vol. I, International Federation for Housing and Town Planning, Roma 1929

[9] Cfr. Commissione Reale per la riforma della legge sulla espropriazione per pubblica utilità, Progetto di legge sulle espropriazioni per il pubblico interesse e sulle requisizioni, Libreria del Provveditorato Generale dello Stato, Roma 1928

[10] Cfr. Virgilio Testa, Dispense del corso di «Legislazione Urbanistica», Facoltà di Architettura dell'Università di Roma, Anno accademico 1933-34

[11] Cfr. Edile, «La nuova legge sulle espropriazioni», La Casa, settembre 1928

[12] Guido Salvini, «Tubercolosi e urbanesimo», in Atti del II Congresso Internazionale di Tecnica Sanitaria e Igiene Urbanistica, Reale Società di Igiene, Milano 1931, p. 179

[13] Cfr. Cesare Chiodi, «Zone fabbricate e spazi liberi nello studio dei piani regolatori», ivi

[14] Gustavo Bullo, «Sui benefici dell'obbligatorietà dei piani regolatori», L'Industria, gennaio (I) e febbraio (II) 1931

[15] In dettaglio: «Le proposte della Sezione piemontese dell'Istituto Nazionale di Urbanistica per l'inchiesta promossa per lo studio della nuova Legge sui Piani Regolatori», Urbanistica, VI, 1932; «Studio dell'Ingegner Cesare Albertini, dirigente dell'Ufficio Urbanistica del Comune di Milano», Concessioni e Costruzioni, n.8, 1932 (articolo riportato anche su La Casa, novembre 1932, col titolo: «Per una legge sui piani regolatori»); «Intorno alla nuova legge sui piani regolatori», Architettura, ottobre 1932 (anche su L'Ingegnere, settembre 1932, col titolo: «Proposte in merito alla nuova Legge sui Piani Regolatori»); Federazione Nazionale Fascista della Proprietà Edilizia, Sulla disciplina giuridica dei Piani Regolatori, 2 Voll. Roma 1932; Sullo studio della FNFPE, si veda Cesare Albertini: «Per una nuova Legge sui Piani Regolatori», La Casa, aprile 1933

[16] Sulla figura di Crollalanza, e i suoi rapporti con la disciplina urbanistica Cfr. Rosa Angela Làera, Carmela Riccardi, Pianificazione urbana e territoriale nella politica di regime di Araldo di Crollalanza, in Giulio Ernesti (a cura di), La costruzione dell'utopia, Ed. Lavoro, Roma 1988

[17] In questo senso, ho dato conto alcuni anni fa della relazione generale, pubblicandone alcuni stralci ne «Dall’utopia alla normativa. La formazione della legge urbanistica nel dibattito teorico», Bollettino DU, n. 4, 1984; ora lo stesso saggio è riportato in G. Ernesti, op. cit. Anche la relazione è stata nel frattempo pubblicata integralmente, insieme ad altri documenti coevi, su Le riforme possibili. Le proposte dell’INU per la legislazione urbanistica a partire dalla formazione della legge del 1942, a cura di Luigi Falco, Urbanistica Quaderni, n. 6, 1995

[18] Cfr. Virgilio Testa, «Necessità dei piani regionali e loro disciplina giuridica», Urbanistica, luglio 1933

[19] Cfr. Lucia Nuti, Roberta Martinelli, Le città di Strapaese, la politica di fondazione nel Ventennio, F.Angeli, Milano 1981. Un importante osservatorio, per comprendere la trasformazione del dibattito sulle città, è la rubrica «Notizie e commenti di urbanistica», che Vincenzo Civico cura in questi anni sulle pagine de L'Ingegnere

[20] Il Bando Tipo è pubblicato su Urbanistica IV, 1933, con aggiornamenti in Vincenzo Civico, «Per la disciplina dei concorsi di piano regolatore», L'Ingegnere, gennaio 1935; l'Annuario delle città italiane, in due volumi di cui uno di appendice statistica, è pubblicato a cura dell'INU nel 1935

[21] Achille Bassetti, Le città giardino nei loro aspetti economico – igienico – sociale, in Atti del Convegno Lombardo per la Casa popolare nei suoi aspetti igienico-sociali, Reale Società di Igiene, Milano 1936, p. 125

[22] I pareri non sono unanimi, a questo proposito. Per esempio, Giorgio Ciucci sostiene che «Il tema dei piani regolatori e dei relativi vantaggi economici fu la questione centrale del congresso, alla quale erano collegate quelle dell’urbanistica coloniale e dell’urbanistica rurale», Giorgio Ciucci, Il dibattito sull’architettura e la città fasciste, in Storia dell’arte italiana, Parte seconda, dal Medioevo al Novecento, Volume terzo, il Novecento, Einaudi, Torino 1982, p. 371. È comunque certo che la grande mole ed estensione qualitativa dei temi e degli interventi consente molteplici letture del congresso

[23] Giuseppe Bottai, Discorso inaugurale, in Atti del I Congresso Nazionale di Urbanistica, INU, Roma 1937, Volume II, Discussioni e resoconto, p. 4

[24] Enzo Fidora, Scipione Tadolini, Mario Zocca, Criteri basilari per l'inquadramento dell'elemento rurale nel piano regionale, ivi, Vol. I, Parte II, Urbanistica Rurale, p. 53. Un po’ polemicamente, qualcuno si chiede anche: «Come si può far rientrare nell'etichetta di urbanistica il programma mussoliniano della casa pei contadini?», «Alcuni rilievi sull'urbanistica rurale», Concessioni e costruzioni, n.8, 1937

[25] Cfr. Vincenzo Civico, «Progressi dell'urbanistica italiana: dai piani regionali ai piani territoriali», L'Ingegnere, aprile 1939

[26] Cfr. Armando Melis, «Dopo il Congresso di Roma», in Urbanistica, III, 1937

[27] Cfr. Piero Bottoni, Urbanistica, Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1938
bottoni_urb_sinottica

[28] Cfr. Redactor, «Un Piano Provinciale per la soluzione del problema dell'abitazione operaia», Lo Stile, marzo 1941

[29] Cfr. Giovanni Balella, «L'industria nell'Italia fascista», Concessioni e Costruzioni, gennaio 1940

[30] Cfr. Vincenzo Civico, «L'urbanistica come problema nazionale», Critica Fascista, marzo 1942; «Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione», idem, maggio 1942

[31] Gustavo Giovannoni, «Questioni urbanistiche», cit., p. 9

[32] Cfr. Giuseppe Gorla, L'Italia nella Seconda Guerra Mondiale - Diario di un milanese Ministro del Re nel Governo di Mussolini, Baldini & Castoldi, Milano 1959

[33] A metà degli anni Cinquanta, un dirigente della Democrazia Cristiana, introducendo un convegno sui piani regionali, attribuirà - innocentemente quanto significativamente - al progetto professionale degli architetti, più che a una scelta politica del fascismo, la legge del 1942. Cfr. Atti del convegno internazionale sulla pianificazione provinciale e regionale (Passo della Mendola 3-7 novembre 1955), pubblicati a cura della Camera di Commercio di Trento

[34] Marco Romano, L'urbanistica in Italia nel periodo dello sviluppo - 1942-1980, Marsilio, Venezia 1980, p. 26

1. Le fonti della prima legislazione urbanistica italiana vanno cercate negli ordinamenti degli Stati preunitari, in particolare di quelli che avevano subito in misura maggiore l’influenza francese. E’ il caso degli statuti murattiani che prevedevano, tra l’altro, l’acquisto da parte del comune di tutte le aree comprese nei piani; quelle edificabili erano concesse ai privati mediante il pagamento di un canone trentennale [1].

Nello Stato unitario, com’è noto, la prima disciplina relativa ai piani regolatori è contenuta nella legge del 1865 sulle espropriazioni per pubblica utilità (legge 25 giugno 1865, n.2359). Erano previsti due tipi di piano: il piano regolatore edilizio e il piano di ampliamento (capi VI e VII della legge). Il primo, consentito soltanto per i comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, concerneva l’abitato esistente, e aveva lo scopo di migliorarne la disposizione dal punto di vista dell’igiene e del traffico; doveva anche contenere “le linee da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell’abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifizi, per raggiungere l’intento”. Il piano di ampliamento riguardava invece la formazione di nuovi quartieri, secondo un programma di progressivo sviluppo, assolvendo anche a funzioni di carattere estetico (sicura, comoda e decorosa disposizione dell’abitato). Ambedue i piani erano adottati dal consiglio comunale e approvati con decreto reale, avevano una durata limitata nel tempo, non più di venticinque anni, la loro approvazione equivaleva a dichiarazione di pubblica utilità e comportava per i proprietari dei terreni e degli edifici in essi compresi l’obbligo di uniformare le ricostruzioni, le trasformazioni di edifici esistenti e le nuove costruzioni alle linee indicate nei piani medesimi.

“Tali piani erano in sostanza dei piani di allineamento modellati su quelli codificati dal diritto napoleonico, per il quale le linee tracciate dal piano avevano l’effetto di sottoporre i terreni non costruiti all’immediato arretramento, se aperti, alla servitù non aedificandi, se recintati, ed i terreni costruiti al divieto di lavori atti a prolungare la durata dei fabbricati. Tuttavia la legge del 1865 prevede due istituti che – modellati anch’essi sulla legislazione francese – meritano di essere sottolineati per il loro contenuto innovatore: l’espropriazione per zone (articolo 22) e l’imposizione dei contributi di miglioria (articolo 77)” [2]. La prima norma consente di estendere l’espropriazione non solo alle aree strettamente necessarie alla realizzazione dell’opera pubblica prevista, ma anche a quelle attigue. Disposizione analoga consentì in Francia la realizzazione di opere pubbliche “che colpiscono l’immaginazione per la loro magnificenza”, mentre nel Belgio (in cui tale disposizione mancava) “si riuscì ad avere costruzioni meschine e talvolta prossime all’assurdo” [3].

Le disposizioni in materia di urbanistica della legge del 1865 ebbero scarsa applicazione e furono sostituite da leggi speciali, una per ciascun nuovo piano regolatore: furono quasi cinquanta gli strumenti urbanistici approvati in tal modo, fra i quali ricordiamo: il piano di Giuseppe Poggi per Firenze capitale (1865), i piani per l’espansione di Roma di Alessandro Viviani (1873, 1892), di Edmondo Saint-Just di Teulada (1911, al tempo dell’amministrazione di Ernesto Nathan), il piano di risanamento di Napoli (1885, dopo il colera), il piano di Milano di Cesare Beruto (1889). Nel 1935 risultava che, dei 93 capoluoghi di provincia, 32 disponevano di un piano regolatore approvato e 47 lo stavano predisponendo, solo 13 non avevano affrontato la questione urbanistica [4].

Negli anni del fascismo la tecnica urbanistica si era perfezionata, i nuovi piani regolatori (sempre approvati con leggi speciali) adottarono forme evolute di elaborazione e di rappresentazione. Alcuni sono piani moderni e convincenti, e i provvedimenti di approvazione anticipano la legge del 1942, ispirandosi ad alcuni principi uniformi, fra i quali vanno ricordati:

la distinzione fra piano regolatore di massima e piano particolareggiato: il primo contenente direttive e criteri generali, il secondo tendente a sviluppare e a dettagliare le direttive;

il ricorso allo strumento dell’espropriazione per attuare le sistemazioni previste;

il divieto di procedere, al di fuori dei limiti del piano regolatore di massima, a lottizzazione di terreni.

In alcuni casi operano disposizioni più radicali di quelle della stessa legge del 1942. Per esempio, la legge di approvazione del piano regolatore della città di Roma del 1931 prevede l’esproprio delle aree fabbricabili comprese nei piani particolareggiati anche prima dell’approvazione degli stessi piani. Anche per quanto riguarda la “forma” del piano, in quegli anni si raggiungono risultati ragguardevoli. Cito per tutti il piano regolatore di Napoli approvato nel 1939 e, per alcuni aspetti di cui trattiamo in seguito, il piano di Roma del 1941. Il piano di Napoli del 1939 è forse il miglior piano di cui sia stato dotato il capoluogo campano [5]. A esso collaborò Luigi Piccinato, che probabilmente ne curò la stesura. E’ accompagnato da una relazione lucida ed esauriente, che analizza la documentazione statistica disponibile, individua i problemi fondamentali della città e propone idonee soluzioni. Per segnalarne l’attualità, basta ricordare che, nella relazione, ampio spazio è riservato all’inquadramento regionale: vi si legge che le questioni della città andrebbero “proporzionate e risolte” in un piano regionale; ma ipotizzare un piano regionale, in assenza di “una ossatura amministrativa” con i necessari poteri, “rimarrebbe uno studio puramente platonico”. Nonostante questa “forzata limitazione” il piano deborda in alcuni comuni limitrofi.

Fra i risultati sicuramente positivi dell’urbanistica di quegli anni vanno ricordati almeno altri due piani ai quali anche collaborò attivamente il giovane Piccinato: mi riferisco a Sabaudia e all’E42, ampiamente documentati [6]. Le esperienze cui abbiamo accennato sono tutte precedenti alla legge del 1942 e le stese ragioni culturali e pratiche che le avevano generate sono evidentemente all’origine della legge.

