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Salve prof. Salzano, sono, ancor prima che studente di architettura nella facoltà di Firenze, un giovane ragazzo sardo. In quanto studente di architettura, ho avuto modo di conoscerla, senza interloquire, in una lezione frontale, di qualche anno fa, che tenne, nelle ore di lezione del prof. Morandi. In quegli anni ho avuto modo di conoscere lei e le sue opere, compreso la bellissima e sempre aggiornata pagina web. Poi, lei diventa protagonista della mia Terra, grazie alla sua collaborazione per la stesura del nostro PPR. Niente mi ha reso più orgoglioso in questi anni, ma sopratutto quando ho letto il suo nome, non ho avuto dubbi che il lavoro di quel Piano, fosse al di sopra di ogni sospetto. In questi giorni, lei, come noi sardi, avrà appreso della sconfitta del presidente Soru, il quale ha deciso di combattere all'opposizione, grazie all'appoggio dei molti giovani che lo hanno sostenuto in questi giorni drammatici. Ecco, questa mia mail, la scrivo, per iniziare a difendere il lavoro, di quella giunta che è stata appena bocciata, da quelle persone mal informate, sull'indispensabile e rivoluzionario PPR sardo. Avendo appreso, dai giornali, che uno dei primi provvedimenti, riguarderà proprio il PPR, le chiedo, in che modo potranno intervenire sul lavoro fatto finora. Cosa possiamo fare, quali azioni possiamo intraprendere, affinché quel Piano non venga toccato? Quali strumenti abbiamo, noi, gente comune, per difendere a spada tratta, l'operato del PPR? A livello universitario, si potrebbero creare dei comitati, a sostegno del vostro lavoro, affinchè la nuova giunta sarda, non possa agire liberamente a causa del disinteresse e l'ignoranza, totale degli abitanti? Chiedo consigli a Lei, in quanto penso, sia la persona più adatta ad indirizzarmi nelle strade più importanti e giuste, per difendere, ancor prima che il PPR sardo, quei principi fondamentali ed imprescindibili, alla base di quel lavoro. La ringrazio anticipatamente della sua collaborazione e posticipatamente per essere stato attore del nostro più importante strumento di governo del Territorio Sardo

Caro Omar, non sono protagonista del piano paesaggistico della Sardegna, ma solo uno dei membri del Comitato scientifico che ha aiutato il presidente Soru, la Giunta e, soprattutto, l’ufficio diretto dall’ingegner Paola Cannas a redigere il piano. È un lavoro al quale sono molto orgoglioso di aver collaborato, e che ritengo espressione di una politica di tutela del patrimonio comune eccezionale: vorrei dire unica in Italia. Ma il merito maggiore va indubbiamente a Renato Soru, alla sua determinata volontà e alla fedeltà all’impostazione di base che caratterizza la sua cultura. Devo dire che anche Soru ha i suoi difetti: per esempio, non ero affatto d’accordo con la legge urbanistica che la sua Giunta aveva predisposto, e non ho mancato di fargli conoscere le mie ragioni critiche. Ma non abbiamo bisogno di santi (seppure ce ne fossero), invece di parsone che sappiano fare ciò che i tempi e le occasioni chiedono loro, e che nel farlo siano migliori degli altri. Ora non ho dubbi sul fatto che, oggi, in Italia, per quel lavoro di tutela del patrimonio collettivo costituito dal paesaggio (e dalla cultura che esso esprime), Soru abbia fatto il meglio che si potesse fare.

Credo che dobbiamo domandarci perché il popolo sardo non lo abbia compreso. Le ragioni sono certamente molteplici: il “pensiero unico” che negli ultimi decenni ha pervaso tutte le teste, e che ha portato in primo piano l’illusione che difendendo i propri interessi economici immediati contro tutto e tutti si serve la propria felicità; la sterminata potenza di fuoco mediatico messo in campo di quel macroscopico “errore politico” che è Silvio Berlusconi; le piccole, meschine furberie autolesioniste nelle quali si è espresso il fastidio degli “alleati” di Soru per le asprezze del suo carattere e, soprattutto, per qualche “pulizia” che ha fatto. Ma io credo che ci siano stati anche errori suoi: forse ha lasciato appannare la forza del suo messaggio, ha cercato mediazioni che si sono rivelate illusorie, non ha saputo coniugare il carattere “aristocratico” del suo messaggio con la ricerca di una base popolare abbastanza larga, costruita sui principi che sono alla base del suo agire.

Scusami questo lungo sproloquio, ma la tua lettera mi spinge a riflettere su una vicenda che continua ad appassionarmi. Una vicenda che non è chiusa, a mio parere. Lo sarebbe stato se Soru, dopo la sconfitta, av esse abbandonato. Così fortunatamente non è. I voti che ha preso per la sua politica (che sono più di quelli che ha preso la coaliizione costruita per appoggiarlo) sono una ricchezza che va spesa: in primo luogo per accrescerla e farla diventare di nuovo maggioritaria e, nel frattempo, per difendere ciò che la Sardegna, grazie a lui, ha conquistato. Come? Tu lo chiedi, e dai alcune prime risposte.

Sarà certamente utile utilizzare le università, a condizione che i miei colleghi sappiano abbandonare gli atteggiamenti accademici, sappiano chinarsi sulle cose, comprendere e far comprendere, impegnarsi in una battaglia politica che deve consistere in primo luogo nel far condividere agli altri ciò che ci sembra giusto: al popolo, ai cittadini che non parlano né conoscono le parole difficili. E sarà utile aggregare tutti quei cittadini che hanno fiducia in Soru e, soprattutto, nei principi e nelle qualità del territorio che lui difende. Sarà utile rafforzare quei comuni che non pensano che il bene collettivo consista nello svendere i patrimoni che ci sono stati consegnati dagli avi, e conquistare i comuni oggi diretti da chi ha venduto l’anima pubblica al mercato immobiliare. Sarà utile coinvolgere tutti quegli intellettuali che hanno compreso che la politica avviata da Soru è quella necessaria, ma che non riescono se non con fatica a uscire dalle loro torri d’avorio. Sarà utile cercare i canali mediante i quali si possa allargare all’Italia, all’Eutropoa e al mondo la denuncia dei tentativi di distruggere ciò che nel quinquennio di Renato Soru si è costruito.

Eddyburg è pronto a fare la sua parte

1. LA POLITICA E LA PIANIFICAZIONE

1.1. Le derive della politica

L’ultimo ventennio, e in particolare l’ultimo decennio, del XX secolo è stato segnato da una crisi profonda dei poteri pubblici: essa ha in qualche misura riguardato l’insieme di quella parte del mondo con la quale l’Italia ha maturato il più alto tasso di affinità complessive, e che, per brevità, potremmo chiamare l’area nord-atlantica, per essa intendendo non già quella del relativo trattato militare ma, a un dipresso, la somma dell’Europa occidentale e dell’America settentrionale.

Questa prima, sommarissima, affermazione, non vuole alludere a differenze nello stato di salute dei poteri pubblici tra tale area e il resto del mondo, relativamente al quale troppo poco sanno gli estensori di queste righe per permettersi anche soltanto la più approssimativa operazione comparatistica, la quale del resto sarebbe del tutto irrilevante rispetto alla possibilità di sviluppare i ragionamenti che si vogliono proporre. Essa vuole solamente collocare il caso italiano nel contesto sovranazionale al quale per molteplici aspetti incontrovertibilmente appartiene, per rimarcare omologie, e per evidenziare diversità, che, le une e le altre, possano essere considerate significative.

Si intende infatti sostenere che se da un lato la crisi dei poteri pubblici è stata ed è avvertibile in tutta l’area di cui s’è detto, e presenta anche analoghe motivazioni e dinamiche, in Italia essa si è prodotta in termini e con ritmi più accentuati.

Nel complesso, si può asserire che tale crisi dei poteri pubblici è stata prodotta (al di là di altri specifici, contingenti motivi, comuni, ma più spesso propri di ogni singolo Paese) da un rapido smarrimento del loro ruolo, del loro significato, delle loro ragioni: in altri termini, dalla perdita d’identità e di senso della politica.

L’insieme dei fenomeni reali riconducibili alla voce “globalizzazione”, e, ancor più, l’ideologia (nell’accezione di “falsa coscienza”) della stessa “globalizzazione”, hanno prodotto un comune sentire per cui quasi ogni aspetto della vita dell’umanità, e di ogni singolo individuo, appare determinato, e comunque dominato, dalle supposte “leggi naturali” dell’economia, concepita come una sorta di immane sistema neurovegetativo, nonché dalle altrettanto ineludibili e autoreferenziali esigenze della “tecnica” (oppure, in una visione minoritaria, e tutt’altro che autenticamente ed efficacemente antagonistica, da centri decisionali remoti, impersonali, irresponsabili).

Nel mentre iniziavano a prodursi siffatti processi reali, e a proporsi le loro più corrive letture, implodeva e crollava il sistema economico-istituzionale in cui si era per la prima volta inverata, o aveva preteso di inverarsi, la più radicale ipotesi di trasformazione strutturale dello stato delle cose esistenti formulata in epoca moderna: l’insieme dei Paesi, del cosiddetto “socialismo realizzato”, del blocco legato all’Unione sovietica. E non venivano evidentemente avvertite come controtendenziali né la sussistenza di qualche piccolo Paese “socialista”, più o meno “esotico”, né la continuità delle forme politiche del regime cinese, nonostanti i rilevanti successi macroeconomici conseguiti dallo stesso nel medesimo ultimo ventennio, forse in conseguenza della progressiva omologazione, promossa dalle stesso regime, delle forme economiche di quel paese a quelle prevalenti nel resto del mondo.

L’evento ha avuto, manifestamente (lo si può avvertire oggi ben più che nell’immediata contiguità con il suo prodursi), effetti sulla psicologia, cioè sugli atteggiamenti, gli orientamenti, i comportamenti, delle masse, assai più vasti che quelli di “falsificazione” di quella specifica ipotesi di trasformazione, o addirittura soltanto dei termini concreti in cui la si era voluta inverare. E ciò, parrebbe, in termini più accentuati nei Paesi in cui più forte e più larga era stata la presenza, sociale e culturale, delle formazioni politiche che a quella specifica ipotesi di trasformazione si erano richiamate, anche se, come in Italia, in forme e con elaborazioni originali, e crescentemente autonome.

Tale evento, infatti, ha concorso, ben più di quanto non inducesse a ritenere la risibilità delle elucubrazioni di chi l’aveva immediatamente identificato con la “fine della storia”, al costituirsi di un diffuso sentire di generalizzata sfiducia nei confronti di qualsiasi ipotesi di trasformazione (strutturale o meno) dello stato delle cose esistenti, di generalizzata sfiducia nella possibilità stessa della politica, intesa come azione cosciente, individuale e collettiva, di influire sullo stato delle cose esistenti, di governare, almeno in parte, gli eventi, o quantomeno i loro esiti.

Così, ha scritto non un “politologo”, ma un romanziere, critico letterario, giornalista, Alessandro Baricco [1], “la politica cessa di essere invenzione del possibile e diventa gestione del necessario”. Ma, ha proseguito, “se devi scegliere il pilota di un aereo che va praticamente da solo, finisce che accondiscendi alla scemenza, e scegli quello che ha la faccia simpatica, la pettinatura che ti va e un bel modo di fare. Per cui diventa fondamentale il ruolo dei media. L’apparenza diventa (quasi) tutto.”

In realtà, l’elettore, nelle democrazie dell’area atlantica, non reagisce soltanto così alla percepita irrilevanza di una politica che non pone più in alternativa (per continuare a usare la metafora dell’aereo) né le mete, né le rotte, né gli scali intermedi, e quasi neppure più i servizi a bordo: reagisce, crescentemente, astenendosi dal votare.

E reagisce in quest’ultimo modo, negli ultimi anni, in diversi Paesi europei (in Inghilterra, in Germania, in Austria, e in termini particolarmente rilevanti in Italia), l’elettore di sinistra: ovviamente, essendo storicamente caratteristica della sinistra (di tutte le sinistre storicamente datesi) la volontà (e la convinzione della possibilità) di concretizzare i propri valori e principi nella vicenda umana attraverso l’azione cosciente, individuale e collettiva, organizzata, cioè attraverso la pratica politica, anziché confidare nella bontà, o nell’ineluttabilità, degli esiti prodotti da qualsivoglia “mano invisibile”.

Per il vero, anche una parte, più o meno consistente, dell’elettorato di destra reagisce alla “globalizzazione” (ai suoi fenomeni reali e alla sua ideologia) negativamente: con angosce che cercano risposta nei localismi, se non in etnicismi (cioè in identità costruite in contrapposizione all’”Altro”). E ciò in non pochi Paesi europei occidentali: nei quali, tuttavia, l’espressione politica di tali atteggiamenti resta minoritaria e isolata (con la non casuale, parziale eccezione del partito di Haider), oppure viene mediata, e sostanzialmente egemonizzata, dai tradizionali, consolidati partiti democratici conservatori.

Non così in Italia, dove il collassare della Democrazia cristiana, e l’esaurirsi dell’equivoca anomalia dell’”unità politica dei cattolici”, se ha recato nella coalizione cosiddetta di “centrosinistra” l’apporto di una componente di indubbia, storica dignità culturale e politica, ha per converso consentito il costituirsi, sull’altro versante, di un blocco politico che ha del tutto rinunciato a metabolizzare in senso democratico le tensioni reazionarie, così come, in genere, ad applicare un suo filtro di valori agli interessi in gioco, e quindi a mediarli, indirizzarli e guidarli, per puntare invece a interpretare e a rappresentare direttamente le emozioni della “gente”.

Ma anche la sinistra (ci si riferisce qui alla “sinistra di governo”: altri sono i problemi e i limiti della cosiddetta “sinistra antagonista”), in Italia ben più che negli altri Paesi europei occidentali, immersa in un presente disancorato dalla storia, deprivatasi di principi e valori, ha finito con l’assumere come suo obiettivo una “modernizzazione” priva di qualificazioni, incapace di trasmettere messaggi significativi e di aggregare grandi interessi collettivi. Salvo periodicamente dichiarare la necessità di riproporre “valori”, e magari anche proclamarne qualcuno: ma ridotto a “parola-feticcio”, astratta, disincarnata.

In buona sostanza, la “sinistra di governo”, rifiutata (o, e qui sta forse una parte della genesi del problema, frettolosamente abbandonata a seguito di accadimenti esogeni) la visione palingenetica, o, se si preferisce, la radicale ipotesi di trasformazione strutturale dello stato delle cose esistenti, alla quale comunque si era richiamata per svariati decenni la sua componente più robusta, non ha saputo elaborare un suo programma, ovvero un suo insieme sistemico di progetti, che fosse capace, tutt’assieme, di mostrarsi inveramento dei valori storicamente costanti (anche se diversamente, e talvolta conflittualmente, declinati) della sinistra, o, se si vuole, delle sinistre (“liberté, egalité, fraternitè”? “giustizia e libertà”? “la libertà individuale come impegno sociale”?), e di incrociare gli interessi, materiali e immateriali, di vasti strati sociali, di masse di individui.

La “sinistra di governo”, o, meglio, il “ceto politico” da essa espresso, ha quindi finito con il praticare comportamenti da un lato sempre più autoreferenziali, dall’altro lato di assecondamento di pulsioni episodicamente emergenti e di contrattazione con interessi settoriali frammentatamente esprimentisi. Privo di una vera identità programmatica, e di una robusta strategia, tale “ceto politico” ha finito con il “giocare di rimessa”, facendosi sostanzialmente dettare l’agenda degli argomenti dagli avversari, e comunque da altri soggetti, nella presuntuosa e arrogante certezza di supplire a tutto con una superiore capacità tattica: riuscendo soltanto a dar prova di un tatticismo esasperato, nel quale si manifestava l’assenza di maturate, profonde convinzioni in merito a pressoché ogni argomento. Gli esempi si sprecano, a partire da quelli più clamorosi: dal volonteroso tentativo di mettere mano d’intesa con “questa destra oggi realmente esistente” alla Costituzione repubblicana del 1948, concorrendo ad alimentare l’opinione che essa sia un “ferrovecchio”, al considerare fungibili, in tale contesto, il “semi-presidenzialismo alla francese” e il “premierato all’inglese” (o all’israeliana, o, perché no, alla tedesca?), all’incredibile e indigeribile pasticcio (che ci si accinge a riproporre) della riforma “federalista” della Repubblica, ignara dei più maturi approdi dell’elaborazione costituzionalista negli stati federali europei più consolidati, al grottesco e patetico episodio dello spendersi senza residui per un referendum produttore di una legge elettorale iper (pur se casualmente) maggioritaria, per scoprirsi (quasi) favorevoli al sistema proporzionale puro nei successivi quindici giorni.

1.2. L’ideologia “mercatistica”

Nel complesso, la prassi della “sinistra di governo” può essere ricondotta (nei migliori dei casi) alla categoria del “pragmatismo”. Ma, ha scritto Ralf Dahrendorf [2], “il pragmatismo è conservatorismo sotto la veste dell’azione. Esso conserva l’esistente, nel mentre che dà l’impressione di movimento”, e, a ogni buon conto, “talvolta il comportamento pragmatico è necessario, ma chi cerca di fare di necessità virtù conclude poco, anzi spesso peggiora quello che è chiamato a riparare”, mentre “la teoria e qualcosa di più che un piacevole lusso”.

Sotto il profilo della teoria, è giocoforza constatare che la “sinistra di governo”, palesemente priva, soprattutto in Italia, nelle sue componenti quantitativamente più consistenti, di robusti e diffusamente metabolizzati anticorpi concettuali che non derivassero da un banale e superficiale “anticapitalismo” (come la cosiddetta “sinistra antagonista”, ma forse paradossalmente ancor più di parti di quest’ultima), si è arresa alla dilagante “ideologia mercatistica”.

Si può anche ammettere, pur se talvolta si è indotti a dubitarne, che la “sinistra di governo” italiana sia eccettabilmente consapevole del fatto che condizione indispensabile al funzionamento del mercato come regolatore della produzione/distribuzione di determinate categorie di beni è l’esistenza di un preciso sistema di regole giuridiche, poste dal potere politico al fine di consentire al mercato stesso di esplicare, negli ambiti a esso propri, le proprie capacità autoregolatrici. Si è indotti a dubitarne quando ci si riferisca non solamente alle regole volte a disciplinare i comportamenti degli attori del mercato, ma anche a quelle volte a stabilire limiti, per così dire, sostanziali a tali comportamenti, o interventi riequilibratori (a esempio quelle volte a impedire il formarsi, o alla decostruzione, di posizioni monopolistiche od oligopolistiche), e ancor più quando ci si riferisca alle regole volte a perseguire l’internalizzazione delle esternalità (cioè l’integrazione nel meccanismo di formazione dei prezzi di tutti i costi inerenti i processi di produzione/distribuzione dei beni).

Non pare invece rinvenibile la consapevolezza, tutt’altro che estranea al pensiero economico liberale classico, dell’esistenza di beni non “mercatizzabili”, in quanto “beni collettivi indivisibili”, o in quanto “beni esistenziali” (i beni che non hanno valore perché sono valori), o in quanto non sostituibili (ovvero fungibili), o non riproducibili (tipicamente, le cosiddette “risorse esauribili”, e i cosiddetti “beni posizionali”).

Ciò perché relativamente a tali beni il “valore di scambio”, cioè il prezzo, non è un indice di valutazione appropriato, non potendo formarsi secondo i meccanismi riconosciuti propri, per l’appunto, del mercato. Il quale mercato, infatti, per quanto ottimamente regolato, non è in grado di misurare, oltre alle scarsità relative, anche le scarsità assolute. Come non è in grado di provvedere all’allocazione intertemporale delle risorse, dato che le generazioni future non possono agire nel mercato attuale.

Sulla base di tale consapevolezza si era riconosciuto, nell’ambito del pensiero liberale, rientrare nell’ambito necessario delle determinazioni politiche sia esprimere giudizi di valore su quei beni che il mercato non è in grado di valutare soddisfacentemente, sia regolare, con riferimento ai propri codici, la produzione (per quanto possibile) e la distribuzione/fruizione dei medesimi beni. Non escludendo la possibilità che i giudizi di valore politici siano tradotti negli indici di valutazione propri del mercato (i prezzi), avendo però ben chiaro che in tali i casi i prezzi non esprimono i valori dei beni considerati, e che, a ben vedere, più che di una traduzione si tratta di una simulazione.

E si era riconosciuto che configurare in siffatti termini l’ambito necessario delle determinazioni politiche, escludendone debordamenti intromissori nell’ambito del mercato, ma anche intrusioni del mercato nei codici valutativi delle determinazioni politiche, significava che tali determinazioni dovevano discendere da un “progetto di società” [3].

Non è chi non veda quanto sia arduo trovare traccia di un tal genere di consapevolezze e di convinzioni nel dibattito (o nel chiacchiericcio?) quotidiano della “sinistra di governo” italiana, o in sottotraccia nei suoi programmi e progetti (quando li ha). Anzi: si ha sovente la sensazione che il riproporle comporti, ai suoi occhi, l’automatica ascrizione alla categoria dei “passatisti” [4]. Quanto alla “destra” italiana, o “centrodestra”, o “casa delle libertà” (sedicente “liberale”, “liberista”, talvolta “libertaria” e perfino “libertina”) che dir si voglia, è ovviamente consigliabile lasciare perdere ogni ricerca.

2. LE RAGIONI DELLA PIANIFICAZIONE

2.1. La pianificazione e la qualità sociale

Si è affermato prima che le determinazioni politiche espressive dei giudizi di valore sui beni non “mercatizzabili” devono discendere da un “progetto di società”. Ma lo strumento principale per definire e perseguire un “progetto di società” è la “pianificazione”, non intesa come (velleitaria) predeterminazione rigida del futuro, ma - lo ha ottimamente chiarito, a suo tempo, Pasquale Saraceno [5]- come processo continuo e come momento operativo del “progetto di società”: Cioè come un quadro prospettico, coerente e sistemico (costantemente aggiornabile e ricalibrabile) con il quale confrontare (e nel quale collocare) le determinazioni specifiche che maturano nel processo decisionale politico.

Nella vulgata contemporanea, lo stesso termine “pianificazione” è associato (soltanto) al “socialismo realizzato”. Mentre, ha scritto Giorgio Ruffolo [6], “la pianificazione - detestata, non a caso, dai pragmatici dell’intrallazzo come dai rivoluzionari della chiacchiera - sta dalla parte dell’ordine vitale e della libertà. E’, nel mondo complesso delle società moderne, la tecnica della libertà e la forma della ragione”.

Quanto poi alla pianificazione territoriale e urbanistica, della quale d’ora in avanti esclusivamente ci si occuperà in queste note, lo stesso Ruffolo ha affermato [7] che essa “fornisce il solo quadro coerente entro il quale una politica di arricchimento sociale può essere efficacemente perseguita”, per cui “l’abbandono dell’impegno riformatore in questo campo costituisce uno degli aspetti più gravi e caratteristici della crisi attuale della sinistra”.

La pianificazione territoriale e urbanistica, infatti, ha quali suoi oggetti tipici “risorse esauribili”, “beni posizionali”, beni non riproducibili (o assai limitatamente riproducibili), beni non sostituibili (o assai limitatamente sostituibili). Sua precipua finalità dovrebbe essere quindi valutare tali risorse e tali beni secondo codici “non mercatistici”, cioè secondo giudizi di valore qualitativi, esprimenti la coscienza sociale (almeno maggioritaria), e coerenti con il “progetto” che la società (attraverso i processi decisionali politici) pone per se stessa.

Per cui può asserirsi che la pianificazione territoriale e urbanistica dovrebbe avere la “qualità” (secondo la percezione e consapevolezza che storicamente di essa si forma e si esprime) come suo obiettivo, e che essa ritrova nella definizione e nel perseguimento della “qualità” (che è un valore, e che pertanto, come s’è detto, non può essere misurata dal mercato) la sua ragion d’essere.

“Qualità” intesa, in ogni caso, come “qualità sociale”: giacché tali sono le “qualità” strutturali e formali del territorio, e del sistema insediativo, e delle articolazioni dell’uno e dell’altro, e tali le loro qualità funzionali (l’efficacia e l’efficienza dei sistemi relazionali, e di ogni altro servizio), come tali sono le “qualità” ricercate e realizzate a fini di “equità”.

I connotati materiali essenziali dell'insieme del territorio e delle sue componenti (sottosuolo, suolo, soprassuolo naturale, corpi idrici, atmosfera) costituiscono senza dubbio, come s’è già detto in via generale, “risorse esauribili”, e hanno a che fare con beni non riproducibili (o scarsamente riproducibili) e non fungibili (o scarsamente fungibili). Compito essenziale è prioritario della pianificazione territoriale e urbanistica è garantirne la preservazione da fenomeni di alterazione irreversibile e di intrinseco degrado, in termini atti a perseguire la conservazione, o il ripristino, o la ricostituzione, di situazioni di equilibrio, anche dinamico, sia reciproco tra le componenti naturali e i loro processi evolutivi e/o autoriproduttivi, sia tra il contesto ambientale e la vita umana, considerata come fruizione del primo a scopi di mantenimento degli individui e di perpetuazione della specie, di produzione di beni mediante azioni intenzionali di trasformazione, di insediamento (ciò che con termine sintetico si denomina “tutela dell’integrità fisica del territorio”).

Parimenti costituiscono “risorse esauribili”, e hanno a che fare con beni non riproducibili (o scarsamente riproducibili) e non fungibili (o scarsamente fungibili), i connotati conferiti all'insieme del territorio, e/o a sue componenti, dalla vicenda storica, naturale e antropica. E parimenti è compito essenziale è prioritario della pianificazione territoriale e urbanistica garantire la preservazione delle testimonianze materiali di tale vicenda storica, l'identificazione delle regole che vi abbiano presieduto e la conservazione delle caratteristiche, strutturali e formali, che ne siano espressioni significative, in quanto risultato della permanenza di tali regole ovvero di particolari eventi o azioni umane, attraverso attività di manutenzione, restauro, ripristino, degli elementi fisici in cui, e per quanto, tali caratteristiche siano riconoscibili, nonché attraverso utilizzazioni coerenti con esse (ciò che con termine sintetico si denomina “tutela dell'identità culturale del territorio”).

Così operando la pianificazione territoriale e urbanistica (frutto di determinazioni politiche) adempie al proprio compito di “valutare” secondo codici, correttamente, non “mercatistici”, tali risorse e tali beni, i quali, come frequentemente si sente dire, sono “patrimonio dell’umanità”: di quella presente e di quella futura. Per cui cosi operando la pianificazione territoriale e urbanistica si conforma a finalità di “equità”, anche intergenerazionale. Ponendo le premesse ineludibili per il perseguimento di uno "sviluppo sostenibile", inteso, conformemente alla definizione data da Gro Harlem Brundtland, nel rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, "uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri".

In proposito, si può notare che se, come dianzi già s’è ricordato, la maggior parte dei potenziali compratori di “risorse esauribili” non può presentemente accedere al mercato, in quanto individui non ancora nati (le generazioni future) incontrano difficoltà ontologiche a fare sentire la propria presenza nel mercato attuale, occorre per converso riconoscere che i medesimi individui incontrano pari difficoltà a esprimere le proprie preferenze negli attuali processi decisionali politici. Cosicché diverse possibili determinazioni degli indici di valutazione delle “risorse esauribili”, e (quindi) delle loro allocazioni tra fini alternativi, e dei loro percorsi di utilizzazione, sono necessariamente contenuti di diverse opzioni politiche, le quali possono, anche in termini estremamente diversificati, assumere l’obiettivo di garantire fruibilità di tali risorse alle generazioni future, e presumere (non più che presumere) i valori che le generazioni future a esse attribuirebbero. Resta comunque il fatto che i processi decisionali politici possono attribuire alle “risorse esauribili” valori correlati (anche) alle utilità che esse possono avere per le generazioni future, mentre il mercato non può farlo.

Vale la pena, inoltre, di considerare quei beni, i cosiddetti “beni posizionali” (spesso coincidenti con beni di cui già s’è trattato sotto altri connotanti profili, e comunque di norma non riproducibili), la cui disponibilità non può essere che assai limitatamente accresciuta senza comprometterne la qualità, cioè diminuirne il valore (“d’uso”, o “intrinseco”, o “teleologico” che dir si voglia) per i fruitori (ma anche il prezzo, cioè il “valore di scambio” che i medesimi, o parte di essi, sono disposti a corrispondere per la fruizione di tali beni, ove si pretenda di farne regolare dal mercato la disponibilità).

Tipicamente, hanno tali caratteristiche i beni culturali (nell’accezione più vasta e pregnante del termine), la cui elevata intensità di fruizione comporta degrado della qualità della medesima fruizione, e quindi del valore (sia “d’uso” che “di scambio”) riconoscibile dal fruitore (e ciò anche a prescindere dal degrado oggettivo della “identità culturale” del bene, e financo della sua “integrità fisica”, che quasi sempre consegue da una sua elevata intensità di fruizione).

Ma lo stesso ragionamento può farsi relativamente al bene costituito dalla libera, agevole, celere mobilità sul territorio, e in particolare nelle città, e della correlativa accessibilità d’ogni punto del primo e delle seconde. La mobilità e l’accessibilità, com’è noto, diminuiscono, e quindi perdono qualità e valore, in conseguenza della crescita della medesima mobilità, e quindi dell’affollamento e della congestione dei luoghi.

I bisogni (o desideri) di “beni posizionali” non possono essere soddisfatti, quindi, mediante la crescita della loro disponibilità, in quanto essa contraddirebbe la natura stessa di tali beni, e dei correlativi bisogni (o desideri). Il mercato, ove operi nei limiti perciò posti alla crescita, può soltanto escludere dal consumo dei “beni posizionali”, attraverso i prezzi, la più gran parte della domanda. Ne consegue che l’alternativa risiede solamente nel “razionamento”, politicamente deciso, pianificato e programmato, dei medesimi beni. E anche che, così operando, la pianificazione si conformerebbe a finalità di “equità” sociale.

Alle quali finalità di “equità” sociale la pianificazione si conforma (pure in forme e in termini anche marcatamente diversificate, in relazione alle diverse opzioni politiche che legittimamente si confrontano) anche laddove assolve ai suoi compiti, per così dire, più tradizionali.

Si pensi alle scelte di attrezzamento dei sistemi insediativi con dotazioni di spazi per l’erogazione di servizi pubblici e per la fruizione collettiva quantitativamente consistenti e di elevato livello di qualità (formale e funzionale), cioè di arricchire la disponibilità di “beni pubblici”, vale a dire di quei beni che, come scrive Amartya Sen [8], “gli esseri umani non consumano separatamente, ma insieme”, e che costituiscono “alcuni dei più importanti fattori di capacitazione umana”. E la ricchezza di “beni pubblici” risponde a principi di “equità” sotto due intrecciati profili: da un lato è atta a soddisfare in termini percentuali progressivamente crescenti bisogni delle quote della popolazione meno dotate di capacità economica nel mercato, da un altro lato sono fruibili in termini universalistici, essendo tutti i cittadini, almeno tendenzialmente, posti nei loro confronti sullo stesso piano.

2.2. La pianificazione e il rule of law

Si suole dire che è compito specifico, e primigenio, della pianificazione territoriale e urbanistica regolare (per dare loro ordine e coerenza) le trasformazioni del territorio. Il che implica dettare regole al cui rispetto devono essere tenuti tutti gli agenti di tali trasformazioni: i soggetti privati (nell’ambito del sistema economico esistente nell’area atlantica, e ormai in quasi tutto il mondo) e anche i soggetti pubblici quando esercitino il ruolo di agenti delle trasformazioni, e non quello (che è, o dovrebbe essere, riservato a quegli specifici soggetti pubblici che sono le istituzioni democratiche rappresentative) di decisori dei contenuti della pianificazione territoriale e urbanistica.

Così configurata, la pianificazione territoriale e urbanistica è figlia della “cultura” del rule of law, dello “stato di diritto”.

Vero è che sono stati, e sono, frequentemente riproposti istituti tendenti a consentire che i soggetti pubblici esercitanti il ruolo di agenti delle trasformazioni possano “derogare” dall’obbligo del rispetto delle regole poste dalla pianificazione territoriale e urbanistica, od ottenere che tali regole siano variate con procedure straordinarie. Ma, anche in tali casi, seguendo predeterminati moduli procedimentali, il mancato rispetto dei quali determinerebbe l’illegittimità delle trasformazioni effettuate. Non è quindi negato il principio per cui alle regole dettate dalla pianificazione territoriale e urbanistica debbono attenersi tutti gli agenti delle trasformazioni del territorio. Fermo restando che, come ha sostenuto la Corte dei conti [9], “è di tutta evidenza che la localizzazione di opere pubbliche, al di fuori delle previsioni degli strumenti urbanistici e alcune volte anche contro le scelte fondamentali poste a base della pianificazione, produce la crisi della strumentazione urbanistica e mette in dubbio la stessa ratio insita nella pianificazione relativa agli usi e alle trasformazioni del territorio”.

Ma anche in un altro senso la pianificazione territoriale e urbanistica è figlia della “cultura” del rule of law, dello “stato di diritto”.

I soggetti pubblici competenti al “governo del territorio” (concretamente: i detentori del potere decisionale) non possono assumere determinazioni “caso per caso”, ma sono tenuti a collocare ogni determinazione in strumenti regolativi complessivi (per l’appunto, gli atti della pianificazione territoriale e urbanistica), da formarsi secondo procedure regolate, trasparenti (cioè conoscibili, controllabili e giudicabili dai cittadini, nonché dalla magistratura) e partecipate (potenzialmente dalla generalità dei cittadini).

E la giurisprudenza ha chiarito che gli atti della pianificazione territoriale e urbanistica sono sindacabili dalla magistratura, oltre che per vizi procedimentali, anche nel merito, ma ciò esclusivamente, preminente restando per il resto la discrezionalità (da non confondersi con l’arbitrio) tecnica, politica e amministrativa dei pianificatori, “sotto il profilo della manifesta illogicità e contraddittorietà”, ovvero per “irragionevole disparità di trattamento”.

3. LE CRITICHE ALLA PIANIFICAZIONE TRADIZIONALE

3.1. Verità...

Già quanto si disse della “pianificazione” (in generale, non soltanto di quella territoriale e urbanistica) intesa non come (velleitaria) predeterminazione rigida del futuro, ma come quadro prospettico, coerente e sistemico, e costantemente aggiornabile e ricalibrabile, con il quale confrontare (e nel quale collocare) le determinazioni specifiche, dovrebbe rendere chiaro che non si intende difendere, e rilanciare con forza, “le ragioni della pianificazione”, attraverso una piatta riproposizione dei modi concreti in cui spesso, e forse prevalentemente, nel nostro Paese, segnatamente negli anni ’70 del XX secolo, si è tradotta in atti e provvedimenti l’attività pianificatoria territoriale e urbanistica, con peculiare riferimento a quella comunale, unica o quasi, del resto, a essere di fatto praticata.

Tale attività (laddove si è prodotta da più tempo: giacché è bene non dimenticare mai che in vaste parte del Paese non s’è prodotta affatto, o ha iniziato a prodursi in termini relativamente recenti) è consistita perlopiù nel formare una sequenza di piani generali, con più o meno ampi intervalli temporali tra l’entrata in vigore dell’uno e l’avvio della formazione del successivo, ogni volta ricominciando daccapo con lo svolgimento di miriadi di ricerche e di analisi, e secondo procedimenti, prima di redazione tecnica, quindi di decisione politico-istituzionale, che portavano all’entrata in vigore di ognuno dei piani a distanza di sette/otto anni (se non di più) dall’avvio delle relative operazioni. Che portavano, perciò stesso, all’entrata in vigore di piani largamente privi di attinenza con il territorio del quale avrebbero dovuto regolare le trasformazioni e le utilizzazioni, per non dire delle dinamiche demografiche, sociali ed economiche che si erano nel frattempo prodotte, e che erano in quel momento effettivamente in atto. Conseguendone il ricorso alla prassi nefasta di procedere, da subito e per tutto il periodo di validità d’ognuno dei piani, a dare risposta a ogni (autentica o supposta) esigenza della società definendo decine (o centinaia) di varianti puntuali o settoriali, con ciò stesso negando la più essenziale valenza della pianificazione territoriale e urbanistica generale, cioè la sistemicità, ovvero la capacità di definire sistemi di coerenze complessive.