2. Di una nuova legge urbanistica si era cominciato a parlare nella “Commissione reale per la riforma della legge sull’esproprio per pubblica utilità”, istituita nel 1926 dal ministro dei Lavori pubblici Araldo Di Crollalanza [7]. Il 30 aprile 1932 Di Crollalanza insediò un’apposita “Commissione ministeriale per la riforma delle disposizioni di legge sui piani regolatori” che dopo pochi mesi, nel settembre 1932, aveva già predisposto un primo “Progetto di legge sulla sistemazione e sull’ampliamento degli abitati”, cui seguì, due mesi dopo, il “Progetto di legge generale urbanistica”, probabilmente elaborato da Virgilio Testa: progetto aggiornato più volte, fino alla stesura definitiva del maggio-giugno 1933 [8]. Quest’ultimo è un testo di indiscutibile importanza, anticipatore della legge del 1942 che, anzi, per certi versi, sembra che abbia fatto passi indietro rispetto al progetto di dieci anni prima. Per esempio, per quanto riguarda il rapporto fra piano regolatore e piano particolareggiato: il piano regolatore (o “piano di massima”, secondo l’ultimo testo del 1933) rappresenta “la trama sulla quale verranno sviluppate le varie sistemazioni edilizie, perciò non crea vincoli a carico dei proprietari all’infuori dell’obbligo di osservare le linee e le norme di zonizzazione. Ad esso si dà carattere di durata illimitata com’è richiesto dalla sua funzione ed estensione. Solamente i piani particolareggiati sono qui considerati come di pronta attuazione e con efficacia da costituire vincoli veri e propri di espropriazione sulle proprietà in essi comprese” [9]. Per la disciplina urbanistica di più comuni può essere disposta la formazione di un piano regionale che comprende, tra l’altro, anche “i vincoli per la tutela di bellezze artistiche o panoramiche”.

Il progetto non riceve però l’adesione della federazione nazionale fascista della proprietà edilizia e non è approvato in consiglio dei ministri. Poco dopo Di Crollalanza è sostituito. Di legge urbanistica non si parla più per quattro anni, fino al primo congresso nazionale dell’Inu del 1937, significativamente inaugurato da Giuseppe Bottai [10]. Si ratifica allora l’alleanza fra l’ideologia corporativa e la disciplina urbanistica e ricomincia la discussione per la nuova legge. Nell’ottobre 1940, l’Inu pubblica i “Criteri fondamentali di una legge urbanistica” elaborati da una commissione presieduta da Alberto Calza Bini [11]. Il ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Gorla agisce con determinazione. Nel dicembre 1941 insedia anch’egli una commissione ad hoc che rapidamente elabora un testo di legge sottoposto al consiglio dei ministri nel marzo 1942. Interviene ripetutamente il ministero delle Corporazioni, rivendicando e ottenendo che la localizzazione dei nuovi impianti industriali potesse avvenire fuori delle previsioni degli strumenti urbanistici e altre agevolazioni. Alla Camera dei fasci e delle corporazioni e al Senato la discussione fu breve ma intensa, soprattutto fra i difensori a oltranza della proprietà e coloro che alla proprietà intendevano porre dei limiti [12]. Alla conclusione del dibattito, il ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Gorla poteva dichiarare che la legge approvata “non può far timore ai galantuomini, ma solo a coloro che, attraverso il diritto di proprietà, vogliono difendere la speculazione”.

3. La nuova legge urbanistica fu promulgata nell’agosto 1942 da Vittorio Emanuele III a Sant’Anna di Valdieri dov’era in vacanza [13]. Non si può liquidarla come una legge “fascista”. E’ invece una legge moderna, che attribuisce all’urbanistica i connotati, ancora attuali, del governo del territorio, non quelli dell’architettura su grande scala. Non è certo un caso se la legge del 1942 è in vigore ormai da quasi sessant’anni, nonostante il nuovo modello costituzionale che ha direttamente inciso sulla materia urbanistica, trasferendone le competenza dallo Stato alle Regioni (mentre così non è stato, o lo è stato solo in parte, per le leggi di tutela del 1939), mentre i tentativi di riforma si susseguono inutilmente dalla seconda metà degli anni Cinquanta.

Al centro del sistema configurato dalla legge sta l’ambizione di includere nella pianificazione urbanistica l’insieme delle forme e degli istituti funzionali al governo del territorio. Nel commento predisposto dall’Inu subito dopo l’approvazione della legge si osserva che alla “nuova legge ha presieduto adunque un concetto di integralità della disciplina urbanistica; si è ravvisata la necessità di una regolamentazione degli aggregati urbani, ma anche delle campagne; e non soltanto degli elementi strettamente planimetrici dell’organismo cittadino e della sua zona di influenza, ma anche di tutti gli altri elementi dell’attività urbana” [14]. L’urbanistica, insomma, come disciplina che si estende alla totalità del territorio e delle trasformazioni che lo riguardano.

La legge è articolata su un sistema di piani urbanistici: i piani territoriali di coordinamento, che dovrebbero indirizzare e coordinare l’attività urbanistica in determinate porzioni del territorio nazionale ed alle cui direttive dovrebbero uniformarsi i piani regolatori intercomunali e comunali; i piani regolatori intercomunali, aventi per oggetto la sistemazione urbanistica di due o più comuni contermini con particolari caratteristiche di sviluppo; i piani regolatori generali (Prg), estesi all’intero territorio comunale, di cui stabiliscono le direttive per l’assetto e lo sviluppo urbanistico; i piani particolareggiati, che precisano tali direttive con riferimento a porzioni limitate del territorio comunale, per consentire l’attuazione dei piani generali. La formazione dei piani regolatori generali è obbligatoria per i comuni indicati in appositi elenchi ministeriali, è facoltativa per gli altri comuni che, se non intendono adottare un Prg, sono obbligati a dotarsi di un programma di fabbricazione, che è una specie di Prg semplificato nei contenuti e nelle procedure di approvazione e di attuazione.

Il sistema si fonda sulla presenza congiunta dei poteri statali e comunali. Secondo la legge del 1942, l’approvazione dei piani regolatori e dei programmi di fabbricazione è quindi un “atto complesso” alla cui formazione concorrono ugualmente la volontà del comune e dell’autorità statale (il ministero dei Lavori pubblici). Soltanto i piani territoriali di coordinamento sono di esclusiva competenza dello Stato. A essi si attribuiva un’importanza decisiva nella politica del fascismo. Secondo Alberto Calza Bini, i piani territoriali sono il “vero strumento di armonica disciplina, per il quale soltanto possono ordinatamente raggiungersi gli scopi che il Regime si prefigge: l’allontanamento dei disoccupati dai grandi centri cittadini, l’equa distribuzione del lavoro produttivo su tutto il territorio nazionale, la valorizzazione e il potenziamento delle naturali risorse del suolo” [15].

L’impostazione risente evidentemente delle tecniche giuridiche elaborate in età liberale riguardo ai rapporti fra l’amministrazione centrale dello Stato e i comuni, che il fascismo esasperò assicurando allo Stato un ruolo nettamente predominante. Al riguardo fu coniato dalla dottrina giuridica il concetto di autarchia, intesa come l’insieme dei poteri attributi all’ente pubblico locale al fine di perseguire gli interessi propri dello Stato [16]. Il ruolo dello Stato è evidenziato subito, all’articolo 1, dal potere di vigilanza attribuito al ministero dei Lavori pubblici e dall’istituzione di organi periferici con la specifica competenza a controllare l’attività urbanistica e a orientarla.

Al ministero spetta anche l’approvazione dei piani regolatori, dei piani particolareggiati e dei programmi di fabbricazione e di decidere riguardo alle osservazioni e alle opposizioni. Ciò dipende, evidentemente, dall’impianto ideologico del regime ma risponde anche alla sfiducia nelle possibilità per le amministrazioni comunali di gestire il proprio territorio in autonomia senza l’intervento attivo dello Stato [17].

Altro fondamentale elemento innovativo introdotto dalla legge del 1942 è la zonizzazione, cioè la suddivisione del territorio in zone, distinte per omogeneità di destinazione edilizia. E’ una modalità conformativa della proprietà privata, già ampiamente utilizzata dai piani regolatori approvati con leggi speciali prima del 1942, cui fanno riferimento anche le leggi, immediatamente precedenti, relative ai vincoli paesistici, ai beni artistici, al vincolo idrogeologico, alle servitù militari, alla bonifica integrale. E’ proprio l’attribuzione alle autorità urbanistiche del potere di zonizzare, e quindi di conformare le proprietà private, che consente di eliminare il ricorso alle leggi speciali, una per ogni nuovo piano.

4. Il centro della politica urbanistica è sempre costituito dai dispositivi di controllo della proprietà fondiaria. Fermiamoci a considerare quest’aspetto nella legge del 1942, cominciando dalla proposta dell’Inu del 1940, dove si legge che “il possedere e liberamente disporre della proprietà terriera non come strumento di produzione e ricchezza, ma come mezzo di arricchimento e di speculazione senza lavoro e senza merito mal si concilia con la funzione sociale della proprietà. Partendo da tali premesse e dalla considerazione dell’interesse pubblico che è insito nella destinazione del terreno ad uso urbano, si è provveduto a fissare la nuova disciplina giuridica dell’intera materia delle aree urbane”. La normativa proposta dall’Inu prevedeva perciò l’espropriazione delle “aree urbane”: l’indennità si differenziava fra le aree da considerare già urbane, anche in assenza del piano regolatore, prima dell’emanazione della legge, e quelle che lo divengono successivamente. Per queste “la legge, sin dal momento della sua emanazione avverte che il proprietario in caso di esproprio riceverà il prezzo ragguagliato al puro valore di mercato che il terreno, considerato nella sua ordinaria utilizzazione agricola o industriale, avrà alla data del decreto di espropriazione […]. In tal modo ciò che non si pagherà più dall’ente espropriante sarà il plusvalore, che sulle aree urbane già esistenti al momento dell’emanazione della legge o sui terreni agricoli o industriali, si formerà in avvenire. E’ dunque soltanto la speranza di un futuro guadagno del privato che la nuova legge toglierebbe ai privati. Ma questo “futuro guadagno” del privato non è frutto dell’attività produttrice del privato stesso bensì della collettività e della pubblica Amministrazione, cui sono dovuti l’espansione dell’abitato e l’attrezzatura urbanistica” [18].

Lo stesso obiettivo è perseguito dall’articolo 18 della legge del 1942, certamente quello più incisivo sul regime di proprietà dei suoli, che consente ai comuni di espropriare, dopo l’approvazione del Prg, i terreni destinati all’edificazione nell’ambito delle zone di espansione, a un prezzo che non tenga conto degli incrementi di valore derivanti dalle previsioni del piano. Questa norma avrebbe dovuto consentire la formazione di demani comunali, strumento indispensabile per indirizzare l’espansione urbana nelle zone ritenute più idonee, esercitando al tempo stesso un’azione calmieratrice sul mercato delle aree. A proposito dell’articolo 18, il ministro Gorla dichiarò che “fino ad oggi chi ha profittato delle espansioni che hanno avuto le nostre città è stato il privato, anzi, più che il privato, lo speculatore. Lo scopo della legge è proprio quello di impedire la speculazione, non di danneggiare il privato, di togliere al singolo il vantaggio di appropriarsi di tutto il plusvalore che i terreni acquistano per i lavori eseguiti dagli enti pubblici” [19].

Su questo argomento, la riflessione più utile mi pare che sia quella di Piero Della Seta e di Roberto Della Seta [20]. Essi contestano le interpretazioni correnti circa la continuità fra l’urbanistica del fascismo e quella del primo dopoguerra sostenendo, tra l’altro, che “i governi democristiani dei primi decenni del dopoguerra nemmeno sfiorarono” i risultati che si produssero durante il fascismo, in particolare nel campo della legislazione. E ancora, “lo strapotere della grande rendita fondiaria è una novità del dopoguerra, non del fascismo”. Molto innovativa, “addirittura rivoluzionaria”, è considerata la politica del fascismo per Roma. Al riguardo gli autori ricordano il piano regolatore di massima per l’espansione di Roma verso il mare, già prima citato, approvato con regio decreto del gennaio 1941, decaduto nel 1943 per la mancata conversione in legge a causa della guerra e, probabilmente, per le proteste dei proprietari: certo è che le norme sulle espropriazioni di quel provvedimento penalizzavano la proprietà più di quelle previste da qualunque legge precedente [21], e non saranno confermate dalla legge urbanistica dell’anno successivo. Si prevedeva l’esproprio preventivo e generalizzato di tutti i 12 mila ettari appositamente perimetrati – a cavallo della via Imperiale, fino al Tevere – dov’era previsto lo sviluppo lineare della città verso Ostia che avrebbe dovuto ospitare 800 mila abitanti. Il perimetro del piano comprendeva l’E42, dove cinque anni prima erano già stati espropriati 500 ettari circa destinati all’Esposizione universale di Roma [22].

5. Se la politica fondiaria rappresenta il fondamento dell’urbanistica, la sua parte strutturale, non si devono però trascurare le altre componenti della disciplina, quelle relative alle strategie territoriali, alla forma degli insediamenti, alle conseguenze sul piano sociale, ai rapporti con l’edilizia storica, eccetera. E’ soprattutto su questi temi che si coglie l’ambiguità nota del fascismo, il contrasto fra indiscutibili elementi di modernità e ingombranti sovrastrutture retoriche: gli strumenti operativi straordinariamente efficaci del decreto del 1941, e della legge del 1942, sono a servizio dell’espansione di Roma verso il mare, una scelta urbanisticamente sbagliata, perché la più lontana dall’entroterra regionale, dalle principali reti di trasporto e inesorabilmente bloccata dalla linea di costa, destinata perciò a trasformarsi in un’altra, illimitata, direttrice di espansione perpendicolare alla prima. La scelta era, in effetti, esclusivamente ideologica, l’obiettivo era il ricongiungimento di Roma con il “suo” mare (sono gli anni in cui si consuma l’avventura etiopica).

La medesima ambiguità lega la formazione delle leggi di tutela alla pratica degli sventramenti che si sviluppa proprio in quegli anni, anch’essa prevalentemente motivata da ragioni ideologiche. Lo stesso elogiato piano di Napoli del 1939 proponeva pur limitati sventramenti e diradamenti.