Va soggiunto che la definizione di raffiche di varianti parziali sortiva effetti particolarmente devastanti in ragione del loro poter investire, modificandolo, ognuno dei contenuti del piano generale: conseguenza ovvia dell’essere considerati questi ultimi tutti perfettamente omologhi, cioè non gerarchizzati.

E che tale pratica poteva trovare motivazioni di assoluta ragionevolezza nella pretesa di molti piani generali, soprattutto a partire dagli anni ’70 del XX secolo, di ipostatizzare a tempo indeterminato, o comunque per almeno un decennio, l’assetto, il disegno, di ogni parte del territorio considerato, definendolo tutto, indifferenziatamente, nei più minuti dettagli, sotto il profilo sia fisico che funzionale. Per cui si localizzavano puntualmente nei piani generali le fermate degli autobus (e magari si definivano le caratteristiche delle relative pensiline), e si destinavano puntualmente singole unità di spazio a “scuola materna” piuttosto che a “istituto tecnico”, oppure a “uffici amministrativi” piuttosto che a “servizi bancari”, e si definivano esattamente le dimensioni dei singoli, e non accorpabili né frazionabili, lotti nelle aree destinate alle attività produttive, magari ritenendo, con ciò, di determinare l’insediarsi di aziende appartenenti a specifici settori merceologici.

Per converso, e per le più svariate ragioni (molte delle quali riconducibili alle carenze a ai fenomeni già segnalati), molte delle previsioni dei piani generali, e in particolare quelle “strategiche”, cioè costitutive dell’assetto territoriale voluto, o irrinunciabilmente funzionali alla sua realizzazione, restavano inattuate.

Infine, l’intero processo decisionale di formazione dei piani vedeva la partecipazione dei cittadini pressoché totalmente ridotta all’esprimersi (mediante la presentazione di osservazioni od opposizioni alle scelte dei piani, o altrimenti) degli interessi delle singole proprietà immobiliari, o tutt’al più di interessi settoriali e corporativi, la voce dei quali comunque soverchiava sempre quella dei soggetti portatori di interessi generali, o almeno diffusi.

3.2. ...e mistificazioni

Il fatto è che i limiti e le carenze della pianificazione tradizionale, come concretamente e diffusamente praticata (quelli ora sommariamente rammentati, e altri ancora), sono stati, già tre o più decenni or sono, messi in luce e denunciati proprio da coloro che, consapevoli delle irrinunciabili ragioni della pianificazione territoriale e urbanistica, intendevano innovare, perfezionare, arricchire la sua pratica. E che, per contro, decenni di sordità e di inadempienze dei soggetti istituzionali, e delle formazioni politiche, cui competeva decidere e praticare le innovazioni, i perfezionamenti, gli arricchimenti concretamente possibili, nel contemporaneo rifluire di larga parte dei portatori delle specifiche competenze disciplinari e tecniche, e delle loro organizzazioni più rappresentative, nella passività avalutativa e in sterili accademismi, hanno potentemente concorso al costituirsi e al diffondersi della communis opinio per cui la pianificazione territoriale e urbanistica è, tutt’assieme, inefficace e inefficiente, inutilmente oppressiva e incapace di produrre, nei tempi necessari, risposte alle esigenze sia individuali che sociali.

In quest’ultimo contesto, la massima responsabilità dev’essere attribuita alle regioni, solamente alcune delle quali, e solamente nella seconda metà degli anni ’90 del XX secolo, si sono almeno cimentate nel ridefinire, rispetto al modello tracciato dalla legge urbanistica statale del 1942, e ancor più rispetto al “modello materiale” consolidatosi successivamente, i contenuti tipici, le efficace, i procedimenti formativi, degli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica, pur avendone tutte competenza primaria sin dai primi anni ’70 del XX secolo.

Nell’insieme, a ogni buon conto, si può giudicare quella che è intercorsa come una colossale operazione di mistificazione.

I soggetti cui competeva promuovere la capacità dei cittadini in quanto tali di esprimere le proprie “visioni” dell’assetto desiderato del territorio in cui vivevano, cioè in primis le formazioni politiche ma anche gli enti locali, magari lamentandosi del diffuso disinteresse sociale, si sono affannati a registrare i più immediati, talvolta anche miopi, interessi dei proprietari immobiliari, se del caso facendo mostre di dispiacersi del loro incombere.

Assai raramente i comuni, e meno ancora gli altri enti locali, si sono dotati dello strumentario tecnico, umano e organizzativo idoneo per passare dalla saltuaria produzione di piani a una pratica continua di pianificazione, cioè di definizione di scelte pianificate, loro attuazione, controllo, “monitoraggio”, verifica delle trasformazioni (territoriali e urbanistiche, ma anche demografiche, sociali, economiche), aggiornamento sistematico delle scelte. Meno che meno hanno preteso e realizzato drastiche contrazioni dei tempi di definizione, tecnica e politico-istituzionale, degli strumenti della pianificazione, e ancor più raramente i soggetti istituzionali sovracomunali (regioni e province) hanno stabilito e praticato modalità di controllo degli strumenti di pianificazione sottordinati rigorosi quanto necessario, ma non intromissivi e “impiccioni”, e (quindi) celeri quanto doveroso.

Quasi mai la realizzazione, o l’attiva promozione, delle trasformazioni “strategiche” definite dalla pianificazione territoriale e urbanistica è stata sentita e praticata come un obiettivo non rinunciabile dell’interezza del soggetto istituzionale competente, cioè della totalità, in virtuoso sinergismo, delle sue articolazioni organizzative, e delle sue possibilità di investire, indirizzare, mobilitare risorse, finanziarie e d’ogni altro genere.

E, su questi bei fondamenti, si è dedotto, o lasciato dedurre, e diffusamente finire con il ritenere, che la pianificazione territoriale e urbanistica sia un inservibile ferrovecchio.

4. LE SCORCIATOIE, LA RINUNCIA, L’ABBANDONO, LE CONSEGUENZE

5.1. Gi istituti eversori

Sui medesimi bei fondamenti, il legislatore nazionale (volonterosamente seguito e imitato da quelli regionali) inizia a produrre una serie di istituti eversori non già di singole scelte della pianificazione territoriale e urbanistica, ma della sua stessa logica, dei suoi connotati distintivi ed essenziali, delle sue stesse fondamentali ragioni.

Si comincia verso la fine degli anni ‘70, prevedendo, con il terzo comma dell’articolo 81 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n.616, che ove la localizzazione o i tracciati delle “opere pubbliche di interesse statale, da realizzare dagli enti istituzionalmente competenti” non siano conformi agli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, questi possano essere variati, conformemente ai progetti delle predette opere, mediante il solo raggiungimento di un’intesa tra l’amministrazione statale competente e le regioni interessate, le quali sono tenute solamente a sentire “gli enti locali nel cui territorio sono previsti gli interventi”. Per il vero, tale disposizione, dopo poco più di tre lustri, è sostituita da quella dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 18 aprile 1994, n.383, secondo la quale, nei medesimi casi, si deve invece convocare una “conferenza di servizi” alla quale devono partecipare le regioni e tutti i comuni territorialmente interessati (è misteriosa la mancata citazione delle province, alle quali una legge nazionale di principi di quattro anni prima, la legge 8 giugno 1990, n.142, aveva riconosciuto rilevanti competenze pianificatorie) e che, ove si concluda all’unanimità, produce l’effetto di variare, conformemente ai progetti delle opere, la pianificazione territoriale e urbanistica: l’omaggio reso all’orgoglio municipalistico dei comuni non rende certamente la disposizione più coerente con la logica della pianificazione.

Si prosegue con la legge 3 gennaio 1978, n.1, che, con il quarto comma dell’articolo 1, consente di variare con semplice voto del consiglio comunale le specifiche destinazioni, date dalla pianificazione, di “aree per la realizzazione di servizi pubblici”, senza limiti e criteri, per cui si videro spazi di verde pubblico tramutati in insediamenti di edilizia economica e popolare.

Per tutto il corso degli anni ’80 del secolo scorso si succedono le “emergenze naturali” (terremoti, frane, alluvioni, mareggiate, invasioni di alghe e di mucillagini marine, e via disastrando) e le “emergenze provocate” (i campionati mondiali di calcio, le “Colombiadi”, e via producendo “grandi eventi”) e le “emergenze storiche” (l’arretratezza economica del mezzogiorno, lo stato disastrato della rete ferroviaria): a ognuna delle “emergenze” corrispondono provvedimenti legislativi speciali che si premurano di ammettere trasformazioni del territorio in deroga alla pianificazione territoriale e urbanistica, ovvero procedure iper-semplificate, “negoziali”, comunque verticistiche e opache, di variazione della medesima pianificazione [10].

All’inizio del decennio successivo, l’articolo 27 della legge 142/1990 disciplina in via generale, con l’ottimo intendimento di facilitare “la definizione e l’attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l’azione integrata e coordinata di comuni, di province e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, o comunque di due o più tra i soggetti predetti”, l’istituto dell’”accordo di programma”: peccato che si senta il bisogno di disporre che esso può comportare variazioni della pianificazione comunale, apportabili con semplice voto del consiglio comunale di ratifica dell’adesione del sindaco all’accordo stesso.

Lo stesso anno l’articolo 14 della legge 7 agosto 1990, n.241, stabilisce, altrettanto in via generale, che “qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo”, ovvero quando “l’amministrazione procedente debba acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche”, viene di regola convocata una “conferenza di servizi”. Il fatto è che alcune disposizioni di altre leggi (alcune precedentemente ricordate) correlano al raggiungimento di intese l’automatica variazione degli strumenti di pianificazione. E che successive modificazioni e integrazioni della legge 241/1990 (le più rilevanti delle quali apportate dalla legge 15 maggio 1997, n.127) hanno disposto che, in taluni casi, le determinazioni della “conferenza di servizi” tengano luogo delle richieste intese anche quando siano state assunte non all’unanimità ma, per quel che riguarda i comuni, le comunità montane e le province, anche soltanto con il consenso della maggioranza degli enti locali interessati appartenenti a queste tre categorie, purché i loro abitanti, secondo i dati dell’ultimo censimento ufficiale, costituiscano la maggioranza di quelli delle collettività locali complessivamente interessate dalla decisione.

Nel frattempo, l’articolo 16 della legge 17 febbraio 1992, n.179, aveva introdotto l’istituto dei “programmi integrati di intervento”, proponibili da soggetti pubblici o privati relativamente a zone in tutto o in parte edificate o da destinare anche a nuova edificazione, al fine della loro riqualificazione urbana ed ambientale, e approvabili, con procedure iper-semplificate, anche se in contrasto con le disposizioni della pianificazione [11].

Ancora, l’articolo 11 del decreto legge 5 ottobre 1993, n.398, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n.493, ha introdotto i “programmi di recupero urbano”, i quali “sono costituiti da un insieme sistematico di opere finalizzate alla realizzazione, alla manutenzione e all’ammodernamento delle urbanizzazioni primarie, con particolare attenzione ai problemi di accessibilità degli impianti e dei servizi a rete, e delle urbanizzazioni secondarie, alla edificazione di completamento e di integrazione dei complessi urbanistici esistenti, nonché all’inserimento di elementi di arredo urbano, alla manutenzione ordinaria e straordinaria, al restauro e al risanamento conservativo e alla ristrutturazione edilizia degli edifici”, sono “proposti al comune da soggetti pubblici e privati, anche associati tra di loro”, e possono essere approvati, anche se difformi dalle disposizioni della pianificazione, con la procedura prevista per gli “accordi di programma”.

Successivamente, il decreto del Ministro dei lavori pubblici 21 dicembre 1994 ha regolato i “programmi di riqualificazione urbana” (PRU), e il decreto del Ministro dei lavori pubblici 8 ottobre 1998 ha regolato i “programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio” (PRUSST). In entrambi i casi è consentito che i progetti degli interventi siano inseriti nella pianificazione, variandola, e comunque (almeno potenzialmente) alterandone le coerenze sistemiche, con procedure concertative interistituzionali straordinarie. Per di più, i provvedimenti citati adombrano più o meno lauti finanziamenti pubblici per interventi di qualsivoglia tipo, sortendo l’effetto di indurre (e quasi costringere) tutti i soggetti concertanti ad assentire anche alle ipotesi più fantasiose, dissennate, devastanti: le quali, una volta assentite, sono destinate a non essere mai del tutto accantonate.

Infine (per ora) il comma 203 dell’articolo 2 della legge 23 dicembre 1996, n.662, ha regolato gli istituti della “programmazione negoziata” (“intesa istituzionale di programma”, “accordo di programma quadro”, “patto territoriale”, “contratto di programma”, “contratto di area”), tre dei quali (l’“accordo di programma quadro”, il “patto territoriale” e il “contratto di area”) possono produrre variazioni della pianificazione territoriale e urbanistica con la procedura prevista per gli “accordi di programma”.

Non si potrebbe commentare meglio di quanto faccia un recente documento che, dal suo canto, contesta radicalmente, in sede teoretica, la prassi e ancora più la cultura della pianificazione territoriale e urbanistica consolidata [12]: “dopo che la legislazione precedente aveva introdotto strumenti che portavano a compimento il disegno del sistema di pianificazione, il legislatore ‘inventa’ altri strumenti che permettano non di dare attuazione alla pianificazione stessa, ma di discostarsene ‘in variante’ rispetto alle previsioni di piano”.

Ma non basta ancora: il decreto del Presidente della Repubblica 20 ottobre 1998, n.447 [13], ha disposto che qualora il progetto di un qualsiasi “impianto produttivo di beni e servizi” sia in contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda una sua variazione, purché sia “conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro”, e “lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato”, si possa convocare una “conferenza di servizi”, la cui “determinazione costituisce proposta di variante sulla quale [...] si pronuncia definitivamente entro sessanta giorni il consiglio comunale”.

Non può non essere evidente a chiunque come una siffatta disposizione prefiguri una prassi di continua variazione degli strumenti di pianificazione, a semplice richiesta dei promotori di impianti produttivi, i quali, acquistato che si siano un qualche lotto in zona agricola (ai valori dei terreni agricoli), se lo faranno destinare a insediamenti produttivi. Ammesso, e assolutamente non concesso, che una siffatta prassi non lederebbe diffusamente, gravemente e irreversibilmente l'”integrità fisica” e l'”identità culturale” del territorio, non può dubitarsi che essa vanificherebbe ogni sforzo diretto a conferire un assetto razionale ed efficiente al sistema insediativo e a quello relazionale (o della mobilità che dir si voglia).

4.2. L’elusione

Il ricorso agli istituti eversori non resta confinato nell’eccezionalità, ma diviene prassi ordinaria quasi ovunque.

Non si nega esplicitamente la necessità della pianificazione generale, anzi si proclama, con dosi variabili ma comunque massicce di ipocrisia, la volontà di darvi corso, ma rinviandone la definizione complessiva, con progressivi slittamenti, a un orizzonte temporale che, come quello geografico, si ridisloca mano a mano che si procede verso di esso.

La parola d’ordine del “pianificar facendo”, coniata nella Capitale, si rivela come la pratica più frequentata da miriadi di comuni italiani, appannandosi in ciò quasi ogni distinzione di appartenenza ai grandi schieramenti politici dei relativi gruppi dirigenti.

Alcuni connotati di questo modello comportamentale sono ricorrenti.

La pubblicizzazione, di norma condita con profluvi di parole d’ordine retoriche, suggestive, accattivanti, di elaborati variamente denominati, ma richiamanti comunque il termine “piano”, che non soltanto sono privi (e non potrebbero non esserlo, stante l’indeterminatezza dei loro contenuti) di qualsiasi rilevanza esterna, cioè direttamente, o anche indirettamante, conformativa, o condizionatrice, delle trasformazioni territoriali, ma sono pure privi di reale, impegnativa obbligatorietà nei confronti delle successive decisioni della stessa amministrazione locale che li ha elaborati e pubblicizzati (forse anche perché sovente si omette di sottoporli al dibattito e al voto del relativo organo decisionale).

L’omissione di qualsiasi stima attendibile dei prevedibili fabbisogni di spazi per le diverse funzioni, e meno che mai delle preventivabili concrete domande di spazi, e quindi di qualsiasi predeterminazione delle quantità di spazi (edificati, o variamente sistemati) da mettere in gioco nelle scelte di pianificazione.

L’enfatizzazione di ogni “grande (o meno grande) evento”, e di ogni “occasione”, per decidere, con procedure straordinarie, miriadi di trasformazioni, le cui coerenze con qualsivoglia disegno complessivo sono tanto meno dimostrabili, e, per contro, contestabili, quanto più il disegno complessivo è generico e impreciso. Miriadi di trasformazioni la più gran parte delle quali hanno, di norma, scarsa attinenza con lo specifico “evento”, con la specifica “occasione”, e molte delle quali, comunque, sono scontatamente destinate a non realizzarsi in tempi effettivamente correlati al prodursi dell’”evento”, o dell’”occasione”, ma che sono tutte poi destinate a condizionare irreversibilmente le scelte della pianificazione (se e quando verrà).

La contrattazione di parte delle suddette trasformazioni, e di altre ancora, purché di massiccia entità, sempre al di fuori di ogni ragionamento globale sullo stato della città e sulle sue prospettive, con “attori” privati, cioè, concretamente, con i detentori della proprietà degli immobili interessati, di volta in volta sottolineando la “strategicità” delle trasformazioni stesse nel disegno generale voluto (generico, e mai definitivamente deciso nelle forme e secondo i procedimenti ordinari di legge), ovvero enfatizzando la rilevanza delle contropartite ottenute in un supposto interesse generale.

A proposito di questo modello comportamentale ha scritto Vezio De Lucia[14]: “Bisogna [...] considerare che l’affermazione dell’urbanistica contrattata è andata di pari passo con la diffusione degli strumenti di pianificazione specialistici e di settore: piani di bacino, piani paesistici, piani dei parchi, piani dei trasporti. In verità, per ora siamo solo alle buone intenzioni, ma è innegabile che si tratta di una novità importante, grazie alla quale si potranno offrire alla collettività garanzie di tutela di diritti e di interessi vitali: la difesa del suolo, la qualità estetica e ambientale del territorio, il godimento della natura, migliori condizioni di mobilità. L’insieme delle pianificazioni specialistiche e di settore tende a coprire gran parte del territorio, in particolare gli spazi aperti. Che cosa resta fuori? Restano fuori soprattutto i luoghi destinati o da destinare a trasformazioni urbane. In buona sostanza, lo scenario si scompone in un diffuso sistema di vincoli e di tutele, mentre le aree più pregiate, quelle del business, della contrattazione, dei piccoli e grandi affari sono oggetto di decisioni al riparo da sguardi indiscreti. Si opera, insomma, con procedimenti discontinui che frammentano e disarticolano lo spazio. Si sta rinunciando, in qualche città si è già rinunciato, all’idea razionale (e razionalista) del piano urbanistico comunale esteso a tutto il territorio, all’universitas del patrimonio territoriale”.

Ottimamente detto. Ma è legittimo il sospetto che De Lucia sia, una volta tanto, un po’ troppo ottimista. E non soltanto perché, quanto a copertura del Paese con i piani specialistici finalizzati alla tutela della sua integrità fisica e identità culturale siamo, come lui riconosce, soltanto alle buone intenzioni (e in larga parte del Paese un po’ più indietro), quanto soprattutto perché l’affermarsi della prassi, e della “cultura”, della contrattazione delle trasformazioni urbane con i detentori della proprietà immobiliare, nel contesto di una diffusa “ideologia mercatistica”, potrebbe portare a intaccare anche quelle parti del territorio che si dovrebbero stimare “messe al sicuro” dall’apparato della suddetta pianificazione specialistica, il cui rapporto di effettiva, non formale, inderogabile sovraordinazione rispetto alla pianificazione ordinaria, essenzialmente comunale, è tutt’altro che consolidato, laddove la comparazione, tutta privatistica, tra i costi in termini di minore “valore aggiunto ambientale” (che ormai in qualche modo hanno imparato ad apprezzare anche i più ottusi “palazzinari”) e i benefici in termini di tradizionale profitto, e ancor più di tradizionalissima rendita, faccia, magari soltanto nel breve termine, pendere la bilancia a favore dei secondi.

L’esempio della lottizzazione romana di Tor Marancia, che invade, per ora soltanto con la localizzazione delle attrezzature scoperte, l’ambito del parco dell’Appia Antica, suona come una sinistra conferma dell’ora espresso sospetto.

4.3. L’abbandono teorizzato

Ogni ipocrisia (che comunque, diceva La Rochefoucault, “è un omaggio reso dal vizio alla virtù”) viene abbandonata nel “Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali” del Comune di Milano [15].

I primi cinque capitoli della prima parte di tale “Documento” costituiscono indubbiamente una delle più cospicue elaborazioni prodotte in Italia al fine di contestare radicalmente, in sede teoretica, la prassi e ancor più la cultura della pianificazione territoriale e urbanistica, negandone non specifiche forme e modalità applicative, ma gli stessi presupposti concettuali, con ciò aggredendo assunti la cui valenza è ben più ampia di quella attinente il governo del territorio.

Non poche delle posizioni affermate, infatti, mettono in discussione, o francamente contestano, elementi informatori generali dell’ordinamento costituzionale e giuridico italiano. La più spettacolare di tali affermazioni è senza dubbio quella per cui nel “continuo confronto tra ragioni”, al quale dovrebbe sostanzialmente ridursi l’attività di governo del territorio, “lo stato [inteso come il complesso dei soggetti istituzionali] ha una voce autorevole, ma pur sempre una voce tra le voci”. Forse non siamo all’estinzione dello stato di leniniana memoria, ma certo siamo a una delle più spinte concezioni di “stato minimo” mai avanzate dall’”anarchismo reazionario”, o “liberismo libertario”, costituente uno storico, robusto e rigoglioso filone della destra nordamericana.

Nel complesso, l’intera elaborazione risponde a una concezione integralmente (si sarebbe tentati di dire integralisticamente) “mercatistica” della società e dei rapporti intersoggettivi.

L’assillo con il quale tutta l’elaborazione si confronta, e che infine ritiene di risolvere, consiste nella duplice (e potenzialmente contraddittoria) necessità di fornire agli operatori immobiliari “certezze che garantiscano gli investimenti” e flessibilità per “adeguare le norme [e conseguentemente i programmi di investimento] ai possibili mutamenti del mercato”.

Nel tessuto di questa dialettica di interessi (che talvolta si trasfigurano terminologicamente in “diritti”) compiutamente facenti capo ai proprietari e agli operatori immobiliari, può tutt’al più insinuarsi, pare, qualche domanda non “mercatistica”, alla quale (la si denomini o meno, a questo punto un po’ pomposamente, “interesse generale”) competerebbe ai soggetti pubblici istituzionali tendere a dare (magari parziale, parzialissima) risposta, attraverso la “negoziazione”, con i proprietari e gli operatori immobiliari, delle caratteristiche e dei requisiti delle trasformazioni territoriali da progettare e attuare.

Insomma: ai soggetti pubblici istituzionali si affida il compito di usare il potere politico di cui dispongono per soddisfare, nella misura in cui non intacchino sensibilmente gli interessi dei soggetti capaci di esprimersi sul mercato, le domande, residuali, si deve supporre, invece incapaci di esprimersi nei termini che il mercato riconosce.

In concreto, il “Documento” si sforza, dichiaratamente, di proporre un modello di attività pianificatoria che, nel soddisfare al meglio gli interessi (innanzitutto, ed egemonicamente) dei proprietari e degli operatori immobiliari, assuma sincreticamente le valenze perciò più funzionali sia del modello di attività pianificatoria “britannico” sia di quello “continentale”.

Si riconosce, infatti, che l’elevata flessibilità del “modello britannico” discende dalla latitudine, anzi dalla quasi assolutezza, della discrezionalità delle determinazioni delle pubbliche amministrazioni in ordine alle trasformazioni del territorio, fondata a sua volta nella tradizionalmente riconosciuta appartenenza al potere pubblico della facoltà di operare tali trasformazioni, ma si esclude di sussumere sia l’ampiezza di tali poteri discrezionali, sia, soprattutto, il suo presupposto.

Al contrario, si propone di assumere i presupposti del “modello continentale”, cioè il riconoscimento (più o meno ampio) dell’inerenza al diritto di proprietà degli immobili della facoltà di operarvi trasformazioni, fino a configurare il piano come (null’altro che) “il piano delle norme che riconoscono i diritti reali — e non attesi — d’uso del suolo”. Detto altrimenti: il piano dovrebbe divenire “una sorta di catasto, un archivio degli usi del suolo che si aggiorna continuamente con le nuove norme introdotte dai progetti di trasformazione approvati”.

Giacché nel modello proposto “il piano regolatore generale perde le sue valenze strategiche”, e “programmi e visioni [...] si traducono nelle linee guida e nelle strategie che l’amministrazione esprime nel piano strategico, approvato dal governo locale come [mero] documento politico”.

In tale modello, si aggiunge, “la cerniera tra il documento legale delle norme e il documento politico delle strategie è costituita dai progetti di trasformazione. Il controllo dei progetti diventa una valutazione delle conseguenze che l’attuazione di un progetto comporterebbe sulla situazione esistente, e una valutazione della coerenza di quelle conseguenze con le strategie dell’amministrazione. Ogni progetto, coerente con le strategie, una volta approvato si configura come una variante delle norme esistenti, e diventa esso stesso parte delle norme”.

In pratica: il piano generale (“sorta di catasto”) attribuirebbe a ciascun immobile, o complesso di immobili, il “valore” (“di scambio”, ovverosia il prezzo presumibilmente traibile) connesso alla sua trasformabilità fisica e funzionale (effetto che nel “modello britannico” discende soltanto dall’intervenuta definizione dei piani/progetti operativi), garantendo ai relativi proprietari le ambite “certezze” (irreversibili, cioè non intaccabili da diverse scelte di trasformabilità, le quali devono essere preventivamente “negoziate” con gli stessi proprietari). A partire dalle acquisite “certezze” le concrete trasformazioni effettuabili sarebbero definite dai singoli progetti, attraverso, per l’appunto, la “negoziazione” con la pubblica autorità istituzionale, la quale ne valuterebbe la coerenza con le proprie strategie, salvo convincersi, negoziando, che queste ultime devono essere mutate, e alla quale spetterebbe poi di registrare nel piano generale i nuovi (e superiori, si può facilmente preconizzare) “valori” assegnati dai progetti decisi.

In estrema (ma non distorcente) sintesi: il pressoché unico compito assegnato alla pianificazione pubblica del territorio sarebbe quella di assicurare la (crescente) valorizzazione (nel senso dell’attribuzione di “valori di scambio”) degli immobili, e la minimizzazione del rischio d’intrapresa per i proprietari e gli operatori immobiliari.

Entro tale cornice, si è tenuti a ritenere, la pubblica autorità istituzionale può “negoziare” ben poco: l’ottenimento di qualche metro quadrato in più di attrezzature per la fruizione collettiva, anche a favore dei portatori di domande “non solvibili”, sempre che ci riesca. Anche in quanto la prevista “negoziazione” tra il "pubblico" e il "privato" verrebbe a essere pesantemente falsata dall’avere il "pubblico" a che fare con un "contraente obbligato", cioè con la proprietà in essere degli immobili interessati.

Nel corso di un seminario sul “modello di pianificazione” ora descritto [16], il più autorevole estensore del “Documento”, Luigi Mazza, ha sostenuto che i concreti committenti del “Documento” stesso, cioè gli amministratori comunali milanesi, o quanto meno quelli tra loro che sono espressione di “Comunione e Liberazione”, non hanno affatto una concezione “debole” del potere politico, e non sono affetto disposti ad una sorta di piatta soggiacenza alle domande dei “privati”. Ammesso, e per quel che mi riguarda tutt’altro che concesso, che ciò sia, non sarebbe rilevantemente modificato un quadro che comunque vedrebbe il governo del territorio affidato a una continua “negoziazione” tra due sole parti, la proprietà immobiliare e i concreti detentori del potere politico, al di fuori di un quadro sistemico di regole definite secondo procedure trasparenti e partecipate. In altri termini, in luogo del rule of law, dello “stato di diritto”, si affermerebbe una sorta di ritorno alla concezione del princeps (“democratico” soltanto in quanto periodicamente eletto, secondo la logica della “democrazia di mandato”) legibus solutus, per cui quod principi placuit, legis habet vigorem.

5. LA NECESSITÀ E LA PRATICABILITÀ DEL GOVERNO PUBBLICO DEL TERRITORIO

5.1. La pianificazione come cultura e come metodo

Si sono già esposte le ineludibili ragioni della pianificazione territoriale e urbanistica, ma si sono anche riconosciute le (parziali) verità delle critiche rivolte alla pianificazione tradizionale, cioè alla pianificazione come in concreto più diffusamente praticata, sinora, soprattutto in Italia. E si è contestato che ai limiti e alle carenze della pianificazione tradizionale si possa, o si debba, rispondere con l’introduzione di istituti eversori della logica stessa, e delle essenziali ragioni, della pianificazione, oppure con il sostanziale (teorizzato o semplicemente praticato) abbandono della pratica della pianificazione, e comunque del governo pubblico del territorio.

Si intende ora esporre le fondamentali risistematizzazioni e le più rilevanti innovazioni della pratica e degli istituti della pianificazione territoriale e urbanistica, e in genere del governo pubblico del territorio, grazie alle quali si ritiene che l’una e l’altro possano rispondere pienamente alle proprie ragioni, ovviando ai limiti e alle carenze riscontrate. Proponendosi, su questa base, di affermare come un coerente rilancio della logica, del metodo e della pratica della pianificazione territoriale e urbanistica, e del governo pubblico del territorio, sia essenzialmente un problema di ricostruzione di una solida, consapevole e diffusa “cultura politica” all’altezza dei più maturi approdi già storicamente raggiunti dal pensiero politico dell’area atlantica, o quantomeno dell’Europa occidentale.

Riprendiamo dal “dossier” di Urbanistica informazioni (gennaio-febbraio1985) il saggio di uno dei partecipanti (insieme a Mario Cresci, Ferruccio Orioli, Raffaele Panella e altri) a un’esperienza che è stata rapidamente dimenticata. Eppure, rileggere oggi questo resoconto del lavoro compiuto è di grande interesse.

Perché è una interessante anticipazione dello spirito e dei modi della “pianificazione partecipata”, con il coinvolgimento della popolazione (compresi gli emigranti e i bambini delle scuole) finalizzata alla costruzione di un progetto di città e al suo governo.

Perché è un esempio (e un’anticipazione) di quel passaggio dal piano alla pianificazione che si cominciava allora a rivendicare.

Perché ricorda l’essenzialità della saldatura tra le indispensabili componenti della pianificazione della città e del territorio: quella politica, quella economico-sociale, quella fisica, tutte alimentate e sorrette da una dimensione etica dell’impegno professionale.

Nel file .pdf, scaricabile dal link in calce, oltre alle illustrazioni del saggio, utilissime per comprendere lo spirito e la sostanza del lavoro, sono riprodotte le schede, curate da Ferruccio Orioli, che illustrano le diverse componenti progettuali e attuative della pianificazione avviata con il PRG.

NOTE SUL PRG DI TRICARICO

1. ALCUNI DATI GENERALI

Le operazioni di piano a Tricarico (Matera) vanno dal 1966, anno del conferimento dell’incarico del Prg, al 1972, anno in cui vennero ultimati i Pp di volta in volta collegati all’attuazione della 167, alla costruzione di una nuova casa comunale e, infine, agli interventi nel centro storico.

Il Prg fu affidato dall’Amministrazione comunale di Tricarico al Laboratorio di ricerca e progettazione Polis di Venezia, avente come responsabile A. Musacchio per la sezione socio-economica e R. Panella per la sezione urbanistico-territoriale. Alla Polis parteciparono dagli inizi F. Orioli, che fin dal ‘67 (la Polis era nata nel ‘65) assume un ruolo direttivo nel settore urbanistico-architettonico a fronte di un progressivo distacco del gruppo di R. Panella e M. Cresci, che dopo una collaborazione in veste di grafico avrebbe curato le campagne fotografiche a Tricarico e l’uso della fotografia nei vari atti di piano.

La sigla Polis fu utilizzata per le operazioni di piano comprese fra il ‘66 ed il ‘69. A partire dal ‘70 nella titolarità degli atti di progettazione subentrò, praticamente sulla base delle stesse persone, il gruppo di progettazione “Il politecnico”, che si costituì direttamente a Matera, dove operò fino al 1974. Per la Polis hanno partecipato all’attività urbanistica e socio-economica a Tricarico essenzialmente: Mario Cresci, Aldo Musacchio, Ferruccio Orioli, Raffaele Panella, Luisa Tugnoli, Neri Braulin. Per il Politecnico: Mario Cresci, Amalia D’Adamo, Luciana Fabris, Giuseppe Grassi, Aldo Musacchio, Ferruccio Orioli, M. Silvia Pertempi, Cono Terranova, Pancrazio Toscano.

Fra il 1966 ed il ‘72 il Comune di Tricarico fu retto da una Giunta la cui continuità di governo fu assicurata dalla Dc, sindaco M. Molinari, un laureato in economia e commercio, funzionario del Banco di Napoli. Tutte le delibere relative agli atti di piano furono approvate dal Consiglio comunale all’unanimità. Alla metà dell’83 il Prg risultava realizzato nella misura del 65-70%. Nel corso dello stesso anno l’Amministrazione comunale, ora presieduta da una Giunta socialista-comunista, con sindaco Psi, conferiva l’incarico della revisione del piano a F. Orioli.

2. I fondamenti teorici del lavoro di gruppo

2.1.La Polis si formò sulla scorta delle esperienze comuni di alcuni operatori culturali facenti capo all’Iuav (Istituto universitario di Architettura di Venezia). (In precedenza, Musacchio era stato, a Venezia, Coordinatore del Corso superiore di disegno industriale, di cui era allievo Cresci).

Dall’intensa attività scientifica e dalla stessa effervescenza politica dell’Iuav di quegli anni la Polis eredita almeno due presupposti ideali, legati, soprattutto in Panella, ma in parte anche in Orioli, alla lezione di Giuseppe Samonà:

a) il mito del piano, come strumento di razionalizzazione dei fenomeni territoriali, e come grande fattore di mobilitazione e promozione sociale e d’allargamento della democrazia di base (il “piano partecipato”);

b) il mito dell’interdisciplinarietà quasi come corrispettivo e correttivo dell’univocità ideologica del gruppo di lavoro, di decisa estrazione marxista, ma fortemente interessato a portare avanti un discorso di applicazione e di interazione professionale di determinate discipline scientifiche, dentro una dialettica sperimentazione/ negazione delle scienze sociali derivante pure dalla frequenza - Musacchio, Panella - di ambienti veneti legati ai Quaderni rossi.

2.2. Soprattutto in Musacchio e Panella, d’origine meridionale, gioca la volontà d’invertire la tendenza tradizionale dei “meridionali del Nord”, ridiscendendo al Sud per condurre un esperimento d’avanguardia nel sottosviluppo. Di questa determinazione è parte integrante la scelta di far coincidere, quanto più è possibile, luogo di lavoro e luogo di residenza; coll’avanzare dell’intervento urbanistico su Tricarico, in effetti, il gruppo si radicherà stabilmente in Basilicata (prima a Tricarico, poi a Matera).