6. Concludiamo con due rapide riflessioni. La prima, sul tema, ancora attualissimo, del rapporto fra la legge urbanistica del 1942 e le leggi di tutela del 1939. I progetti di legge del 1932 citati prima comprendevano, come si è detto, “i vincoli per la tutela di bellezze artistiche o panoramiche” fra i contenuti dei piani regionali. Il repentino stop imposto alla legge urbanistica nel 1933 sgomberò il campo a favore delle leggi del 1939, e del piano paesistico. Si stabilì allora una netta distinzione fra il regime delle tutele e quello delle trasformazioni urbanistiche. Distinzione che ha retto anch’essa al trascorrere degli anni e delle vicende storiche (nonostante ripetuti tentativi di riforma, e nonostante l’ambiguità dei “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali” della legge 431 del 1985).

Il doppio regime è stato convalidato dalle numerose sentenze costituzionali che si sono susseguite, con indiscutibile coerenza, dal 1968 al 1999. Né può essere posto in discussione dalla apprezzabile tendenza delle più recenti leggi regionali – e dalla diffusione, nella formazione degli strumenti urbanistici – ad annoverare le tutele fra i contenuti essenziali della pianificazione urbanistica, a considerarle anzi in guisa di condizione prioritaria agli interventi di trasformazione. In questi casi si tratta, infatti, di contenuti aggiuntivi rispetto a quelli tradizionali dell’urbanistica. Mentre resta ferma la competenza esclusiva in materia di tutela di altre figure pianificatorie e di altri poteri statali e regionali [23].

La seconda riflessione conclusiva riguarda la lunga durata della legge del 1942, cui si è già accennato prima, nonostante le evidenti incompatibilità con la carta costituzionale del 1948 e, in specie, con il profondo processo di riforma che ha avuto inizio a partire dal 1990. Si è passati da un sistema nel quale allo Stato era assegnato un ruolo di assoluta centralità a uno nel quale convivono una pluralità di centri decisionali – non solo in materia di diritto urbanistico – titolari di proprie attribuzioni. E, quindi, non solo le competenze urbanistiche dello Stato sono, evidentemente, ormai residuali, ma la stessa materia urbanistica non è più quella totalizzante pensata negli anni Trenta, non riguarda più l’ universitas dello spazio fisico, ma è subordinata a un complesso di decisioni relative ad altri interessi pubblici specializzati insistenti sul territorio: la difesa del suolo (attraverso i piani di bacino), la protezione della natura (attraverso i piani dei parchi), la tutela dei valori estetici (attraverso i piani paesistici). E, accanto a questi, gli strumenti delle politiche di settore (i piani dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, delle cave, eccetera).

La legge del 1942 è insomma sopravvissuta al suo tempo, alle condizioni storiche, istituzionali e giuridiche che l’avevano determinata. Se continua a essere in vigore è per merito della sua eccellente fattura. Ma soprattutto per l’incapacità del legislatore repubblicano di mettere mano alla riforma della materia urbanistica.

Note

[1] Camera dei Deputati, quarta legislatura, disegno di legge presentato dal ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini di concerto con altri ministri, recante Norme per una nuova disciplina della materia urbanistica, presentato alla Presidenza il 3 febbraio 1967. Atti Camera n.3774. Relazione, p.2.

[2]Ibidem.

[3] Relazione Pisanelli alla legge del 1865, citato in Camera dei Deputati, quarta legislatura, cit., p.3.

[4] Virgilio Testa, Politica e legislazione urbanistica. Cause di errori urbanistici e possibili rimedi, in Urbanistica, n.1, 1935, p.5.

[5] Cfr. Urbanistica, n.65, luglio 1976, p.5 sgg. Il piano del 1939 fu formato per iniziativa di Giuseppe Cenzato, presidente della Sme, industriale, promotore di iniziative importanti per Napoli e il Mezzogiorno (cfr. in proposito, Stefania Barca, L’etica e l’utilità: appunti sul “meridionalismo razionale” dell’ingegner Cenzato, in Meridiana, n.31, gennaio 1998).

[6] Cito solo, per Sabaudia, Riccardo Mariani, Fascismo e città nuove, Feltrinelli, 1976; per l’E42, Italo Insolera, Luigi Di Majo, L’Eur e Roma dagli anni Trenta al Duemila, Laterza, 1986.

[7] Di Crollalanza fu un protagonista, negli anni del fascismo, della politica del territorio, per usare un’espressione di oggi. Fu ministro dei Lavori pubblici dal 1926 al 1933 e poi presidente dell’Opera nazionale combattenti dal 1933 al 1939 quando si completarono la bonifica pontina e le “città nuove”.

[8] Sui lavori preparatori della legge del 1942, cfr. Pier Giorgio Massaretti, Dalla “regolamentazione” alla “Regola”: Sondaggio storico-giuridico sull’origine della legge generale urbanistica 17 agosto 1942, n1150, in Rivista giuridica dell’urbanistica, 1998, p.437 sgg. Vedi anche il saggio di Francesco Ventura, L’istituzione dell’urbanistica. Gli esordi italiani. Alfani, 1999, dov’è riportato integralmente il progetto di legge del novembre 1932 e la relazione di Virgilio Testa. Virgilio Testa (1889-1978) fu funzionario del Comune di Roma, poi del Governatorato, di cui fu nominato segretario generale da Giuseppe Bottai nel 1935; accademico di San Luca; nel dopoguerra, fino al 1973 è stato commissario dell’Eur ed esperto urbanistico della Dc.

[9] Relazione del ministro Di Crollalanza, in Massaretti, cit., p.449.

[10] L’Istituto nazionale di urbanistica era stato fondato il 25 gennaio 1930 per iniziativa dei componenti del comitato italiano per il XII Congresso internazionale dell’abitazione e dei piani regolatori – che si era svolto a Roma nell’anno precedente – utilizzando a tal fine l’avanzo di bilancio dell’iniziativa. Scopo dell’istituto era lo “studio dei problemi tecnici, economici e sociali, relativi allo sviluppo dei centri urbani e l’esame delle questioni relative all’organizzazione ed al funzionamento dei servizi pubblici di carattere municipale”. Si cercò in tal modo di recuperare il ritardo culturale dell’Italia rispetto ai paesi d’Europa più progrediti dove i problemi della pianificazione si dibattevano dall’inizio del secolo. Nel novembre del 1930 fu fondata la prima sezione, quella piemontese, che nel gennaio 1932 pubblicò la rivista Urbanistica, destinata a diventare, nell’anno successivo, l’organo ufficiale dell’istituto. Negli anni dal 1948 al 1976, quando direttore era Giovanni Astengo (1915-1990), Urbanistica raggiunse un insuperato prestigio internazionale. Nel 1943 l’Inu ebbe il riconoscimento di ente morale e di istituto di alta cultura e nel 1949 di ente di diritto pubblico. Fra i presidenti dell’Inu vanno ricordati Adriano Olivetti, Edoardo Detti, Saverio Tutino, Edoardo Salzano e Giuseppe Campos Venuti.

[11] Le proposte dell’Inu in Urbanistica, n.2, 1941.

[12] Interessante è l’esame degli emendamenti raccolti dalla legge rispetto al testo della commissione ministeriale. Cfr. Massaretti, cit., p.465 sgg.

[13] Legge 17 agosto 1942, n.1150, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 16 ottobre 1942, n.244

[14]Urbanistica, numero speciale, ottobre 1942, p.29.

[15] Alberto Calza Bini, Il “piano territoriale” come strumento della politica fascista del disurbanamento, in Urbanistica, n.1, 1941, p.3.

[16] Una ricognizione della dottrina giuridica in materia in Giorgio Berti, Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, Cedam, 1969.

[17] Lo stesso può dirsi per non rare forme di recente centralismo regionale, almeno fino a tutti gli anni Novanta, impostato su rapporti con i Comuni di tipo gerarchico.

[18]Urbanistica, n.2, 1941, cit., p.7.

[19]Urbanistica, numero speciale, cit., p.27.

[20] Piero Della Seta e Roberto Della Seta, I suoli di Roma, Editori Riuniti, 1988.

[21] L’indennità di espropriazione era ragguagliata al valore venale del terreno del 1930, capitalizzato al tasso del 4% annuo, senza tener conto di “qualsiasi incremento di valore verificatosi in dipendenza dell’approvazione del piano regolatore o dell’esecuzione di opere pubbliche”.

[22] Il ricorso all’esproprio preventivo delle aree da trasformare era pratica corrente in quegli anni, in particolare a Roma e nell’area romana. Oltre a quelli per la realizzazione di Cinecittà, della nuova università, del Foro Mussolini, dell’Eur, della zona industriale (1.500 ettari lungo la via Tiburtina), vanno ricordati gli imponenti espropri, operati senza riguardo ai proprietari, per le grandi operazioni di bonifica: più di 1.200 ettari per la sistemazione del Tevere e ben 75.000 ettari per le bonifica delle paludi pontine (Della Seta, cit., p.111 sgg.).

[23] Il perseguimento di obiettivi di tutela attraverso il piano regolatore non è recente. Basta citare il decreto del ministro dei Lavori pubblici (che era Giacomo Mancini) di approvazione del piano regolatore di Roma del 1965, quello ancora vigente, che introdusse – per “preminenti interessi dello Stato” – una modifica d’ufficio al piano adottato dal Comune, destinando a parco pubblico gli oltre duemila ettari dell’Appia Antica e della campagna circostante, da porta San Sebastiano al confine comunale. E’ bene ricordare che precedenti proposte di piano paesistico prevedevano invece l’edificabilità a cavallo della regina viarum.

Scrivo sempre la stessa cosa”. Si schermiva così Antonio Cederna quando lo chiamavi per fargli i complimenti per l’efficacia di un suo articolo che ti aveva colpito più degli altri. La voce aveva la stessa impostazione di quando declamava a memoria i brani di poesia e letteratura classica da lui più amata. E forse aveva ragione, perchè dietro ai suoi scritti e alle sue invettive appariva sempre un’identica tensione per i destini del paesaggio, del patrimonio storico e artistico italiano. Sempre la stessa cosa.

Un compito scomodo, da portare avanti controcorrente. Erano sempre in agguato gli “etichettatori” scaltri, bravi nel dipingere a tinte fosche le opinioni altrui. Così nell’immaginario di molti passava per il severo censore che diceva sempre no. L’esatto contrario della verità. E’ certo vero che da rigoroso uomo di cultura qual’era sapeva dire no. Alle fameliche speculazioni edilizie e agli sfregi al patrimonio culturale. Ma se si guarda alla sua opera è facile scorgere una grande capacità di formulare obiettivi, di fornire proposte, di disegnare orizzonti.

Fu lui, quando negli anni ’90 sedeva nella Camera dei Deputati, a presentare il più organico e convincente progetto per “Roma capitale”. Erano essenziali –ma quanto complesse!- le proposte che aveva elaborato per la città a cui dedicò molta parte della sua opera. Il parco archeologico dei Fori imperiali che vedeva come il motore del cambiamento della città. Un grande spazio nel centro della città da lasciare al silenzio indispensabile per godere dell’incomparabile stratificazione storica e culturale del luogo. Senza più automobili, senza più la tronfia offesa di via dei Fori imperiali. Un progetto che avrebbe cambiato il destino del centro storico e, insieme al potenziamento dell’offerta museale, fatto diventare Roma capitale della cultura mondiale.

Il secondo progetto riguardava la realizzazione del sistema dei parchi urbani da realizzare nelle periferie per preservare natura e storia, quell’inscindibile connubio che contraddistingue la meravigliosa campagna romana. Ad iniziare dall’Appia antica a cui, dopo decenni di denunce, aveva dedicato gli ultimi anni del suo impegno quale presidente del Parco. Ancora, il recupero delle periferie da ottenere con il trasferimento dei Ministeri dal centro storico e con la fine dell’interminabile espansione edilizia della città. Infine, la realizzazione di una moderna rete su ferro che consentisse di diminuire gli effetti devastanti sulla salute dei cittadini e sui monumenti dei due milioni e mezzo di veicoli che ogni giorno intasano le strade della città. Un grande progetto urbanistico. Cederna era un archeologo, ma la sua cultura urbana e la sua curiosità verso quanto di nuovo e di bello avveniva nelle città del mondo era ineguagliabile.

Quella stessa sensibilità e cultura che gli permisero nei primi anni ’90, quando era consigliere comunale di Roma, di proporre la realizzazione del nuovo Auditorium al Flaminio così da evitare la compromissione della più centrale area del Borghetto Flaminio su cui allora sembravano essersi concentrati unanimi consensi. O le tante proposte, non solo no, elaborate con Italia Nostra.

Dopo tanti anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 27 agosto 1996, ciascuno di noi po’ tentare un bilancio, per quanto parziale e frammentario, dell’esito delle proposte di Cederna. Cogliendo le luci, quali ad esempio la realizzazione della rete dei parchi urbani e di tanti nuovi musei, ad iniziare da Palazzo Altemps, con la collezione Ludovisi, per il quale si era tanto battuto e che non riuscì a veder completato. E vedendo le ombre, ad iniziare dalla inarrestabile espansione urbana in atto e dalla morta gora in cui sembra essersi tristemente avviato il progetto dei Fori centrali. Si può essere certi che avrebbe saputo dare atto pubblicamente dei risultati raggiunti. E continuato a battersi per far sparire le ombre. Per far affermare la cultura della tutela. A dieci anni di distanza manca la sua voce che diceva sempre la stessa cosa.

Sono passati due lustri dalla scomparsa di Antonio Cederna (Milano 1921-Roma 1996) – uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano – archeologo e critico d'arte, poi straordinario giornalista: scrisse sul settimanale Il Mondo, e poi sul Corriere della Sera e la Repubblica. Fuanche consigliere comunale di Roma e deputato della sinistra indipendente. Non è stato dimenticato, e fioriscono le occasioni per ricordarlo. Francesco Erbani ha curato per Laterza una nuova edizione di I vandali in casa, il suo libro più noto, mentre la Corte del fontego, una nuova e benintenzionata casa editrice veneziana, ha pubblicato una nuova edizione di Mussolini urbanista, presentata da Adriano La Regina e Mauro Baioni. L’Istituto beni culturali della regione Emilia Romagna sta allestendo una pubblicazione con contributi di specialisti e compagni di viaggio. La provincia di Roma, che da anni ha istituito il premio Cederna, quest’anno lo assegna a figure che nel decennio hanno operato in continuità con il suo pensiero. Mi auguro che nei prossimi mesi anche Italia nostra, l’associazione che Cederna contribuì a fondare e che frequentò ed ebbe cara più di ogni altra, riesca a organizzare un necessario convegno di studi, per raccogliere e discutere le testimonianze, i contributi e i materiali intorno alla sua eredità prodotti nell’ultimo decennio.