3. IPOTESI DI LAVORO E RISCONTRI NELLA REALTÀ

3.1. Il nucleo fondamentale dell’impostazione teorica del lavoro di Tricarico è rappresentato dalla collocazione, al centro dell’attività di conoscenza e di progettazione urbanistica, di una riflessione d’ordine socio-economico; se il territorio - città e campagna - costituisce il luogo del rapporto società/economia, allora l’urbanistica è principalmente capacità di dare forma e razionalità spaziale ai vari stadi storici di tale rapporto.

3.2. L’ipotesi di lavoro per Tricarico discende da alcune valutazioni della congiuntura che il paese attraversa.

Dislocato nell’interno della Basilicata, lungo la strada statale che - all’epoca - unisce Matera a Potenza, Tricarico partecipa politicamente e socialmente di quella che Rocco Scotellaro ha chiamato la zona grigia dei movimenti contadini per la terra. Tra il ‘55 ed il ‘65 la popolazione locale è diminuita, per effetto dell’emigrazione verso il Nord ed il resto d’Europa, di 3 mila unità, passando all’incirca da 10 mila a 7 mila abitanti.

Per il momento il paese è tagliato fuori da qualsiasi programma di sviluppo: soltanto una zona periferica del suo territorio è stata toccata dalla riforma agraria, mentre l’industrializzazione di Val Basento lambisce appena il sistema collinare sottostante il paese, occupando solo poche unità lavorative.

In uno scenario del genere prevalgono, sotto il profilo socio-economico e demografico, le negatività:

- è l’emigrazione che fa vivere, con le proprie rimesse, i superstiti; nel ‘67 l’ammontare dei depositi fra casse postali e sportelli bancari è di circa 5 miliardi (per cinquemila anime);

- una frazione crescente dei ceti intellettuali borghesi si giova dell’impegno pubblico: soprattutto attraverso le istituzioni scolastiche e quelle sanitarie, assistenziali, previdenziali;

- le famiglie che hanno degli emigrati, proprio in questa seconda metà degli anni Sessanta, vanno istituendo una specie di “circolo virtuoso” del reddito, fondato sulla complementarietà di stato e mercato, e composto di una quota di risparmio migratorio e di quote di autoconsumo connesse alle economie naturali ed alla proprietà pressoché generalizzata della casa e di frammenti di latifondo contadino, di spezzoni di lavori collocati nell’agricoltura e nell’edilizia, di quote assistenziali (indennità di disoccupazione, pensioni di vecchiaia e soprattutto di invalidità), di lavoro domestico delle donne.

3.3. In questo contesto:

A) Qualsiasi previsione di sviluppo è aleatoria, in quanto - fra l’altro - non riconducibile ad alcun strumento di piano vigente in Basilicata a livello regionale. L’unico giudizio possibile, al momento, è che quello tricaricese sia un sistema a sviluppo zero, in cui ciò che viene impostato dall’esterno viene consumato parzialmente sul posto, lasciando come residuo una massa di capitali che, a sua volta, viene riportata all’esterno attraverso il sistema postale e bancario.

B) Le previsioni demografiche portano a pensare ad un lento declino della popolazione, soprattutto con effetti di senilizzazione e di femminilizzazione. Nell’incertezza delle dinamiche migratorie, l’obiettivo più realistico appare la stabilizzazione entro un decennio della popolazione su di un contingente di 5.800 - massimo 7 mila unità.

C) Che cos’è, che cosa può fare l’urbanistica nel sottosviluppo? Tricarico è (ha) un centro storico vincolato dalla Soprintendenza. Da secoli è sede di diocesi e, quindi, vanta una struttura nobile, tuttora non alterata da interventi distruttivi. La crisi di identità, prodottasi negli ultimi anni in conseguenza dei processi di mutamento generati dall’esodo fa sì che l’immagine ideale del paese sia decaduta presso la stessa mentalità comune. Ciò non ha provocato ancora l’aggressione del vecchio abitato, in quanto sono mancate le risorse finanziarie per farlo. Ora però l’emigrazione, fornendo tali risorse, mette in moto la macchina dell’edilizia; la quale sempre più si palesa come l’unica fonte d’occupazione e, quindi, di reddito per la forza lavoro (debole) rimasta in paese. Per un verso è lo Stato che attiva e sostiene l’industria delle costruzioni attraverso i finanziamenti della Cassa per il mezzogiorno in opere pubbliche e attraverso gli interventi nell’edilizia economica e popolare; per un altro verso è l’emigrazione che alimenta un crescente mercato delle abitazioni e delle aree. La massima e più diffusa aspirazione dei tricaricesi è di ristrutturare la casa di proprietà; ma l’eccedenza di risparmio - localmente non impiegabile in altri investimenti, dato che l’acquisto della terra in quanto bene agricolo è condizionato dall’incertezza del rientro degli emigrati e da un distacco dalla terra che, comunque, si avverte come definitiva - alimenta soprattutto l’espansione urbana.

La decisione dell’Amministrazione comunale di Tricarico, allora, di far redigere il Prg non è tanto un atto illuminato di governo, quanto un modo di “superare” il vincolo della Soprintendenza (che - ai sensi della normativa urbanistica del tempo - in ogni caso obbliga Tricarico alla redazione di Piano regolatore), accettando e legittimando il boom dell’edilizia. L’urbanistica, dunque, come “licenza di costruire”. Non solo. L’emigrazione mette a disposizione della società locale una massa monetaria che stimola, oltre che il mercato immobiliare, la rendita fondiaria urbana.

Nel ‘67, a Tricarico, i suoli centrali - i suoli, cioè, che rientrano nell’area percepita come appartenente alla tradizione dell’abitare e del vivere nella comunità - hanno un prezzo che oscilla fra le 70 e le 100 mila lire al metro quadrato. Valori a livello metropolitano, dal momento che a Tricarico lo spazio “urbano” è un bene raro, ritenuto in via di esaurimento. Ciò significa, quali che siano le intenzioni dei progettisti, che il Prg, definendo una nuova forma urbana di Tricarico, finisce, comunque, col definire il mercato fondiario, dal momento che ci si trova davanti ad un eccesso di domanda e che un sovradimensionamento, pur calcolato, delle aree di espansione, da un canto incontrerebbe limiti fisici (oltre che storico-paesistici) insuperabili, dall’altro esporrebbe il Comune al rischio di dover espandere a dismisura la spesa per le infrastrutture e di servizi. Il che, forse, è ciò che accade dappertutto, o quasi. Quel che è proprio del sottosviluppo, invece, è che i capitali disponibili provengono per la massima parte dall’emigrazione, vale a dire dalla fuga dal Mezzogiorno dei più poveri, mentre di contro i suoli, essendo i più prossimi al vecchio abitato, appartengono per la massima parte alla borghesia locale.

Se ne deduce che l’urbanistica (il Prg) di fatto sanziona il passaggio dei capitali da alcune mani ad altre, anzi (di norma) da una classe ad un’altra o, più banalmente, da coloro che per sopravvivere hanno dovuto emigrare e coloro che, per una qualche ragione, sono riusciti a restare in paese.

Due conclusioni di ordine generale: a) in ogni caso gli emigrati si danno carico dei rimasti, sia che costoro appartengano alla categoria dei percettori di rendita, sia che costoro - tuttora appartenenti al proletariato - percepiscano un salario dall’edilizia promossa dal processo migratorio; b) che tutto questo processo trova un qualche corrispettivo programmatorio nell’urbanistica che, nel sottosviluppo, non potendo razionalizzare (appunto) lo sviluppo, si adatta a razionalizzare le forme “opulente” della marginalità e della sussistenza.

3.4. L’analisi della situazione congiunturale e delle contraddizioni di fondo dell’urbanistica nel sottosviluppo prende forma nell’estate del ‘66, in fase di studi propedeutici al piano, e costituirà uno dei leit-motiv del dibattito di gruppo negli anni della operatività in Basilicata. Una delle alternative fondamentali dinanzi alle quali ci si imbatte, a Tricarico, è quella relativa al dimensionamento delle aree da destinare all’urbanizzazione privata. Un’inflazione, contenuta, dei suoli immessi sul mercato calmerebbe probabilmente i costi, determinando tuttavia - va ripetuto - uno stato di disagio e addirittura di rischio delle finanze comunali, senza dire delle barriere che ad una dilatazione del perimetro urbano oppongono le preesistenze paesaggistiche e monumentali ed i condizionamenti geografici. Davanti al male “certo” di un sovradimensionamento che metterebbe in pericolo alcune soluzioni urbanistiche, senza garantire che gli operatori di mercato si comportino in maniera conforme alle previsioni (il mercato fondiario diviene estremamente aleatorio in una situazione in cui il compratore vuole ad ogni costo acquisire un bene di cui per secoli ha agognato l’acquisto e dove l’esborso di una certa somma, da una parte, riflette la sua nuova mentalità di inurbato aggiornatosi ai costi delle aree metropolitane, dall’altra è prova e simbolo, nello stesso tempo, del suo nuovo status, della sua mutata capacità di reddito), in queste condizioni, dunque, il male minore appare quello di attenersi, almeno in via di ipotesi, ad un piano di minima che si rifaccia strettamente ai margini di sviluppo ed alle quantità demografiche realisticamente prevedibili e dia per scontata, pure, una flessione nel tempo della domanda fondiaria ed immobiliare, a mano a mano che l’emigrazione si consolida nei luoghi di destinazione.

Entro tali margini i veri obiettivi di piano, in gran parte coincidenti, possono identificarsi nella salvaguardia del patrimonio storico-monumentale, nella regolamentazione degli interventi di risanamento e conversione, nell’elevazione infine degli standard abitativi e residenziali, attraverso misure e servizi d’ordine vastamente igienico-sanitario, in grado di diffondere quei “modelli urbani” e quella “qualità della vita” che i flussi monetari provenienti dall’esterno finalmente consentono di raggiungere. Senza, tuttavia, incoraggiare “sprechi”: tentando, cioè, di evitare che l’accumulazione di capitale si riversi in surplus edilizio, in opulenza abitativa, in dilatazione abnorme del perimetro cittadino. Tutti fenomeni, che si tradurrebbero in oneri insopportabili per l’ente locale, senza che, peraltro, esista una ragionevole certezza che gli emigrati beneficino effettivamente delle risorse investite, tranne che nei brevi ritorni in paese per le festività tradizionali.

Inserendosi in quello che è il ganglio vitale del nuovo rapporto economica/ società istituito dall’emigrazione, il Prg si colloca fra gli strumenti, ed anzi col tempo si manifesta come il più efficace fra gli strumenti, politico-amministrativi per il governo della transizione di Tricarico da una formazione contadino-artigiana, ad una caratterizzata da un generico e ancora non definito processo di modernizzazione.

A Tricarico, insomma, il Prg coincide con la fine della miseria, come condizione generale della vita collettiva, e con l’introduzione di nuovi costumi, di diversi modelli di consumo, con la conseguente apertura al mercato di aree geografiche finora rimaste praticamente escluse dalle correnti di scambio delle merci; di processi pressoché generalizzati d’istruzione, che negli anni immediatamente a venire convoglieranno massicciamente l’investimento del risparmio migratorio verso l’educazione dei figli.

4. GLI OBIETTIVI PRINCIPALI DEL PIANO

4.1. Obiettivi politici

Nel lavoro del gruppo agiva l’ideologia propria dell’Iuav, e tipica di quegli anni, dell’equazione di lavoro professionale e di lavoro politico. In particolare, a Tricarico, la Polis tentò di verificare la possibilità che i processi d’informazione e di coinvolgimento diretto della popolazione nell’ideazione e nel dibattito delle linee di piano divenissero strumenti effettivi di democrazia materiale.

In sostanza la partecipazione della società locale alle varie fasi di piano si articolò secondo quattro modalità:

a) l’intervista a singole persone e, più spesso, a nuclei familiari, con visite e sopralluoghi alle loro case. In queste occasioni il contatto si estendeva, di frequente, al vicinato, ma sempre nelle dimensioni del “piccolo gruppo”, del quale si raccoglievano indicazioni, proteste, denunzie di bisogni, aspirazioni sociali. I dati statistico-sociali per nucleo familiare erano stati prelevati dalle schede censuarie; quelli relativi alla morfologia dell’alloggio venivano, invece, raccolti sul posto;

b) riunioni con gruppi sociali più vasti facenti capo ad un intero rione, per il quale il gruppo poteva proporre, o per il quale potevano essere suggeriti dai presenti, interventi infrastrutturali complessi, organizzazione di servizi collettivi, soluzioni urbanistiche di quartiere;

c) assise per categorie sociali omogenee (artigiani, commercianti, contadini, professionisti) in relazione a problemi come la dislocazione delle attività economiche e commerciali, l’insediamento di nuove strutture istituzionali, la distribuzione del traffico e simili;

d) assemblee anche dell’ordine di 600-700 persone per la discussione dei vari stadi d’avanzamento del Prg, compresa la stesura finale.

Sotto il profilo sociologico è d’un qualche rilievo sottolineare come la maggior quantità di dati e di informazioni a livello di “nuclei familiari” e di “piccoli gruppi” sia stato fornito dalle donne, come detentrici dell’esperienza e del sapere quotidiani e quindi attente ai problemi della casa, dal vicinato, dei servizi collettivi e così via; mentre, nelle riunioni pubbliche, a parlare siano stati soprattutto gli uomini (i quali, del resto, in queste sedi costituivano la massima parte, se non la totalità dei presenti) su argomenti per lo più incentrati su grandezze territoriali ed economiche connesse al lavoro o alla produzione.

In ogni caso è doveroso rilevare come tutta l’esperienza partecipativi di Tricarico sia stata agevolata dalla relativa modestia delle quantità demografiche in gioco, e come lo spirito sperimentale e pionieristico della Polis mettesse in conto tempi di lavoro e strumenti di indagine e d’intervento non propriamente di tipo professionale, dal momento che il gruppo di lavoro traeva da altri lavori (professionali e/o accademici) i mezzi per la propria autonomia economica.

Infine, fra gli obiettivi politici rientrava, come meglio si avrà modo di precisare in seguito, l’instaurazione di un rapporto organico non solo con gli organi elettivi dell’Amministrazione comunale, ma anche (e, in un certo senso, a maggior ragione) con l’Ufficio tecnico comunale, la cui collaborazione era ritenuta essenziale per l’impostazione e la redazione del piano, ma ancor più per la futura attuazione.

4.2. Obiettivi pedagogico formativi

L’iniziativa della Polis conteneva, in matrice, una forte connotazione pedagogica ed educativa riferita al “valore piano”. Questo aspetto del progetto su Tricarico emerse principalmente con la redazione di un Quaderno del piano distribuito in 5 mila copie nelle scuole di ogni ordine e grado per le ricerche di classe. Il formato era di due sedicesimi. Uno, con immagini in bianco e nero commentate da didascalie che, spiegando che cosa fossero la città e il territorio, di che natura gli obiettivi dell’urbanistica, quali le strutture e gli oggetti su cui si esercitava il piano e così via, forniva il corredo di tutta una serie di dati storici e statistici su Tricarico; il secondo di carta bianca, quadrettata, destinato a completare e commentare il testo a stampa attraverso le ricerche di classe. La sceneggiatura ed i testi erano di A. Musacchio, la grafica e le fotografie di M. Cresci, l’impostazione generale del gruppo. Il Quaderno, oltre che nelle aule e nelle case degli studenti, finì nei diversi luoghi di destinazione dell’emigrazione, come raccolta sistematica di immagini e documenti - e quindi di “memorie” - su Tricarico.

Un secondo strumento di avvicinamento della popolazione locale a tematiche culturali fu individuato nelle mostre: una, fotografica, di Mario Cresci che espose, nel ‘67, i ritratti eseguiti nel corso della campagna fotografica dell’anno precedente, suscitando grande interesse, curiosità e a volte risentimenti e rivalità da parte delle persone riprodotte (si calcola che la mostra sia stata visitata da poco meno di 1000 persone); un’altra, di pittura, di un giovane artista locale, Michele Santangelo, vicino al gruppo per la tematica dei suoi quadri, presentati nel catalogo da A. Musacchio (sempre nel 1967).

Un aspetto più propriamente formativo dell’azione del gruppo fu costituito dal progressivo coinvolgimento di un nucleo di giovani locali nel lavoro di rilevazione e di indagine. Battere questa via significò, per il gruppo, soprattutto tentare di far crescere sui temi socio-economici ed urbanistici alcuni “quadri” intellettuali in grado, in seguito, di gestire il piano. Questo disegno formativo, delineatosi con la Polis e il Prg, fu concretato da Il politecnico nel ‘70, quando in fase di pianificazione particolareggiata di Tricarico (ma, più in generale, nell’attività complessiva dello studio) vennero inseriti stabilmente - nel settore delle ricerche socio-economiche - due insegnanti tricaricesi, Giuseppe Grassi e Pancrazio Toscano (quest’ultimo, non a caso, forse, da qualche anno sindaco socialista di Tricarico).

4.3. Obiettivi tecnico-scientifici e culturali

Nel lavoro del gruppo prevalse, in maniera abbastanza netta, la tendenza a privilegiare l’osservazione e la ricerca empirica di campo, secondo una metodologia molto vicina a quella delle scienze sociali e quindi con sopralluoghi, visite, interviste ed un lavoro di rilevazione di dati e di situazioni oggettive (tipologie edilizie, particolari costruttivi, modelli dell’arredamento tradizionale, inventario dei materiali da costruzione ecc. ecc.) che, oltre ad esser puntato sulle strutture architettoniche ed urbanistiche, teneva di continuo sotto osservazione, e probabilmente privilegiava, il contesto storico e socio-culturale in cui i vari fenomeni ed i diversi oggetti si erano prodotti, il tipo di “scienza sociale diffusa” da cui nasceva un certo modo di costruire e di usare il paese, le funzioni economiche e sociali assolte dai vari ambienti e spazi urbani (quelli chiusi e quelli aperti, i privati ed i pubblici, e così via).

Alla luce di queste tematiche la fotografia assunse un ruolo importane, e a volte decisivo, almeno in tre direzioni:

A) Documentazione. La campagna fotografica si compose, alla fine, di circa 2 mila immagini. Più che di un’immediata riduzione della fotografia a strumento di documentazione, di memoria, di conoscenza urbanistica, si trattò - in un primo tempo - di recuperare i segni ed i singoli elementi linguistici del paesaggio urbano e rurale di Tricarico, per estendere poi la ricerca alle varie forme di azione sociale della comunità ed ai modelli antropologici e culturali emergenti (sia a livello di persone che a livello di oggetti). Al termine della campagna fotografica ci si rese conto che la serie delle immagini, nell’assieme, era passibile anche di un’utilizzazione urbanistica, ma che più in generale l’iconografia raccolta permetteva una rappresentazione entro la quale era possibile muoversi in parecchie direzioni: da quella più propriamente urbanistica ad una di tipo sociologico, fino ad una terza a contenuto marcatamente antropologico, e così via.

B) Produzione culturale. Il lavoro di Cresci assunse progressivamente i caratteri di una vera e propria rielaborazione creativa delle immagini prelevate dalla realtà tricaricese. A parte, dopo la mostra fotografica a Tricarico, Cresci assoggettò i materiali raccolti ad una serie di trattamenti d’ordine grafico, che espose - sempre nel ‘67, con una presentazione di Musacchio - al circolo La Scaletta di Matera. Il suo lavoro ebbe anche sviluppi pittorici (alcuni cartoni dipinti ed album di disegni con progetti anche di sculture) e, infine, cinematografici con un abbozzo di documentario a passo ridotto (1969). Il tutto con l’avallo culturale e finanziario del gruppo, che considerava l’attività espressiva di Cresci come uno dei possibili esiti del lavoro collettivo su Tricarico.

C) Applicazione della fotografia in urbanistica. Soprattutto in sede di redazione dei piani particolareggiati il gruppo cominciò a pensare all’adozione della fotografia come “strumento urbanistico”. E ciò in due sensi. Anzitutto proprio dalle riunioni a carattere pubblico era emersa la quasi impossibilità di comunicare a persone per lo più di mestiere e di cultura contadina dati, informazioni e progetti urbanistici concepiti ed espressi dentro la categoria dello spazio cartesiano. La cartografia normalmente usata dagli urbanisti risultava molto spesso incomprensibile al pubblico, specie ai vecchi e alle donne (tuttora in maggioranza analfabeti). Si ricorse, in un primo tempo, a disegni a carattere accentuatamente “figurativo”; poi ci si rese conto che il sistema di segni più agevolmente acquisibile da parte della generalità dei partecipanti alle assemblee era appunto la fotografia, che secondo il senso comune riproduceva con la maggiore fedeltà possibile la realtà. Questa esperienza portò a pensare ad un secondo livello d’impiego della fotografia sia per la rappresentazione dello stato di fatto, sia per le indicazioni progettuali da riportare sulle tavole di piano. Dopo una rigorosa ricerca di omogenei criteri matematici e geometrici in grado di garantire il rispetto delle dimensioni, dei volumi, delle distanze, della scala ecc. ecc., la fotografia fu usata direttamente per la redazione delle tavole di piano, in particolare nei piani particolareggiati. In questa operazione furono impiegati tanto metodi grafici (le immagini vennero retinate, disegnate e, in genere, trattate come si sarebbe fatto con qualsiasi altro materiale cartografico) quanto metodi fotografici (a cominciare dal montaggio).

Un’altra occasione di approfondimento e di trasferimento all’esterno di nozioni e problematiche tecnici scientifiche fu offerta dal Piano di zona della 167, alle cui tavole ed alla cui normativa fu allegata una guida all’edificazione. L’obiettivo era quello di comunicare una metodologia della progettazione e dell’edificazione ad una comunità che, con l’emigrazione e con la graduale scomparsa dei capimastri, aveva perduto gran parte della propria (spontanea) scienza delle costruzioni.

La zona d’insediamento della 167, come quasi sempre a Tricarico, era molto scoscesa: si trattava, pertanto, di intervenirvi facendo ricorso non soltanto ai moderni criteri urbanistici in tema di tipologie, di allineamenti, di rispetto degli standard e così via, ma anche ai vecchi criteri d’insediamento sul terreno, di sfruttamento delle pendenze a fini costruttivi, di consolidamento a monte delle abitazioni, di prevenzione dell’umidità ecc. ecc.

Il piano di zona fu concepito come una sorta di quotizzazione, cioè di ripartizione del terreno in quote, che, assemblate, davano luogo ad un lotto. Ogni lotto corrispondeva alla quantità minima di suolo necessaria per dar luogo ad un intervento edilizio rispondente alla normativa della 167: essendo i lotti di varia ampiezza, ad ogni tipo di lotto corrispondeva un preciso volume edificabile (naturalmente nel rispetto di tutti gli standard previsti dalla legge). In questo modo - fra l’altro - ogni cittadino era in grado di valutare autonomamente quanto suolo gli servisse per poter costruire secondo i propri bisogni. Sulla scorta della giacitura e della inclinazione dei terreni, inoltre, la guida proponeva una serie di possibili piante (componibili sulla scorta delle specifiche soluzioni derivanti dalle combinazioni superficie/volume) in relazione - ovviamente - alle tipologie edilizie previste dallo strumento urbanistico. Benché rivolta all’insieme della cittadinanza, quest’operazione, in definitiva, intendeva fornire una nuova strumentalizzazione metodologica e tecnica soprattutto ai professionisti locali, in primo luogo ai geometri, avendo cura di non sostituirsi ad essi ma di fatto suggerendo un ventaglio di soluzioni progettuali, che aggiornavano le tecniche d’aggressione dei terreni, le scelte tipologiche, i principi di distribuzione degli ambienti ecc.

5. LE SCELTE URBANISTICHE

5.1. L’operazione tentata a Tricarico va collocata nel contesto storico e socio-culturale locale. Nel ‘66 - ‘67 Tricarico era come immerso in una prospettiva di possibile scomparsa materiale. L’emigrazione aveva drammaticamente suggellato una riflessione collettiva di più ampio periodo intorno alla decadenza del paese e ad una sua più o meno inevitabile fine. Il paese sembrava ai suoi abitanti medesimi tagliato fuori dalla storia, né gli stessi movimenti contadini dei primi anni di questo dopoguerra avevano dato la sensazione alla collettività locale d’un recupero pieno di attualità.

L’emigrazione, perciò, non era stata solo una necessità, ma anche un atto consapevole di rinunzia, tant’è vero che - attorno al ‘55 - i primi ad abbandonare Tricarico erano stati i leader politici e sindacali delle lotte per la terra della seconda metà degli anni Quaranta.

Di questa regressione dell’identità storico-sociale di Tricarico era espressione non secondaria un sentimento di ambivalenza nei confronti del paese: pur dichiarando di amarlo, alcuni affermavano apertamente che l’unica soluzione fosse di abbatterlo e ricostruirlo, magari sullo stesso posto. Ma il sentimento più frequente, come si è accennato in precedenza, era di esaurimento dello spazio storico di Tricarico. Avendo vissuto il centro storico come scena primaria e unità di luogo della loro vicenda collettiva, i tricaricesi non riuscivano a concepire un altro teatro praticabile.

Un intervento di edilizia economica e popolare dei primi anni del dopoguerra, insediato in posizione speculare a quella del centro storico e ad una distanza di poche centinaia di metri, veniva sprezzatamente chiamato “il villaggio” (“villaggio” come modello urbano e antropologico-culturale in contrapposizione a “paese”).

Esaurito il ristretto sito collinare sul quale Tricarico era stato per secoli confinato, la capacità progettuale della collettività s’era come paralizzata, nell’incapacità di rivedere i meccanismi che per secoli avevano governato le dinamiche centripete del sistema. Oltrepassare i limiti della periferia tradizionale, dilatare le dimensioni del vissuto collettivo e dalla rete di relazioni, fruire dei mezzi di locomozione moderni (del resto già ampiamente diffusi) per spostarsi entro un ambito riconoscibile ancora come “conforme” allo spirito comunitario: tutto ciò sembrava fuori della portata della mentalità e perfino dell’immaginazione della società locale.

5.2. Uno dei compiti principali degli operatori urbanistici era, dunque, quello di riproporre uno spazio storicamente reale alla collettività: di progettare, in altri termini, una dimensione del vivere sociale che restituisse a Tricarico la forma della contemporaneità (o per meglio aderire alle categorie mentali e culturali della collettività locale) della modernità.

Un simile stato delle cose richiedeva al gruppo di lavoro di espungere ogni residuo estetizzante o sentimentalista della concezione dell’operazione da compiere. Si trattava, in un certo senso, di liberarsi dal mito del Sud, trattando finalmente la forma urbana di un paese come Tricarico al di fuori di qualsiasi nostalgia della civiltà contadina (anche se nella consapevolezza e nel rispetto dei suoi valori). Occorreva, a ben vedere, che ciascuno dei fatti territoriali fosse sottratto al deficit di significato che l’aveva colpito e ricollocato entro un nuovo orizzonte di senso: senza essere manomesso, ma semplicemente predisposto a nuove potenzialità d’uso.

Specie la campagna fotografica aiutò il gruppo a leggere la pluralità dei fenomeni urbanistici, economici e sociali di Tricarico come un complesso di relazioni, che potevano essere riconnesse fra loro entro mutati codici di regolamentazione spaziale. In altri termini, la fotografia rese evidente come i vari componenti del “sistema Tricarico” potessero essere riassorbiti in un nuovo quadro di riferimento.

5.3. Fin dal principio fu chiaro, sia ai progettisti che agli amministratori comunali, che l’attività di pianificazione non si sarebbe esaurita col Prg, ma sarebbe divenuta un work in progress da realizzare attraverso una successione coerente di atti urbanistici distribuiti lungo l’arco di alcuni anni, così da aggiornare di continuo il rapporto fra il piano ed i processi di cambiamento in atto, che già mostravano i caratteri di una accelerata, “grande trasformazione”.

5.4. Il Prg si sforzò di intervenire su Tricarico senza enfatizzare a priori alcuna valenza a danno di altre: la stessa vitalità del centro storico doveva essere misurata, più che sui suoi intrinseci valori estetici e documentari, sull’attitudine a partecipare ad un nuovo discorso urbanistico. In breve i perni del nuovo sistema urbano e territoriale di Tricarico possono essere riportati ai seguenti punti:

A) Conservazione attiva del centro storico, con riqualificazione ed esaltazione così della sua qualità residenziale complessiva, come delle sue funzioni di rappresentanza e dei suoi giacimenti monumentali. Con due linee maestre di orientamento: 1) conservazione a Tricarico di alcune funzioni direzionali, legate ad un secolare ruolo (protrattosi fino ai nostri giorni) di centro dispensatore di servizi a livello comprensoriale (Vescovado, ospedale, scuole pubbliche e private di grado superiore, pretura, ufficio del registro, centro dell’Ente riforma ecc. ecc.); 2) miglioramento del livello della residenza e, contemporaneamente, strategia d’espansione del demanio comunale della casa in vista sia di interventi pilota connessi ai programmi d’edilizia economica e popolare, sia di eventuali iniziative a favore degli anziani (case-albergo a carico degli enti locali), sia infine, di una possibile valorizzazione turistica.

B) Concezione unitaria del centro storico e degli immediati dintorni a partire da una vasta area inedificata a verde, detta Conca di S. Antonio, a valle del percorso della S.S. n. 7, Appia, tuttora improntata solo dalla presenza di due antichi conventi.

C) Dentro il nuovo disegno urbano, in parte prefigurato dai processi d’urbanizzazione spontanea in corso, definizione di un perimetro a ferro di cavallo, a monte del quale sono dislocate le nuove zone d’espansione urbana e produttiva, ed a valle del quale (appunto nella Conca di S. Antonio vista come un tutt’uno col centro storico, in quanto paesaggio storicamente sedimentato entro una concezione unitaria di città murata - natura) andrà a collocarsi (F. Orioli, 1973), nell’ambito di un apposito piano particolareggiato, la nuova Casa comunale con funzioni (anche) simboliche di centro della rinnovata forma urbana di Tricarico. In pratica, il discorso urbanistico muove, ora, al centro storico per dipanarsi lungo l’Appia fino a toccare il cosiddetto “villaggio”, recuperandolo alla coscienza sociale ed alla vita di relazione della collettività tricaricese.

D) Rafforzamento della rete dei servizi e delle infrastrutture sia con riguardo alla funzionalità ed agibilità del corpo urbano con le sue articolazioni, sia con riguardo ai rapporti di Tricarico col mondo esterno (in seguito, nel pieno degli anni Settanta, Tricarico diverrà sede di Comunità montana). Nelle strategie di raccordo fra espansione urbana e dotazione d’infrastrutture e servizi collettivi il Prg persegue l’obiettivo di “agganciarsi” agli insediamenti di edilizia pubblica già costruiti o in programma assumendoli come “volani” per le urbanizzazioni private. E ciò, al fine sia di accrescere la capacità di tenuta dell’ente locale di fronte alle esigenze poste dalla fin troppo rapida espansione del centro abitato, sia di proporre come modello al settore privato i principi d’ordine e di regolamentazione edilizia ed urbanistica generalmente propri degli interventi pubblici.

Rispetto ai rapporti col territorio circostante il Prg indica:

a) la costruzione di un collegamento viario veloce con la Val Basento che è, nello stesso tempo, la sede degli impianti chimici dislocati nel nucleo d’industrializzazione, della superstrada Basentana (in quel tempo, nella prima fase di costruzione), della tratta della ferrovia Taranto-Potenza-Napoli (e/o Roma);

b) il miglioramento delle reti viarie di penetrazione nelle aree produttive delle campagne tricaricesi, con particolare riferimento al centro della Riforma agraria di Calle, ormai consolidatosi come autonomo insediamento, umano e produttivo;

c) il piano, che allarga e precisa il campo delle funzioni urbane senza tuttavia inflazionarne il significato, immette due valenze nuove nella vita economica e sociale di Tricarico. La prima è costituita dall’individuazione di due aree per attività produttive: una è situata all’interno del perimetro urbano, ed è prevalentemente di servizio ad attività artigianali e commerciali; l’altra è esterna, dislocata in una località di campagna, alla confluenza di alcune strade a carattere intercomunale e quindi di scambio di merci e di persone con Irsina, Grassano, lo scalo ferroviario di Val Basento ecc. Queste scelte predispongono Tricarico a poter ospitare, in qualsiasi momento, eventuali iniziative industriali. La seconda valenza consiste nella proposta di valorizzazione turistica del bosco comunale di Fonti-Tre Cancelli, posto a 900 m. d’altezza, a monte di Tricarico lungo la statale per Potenza; d) tutta l’esperienza urbanistica di Tricarico ha confluito verso il coinvolgimento diretto del gruppo di lavoro nella “gestione dell’urbanistica”. Uno dei punti chiave della filosofia del gruppo è stato che i fondamenti astratti della scienza urbanistica non dovessero - per principio - prevalere sulle “ragioni” dell’Ente locale, e che fosse buona regola di comportamento politico-civile e “d’igiene mentale” tentare di divenire (per quanto possibile) amministratori, contribuendo ad amministrare appunto l’urbanistica assieme al personale politico e burocratico dell’ente locale prima, durante e dopo il processo di piano, verificando che ciascun progetto avesse una copertura finanziaria o attraverso le entrate del bilancio comunale, o attraverso il ricorso ad una qualche legge che consentisse l’accensione di un mutuo garantito dai cespiti ancora delegabili da parte di un’Amministrazione comunale oberata da pesantissimi debiti; assumendo responsabilità in prima persona sulla conduzione dell’Ufficio tecnico comunale (interinato di F. Orioli, nel ‘69), rappresentando o fungendo da consulente del comune in tutte le sedi politico-amministrative in cui si decidessero in parte o in tutto le sorti del piano. E così via.

Molte ombre nella recente legge regionale n. 12 del Friuli Venezia Giulia, che ha modificato – in parte - la precedente (e anch’essa recente) legge n. 5 del 2007 in materia di urbanistica, edilizia e paesaggio.

La proposta iniziale è stata presentata dai capigruppo della maggioranza di centro-destra (PDL, LN, UDC e gruppo misto), la stessa che ne ha imposto l’approvazione in gran fretta. Contrarie le opposizioni di sinistra e centro-sinistra, più che altro in nome della difesa della precedente legge 5, fortemente voluta dalla maggioranza che reggeva la Regione fino alle elezioni dell’aprile 2008 e assai criticabile per molti aspetti. Ad esempio per le procedure inutilmente complesse introdotte nella pratica urbanistica comunale, così come per i contenuti al tempo stesso ridondanti, pericolosi (l’enfasi ossessiva su alcune grandi infrastrutture) e inefficaci (dal punto di vista della tutela del paesaggio) del Piano territoriale regionale, che dalla legge deriva.

Cambiata la Giunta regionale, si sarebbe trattato di mettere mano alla legge 5 e al PTR, semplificandoli laddove necessario, ma soprattutto correggendoli per renderli efficaci nell’affrontare le vere emergenze: l’abnorme consumo di suolo per l’espansione delle aree urbanizzate (mentre la popolazione è numericamente stabile da decenni) e il conseguente degrado del paesaggio.

Nulla di tutto ciò si rinviene nella nuova legge, il cui principale intento è invece quello di permettere “il pieno svolgimento della funzione pianificatoria territoriale dei Comuni”, che si sostiene essere impedito dalle norme della legge 5, laddove queste subordinano la possibilità di formare nuovi piani regolatori - o varianti degli stessi – al recepimento da parte dei Comuni delle indicazioni del Piano Territoriale Regionale (PTR). Il quale, adottato nell’ottobre 2007, non è stato però approvato e quindi non è entrato in vigore.

In realtà, anche la legge 5 (o meglio il suo regolamento di attuazione) permetteva, in attesa dell’adeguamento al PTR, l’adozione di varianti “non sostanziali” ai piani regolatori, con incrementi fino al 10 per cento per le zone urbanizzate (residenziali, industriali, commerciali, ecc.).

La nuova legge aumenta fino al 20 per cento questa “flessibilità” per quasi tutti i Comuni, salvo quelli con popolazione superiore a 15.000 abitanti (vale a dire Trieste, Udine, Pordenone, Gorizia e Monfalcone), per i quali rimane il limite del 10 per cento. Che comunque non è poco … Non solo: una norma transitoria della legge 5 ammetteva la possibilità, per i Comuni, che avessero adottato delibere di direttive prima dell’entrata in vigore della nuova legge, di formare e approvare le varianti ai propri strumenti urbanistici secondo le procedure della vecchia legge 52/1991 (e praticamente tutti i Comuni lo avevano fatto…).

Evidentemente, però, a qualcuno non bastava ancora ed ecco quindi la nuova legge 12/2008, motivata ufficialmente con la necessità di “far uscire dalla paralisi la pianificazione locale dei Comuni” ed “evitare danni al sistema economico e produttivo”.

La legge esclude riduzioni di superficie per le zone forestali e di tutela ambientale, ma non per quelle agricole, quando è noto che sono soprattutto queste ultime a soccombere – da decenni – sotto l’assalto del cemento e dell’asfalto. Non per nulla, le statistiche dell’Agenzia protezione ambiente e territorio – APAT oggi ribattezzata ISPRA – sebbene compilate con metodologie sommarie, che sottostimano l’entità del fenomeno, indicano proprio nel Friuli Venezia Giulia una delle Regioni italiane con la maggior percentuale di territorio agricolo sacrificato all’urbanizzazione, superata soltanto da Veneto e Lombardia.

Basti dire che solo tra il 1990 e il 2000 l’incremento nell’estensione delle aree urbanizzate a scapito di quelle agricole è stato pari ad oltre 3.426 ettari, cioè il 55 % di quello registrato in Veneto e il 66 % di quello della Lombardia, benché il territorio del Friuli Venezia Giulia sia pari soltanto al 43 % di quello veneto e al 33 % di quello lombardo. Nello stesso arco di tempo, peraltro, l’estensione delle aree boschive e semi-naturali in Veneto e Lombardia è aumentata (sia pure di poco), mentre in Friuli Venezia Giulia è diminuita di 257 ettari.

Va detto poi che i comuni con meno di 15.000 abitanti rappresentano la quasi totalità del territorio regionale, in particolare di quello agricolo e naturale (si pensi alle zone montane, a quelle lagunari, alle aree fluviali, ecc.). Allentare le redini nei loro confronti, non rappresenta certo un buon servizio reso alla corretta e razionale gestione del territorio. Chiunque si sia anche superficialmente accostato al problema, sa infatti che sono proprio i Comuni il principale “motore” delle cementificazioni e della distruzione del paesaggio. Basta fare un giro per la regione e avere occhi per vedere, per accorgersi degli scempi compiuti (e che si continuano a compiere), con le villettizzazioni nelle aree costiere, la proliferazione di aree commerciali nelle periferie e in aperta campagna, la “saldatura” edificatoria tra un centro abitato e l’altro lungo gli assi viari, ecc. Soprattutto, con la progressiva scomparsa del paesaggio agrario, seppellito e stravolto da miriadi di capannoni artigianal-industrial-commerciali, con l’inevitabile corredo delle infrastrutture connesse (strade di ogni genere e dimensione, piazzali di parcheggio, linee elettriche, tralicci di antenne per telefonia, ecc.).

Anche in Friuli Venezia Giulia, quindi, avanza a grandi passi il modello della “città diffusa”, che ha già devastato il vicino Veneto e in varia misura l’intera pianura padana, producendo degrado estetico – quando non totale distruzione - dei luoghi, scomparsa delle condizioni minime di sopravvivenza degli ecosistemi naturali, insostenibile congestione da traffico, e quindi anche gravi inefficienze sul piano prettamente economico. Tutto ciò non dipende soltanto dalla pressione politico-economica che il comparto dell’edilizia (e della speculazione immobiliare) esercita su amministrazioni comunali spesso prive anche di un minimo spessore culturale per opporvisi. Deriva com’è noto anche dalla dipendenza, in moltissimi casi determinante, dei bilanci comunali dalle entrate dell’ICI e da quelle degli oneri di urbanizzazione. Il che ovviamente incentiva i Comuni ad urbanizzare quanto più possibile, per finanziare la “macchina” comunale ed i servizi erogati ai cittadini. L’abolizione dell’ICI sulla prima casa non ha certo intaccato questo perverso legame tra finanze comunali e cementificazione del territorio (i Comuni favoriranno, anzi, ancor di più le urbanizzazioni a fini commerciali e produttivi, la proliferazione dei capannoni, ecc.), mentre un ulteriore contributo al disastro viene dalla norma demenziale, in base alla quale il 75 per cento degli introiti derivanti dagli oneri di urbanizzazione - anziché essere destinati alla realizzazione di fognature, aree verdi, ecc. - possono essere dirottati alla copertura delle spese correnti dei Comuni.

Una riforma davvero federalista dovrebbe affrontare prioritariamente questo genere di problemi, individuando forme di tassazione locale, che garantiscano il funzionamento dei Comuni, senza incentivare la distruzione del territorio. Non è questa, purtroppo, la priorità dei “federalisti” nostrani i quali, se lo fossero davvero, dovrebbero sapere meglio di tutti che il territorio ed il paesaggio sono – anche – il deposito di valori identitari fondamentali per una comunità. Proprio sulla difesa dell’identità, del resto, molti federalisti di casa nostra hanno costruito le loro fortune politiche: peccato che si tratti esclusivamente di una difesa contro le “contaminazioni” e l’”insicurezza” prodotte dal contatto con culture diverse (immigrati, altri italiani, ecc.). Nessuna attenzione pare vi sia, invece, per le aggressioni che l’identità di una comunità subisce dal proprio interno, per esempio appunto con il degrado progressivo dei luoghi, motivato magari da interessi economici di pochi che fanno leva sul menefreghismo e sull’ignoranza di molti. In un recente incontro con un assessore regionale del Friuli Venezia Giulia (non quello competente in materia di urbanistica, ma comunque un federalista “doc”), il WWF si è sentito dire che “una comunità dev’essere padrona di fare quello che vuole del proprio territorio. Se decide di trasformarlo in una grande discarica, è giusto che lo possa fare”. Ogni commento pare superfluo.

Pericolose sono anche altre norme della legge 5, come quella che esclude il controllo della Regione sui piani regolatori di tutti i Comuni montani e di quelli con popolazione inferiore a 2.500 abitanti, i quali rappresentano la maggioranza del territorio regionale, proprio nelle aree di maggior pregio naturalistico e paesaggistico.

Ancora: viene rinviata sine die la stesura della “relazione sullo stato del territorio” da parte dei Comuni (strumento viceversa utilissimo per la conoscenza dello stato della pianificazione, introdotto dalla legge 5/2007), mentre perdura un sostanziale lassismo in materia di delega ai Comuni delle autorizzazioni paesaggistiche. E non si può certo dire che la maggioranza dei Comuni abbia ben operato in questo campo, visti gli ampi poteri già ottenuti con la legge 52 del 1991

Tra i pochi aspetti positivi della legge 12/2008, il recupero della facoltà (eliminata dalla legge 5/2007) di imporre norme di salvaguardia anche contestualmente all’emanazione delle direttive per la formazione dei piani regolatori e delle varianti. Uno strumento importante nelle mani di Comuni che vogliano davvero proteggere il proprio territorio dallo strapotere della speculazione edilizia. Sempre che lo vogliano utilizzare davvero. Positivo poi il ritorno alla competenza dei Consigli comunali (la legge 5/2007 l’attribuiva alle Giunte) nell’approvazione dei piani particolareggiati.

Rimane però il “buco nero” della pianificazione d’area vasta, che è sinonimo soprattutto di piano paesaggistico (inesistente in Friuli Venezia Giulia). Sospeso nel limbo il PTR adottato nel 2007, ci si deve accontentare delle dichiarazioni di alcuni politici, secondo cui una nuova stesura del piano sarà pronta “entro due anni”, mentre ad un non definito futuro è rinviata anche una riforma organica dell’intera materia urbanistica. E’ verosimile che si intenda - in realtà – aspettare la nuova legge quadro annunciata a livello nazionale: si tratta ovviamente della riedizione della famigerata “legge Lupi”!

Maggiori informazioni e documenti sull’argomento nel sito del WWF Friuli Venezia Giulia: www.wwf.it/friuliveneziagiulia

Si chiamano PRIN, sigla che sta ad indicare: Progetti di Ricerca di interesse nazionali, quell’insieme di progetti, in tutti i campi del sapere, che vengono finanziati (in verità co-finanziati) dal Ministero dell’Università e della Ricerca. I Prin sono organizzati da gruppi coordinati di ricerca che si formano ad hoc, a livello nazionale, per studiare un determinato fenomeno fisico o sociale. Il Miur (altra sigla che sta per: Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica) stabilì, diversi anni fa, che tali finanziamenti avrebbe favorito (o, meglio, costretto) il coordinamento scientifico tra gruppi di ricerca di una sede universitaria e altri gruppi di colleghi ricercatori di altre sedi universitarie italiane. Una volta formatosi, il “gruppone” di ricerca sottopone al Miur il suo progetto. Al Miur c’è una speciale Commissione (i cui membri sono coperti da segreto, tanto che vengono chiamati gli “incappucciati”) che esamina i progetti, assegna loro un punteggio molto articolato basato sul merito scientifico della proposta e del profilo, anch’esso scientifico, del coordinatore della ricerca e di tutti i suoi proponenti e, sulla base della disponibilità finanziaria di quell’anno, stabilisce se esso è meritevole, o no, di finanziamento.

In questo libro c’è il risultato appunto di un Prin che ha visto coinvolti ricercatori-urbanisti delle sedi di Milano, Venezia, Firenze, Roma. L’oggetto di studio era: I territori della città in trasformazione: innovazioni delle descrizioni e nelle politiche. A noi di Roma spettava di tentare di descrivere e rappresentare le trasformazioni che sono avvenute (e tutt’ora avvengono) sul territorio della capitale nello scorcio di questi ultimi trent’anni.

C’è subito da premettere che i titoli delle ricerche presentate al Miur (e spesso oltre ai titoli anche i contenuti) sono piuttosto ostici ai più, un po’ come le descrizioni delle malattie che fanno i medici: leggendole non si capisce mai se uno sta bene o è giunto al termine della sua vita; bisogna chiedere loro spiegazioni come se la scrittura fosse un loro modo segreto per riconoscersi (tra medici) ed evitare che altri, non addetti, capiscano. In questo caso il progetto di ricerca partiva dall’ipotesi che le città di questo XXIesimo secolo hanno subito una gigantesca mutazione (in perfetta sincronia con il cambiamento del mondo che esse in fondo ben rappresentano) rispetto a quelle del precedente XXesimo secolo.

Il gruppo di Roma - l’Autore Collettivo di questo lavoro - ha avuto un inizio piuttosto problematico. Come si fa a studiare le trasformazioni di una città come Roma e in particolare la metamorfosi gigantesca delle sue periferie? Qualcuno, tra noi, ha subito detto: partiamo dal centro della città e muoviamoci lungo una qualsiasi delle “consolari” che arrivano e partono da Roma e lungo questo percorso esaminiamo i diversi “strati” che la compongono. Insomma la proposta era quella di adottare un metodo stratigrafico simile a quello usato dai geologi con il carotaggio (quello di trasferire una metafora da una disciplina all’altra è un metodo spesso utilizzato nelle scienze sociali che attingono spesso, secondo questo procedimento, da quelle fisiche, considerate ben più organizzate). E’ stato però fatto subito notare che questo procedimento avrebbe prodotto risultati pochi efficaci. Negli ultimi trent’anni la città non si è soltanto “allungata”, a partire dal centro verso la periferia. Anche questo era successo, certo, ma i cambiamenti riguardano proprio la composizione di queste nuove periferie, la loro trasformazione in qualcosa d’altro rispetto al passato. E poi forse queste misteriose periferie si erano anche spostate; anzi, forse alcune di esse si erano, per così dire, trasferite nel centro, magari a ridosso di più nobili e antichi quartieri della capitale o, addirittura, sul greto del fiume e sotto i suoi ponti . Insomma lo zelante del gruppo avanzò non pochi dubbi su questo modo di procedere considerato che anche la tradizionale organizzazione gerarchica della città (dal centro verso la periferia) apparteneva a un passato anch’esso profondamente mutato. Non voglio farla troppo lunga; si sa che quando si inizia una ricerca si fanno ipotesi, si tenta una strada, si torna indietro, si disegnano “scalette”, spesso, anzi, dopo tanto parlare che credi di essere giunto ad una prima conclusione ti accorgi che si sta ripetendo la stessa scena di una riunione tenuta tanto tempo prima. Allora ti piglia lo sconforto e c’è sempre qualcuno, in quel momento, che dice una cosa che tu sai ma che non vorresti sentire: ragazzi questo ce lo siamo già detto qualche riunione fa e lo avevamo eliminato; qui non si schioda! Troppe chiacchiere. Quello ti viene allora voglia di ucciderlo perché quella stessa stupida esclamazione l’avresti potuta fare anche tu, ma te ne sei trattenuto per pudore. Ai più giovani venne, dopo varie riunioni, un’idea interessante: anziché muoversi lungo le radiali perché non navighiamo lungo il Tevere che la città l’attraversa tutta da nord a sud? Ora chi non conosce Roma deve sapere che lungo questo fiume si può osservare di tutto: i fasti delle notti bianche (d’estate) della grande amministrazione Rutelli-Veltroni, gli accampamenti nomadi dei Rom, passando per insediamenti abusivi, capanne provvisorie di senza casa e così via. D’altra parte, non si dice forse a chi se la passa maluccio: ma che abiti sotto i ponti?

Insomma se mi dilungo sul metodo col quale si è proceduto in questa ricerca (e come penso, col quale si procede in tutte le ricerche) è per far capire ai lettori che c’è un momento iniziale della ricerca nel quale si fanno scelte tutt’altro che neutrali. Scelte delle quali poco si parla nello svolgimento successivo della ricerca e che, invece, costituiscono l’ideologia (brutta parola lo so, ma vorrei usarla nel senso di “visione del mondo” che in quel momento si afferma come condivisa da tutti) che è alla base del lavoro successivo. Non si tratta – ci tengo a precisarlo – esclusivamente della scelta dell’area fisica o del contesto territoriale, ma quella di trovare il “modo” più appropriato per esprimere una intuizione già presente nelle nostre teste di ricercatori.

Forse ho saltato qualche passaggio: ho infatti il sospetto che qualche lettore stia per storcere un po’ il naso. Lo scettico o il prevenuto lettore inizia a sospettare che allora c’è una sorta di “pre-giudizio” nel lavoro di ricerca che inficia la ricerca stessa; insomma quasi quasi che noi si sia scelto un dato “percorso” di lavoro solo perché più confacente a dimostrare ciò-che-già-sapevamo sin dall’inizio. A questo punto credo di aver aperto una controversia infinita e tutt’altro che facile da dirimere. Proviamo a spiegare: il problema è questo: la realtà è magmatica e di per sé inconoscibile, indicibile se non si possiede una bussola con la quale orientarci. Cosa sia questa bussola è difficile a dirsi: forse esperienza, oppure intuizione (l’intuizione gioca spesso un ruolo determinante nella ricerca, così come i sogni, ovvero l’inconscio… ma a dire queste cose si rischia di essere guardati con sospetto), oppure ci guida una visione del mondo (ideologia, appunto), o una sensazione o, forse e meglio, l’insieme di tutte queste cose. Sospetto che la mia risposta non è sufficiente a rassicurare i lettori scettici (quelli accorti invece non si scandalizzano mai di niente e sono sempre disponibili ad ogni complicità con gli autori) sul fatto che avere un’idea su come sono le cose è non solo non pregiudizievole per il lavoro, ma anzi necessaria per cominciare a ricercare. Tuttavia, bisogna pur ammettere, a beneficio dei lettori, che la loro ostinata diffidenza non è priva di fondamento. Infatti tra i ricercatori è diffusa una storiella che si potrebbe raccontare in tante versioni diverse ma che sta a indicare un modo di procedere diciamo così “tautologico” o più esplicitamente imbroglioncello. La storiella è questa: un signore, di notte, sta cercando in terra qualcosa sotto la luce del lampione. Un secondo signore che in quel momento si trova lì di passaggio si ferma incuriosito a guardare e poi chiede: scusi, sta cercando qualcosa? Il primo signore, senza neppure alzare lo sguardo da terra, risponde: si, le mie chiavi di casa. E, mi perdoni se mi intrometto, dove le ha perse? Allora il primo signore alza finalmente lo sguardo da terra e indica con la mano un punto più lontano: laggiù, dice. Il secondo signore rimane un po’ perplesso da questa risposta ma poi si fa coraggio e fa notare a quello che c’è una palese contraddizione tra ciò che lui afferma (il dove ha perso le chiavi) e ciò che sta facendo (il dove le sta cercando). Mi scusi, sa, forse non ho capito bene, ma perché cerca le chiavi sotto il lampione dal momento che le ha perse in un posto che non è quello? Beh!, Semplice, risponde sconsolato il primo, qui c’è la luce.

Non so se a questo punto state sorridendo o se già conoscevate la storiella del ricercatore tautologico, ma se ho speso qualche parola nel tentativo di rassicurarvi circa l’onesta intellettuale di questa ricerca è perché sono ben cosciente del fatto che molte delle ricerche che si fanno, ancora oggi, tendono a confermare ciò che già si conosceva. Anzi, peggio, ciò che il mondo della comunicazione, il conformismo culturale e scientifico che dilaga nelle università, per non parlare del linguaggio unico dei politici e degli esperti, ci mostra ogni giorno convincendoci che così è il mondo (spesso a questo si aggiunge, in senso peggiorativo, che il nostro è pur sempre il migliore dei mondi possibili). Il che naturalmente serve efficacemente a rassicurare il popolo beone che non c’è alcun motivo di preoccuparsi.

Perché oggi le persone chiedono più sicurezza? Colpa dei diversi: dei Rom, dei barboni, degli immigrati, degli homeless, naturalmente. Una volta stabilito che le persone chiedono maggiore sicurezza (ma chi lo ha mai stabilito?) segue la ricerca del capro espiatorio e una volta stabilito questo seguono le ovvie e necessarie misure di sicurezza. Beh! Se ci pensate bene per un attimo, siamo proprio in quella situazione del signore che cerca le chiavi sotto il lampione. Non ha importanza stabilire veramente se le persone chiedono o no maggiore sicurezza e nemmeno di cosa hanno realmente paura (magari di perdere il posto, oppure di non arrivare alla fine del mese, eccetera). Abbiamo sottomano i Rom (per esempio) che neppure possono protestare se li additiamo come i colpevoli e gli attentatori della sicurezza pubblica perché qualche mascalzonata loro ogni tanto la fanno e dunque tanto vale accollargli tutti i mali del mondo.

Ma torniamo a noi, come si dice. L’urbanistica è una disciplina nata nell’Ottocento insieme ad altre discipline “conseguenze” del mondo moderno che utilizza il metodo di scomporre la realtà per analizzarla e conoscerla. Tant’è che un famoso urbanista diceva che Il metodo di questa disciplina è racchiuso in questa successione (moderna) lineare di operazioni: conoscere, comprendere, giudicare, intervenire, conferendo all’urbanistica, per la prima volta, dignità scientifica. L’origine di questa disciplina è associata alla nascita e al successivo sviluppo della città moderna, o meglio alle conseguenze negative (igieniche, sanitarie, sociali, culturali) prodotte dalle prime città industriali. Se qualcuno avesse mai letto il libricino di Friedrich Engels (lo sponsor di Marx, per intenderci): la questione delle abitazioni (1872), certamente capirà meglio di cosa sto parlando. In quelle città, assai simili ai gironi danteschi dell’inferno, scoppiavano sistematicamente epidemie di colera, infezioni di tifo e quant’altro che facevano rimpiangere la primitiva vita nelle campagne. E infatti alcuni famosi personaggi, chiamati utopisti (Fourier, Saint-Simon, Owen, ecc.) vedevano nelle prime città moderne (leggi anche: industriali) la concentrazione di tutti i mali possibili: commercio blasfemo, corruzione, miseria, violenza, avidità, ingordigia, mercificazione, prostituzione di anime e di corpi. Essi presero allora a progettare idilliache comunità in complessi di geometrica armonia dove ciascuno poteva condurre una vita serena e rispettosa. Furono sbeffeggiati e bollati come anacronistici dal grande Carlo Marx che sosteneva che la solitaria vita nelle campagne era all’origine dell’idiotismo dei villici e che solo nelle città si sarebbe potuta formare la coscienza di classe che avrebbe portato all’emancipazione delle masse idiote (come poi è successo, o avete dei dubbi in proposito?).

Così, in quelle città - le antenate delle attuali nostre città - si cominciarono a prendere provvedimenti per evitare il caos e la barbarie: rispetto delle distanze tra edifici, strade alberate, portici, piazze, giardini, servizi igienici, impianti fognari, ospedali, scuole. Se qualcuno di voi lettori è transitato per Lione forse potrà essergli capitato di vedere un armonioso quartiere di periferia i cui edifici hanno un lato completamente ornamentato dai disegni di un certo Tony Garnier che, proprio lui, ha per primo teorizzato le possibili bellezze e armonie della città moderna. Ecco, Tony Garnier può essere indicato come l’antisigano dei moderni urbanisti che avrebbero dovuto cospargere il mondo di città ideali senza conflitti.

Questa disciplina ebbe il suo grande momento di gloria, e di sviluppo, con i lavori della Parigi moderna realizzati dal barone e prefetto della Senna, Haussmann.

La Parigi di Haussmann ha valore di limite (cito la Choay che, mi spiace ricordarlo agli urbanisti, è una filosofa (che su Haussmann la sa lunga): punto di arrivo di una tradizione e punto di partenza di un’altra, come a dire dalla Parigi (pre-industriale) di Balzac alla metropoli (moderna) di Zola. Anche qui abbiamo a che fare con una gigantesca mutazione dell’urbano riassumibile forfettariamente nella rottura del quadro delle relazioni sociali di prossimità caratteristici della città pre-industriale: rottura dell’isolamento dei vecchi quartieri ancora medievali, rete gerarchizzata di strade, stazioni ferroviarie, nuove porte urbane che collegano la vecchia città (chiusa) al territorio. La vecchia città trasformata da Haussmann ora risponde perfettamente sia alle esigenze della rivoluzione industriale sia a quelle abitative-simboliche della nuova classe al potere: la borghesia urbana. Anche allora non mancavano i nostalgici del .. ai miei tempi.. incapaci di comprendere il senso della storia, tanto che Haussmann dovette difendersi da attacchi feroci. Resta comunque interessante il modo con cui questo singolare personaggio riuscì a far coincidere aspetti estetici (passatemi l’espressione un po’ rozza) e dispositivi di difesa dalle sommosse popolari. La sua fu un’opera di vera regolarizzazione e normalizzazione e in tal senso, in precedenti scritti, ho definito Haussmann come il primo e ultimo vero urbanista (sarebbe troppo lungo spiegare qui un’affermazione che, mi rendo conto, andrebbe ben argomentata).

Parecchi anni dopo di lui il padre di tutti gli urbanisti, Le Corbusier, completerà l’opera: la città moderna diventata nel frattempo la città delle macchine, diventa essa stessa una macchina (per vivere) e così si esaurisce l’opera di tabula rasa del passato: la mutazione ora è completata.

Ma torniamo al nostro discorso. Ero partito dal fatto che le decisioni iniziali con le quali affrontare la ricerca sono tutt’altro che neutre e condizionano molto i risultati successivi. Forse possiamo affermare più esplicitamente questo concetto dicendo che, almeno a parer nostro, per fare ricerca bisogna essere di parte. Immagino che qualcuno comincerà a grattarsi il capo manifestando in questo modo un certo imbarazzo cui, in genere, consegue una manifesta espressione di disapprovazione. Ma come, dirà costui, la ricerca non dovrebbe essere disinteressata e scevra di ideologie? Beh! Non è proprio così, ma la dimostrazione di questo: non è proprio così, richiede ulteriore argomentazione.

A questo punto prendo a prestito da Giorgio Manganelli, scrittore molto abile e raffinato nel demolire e dissacrare quei luoghi comuni che costituiscono il “buon senso” della gente. Il solito zelante obietterà che le cose bisogna dirle con le proprie parole e che le citazioni sono generalmente un modo tirannico di affermare la propria opinione. Per esempio, se mentre sto parlando con qualcuno e ho difficoltà ad imporre il mio punto di vista, cito, in mio soccorso, Derrida o chessò io Foucault, evidentemente lo faccio per mettere in uno stato di evidente soggezione intellettuale il mio incauto avversario, il quale si troverà di fronte non più semplicemente il mio pensiero ma un avversario multiplo sostanzialmente imbattibile. Questo è vero, d’accordo, ma ci sono alcuni momenti in cui ci si può anche esprimere col pensiero di altri, se questo aiuta a sostenere la nostra conversazione polemica. Un po’ come faceva Troisi leggendo le sue poesie a Neruda. Il poeta ad un certo punto esclama: ma queste sono le mie poesie! E Troisi replica: le poesie sono di chi le legge e le fa sue. Ben detto! Anche questo significa fare ricerca ovvero poter aiutare o confortare il proprio pensiero ricorrendo a quello dei grandi pensatori. Ma ora ritorniamo all’essere di parte e a Manganelli.

Non credo, dice lo scrittore, che esistano città che si possono definire belle. Faccio una breve pausa: probabilmente questa affermazione farà letteralmente sobbalzare dalla sedia (ammesso che chi la legga sia in posizione seduta) molti, o quasi tutti, gli urbanisti che magari hanno speso la loro vita a descrivere città belle o la bellezza delle città. Ed ecco la replica di Manganelli: […] una città è un reticolo di luoghi, percorsi, soste, angoli, include edifici ed assenze di edifici (attenzione urbanisti a non farvi prendere dal panico epistemologico e riempire così tutti i vuoti); include tutte le possibili città che sorgono davanti ai nostri occhi (qui Manganelli ci ricorda il Calvino delle città invisibili). E ancora…[…] la città si propone come luogo simbolico, magico, come pagina da interpretare, come tessuto di significati, di allusioni, di fantasie; una città è un luogo occulto, nel quale un muro logorato dalla muffa, un edifico decrepito, una sterminata piazza non pavimentata, ecc. ecc., […] propongono una storia segreta, una favola in cui l’errore e lo splendore ostinatamente coabitano. E a questo punto l’anti-urbanista Manganelli sferra il suo attacco finale: l’estetica è un’astuzia laica per non venire a contatto con la materia mitica e violenta, il luogo dionisiaco, che abita un oggetto. Facciamo un esempio: Firenze, dice Manganelli, è una città totalmente identificabile con la propria vocazione estetica, un luogo che si consuma nella propria bellezza. E allora, aggiungo io, il nostro ricercatore tautologico, dovendo studiare Firenze non potrà che farlo con un atteggiamento dettato da un maniacale concentrato di storia dell’arte. La conclusione della sua ricerca confermerà che Firenze è una bella città. Anzi egli sarà incoraggiato, nella progettazione, poniamo di un nuovo quartiere, a fare riferimento a quel capolavoro di bellezza che nessuno oserebbe mai contestare. Un po’, sapete, come la torta della nonna: avete mai sentito parlare di una torta della nonna che non sia buona? Impossibile! la torta è (per definizione, direi) buona quando è della nonna, ovvero la torta della nonna è sempre indiscutibilmente buona anche quando la nonna non c’è più, essa resta la torta della nonna.

Ora noi ricercatori del sottogruppo Miur pensiamo invece che la città è soprattutto un luogo di conflitti, quegli stessi conflitti che attraversano il mondo contemporaneo: povertà e ricchezza, miseria, violenza, isolamento, fondamentalismo, eccetera. Ed ecco, dice Manganelli, che la città (Roma, in particolare) reclamizzata come luogo perfettamente dilettoso, dimora della assoluta bellezza, diventa il luogo in cui i conflitti perdurano immobili, irrisolti e irrisolvibili, in cui diverse ipotesi del mondo (quelle che abbiamo chiamato ideologie) si lacerano e si compongono. Una città, allora, è sempre tragica, è sempre significante.

Borges descrisse l’impossibilità di rappresentare il mondo così come esso è. Occorrerebbe una carta (o mappa) 1:1 che rappresentasse ogni particolare del mondo così come esso è nella realtà: una mappa uguale al mondo. Ma la mappa, come abbiamo imparato a conoscere, non è il territorio, ma solo la nostra rappresentazione di esso. E’ così, è stato sempre così. Ebbene noi – questo piccolo e modesto gruppo di ricerca – non è interessato a descrivere la città così come essa è: non vogliamo l’immagine esatta (cosa che abbiamo dimostrato essere del tutto impossibile), ma l’immagine partecipe dell’errore.

Capite adesso cosa intendevamo con l’essere di parte?

Ora il problema è questo errore, questo qualcosa di difforme dalla rappresentazione che ci viene dalla cultura dominante; qualcosa cui abbiamo dato il nome scarto. Di che si tratta? Noi vogliamo descrivere la metamorfosi della città in un universo di macchine e di beni di mercato, quell’universo dove le cose sono ridotte alla loro funzione di utilità e dove vivono persone, corpi senza parola, senza rappresenta e senza rappresentazione, esseri invisibili, isolati che quotidianamente incrociamo, sfioriamo ma che scansiamo, non vediamo, non ri-conosciamo. Si tratta, appunto, di scarti. Ma così come le grandi narrazioni hanno prodotto, nell’Ottocento, personaggi e immagini urbane non riconosciute in precedenza, noi pensiamo che alla città contemporanea manchi un nuovo racconto che non potrà mai esaurirsi nella arida ragioneria dello sguardo dell’urbanista. Queste nuove città, le città contemporanee, vengono rappresentate e raccontate per frammenti, per parzialità, occultando quasi sempre l’asprezza dei conflitti, la lotta per la sopravvivenza, la vita quotidiana fatta di privazioni, sofferenze, amori, passioni.

Il calcolo del valore medio è una procedura statistica che, qualche volta, ci aiuta a capire come vanno le cose.. mediamente. Ma se un ingegnere sociale particolarmente zelante e scrupoloso volesse procedere a una descrizione di una città basandosi sui valori medi che so io, dell’altezza delle persone, del numero dei piani degli edifici, del numero di abitanti per quartiere e così via, noi avremmo la descrizione esatta di una città che non esiste. Per riconciliarci con la nostra città reale dovremmo allora procedere analizzando gli scarti dal valore medio, ovvero quanto le cose reali si discostano da quella misura precisa ma completamente astratta.

E procedendo attraverso l’esame degli scarti ecco che apparirebbero figure silenti, luoghi indicibili, vite invisibili che escono dal campo disegnato dalle luci della scena, dal proprio cono d’ombra. Per fare questo bisogna abbandonare lo sguardo scaltro dell’urbanista e assumere uno sguardo strabico, sbieco, prismatico, sempre pronto a cogliere le differenze, gli scarti, appunto.

Al Barone Haussmann questo sguardo non serviva. Lui aveva il compito (tutt’altro che semplice, per carità!) di realizzare la città a misura della classe borghese ora (allora) al potere. Doveva rappresentare quegli interessi, dare loro dignità estetica e simbolica. E in questo fu particolarmente lungimirante tanto che la Parigi dei nostri giorni è ancora esteticamente modellata su quelle esigenze.

Non è così per il nostro urbanista presunto riformatore. Oggi c’è da chiedersi invece quali interessi vogliamo rappresentare e quali persone vogliamo far entrare nella scena di questa città. Vedete (in realtà non c’è nulla da vedere, si tratta solo di un modo affettuoso di rivolgermi ai lettori), in un’epoca come la nostra le città sono profondamente diverse da quelle del secolo scorso e la parola – alquanto nobile in origine – di riformismo non significa quasi o più niente. In realtà questa affermazione richiederebbe un lungo discorso per essere spiegata (o dimostrata, ammesso che ce ne sia ancora bisogno). Più sommariamente possiamo dire che in quest’epoca di capitalismo selvaggio (finanziarizzazione, globalizzazione, ecc.) non c’è più alcun spazio per i signori riformisti, così come quest’epoca vede per la prima volta scomparire il futuro dall’orizzonte degli uomini e delle donne. C’è solo un eterno presente che cambia continuamente ma che poi, lascia tutto, sempre inalterato. Le persone, come nelle prime città industriali, riescono a malapena a pensare a come arrivare alla sera o a come arrivare alla “terza settimana”; insomma a come sopravvivere. L’urbanistica, ovunque, è diventata la tecnica attraverso la quale combinare affari, liquidare i beni comuni, far diventare il territorio una risorsa economica per pochi, sottrarre ai più beni e risorse collettive. Insomma essa ha seguito fedelmente la sorte dell’utopia riformista che oggi è scaduta a pratica del fai-da-te-che-nessuno-ti-aiuta.

Ecco che, un po’ alla volta, vi sto svelando il cammino che, come gruppo di ricerca, abbiamo fatto. Primo: le città del XXI secolo sono cosa completamente diversa da quelle del XX secolo, chiamate moderne. Un po’ come, scusate l’approssimazione, il capitalismo del secolo scorso non somiglia quasi più in nulla a quello attuale. Secondo: i concetti di centro e periferia come li abbiamo conosciuti non esistono più. Terzo, a noi interessano le persone in carne ed ossa e i luoghi dove esse abitano, configgono, amano, odiano, vivono. Persone e luoghi formano un intreccio indistricabile così che non esistono luoghi senza persone né persone senza che esse abbiamo un luogo (che può essere semplicemente quello in cui abitano, o lavorano o dove sono nati, eccetera). E, infine (se siete arrivati fino a questo punto forse non vi sbalordirete più di tanto) ci interessa fare anche politica intesa come (prendo di nuovo a prestito da un recente libro di Einaudi) a un luogo che ci riguarda. Si perché noi urbanisti (romani) non possiamo esimerci dal porci questa domanda: com’è che le periferie romane, un tempo “zoccolo duro” del Partito Comunista hanno così severamente punito, col voto elettorale, l’amministrazione Veltroni-Rutelli?

La domanda non è poi così retorica come sembra se la “città bella”, moderna, all’avanguardia per le sue feste ed eventi, così reclamizzata da urbanisti di grido è stata invece letteralmente bocciata dai suoi abitanti e proprio da quelli che, in passato, sostenevano le amministrazioni rosse. C’è da chiederselo.

Ecco, abbiate un po’ di pazienza, stiamo arrivando alla fine, ovvero all’inizio di quella scelta di cui vi ho raccontato. Come rappresentare questa città?