Il nome di Antonio Cederna, si sa, è legato soprattutto al mondo dell’urbanistica, alla tutela del paesaggio, delle antichità e delle belle arti. Si occupò specialmente di Roma, e massimamente dell’appia Antica, e si deve in larga misura a lui se la Regina viarum e il vasto territorio che la circonda si sono salvati dagli assalti degli “energumeni del cemento armato” (oppure dei “nemici del genere umano”), come chiamava gli speculatori edilizi e i loro manutengoli annidati in parlamento e nel governo, nelle pubbliche amministrazioni, nei giornali e nelle università. All’inizio degli anni Ottanta, insieme al soprintendente archeologico Adriano La Regina e all’indimenticabile sindaco Luigi Petroselli, fu protagonista del cosiddetto progetto Fori, che prevedeva lo smantellamento della via dei Fori imperiali, lo stradone costruito per volontà di Benito Mussolini – dopo aver sventrato gli antichi quartieri costruiti nei secoli sopra le rovine romane, scempio accuratamente descritto in Mussolini urbanista – affinché da piazza Venezia si vedesse il Colosseo e per fornire uno scenario imperiale alla sfilata delle truppe. Il progetto Fori prevedeva il recupero e la ricomposizione del tessuto archeologico (fori di Traiano, di Cesare, di Augusto, di Nerva, eccetera) oggi spezzato dalla strada fascista, collocando la storia e la cultura al centro della città moderna. Morto Petroselli, i sindaci che lo hanno sostituito non hanno avuto il coraggio di andare avanti. La via dei Fori è rimasta al suo posto e continua inutilmente a scaricare automobili e inquinamento nel centro della capitale, mentre le rovine romane restano racchiuse in recinti laterali, a quote più basse, come i leoni allo zoo.

Su queste pagine c’interessa però ricordare che Antonio Cederna fu anche un accanito difensore della natura e anzi, in ogni suo intervento, la denuncia del malgoverno del territorio – il tema che credo possa correttamente sintetizzare l’insieme del suo lavoro di giornalista, di scrittore, di rappresentante del popolo – comprende sempre, in un solo intreccio, il disfacimento delle città, l’abrogazione del paesaggio, la distruzione della natura, l’eliminazione dello spazio necessario alla salute pubblica, lo smantellamento dei beni culturali, la privatizzazione del suolo. Ma anche se è difficile, e forse improprio, separare per gruppi e per generi la sua attività, penso che sarebbe tuttavia utile una riflessione ad hoc sui suoi interventi destinati esclusivamente o prevalentemente alla natura. Altrettanto, e forse ancora più utile, penso che sarebbe una ricerca volta a ricostruire puntualmente il contributo che Cederna deputato della X legislatura fornì alla formazione delle due fondamentali leggi approvate negli anni che lo videro legislatore: quella per la difesa del suolo (n. 183/1989) e quella per la protezione della natura (n. 394/1991).

Per ora mi limito a ricordare La distruzione della natura in Italia (Piccola Biblioteca Einaudi, 1975), il libro di Cederna, introvabile come ogni altra sua opera, dedicato in particolare alla natura in tutti i suoi aspetti, dai parchi nazionali ai giardini, dalle montagne ai laghi, dalle paludi allo stambecco. È un libro denso di pagine e di argomenti, che raccoglie saggi inediti e articoli scritti negli anni precedenti sul Corriere della Sera. È formato da un testo introduttivo e da tre parti tematiche: un’indagine sulle condizioni (pessime) in cui versavano i parchi nazionali del Gran Paradiso, dello Stelvio, d’Abruzzo e del Circeo; un’inchiesta sugli scempi realizzati o minacciati ai danni delle coste di Toscana, Sardegna, Lazio e Campania; un’indignata denuncia, sulla mancanza di verde pubblico nelle città di Roma e di Milano. Non senza qualche ingenuità. Come quando s’illude che le cose possano migliorare con l’entrata in funzione delle ragioni a statuto ordinario (avvenuta nel 1972), che dovrebbero spazzare via la vecchia mentalità accentratrice dell’apparato statale burocratico e prepotente. Non poteva immaginare – lui, altrimenti così preveggente – che trent’anni dopo dobbiamo troppo spesso rimpiangere i pregi del centralismo statale.

Come sempre, il linguaggio di Cederna è tagliente, talvolta feroce, il vocabolario spesso sorprendente, sempre efficacissimo. A titolo di esempio ho raccolto qui accanto una piccola antologia tratta dalle pagine introduttive del libro, e spero che, dopo le nuove edizioni dei Vandali in casa e di Mussolini urbanista, una benemerita casa editrice colmi la lacuna pubblicando anche La distruzione della natura in Italia.

(Roma, 28 giugno 2006)

Promemoria dal libro di Antonio Cederna, La distruzione della natura in Italia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1975.

In realtà, nella maggioranza dei politici al potere si riscontra (parliamo in generale), prima ancora di ogni comprovata malizia, una vera e propria forma di imbecillità. [p. XII]

In questa cultura dimezzata spiccano quelli che per mestiere operano direttamente sul territorio, la legione di architetti, ingegneri e geometri al soldo dei costruttori e delle immobiliari. Vittime di un’educazione sbagliata e di una scuola retrograda, costoro credono ancora che scopo del costruire sia l’affermazione della loro “personalità” (!), che architettura moderna sia produzione di capolavori da pubblicare sulle riviste, che foreste e litorali ci guadagnino ad essere lottizzati, che le “qualità formali” riscattino l’errore sociale, economico e urbanistico del loro intervento. [p. XIII]

… tutta l’Italia, in assenza di qualsiasi effettiva programmazione economica e urbanistica, rischia di essere a poco a poco ricoperta, dalle Alpi al Capo Passero, da un’uniforme, ininterrotta, repellente crosta edilizia e di asfalto … [p. 17]

… ancora è l’avverbio su cui si regge l’Italia, e su cui riposano le residue speranze … [p. 18]

L’Italia contadina divenuta malamente urbana è soggetta a deprimenti distorsioni psicologiche: scambia spesso per progresso l’inumana malformazione delle città, per civiltà il biossido di carbonio, per benessere il fumo delle ciminiere, per affermazione di libertà l’eliminazione di ogni parvenza di natura. [p. 19]

Scontiamo, s’è detto, gli effetti di una cultura che ha teorizzato la preminenza dell’uomo “artista” sulla natura, di una filosofia che ne ha negato l’oggettiva esistenza e di una religione che, ai suoi livelli più bassi e diffusi, ne ha sempre considerato con sospetto e incomprensione le manifestazioni (siamo passati dal “cantico delle creature” a un papa che ha benedetto il tiro al piccione). [p. 20]

… la conservazione della natura è essenziale per offrire alla collettività un impiego sempre più adeguato del tempo libero, altro grande problema del mondo moderno. [p. 21]

… la conservazione della natura, nel quadro di una politica del territorio che subordini ad essa ogni altro intervento (edilizio, industriale, autostradale) deve essere dunque considerata l’obiettivo primario di ogni società previdente e socialmente progredita. [p. 21]

Conservazione della natura significa soltanto, alla fine, conservazione dell’uomo e del suo ambiente, incolumità e salute pubblica e quindi anche, proprio per questo, progresso economico, culturale e sociale. [p. 22]

Marzo 1958

[…] Al convegno indetto dalla rivista democristiana «Battaglie Politiche », ai primi di marzo, abbiamo riascoltato la condanna della distruzione di Villa Chigi, l'approvazione al nuovo piano regolatore e quindi implicito l'atto d'accusa contro i rappresentanti democristiani responsabili d'aver fatto di tutto per silurarlo. Di particolare rilievo è stata la relazione letta dall'architetto Leonardo Benevolo, uno dei nostri più preparati studiosi di problemi urbanistici. Lo stesso istituto giuridico - il diritto di fabbricazione considerato come parte integrante della proprietà privata dei terreni, cioè il diritto del privato di intascare il plus-valore d'un terreno divenuto fabbricabile – è stato definito come incompatibile con la società moderna: e con molta chiarezza è stato descritto il meccanismo della speculazione. La speculazione è responsabile della paradossale situazione della doppia crisi attuale, edilizia e degli alloggi, in quanto essa, mantenendo i prezzi dei terreni più alti del dovuto, costringe i costruttori a costruire solo case medie e di lusso, per contenere entro limiti ammissibili la percentuale del prezzo degli alloggi dovuta al terreno. «Un settore della domanda viene così saturato, molti appartamenti restano invenduti o sfitti, mentre la domanda di appartamenti popolari cresce, ma il prezzo dei terreni non consente al costruttore di soddisfarla; così si realizza lo scopo della speculazione, cioè lo sganciamento dell'offerta dalla domanda, a svantaggio dei costruttori e dei consumatori, e nell'interesse esclusivo di poche decine di proprietari terrieri ».

In particolare, c'è da aggiungere che i piccoli proprietari di terreni che il piano regolatore ha destinato a scarso o nullo sfruttamento edilizio, non potendo sperare di modificare a loro vantaggio le decisioni del piano, si sono indotti a vendere i loro terreni ai proprietari maggiori, i quali, effettuata l'operazione di acquisto, e non prima, fanno uso della loro influenza per far modificare il piano, e valorizzare i terreni acquistati: si capisce quindi perchè le opposizioni alle direttive generali del piano non si siano manifestate tre anni fa quando furono rese note per la prima volta, ma arrivino adesso, al momento di renderle esecutive e di trasformarle in vincoli effettivi di piano regolatore. In queste condizioni - ha continuato il Benevolo - sarebbe perfino inutile dar retta ai suggerimenti delle forze economiche che vorrebbero un diverso sviluppo di Roma, per esempio ad ovest del Tevere, sulla via Cassia.

«La dinamica inevitabile della speculazione tenderebbe subito dopo ad agire in senso opposto, per consentire un nuovo gioco al rialzo, e il risultato sarebbe un moto pendolare alternato della città, ben noto agli storici dell'urbanistica, fino alla completa paralisi dell'organismo urbano (e della speculazione stessa che, lasciata a se stessa, tenderebbe ad autodistruggersi, come il tumore che finisce per far morire l'organismo che lo nutre: altra prova, se occorresse, della natura patologica della speculazione sui terreni) ». Il piano regolatore come garanzia democratica per lo sviluppo razionale della città, l'arretratezza della casta dei funzionari quali sono emerse dal processo Immobiliare -«L'Espresso », le deficienze dell'industria edilizia per la mancanza di una norma urbanistica generale, il piano regolatore ridotto a «merce di scambio tra democristiani e fascisti »., la necessità di considerare punti fermi e acquisiti le premesse generali e le soluzioni tecniche del progetto di nuovo piano regolatore, eccetera, sono stati altrettanti temi trattati dal relatore, davanti all'uditorio democristiano. Un uditorio un po' scarso, in verità, forse perchè l'opinione ufficiale del maggior partito non ha simpatia per l'atteggiamento, per le sollecitazioni, i fermenti delle minoranze: non possiamo che augurarci che queste minoranze qualificate riescano a condurre avanti la loro opera di chiarificazione e a illuminare anche tenuemente l'orgogliosa insipienza della maggioranza. Solo centosettanta giorni ci separano dalla data in cui il Comune di Roma, al termine di un iter complicato, dovrà aver adottato il nuovo piano regolatore.

Roma antica, e lo sconfinato campo delle sue rovine, ha funzionato nei secoli da stimolo etico sulla cultura europea. Partecipazione commossa della memoria, sgomento di una tragedia universale, sospensione di ogni interesse pratico , lacrimae rerum: la rievocazione della grandezza passata nasceva direttamente dal disfacimento presente, quel gran «cadavere» era l'ammonimento, il freno contro ogni esaltazione viziosa.

Con l'affacciarsi dell'Italia al mondo moderno e l'unificazione nazionale, è invece l'interpretazione deteriore della romanità, ricorrente nella cultura italiana, che diventa sentimento e letteratura comune: la romanità diventa oggetto di nostalgia reazionaria e incentivo a velleità di potenza, viene degradata a eccitante di avventura e di boria nazionalistica. Giunta tardi e senza tradizioni alla dignità nazionale, la borghesia italiana si specchia impotente nella gloria passata, tenta di trarne gli auspici, comincia a sognare ritorni impossibili: Roma, ovvero l'immagine stravolta di essa, diventa la Medusa che pietrifica chi si volta a guardarla, remora ad ogni progresso civile. E’ in nome di Roma che Mussolini annienta lo Stato.

Mentre il progresso del mondo imponeva di riguardare al passato con la nuova prospettiva e il distacco offerto dalla cultura critica e storica, e mentre occorreva concentrare gli sforzi per affrontare con strumenti adeguati i grandi problemi posti alle nazioni moderne dalle trasformazioni economiche, sociali, territoriali, da noi si instaurava una mitologica continuità tra il presente e i fantasmi di una civiltà sepolta. La sorte patita da Roma sotto il fascismo è esemplare. Nell'ignoranza di tutti i mutamenti intervenuti nella storia delle città con la rivoluzione industriale, si pretese di «adeguare» semplicisticamente, meccanicamente la città vecchia alla vita moderna, per via di sventramenti e di addizioni successive, fino a cancellarla dalla faccia della terra: come sarebbe accaduto se si fosse realizzato interamente il piano regolatore del 1931, in cui si era espressa tutta la cultura ufficiale del tempo.

Così facendo il fascismo, mentre esaudiva i voti di una generazione di retori, di archeologi e di decadenti, manifestava la sua incultura e il suo carattere anacronistico: Roma veniva considerata un immenso deposito alluvionale da setacciare, alla ricerca dei ruderi più antichi, facendo piazza pulita di tutto quanto si era venuto frapponendo tra essi e noi, cioè della storia stessa. Al rito negromantico della «risurrezione» di Roma (« e Roma rinascerà più bella e più superba che pria », dirà il Nerone di Petrolini), alla ricostituzione di colossali «denti cariati», di scheletri monumentali entro uno spazio metafisico, poi subito sommersi dal traffico e dagli edifici di speculazione, tutti, italiani e stranieri, applaudirono: ci si dimenticò soltanto di costruire la Roma nuova, la Roma moderna, la città per gli uomini e per le loro esigenze di vita.

La montatura romanistica degli anni trenta è stata la manifestazione vistosa di un atteggiamento congenito di gran parte della classe dirigente italiana: la sordità ai problemi del progresso, il ripiegamento su un assetto politico-economico arcaico, il rifiuto della cultura e della tecnica, di ogni pianificazione nell'interesse pubblico. L'esaltazione isterica della romanità, a fini retorici e di propaganda politica, non è stata che il diversivo sentimentale dell'unico culto autentico praticato dalla società italiana, il culto del lotto e delle aree fabbricabili, nel sostanziale disprezzo per l'uomo. Roma divenne oggetto di mercato, fu abbandonata come una carogna al sole al saccheggio privato. Ai fantasmi melodrammatici dei ruderi raschiati corrisposero immediatamente le borgate e i ghetti, gli spaventosi concentramenti della periferia, la congestione e il sovraffollamento, lo sgangherato espandersi della città, in esclusivo omaggio alla furente speculazione edilizia: via via fino ai nostri giorni, fino a quella sinistra bancarotta dell'urbanistica romana degli anni cinquanta, che non ha riscontro nella storia di nessun'altra città del mondo, e che ha avuto effetti peggiori di una qualsiasi calamità naturale.

Roma presenta oggi un centro storico degradato e impraticabile, incrostato in mezzo a un'immensa, informe agglomerazione, squallida e sterminata periferia, sorta nel segno della violenza privata e della complicità pubblica, che tutto si può chiamare fuor che città. La stessa configurazione fisica di Roma è stata distrutta: un unico tavoliere di cemento, uno stomachevole, soffocante magma di «palazzine» e «intensivo », colma le valli, ricopre le colline, sommerge la campagna, grazie allo sfruttamento dell'ultimo metro quadrato disponibile, quasi ci si fosse proposti di impedire a chiunque di dire: questa era Roma.

Roma ripercorre a ritroso la storia delle città straniere, e ogni decennio segna un'ulteriore fase di decadenza: gli stessi problemi elementari posti dal traffico motorizzato sono stati semplicemente ignorati a vantaggio dei padroni del suolo. II risultato piuttosto di un'ormai secolare insipienza, ed esperienza quotidiana per tutti, è il caos e il disagio della circolazione nei nuovi quartieri, più inadatti alla vita moderna di quelli di età barocca, con una rete stradale che sembra tracciata da un branco di deficienti, in un'inconcepibile confusione di attività e di funzioni. Quanto si costruisce oggi - ha scritto un giornalista straniero - sono gli slums di domani: ai baraccati e ai segregati delle bidonvilles non resta che la prospettiva del carcere a vita nelle inumane concentrazioni dell'intensivo destinate, queste sì, a durare nei secoli.

La grande invenzione dell'urbanistica moderna, vanto delle città dei paesi civili, gli spazi naturali liberi e attrezzati per la ricreazione e lo sport, il verde pubblico non entrano nelle previsioni, sono stati sadicamente eliminati: lo spettacolo quotidiano, l'indice maggiore della criminalità della politica seguita fin qui, sono bambini, ragazzi e giovani costretti a trascinarsi nelle strade, tra l'immondizia e il traffico, a giocare nella polvere o nella sterpaglia dei lotti non ancora fabbricati. In nome degli eterni valori, anzi del plusvalore delle aree, la generazione nata e cresciuta col «miracolo» e il boom edilizio è stata con- dannata alla nevrosi, alla menomazione psichica e fisica.

Roma non è altro oggi che l'espressione topografica della distribuzione della proprietà fondiaria, il suo paesaggio urbano la proiezione dell'abuso e dell'illegalità, traduzione puntuale dei voleri delle società immobiliari, di una banda di imprenditori improvvisati e ladri. Ogni piano regolatore ha finito con l'essere la sanatoria di fatti comunque compiuti,. il rifiuto degli strumenti messi a disposizione dalla scienza, il disprezzo per le norme elementari dell'urbanistica moderna, l'ignoranza dei problemi sociali ed economici di una città in espansione, il perseguimento del vantaggio privato a scapito dell'interesse comune: questi e non altri sono i criteri adottati dalle forze politiche dominanti, che hanno basato le loro fortune sulla rapina del suolo, e quindi provocato, sempre in nome dei sacri principi dell'appropriazione indebita, il colossale fallimento delle finanze pubbliche.

E’ dunque lo spettacolo della nuova Roma che si impone oggi alla meditazione del visitatore esterrefatto. Alle rovine create in passato dall'Invidia del Tempo abbiamo sostituito le macerie della nostra ignoranza: all' antico lamento sulla Varietà delta Fortuna dobbiamo oggi opporre l’azione politica contro una società irresponsabile e nemica del pubblico bene. Quella che ci sta davanti e che, come è stato ben detto, continuiamo a chiamare Roma per una pietosa convenzione fonetica, è un'orrenda contraffazione di città: e in essa, inconsapevoli dei loro diritti e condizionati da decenni di propaganda corruttrice, vivono due milioni e mezzo di uomini e donne, di bambini e di ragazzi, di adulti e di vecchi, di sani e di malati.

L'interesse delle persone sensate muta ormai di oggetto e dimensione. I nomi prestigiosi che sono stati un riferimento della cultura del mondo non hanno quasi più senso, se non per le esercitazioni sentimentali o erudite: altri nomi fatidici, altri itinerari, un'altra topografia si offre a chi vuole capire la situazione presente. Sono i nomi delle scandalose decisioni municipali, i nomi del vandalismo organizzato, del sudiciume e dello sfarzo, i nomi delle concentrazioni edilizie omicide, della sofferenza e dell'umiliazione quotidiana. Quartiere Trionfale, Monte Mario, Albergo Hilton, Monti della Farnesina, Vigna Clara, quartiere Africano, Aniene e Conca d'oro, Tufello, Pietralata, San Basilio, Prenestino, borgata Gordiani, Centocelle, Acqua Bullicante, Tor Pignattara, Tuscolano - Don Bosco, Appia Antica e Caffarella, Cristoforo Colombo, Torvaianica, Fiumicino, Viale Marconi, Donna Olimpia e Monteverde Nuovo, via Olimpica, eccetera eccetera: tanto per illustrare la varia casistica delle malversazioni, lungo tutto l'arco dell'orizzonte.

Questi i nuovi Mirabilia Urbis: questo il nuovo tour di Roma che occorre intraprendere, per misurare l'entità del disastro e riconoscerlo finalmente intollerabile per una nazione civile.

La situazione romana, nella sua particolare atrocità riproduce e riassume ovviamente la situazione nazionale: di un paese cioè che quasi tutti coloro che hanno una qualche responsabilità, politici, architetti, intellettuali, artisti, uomini di legge, «operatori economici» e via dicendo, concordano nel massacrare e nel trasformare nel repellente ritratto di un volgo disperso e senza nome: per cattiva cultura, distrazione, frivolezza o diretto interesse. E’ una realtà che va finalmente conosciuta, studiata e divulgata perchè si possa cominciare a sperare in qualche cosa di diverso: una realtà che, mentre ci distanzia sempre più dai paesi civili, dovrebbe servire almeno ad aprire gli occhi della gente sulla necessità di rinnovare radicalmente il nostro preistorico assetto giuridico in materia urbanistica e di proprietà del suolo. La nuova legge urbanistica è la riforma di fondo che andava fatta prima di ogni altra, e che non va in porto, e contro cui si è scatenata la indegna cagnara di tutta la destra politica ed economica: di tutti coloro cioè che, mentre si arricchiscono in danno della salute e delle finanze pubbliche e mentre impuniti devastano il territorio nazionale, usano invocare ogni momento il mito e il primato di Roma e d’Italia. Un mito e un primato che tra poco non significheranno altro che smentita alla civiltà, utopia alla rovescia, scandalo permanente di fronte al mondo. […]

Adesso, a dieci anni dalla scomparsa, tutti diranno che l’amavano, che ne condividevano le battaglie, che si identificavano in lui, eccetera eccetera. Non credeteci. Per anni, per decenni, Antonio Cederna, animatore di tante campagne per la salvezza del Bel Paese, è stato un personaggio isolato quando non detestato come una sorta di «bestia nera» dello sviluppo e delle sue magnifiche sorti. Anche nei giornali conobbe, essenzialmente, due bellissime stagioni: quella del settimanale il Mondo di Mario Pannunzio del quale divenne, dal 1950, debuttandovi come pubblicista, una colonna portante, e l’altra dell’ultimo Corriere della Sera (anni ’70) di Giulia Maria Crespi e di Piero Ottone, sul quale ebbe finalmente il grande spazio e il risalto che meritava scrivendovi in piena libertà. Gli ultimi anni a Repubblica non furono fra i più felici, si riteneva confinato alle cronache romane, misurava con amarezza crescente i giorni e le settimane che passavano dalla consegna di un articolo alla sua pubblicazione.

Chi, come me, lo ha frequentato quasi quotidianamente negli ultimi vent’anni di vita, anche professionale, dopo averlo avuto compagno, e maestro, nella ristretta compagnia di giro (lui, Mario Fazio, Alfonso Testa, Vito Raponi, Salvatore Rea e pochissimi altri) che seguiva le vicende urbanistiche e ambientali del tempo conosce bene i rovelli di un personaggio scomodo e anticipatore, del quale oggi si coglie meglio il rilievo e la novità.

Vezio De Lucia ed Edoardo Salzano (l’animatore di Eddyburg), entrambi apprezzati urbanisti, ne parlano oggi come di un grande urbanista. In effetti riesce difficile incasellare Antonio in una categoria precisa: saggista, giornalista, polemista, sta bene, ma certamente di più, difensore della natura e del paesaggio, propugnatore di progetti innovativi di conservazione (ovunque ve ne fossero, nei musei come nei parchi, tanto contestati, era presente, con la fatica di scrivere, e soprattutto di vedere poi pubblicato il proprio lavoro), estensore di un argomentato progetto di legge speciale per Roma che resta forse il suo sforzo più organico partendo dal discorso del grande parco urbano, dai Fori all’Appia.

Antonio Cederna rimane, con la sorella Camilla, formidabile giornalista di costume e non solo, col cognato Leonardo Borgese, come lui archeologo di formazione e poi critico d’arte, che lo anticipò di qualche anno nel raccontare L’Italia rovinata dagli Italiani (Rcs, 2005), uno degli esponenti più veri di una borghesia lombarda, milanese, che non c’è quasi più: laica con venature di severo giansenismo, impregnata di forti spiriti riformatori e quindi pronta a spendersi, con coraggio, per un Paese finalmente sensibile ai valori della bellezza, della storia, della cultura, insomma della civiltà più piena e praticata.

Antonio si era formato alla scuola di archeologia dell’Ateneo Ticinese di Pavia e a Roma era arrivato per esercitare quel mestiere. Forse non pensava affatto di intraprenderne un altro, quello che era già, con coraggio e successo, della sorella maggiore Camilla, punta acuta e acuminata dell’Europeo di Arrigo Benedetti. Scrisse anzi un saggio sul suo primo scavo, a Carsoli, sulla Tiburtina. Poi l’ingresso nella cerchia degli amici del Mondo, in via della Colonna Antonina, composta da ex azionisti, repubblicani, socialisti liberali, radicali soprattutto, e l’esordio in un giornalismo di battaglia: sull’orrenda, piacentiniana via della Conciliazione e sull’ultimo mega-sventramento proposto per tutta l’area storica fra piazza di Spagna e piazza del Popolo. Subito dopo la campagna in difesa della regina viarum, I gangsters dell’Appia, centinaia di articoli, come per La Città Eternit. Campagne conclusesi, sovente, con successi pieni o parziali. Per esempio, col vincolo dei primi 2.500 ettari dell’Appia Antica decretato dal ministro dei Lavori Pubblici, Giacomo Mancini, esattamente mezzo secolo fa.

Qui va detto che Antonio Cederna, a smentita di tanti avversari e denigratori, fu uomo di proposta. Non era affatto contrario all’architettura contemporanea, purché all’esterno delle città storiche, rigorosamente. Fu tra i primi a visitare le New Towns britanniche per proporle come possibile modello per le nostre nuove periferie (che definiva, invece, «per murati vivi»). Oppure a dar conto agli italiani dell’urbanistica olandese o svedese. Compiendo così, con altri (penso alla rivista Comunità di Adriano Olivetti), un’opera di positiva divulgazione di modelli avanzati, di cui sentiamo anche oggi la mancanza. Sostenne a fondo l’esperienza bolognese del piano Fanti-Cervellati per il recupero e il restauro delle case popolari antiche del centro antico ad uso dei residenti, documentandola a fondo, con scrupolo, e portandola come esempio, in modo felicemente pragmatico. Quando ebbe, abbastanza tardi, nel 1987, la possibilità di dare il proprio contributo quale parlamentare eletto da indipendente nelle liste del Pci alla Camera, fra il 1987 e il 1992, stupì molti colleghi - che lo pensavano un «signor No» e basta - con la sua grande capacità di proporre e di fare, in positivo, secondo una cultura lombarda che risaliva a Carlo Cattaneo. Ne colsi ancora un’eco ammirata, anni dopo, all’interno della Commissione parlamentare Ambiente, Territorio e Infrastrutture di Montecitorio.