Non molto tempo fa Niki Vendola scrisse un articolo sul quotidiano Liberazione il cui titolo (dell’articolo) poteva essere inventato solo da chi è poeta: Noi inseguiamo il cambiamento, ma il cambiamento non ci riconosce. Fantastico!! A quel noi si potrebbero associare un’intera pattuglia di urbanisti che si affannano, si ostinano a predicare che occorrono alberetti, panchine, piazzette, arredi e quant’altro per migliorare la vivibilità delle nostre città. A quel noi si potrebbero associare molti e illustri amministratori che hanno pensato di trasformare Roma in una città vetrina col risultato solo di riempire (indirettamente) il portafoglio dei palazzinari e immobiliaristi, faccendieri e maghi della finanza. A quel noi si potrebbero associare molto politici nostrani che, magari anche in buona fede, si sono fatti ammaliare dalle sirene del nuovismo che ha prodotto più danni del conservatorismo. A quel noi si potrebbe associare l’intero manipolo di fanatici di quella pratica democratica che viene chiamata della “partecipazione” e che, almeno a Roma, ha prodotto un corto circuito tra amministrazione e gruppi col risultato di occupazione dell’intera polis. Tutti alla ricerca del cambiamento hanno deragliato su un binario morto: il treno andava da un’altra parte come l’attesa dell’alba sul Tirreno nel film di Nanni Moretti, dove l’alba non sarebbe mai sorta. Tutti sono rimasti a guardare la luna mentre il popolo delle periferie si prendeva la sua rivincita sui comunicatori, imbonitori, maghi, ciarlatani e modernisti. Qualcuno forse ricorderà ancora un vecchio film di Vittorio Gassman.. l’armata Brancaleone diventata sinonimo di un’armata che vaga “a casaccio”. Ad un certo punto il capitano di un drappello di soldati incontra l’armata di Brancaleone e, seduto sul proprio cavallo, chiede a lui: da che parte andate? Non lo sappiamo, risponde Brancaleone, ma sicuramente… da un’altra parte.

Anche noi, in questa ricerca, siamo andati da un’altra parte. A nostra difesa o consolazione, possiamo dire che almeno ci abbiamo provato a non ripercorrere la vicenda del ricercatore tautologico.

Il pane di ieri, dice Enzo Bianchi citando un vecchio proverbio, è buono per domani (forse questa citazione l’avrei dovuta mettere nella prima pagina, dopo il titolo, magari insieme a quest’altra: “il timore di essere sopraffatti e distrutti da orde barbariche è vecchio come la storia della civiltà. Immagini di desertificazione, di giardini saccheggiati da nomadi e di palazzi in sfacelo nei quali pascolano le greggi sono ricorrenti nella letteratura della decadenza dall’antichità fino ai nostri giorni”. Scusate, questa seconda citazione non è mia ma di Wolfang Schivelbusch che io personalmente non ho mai letto. Ma ad Alessandro Baricco sembrava molto bella!).

Enzo Scandurra

INVIATO A CAGLIARI E’ una partita a poker che vale due miliardi di euro, in cui ognuno gioca per conto suo, quasi tutti indossano gli occhiali scuri per non far vedere lo sguardo, e tutti hanno un interesse, non sempre coniugabile col bene comune. Dietro le dimissioni di Renato Soru c’è la sfida di una lobby del cemento, le mire, a volte indecenti a volte no, di imprenditori e palazzinari, le faide dentro il Pd, persino la villetta del piccolo consigliere locale, che magari vota contro il piano paesaggistico del governatore. Se ci fosse Rosi potrebbe girare «Le mani sull’isola ». La città è troppo poco. Certo, siamo a Cagliari, da dove tutto è cominciato, e nelle cui vicinanze si combattono due delle contese che più hanno lavorato ai fianchi il governatore. Ma non è solo Cagliari. Passeggiando per le rovine archeologiche di Tuvixeddu, per esempio, la scritta che blocca i lavori dell’ingegner Gualtiero Cualbu è ancora affissa, «sito sottoposto a blocco cautelativo dall’autorità giudiziaria». Cualbu, il più noto costruttore edile della città, oggi anche albergatore di lusso col Thotel, voto (esplicito) a destra, aveva presentato un progetto di utilizzo di un’area degradata di 50 ettari dove fino agli Anni Sessanta la gente viveva incastrata come nei Sassi di Matera, 38 dei quali da destinare a parco urbano, e dieci a residenze. Un business da 260 mila metri quadri di nuovi volumi, investimento tra i 150 e i 200 milioni di euro. La Regione ha stoppato tutto, Soru spiega che «quella è un’area archeologica tra le più belle della nostra terra, e non sopporta volumi di queste dimensioni». Cualbu ha fatto ricorso, e adesso racconta: «Sono la vittima predestinata, il costruttore che gli serve per fare bella figura sui media, ma avevo tutte le autorizzazioni. Una cosa è certa, noi il 5 dicembre riprendiamo i lavori». Bisogna dunque, come sempre, se- guire dove va il fiume di danari che scorre - o potrebbe scorrere - nell’isola, per cominciare a capire cosa c’è alla radice delle (tante) ansie di rivincita che si coalizzano contro Soru. E risalire un po’ la costa orientale da Cagliari a Cala di Giunco, Villasimius - dove anche in questa mattinata variabile è possibile vedere i fenicotteri. Un sindaco di sinistra, Salvatore Sanna detto Tore, che ostenta familiarità con Walter Veltroni (il segretario democratico ha semplicemente fatto vacanza da quelle parti), aveva inizialmente benedetto il progetto di Sergio Zuncheddu, altro grande costruttore, editore dell’Unione Sarda, nemicissima di Soru: villaggi per 140 mila metri cubi di nuovi volumi, investimento di 90 milioni di euro, stop a tutto, e il Tar che ha appena dato ragione a Soru. Come andrà a finire? Zuncheddu è tenace, «noi andiamo avanti, ricorreremo ancora». Tra parentesi: lui ha l’Unione, e ora anche La Sardegna si è spostata a destra. Prima l’editore era Nicki Grauso, ora una compagine di imprenditori legati a Marcello Dell’Utri. La mappa del potere muta, a urne ancora chiuse. A Cagliari il sindaco forzista Emilio Floris è sul piede di guerra perché sono fermi lavori sul lungomare Poetto, sul porticciolo di Marina Piccola, sul campus universitario. Vuole candidarsi? Alla Maddalena, che Soldati chiamava «la piccola Parigi», dopo il G8 del 2009 si farà un bando per il polo turistico, è assodato che concorreranno il riabilitato Aga Khan (pronto a spendere 150 milioni), una società monegasca (la Giee, collegata col gruppo Rodriguez, che fa yacht d’altura, ne sborserebbe 70), e anche Tom Barrack, se al quartier generale confermano: siamo interessati anche noi. Ma è una partita da giocare. Altre si stanno giocando. Negli ultimi due anni, per dire, i fratelli Toti e Benetton sono arrivati sull’isola più volte per proporre un progetto nella zona di Capo Teulada, all’inizio si sono fatti precedere da una telefonata di Francesco Rutelli. La regione ha controproposto: impegnatevi invece nel tratto di miniere dismesse di Sant’Antioco, dove urge una riqualificazione. Risposta: fossimo matti. Stessa sorte è toccata a Domenico Bonifaci, che voleva operare su un’area intorno a Porto San Paolo, edificando tra l’altro nuove residenze nell’agro, cosa vietatissima dalla filosofia- Soru (i tre chilometri dalle coste sono inespugnabili, e oggetto, appunto, della legge contestata). Lì i lavori non sono neanche mai partiti. Alcune porte però si aprono, Soru le cita per dire «è falso che io sia contro l’impresa tout court». Colaninno sta riqualificando un vecchio albergo a Is Molas (progetto di Massimiliano Fuksas), i Marcegaglia hanno acquisito il Forte Village (Tronchetti aveva visitato le miniere dismesse di Ingurtosu, poi ha scelto di non investire), Barrack sta facendo semplici lavori di ristrutturazione dei suoi alberghi della Costa Smeralda, Ligresti ha visto approvare il suo Tankka Village (sempre a Villasimius). Perché loro sì? La regione ritiene che non sfondano il territorio con nuovi volumi, anzi razionalizzano strutture obsolete. Paolo Fresu, jazzista veltroniano, ha lanciato per mail una petizione pro Soru coi suoi amici intellettuali, Salvatore Niffoi, l’attrice Caterina Murino. Ma magari pesa di più l’ira dei sindacati, che strepitano perché l’ex mago del bilancio di Soru, Franceso Pigliaru, il Giavazzi sardo, ha rimesso in sesto il bilancio anche tagliando 98 milioni di euro per la formazione: prima se li pappava la triplice. La circostanza che i seguaci di Cabras, il senatore amico di Fassino capo degli anti-Soru, votino contro il piano paesaggistico è, in questo mare, la semplice goccia. Peserà questa, o il fatto che la somma di tutti gli investimenti bloccati è vicina al miliardo, e - accusa Silvio Berlusconi - «Soru penalizza l’economia »? No, replicano in regione, gli occupati nel settore edile crescono del 18 per cento. E secondo l’assessore all’Urbanistica Gian Valerio Sanna, il miliardo bloccato è compensato da un altro miliardo virtuoso: 500 milioni investiti in tre anni dalla regione per centri storici, campagne, agricoltura, e altri 500 dai progetti approvati ai privati. Ci sono mani e mani, sull’isola della lotta al potere del cemento.

La legge vigente in Sardegna e quella in corso di approvazione da parte del Consiglio regionale prevedono entrambe che il Piano paesaggistico regionale sia approvato dalla Giunta e redatto sulla base di un documento di indirizzo del Consiglio.

E’ stata approvata soltanto la prima parte del Piano paesaggistico, quella relativa alle coste, la seconda parte, relativa alle zone interne, è stata elaborata ma non ha ancora concluso il suo iter. Obiettivo della giunta Soru è di completare il piano entro il mandato amministrativo, quindi approvare nei prossimi mesi anche la seconda parte del piano.

La discussione che è esplosa in Consiglio regionale riguarda la volontà da parte di alcuni, comprese alcune componenti della maggioranza, di utilizzare per la formazione della parte residua del Piano paesaggistico, le nuove norme anziché quelle precedenti. In sostanza significa che lo stesso Consiglio che ha approvato il documento di indirizzi sulla cui base è stato fatto il Piano paesaggistico, vuole adesso approvare un nuovo documento di indirizzi sulla base del quale ricominciare la pianificazione delle zone interne.

Soru e la Giunta, da quello che si capisce dalla lettura dei giornali, sembrano invece determinati ad approvare il più presto possibile il Piano nella sua interezza. Rimettere le cose in discussione significherebbe ritardare di un consistente numero di mesi il procedimento e quindi non arrivare all’approvazione completa del piano entro il mandato amministrativo. Bisogna considerare che da tempo, da parte della maggioranza, c’erano malumori nei confronti di Soru e quindi questa, più che l’occasione, è stata il pretesto per tentare di commissionarlo

CAGLIARI - Alla fine Renato Soru non ce l´ha fatta più. E all´ennesimo sgambetto della sua maggioranza ha dato le dimissioni. È accaduto ieri a tarda sera in consiglio regionale durante le votazioni sulla legge urbanistica, il caposaldo della sua attività di governo. Quando è stato bocciato a voto palese (55 no, 21 sì e un astenuto) un emendamento della giunta regionale il governatore della Sardegna si è alzato e insieme agli assessori ha abbandonato l´aula. Dopo un´ora e mezza di attesa Soru si è ripresentato in aula e ha annunciato le dimissioni. «Ma non lascerò la politica», ha detto dopo.

Il provvedimento respinto avrebbe dovuto sostituire la vecchia normativa del 1989 per completare il programma di governo del territorio, cominciato con la legge «salvacoste» del 2004 e proseguito con il Piano paesaggistico. Per il governatore era una «parte fondamentale della legislatura», quella che avrebbe consentito di puntare ad una pianificazione legata a uno sviluppo ambientalmente sostenibile per l´isola, con una serie di vincoli tra cui il divieto di inedificabilità assoluta nella fascia dei 300 metri dal mare.

Soru aveva messo in guardia la maggioranza in mattinata nel suo primo intervento dall´inizio dell´esame della nuova legge urbanistica. «Il Piano paesaggistico regionale è stato parte fondamentale di questa legislatura. Disconoscerlo, in qualunque modo, è un fatto grave, che dovrà essere preso nella giusta considerazione da parte di tutti noi», aveva dichiarato, invitando a votare per l´emendamento di sintesi della Giunta che avrebbe consentito alla Regione di approvare la seconda parte del Piano paesaggistico regionale con le nuove procedure previste dalla legge in discussione.

L'avvertimento non è stato colto e Soru stanco di mesi di guerriglia, a cominciare dalla continua messa in discussione della sua ricandidatura alle elezioni regionali del prossimo giugno, ha deciso di andare sino in fondo e di non farsi logorare sino allo sfinimento, come nelle ultime legislature è accaduto agli altri presidenti della Regione, sia di sinistra che di destra, in prossimità della scadenza del mandato, in piena lotta per le candidature.

«Non è un dissenso solo sul merito della legge urbanistica ma ancora più una mancanza di fiducia forte fra il presidente e la sua maggioranza», ha spiegato Soru in consiglio regionale annunciando le dimissioni. «Ho riflettuto sul fatto di essere un presidente eletto direttamente dai sardi. Ma non si può governare senza una forte maggioranza in consiglio regionale, tanto più che abbiamo davanti la discussione della finanziaria, l´ultima della legislatura. Mi sono riletto la legge statutaria e ho riflettuto su cosa sia più utile per la Sardegna e non più utile per me».

Il portavoce nazionale del Pd, Andrea Orlando, ha annunciato che il partito lavorerà per scongiurare la fine anticipata della legislatura.

«La notizia delle dimissioni di Soru ci preoccupa e giunge in un momento delicato e importante del governo riformista della giunta regionale. Lavoreremo nelle prossime ore per ricomporre il quadro politico e fare in modo che non si apra la strada della fine anticipata della legislatura consentire di proseguire un´azione di trasformazione della Sardegna che riteniamo importante e decisiva». Soru presenterà le dimissioni formalmente questa mattina e avrà un mese di tempo per ritirarle. Se non ci saranno ripensamenti il consiglio regionale sarà sciolto e le prossime elezioni dovranno tenersi entro sessanta giorni.

Da qualche anno si assiste a un risveglio culturale sardo, a un nuovo rapporto con la tradizione e il territorio. Lontano dal “continente”, vecchio e nuovo sembrano intrecciarsi meglio che altrove. Come giudica questo processo dall’interno della Regione? E che spazio ha o può avere la Regione, in quanto istituzione, in questo risveglio?

È andata maturando una consapevolezza dei pericoli degli effetti della globalizzazione, che se produce molti vantaggi – nella conoscenza, nel miglioramento della qualità della vita, nella crescita della relazioni – porta anche con sé il pericolo dell’omologazione alle culture dominanti, con la possibile scomparsa della bellezza delle differenze. E quindi, come spesso ci capita di accorgerci delle cose quando si rischia di perderle, anche in Sardegna mentre è emerso questo pericolo ci siamo accorti della importanza che hanno la lingua dei nostri padri, i racconti, la musica, la bellezza del paesaggio, la semplicità delle architetture tradizionali, la ricchezza dei valori comunitari che hanno resistito sino a oggi. Oggi tutti ne parlano nell’ansia di perderli, con la volontà di mantenerli non come il passato ma come una parte della modernità.

Qualcuno ha detto che i sardi hanno il vantaggio di vivere a contatto con la preistoria: con testimonianze così antiche come i nuraghi, le domus de janas, le tombe dei giganti. E anche la presenza così importante del mestiere più antico, quello del pastore, l’uomo che passa gran parte del suo tempo da solo in campagna, ha fatto sì che siano arrivati fino ai nostri giorni valori che consideriamo antichi. Il pastore che ha fatto sì che si sedimentasse un atteggiamento filosofico naturale che ancora oggi riconosciamo quando cogliamo la differenza tra i nostri vecchi e l’invecchiare di oggi. Questi elementi hanno fatto sì che alle soglie della modernità, o alla modernità, forse ci arriviamo coi valori quali la famiglia, la comunità, l’amicizia, il rispetto, la festa, la tavola. E la scommessa è cercare di portare nella modernità una parte di questo atteggiamento per molti versi ancora arcaico.

Due mosse della sua presidenza hanno avuto un forte impatto nazionale: la battaglia della Maddalena, per un futuro non militare dell’isola, e la salvaguardia delle coste contro i mille abusivismi. C’è un filo sotterraneo che congiunge i due interventi? È possibile parlare di “bellezza”, di “paesaggio” e di “coste” senza limitare l’intervento della politica al solo ambito turistico?

Avevamo detto che c’erano innanzitutto delle questioni di dignità che andavano poste e che le servitù militari erano un problema di sviluppo economico, ma erano anche un problema di dignità. E non è dignitoso che in Sardegna si sparino circa l’80% di tutte le bombe che vengono esplose in Italia in tempo di pace. È una questione di equilibrio, è una questione di giustizia, è una questione di dignità, pretendere che anche la nostra terra sia rispettata e venga utilizzata anche agli scopi militari in maniera equilibrata rispetto alle altre terre, le altre regioni d’Italia. Questo punto credo che sia stato messo in maniera decisa da noi e credo che dei passi avanti siano stati fatti, e credo che dei passi avanti altrettanto più importanti verranno fatti nei mesi futuri.

Poi noi siamo partiti dalla considerazione che per colmare il ritardo di sviluppo della Sardegna abbiamo bisogno di tutte le nostre risorse a disposizione. Tra le risorse a disposizione, che dovrebbero essere a disposizione della nostra regione, per lo sviluppo, c’è Capo Teulada, c’è l’arcipelago della Maddalena. Alla Maddalena ci sono 180 lavoratori che lavorano, da civili, presso la base americana, ma ci sono oltre 2000 disoccupati, a cui evidentemente l’attività militare non è stata in grado di garantire un lavoro. Io credo che la restituzione agli usi civili di questi tratti importantissimi di territorio, dalla Maddalena fino a Capo Teulada, sarà capace di garantire un lavoro a un numero molto maggiore di maddalenini e di sardi, e anche questa quindi è un’attività che la Regione fa per la crescita del lavoro. E sono entrambe zone bellissime della Sardegna, che l’ultima cosa che verrebbe in mente poer loro è quella di tenerle vincolate per gli usi militari. Servono allo sviluppo di quei territori e di quelle comunità, innanzitutto, e poi è un fatto di giustizia.

Avevamo detto che attorno all’ambiente si può creare lavoro. Nell’uso sapiente dell’ambiente, non nel suo consumo. E il lavoro duraturo non è quello dell’edilizia, che ogni giorno consuma una fetta nuova d’ambiente, che non è paga magari di aver costruito 400.000 seconde case nelle coste della Sardegna, e ne vorrebbe costruire altre 300.000 o altre 400.000, in una specie di cantiere che non finisce mai, che però porta pochissima ricchezza alla nostra regione. Abbiamo capito, anche in materia d’entrate, che non porta quasi nessuna ricchezza fiscale. Non lascia lavoro stabile, perché appena si finisce una casa bisogna costruirne un’altra e prima o poi bisognerà smettere di costruirne. Si costruiscono cubature che non portano lavoro durante tutti i mesi dell’anno.

Abbiamo fatto una legge per cercare di riqualificare queste coste, queste cubature, trasformare seconde case in industria turistica-alberghiera. E stiamo facendo tutto quello che si può fare per la riqualificazione e per il riuso di cubature esistenti, che erano sciupate e inutilizzate da tanti anni. Credo dopo vent’anni di inattività, è stato fatto il bando per il riuso dei siti minerari dismessi: di Masua, di Ingurtosu e di Piscinas. Allo stesso modo, non è ancora uscito il bando, ma stiamo lavorando e nei prossimi mesi uscirà il bando per Monteponi. Allo stesso modo si sta lavorando per riutilizzare il sito di Campo Pisano, vicino a Iglesias. Si sta ricreando lavoro, laddove il lavoro c’era stato, era stato dismesso da decenni e per decenni non si era riusciti a far nulla.

Fare il “governatore”, anche in una regione a statuto speciale, vuol dire scontrarsi con il peso delle burocrazie. Come risponde alle accuse di “decisionismo”?

Il peso delle burocrazie deve essere indubbiamente limitato all’indispensabile e la pubblica amministrazione deve essere più snella, più leggera, in modo che sia il più possibile efficiente, chiara e trasparente per chi vi si rivolge. E in maniera che costi il meno possibile al sistema sociale. Questa è la nostra battaglia, nota a tutti dall’inizio. Una prima cosa di cui ci siamo occupati è la semplificazione della amministrazione regionale. È inoltre in fase di ultimazione il processo di cancellazione di 18 Comunità montane e la cancellazione di 12 Consorzi industriali. In agricoltura ci sono nove enti: stanno diventando due agenzie. E potrei continuare. Insomma, la Giunta regionale ha fatto la sua parte. Abbiamo fatto i disegni di legge necessari di riforma, alcune leggi abbiamo iniziato finalmente ad approvarle, molte di queste attività di moralizzazione, di miglioramento della pubblica amministrazione stanno andando in porto. E i partiti, devo dire con lungimiranza e generosità, stanno assecondando, per quanto possibile, questo processo.

Detto questo, vorrei anche aggiungere che io non ho mai fatto un distinguo tra il personale della pubblica amministrazione e la politica, e i politici. I cittadini, per primi, non distinguono quando dicono: “La Regione funziona male”. Non pensano che c’è un presidente bravo e un’amministrazione cattiva, o viceversa. Siamo nella stessa barca, questa è la verità: siamo uguali, siamo lo stesso corpo agli occhi dei cittadini, e a ragione.

E allora, portare avanti un cambiamento, dal mio punto di vista, dal punto di vista della Giunta regionale, significa riuscire a fare un percorso comune di cambiamento, e provare a essere migliori. Migliori noi politici nella capacità di ascolto e di guida, nella capacità anche di stimolo, e migliore il personale nella capacità di essere esecutore delle politiche della pubblica amministrazione e nella capacità anche di incoraggiarla, qualche volta, a una politica migliore. Quindi un percorso assieme, perché questa “storia” la si vince o la si perde assieme: non ci può essere buona politica senza buona amministrazione e non ci può essere una buona amministrazione senza buona politica.

Quanto al “decisionismo”... Da un lato è vero che in politica devi decidere: ad un certo punto è necessario fare sintesi e decidere. Però è una decisione che deve essere necessariamente una decisione per tutti: deve ascoltare e tener conto di tutti. Quindi è una decisione totalmente diversa da quella dell’imprenditore. La decisione dell’imprenditore di per sé è immediata, sapendo che i risultati, nel bene e nel male, saranno per sé o per la sua azienda. La decisione del politico, ha lo stesso nome, è sempre una “decisione”, ma una decisione opposta, direi, di segno opposto: è per gli altri e, nel bene e nel male, rappresenta le ragioni degli altri, non le ragioni tue. Questa è quella che si chiama democrazia. Una democrazia matura non si confronta muro contro muro. Non c’è uno che vince e uno che perde, il quale si aspetta poi che venga ribaltato un risultato elettorale per sostituirsi. Una democrazia matura ha qualcuno che detiene la responsabilità del governo, questo sì. Ha qualcuno che ha maggiormente la responsabilità del risultato di un’assemblea, ma chiama in ogni caso, sempre, tutte e due le parti, a collaborare al risultato complessivo dell’assemblea. Una democrazia matura non può essere separazione, non può essere solo “una parte”, ma è necessariamente la possibilità di prendere il meglio del tutto. Questo è quello che questa Giunta regionale intende fare e portare avanti.

Per un anno, tra la metà del 2005 e la metà del 2006, i governatori di centrosinistra sono stati forse il più importante argine istituzionale al berlusconismo senescente. Con il governo dell’Unione si apre una nuova fase?

Io credo che questo Governo si comporterà in maniera leale, avrà la capacità di ascolto e, per quanto ci riguarda, comprenderà che la questione sarda merita attenzione. E quindi abbiamo un’occasione molto importante per portare a casa dei risultati che sono stati attesi per tanti anni.

Ma vorrei dire anche questa cosa: la politica divide, e l’Italia in questo momento è estremamente divisa, purtroppo. E anche, direi, colpevolmente divisa. E a volte stacchiamo anche la riflessione, o riflettiamo poco, e vediamo solo “destra” e “sinistra”. È chiaro che ci sono differenze, è chiaro che le idee di un governo di centro-sinistra sono diverse da un governo di centro-destra, in tanti casi. Ma ci sono un sacco di altri casi in cui sono le stesse idee. E quindi si può lavorare insieme, e si può riflettere, e si può guardare a tutto quello che ci unisce invece che a quello che ci divide. E si può anche evitare di farci del male da soli: specialmente quando i sardi che pensano di far male al governo di centro-sinistra magari qualche volta stanno facendo male alla Sardegna stessa, più che al governo di centro-sinistra. E viceversa naturalmente. Quindi vale per il Paese, vale per la regione, vale a ogni livello: dobbiamo veramente avere la capacità di guardare al di là di queste cose, sapere che ci sono delle differenze, competere nel momento della competizione elettorale, però poi lavorare assieme. Perché è per tutti: e spero che si riesca a fare di più in futuro.

Come ha vissuto il passaggio da Tiscali alla politica? Tra la richiesta di nuove infrastrutture e quella di “autostrade digitali”, tra vecchia e nuova imprenditoria, vecchia e nuova finanza, qual è il futuro postmoderno della Sardegna?

Dal mio ingresso in politica sono passati due anni, ho avuto modo di parlarne in varie occasioni. Io, intanto, mi sono dimenticato di essere stato imprenditore. Oggi mi sento un cittadino che ha rappresentato il ruolo politico e lo vivo in maniera totale: e mi sento un politico, non più un imprenditore; ragiono da politico e non da imprenditore; e cerco di vivere quest’esperienza politica per le cose di cui sono capace. Naturalmente porto con me un bagaglio di conoscenza e di esperienza che può essere diverso da uno che invece ha fatto il professore universitario di lettere antiche oppure il magistrato, l’avvocato, l’artista o altre cose. Ci sono diverse esperienze che ci può capitare di fare prima di avere il ruolo di responsabilità, il ruolo politico, e nessuna è più o meno importante dell’altra. Fare l’imprenditore non è necessariamente un valore più importante rispetto ad altri per fare politica. Io credo in questa possibilità, nella necessità di fare politica, nel dovere di farla, e che ci sia spazio per tutti.

Per quanto riguarda il futuro della Sardegna tra vecchio e nuovo, come dice lei, riassumerei la questione in questo: modernità e maggior equità. Mi capita di dire: innovazione e giustizia sociale. Se potessi attuare qualcosa, riuscire a realizzare qualcosa, effettivamente, in questi anni di governo, mi piacerebbe che fosse esattamente questo: contribuire ad aumentare la capacità e il livello di innovazione di questa regione e aumentare la giustizia sociale. Questi sono i due punti, ai quali aggiungo la bellezza.

Abbiamo fatto di tutto per difendere l’industria, la grande industria esistente. Per difendere l’occupazione, per crescere e per dare sollievo a chi oggi ancora un lavoro non ce l’ha. Per sanare delle partite storiche di lavoratori socialmente utili, aziende storicamente in crisi che oggi hanno un nuovo futuro, come la Carbosulcis, i lavoratori dell’ex cartiera di Arbatax.

Cosa mi aspetto? Continuare su questa strada, una strada d’innovazione. Questa è una regione che vuole essere innovativa, che punta molto sulla capacità d’innovazione e di crescita della conoscenza e del sapere, quindi continuiamo a puntare sull’innovazione.

Mi aspetto molto nel campo della creatività e della bellezza. E quindi maggiore attenzione alla bellezza, alla pulizia, all’ordine, alla cura, all’attenzione che dedichiamo alla nostra Regione, ai nostri uffici, ai nostri paesi, alle nostre architetture, a tutto quanto. Credo che continueremo a lavorare su questi filoni: dell’innovazione, della giustizia e della bellezza.

Quello che esiste, in termini di lavoro, di imprese, di diritti, noi lo difendiamo con molta determinazione. La Regione sta giocando un ruolo di attenzione, sta facendo tutto quello che può e lo fa con il massimo impegno e la massima determinazione, affinché tutto il lavoro che il sindacato ha fatto negli anni per il piano per la chimica sia rispettato, affinché tutti gli investimenti promessi sulla chimica siano rispettati, e non ci sia un ulteriore impoverimento della Sardegna.

Facciamo questo, però ci diciamo che forse per il futuro e la nuova occupazione dobbiamo puntare sulle piccole e medie imprese che esistono in Sardegna e che devono aumentare nella nostra regione. La Regione ha fatto uscire un bando di 700 milioni di euro che è dedicato proprio a loro. Quindi va oltre le parole e per la prima volta mette in campo delle risorse di dimensioni straordinarie votate proprio a questo: far nascere delle piccole e medie imprese in Sardegna e far crescer le piccole e medie imprese che già esistono. Non ci saranno più partecipazioni statali. È difficile che attrarremo ancora un’impresa che si metta a fare alluminio laddove questo costa di meno 200 km più a sud e il lavoro costa molto meno. Ma sicuramente attrarremo nuova impresa se avremo le infrastrutture informatiche necessarie, quelle che lei ha chiamato “autostrade digitali”. E a questo stiamo lavorando da due anni e ormai siamo anche a buon punto. La prima cosa che è stata fatta: ci siamo dotati di una strategia. Una strategia che parte innanzitutto dalla rete. Per funzionare, l’informatica ha bisogno di una rete di telecomunicazioni. La Sardegna non ne era dotata, tanto meno ne era dotata l’amministrazione regionale. È stata fatta, è stato fatto un bando importante, è in fase di implementazione e completamento in questi mesi, la rete della pubblica amministrazione regionale, al quale potranno partecipare tutti.

Sono state fatte delle azioni importanti: ad esempio fare in modo che ci sia l’Adsl nel proprio Comune, e ci sono ancora oggi oltre 200 comuni della Sardegna che non hanno l’Adsl. Ora noi ci aspettiamo che in tempi brevissimi, assolutamente meno di un anno, la nostra regione sia la prima in Italia dove la banda larga sia accessibile per il cento per cento della popolazione, in tutti i comuni della Sardegna, fino al più piccolo, di poche centinaia di abitanti. E poi, fatta la rete per la pubblica amministrazione, resa la rete accessibile a tutti i comuni, tutti i cittadini, tutte le imprese della regione.

Il vero motore dell’economia al giorno d’oggi, nel mondo contemporaneo, è la conoscenza, il sapere, il livello di istruzione delle persone.

LA MADDALENA - Mazzata sul mercato privato dei paradisi naturali ceduti al miglior offerente. La Regione Sardegna comprerà le isole di Budelli e Mal di Ventre. L’annuncio è stato ieri mattina dal governatore Renato Soru mentre, a Villasimius, riceveva le Cinque Vele di Goletta verde e Legambiente per l’efficacia della sua politica di tutela ambientale.

La notizia è stata confermata dal sindaco di Cabras, Efisio Trincas. Nel suo territorio comunale ricade Mal di Ventre, cinque miglia a ovest delle coste dell’Oristanese. «Ad acquistare l’isola dal suo attuale proprietario, il lord inglese Rex Miller, sarà la Conservatoria regionale per i beni paesaggistici sardi da salvaguardare», ha chiarito il primo cittadino, visibilmente contento del positivo sviluppo creatosi in una faccenda che rischiava diversamente di attirare speculatori senza scrupoli. «La gestione concreta - ha poi proseguito Trincas - continuerà a venire affidata alla nostra amministrazione tramite l’oasi marina».

Soddisfatto della svolta anche l’assessore regionale per la Difesa dell’ambiente, Cicito Morittu: «Nel caso di Mal di Ventre, così come per Budelli e per tutte le altre situazioni nelle quali si ritenga indispensabile provvedere, è questa la soluzione più opportuna - ha spiegato con convinzione l’amministratore - Nello stesso ambito d’intervento, un domani, potrebbero rientrare molte pinete lungo le coste oggi ancora private e in un prossimo futuro destinate a diventare pubbliche».

Trattative già avviate, quindi. Prima di tutto con il nobile britannico proprietario di Mal di Ventre. Si tratta di un ingegnere che vive sull’isola di Jersey, tra Gran Bretagna e Francia, nel canale della Manica. E che nei giorni scorsi aveva fatto pubblicare un annuncio di vendita sull’ International Herald Tribune: "isola in vendita". E’ sttao proprio quell’annuncio a suscitare vasta eco in tutt’Italia e, probabilmente, a determinare la rapidissima decisione della Regione Sardegna.

Grande 81 ettari, l’isola di Mal di Ventre è un gioiello d’inestimabile valore anche sotto il profilo geologico e storico. In passato tra cale e spiagge sono stati trovati, fra l’altro, i resti di un insediamento nuragico e oltre a preziosissime testimonianze risalenti all’epoca romana.

Negoziato finora super segreto, invece, con gli attuali proprietari di Budelli, un chilometro e mezzo quadrato di litorali e baie magnifiche, tra cui la Spiaggia Rosa resa celebre dal film con di Lina Wertmuller con Giancarlo Giannini e Mariangela Melato. L’isola, uno dei gioielli dell’arcipelago della Maddalena e del parco nazionale recentemente costituito da quelle parti, appartiene da oltre vent’anni a una società a responsabilità limitata, la Nuova Gallura. La rappresenta sul piano legale un avvocato elvetico, Vittorio Peer.

Per sapere come si svilupperanno le trattative, adesso, non resta che attendere. L’intera questione è infatti seguita con particolare interesse alla Maddalena, dove di recente è nato un braccio di ferro tra Comune e Parco. Al centro del contendere, i criteri di gestione dell’area protetta. Ma a suscitare contrasti è anche l’affidamento d’importanti beni pubblici che, una volta smilitarizzati dagli americani della base dei sommergibili nucleari e dalla stessa Marina italiana, entreranno a far del patrimonio della comunità civile.


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28 luglio 2007

Di Sardegna il mare e il suol...

di Guglielmo Ragazzino

La cosiddetta tassa Soru, che prende nome dal presidente della Sardegna, consiste in un'imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico. Fino a tre chilometri dal mare si pagano 9 euro al metro quadro per alloggi fino a 60 metri e poi la tariffa sale per le case più grandi. Una casa di 60 metri quadri è così tassata per 540 euro; Silvio Berlusconi, sempre grandioso, ha invece calcolato di subire il carico maggiore: 50 mila euro. Per le case più vicine al mare, meno di 300 metri, è prevista una sovrimposta del 20%.

La «tassa Soru» non è apprezzata dal governo di Roma che la ritiene doppiamente illegittima, sul piano costituzionale. C'è un conflitto tra stato e regione in materia tributaria ed è messa a rischio l'uguaglianza dei cittadini. Il governo si è rivolto alla Corte una prima volta l'anno scorso, e il giudizio è pendente. Ha deciso di rifarsi sotto quest'anno, impugnando la legge e le modifiche apportate da Renato Soru nel maggio 2007.

E' una materia spinosa che si è ripresentata in un brutto frangente... e così ieri venerdì 27 luglio, quando alle 9,45 del mattino si è riunito il consiglio dei ministri, con un'agenda densa di decisioni da prendere, di nomine da fare, il tempo era veramente poco. Il comunicato ufficiale è trascritto in sei pagine; e per arrivare alla questione Soru si deve arrivare all'ultima che trascriviamo integralmente. «Il Consiglio, infine, su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, Linda Lanzillotta, ha esaminato alcune leggi regionali a norma dell'art. 127 della Costituzione. La seduta ha avuto termine alle ore 11,00.» Un consiglio dei ministri con la mente altrove, con altro da pensare per occuparsi di ambiente e beni comuni, di mare e libertà, di uguaglianza e ricchezze.

I temi presenti nella questione del mare di Sardegna e del federalismo fiscale, della costa e dei suoi padroni, delle case e dei sardi emigrati, sono tutti compressi nel richiamo all'articolo 127 della Carta. L'anno scorso, nel presentare la tassa, Soru ha detto che essa «si fondava sull'uso dell'ambiente, una risorsa pubblica scarsa». E aggiungeva che il tentativo era di «portare avanti un progetto di sviluppo del turismo; ma di un turismo sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale». Sul problema del non rispetto eventuale dell'articolo 3 della costituzione, relativo all'uguaglianza tra i cittadini, i sardi, gli immigrati in «continente», i loro figli, Soru dichiarava la volontà di tenere aperta la discussione.