Ma, come dicevo all’inizio, non fu certo amato da tutti. Ebbe subito nel Pci un duro scontro con Lucio Libertini il quale, da responsabile della Casa, appoggiava le rivendicazioni «sociali» degli abusivi guidati dal sindaco Monello di Vittoria, nel Ragusano. Su questo e su altro Antonio fu giustamente intransigente. Oggi sorriderebbe amaro dell’«ambientalismo ragionevole» di cui qualcuno discorre mentre scempi e abusi imperversano. Sapeva dire sì e no con uguale rigore. Nel 1987 fu una sorta di candidato-bandiera in otto o nove collegi della Camera. Nel 1992 non venne ripresentato. Stava comunque dando il proprio umile e fattivo contributo nel Consiglio comunale di Roma, dove era già stato, da radicale eletto nel Psi, ai tempi della battaglia durissima, ahinoi perduta, sull’Hotel Hilton a Monte Mario, voluto dal sindaco dc Urbano Cioccetti coi voti del Msi. Contributo che risultò stavolta decisivo, con un memorabile discorso notturno («Avevo bevuto un paio di fernet…», si schermì dopo), per scegliere l’area del Flaminio per il nuovo Auditorium di Roma. Che quindi si deve, in parte, anche a lui. Nel 1993 ebbe la presidenza del Parco regionale dell’Appia, tutto da costruire. Fu la sua ultima commovente fatica, sessant’anni dopo la indignata campagna sul Mondo, consegnata con altre ai suoi libri, da I vandali in casa a Mirabilia Urbis, a La distruzione della natura in Italia, a Mussolini urbanista, all’ultimo Brandelli d’Italia. Sono opere-manifesto, col progetto per Roma, per una sinistra che voglia essere ancora tale.

Nel privato, voglio dirlo, era, come Camilla del resto, persona piacevolissima, pieno di humour, di voglia di mutare in scherzo l’invettiva. Recitava a memoria Dante, Shakespeare e Manzoni. Ma era pure un grandissimo appassionato di calcio, tifoso interista dai tempi del Pepìn Meazza e dell’Arena. Per i Mondiali di Argentina vedemmo insieme a casa sua, accuditi con dolce ironia dalla moglie Maria Grazia, quattro partite di fila, dalle quattro del pomeriggio a mezzanotte. Antonio, il Tonino per i famigliari, era anche questo. Il suo nome non figura fra i fondatori ufficiali di Italia Nostra, nel 1955. «Ero timido», raccontava, fra il serio e l’ironico.

Quando finisce l'Italia? E’ questa la domanda solo apparentemente paradossale che cominciano a porsi urbanisti, ambientalisti, statistici eccetera, quando riflettono sul ritmo accelerato con cui, nella confusione delle leggi e nell'incapacità di pianificare, andiamo consumando quel bene prezioso, limitato e irriproducibile che è il territorio.

Già sono disponibili, per dir così, le prime proiezioni. In un trentennio abbiamo distrutto più di un milione di ettari di pianure produttive (un sesto del totale, 20-30 mila ettari l'anno); nell'ultimo decennio la superficie agraria complessiva è diminuita di tre milioni di ettari e di altrettanto sono aumentati gli incolti, i terreni asfaltati e urbanizzati (un'erosione del 5 per cento ogni dieci anni): oltre duemila chilometri di litorali pianeggianti (la metà del totale) sono scomparsi sotto turpi agglomerati edilizi; 40-50 mila ettari di boschi vanno a fuoco ogni anno, mentre a fatica si riesce a rimboschire una superficie pari alla metà (i boschi italiani non superano i sei milioni di ettari).

La prospettiva, come calcolano gli esperti della Lega Ambiente che stanno redigendo un rapporto sullo stato dell' ambiente in Italia, è questa: tra poco più di 150-200 anni (diciamo entro l'anno 2200) andando avanti di questo passo, tutta quanta l’Italia naturale, agricola, paesistica, forestale sarà ridotta a un deserto di cemento, asfalto, immondizia e cenere. Se poi aggiungiamo l'attività selvaggia delle cave che asportano ogni anno da colli e corsi d'acqua 300 milioni di tonnellate di ghiaia, sabbia, e altri materiali, aggravando il generale dissesto del suolo, ci rendiamo conto che ci verrà a mancare letteralmente la terra sotto i piedi.

Un sintetico campione di questa minacciata soluzione finale ci è stato offerto giorni fa al convegno internazionale di Bologna sulla salvaguardia dei centri storici. In una bellissima mostra (che dovrebbe andare in giro per l’Italia) sono state messe a confronto le foto aeree eseguite dalla RAF negli anni Quaranta con le altre eseguite negli anni Settanta: un confronto impressionante che mette in evidenza il cieco dilagare dell'edilizia a ondate successive, la ragnatela, a macchia d'olio tutt'intorno a villaggi e città, col risultato che in un trentennio nella sola Emilia-Romagna sono stati fatti sparire 18.000 ettari di terreno agricolo e, lungo i litorali, 4.000 ettari di dune, boschi, arenili.

Il merito dell'indagine va all'Istituto per i beni artistici, culturali e ambientali dell’Emilia-Romagna e, se altre regioni ne seguissero l'esempio, avremmo un quadro eloquente della sorte che attende l'Italia fisica: quella di essere ricoperta da un capo all'altro da un'ininterrotta, uniforme, repellente crosta edilizia. (E già sappiamo, per fare un esempio, che nel maggiore comune agricolo italiano, Roma, sono stati distrutti nell'ultimo decennio ben 16.000 ettari di terreno produttivo).

Parallelo e speculare al riempimento-cementificazione della campagna è il vuoto che si viene creando per abbandono, snaturamento, incuria e speculazione nel patrimonio edilizio delle città e dei loro centri storici: i quali comprendono circa dodici milioni di stanze costruite prima della metà del secolo scorso. La sbornia edilizia dei due ultimi decenni ha infatti portato quasi esclusivamente alla costruzione del nuovo anziché al riuso ragionato dell'esistente, costruendo per lo più l'inutile e il superfluo: così che (è bene sempre ripeterlo) abbiamo il primato europeo dello spreco edilizio, 86 milioni di stanze per 56 milioni di italiani, e quattro milioni di alloggi (pari a circa 15 milioni di stanze) «non occupati», sfitti e invenduti, seconde e terze case, eccetera (350.000 stanze non occupate a Roma). Qui sta il problema capitale, l'impegno che deve affrontare l'urbanistica italiana. Si tratta di mettere un argine all'espansione delle città, che aggrava il gigantismo urbano con tutti i suoi disastrosi effetti: distruzione di terreno agricolo, congestione e ingovernabilità; e di concentrare mezzi ed energie nel recupero dell'antico patrimonio edilizio. Il che vuol dire riutilizzare, risanare, restaurare i centri storici sotto controllo pubblico per consentire alla gente di continuare ad abitarci a canoni ragionevoli, evitandone l'espulsione nei ghetti periferici, e quindi preservando la funzione residenziale degli antichi quartieri dalla degradazione e dall'attacco delle attività terziarie. (Nei centri storici minori gli alloggi abbandonati sono 6-800.000; negli anni Settanta nei centri storici delle maggiori città sono state eliminate, buttate via oltre tre milioni di stanze residenziali per far posta ad uffici). E’ questo, il risanamento conservativo per la salvaguardia del tessuto edilizio e insieme sociale dei centri storici, il maggiore (l'unico) contributo italiano alla cultura urbanistica europea: che ha avuto una prima realizzazione a Bologna una decina di anni fa quando, assessore Pierluigi Cervellati, i fondi dell' edilizia economica e popolare, anziché nella costruzione di nuovi quartieri in periferia, vennero investiti nel risanamento di alcuni comparti del vecchio centro. Per questo Bologna ebbe il diploma del Consiglio d 'Europa, e il suo esempio fu seguito da altre città (ricordiamo soprattutto Modena e Brescia). Poi, come sempre, la tensione cadde, e oggi in tutta Italia gli alloggi risanati sotto controllo pubblico e a fini sociali non superano il paio di migliaia: mentre sono aumentati i «restauri» di pura facciata (l'antico rifatto rende molto in termini di prestigio a studi privati, banche e assicurazioni), e quelli abusivi, che si contano a decine di migliaia ogni anno.

Così, l'iniziativa pubblica segna il passo a Venezia e a Roma, così si aggrava irreparabilmente la degradazione di centri storici insigni come Palermo e Napoli; mentre allo sgombero del centro storico di Pozzuoli per bradisismo (1970,1983) non è estraneo il sospetto di qualche manovra per una sua «valorizzazione» speculativa. Per avviare una seria politica di risanamento conservativo è ovviamente necessario un forte impegno politico per la riforma degli attuali strumenti e procedure anche al fine di coinvolgere Ie risorse private: ma quello che più allarma è il fatto che nella nostra cultura architettonica (postmoderni aiutando) riprendono fiato coloro che pretendono ancora di lasciare la loro «impronta» negli antichi tessuti urbani (a Roma si vuole addirittura incastrare un «museo della scienza» nella rinascimentale via Giulia). E, cosa ancora più grave, si va assistendo alla riabilitazione degli sventramenti, come nel caso dei Fori Imperiali, dove alcuni hanno inopinatamente scoperto che anche l'asfalto dello stradone littorio è un bene culturale da conservare.

Il convegno internazionale di Bologna, organizzato dal citato Istituto per i beni culturali col patrocinio della Comunità Europea, è stato importante perchè ha sollevato la cortina di silenzio caduta negli ultimi anni sul problema delle antiche città e della loro salvaguardia (un nuovo convegno è in corso in questi giorni, quello dell' Associazione nazionale centri storico-artistici, a Lucca), col contributo di una cinquantina di studiosi italiani e stranieri, in presenza di un pubblico foltissimo. Guido Fanti, membro della commissione cultura del Parlamento europeo, ha annunciato che la Comunità intende istituire un «fondo europeo» per la concessione di prestiti per interventi di conservazione e restauro, augurandosi tra l'altro che il finanziamento comunitario del settore culturale sia portato almeno all'uno per cento del bilancio generale (ora pari allo 0,00749 per cento). Ed è stata messa in evidenza la convenienza economica del risanamento del patrimonio esistente, perchè un centro storico già dispone di tutte quelle infrastrutture e di quei servizi che invece vanno realizzati ex novo in un quartiere di nuova costruzione: inoltre, è stato accertato che risanamento e restauro consentono di creare due posti e mezzo di lavoro con l'investimento necessario alla creazione di un solo posto medio di altro genere.

Recupero dei centri storici significa dunque anche rilancio dell'occupazione e di tutte le attività economiche legate agli infiniti aspetti del restauro delle forme e dei materiali antichi: una grande occasione per la riqualificazione professionale e la formazione di manodopera specializzata. Si tratta di far riemergere dal naufragio l'antica sapienza pratica, la creatività, la manualità, il mestiere artigiano, quelle antiche arti «meccaniche» che hanno creato nei secoli le nostre città: perchè si possa cominciare a por mano a quell'opera di manutenzione continua che è la premessa essenziale per la loro sopravvivenza.

In conclusione, conservare l'antico deve essere la parola d' ordine della cultura urbanistica moderna: altrimenti, per completare il quadro dell'Italia che finisce, mettiamoci anche a calcolare i metri cubi di antichi edifici che anno dopo anno vengono ridotti in polvere.

Il giornalista morì il 27 agosto del 1996. In quel celebre libro delineò il profilo di un paese che distruggeva i suoi paesaggi e i suoi centri storici - Nel volume raccolse gli articoli apparsi sul "Mondo" fra il 1949 e il 1956 - Tutelare l´antico era il presupposto perché la città moderna crescesse correttamente

Anticipiamo alcuni brani dalla prefazione di alla riedizione de I vandali in casa di Antonio Cederna, in libreria ai primi di settembre (Laterza, pagg. 336, euro 16)

Sono molti i temi che accompagnano Antonio Cederna nei diciassette anni di collaborazione a Il Mondo di Mario Pannunzio, una collaborazione iniziata quando il periodico muoveva i primi passi, nel 1949, e chiusa quando questo terminò le pubblicazioni, nel marzo del 1966. Cederna vi svolse l´intenso lavoro di cronista delle vessazioni che il territorio italiano andava subendo in quelli e negli anni successivi. Ai maltrattamenti patiti dalle bellezze artistiche, si aggiunsero quelli inferti ai centri storici, al paesaggio e poi alle città, la cui crescita, agli occhi di Cederna, stava assumendo caratteri informi, guidata da direttrici speculative e strutturalmente diversa da quella che esse avevano conosciuto nei secoli precedenti. (...) Negli articoli che egli scrisse si delinea il profilo di un´Italia che ha fretta di crescere ignorando se stessa, che dissipa l´antico e le qualità non solo estetiche che da esso promanano, consumando suolo e paesaggi. Parte di quegli interventi Cederna li raccolse ne I vandali in casa, uscito nell´autunno del 1956: è un libro che intona il controcanto di questo mezzo secolo di storia italiana, che dà il tono di un paese il quale sarebbe potuto essere diverso da com´è stato e prefigura un´alternativa possibile che, mezzo secolo dopo (e a dieci anni dalla scomparsa di Cederna), come il negativo di una fotografia, spiega l´Italia di oggi. (...)

Cederna sottolinea il profilo sistematico delle trasformazioni italiane. La degradazione della storia e della sua eredità, la distruzione dell´antico e del bello, la manomissione della natura e dei suoi equilibri non vengono lette solo come violazioni inammissibili di quanto il passato ha elaborato ed esteticamente definito, consegnandolo alle generazioni successive e impegnandole a tutelarlo come il luogo in cui è consegnata parte della loro identità. Questo basterebbe a imporre la salvaguardia, che è prodotto di civiltà e di civiltà moderna in specie. Ma non è sufficiente a spiegare l´atteggiamento di Cederna che si sbaglierebbe a ridurre alla sola componente conservativa: le violazioni Cederna le interpreta come uno dei modi di essere dell´Italia di quegli anni, le mette in rapporto con il tipo di sviluppo che l´Italia aveva intrapreso, con la fisionomia che andavano assumendo - o confermando - le sue classi dirigenti, l´amministrazione statale, dai livelli più alti a quelli semplicemente esecutivi, le burocrazie comunali, combattendo con i suoi interventi chi giudicava quelle manipolazioni alla stregua di un danno collaterale, l´accidentale e inevitabile corollario, e non una delle condizioni perché il cammino del paese procedesse esattamente in quel modo.

Il Mondo è la cornice in cui le riflessioni di Cederna si distendono. E non è difficile cogliere quel di più di significato che il settimanale attribuisce ai suoi interventi: è un contesto nel quale si schierano Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi (per indicare soltanto due fra i tanti collaboratori cui spetta di dettare le linee-guida della testata) e che consente agli argomenti di Cederna di agganciarsi al più ampio dibattito sull´economia, la società e la politica italiana, la cultura, la cultura accademica, l´ambiente delle professioni. I "gangster" che scorrazzano sull´Appia, le grandi famiglie proprietarie di immense porzioni del territorio di Roma, gli azionisti e i dirigenti della Società Generale Immobiliare che orientano lo sviluppo della capitale nella direzione da essi auspicata, i pianificatori-burocrati che sventrano il centro di Milano sono i prototipi di un´economia semi-feudale, che al rischio imprenditoriale preferiscono la rendita fondiaria e immobiliare e si affiancano a quelle figure che compaiono nelle denunce di Ernesto Rossi contro il capitalismo monopolista e parassitario, il quale fonda le sue fortune sui privilegi e non sull´espansione industriale. (...)

La posizione favorevole a una salvaguardia totale dei centri storici è il primo punto sul quale si concentra la lunga introduzione a I vandali in casa. (...) Quel che sta accadendo in quegli anni a Roma, a Milano o a Lucca non è solo l´inserimento di manufatti moderni in contesti antichi. Lo sventramento è un intervento ben più invasivo, che scardina la struttura viaria e architettonica, impone alle strade e agli edifici misure non compatibili con la struttura tradizionale, sovraccarica un ambiente delicato di cubature fuori proporzione. Il caso milanese è esemplare. Nel capoluogo lombardo non si distrugge, salvo che in qualche caso, edilizia monumentale, ma edilizia sette-ottocentesca non particolarmente pregiata eppure in grado di definire il linguaggio architettonico dell´intero centro cittadino. «La bella e antica e sotto molti aspetti importante città di Milano è condannata a sparire dalla faccia della terra», scrive con gli accenti dolenti e paradossali che rendono figurata la pratica di allargare strade, rettificare, raddrizzare, costruendo edifici imponenti, che centuplicano la rendita immobiliare. Il fascismo ha sfigurato il centro cittadino, ma le nuove amministrazioni meneghine proseguono nel progetto immaginando demolizioni e ricostruzioni, disegnando "racchette" che attraversino il cuore della città da parte a parte.

Se ormai è impossibile bloccare a Roma il completamento dei lavori di via della Conciliazione o la mutilazione di via Giulia, all´altezza di San Giovanni dei Fiorentini, possono essere risparmiate altre cruente operazioni nella carne viva del centro storico. Il piano regolatore della capitale prevede il micidiale sventramento di via Vittoria e di buona parte degli edifici circostanti per realizzare una strada che da piazza Augusto Imperatore e di qui fino al Lungotevere tagli perpendicolarmente via del Corso, squarci via del Babuino e via Margutta, sfilando parallela a via della Croce e via Condotti e si infili in un tunnel sotto il Pincio, in via San Sebastianello, sbucando in via Sant´Isidoro, praticamente in via Veneto. È uno scasso che ha le dimensioni di una catastrofe per tutto il centro storico romano e non solo per quella sua porzione pregiatissima. Al posto degli edifici esistenti sorgeranno palazzi di molti più piani e con densità abitative sconvolgenti che alimenteranno una ghiotta spirale speculativa. Sparirà la rete di piccole strade sostituita da arterie per sole macchine ed anzi è proprio questo l´obiettivo dichiarato di tutta l´operazione: rendere più fluido il traffico di scorrimento dalla zona dell´Esquilino e della stazione Termini al quartiere Prati, attraversando quel che resta del centro storico. Ma grazie agli articoli di Cederna e alla mobilitazione di molti intellettuali, quel progetto verrà sventato. (...)

Cederna osserva le trasformazioni che Roma sta subendo con animo dolente e articola il suo stile con i toni dell´invettiva. Non gli sfugge il contesto. L´assalto al centro impedisce che una città funzioni correttamente, perché pretende di caricare il nucleo storico di funzioni incompatibili con la sua struttura e che molto più opportunamente possono essere sistemate nelle zone di espansione. Cederna non manifesta alcuna opposizione verso la crescita di un organismo urbano, verso l´atto del costruire, tantomeno verso la categoria del moderno. L´aggressione di un centro storico, insiste, si evita con la sua integrale salvaguardia e costruendo razionalmente la città moderna, orientandone lo sviluppo in una direzione definita, immaginando un altro baricentro, quello in cui collocare le funzioni direzionali (che a Roma significa soprattutto ministeri, ma non solo) e non ammassando lungo tutta la fascia che cinge la città insediamenti residenziali, anonimi, inospitali, dormitori senza alcun pregio. Distruggere un centro storico e far crescere la città "a macchia d´olio" sono operazioni che si reggono a vicenda, sono «un´equivoca e irrazionale contraffazione di modernità». La modernità delle altre città e capitali europee porta in una direzione diversa, dettata da una pianificazione urbanistica che è tutela di interesse collettivo e che andrebbe resa "coercitiva", «contro le insensate pretese dei vandali, che hanno strappato da tempo l´iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l´opinione pubblica».

Vandalo è chi distrugge l´antico. Ma non solo. La coppia oppositiva vandalo/modernità è scandita con nettezza. Vandalo è chi distrugge l´antico perché la città assuma una fisionomia più consona a interessi privati e non pubblici, perché il suo territorio venga spremuto al pari di una risorsa dalla quale ricavare quanto più reddito possibile. Il secondo tempo dello sventramento è infatti lo sfruttamento intensivo dei terreni appartenenti alle grandi proprietà immobiliari, verso le quali si indirizzano le scelte amministrative, adottate senza criteri razionali, urbanisticamente verificabili, che non siano la forza dei titolari di quelle proprietà. I bersagli polemici del Cederna di questi anni (la distruzione delle ville, gli sventramenti nel centro storico, le costruzioni ai piedi dell´Aventino o a San Giovanni) non si comprendono appieno se non allargando la mira sull´intera urbanistica romana, che a sua volta condensa ed esalta le scelte che le classi dirigenti stanno compiendo su scala nazionale.

Dieci anni fa, il 27 agosto del 1996, moriva Antonio Cederna. Aveva 75 anni. Archeologo e giornalista, per alcuni decenni fu l´artefice di battaglie per la tutela del paesaggio e delle città storiche, sostenitore di una corretta urbanistica e avversario della speculazione edilizia. È stato fra i fondatori, nel 1955, di Italia Nostra. Ha scritto su Il Mondo, sul Corriere della Sera e quindi sull´Espresso e su Repubblica. Nel 1956 pubblicò il suo primo libro I vandali in casa, che i primi di settembre esce in una nuova edizione da Laterza per la cura di Francesco Erbani, il quale ha scritto anche una prefazione e una postfazione (pagg. 336, euro 16). Per il decennale della morte, l´editore Corte del Fontego ha ripubblicato un altro libro di Cederna, Mussolini urbanista, con una prefazione di Adriano La Regina e una postfazione di Mauro Baioni (pagg. 281, euro 23). Da Diabasis esce poi Caro Tonino (pagg. 64, euro 10). Lo ha scritto nel 1997 Manlio Cancogni. È una specie di lunga lettera all´amico Cederna, con il quale lo scrittore toscano aveva condiviso negli anni Cinquanta la campagna giornalistica contro la speculazione edilizia a Roma, in occasione dell´alluvione che nel 1996 si abbatté sulla Versilia.

L'occasione migliore per riflettere su un periodo di storia patria che ha portato alla degradazione fisica, culturale e ambientale del nostro paese, ci è stata offerta dal settimo congresso nazionale di "Italia Nostra" che si chiude oggi a Torino, nel trentennale della sua fondazione: l'associazione che è stata per anni l'unico baluardo contro la speculazione e l'insipienza pubblica e privata, e che fu fondata il 29 ottobre del 1955 da Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Giorgio Bassani, Luigi Magnani, Pietro Paolo Trompeo, Hubert Howard, Desideria Pasolini. Erano gli anni di furente "ricostruzione" poi seguita dal cosiddetto "miracolo economico" che avrebbe travolto sotto un'urbanizzazione selvaggia quel "patrimonio storico, artistico e naturale della nazione", a tutela del quale Italia Nostra era nata, dopo che sul "Mondo" di Mario Pannunzio, erano apparse le prime isolate denunce. In quel tempo le cento città d' Italia venivano sottoposte a uno stillicidio di demolizioni-ricostruzioni, che rischiavano di disintegrare i centri storici. Le idee di Italia Nostra furono subito chiare. Sul primo numero del bollettino (oggi arrivato al numero 234) fu pubblicato un documento firmato da una ventina di (allora giovani) architetti in cui si affermava che "l'architettura moderna deve adeguarsi alle scelte urbanistiche" le quali "impongono la conservazione dei centri storici e la rinuncia a costruire in essi". Si ponevano così le basi per quella politica di recupero e risanamento conservativo del patrimonio edilizio antico che, almeno in linea di principio, si può considerare ormai acquisita, salvo periodici ritorni di fiamma di qualche architetto o amministratore sbandato. Contemporaneamente, la crescita edilizia indiscriminata distruggeva il verde di città e campagne: caso insigne l'assalto cui veniva sottoposta la campagna dell' Appia Antica. Si deve all'assidua, martellante azione di Italia Nostra se nel '65, il ministro dei lavori pubblici Giacomo Mancini, approvando il piano regolatore di Roma, vincolava finalmente quegli storici duemilacinquecento ettari a parco pubblico (che l'Spqr non abbia ancora espropriato un metro quadrato è un altro discorso). Man mano l'impegno dell'associazione si allargava all' intero territorio. Del '64 sono gli studi sulla tutela dei litorali (Gallura, Gargano, Taranto, Roma-Gaeta), del '66 le prime proposte legislative per l'istituzione e gestione di parchi nazionali e aree protette, e poi per la salvaguardia delle zone umide contro le nefaste "bonifiche", per l'istituzione dei parchi marini (previsti, almeno sulla carta, nella recente legge per la difesa del mare); e contro la mania dei porti turistici che cementificano le superstiti insenature della penisola. Quali i successi ottenuti? Semplificando a memoria, possiamo ricordare, a Roma, la conquista del parco di Villa Pamphili e la bocciatura della lottizzazione dei mille ettari di Capocotta (che un recente disegno di legge espropria per annetterla alla dotazione della presidenza della Repubblica); a Milano, la sospensione dello sventramento del centro storico; a Venezia l'abolizione delle micidiali strade translagunari; le drastiche modifiche del piano regolatore di Napoli per il centro storico, le zone verdi, lo spostamento delle industrie inquinanti; il ridimensionamento delle folli previsioni edilizie dell' Aga Khan sulla Costa Smeralda, eccetera. Quanto agli ambienti naturali è probabile che se non ci fosse stata Italia Nostra, centro e periferia (le sezioni locali sono più di centocinquanta), non sarebbero state bloccate le lottizzazioni del parco d'Abruzzo, il parco S. Rossore-Migliarino sarebbe stato lottizzato, quello della Maremma non ci sarebbe ancora: e non si parlerebbe di parco del Delta del Po, oggetto di studi approfonditi (e timidamente avviato in provincia di Ferrara). Incessante è stata l'azione dell'associazione sul fronte del patrimonio storico-artistico. Risalgono agli anni sessanta le proposte per la nuova legge di tutela; sono seguiti i saggi sulla disciplina dei beni ecclesiastici, sul restauro architettonico e urbanistico, le proposte per le agevolazioni fiscali ai privati meritevoli: memorabili le battaglie contro la devastazione dei Campi Flegrei (è stata salvata la Via Campana antica, che avrebbe dovuto diventare un diverticolo autostradale), le azioni per Agrigento e Selinunte, per il centro storico di Palermo. Determinanti sono stati gli interventi, a Roma, per l'acquisizione da parte dello Stato del complesso del San Michele: mentre proseguirà l'azione per il parco dei Fori Imperiali. E si deve all' associazione lo studio e il progetto di massima per il restauro dell'imponente cinta muraria di Ferrara. Convegni, tavole rotonde, seminari, corsi residenziali, quaderni, memoriali, numeri speciali del bollettino: l' enorme massa di documenti di Italia Nostra costituisce l'archivio dell' Italia distrutta, minacciata, da salvare, salvata. Non c'è argomento sul quale i governi non vengano incalzati (spesso in stretta collaborazione con le altre più giovani associazioni, Wwf e Lega Ambiente): dall'abusivismo alla difesa del suolo, dalla piaga delle cave che triturano l' Italia (ma il colossale cementificio di Acquasparta è stato sventato) al regime dei suoli, ai problemi dell'energia (risparmio e uso delle fonti rinnovabili). Decisiva l'azione a sostegno del decreto, poi legge, Galasso. Ma, nonostante una sempre più diffusa coscienza ambientale, si assiste oggi in Italia a una nuova, massiccia violenza contro il territorio. Si vogliono stanziare decine di migliaia di miliardi per nuove autostrade, si invocano nuovi grandi porti turistici, i piani edilizi sono sovradimensionati senza rapporto coi reali fabbisogni: e questo nel Paese dello spreco, che vanta una trentina di milioni di stanze in più degli abitanti e un chilometro e mezzo di strade ogni chilometro quadrato, e consuma 150.000 ettari di terreno agricolo all'anno. Occorre convincersi che il territorio è una risorsa scarsa e irriproducibile, ha detto il presidente di Italia Nostra Giorgio Luciani, e che ogni sforzo va fatto per subordinare ogni ipotesi di "sviluppo" alla rigorosa salvaguardia delle aree verdi, ambientali, naturali, agricole, che devono diventare i capisaldi irrinunciabili della pianificazione. Cemento e asfalto sono palliativi per la stessa occupazione: la quale può trovare impieghi duraturi in interventi di tutt'altro genere, quali il risanamento del suolo, il rimboschimento, la gestione delle aree protette, il restauro dell'edilizia antica. Questa è l'unica prospettiva realistica per l' avvenire.