Infatti la soluzione adottata piace poco ai sardi ed è sempre avversata dal governo di Roma. Ma se esso intenda difendere l'uguaglianza, sia pure astrattamente intesa, dei cittadini di fronte al mare, oppure i diritti dei ricchi che il mare pensano di averlo comprato per sempre, forse non lo sanno neppure a Palazzo Chigi. Per ora, intanto, due su tre dei tassati non pagano, in attesa che una specie di condono li premi ancora una volta.

2 agosto 2007

La spia accesa sarda e i vandali di governo

di Pierluigi Sullo

Il manifesto ci ha fatto una prima pagina: scelta molto azzeccata. L'impugnazione da parte del governo della cosiddetta «tassa sul lusso» della Sardegna è un riassunto dell'atteggiamento del centrosinistra - la parte «coraggiosa» - sui temi del cosiddetto sviluppo. In altre parole, è la conferma di quanto il precipitare della crisi ambientale, lo stato di degrado in cui è il nostro assetto idro-geologico, il disastro della cementificazione e privatizzazione delle coste (che è all'origine dell'«emergenza incendi»), lo spettro della crisi idrica che sta ammazzando il Po, tutto questo sia ignorato dall'attuale governo. Anzi, ogni provvedimento (o non provvedimento) concorre a aggravare la situazione.

La legge sarda non si propone solo di far pagare un'imposta ai ricchi, quelli che hanno grandi barche o aerei privati, ma soprattutto di chiudere un cerchio che si è aperto con l'approvazione del piano paesistico regionale che proibisce nuove costruzioni a meno di tre chilometri dalle coste. Quel divieto salva il salvabile, dopo l'allegro saccheggio iniziato dall'Aga Khan in Costa Smeralda decenni fa, e permette all'isola di continuare a vendere la sua «merce» turistica, che altrimenti semplicemente si esaurirebbe. Ma in compenso, dice il presidente Soru, noi chiediamo ai non residenti, a coloro che posseggono una seconda casa e la usano uno o due mesi l'anno, di contribuire al salvataggio delle coste. Anche a loro vantaggio, perché non costruire più nulla darà ovviamente maggior valore a quel che c'è già.

Ora, che il governo si opponga in nome dell'esclusivo potere dello stato di imporre tasse (dopo tante fesserie sul federalismo) e dell'«eguaglianza dei cittadini» (quando è noto che la tassazione progressiva, e quella sarda lo è, è una delle basi dello stato moderno) è più che grottesco: è pericoloso. Perché suona inequivocabilmente come un incitamento ai trafficanti di cemento, tant'è vero che la destra sarda sta esultando, oltre a invitare a non pagare la famosa tassa (quasi il 50 per cento di chi dovrebbe, per altro, ha già pagato, perché evidentemente i cittadini sono più intelligenti dei loro ministri).

Ma appunto questa storia della Sardegna è l'ennesima spia rossa accesa sul cruscotto dell'automobile modello Italia. Lasciamo stare per una volta la Tav, che è troppo facile. Che dire di una Regione, come l'Umbria, che allo stesso tempo proclama lo stato di calamità a causa della scarsità d'acqua, e poi autorizza Rocchetta a utilizzare un pozzo che ammazzerebbe definitivamente un fiume, il Rio Fergia, così che tocca ai cittadini locali accorrere al suono delle campane per fermare le ruspe? E che dire di un parco nazionale, come quello del Gargano, dove le fiamme hanno divorato boschi e ucciso persone, che si oppone all'abbattimento di centinaia di case abusive e non fa una piega quando si vuole costruire un mega-hotel e centro commerciale in zone protette?

O di un'altra regione, il Lazio, dove lobby multiformi si agitano per ottenere il maggior numero possibile di inceneritori, solo perché sono resi assai convenienti dagli scandalosi Cip6 (la quota che tutti noi paghiamo nella bolletta per fonti rinnovabili fasulle e velenose come gli scarti del petrolio o i rifiuti, appunto), mentre il comune di Roma ha una ridicola quota di raccolta differenziata, il 20 per cento, e viene perciò premiato da Legambiente?

A Vicenza aspettano a pié fermo le ruspe che dovrebbero costruire la nuova base militare.

Se ci sono drammi sulle pensioni, la precarietà e il welfare (e ci sono), suggerisco alla sinistra di prendere nota di questi altri drammi. Il malessere sociale ha molte facce.

Come è noto, la signora Lanzillotta, ministra degli affari regionali nel governo Prodi, rappresenta la punta più avanzata dell'innovazione riformista coraggiosa [tralascio le virgolette perché ne occorrerebbero troppe]. Per conto del gruppo di potere cui appartiene, capeggiato da Francesco Rutelli, intrattiene relazioni con le imprese che hanno preso di mira i servizi pubblici locali. Prima delle elezioni politiche, l'anno scorso, Lanzillotta ne prometteva la liberalizzazione e modernizzazione, se il centrosinistra avesse vinto. Altro che Berlusconi. Purtroppo la ministra non è stata del tutto di parola: sull'acqua, ad esempio, ha dovuto accettare una moratoria, assediata com'è dalla sinistra cosiddetta radicale [sarebbe ora di chiamarla sinistra e basta], e soprattutto dalle oltre 400 mila firme raccolta dalla legge d'iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell'acqua: firme raccolte da quel movimento che secondo molti non esiste più, e con il solo sostegno di giornali indipendenti che qualcuno vorrebbe non esistessero più.

Ma l'ideologia è una forza potente. E la ministra Lanzillotta un tipo tenace. Perciò, per conto del governo, ha impugnato presso la Corte costituzionale la cosiddetta "tassa sul lusso" varata in Sardegna dal presidente Soru e dalla sua maggioranza di centrosinistra. Soru, che è un liberista intelligente [invece che idiota, come la gran parte dei liberisti italiani] ha fatto questo ragionamento: noi, con il Piano paesistico regionale [steso da un insigne urbanista e collaboratore di Carta, Edoardo Salzano] diciamo basta alla costruzione di nuove case in una fascia di tre chilometri dalla costa. In questo modo salvaguardiamo il valore di mercato [appunto, Soru è liberista] del turismo sardo, che altrimenti degraderebbe in una insopportabile cascata di cemento. Però arrestare questo "sviluppo" comporta un sacrificio economico. Quindi si tratta: a] di far pagare un'imposta ai ricchi che si servono delle nostre coste, cioè coloro che arrivano con barche oltre i 14 metri e con aerei privati; b] soprattutto, di far sì che chi possiede una seconda casa in Sardegna, non abitandovi ma usandola uno o due mesi l'anno, paghi l'uso che fa del nostro territorio e delle sue spiagge, ecc. Questa tassa sulle seconde case, a sua volta, è graduata in base alla grandezza della casa [più o meno di 60 metri quadri] e alla vicinanza alla costa [il valore delle case aumenta se sono più vicine al mare]. Insomma, una tassa progressiva [chiede di più a chi ha di più] e che ha lo scopo di rendere utili, almeno dal punto di vista del bilancio sardo, le città morte di seconde case che la speculazione degli ultimi decenni ha creato [e in proposito consiglio di leggere l'articolo di Sandro Roggio, urbanista sardo, sul mensile di Carta che uscirà questo sabato, dedicato appunto al destino delle coste italiane].

Cos'ha da obiettare la ministra Lanzillotta? Che la tassa sarda, per altro già pagata [dice Soru] dal 50 per cento di chi dovrebbe pagarla, un dato che impressiona positivamente, invade le competenze dello Stato e per di più viola il principio di uguaglianza tra i cittadini, visto che a pagare sono i non residenti. Soru risponde che la Sardegna è una regione autonoma a statuto speciale fin dal 1948, e ha il diritto di imporre nuove tasse. E d'altra parte invocare il principio di uguaglianza è in questo caso ridicolo.

Sta di fatto che il governo Prodi, e la sua punta avanzata coraggiosa, cercano di sabotare l'unico provvedimento che con qualche decisione, in tutto il paese, cerca di fermare l'ondata di cemento che ha già investito - si calcola - tra il 60 e il 70 per cento delle coste, privatizzandole di fatto, esponendole ad incendi come quello del Gargano [ne parleremo sul prossimo numero del settimanale], inquinando il mare, ecc. E la ragione è puramente ideologica: lo "sviluppo" non può essere fermato, foss'anche quello cialtrone delle seconde case [e figuriamoci quello degli inceneritori, dei rigassificatori, delle superferrovie…]. Perché può essere raccontato agli elettori come la "crescita" del paese [cioè dell'economia] e soprattutto perché apre le dighe degli affari, dai super-palazzinari che governano Roma alle Impregilo che costruiscono il Mose e fanno andare in malora la raccolta dei rifiuti in Campania. Quel centrosinistra, quello della signora Lanzillotta, è un originale impasto di dirigismo politico-economico e di alleanze con gruppi di potere imprenditoriali. Sono le partecipazioni statali alla rovescia: un tempo era lo Stato a intervenire nell'economia, creando le sue industrie; oggi è l'economia a intervenire nello Stato, creando le sue lobbies.

PREMESSE

Il quadro di riferimento

Prima di esprimere un parere sulle osservazioni al progetto di Piano paesaggistico regionale, il Comitato scientifico ritiene utile chiarire la propria posizione su alcuni dei principali temi affrontati nel progetto, riprendendo questioni che sono state ampiamente discusse in un clima di costante collaborazione con l’Ufficio, espresse in numerosi documenti che hanno contribuito in modo consistente a conferire al PPR il contenuto e la sua forma attuale. La progettazione del PPR ha comportato, per i componenti del Comitato scientifico, un coinvolgimento intellettuale ed anche emotivo che l’intero gruppo ha condiviso pienamente nelle intenzioni culturali e politiche, percependo l’assoluta novità dell’esperienza nella quale si troveranno contenuti che rivoluzionano il governo del paesaggio.

L’estensione dell’area disciplinata (è il più grande piano paesaggistico mai redatto in Italia), il carattere controcorrente della filosofia di fondo che sostiene il Piano rispetto alla tendenza prevalente (che è quella della corsa alla privatizzazione e alla dissipazione del territorio e delle sue risorse, in cui la sostenibilità, ridotta a sopportabilità, è più un uso artificioso della parola che una volontà determinata di preoccuparsi dei posteri), la possibilità di verificare e applicare i nuovi orientamenti scientifici derivanti dalle direttive europee e le regole, a volta discutibili, del recente Codice dei beni culturali e del paesaggio, tutti questi fattori hanno reso il compito del Comitato scientifico intricato ma appassionante. D’altronde, il Comitato era ben consapevole del fatto che il PPR rappresenta il primo piano unitario dedicato al paesaggio regionale, dopo tanti piani settoriali e i piani paesistici decaduti.

Così, incaricato di seguire la progettazione a partire dalla messa a punto delle “Linee guida”, il Comitato Scientifico non si è limitato all’espressione di pareri ma ha formulato una filosofia, una visione organizzata sulla quale, poi, si è sviluppato il piano. Nel corso della progettazione - a partire dal luglio 2005 - i membri del CS hanno costituito dei gruppi di lavoro misti con l’Ufficio del Piano che, fin dall’estate del 2004, aveva avviato la progettazione, raccolto e ordinato il vastissimo materiale conoscitivo e delineato i primi elementi del metodo.

La formazione del PPR si colloca infatti in una fase di particolare evoluzione del diritto ambientale, non solo nel nostro paese. Negli ultimissimi anni e mesi, alla costanza dell’affermazione di principi (maturati sulle radici di più antiche sentenze costituzionali ma resi espliciti e cogenti dalle leggi che si sono succedute dalla 431/1985, alla L.183/1989, alla L.394/1991, al DLeg 490/1999, al DLeg 42/2004, fino al recentissimo atto di modifica di quest’ultimo e alla vicenda del DLeg sull’ambiente) ha corrisposto un continuo modificarsi delle formulazioni tecniche, dei procedimenti e della stessa portata degli atti di pianificazione.

E contemporaneamente, mentre il quadro europeo arricchiva di contenuti e di prospettive la pianificazione del paesaggio (soprattutto con la Convenzione Europea del Paesaggio del 2000) e la tutela dell’ambiente (con la Direttiva Habitat del 1992), e mentre si consolidavano a livello internazionale nuovi orientamenti nella gestione delle risorse naturali (come quelli espressi nella Convenzione di Rio sulla biodiversità, o quelli affermati dall’Unione Mondiale della Natura a Montreal, 1996, a Durban nel 2003 e a Bangkok nel 2004, o quelli sanciti dall’UNEP e dalla stessa Unione Europea per la gestione integrata delle zone costiere del Mediterraneo), le modifiche alla legislazione nazionale in materia ambientale e i ritardi nella sua attuazione hanno indebolito alcuni supporti essenziali della pianificazione paesaggistica-ambientale, quale la pianificazione di bacino.

È in questo quadro che vogliamo fornire alcune riflessioni sulle principali questioni emerse nella formazione del progetto di piano. Riflessioni che siano di riferimento per la validazione tecnico-scientifica delle elaborazioni in corso, per l’esame delle osservazioni raccolte nella fase di pubblica consultazione e per l’avvìo delle attività di valutazione con le quali controllare i processi attuativi. In effetti, la complessità delle tematiche affrontate e l’oggettiva difficoltà di rendere omogenei molti tematismi apparentemente distanti e prodotti su basi cartografiche diverse - unitamente alla ristrettezza dei tempi e alla forte accelerazione data ai lavori nella fase finale - non hanno consentito sempre un’adeguata rivisitazione delle elaborazione operate che restano, comunque, impregnate della filosofia illustrata nelle linee guida del Piano.

Le riflessioni concernono soprattutto:

1. La forma e la struttura del piano, ossia le differenti modalità mediante le quali il PPR intende avviare un processo di pianificazione che abbia, quale suo punto di partenza e sua prima “invariante”, l’indifferibile esigenza di tutelare le qualità del territorio regionale per garantirne la fruizione alle popolazioni attuali e a quelle future. In questo quadro, si affronteranno anche le questioni relative alla particolare tutela della fascia costiera, alle norme diversamente articolate in relazione alle “componenti del paesaggio” e agli “ambiti di paesaggio”, alla definizione di “valori paesaggistici” alle diverse parti del territorio.

2. I rapporti tra le diverse responsabilità, competenze, ruoli degli attori pubblici. Si tratta dell’applicazione del principio di sussidiarietà che si è inteso dare nel formulare le scelte relative sia ai contenuti che alle modalità di svolgimento del processo di pianificazione, con particolare riferimento alle responsabilità della Regione e alla definizione della collaborazione, nel processo di pianificazione, tra i diversi enti pubblici elettivi a diverso titolo responsabili del governo del territorio. In questo quadro, si farà cenno al ruolo dei diversi enti nel governo del territorio, e agli strumenti mediante i quali garantire, a un tempo, l’efficacia delle scelte della pianificazione e il rispetto delle prerogative dei diversi livelli di governo.

2. Il paesaggio della Sardegna.

L’oggetto del PPR, si può dire il suo protagonista, è il paesaggio della Sardegna. Un bene complesso e fragile. Complesso per la sua formazione: deriva dai fondamenti geopedologici, climatici e biologici, ma è anche il prodotto del millenario lavoro dell’uomo su una natura difficile, lungo la cui durata si sono costruiti insieme la forma dei luoghi (il paesaggio appunto) e l’identità dei popoli. Difficile da organizzare in conoscenza sistematica per la cognizione che ognuno di noi ne possiede pur esistendone una qualche percezione comune. Osservato e studiato nella convinzione che conservare e gestire responsabilmente il paesaggio significhi conservare l’identità di chi lo abita e che un popolo senza paesaggio è un popolo senza identità e memoria. Complesso e fragile proprio per la bellezza delle sue coste, preda delle più rapaci e violente distruzioni, e per le solitudini mistiche delle aree interne in abbandono.

Fragile ma confortante per la certezza che ancora si prova nel riconoscere il territorio anche in una fotografia dell’isola trovata nella polvere, per la sensazione di infinito che l’isola provoca in chi guarda ciò che di intatto è stato conservato, e di riconoscibile per l’effetto dei venti dominanti che hanno piegato il paesaggio, rocce e alberi, in una forma unica che lo identifica e lo rende familiare. Complesso nonostante l’unità sostanziale che secoli di storia hanno realizzato a partire dalle differenti forme, unificando il territorio della Sardegna che si è composto in una sintesi, articolata e armonica, delle sue molteplici identità locali. Complesso e fragile, a dispetto della sua forza e resistenza, per i conflitti che sono natinegli ultimi decenni tra una civiltà fortemente radicata nella storia e nei luoghi e una deformata idea di modernità che è consistita nell’utilizzazione feroce delle risorse e nella trasformazione del territorio ispirata a modelli uguali e ripetuti in ogni parte del mondo.

L’assunto alla base del PPR è che questo paesaggio - nel suo intreccio tra natura e storia, tra luoghi e popoli – sia la principale risorsa della Sardegna.Una risorsa che fino a oggi è stata utilizzata come giacimento dal quale estrarre pezzi pregiati sradicandoli dal contesto, piuttosto che come patrimonio da amministrare con saggezza e lungimiranza per consentire di goderne i frutti alla generazione presente e a quelle future. Una risorsa che è certamente il prodotto del lavoro e della storia della popolazione che la vive e di cui essa è responsabile.

E’ su questo assunto che si basano le scelte di fondo del PPR, già indicate dalle Linee Guida approvate nel 2005 ed ora tradotte in indirizzi progettuali di governo del territorio, quali:

- la priorità accordata alla preservazione delle risorse e dei paesaggi “intatti”, non ancora irrimediabilmente devastati o mutilati dalle trasformazioni antropiche, in quanto cespite irriproducibile per un autentico sviluppo durevole;

- il riconoscimento del ruolo centrale che l’eredità naturale e culturale è chiamata a svolgere nell’organizzazione complessiva del territorio, connotandolo nell’insieme come uno straordinario “paesaggio culturale”;

- l’orientamento a perseguire nuove forme di sviluppo turistico ed in particolare una nuova cultura dell’ospitalità, basata sulla rivalorizzazione dei valori paesaggistici riconosciuti, sottratta alle ipoteche dello sfruttamento immobiliare ed agli effetti devastanti della proliferazione delle seconde case e dei villaggi turistici isolati.

3. Il piano paesaggistico regionale

Il PPR è appunto lo strumento centrale del governo pubblico del territorio. Esso si propone di tutelare il paesaggio, con la duplice finalità di conservarne gli elementi di qualità e di testimonianza mettendone in evidenza il valore sostanziale (valore d’uso, non valore di scambio), e di promuovere il suo miglioramento attraverso restauri, ricostruzioni, riorganizzazioni, ristrutturazioni anche profonde là dove appare degradato e compromesso. Il Piano è perciò la matrice di un’opera di respiro ampio e di lunga durata, nella quale conservazione e trasformazione si saldano in un unico progetto, essendo volta la prima a mantenere riconoscibili ed evidenti gli elementi significativi che connotano ogni singolo bene, e la seconda a proseguire l’azione di costruzione del paesaggio, che il tempo ha compiuto, in modo coerente con le regole scritte e non scritte che hanno presieduto alla sua formazione.

Il PPR è quindi, da una parte, il catalogo progressivamente aggiornato - tramite il sistema informativo territoriale - delle risorse del territorio sardo e del suo paesaggio e delle regole necessarie per la sua tutela e, dall’altra parte, il centro di promozione e di coordinamento delle azioni che, a tutti i livelli, gli operatori pubblici pongono in essere per trasformare la tutela da insieme di regole a concreta gestione del territorio, finalizzata allo sviluppo duraturo e sostenibile dell’intera Sardegna.

Particolare rilevanza devono assumere tra queste azioni quelle svolte dai soggetti seguenti:

- dagli enti locali nella definizione della pianificazione urbanistica dei territori di loro competenza amministrativa, anche attraverso le collaborazioni inter-istituzionali che il Piano propone;

- dalle articolazioni settoriali e funzionali dell’amministrazione regionale aventi come compito specifico la gestione degli interventi di promozione finanziaria, le politiche patrimoniali, la valutazione ambientale;

- dagli enti di rilevanza nazionale, regionale e locale cui è affidata la missione specifica di tutelare e gestire singole parti del patrimonio paesaggistico ed ambientale della regione (foreste, demani, aree protette ecc.).

La prima fase della formazione del PPR consiste nell’approvazione preliminare, da parte della Giunta Regionale, di una serie di documenti i quali, pur essendo riferiti all’insieme del territorio, disciplinano con particolare attenzione e compiutezza i beni e i paesaggi interessanti la fascia costiera, ossia l’insieme dei territori i quali (per la loro origine e conformazione, per le caratteristiche dei beni in essi presenti, per i processi storici che ne hanno caratterizzato l’attuale assetto) hanno un rapporto privilegiato con il mare.

Essa deve essere considerata la prima fase di un lavoro che si svilupperà nel futuro sotto molteplici punti di vista e per varie ragioni:

- perchè è oggetto di una discussione nella quale la società regionale, in particolare quella rappresentata dai soggetti indicati al punto precedente, si esprimerà proponendo integrazioni, correzioni e approfondimenti dei quali terranno conto la Giunta e il Consiglio regionali al momento dell’approvazione del piano;

- perchè molte delle direttive e degli indirizzi espressi nei documenti di piano dovranno essere verificati, specificati e articolati nella pianificazione provinciale e comunale, nel quadro di quella “assidua ricognizione” dei valori paesaggistici e ambientali cui la Corte costituzionale si è più volte riferita;

E con lo stesso metodo e il medesimo impianto filosofico, anche per le parti del territorio regionale aventi minore attinenza con il mare si raggiungerà lo stesso analitico livello di approfondimento.

LA FORMA DEL PIANO

4. Un piano per la tutela-valorizzazione del paesaggio

Tra le due modalità consentite dalla legislazione nazionale (“piano paesaggistico” oppure “piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”) si è scelta la prima. Ciò significa che si è avuta fin dall’inizio la consapevolezza che il piano non si propone di definire tutti gli aspetti della disciplina e del funzionamento del territorio, ma ne costruisce i presupposti con l’individuazione delle regole e delle azioni necessarie per consentire che le trasformazioni del territorio, che saranno definite dalla successione delle varie fasi della pianificazione (comunale, provinciale, regionale) della pianificazione siano funzionali alla tutela delle caratteristiche qualitative proprie della configurazione del territorio.

Dove per tutela e valorizzazione non si intende l’antinomia (e la ricerca del difficile equilibrio) tra il vincolo paralizzante e la trasformazione in merce delle qualità presenti nel territorio, ma la ricerca della piena messa in valore di un tipo particolare di beni pubblici: quelli costituiti dalla forma che al territorio ha impresso la plurimillenaria storia del rapporto tra uomo e natura. Una messa in valore la cui condizione preliminare è data dall’individuazione del bene e delle sue caratteristiche proprie (come elemento singolo e come relazione tra elementi diversi). I passi successivi consistono nella conservazione, il restauro, la ricostituzione e, infine, la costruzione di qualità e identità nuove là dove quelle della storia sono state annullate dall’azione dell’uomo o degli eventi. Ed è questo accoppiamento tra tutela e messa in valore che consente di passare da logiche puramente difensive e reattive centrate sui vincoli a logiche attive di promozione e di valorizzazione territoriale centrate sul Piano, dando significato concreto ai principi della autentica sostenibilità.

La tutela-valorizzazione dei beni paesaggistici pone una duplice serie di esigenze per quanto riguarda la loro definizione.

Da un lato, è necessario individuare le categorie di beni che è necessario sottoporre a tutela, a partire dalle categorie definite dalla legislazione vigente ma articolandole e arricchendole sulla base dello specifico contesto territoriale e culturale. Si tratta di partire da quanto disposto dalle leggi nazionali (dalla L. 431/1985 al DLeg 42/2004), costruendo un ulteriore tassello – regionale - di quella “riconsiderazione assidua” del territorio “alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale” che la Corte costituzionale ha ritenuto necessaria.

In proposito, il Codice attribuisce al piano paesaggistico un compito estremamente importante ai fini dell’operatività e dell’efficacia delle misure di protezione, sia dei beni già considerati dalla legislazione precedente (L 1497/1939 e L. 431/1985) sia di quelli ulteriormente ritenuti meritevoli di tutela nel piano stesso.

Dall’altro è indispensabile tener conto che il paesaggio non è costituito dalla mera giustapposizione di elementi di particolare rilievo, ma anche dall’integrazione che si è determinata tra gli stessi elementi e il contesto territoriale intorno: quella integrazione che ha condotto storicamente alla costituzione di specifiche individualità territoriali. In altri termini definite come “unità di paesaggio” o - per adoperare le parole del PPR, mutuate dalle denominazioni del Codice del paesaggio (art. 135) - ambiti di paesaggio. Non va dimenticato che il passaggio dalla considerazione in chiave vincolistica dei singoli “beni paesaggistici” alla considerazione dei “paesaggi” che tutto il territorio articolatamente esprime (ossia, come si è spesso detto, la “territorializzazione” delle politiche del paesaggio) rappresenta l’innovazione più importante sancita dalla Convenzione Europea del Paesaggio che verrà adottata anche nel nostro Paese.

5. L’impianto normativo

L’impianto normativo del PPR è costruito in adeguamento alla legislazione sovraordinata, con particolare attenzione all’evoluzione legislativa che ha condotto dalla legge 431/1985 al Codice 42/2004, alla giurisprudenza costituzionale che si è susseguita in materia a partire dalle sentenze 55 e 56 del 1968, nonché alla Convenzione europea del paesaggio, al Protocollo MAP- UNEP per la gestione integrata delle zone costiere. Esso è accompagnato da un testo legislativo che propone modifiche alla vigente legislazione regionale in materia, modifiche funzionali al ruolo che si intende attribuire al PPR. Esso, in risposta alla duplice esigenza sopra ricordata, si basa nella sostanza sulla complementarietà di due strati normativi (o insiemi di precetti), che si distinguono non tanto per la scala o il grado di specificazione, ma per la loro funzione diversamente “regolatrice” della pianificazione:

A) Il primo strato normativo è riferito sia ai singoli oggetti o elementi territoriali per i quali è necessaria e possibile la tutela ex articoli 142 e 143 del DLeg 42/2004 (benipaesaggistici appartenenti a determinate categorie a cui è possibile ricondurre i singoli elementi con criteri oggettivi, in jure “vincoli ricognitivi”), sia alle componenti ambientali-territoriali che, pur non essendo dei beni (anzi magari essendo dei “mali”, come ad es. i siti inquinati o le aree di degrado) devono essere tenute sotto controllo per evitare danni al paesaggio o per favorirne la riqualificazione. E’ importante notare che, ai sensi del Codice, questo primo insieme di norme implica un esplicito riconoscimento di quegli oggetti di disciplina da considerare come “beni paesaggistici”, al fine di assicurarne la “puntuale individuazione” ai sensi dell’art.143 e di differenziarli dalle altre componenti (pur dotate di valenza paesistica, come gran parte dei beni culturali che il Piano intende valorizzare) non solo sotto il profilo procedurale (l’obbligo di specifica autorizzazione paesaggistica per gli interventi che li concernono) ma anche sotto il profilo sostanziale, in relazione al ruolo che essi svolgono nel determinare la qualità complessiva dei contesti in cui ricadono. Ciò implica anche che l’individuazione dei beni paesaggistici, pur prendendo le mosse dalle categorie già definite a livello nazionale (come le categorie dell’art. 142), può e deve fondarsi su quelle maggiori specificazioni che fanno riferimento alle concrete realtà regionali (ad es. distinguendo zone umide, apparati dunali, falesie ecc.); specificazioni che a loro volta possono comportare approfondimenti conoscitivi da sviluppare nelle fasi successive della pianificazione paesistica, come si dirà più avanti.

B) Il secondo strato normativo è riferito ad ambiti territoriali – ambiti di paesaggio ai sensi dell’art. 135 del Codice - per la definizione dei quali i caratteri paesaggistici ed ecologici sono determinanti, e che saranno la sede per definire indirizzi, direttive e prescrizioni anche di tipo urbanistico, da rendere operativi mediante successivi momenti di pianificazione; in particolare per precisare la definizione degli obiettivi di qualità paesistica (che sebbene non più esplicitamente menzionati dall’ultima versione del Codice rappresentano uno dei passaggi chiave previsti dalla Convenzione Europea), gli indirizzi di tutela e le indicazioni di carattere “relazionale” volte a preservare o ricreare gli specifici sistemi di relazioni tra le diverse componenti compresenti. E’ importante notare che la disciplina degli ambiti, ordinata alla tutela e al miglioramento della qualità del paesaggio, è anche la sede nella quale cercare, come prevede la Convenzione Europea all’art. 5d, di “integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere un’incidenza diretta o indiretta sul paesaggio”.

6. La fascia costiera.

Tra tutte le categorie di beni meritevoli di tutela è presente, nella letteratura e nella giurisprudenza italiane ed internazionale quella particolare categoria costituita dalle coste marine. Già individuata secondo criteri meramente geometrici e transitori dalla legge 431/1985, poi ripresa identicamente dal DLeg 42/2004, variamente articolata dalle regioni nella pianificazione paesaggistica dell’ultimo ventennio, applicata di nuovo secondo criteri meramente geometrici e transitori dalla legge regionale 8/2004, spetta evidentemente al PPR definirne l’esatta articolazione e conformazione territoriale.

Il Comitato scientifico e l’Ufficio del piano hanno ritenuto che, nel contesto specifico della Sardegna, la caratteristica di bene degno di tutela diretta meritasse di essere attribuita non solo alla sommatoria delle sue componenti, ma al territorio costiero nel suo complesso. È insomma l’insieme della costa della Sardegna, costituito dall’integrazione degli elementi naturali, storici, culturali, caratterizzato dal rapporto stretto tra la terra e il mare (un rapporto nel quale l’azione della natura e quella della storia hanno concorso a formare un paesaggio caratterizzato da una spiccata individualità), la cui percezione, e quindi la cui tutela, non sono segmentabili nelle sue singole parti, ma deve essere considerata e governata unitariamente. La fascia costiera, pur essendo composta da elementi appartenenti a diverse specifiche categorie di beni (le spiagge, le dune, le falesie, le piccole isole e gli scogli, gli stagni, i promontori ecc.) costituisce nel suo insieme una risorsa paesaggistica di eccezionale valore: non solo per il pregio delle sue singole parti, ma per la superiore qualità che la loro armonica composizione determina.

É anche grazie al suo staordinario valore - e alla scarsa capacità di governo delle risorse territoriali dimostrata nei decenni trascorsi dall’amministrazione pubblica - che questo incomparabile bene è oggetto di pericolose dinamiche di distruzione. E’ qui che si è esercitata con maggior violenza nei decenni trascorsi, e minaccia di esercitarsi nei prossimi, la tendenza alla trasformazione di un patrimonio comune in un ammasso di proprietà suddivise, trasformate senza rispetto della cultura e della tradizione locali né dei segni impressi dalla storia, svendute come generiche merci ad utilizzatori di passaggio, sottratte infine all’uso comune e al godimento delle generazioni presenti e future.

Massima qualità d’insieme e massimo rischio: due circostanze che giustificano la particolare attenzione che si è posta per delimitare, secondo criteri definiti dalla scienza e collaudati dalla pratica, il bene paesaggistico d’insieme di rilevanza regionale costituito dai “territori costieri”, e per disciplinarne le trasformazioni sotto la diretta responsabilità regionale, in vista sia della protezione che della promozione delle azioni suscettibili di orientarne le trasformazioni nel senso di un ulteriore miglioramento della qualità e della fruibilità. In effetti la fascia costiera non è soltanto la cornice essenziale del paesaggio sardo e una risorsa fondamentale della sua economia, ma è anche la struttura ecosistemica che ospita gran parte della sua diversità biologica, storico-culturale e insediativa. La sua specificità, indissociabile dalla sua continuità ed unitarietà, è costituita dalla interrelazione tra mare e terra che trova in essa la sua prima ed essenziale dimensione. Essa non può quindi essere artificiosamente suddivisa, se non per scopi amministrativi, ma deve mantenere il suo carattere unitario complessivo soprattutto ai fini del PPR e, pertanto, essere considerata come un bene paesaggistico d’insieme,di valenza ambientalestrategica ai fini della conservazione della biodiversità, della qualità paesistica e dello sviluppo sostenibile dell’intera regione.

Questa assunzione, al di là di ogni considerazione localistica, va vista in prospettiva mediterranea, dove trova pieno riscontro nel Protocollo UNEP per la Gestione Integrata delle Zone Costiere (protocollo attualmente in corso di definizione nell’ambito del Mediterranean Action Plan della Convenzione di Barcellona). Ed è precisamente l’esigenza di gestione integrata che caratterizza specificamente la fascia costiera, mettendo in gioco non soltanto le complesse interazioni ecosistemiche tra terra e mare, ma anche le interferenze e i potenziali conflitti tra le dinamiche naturali e le attività economiche e sociali (dalle pratiche tradizionali della pesca alle varie forme di utilizzazione produttiva, turistica e ricreativa) che proprio sulla costa presentano particolari addensamenti. Interferenze e conflitti che, a loro volta, richiedono da un lato la diretta responsabilizzazione delle autorità regionali di governo e la concertazione inter-istituzionale, dall’altra e congiuntamente il coinvolgimento delle popolazioni, delle istituzioni e degli operatori locali, in vista di forme condivise di sviluppo sostenibile, come afferma il Protocollo citato (art.5).

E’ in questa duplice direzione che il PPR prevede il ricorso, per fronteggiare efficacemente i problemi della fascia costiera e promuoverne un’utilizzazione realmente sostenibile, alla formazione di Piani di riassetto territoriale – che possono prendere la forma di Piani di Gestione Integrata, PGI, in accordo, ripetiamo, con il protocollo UNEP - riguardanti, per stralci coordinati, l’intera fascia.

Piani volti a coordinare, nello stesso tempo, la pianificazione urbanistica locale, la gestione delle risorse naturali-culturali ed i programmi d’investimento, anche in funzione del Piano Regionale dello Sviluppo Turistico Sostenibile.

Piani che forniscano indicazioni – sulla base di valutazioni ambientali strategiche – circa il dimensionamento dell’apparato ricettivo e le opportunità di rilocalizzazione degli insediamenti incompatibili, l’organizzazione della mobilità e dell’accessibilità, gli standard da rispettare, i criteri di gestione dei servizi, delle attrezzature e del “capitale territoriale”, la prevenzione dei rischi e dell’inquinamento, il monitoraggio delle aree e delle risorse di particolare interesse o sensibilità, l’acquisizione delle aree più interessanti alla Conservatoria del Litorale.

E’ evidente che la formazione di tali PGI pone problemi delicati dal punto di vista del rapporto tra i diversi poteri pubblici. Ma quest’ordine di problemi può essere affrontato efficacemente riferimendosi a tre principi costituzionali: la sussidiarietà, la differenziazione e l’adeguatezza, come si dirà più avanti.

7. Tre letture, tre assetti

Il paesaggio, come si è detto, è certamente il risultato della composizione di più aspetti. E’ anzi proprio dalla sintesi tra elementi naturali e lasciti dell’azione dell’uomo che nascono le sue qualità. E’ quindi solo a fini strumentali che, nella pratica pianificatoria, si fa riferimento a diversi “sistemi” (ambientale, storico-culturale, insediativo) la cui composizione determina l’assetto del territorio, e dei diversi “assetti” nei quali tali sistemi si concretano.

Anche la ricognizione effettuata come base delle scelte del PPR si è articolata secondo i tre assetti: ambientale, storico-culturale, insediativo. Tre letture del territorio, insomma, tre modi per giungere all’individuazione degli elementi che ne compongono l’identità. Tre settori di analisi finalizzati all’individuazione delle regole perchè di ogni parte del territorio siano tutelati ed evidenziati i valori (e i disvalori), sotto il profilo di ciò che la natura (assetto ambientale), la sedimentazione della storia e della cultura (assetto storico-culturale), l’organizzazione territoriale costruita dall’uomo (assetto insediativo) hanno conferito al processo di costruzione del paesaggio.

Ciascuno dei tre piani di lettura ha consentito di individuare un numero discreto di “categorie di beni a confine certo”, per adoperare i termini della Corte costituzionale: cioè di componenti del paesaggio cui il PPR attribuisce una specifica disciplina, articolata per categorie e sotto-categorie. E di individuare, tra tali componenti, quelle da considerare a tutti gli effetti “beni paesaggistici”, cui applicare il disposto degli articoli 142 e 143 del Dleg 42/2004, innescando le precise procedure di tutela previste dal Codice. Dalla ricognizione e dall’individuazione delle caratteristiche dei beni nasce la definizione delle regole.

Sicché è dalle tre letture che sono nati i tre “Titoli” delle norme.

Ciascuno di essi detta le attenzioni che si devono porre perchè, in relazione ai beni o componenti appartenenti a ciascuna categoria e sotto-categoria, le caratteristiche positive del paesaggio vengano conservate, o ricostituite dove degradate, o trasformate dove irrimediabilmente perdute.

Non si può nascondere il rischio che l’articolazione normativa nei tre assetti produca una certa separatezza, portando a sottovalutare sia gli effetti sinergici derivanti dalla compresenza di risorse e qualità distintamente apprezzate sotto ciascuno dei tre profili di lettura, sia le interferenze o le conflittualità che possono prodursi.

Per quanto riguarda i primi basta pensare all’opportunità di valorizzare il fatto (certamente frequente nel paesaggio sardo) che un’area di grande pregio naturalistico ospiti anche beni culturali di grande interesse.

Per quanto riguarda le seconde, vale il caso delle aree insediative, le cui dinamiche espansive - nei limiti, ovviamente, voluti dal PPR – ricadono inevitabilmente seppur marginalmente nelle contigue aree seminaturali o agroforestali. Si tratta quindi di assicurare un corretto coordinamento tra le norme dei tre assetti che eviti entrambi i rischi evocati.

Inoltre, analoga esigenza di coordinamento si pone nei confronti delle norme per ambiti. E’ infatti negli ambiti di paesaggio che, a norma del Codice, le istanze di protezione si confrontano con le esigenze di mantenimento o innovazione sostenibile degli assetti economici e sociali, di organizzazione e di riqualificazione complessiva del territorio, e quindi anche con le attese e le intenzioni programmatiche degli enti locali.

Spetta alle politiche d’ambito (da condividere con gli Enti locali) comporre i conflitti e le interferenze che si manifestano nel territorio, rispettando i vincoli e le limitazioni che provengono dalle norme per componenti, articolate nei tre assetti.

Ma queste ultime non possono non tener conto delle dinamiche reali e delle ipotesi progettuali relative a ciascun ambito: sia nel senso di regolarne l’impatto sui beni e le componenti interessati, sia nel senso di stabilire efficaci salvaguardie valevoli in carenza di piani locali o settoriali adeguati agli indirizzi del PPR (come meglio vedremo più avanti), sia ancora nel senso di evitare inutili e controproducenti vincolismi.

8. Obiettivi di qualità e giudizi di valore

Il PPR tende a presidiare, nelle forme più efficaci, uno straordinario patrimonio di valori. Non solo le misure specificamente poste a tutela dei singoli beni paesaggistici, ma ancor più le “previsioni” per ogni ambito di paesaggio ordinate (come chiede l’art.135 del Codice) a mantenere i caratteri identitari, ad individuare linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibile, a recuperare le aree degradate, ad individuare interventi per lo sviluppo sostenibile, si fondano sul riconoscimento della “tipologia, rilevanza e integrità dei valori paesaggistici”. Riconoscimento operato con la possibile oggettività e con gli strumenti scientifici che le diverse discipline interessate mettono a disposizione. Tutto corrisponde alle indicazioni della Convenzione Europea ed a quanto richiesto dal Codice (almeno nella sua ultima versione del 2006, dopo le modifiche recentemente introdotte).

Il CS non può quindi nascondere le sue perplessità nei confronti di impostazioni che (seguendo più o meno la linea indicata dal DLeg 42/2004 prima delle recenti modifiche) attribuiscano al PPR il compito di definire una gerarchia di “livelli di valore”, individuando le modalità per la loro specifica attribuzione ai diversi ambiti o, peggio, alle diverse componenti territoriali. Le perplessità non riguardano ovviamente la possibilità-opportunità di esprimere giudizi di valore su singoli beni o singole parti del territorio (secondo una prassi largamente consolidata a livello internazionale nel campo della conservazione della natura), ma la pretesa di fondare solo o essenzialmente su tali giudizi le misure di disciplina. Attribuire “livelli di valore” scalarmente ordinati a beni caratterizzati in modo specifico secondo caratteristiche peculiari alla categoria di beni, o allo specifico bene, sembra operazione culturalmente discutibile. Non solo perché implica l’attribuzione di valutazioni soggettive, largamente discrezionali per molti aspetti, come tipicamente quelli estetici, a beni di cui invece l’analisi scientifica oggettiva ha consentito di definire i connotati caratterizzanti e le ragioni della tutela. Ma anche perché sul piano applicativo comporta una inopportuna iper-semplificazione delle indicazioni normative, che ignora le specificazioni introdotte con le norme “per componenti” di cui al paragrafo 5a, cancellando arbitrariamente le profonde diversificazioni che, anche all’interno della più piccola porzione di territorio, danno vita ai diversi paesaggi. Un sistema dunale, o la trama storica di un territorio, sono caratterizzati (e il loro valore è determinato) da ben individuati elementi fisici i quali costituiscono il valore del bene per la loro presenza e per le loro connessioni con gli altri elementi. Non ha molto senso distinguerli a seconda che siano più o meno “compromessi” o più o meno “importanti”.

Sembra comunque utile riprendere l’indicazione contenuta nella Convenzione Europea (art. 6D) e già in qualche misura recepita nel Codice (art 135, c.3), volta a richiedere la definizione di specifici obiettivi di qualità paesaggistica per ciascuno dei paesaggi, ossia degli ambiti di paesaggio, individuati. Dove la qualità va certamente intesa in senso globale, apprezzando adeguatamente la compresenza di valori dei diversi assetti e le loro relazioni fondative con le dinamiche strutturali economiche, sociali e culturali dei diversi contesti.

Si tratta infatti di un passaggio cruciale per integrare saldamente in ogni contesto territoriale le “previsioni e le prescrizioni” per la tutela-valorizzazione del patrimonio paesaggistico, collegando organicamente le analisi ricognitive con le scelte progettuali. Le Schede d’ambito del PPR; da definire col coinvolgimento delle Province e dei Comuni, dovranno perciò dare adeguato riscontro alla definizione di questi obiettivi.

Più problematica appare la possibilità di dare riscontro all’esplicita indicazione della Convenzione Europea concernente le attese, le percezioni e le attribuzioni di valore delle popolazioni interessate, di cui si deve “tener conto” nella valutazione dei paesaggi e quindi anche – “previa consultazione pubblica” – nella definizione degli obiettivi da perseguire. Si tratta di un’operazione intrinsecamente complessa, che sconta da un lato l’esigenza del massimo possibile coinvolgimento delle popolazioni (in tutte le loro articolazioni sociali e culturali) nella difesa del loro patrimonio identitario, dall’altro il ruolo imprescindibile dei “mediatori culturali” nella formazione dei giudizi di valore e la responsabilità primaria della Regione nella tutela-valorizzazione dell’eredità collettiva della comunità regionale.

Non va sottovalutato il ruolo che lo stesso PPR svolge in quanto forma creativa dell’immaginazione sociale, strumento di sensibilizzazione, educazione e apprendimento collettivo E’ comunque necessario, seguendo la Convenzione, “avviare procedure di partecipazione del pubblico e delle autorità locali”, con la consapevolezza che non esistono politiche efficaci del paesaggio che possano prescindere dalla sensibilizzazione e dalla mobilitazione dei soggetti direttamente coinvolti nelle pratiche di gestione, di manutenzione e di continua rielaborazione del paesaggio. Questa necessità dovrebbe essere tenuta in conto anche per quanto concerne le forme di comunicazione del PPR e dei suoi elaborati costitutivi.

RESPONSABILITÀ, COMPETENZE, RUOLI DEGLI ATTORI PUBBLICI

9. Collaborazione inter-istituzionale e co-pianificazione

L’obiettivo della tutela e valorizzazione del territorio non è raggiungibile mediante un singolo atto e un singolo attore: lo è soltanto come risultato di un processo nel quale lo strumento della pianificazione paesaggistica e la responsabilità istituzionale della Regione (quindi il Piano paesaggistico regionale) costituiscono solo il momento iniziale. È necessario il lavoro concorde di una pluralità di soggetti istituzionali, i cui ruoli, competenze, responsabilità devono confluire in una serie di azioni protratte nel tempo. Il PPR deve prolungarsi e aumentare la sua efficacia nella pianificazione provinciale e comunale, nella quale le scelte di livello regionale devono trovare la loro specificazione e verifica, quelle relative al paesaggio devono trovare la loro integrazione con quelle relative alle altre esigenze e agli altri settori. La responsabilità della Regione deve saldarsi con quelle della Provincia e del Comune, promuovendo un’azione coordinata di tutti i livelli di rappresentanza dei cittadini.

Non a caso la “cooperazione tra amministrazioni pubbliche” è posta dal DLeg 32/2004 al secondo posto delle “disposizioni generali”, subito dopo la “salvaguardia dei valori del paesaggio”. Le procedure della co-pianificazione, cioè della formazione degli atti di pianificazione mediante il contributo di tutti gli enti pubblici territoriali, sono perciò strumento essenziale nell’azione di governo del territorio. La Regione è fin d’ora impegnata a condurre il processo di pianificazione, in coerenza con l’idea di paesaggio formulata dalla Convenzione Europea del Paesaggio, che non considera i diretti interessati (amministrazioni e comunità locali, con le loro tradizioni di percezione ed azione sul paesaggio) come meri destinatari di regole e di sollecitazioni. La co-pianificazione è anche ascolto attento di ciò che sente e muove la gente che pensa il proprio paesaggio.

10. Responsabilità e sussidiarietà

Tuttavia, la cooperazione tra soggetti che siano espressione di interessi diversificati deve avvenire nella chiarezza delle rispettive responsabilità. E’ necessario che ciascuno porti il proprio contributo, che ciascuno ascolti con attenzione le ragioni degli altri e ne valuti le proposte, che si compia il massimo sforzo per raggiungere su ciascun punto l’intesa. Ma non è detto che ciò sia sempre possibile. Ciò che è accaduto sul territorio delle coste della Sardegna testimonia che gli interessi, le esigenze ritenute prioritarie, e quindi le soluzioni, possono essere contrastanti, in aperto conflitto tra loro. È necessario perciò – se non si vuole che la cooperazione si rovesci in paralisi – che si sappia, su ciascun argomento, a chi spetti la decisione finale in caso di mancato raggiungimento dell’accordo. Ciò in particolare per quanto riguarda la responsabilità dei diversi enti pubblici territoriali elettivi di primo grado.

Nella Costituzione della Repubblica si possono individuare due direzioni nel rapporto tra i diversi enti pubblici territoriali elettivi di primo grado (Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune) in materia di funzioni legislative e amministrative. Per un determinato e limitato numero di argomenti la direzione è dall’alto verso il basso. Per tutti gli altri, la direzione è dal basso verso l’alto.

Il paesaggio è stato collocato fin dal 1948, ed è rimasto anche dopo le modifiche, tra gli argomenti del primo tipo: quelli per i quali vi è una competenza legislativa esclusiva dello Stato. Questa esclusività è stata temperata recentemente distinguendo, a proposito di Beni culturali (tra cui il paesaggio), l’idea di “tutela” e “valorizzazione”.

Del termine “valorizzazione” si possano dare interpretazioni differenti (a seconda che prevalga, nella considerazione del paesaggio, l’aspetto “bene” o l’aspetto “merce”), m resta certo che la responsabilità del paesaggio, e della sua tutela e valorizzazione, rimane nelle mani del binomio Stato-Regione.

Tuttavia la responsabilità della Regione in materia, benché primaria, non è certo esclusiva. Si è già osservato che la tutela del paesaggio esige, come la stessa Corte Costituzionale ha più volte rilevato, un’assidua riconsiderazione dei valori del paesaggio a tutti i livelli e le scale: avviata a livello statale e regionale, deve proseguire nell’attività di governo del territorio delle province e dei comuni. In che modo distinguere allora le responsabilità della “decisione ultima”, cioè là dove non si raggiunge l’unanimità del consenso?

La Costituzione ha recentemente introdotto, per quanto riguarda i criteri di ripartizione delle funzioni amministrative, i già citati principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza. Questi suggeriscono di trasferire dal basso all’alto le responsabilità connesse alle funzioni amministrative laddove i livelli inferiori non siano in grado di garantire la necessaria “unitarietà” alle determinazioni.

Giova a chiarire la questione la definizione originaria del principio di sussidiarietà. Questo, come è noto, fu elaborato per decidere sulla ripartizione delle responsabilità tra governi nazionali e istituzioni europee, e fu introdotto per la prima volta nella normativa europea a Maastricht il 7 febbraio 1992. Il principio di sussidiarietà significa, nella sostanza, che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo territorialmente sovraordinato (l’Unione europea nei confronti degli Stati nazionali o, nel nostro contesto, lo Stato nei confronti della Regione, la Regione nei confronti della Provincia e così via) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.

11. Carattere processuale della co-pianificazione

La prospettiva della co-pianificazione conferisce al PPR un carattere inevitabilmente processuale e interattivo: soggetti e centri di decisione diversi sono coinvolti in un processo che non è in alcun modo riducibile ad un singolo atto amministrativo, essendo costituito da un insieme aperto e complesso di atti che si condizionano a vicenda. Il lavoro finora svolto ha già prodotto un primo risultato di grande portata, conducendo a sintesi in un tempo ridottissimo una mole imponente di conoscenze e dando loro un significato rilevante e sostanzialmente coerente. Questo ne fa un riferimento imprescindibile per tutte le elaborazioni successive sui paesaggi regionali, in qualunque contesto vengano condotte. E’ una visione di livello regionale, integrata puntualmente da conoscenze e determinazioni locali. Il confronto con le visioni locali – quali quelle che, tipicamente, trovano espressione nella pianificazione urbanistica comunale – è quindi di cruciale importanza. E’ infatti evidente che le previsioni e le prescrizioni del PPR, per la loro stessa natura, sono destinate ad esercitare un impatto rilevante sulla pianificazione locale, sollecitando una profonda (e politicamente costosa) ristrutturazione dei PUC. Tale impatto non appare mitigabile mediante una semplice divisione di competenze che lasci ai Comuni ogni responsabilità sulle aree urbanizzate e riservi al PPR e ai piani provinciali ogni determinazione relativa alle aree extraurbane. Se da un lato è vero che lo stesso Codice esclude dalle “aree tutelate per legge” (art. 142) le zone A e B degli strumenti urbanistici (vale a dire quelle d’interesse storico-ambientale e quelle compromesse, oltre a quelle ricomprese nei Piani pluriennali d’attuazione e a quelle ricadenti nei “centri edificati perimetrati” per i Comuni sprovvisti di tali strumenti), è altrettanto vero che il PPR non può disinteressarsi del controllo delle trasformazioni del sistema insediativo, proprio per la sua peculiare integrazione col paesaggio rurale e naturale. Va d’altronde in questa direzione l’obbligo previsto dal Codice all’art. 135,c. 3b, di provvedere col Piano paesaggistico all’”individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibili”: obbligo peraltro già riscontrato nelle Norme per l’assetto storico-culturale e per quello insediativo.

Il problema, pertanto, non sembra tanto quello di “quali aree considerare” ai diversi livelli del processo di pianificazione, quanto piuttosto quello di “come” controllarne le trasformazioni. Questo solleva due questioni delicate:

A) L’apparato normativo del PPR va pensato per “dialogare” con gli altri strumenti di pianificazione, il che implica che, da un lato, esso deve esprimere “indirizzi” e direttive tali da responsabilizzare i soggetti istituzionali cui spetta di tradurle in disposizioni operative, limitando le prescrizioni direttamente cogenti e prevalenti ai casi in cui spetti alla Regione presidiare risorse e valori indiscutibili, non adeguatamente tutelabili dagli altri soggetti istituzionali; e, dall’altro, che le specificazioni e gli approfondimenti operati dagli enti locali e dalle autorità di settore devono potersi ripercuotere sulle determinazioni del PPR. Vanno in questa direzione le norme che prevedono la progressiva precisazione delle delimitazioni cartografiche di certe categorie di beni o componenti (mediante opportuni meccanismi “auto-correttivi” che tengano anche conto dell’avanzamento continuo del fronte delle conoscenze), o le norme che tendono ad un progressivo arricchimento delle indicazioni contenute nelle Schede degli ambiti, mediante il coinvolgimento degli enti locali.

B) Le scelte del piano (ferme restando le prescrizioni poste a tutela di valori intangibili, come sopra detto) devono dare spazio alla valutazione preventiva, esplicita ed integrata degli interessi, dei conflitti da risolvere e delle alternative d’azione operabili in concreto. Da questo punto di vista, non solo si ravvisa la necessità di una più organica formulazione delle norme circa le valutazioni d’impatto dei singoli interventi (con una più chiara e precisa definizione delle soglie quali-quantitative degli interventi soggetti a tali procedure); ma si rende anche necessario impostare un processo di progressiva definizione delle strategie d’azione (in particolare nelle Schede d’ambito), fondato sulla valutazione strategica delle alternative e sul monitoraggio delle situazioni critiche (quali ad es. i carichi di fruizione sulle parti più sensibili della fascia costiera), mediante l’individuazione di apposite procedure e degli indicatori utilizzabili. Ciò anche in conformità alla la direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente: direttiva – è presumibile – che verrà recepita anche dal nostro Parlamento.

I documenti fondamentali del piano sono disponibili qui

Disappunto. Delusione. E la consapevolezza che - come dice il presidente di Legambiente Sardegna, Vincenzo Tiana, «bisogna contribuire a preservare il territorio sardo, magari anche attraverso un regime di tassazione. Se questo non può avvenire attraverso la tassa sul lusso, che si trovi un'altra soluzione». La notizia dell'impugnazione da parte del Governo del pacchetto fiscale della Giunta Soru ha lasciato interdetti numerosi personaggi di spicco della società sarda: politici, ambientalisti e intellettuali. Accomunati da una certa perplessità nei confronti della decisione dell'esecutivo.

Anche se, a dire il vero, qualcuno se l'aspettava: Enzo Cugusi, consigliere comunale a Torino e dirigente del circolo sardo “Kinthales”, dice che «la presa di posizione del Governo era prevedibile. L'esecutivo ha in programma la riduzione di alcune tasse, a partire dall'Ici, ed era ovvio che facesse calare la sua scure, innanzitutto, su una supertassa. Un'imposta che si aggiungerebbe all'Ici. Vorrei ricordare che, ad Alghero, chi possiede una seconda casa paga l'Ici al 7,2 per mille, corrispondente al tetto massimo previsto dalla legge. Ora, si sente forse la necessità di rincarare la dose con una nuova imposta?».

Tuttavia, Cugusi ricorda che le imposte sul turismo, che colpiscono i non residenti proprietari di yacht superiori ai 14 metri o di una casa in fascia costiera, «sono delle cosiddette “tasse di scopo”: ossia dovrebbero servire per riassestare gli equilibri delle zone interne dell'Isola, aiutando i piccoli comuni a rianimarsi e a combattere piaghe come la dispersione sociale o lo spopolamento. Pertanto, la Regione potrebbe anche spuntarla nella querelle con lo Stato. Del resto, le tasse a scopo rappresentano una realtà consolidata in molti Paesi europei».

Il presidente Soru, nel commentare lo stop intimato dal Consiglio dei ministri, ha rivendicato l'autonomia impositiva di una Regione a Statuto speciale come la Sardegna: «Ma il punto di partenza deve essere un assunto incontrovertibile: le tasse le devono pagare tutti», commenta Cugusi, ricordando che «nei Comuni costieri i residenti spesso non sanno nemmeno cosa siano i tributi comunali. Per non parlare degli affitti in nero delle seconde case, ormai diventati un'abitudine. Se la smettessimo, in Sardegna, di ricorrere a questa pratica e, soprattutto, se tutti ci mettessimo in testa di pagare le tasse, non ci sarebbe bisogno di un'imposta sul lusso per ovviare all'indisciplina e alla mancanza di senso civico dei cittadini».

Stefano Deliperi, presidente dell'associazione ecologista “Gruppo di intervento giuridico”, fa notare che «non c'è nulla di strano nelle leggi promosse dalla Giunta Soru e bocciate ieri dal Governo. Si tratta di norme applicate normalmente, ad esempio, in Corsica. E poi occorre far chiarezza sul termine “tassa sul lusso”: personalmente, penserei a una forma di contribuzione legata all'erogazione di servizi e alla necessità di tutelare la natura e il paesaggio isolano. In poche parole, i non residenti che approdano in Sardegna dovrebbero pagare una quota minima, di 2 o 3 euro, come accade in altre parti del mondo».

Anche Deliperi si sofferma sul problema degli affitti in nero: «Questo è un campo che richiede un intervento molto serio e ponderato», sospira, «perché non si può accettare che vi siano persone così furbe da usufruire del nostro territorio e dei suoi servizi senza versare un centesimo. C'è un vero e proprio lucro non tassato. Sono certo che, intervenendo con intelligenza ed equilibrio, si otterrebbe la comprensione e la piena collaborazione della gente. Che si dimostra sempre sensibile, quando stimolata, su queste problematiche».

Vincenzo Tiana ha le idee molto chiare: «Noi, come Legambiente, condividevamo lo spirito di fondo che animava le imposte istituite della Giunta Soru: il contribuire economicamente al mantenimento, alla manutenzione e alla salvaguardia del territorio. Certo, ora non possiamo addentrarci in tecnicismi nel tentativo di comprendere quali siano i presupposti di illegittimità ravvisati dal Governo nei testi delle norme. Ma quel che sappiamo di certo è che il turismo è, per definizione, “consumatore del territorio” e l'impatto del boom turistico di mezza estate sull'ecosistema isolano va attutito con i mezzi a nostra disposizione. Se non si interverrà con le tasse sul lusso, si dovrà trovare un'alternativa».

Per lo scrittore Giorgio Todde «le tasse sul turismo, così come sono state pensate dalla Giunta, hanno un fortissimo valore simbolico e direi perfino pedagogico. Inculcano l'idea di usare il territorio senza violentarlo. Pertanto, dal punto di vista educativo mi sembrano sacrosante e le sposo in pieno. Del resto, in questi due mesi estivi la Sardegna diventa qualcosa di simile a una prostituta. Sdentata, aggiungerei io. Viene trattata in modo vergognoso». Che dire, allora, del provvedimento adottato dal Governo? «Se davvero si riscontrano i crismi dell'incostituzionalità, da buon cittadino italiano non posso fare a meno di accettare il verdetto negativo», risponde Todde, «ma, pur non avendo le competenze per entrare nel merito della questione legale, ritorno sull'apprezzabile valore etico della tassa sul lusso».

La pensa allo stesso modo l'antropologo Giulio Angioni, che si lascia andare a «una disapprovazione di tipo plebeo-protestatario. Le tasse sul lusso sono legittime. Anzi, certi lussi non dovrebbero neppure esistere e, certamente, non dovrebbero essere esibiti, ostentati in terre sfruttate come la Sardegna. C'è chi vive in panciolle, in modo scandalosamente offensivo nei confronti della stragrande maggioranza della popolazione. Così, i ricchi fanno i turisti e i poveri muoiono di fame e di disoccupazione». Quindi Prodi ha fatto male? «Io dico a chiare lettere, anche se oggi affermarlo sembra essere passato di moda, che i ricchi fanno schifo», chiosa Angioni, «e, dunque, se ogni tanto anche loro pagano non credo che la società ne risentirà negativamente».

CAGLIARI, 24 MAGGIO 2006 - Il presidente della Regione ha firmato stasera il decreto con il quale è disposta la pubblicazione del Piano paesaggistico regionale, nel Bollettino ufficiale della Regione. Copia del Piano paesaggistico sarà trasmessa a tutti i comuni territorialmente interessati, perchè provvedano alla pubblicazione per la durata di quindici giorni nei rispettivi albi pretori. Renato Soru ha anche disposto la trasmissione del Piano paesaggistico alla commissione consiliare competente in materia di urbanistica, che ha tre mesi di tempo per esprimere un parere prima dell'approvazione definitiva del Piano.

Il Piano paesaggistico è però da oggi pienamente operativo. E' lo strumento che introduce un nuovo sistema della pianificazione territoriale, che colma le lacune poste dopo l'annullamento degli strumenti di programmazione urbanistica territoriale e un periodo di vuoto legislativo al quale la legge di tutela delle coste approvata dal Consiglio regionale nel 2004 aveva posto termine. Pone al centro della politica regionale l'enorme valore ambientale ed economico per adesso della fascia costiera della Sardegna, nelle parti rimaste intoccate o che non sono state comunque compromesse dall'edificazione.

L'attività edilizia non solo è possibile, ma viene incoraggiata negli agglomerati già esistenti, dove è permessa la riqualificazione urbana e architettonica, la trasformazione delle seconde case in attività turistico-alberghiere, la costruzione di servizi in funzione delle attività ricettive.

Lungo la fascia costiera è vietata anche qualsiasi costruzione in area agricola, a meno che non siano legate all'attività agro-zootecnica, nel caso di ricovero per attrezzi, o nel caso che la residenza in campagna sia strettamente necessaria alla conduzione dell'attività.

La fascia di 2 chilometri dal mare, che era nella legge Salvacoste, varia secondo il Piano paesaggistico in funzione della conformazione del paesaggio costiero, in alcuni casi è più profonda, in qualche caso meno profonda dei 2 chilometri.

Qui i materiali del Piano paesaggistico regionale

CAGLIARI, 28 MAGGIO 2007 - E' stata conferita oggi pomeriggio a Cagliari al presidente della Regione Renato Soru, da parte di un'Agenzia dell'Onu per la tutela dell'ambiente e la salvaguardia delle coste nel mediterraneo, la nomina di "Ambasciatore per la Costa". Il riconoscimento assegnato dal PAP/RAC - questo il nome dell'agenzia delle Nazioni Unite (Unep - United Nations Environment Programme), rappresentata dal suo direttore Ivica Trumbic - premia in particolar modo la legge regionale n. 8 del 2004, che ha posto il vincolo provvisorio di non edificabilità nella fascia costiera entro i due chilometri dal mare, e il Piano paesaggistico regionale adottato lo scorso anno. Con questa onorificenza l'Unep indica esplicitamente ad altre autorità regionali e nazionali la Sardegna come un esempio da imitare per la salvaguardia delle coste.

La Regione Sardegna ha aderito alla Campagna Internazionale per la protezione e la conservazione delle coste, organizzata insieme dall'UNEP, dall'Unione Europea, e dal progetto METAP della Banca Mondiale. A questo proposito il PAP/RAC ha deciso di rendere merito ai rappresentanti politici della Regione Sardegna e alla popolazione dell'isola per aver intrapreso una coraggiosa iniziativa per proteggere e salvaguardare lo spazio costiero attraverso la legge regionale n° 8 del 2004 prima ed il Piano Paesaggistico Regionale successivamente. La concezione che sta alla base della normativa sarda considera il suolo una ricchezza finita e il territorio costiero un bene prezioso dal punto di vista ambientale, paesaggistico e culturale. Il PAP/RAC auspica che l'esempio della Sardegna sia seguito da altre autorità regionali e nazionali in un Mediterraneo dall'equilibrio fragile e reso ancor più delicato dal progressivo snaturamento delle coste.

Le attività di sensibilizzazione dell'opinione pubblica verranno realizzate congiuntamente da tutti i Paesi del mediterraneo durante il "Coast Day", l'evento principale della Campagna previsto per il 24 Ottobre 2007.

Il PAP/RAC (Priority Actions Programme/Regional Acitvity Centre) lavora ormai da 30 anni per garantire uno sviluppo sostenibile delle aree costiere del mediterraneo, riconosciute da tutti come i territori a più alto valore ambientale ed economico nel quale devono essere concentrati i massimi sforzi di protezione.

Il PAP/RAC ha inoltre diffuso nei Paesi del mediterraneo l'ICZM, una metodologia di pianificazione e gestione delle aree costiere ormai integrata nella legislazione europea. In questo periodo il Protocollo Internazionale ICZM (Integrate Coastal Zone Management - Gestione Integrata delle Aree Costiere) - uno dei più importanti eventi per ciò che riguarda la legislazione ambientale a livello internazionale - è in via di approvazione da parte di tutti i 21 paesi del mediterraneo e dell'Unione europea.

La situazione delle coste mediterranee è ancora lontana dal potersi definire soddisfacente. Le aree edificate coprono ormai il 40% della costa e questo trend è destinato a crescere; si prevede che entro il 2025 il 50% delle coste del mediterraneo sarà edificato. Oltre al rischio di un processo irreversibile di perdita del territorio, vi è anche quello che un numero sempre crescente di specie che abitano questi ecosistemi sia destinata all'estinzione.

Queste perdite saranno permanenti, perché il territorio artificializzato non potrà mai più ritornare al suo stato naturale. I territori delle coste mediterranee appartengono profondamente alla vita delle popolazioni locali e alla loro identità sociale, culturale e storica.

Anche se ragionando in una logica di breve periodo potrebbe sembrare che limitare lo sviluppo edilizio porti dei danni all'economia turistica, in una logica di sviluppo sostenibile e di politica di medio-lungo periodo la conservazione del patrimonio costiero è il miglior investimento per il futuro delle popolazioni residenti nelle coste del mediterraneo.

Qui il sito della RAS con il servizio sul premio

OLBIA. Un detto cinese ultimamente è assai di moda: «Se il nemico non lo puoi battere - recita - accordati con esso». Settimo Nizzi un nemico (politico, è bene precisarlo) lo ha: Renato Soru. Il terreno di battaglia (o meglio: i terreni) è l’urbanistica. Non c’è atto del governatore - dal decreto alla legge “salvacoste” al piano paesaggistico - che il sindaco di Olbia non abbia cercato di far saltare per aria. Le ha provate tutte: dai ricorsi al Tar a quello, via Berlusconi quando era premier, alla Corte costituzionale. Tutti respinti. Alla fine, ha deciso di seguire la strada “politica”. Con un blitz, è andato a Cagliari e ha firmato con la Regione l’intesa per adeguare il Puc di Olbia, ora congelato, ai paletti del piano paesaggistico. «E sbrigatevi, vogliamo vederlo approvato subito» ha intimato.

Blitz pasquale. Quella di Nizzi è una decisione rimasta senza pubblicità ma che apre numerose strade (e altrettante interpretazioni). L’intesa con la Regione è stata sottoscritta nella settimana di Pasqua, quando i sentimenti, anche politici, sono sono di pace. Nizzi è andato a Cagliari, all’assessorato all’Urbanistica, con il capo dell’area tecnica Antonello Zanda. Ad attenderli, l’assessore regionale Gianvalerio Sanna e il direttore generale dell’assessorato Paola Cannas.

Non c’è stata né freddezza né imbarazzo, nonostante Nizzi e Sanna, dal 2004 a oggi, abbiano ingaggiato duelli verbali durissimi. Che cosa hanno messo nero su bianco i due, a nome del comune di Olbia e della Regione? E’ un protocollo d’intesa: Olbia, insieme ad altri 32 comuni dell’isola, sarà capofila della pianificazione a due per rendere efficaci ma non punitive, Comune per Comune, le norme (restrittive) del piano paesaggistico regionale. L’amministrazione di Nizzi era rimasta fuori dal primo gruppo, a dicembre del 2006. Il sindaco, prima di lasciare l’incarico, ha voluto recuperare il tempo perso. Ma che cosa cambia? Che cosa succederà ora? Ci sono due livelli di lettura: uno politico, l’altro amministrativo.

Livello politico. A Cagliari, c’è molta soddisfazione. Gianvalerio Sanna non commenta. Dal suo staff si lasciano andare: «Alla fine anche Nizzi ci ha ha dato ragione». Per Soru, una festa. Il suo maggiore avversario, sul fronte della politica urbanistica, era (e resterà, non c’è dubbio) proprio il sindaco di Olbia. Nizzi era uno dei protagonisti della raccolta di firme per chiedere un referendum abrogativo del piano paesaggistico. «E’ un piano dannoso, è un piano illegittimo» era la sua posizione. Ma quel referendum, ultima battaglia possibile, è stato cassato proprio un mese fa. Nel momento in cui Nizzi firma il protocollo d’intesa, è dunque evidente che legittima il piano paesaggistico. Una posizione cui non ha dato visibilità (evitando quindi anche un ritorno mediatico).

Livello amministrativo. Il piano è legge, dunque bisogna rispettarlo. E Olbia, come tutti gli altri Comuni, dovrà cambiare il proprio piano urbanistico, quel Puc approvato all’ultimo momento (nella sera del via libera alla legge “salvacoste”) e mai certificato dalla Regione. Un Puc di cui funzionano solo gli effetti negativi. I proprietari delle aree edificabili (ma solo sulla carta) potrebbero pagare un’Ici salatissima, per via del decreto Bersani. Di aree fabbricali, non ce n’è più: e i prezzi delle case sono stratosferici. Un Puc che andrà sostanzialmente rivisto soprattutto nelle volumetrie nella fascia costiera. Un milione di metri cubi che dovranno sparire ed essere distribuiti in altre aree. Un lavoro duro, ma il Comune, firmando l’intesa, ha ottenuto dalla Regione soldi e un funzionario per rivedere carte e cubature.

«Non perdiamo tempo - ha detto Nizzi a Sanna -. Il nostro Puc è bello pronto, servono solo degli accorgimenti. Voglio che la Regione si metta al lavoro subito per darci il Puc».

Tempi? Anche meno di un anno, prevedono a Cagliari.

Ex miniere, nessuno va alla gara

di Giampaolo Meloni

IGLESIAS. Masua resterà come è: «Un museo naturale, e ne sono ben felice», dice Renato Soru. Il destino di questo tassello della storia mineraria abbarbicata sul mare è segnato dall’esito del bando internazionale per il recupero e la valorizzazione turistica dei siti minerari dimessi del Sulcis Iglesiente e dell’area Ingurtosu: la gara, in scadenza a fine marzo dopo la proroga di un mese, è andata deserta, nessuna proposta è arrivata sul tavolo della Regione. Dunque la procedura è approdata a formale compimento. Ma il bando sarà riformulato, Masua esclusa.

Ci sarà però un aggiustamento nella struttura del bando “Luxi” (così era stato denominato), al quale la giunta pensa di poter cominciare a lavorare in tempi brevi. Il punto sul quale si corregge la rotta è nella prospettiva che l’esecutivo aveva previsto attraverso la modulazione del testo e che aveva innescato una sequenza di polemiche: «La nostra attenzione rimane intatta per i centri della fascia più interna che avevano mostrato interesse e auspicio per lo sviluppo turistico», ha osservato Soru. La parte del bando che riguarda Ingurtosu e le zone di Buggerru saranno tutte destinate a interventi di valorizzazione. La modifica sostanziale nella nuova formula della gara internazionale sarà nell’assegnazione dei siti: i “gioielli” del patrimonio minerario dismesso finiranno sul mercato non con la formula della vendita ma attraverso la “concessione”, come dire, in affitto per un periodo determinato.