Lo stato versa un milione e 394mila euro ai privati. E compra un pezzo di storia della Regina viarum: il casale di Santa Maria Nova e gli annessi tre ettari di verde - sotto cui probabilmente dorme il fastoso giardino di una villa romana - che un tempo erano annessi al complesso della magnifica dimora dei Quintili. Ma intanto annuncia che nella villa di Capodibove, vicino a Cecilia Metella, «a giugno sarà inaugurato il Centro di documentazione dell’Appia antica. Sarà intitolato ad Antonio Cederna e il suo archivio verrà ospitato nella dépendance appena restaurata, in attesa che siano completati, entro l’anno, i lavori dell’edificio principale».

Lo ha spiegato ieri Rita Paris, direttrice dell’Appia antica per la Soprintendenza archeologica, presentando l’acquisizione di Santa Maria Nova. Il casale, sorto intorno a una cisterna e una torre d’età adrianea, diventerà spazio mostre, centro studi e struttura d’accoglienza per i visitatori della villa dei Quintili. «Dobbiamo coniugare conservazione e fruizione pubblica» ha detto il soprintendente archeologo Angelo Bottini. Che - dopo aver «reso merito ad Adriano La Regina», suo precedessore, per l’acquisto messo a segno dopo cinque anni di trattative - ha spiegato il senso di un’operazione opposta alla logica di alienazione ai privati: «Solo allargando la proprietà demaniale, si può fare tutela del territorio e aprirlo al pubblico».

Gli ultimi abitanti del casale di Santa Maria Nova erano clandestini romeni, sgomberati dai carabinieri due settimane fa. Il complesso del XII-XIII secolo era del resto abbandonato da una ventina d’anni. Nel dopoguerra era stato trasformato, con diverse aggiunte, in villa da sogno (vi hanno abitato Roger Vadim e la Bardot). E di fantasmi. La proprietaria che l’ha venduta allo Stato, missis Kimble, ha raccontato che in certi giorni era possibile ascoltare strani canti di bambina. Era forse lo spirito della fanciulla romana, la cosiddetta Tulliola, trovata nel 1485 dai monaci olivetani in un sarcofago, e dissoltasi a contatto dell’aria. È l’unica scoperta, per quanto leggendaria, avvenuta nell’area. Ma ora, finiti i lavori di bonifica ambientale (c’è di tutto, frigoriferi, water, amianto), partiranno gli scavi archeologici. Intorno e dentro al casale. Ma anche in tutta l’area, fino all’altra cisterna, riprodotta dal Piranesi in una bellissima tavola.

«Inizieremo il mese prossimo, dal cumulo di terra che potrebbe celare un ninfeo o un’altra architettura del giardino. Poi passeremo all’ambiente ipogeo, pieno d’acqua, che potrebbe essere un criptoportico», spiega Riccardo Frontoni. All’archeologo, già impegnato con altri colleghi ai Quintili, brillano gli occhi davanti ai muri in opus reticulatum sommersi da vegetazione e rifiuti. Ma, lì sotto, potrebbe riposare qualche altra fanciulla romana. Magari di marmo.

Antonio Cederna è stato un archeologo che, per amore della bellezza da salvare, divenne giornalista, urbanista, organizzatore culturale, attivista di associazioni, parlamentare, pubblico amministratore.

Nato a Milano il 17 ottobre del 1921, si è laureato in archeologia classica all’Università di Pavia ed ha conseguito il diploma alla scuola di perfezionamento di Roma. Divenuto nel 1950 collaboratore de Il Mondo, rivista diretta da Mario Pannunzio, si è dedicato, dalle colonne del settimanale, alla denuncia sistematica e puntuale di quanto, nei fatti e nei progetti, metteva a rischio i beni culturali, il paesaggio e la natura del nostro paese. Da allora in poi è stato portavoce e protagonista di una serie di battaglie – alcune delle quali memorabili – contro le manomissioni dei centri storici (a cominciare da quelli di Roma e Milano), l’indiscriminata cementificazione delle coste, la distruzione della natura, l’espansione incontrollata e priva di qualità delle aree urbane. La vicenda alla quale è maggiormente legato il suo nome riguarda la salvaguardia del comprensorio dell’Appia Antica dall'espansione edilizia, alla quale ha dedicato l’impegno di una vita, come testimoniano gli oltre 140 articoli scritti nell’arco di quarant’anni.

Come giornalista, ha collaborato con Il Mondo fino al 1966, con il Corriere della Sera, dal 1967 al 1981 e, successivamente, con Repubblica e l'Espresso. I Vandali in casa, Laterza, 1956; Mirabilia Urbis, Giulio Einaudi, 1965; La distruzione della natura in Italia, Einaudi, 1975; Brandelli d'Italia, Newton Compton, 1991, costituiscono raccolte ordinate e commentate degli articoli pubblicati sui giornali e su alcune riviste di settore. Ha pubblicato inoltre Mussolini urbanista, Laterza, 1979, dedicato alla ricostruzione storica, in chiave fortemente critica, delle più clamorose manomissioni del centro storico di Roma operate durante l’epoca fascista.

E’ stato tra i fondatori, nel 1955, dell’associazione culturale Italia Nostra, di cui è stato consigliere nazionale dal 1960, presidente della Sezione Romana dal 1980, socio onorario, editorialista del Bollettino. E’ stato membro della VI sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, consigliere comunale a Roma dal 1990 al 1994, deputato della Sinistra Indipendente dal 1987 al 1992. Come parlamentare ha promosso, in particolare, la proposta di legge per Roma capitale, la legge quadro sulle aree naturali protette e sulla difesa del suolo. Nel 1993 è stato nominato Presidente del Parco dell'Appia Antica e negli ultimi anni della sua vita si è battuto duramente per far decollare il parco.

Più di ogni altra cosa, Cederna deve essere considerato come un grande urbanista moderno. Nei suoi scritti e nei suoi interventi, la difesa del patrimonio storico e ambientale, della storia e della bellezza, costituisce il fondamento della costruzione del presente e del futuro, affidata alla pianificazione urbanistica, strumento indispensabile per “impedire che il vantaggio di pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità”. Ironico, implacabile nella denuncia, nei suoi scritti ha utilizzato volutamente “la polemica acre e violenta, la protesta circostanziata e precisa, lo scandalo sonoro”, finanche l’invettiva. Nelle sue parole traspare soprattutto l’intransigenza, intesa come serietà, come rigore, come “forte posizione moralistica” perchè, come ha sostenuto con amara ironia, “in un paese di molli e conformisti, la rivolta morale può essere almeno un elemento di varietà”.

Sono passati dieci anni da quando Antonio Cederna ha lasciato per l’ultima volta Roma per la Valtellina, nell’estate del 1996.

In questo decennio a Roma, per iniziativa del sindaco Francesco Rutelli, è stata intitolata a Cederna una terrazza di fronte alla basilica di Massenzio e al Colosseo, là dove esisteva la collina della Velia, distrutta all’inizio degli anni trenta del XX secolo per aprire via dell’Impero, da piazza Venezia al Colosseo. Così aveva descritto quel luogo in “Mussolini Urbanista” (Laterza, 1979 pag 189): “Bisogna adesso in qualche modo provvedere a rabberciare la parete risultante dal taglio della collina. Uno degli archeologi più intronati propone che “a decorazione dei moderni sostegni” della Villa Rivaldi sia posta “una colossale protome di elefante primigenio, scolpita nel marmo o fusa nel bronzo” a ricordo dei fossili scoperti: una specie di trofeo nel salotto di un cacciatore. Avrà invece la meglio il Muñoz che provvede da par suo alla sistemazione che ancora oggi si può ammirare: un muraglione in mattoni con nicchie, con doppia scala cieca, decorata da dodici grosse palle di pietra. Una foglia di fico al posto di quello che era stato uno dei giardini rinascimentali più belli di Roma”. (L’archeologo citato era G. Marchetti Longhi).

Non sappiamo se Muñoz si sia rivoltato nella tomba quando è stato posto il nome di Cederna su quella terrazza; certo quella decisione è stata variamente commentata. Da una parte si poteva considerare come uno sbaglio di cattivo gusto: quasi si fosse posta una lapide con il trionfale proclama vittorioso di Diaz non a Vittorio Veneto, ma a Caporetto. Da un’altra parte si poteva invece pensare non tanto a un cippo funerario, quanto a una sfida: proprio là dove era stato compiuto uno dei peggiori misfatti denunciati da Cederna (assieme a Borgo, all’Augusteo-Ara Pacis, al Campidoglio), adesso campeggiava il suo nome ad indicare un futuro diverso ed opposto.

E la scelta di quel luogo da parte dell’allora Sindaco poteva confermare la svolta indicata qualche tempo prima dal sindaco Luigi Petroselli, di cui Cederna citava spesso una frase: “Oggi si dice ancora: dato che abbiamo tante macchine, dato che abbiamo queste strutture viarie, vediamo un po’ che cosa si può fare per campare. E invece va detto: dato che non si campa più, veda un po’ la tecnologia, veda la tecnica del trasporto che cosa si può fare, studi, si adatti, si subordini” (“L’Unità” 05/04/1981).

Dato che la Terrazza Cederna è lì, vediamo cosa è stato fatto (e cosa non è stato fatto).

Guardando a destra si vede che sono stati scavati i fori di Nerva, di Augusto, di Traiano, di Cesare, tra via Alessandrina e i Ss. Luca e Martina. Sono venute fuori le cantine del quartiere costruito nel primo ventennio della Controriforma, riempite con i materiali di demolizione dei piani superiori (per risparmiare negli anni trenta il trasporto alle discariche); poi è venuto fuori qualche insospettato edificio dell’Alto Medioevo; poi sono venute alla luce le tante parti dei fori imperiali rimaste sotto l’asfalto e le aiole (e si è visto che non pochi complessi erano diversi da come gli archeologi e gli storici avevano faticosamente ipotizzato); infine si è visto anche qualcosa anteriore alle opere imperiali, repubblicano o magari risalente alle opere idrauliche etrusche.

Dunque aveva ragione Cederna (e Petroselli): valeva la pena.

Guardando davanti alla terrazza Cederna, si vedono gli scavi in corso del foro di Vespasiano - completamente ignorato - che rivela non solo pezzi di gigantesche colonne, ma interessantissimi pavimenti a mosaico e tarsie. Ci si accorge però che altre cose non sono state fatte. Il grande rettifilo piazza Venezia-Colosseo è ancora lì con il suo traffico e spacca ancora in due la grande zona archeologica centrale, impedendo la vera nascita del grande parco Archeologico dal centro all’Appia antica. E si vede che si è dovuta puntellare con giganteschi tiranti d’acciaio addirittura la basilica di Massenzio, messa in crisi dal traffico pesante: la corsia riservata agli autobus è proprio adiacente alla basilica, su un tratto d pavimentazione tra i più disastrati di Roma. Quanto bene facciano le continue vibrazioni ai resti millenari, non è difficile immaginarlo.

Se dalla terrazza si gira lo sguardo di fianco si vede Palazzo Rivaldi (il “Convento occupato” del ’68): sempre più abbandonato e rovinato, con l’acqua che scende dalle grondaie sfasciate e le finestre chiuse con mattoni per sostituire gli infissi scomparsi.

Da trent’anni, ogni tanto i giornali annunciano trionfalmente (come sempre quando una notizia è campata in aria) che il palazzo finalmente è stato venduto, acquistato, che cominciano i restauri, che sarà un museo... (che sarà inaugurato il 21 aprile).

Quando ciò avverrà chi calcolerà i soldi spesi in più dal Comune o dallo Stato per questi decenni di degrado crescente ed esponenziale?

Immaginiamo che Cederna guardi per finire dalla sua terrazza verso il Colosseo: vedrebbe innanzitutto tanti gladiatori e scriverebbe uno dei suoi pezzi furiosi, ma ironici: era un giornalista che sapeva come l’ironia può essere terribile. Dietro ai gladiatori c’è il Colosseo e qui forse Cederna si sarebbe rallegrato perché una parte è stata dedicata a mostre, ma forse avrebbe protestato per il contenuto (o per la FORMA) di qualcuna un po’ troppo vanesia e dedicata solo alla propaganda di un progetto di mantenimento del rettifilo sopra e contro la zona archeologica.

Ma Cederna sapeva guardare lontano e (lasciando perdere l’Ara Pacis e il continuo sproloquiare su parcheggi sotto ai lungotevere) si compiacerebbe per l’avvio (anche se lentissimo, ma ormai si spera senza rischi) del Parco dell’Appia Antica e soprattutto perché c’è e funziona un’opera che fu lui a “lanciare” quando era consigliere comunale; l’Auditorium al Flaminio (a proposito perché non intitolare anche lì qualcosa a Cederna? Magari proprio l’area archeologica scoperta lì dentro).

© 2025 Eddyburg