La sostanza del bando cambia, ma l’indirizzo politico della giunta trova conferma come era stato in realtà già delineato. Proprio Soru e l’assessore dell’Urbanisitca Gianvalerio Sanna lo avevano dichiarato alla Nuova in una intervista congiunta a fine dello scorso giugno: «Lavoreremo per la concessione». Una strategia maturata anche per rispettare le osservazioni (in qualche caso anche polemiche forti) che sull’argomento avevano preso corpo da diversi ambienti, sia sindacali (con le manifestazioni della Cisl in piena estate), sia politiche (il centrodestra in consiglio regionale: vogliono svendere le aree minerarie) e alcune associazioni culturali.

«Dirotteremo gli investimenti previsti per Masua verso i centri abitati di Nebida e Buggerru, previo accordo con i rispettivi amministratori locali - ribadisce il presidente della Regione Renato Soru -. Per Ingurtosu verrà rifatto il bando tenendo conto della spinta e delle sollecitazioni arrivate negli ultimi mesi per evitare la vendita e a prevedere invece la formula della concessione dei siti».

Le tre società che avevano presentato una manifestazione di interesse per Masua e avevano anche visitato il sito minerario dismesso (Pirelli Real Estate, Immobiliare Lombarda e il fondo immobiliare Hines Italia, mentre una cordata sarda era rimasta esclusa fin dall’inizio per inghippi procedurali), non si sono presentate all’appuntamento fissato l’ultimo giorno di marzo, dopo la proroga di un mese che era stata chiesta dalle stesse società che avevano inizialmente mostrato interesse e quindi a fine febbraio chiesto di potere ancora pensare all’iniziativa. Ma al traguardo nessuno si è presentato.

Soru non accoglie il fatto con amarezza. Anzi, appare ben lieto di poter assecondare la sollecitazioni a non costruire sulla costa, anche in questo caso, perchè, spiega, «si tratta di una richiesta che proviene dalle sensibilità del territorio». E di quelle obiezioni si è tenuto conto: «Non abbiamo più lavorato al bando che oltre ad essere stato contestato da parte sindacale - ha chiarito Soru - ha avuto critiche per la mutata sensibilità ambientale. La consapevolezza della tutela della costa è cresciuta e non solo sono d’accordo, ma ne sono felice».

La gara interessava due compendi, quello dell’area di Masua e Monte Agruxau, su una superficie di circa 318 ettari, dove sarebbe stato consentito il recupero e la realizzazione della volumetria esistente sino al limite massimo di 120mila metri cubi per Masua e 40mila per Monte Agruxau, per un totale massimo di 160mila metri cubi. Il secondo riguardava Ingurtosu, Pitzinurri e Naracauli, per una superficie di circa 329 ettari. In questo sito sarebbe stato consentito il recupero e la realizzazione della volumetria esistente sino al limite massimo di 30mila metri cubi per Ingurtosu e 70mila per Pitzinurri e Naracauli, per un totale non superiore a 100.000 metri cubi. L’importo a base d’asta era di 32 milioni e 520mila euro per Masua e Monte Agruxau e di 11 milioni di euro per Ingurtosu, Pitzinurri e Naracauli.

Nelle procedure del bando internazionale si è innescato il contenzioso sulle bonifiche delle aree inquinate dall’industria mineraria: gli interventi sarebbero stati curati con il controllo regionale attraverso le società Igea e Ati-Ifras (dove operano i cinquecento ex minatori), o affidati agli acquirenti privati (con il conseguente prevedibile licenziamento dei lavoratori). La Regione aveva previsto nel bando sia la garanzia di interventi per i primi e sia il compito parziale di avrebbe acquistato. Ma sindacati e lavoratori non sin sono fidati troppo e hanno innescato una vertenza sofferta a tutela del proprio impiego.

Anche su questo fronte il presidente Soru nella tarda serata di ieri, con riferimento alle due società Igea e Ati-Ifras, ha voluto rassicurare le comunità locali: «Le bonifiche si faranno e saranno realizzate attraverso gli strumenti di cui disponiamo». Ma c’è di più. L’argomento non sarà liquidato facendo ricorso alle casse pubbliche, che pure dovranno intervenire, ma si aprirà probabilmente un confronto (se non anche un contenzioso) con chi ha la responsabilità dell’inquinamento, ovvero le società minerarie che hanno esercitato l’attività abbandonando poi i luoghi con il carico dei veleni. Tra queste primeggia l’Eni, che nel 1993 chiuse le miniere e fece le valige lasciando sul posto (in verità con molti consensi) le ferite dell’inquinamento senza nulla risarcire. Prospettiva che si potrebbe aprire in un futuro non troppo lontano.

Quel sogno non è svanito

di p.p.

IGLESIAS. Far sorgere fiorenti attività turistiche dove un tempo c’erano le miniere: che idea! Più che un progetto è stato un sogno coltivato per molto tempo. Sembrava una sorta di parabola evangelica: nei luoghi che furono un inferno di fatiche durissime sotto terra finalmente c’era la possibilità fare il salto. Quasi una redenzione. Dalle tenebre alla luce. Quella del sole e dell’aria aperta e mare pulito che può accogliere vacanzieri spensierati in quell’angolo di paradiso.

L’idea circolava già nel tempo in cui Mauro Pili era sindaco di Iglesias. Chiuse le miniere bisognava capire che cosa fare e come farlo. In sostanza bisognava trasformare quel sogno in progetto reale. Lo ha fatto l’amministrazione regionale guidata da Soru preparando le carte necessarie a far partire un bando d’asta internazionale.

Attenzione. Non un progetto per cementificare ma per impiegare al meglio il 60% delle volumetrie esistenti. E già solo la notizia (era l’aprile del 2006), dell’asta internazionale per il recupero e la valorizzazione dei beni minerari dismessi di Ingurtosu, Naracauli e Pitzinurri ha creato subito un clima di euforia tra gli amministratori comunali della zona. Ma anche qualche problema: il centro destra ha accusato Soru di svendere i pezzi migliori dell’isola ai suoi amici. I sindacati hanno posto il problema degli ex minatori: potevano, per esempio, essere loro a bonificare quei siti?

Le aree interessate dal bando nel territorio di Arbus appartengono al compendio ex minerario di Ingurtosu e hanno una vastità di 329 mila ettari, con una possibilità di intervento di recupero, ristrutturazione e adeguamento fino a un limite massimo di 100 mila metri cubi di volumetria, di cui trentamila a Ingurtosu e settantamila a Pitzinurri. Tutto quel bendiddio, spalmato su 47 chiloetri di costa di grande pregio ambientale, poteva finire al migliore offerente attraverso una gara che aveva base d’asta di undici milioni di euro.

La speranza di tutti era che a scendere in campo fossero nomi di prima grandezza della finanza e del turismo internazionale. A nessuno (Soru lo aveva dichiarato in maniera perentoria) interessava avere a che fare con mariuoli più o meno cammuffati. Quel bando poteva essere l’occasione per trasformare in paradiso un angolo di Sardegna sottoutilizzato sebbene apprezzato da un un crescente numero di ambientalisti e amanti delle aspre bellezze di quelle coste. E quel sogno non è ancora svanito.

p.p.

CAGLIARI. Zack. Il referendum per dire no al Ppr non si farà. Richesta bocciata per la seconda volta. Piange, la Cdl, furiosa contro i vincoli del piano urbanistico. «E’ inammissibile», decreta l’Ufficio regionale che deve valutare se è il caso di ricorrere alla consultazione popolare per cancellare una legge. Vanno in fumo 24.139 firme: tante ne aveva raccolte in un paio di settimane il centrodestra capitanato da Mauro Pili che proprio ieri sera - sentendo odore di bruciato - si è autoconsegnato al direttore del carcere di Buoncammino per protestare contro quello che lo stesso deputato definisce «il bavaglio dei sardi». Renato Soru non commenta, neanche sotto tortura, ma non è peregrino ipotizzare che ieri sera il governatore abbia brindato.

La ghigliottina sulla seconda richiesta di referendum sul Piano paesaggistico è stata azionata ieri pomeriggio, poco prima delle cinque.

Sotto la presidenza di Gian Luigi Ferrero, i componenti Vincenzo Amato, Silvio Ignazio Silvestri, Enrico Passeroni e Fulvio Dettori, con l’assistenza del segretario Carlo Sanna, l’Ufficio regionale ha ritenuto di non dover ammettere la richiesta di referendum abrogativo della delibera varata dalla giunta regionale il 5 settembre dell’anno passato, quella con cui è diventato operativo il Piano paesaggistico regionale.

Da che cosa è originata l’inammissibilità? La spiegazione è contenuta in una decina di pagine in cui si fa un diretto riferimento a un orientamento della giurisprudenza in materia di referendum. Senza usare termini giuridici, la sostanza del rifiuto è abbastanza semplice. Si parte dall’assunto che il Piano paesaggistico «è un atto particolarmente articolato, che contiene disposizioni eterogenee e in gran parte differenziate, senz’altro non riconducibili a un unico principio ispiratore».

Ebbene, secondo le argomentazioni dell’Ufficio regionale, «la richiesta di referendum non può essere ammessa in quanto essa si ricollega alla delibera della giunta nella sua totalità, fatta attraverso un quesito unitario nonostante la pluralità e non omogeneità della materia in discussione». E ancora: «Il cittadino si troverebbe nell’impossibilità di esprimere liberamente il suo voto su argomenti e disposizioni del tutto diversi». Insomma, i componenti dell’Ufficio sono convinti che non si possa - con un «sì» o con un «no» (queste sono le uniche opzioni) - valutare nel suo complesso una normativa così complessa e articolata come il Piano paesaggistico.

«Il quesito - si argomenta ancora da parte dell’Ufficio del referendum - non consente di differenziare la valutazione sull’abrogazione o la conservazione della disciplina sulla fascia costiera, sulle aree naturali, sulle aree agro-forestali, sul sistema dei parchi» e via elencando.

A corredo del parere negativo, l’Ufficio presieduto da Gian Luigi Ferrato infine precisa che «l’accertata inammissibilità della richiesta referendaria comporta che non si deve provvedere agli ulteriori adempimenti imposti dalla legge regionale nuero 20».

Quest’ultima, ha tutta l’aria di un’ulteriore mazzata nei confronti del centrodestra che, all’inizio del 2007, per impulso di Mauro Pili ma anche dell’intero gotha della Cdl sarda, aveva deciso di riorganizzare una raccolta di firme per abolire la legge sul Ppr, definito a più riprese uno strumento che «blocca lo sviluppo della Sardegna, e favorisce importanti speculazioni immobiliari». Pili e soci avevano comunciato a girare la Sardegna e in un paio di settimane avevano raccolto oltre 24mila firme. Il numero minimo era di diecimila, ma, dopo la bocciatura di una prima richiesta di referendum, la Cdl aveva pensato bene di prendersi il sicuro, anche in previsione di quanto poi avrebbe previsto la Statutaria che ha innalzato il tetto a 15mila firme. Lo scorso 6 febbraio, poi, una folta delegazione dei partiti d’opposizione aveva depositato nella cancelleria della Corte d’Appello di Cagliari 24 faldoni azzurri contenenti ognuno mille firme. Subito dopo, in una conferenza stampa, gli esponenti dell’opposizione non si erano risparmiati nel contestare in maniera ancora più feroce la politica urbanistica, caratterizzata da vincoli bloccasviluppo, della giunta.

Non è azzardato, dopo quest’altra bocciatura, prevedere che da oggi, convinta che il referendum avrebbe cassato il Ppr, si mobiliti un’altra volta. E magari segua l’esempio di Mauro Pili, autorinchiusosi a Buoncammino.

CAGLIARI. «La tutela del territorio non blocca le attività economiche e, anzi, garantisce sviluppo e occupazione». Lo ha detto il vice premier Francesco Rutelli nel firmare ieri, con Renato Soru, il protocollo d’intesa sul Piano paesaggistico. Nella sua qualità di ministro dei Beni culturali Rutelli ha assicurato «collaborazione con lealtà e amicizia». E come ministro del Turismo ha affermato che è la strada giusta «per allungare la stagione». Prima di inaugurare a Villanovaforru la mostra precolombiana, Rutelli ha anche «approvato» le scelte della Regione su Tuvixeddu.

Accompagnato dal deputato Paolo Fadda e perennemente circondato dai dirigenti e consiglieri regionali della Margherita, Rutelli è stato protagonista di cinque ore sarde particolarmente intense prima di rientrare nella capitale per l’incontro del governo Prodi con la Chiesa. Proprio in vista del delicatissimo appuntamento, il vicepremier, pur con cortesia, ha accuratamente evitato di rispondere alle domande dei giornalisti sulla situazione politica italiana: «Oggi, per fortuna, qui parliamo di cultura».

L’arrivo poco prima delle 10 nella presidenza della Regione, dove ad attenderlo c’erano Renato Soru e gli assessori Gian Valerio Sanna e Luisanna Depau. Dopo un breve incontro nell’ufficio del presidente, la cerimonia della firma si è svolta davanti a giornalisti e telecamere, in sala giunta. Il protocollo d’intesa ha diversi obiettivi: semplificare le procedure di cui sono responsabili gli uffici nazionali e quelli regionali (non più semplicemente delegati dallo Stato), prevedere forme di collaborazione attiva, programmare verifiche e aggiustamenti alle normative.

Il presidente Soru ha sottolineato «con orgoglio» che la Regione sarda «è la prima ad avere approvato il Piano paesaggistico e quindi la prima a firmare l’intesa». Rutelli non ha certo faticato a dargli atto di un lavoro «denso e importante che ha impresso una svolta nella tutela del paesaggio». E’ «una sfida straordinaria e coraggiosa», anche «per situazioni pregresse che hanno compromesso lunghi tratti di costa». A questo proposito, auspicando che la svolta avvenga anche nelle altre zone del Paese, Rutelli ha affermato che «in Italia si discute molto di opere pubbliche per la grande viabilità, mentre su quelle dovremmo essere più veloci per essere più cauti sulla cementificazione».

Che non riguarda solo le coste, come ha fatto notare lo stesso Soru citando il caso cagliaritano dei colli di Tuvixeddu e Tuvumannu. Rispondendo una domanda su dilemma tutela-lavoro a proposito del rischio licenziamenti per il blocco dei cantieri edili, Rutelli ha detto che «si possono trovare giuste soluzioni con espropri e compensazioni». E ha citato la storia dei «sassi» di Matera: «Quarant’anni fa erano il simbolo di un’arretratezza millenaria, tanto da essere scelti da Pier Paolo Pasolini come scenario fedele della Palestina di Gesù Cristo, oggi quelle case salvate e risanate valgono quattromila euro a metro quadro e nel centro abitato ci sono ancora i residenti, che hanno trovato occasioni di lavoro». Per dire che «la tutela porta anche vantaggi economici». Soru ha quindi voluto chiarire: «La necropoli punica è come la reggia di Barumini: non si può consentire che venga coperta da palazzi. E poi non blocchiamo tutto, i lavori nella vasta area riprendono, abbiamo detto no solo alla costruzione di alcuni edifici».

Il passo al programma sul turismo è stato breve: «L’Italia non è solo Roma, Firenze e Venezia, diciamo no al turisdotto che collega frettolosamente e superficialmente questi tre centri per vedere pochi monumenti e andare via. L’Italia, e la Sardegna in particolare, ha enormi potenzialità nei suoi edifici, nei suoi monumenti e nel suo territorio». Quindi «tutela e valorizzazione» sapendo che «si può trasformare il territorio con interventi mirati».

Prima del trasferimento a Villanovaforru, Rutelli ha dedicato dieci minuti alle associazioni ambientaliste sul caso Tuvixeddu-Tuvumannu. Particolarmente felice Vincenzo Tiana (Legambiente), che ha consegnato un dossier al vicepremier. «Il suo sostegno - ha detto Tiana - può essere decisivo».

Nel Museo del Territorio, tra Villanovaforru e Villaurbana, dove ha inaugurato una mostra precolombiana di grande suggestione, Rutelli ha detto di essere rimasto «affascinato dalle colline delle Marmilla». Dove hanno messo gli occhi operatori italiani (tra cui l’ex dirigente Fiat Paolo Fresco) e irlandesi vogliono realizzare centinaia di residenze di lusso e campi da golf. L’occasione ha consentito al vicepremier e ministro di sottolineare l’importante del rapporto tra il turismo e la cultura: «L’Italia e la Sardegna - ha ribadito - non possono non puntare sulla qualità». L’accento è stato messo non solo sul Museo (volàno autentico dello sviluppo di questa zona) ma anche sul recupero dei centri storici avviato venticinque anni fa da quattro sindaci-pionieri, tra i quali soprattutto Giovanni Pusceddu, del Consorzio Sa Corona Arrubia.

A Villanovaforru Rutelli è stato raggiunto dai parlamentari nuoresi Antonello Soro, che per primo gli aveva parlato del Museo del Territorio, e Salvatore Ladu. C’era anche tutto il gruppo della Margherita in Consiglio regionale, convocato da Antonio Biancu per una riunione con il leader nazionale. L’appuntamento politico, in vista dei congressi, è invece saltato a causa del poco tempo a disposizione.

Ed è stato parzialmente sacrificato anche il pranzo ufficiale nel rifugio della seggiovia. Rutelli ha fatto appena in tempo ad assegiare gli antipasti e un primo di «lorighittas» perché a un certo punto è stato prelevato dall’infaticabile Paolo Fadda: «Ci aspettano qui vicino, a Collinas, per farti vedere il presepio artistico. E’ bellissimo, non l’hanno disfatto per te. Ci vorranno cinque minuti in tutto». Rutelli, che da buon romano ha la passione del presepe, non si è fatto pregare. La visita nel piccolo paese in festa è durata un po’ di più. Quindi la frettolosa partenza per Roma, a parlare (purtroppo o per fortuna) di politica.

Postilla

È utile precisare il protocollo firmato dal Ministro e dal Presidente non ha ancora gli effetti di quello di cui all’articolo 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e in particolare non provoca gli snellimenti procedurali annunciati da Rutelli. Infatti l’intesa di cui alla legge deve essere firmata anche dal Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, e gli snellimenti procedurali vi saranno quando i comuni avranno adeguato i loro strumenti al PPR, esteso all’intero territorio regionale. Una intesa, quindi, eminentemente politica, come quelle firmate con la Toscana e con il Friuli – Venezia giulia.

Con una sola differenza, peraltro rilevante: in Sardegna il PPR c’è, ed è vigente: per ora, almeno per gli ambiti costieri. E la sua tutela è immediatamente operante.

CAGLIARI. Dopo la strada da 31 milioni di euro che doveva attraversare il valico nella necropoli di Tuvixeddu sull’asse ovest-est e arrivare fino alla sopralevata per l’aeroporto, la Regione cancella con una delibera un filare di palazzi di cinque piani progettati lungo la via Is Maglias per un totale di 75 mila metri cubi. Lo strumento per arrivare al risultato di lasciare a Cagliari quel che resta della sua caratteristica di «città di pietra e di acqua» saranno gli espropri, possibili secondo l’articolo 96 del codice per i beni culturali varato dal ministro Urbani. I soldi per l’operazione verranno ricavati dalla Finanziaria di quest’anno dove, annuncia l’assessore ai Lavori pubblici Carlo Mannoni, sarà previsto un fondo «per gli oneri relativi agli espropri ex articolo 96». Inoltre «al momento della contrattazione, la giunta può proporre degli scambi». Dalla lettura della delibera si comprende che non è un intervento cieco: la difesa dal cemento del costone sopra la via Is Maglias e del varco conosciuto come canyon, suggestiva risultanza dell’attività di cava, è uno dei tasselli del «parco di Karalis», l’operazione ambientalista promossa con il piano paesistico regionale. La delibera mette ancora una volta in chiaro la volontà della giunta regionale di rileggere l’accordo di programma firmato nel 2000 tra Coimpresa (la ditta titolare della lottizzazione), il Comune e la Regione secondo la formula del piano integrato d’area (pia) «Cagliari 17 - Sistema dei colli». Come è noto, la giunta è andata oltre ogni aspettativa ecologista: finora le costanti polemiche sulle costruzioni a bordo di necropoli contestavano la quantità di volumetrie e in qualche caso la loro posizione ma sempre in relazione alla presenza di tombe. Mai l’estetica e, men che meno, i 23 ettari di parco. Nella delibera varata in questi giorni si rintracciano accenti perfino appassionati nel descrivere l’immenso torto che verrebbe arrecato alla straordinaria necropoli di Tuvixeddu se il parco sarà quello attualmente in cantiere e le costruzioni quelle progettate. Gli espropri possibili con la delibera 5/23 del 7 febbraio 2007 intendono impedire quel che è successo giù sul lato della necropoli che degrada verso Sant’Avendrace: l’accesso naturale della città bassa è ormai sigillato dal cemento. La delibera cerca di rimediare anche a questo suggerendo l’acquisizione di una porzione del viale Sant’Avendrace, dal numero civico 35 al 55. Nella fascia alta l’accesso a Tuvixeddu, adesso, è quasi tutto libero. Salvo la cresta delle palazzine dei Punici costruite in cima al costone su viale Merello via Is Maglias a un passo dal ripetitore, il versante del colle su quest’ultima via è libero: secondo la giunta regionale deve restarlo perché «è tuttora l’accesso all’antica e ancora possibile percezione panoramica che dal colle guarda verso Santa Gilla, il mare, i monti del Basso Sulcis fino ad abbracciare la dimensione spaziale del Golfo degli Angeli...». Lunedì prossimo la commissione regionale del paesaggio si riunisce per decidere l’estensione del vincolo paesaggistico: si dirà nel dettaglio ciò che si può fare e ciò che sarà vietato. Ma la delibera della giunta fa proprie alcune osservazioni degli esperti (citandoli) della stessa commissione. In sostanza, secondo archeologi e paesaggisti nei 23 ettari del parco in cantiere «il sistema ambientale preesistente a seguito dei lavori oggi sospesi risulta del tutto stravolto». La sommità del colle è più alta di tre metri; la vegetazione originaria è quasi scomparsa; le strade interne sarebbero sproporzionate; aiuole e robusti muri di contenimento, anche se ospiteranno essenze mediterranee, «artificializzano un luogo in gran parte naturale o seminaturale», in favore di «uno scenario da giardino pubblico, gradevole, attraente, consumabile... a detta degli esperti l’impressione è che alla base vi sia un’idea non condivisibile: quella di bonificare e abbellire il contesto della necropoli, come se lo si ritenesse inespressivo, difettoso sul piano formale ed estetico».

Il soprintendente ai beni archeologici di Cagliari e Oristano, Vincenzo Santoni, in viaggio tra Sassari e Cagliari ieri ancora non conosceva la delibera e ha tagliato corto: «Vedremo». La situazione è delicata anche per il suo ufficio, visto che l’accordo del 2000 aveva il benestare della sua soprintendenza e difatti avrebbe chiesto un parere legale sulle indicazioni della Regione.

Plauso incondizionato da Gruppo di intervento giuridico e Amici della Terra che, per mano del presidente Stefano Deliperi, scrivono: «finalmente viene messa in primo piano la salvaguardia della più importante area sepolcrale punico-romana del Mediterraneo».

Il giornale mi mandò in Sardegna, per una inchiesta sui porti, nel 1960. Avevo 24 anni, l’Italia appariva ancora, in tanti posti, integra e bellissima. Non ero facile agli stupori. Tuttavia quella terra segreta e intatta, quei paesaggi antichi e quasi del tutto intoccati mi emozionarono, mi entrarono dentro in modo tutto speciale. Certo, il sottosviluppo lo si respirava. A Sassari non c’erano neppure dei veri taxi alla stazione, ma soltanto moto-taxi. Andando verso Cagliari, sulla Carlo Felice, incontrammo qualche rara vettura e pochi camion. A Macomer c’erano donne in costume tradizionale in strada e certo non aspettavano noi, sparuti turisti di passo. Poi è successo quello che è successo, travolgendo spesso piani e tutele.

“Abbiamo costruito villaggi fantasma e reso fantasmi i nostri paesi”, ha commentato amaro il governatore Renato Soru lanciando una sorta di nuovo “manifesto” programmatico per la sua isola. In base al quale si vuole dare precedenza assoluta alla salvaguardia delle coste e al restauro, recupero, riqualificazione di quanto già stato costruito.

“C’è qualcosa di molto triste e perfino drammatico nei villaggi vacanze”, osserva un fine intellettuale sardo, Giorgio Todde, “c’è qualcosa che lascia inebetiti nella vita sintetica del villaggio dove si mangia si dorme, si balla, si nuota in piscine irreali, poi si mangia di nuovo, si dorme di nuovo in un ciclo rotondo e animale di cibo, deiezione e sonno”. Dal quale la Sardegna vera è esclusa, là, fuori dal recinto..

A questo punto dovrei indicare le zone dell’isola che ancora si presentano integre a chi vi risiede o a chi vi si reca in viaggio, in vacanza. Il ventaglio della scelta, nonostante tutto, è ampio. Volete, miracolosamente, una grande area a pochi minuti dal traffico di una città come Cagliari? C’è il promontorio di Sant’Elia. Oppure, ad un passo dalla città, il parco della laguna di Molentargius e quello della Sella del Diavolo. Natura, storia, archeologia, lì c’è tutto, in modo affascinante. Anche il Sinis vanta ambienti e paesaggi strepitosi, come del resto la zona attorno a Bosa. All’interno poi ci sono il Gennargentu o il Supramonte. Ma, se vogliamo restare sul mare, scegliamo allora la Costa Verde nell’Iglesiente, detta anche il Sahara d’Italia per l’ampiezza inusitata degli arenili e delle dune che li proteggono. Anche 3.000 ettari ininterrotti.

Sulla Costa Verde si possono meglio capire quante risorse conservi questa grande isola (in passato molto spesso colonizzata da questo o quel popolo e però rimasta fieramente se stessa) e quanti rischi essa corra tuttora. Siamo in un distretto minerario che nell’Ottocento ha attratto, fra Montevecchio, Ingortosu, Funtanazza, Piscinas, Naracauli, Scivu, Pistis, investitori da mezza Europa, per il piombo e per lo zinco (oggi esauriti). Investitori professionali, francesi, belgi, inglesi come lord Brassey, a lungo titolare della “Pertusola”. O improvvisati come uno dei romanzieri europei più amati, Honoré de Balzac, sempre in caccia di febbrili speculazioni regolarmente finite male.

In questa costa sud-occidentale dell’isola, che si apre con la località, anch’essa mineraria, di Arbus, ci sono dune di una vastità e di una bellezza abbaglianti, dune le quali penetrano anche per 2 chilometri nel retroterra dove vigoreggia la macchia mediterranea, col lentischio, il corbezzolo, il ginepro, il cisto. E poi, dovunque, pini e pinastri. Migliaia di ettari di dune, altrove distrutte e cementificate. Chilometri e chilometri di arenili incontaminati da interventi dell’uomo.

Dietro il mare verde, dietro queste dune imponenti, dietro la macchia mediterranea, regno del cervo sardo, nell’interno i villaggi dei minatori, le ville liberty, spesso in granito, dei dirigenti, tutto ciò che ha fatto di questi luoghi una comunità di lavoro, con l’epos unico delle miniere. A Montevecchio le gallerie si inoltrano per un centinaio di chilometri, con pozzi fino a 350 metri di profondità. Altre gallerie perfino a picco sul mare, a Porto Flavia, una costa di roccia alta e accidentata. Su tutto domina il Monte Arcuentu che è come una fortificazione naturale di basalto dovuta a remote eruzioni vulcaniche.

Ne parlo con una certa apprensione. Nella Sardegna investita dal “boom” del cemento turistico si è molto costruito – prima del decreto salva-coste votato dalla Giunta Soru nel 2005 e che preservava una fascia di 2 chilometri – e si è costruito, “normalmente”, a 200 o 300 metri dal mare. Con prezzi d’acquisto che nella scorsa stagione oscillavano fra i 1.300-1.600 euro al mq di Muravera, entrata da poco nel business, e i 2.500-4.000 di Golfo Aranci. Anche se nella prima località c’erano ancora – e risultavano gradite – non poche case del vecchio paese. Ecco tornare il discorso iniziale del governatore-imprenditore Renato Soru e del Piano Paesistico Regionale (di cui si parla qui sotto): non più villaggi turistici aperti pochi mesi l’anno, e che intanto si “mangiano” natura e paesaggio, ma paesi antichi o vecchi che siano sempre più intensamente vissuti. Da tutti.

IL PIANO SALVACOSTE

Renato Soru, presidente della Regione Sardegna, è balzato agli onori della cronaca per la polemica sulla tassa sul lusso (megayacht, seconde case) con Flavio Briatore, manager della scuderia Renault in FormulaUno, proprietario del Billionaire di Porto Cervo. Al governatore sardo si deve il più grande piano paesaggistico mai disegnato in Italia: tutelerà 1.731 Km di coste e il loro entroterra. Un piano impostato, nelle linee-guida, da un comitato di esperti coordinati da Edoardo Salzano (titolare, fra l’altro, dell’utilissimo sito di paesaggio e ambiente, eddyburg.it) e realizzato però dagli uffici tecnici regionali. “Conservare e gestire responsabilmente il paesaggio, prodotto del millenario lavoro dell’uomo su una natura difficile, significa conservare l’identità di chi lo abita. Un popolo senza paesaggio è un popolo senza identità né memoria”. Ecco la filosofia del PPR.

Di qui le linee-guida: priorità alla preservazione delle risorse paesaggistiche, al loro ruolo strategico sul piano culturale, alla riqualificazione e al recupero dell’esistente, a forme di sviluppo fondate su di una nuova cultura dell’ospitalità “sottratta alle ipoteche dello sfruttamento immobiliare ed agli effetti devastanti della proliferazione delle seconde case e dei villaggi turistici isolati”.

Una precisazione

Le linee guida per il Piano paesaggistico regionale sono state elaborate dalla Giunta regional; ad esse il Comitato scientifico ha suggerito alcune limitate integrazioni, collaborando poi al lavoro dell’Ufficio di piano (e.s.).

Firmato il provvedimento di sospensione dei lavori in corso nel colle di Tuvixeddu-Tuvumannu, che inibisce l'inizio di qualsiasi attività e sospende quelle in corso. La necropoli fenicio-punica più importante del Mediterraneo protetta dal Piano paesaggistico.

Cagliari, 12 gennaio 2007 - Ieri sera il direttore del servizio dei Beni culturali dell'assessorato alla Pubblica istruzione ha firmato un provvedimento che inibisce "tutti i lavori, riferibili ad opere pubbliche o opere a carattere privato, comunque capaci di recare pregiudizio al paesaggio nella zona del colle di Tuvixeddu – Tuvumannu nel Comune di Cagliari".

L'area è quella delimitata dalla deliberazione assunta nella seduta del 16 ottobre di dieci anni fa, 1997, della Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali di Cagliari e che va dal viale Sant' Avendrace, all'altezza della via Montello, si prosegue lungo lo stesso viale sino all'incrocio tra viale Trento e viale Trieste, si segue in viale Trento e quindi svolta in viale Merello che si percorre sino a piazza D'Armi. Dalla piazza D'Armi, si scende lungo via Is Mirrionis sino all'incrocio con via

Timavo che si percorre sino alla via Monte Santo, si segue la via in direzione Est sino a via Argonne, si prosegue quindi lungo la via Argonne in direzione Sud, si svolta a destra in via Col

d'Echele che si percorre per un brevissimo tratto per svoltare a sinistra e immettersi nella via Is Maglias all'altezza del distributore, si segue la via Is Maglias per un breve tratto e si svolta in via Asiago, si percorre questa via, quindi la via Montello, sino a incrociare il viale Sant'Avendrace nel punto di partenza.

Nella determinazione del direttore di servizio è scritto che "sono fatti salvi gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria regolarmente autorizzati dalle autorità competenti ed insistenti sulla stessa area".

Il provvedimento, ai sensi del comma 3 dell'art. 150 del D. Lgs 22.1.2004 n. 42, ha efficacia per il periodo di novanta giorni a decorrere dalla data di notifica al Comune di Cagliari, che provvederà per quanto di competenza.

L'atto firmato dal direttore di servizio e trasmesso all'assessore ad interim Carlo Mannoni, fa riferimento in particolare al Piano paesaggistico regionale, le cui norme tecniche di attuazione "al fine di tutelare e valorizzare il territorio della Regione, individua alcuni sistemi storico-culturali che rappresentano le più significative relazioni sussistenti tra viabilità storica, archeologia ed altre componenti di paesaggio aventi valenza storico culturale". Nel contesto di tali sistemi storico culturali trova collocazione quello relativo al "Sistema dei Colli" di Cagliari, comprendente, tra l’altro, il colle di Tuvixeddu-Tuvumannu ritenuto dallo stesso Ppr area di notevole interesse pubblico e perciò "funzionale alla predisposizione di programmi di conservazione e valorizzazione paesaggistica" e che la scheda d'ambito "Ambito n. 1 Golfo di Cagliari" dà gli indirizzi per la predisposizione dei programmi di conservazione e valorizzazione paesaggistica del colle di Tuvixeddu-Tuvumannu.

Il lavori in corso a Tuvixeddu-Tuvumannu, "cospicui interventi, sia a carattere pubblico che privato, per l'incidenza sulla morfologia del sito e per la loro collocazione a ridosso della necropoli fenicio-punica e della vasta area storica e monumentale del colle, sono capaci di pregiudicare il bene paesaggistico tutelato dal Ppr, limitando la possibilità della Regione di intervenire con le previste misure di recupero e riqualificazione".


Nell’articolo di Simonetta Sotgiu (dell’11 ottobre) sembra che si voglia affermare che la tutela del piano paesaggistico regionale «non può includere la tutela indifferenziata di un’intera zona artificialmente considerata omogenea, quale la zona costiera presa in considerazione dal piano regionale», ciò perché in contrasto con l’articolo 136.

Se è così, allora la signora Simonetta Sotgiu, che è Consigliere di cassazione, ha considerato solo alcuni articoli del Codice del paesaggio. Ha considerato solo l’articolo 136, che definisce beni paesaggistici i beni già vincolati ai sensi della legge del 1939. Ha dimenticato che esiste anche l’articolo 143, che inserisce tra i beni da tutelare anche quelli appartenenti alle categorie enumerate fin dalla legge Galasso (1985). E ha dimenticato di riflettere sull’articolo 143 che detta i contenuti del piano paesaggistico. Quindi ignora che la legge prescrive che il piano provveda: alla «tipizzazione e individuazione [...] di immobili o di aree diversi da quelli indicati dagli articoli 136 e 142, da sottoporre a specifica disciplina di salvaguardia e utilizzazione». Così come ignora che il medesimo articolo prescrive che il piano è tenuto alla «individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione».

Simonetta Sotgiu sostiene inoltre che è sbagliato il divieto delle «costruzione di edifici che non siano strettamente collegati alla coltura dei fondi agricoli, incidendo sostanzialmente, con un vincolo legale, sul diritto di proprietà», poiché “le colture della Sardegna non richiedono, né storicamente, né all’atto pratico” la «presenza dell’uomo sulla terra». Se così fosse, allora la Regione, avendo legittimamente considerato (articolo 143) il territorio agricolo un bene paesaggistico, avrebbe dovuto vietare ogni edificabilità, e non solo quella collegata alla coltura dei fondi.

Le incongruenze dell’articolo non si fermano qui, ma il ragionamento condurrebbe a debordare dallo spazio riservato a una pur lunga chiosa.

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