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Nei giorni che hanno visto l’affermazione della maturità di un mondo giovanile stanco del sistema che li esclude sistematicamente, una pessima notizia viene dal mondo di Italia Nostra, la storica associazione che da 55 anni si batte per la tutela del patrimonio culturale e ambientale italiano.

E questa vicenda tocca paradossalmente proprio la figura di un uomo che ha di continuo alimentato la cultura dei giovani che si affacciavano alle prime esperienze della maturità, fornendo loro idee e la lezione del rigore. Antonio Cederna è stata una delle figure più eminenti di Italia Nostra, portando al suo interno idee e battaglie sempre nuove. Forse questo suo carattere di apertura era legato ad un elemento autobiografico, perché non era neppure trentenne quando venne chiamato a scrivere sul Mondo di Pannunzio. La protesta giovanile ha messo il dito sulla piaga di una società gerontocratica che non lascia invece il minimo spazio alle nuove generazioni.

Antonio Cederna è scomparso quasi quindici anni fa. Eppure le sue idee continuano a formare intelligenze. Da poco, grazie alla donazione della famiglia, è accessibile il suo archivio di libri e scritti, gelosamente e intelligentemente custodito dalla Soprintendenza archeologica di Roma. Tanti giovani possono alimentarsi delle sue idee che, solo per fare un esempio, hanno permesso di mantenere nella sua integrità il Parco archeologico dell’Appia Antica, obiettivo per il quale Cederna ha combattuto scrivendo quasi 200 articoli di denuncia e proposta.

Il ritardo di una vecchia cultura incapace di comprendere le novità dei tempi, si trova in una recentissima pubblicazione che la sezione della Lombardia di Italia Nostra ha dedicato al pensiero del grande intellettuale. Un’operazione apparentemente lodevole. Non fosse per il gravissimo fatto che i suoi scritti sono stati fatti precedere da due “contributi critici” che sono assolutamente antitetici al pensiero di Cederna. E’ come se l’opera del pool di Mani pulite della procura di Milano fosse introdotta da Ligresti o Pizzarotti, e cioè da personaggi che di quell’inchiesta furono imputati.

Ma tant’è. Sembra a qualcuno che sia meglio annacquare, diluire. Non prendere posizione. Far parlare uno a favore e uno contro, perché così si è più educati. Se il padre di Eluana Englaro parla –per pochi minuti dentro un palinsesto di milioni di ore dedicate a nani e ballerine - dell’urgenza di dotarsi di una legge civile sul fine vita, ecco che si chiede la “riparazione”. Se un civile leader degli studenti è invitato a parlare brevemente in una trasmissione di grande ascolto, ci pensa un ministro in carica a mettere in campo una fredda provocazione di stampo squadristico per non consentirgli di parlare. Tutto deve essere sommerso dal chiacchiericcio.

Così gli scritti di Cederna sono stati fatti precedere da una critica espressa molti anni fa da Luigi Mazza, uno dei padri dell’urbanistica contrattata milanese. Quell’urbanistica che ha permesso l’ulteriore cementificazione della città e del suo hinterland, consentendo addirittura di far costruire quartieri residenziali senza neppure eseguire le bonifiche dei suoli ex industriali. Così i bambini vanno dentro scuole che navigano su un mare di veleni. E’ la modernità. E’ il trionfo della città privatizzata teorizzato da intellettuali come Mazza. L’esatto contrario della visione pubblica della città che stava a cuore a Cederna. In un altro incredibile “contributo critico” si arriva addirittura a giustificare la realizzazione dell’osceno parcheggio nato davanti a Sant’Ambrogio, uno dei luoghi di Milano più carico di storia e fascino.

Questa stanca apologia dell’equilibrismo acritico sarebbe passata inosservata fino a poco tempo fa. Ancora non ci si era accorti che dietro alla demonizzazione di ogni pensiero critico si nascondevano solo vergognose speculazioni. Oggi i risultati sono invece evidenti a tutti. Roma è ormai una infelice città in preda ai più biechi appetiti speculativi. Firenze decide i destini dell’area di Castello in uno squallido pranzo tra l’ex sindaco Domenici, Ligresti e Della Valle. La (ex) bellissima Parma è preda di un manipolo di cementificatori. Centinaia di ettari di coste incontaminate della Sardegna, prima fra tutte quelle di Malfatano, sono a rischio di inutili lottizzazioni turistiche. Di Milano abbiamo parlato e gli esempi potrebbero continuare.

Ma il segnale nuovo che permette di ricollegarsi alle lotte dei giovani, è che il clima culturale sta cambiando. La famiglia Cederna ha infranto il mediocre tran tran dell’associazione, inviando una lettera di protesta alla presidenza di Italia Nostra. E questa protesta sta provocando un salutare dibattito che non potrà essere fermato. Le idee sempre giovani e attuali di Antonio Cederna non possono essere messe sullo stesso piano di quelle dei suoi nemici. Le sue città vivibili e il rispetto dell’ambiente sono i pilastri di un nuovo pensiero. Le idee degli speculatori e dei distruttori del futuro dei giovani sono il vecchio che sta tramontando. Anche se qualcuno non se ne è ancora accorto.

Un affronto alla memoria. Il suo pensiero sventrato, demolito e fatto a pezzi. Sono molto dure e amare le parole che Camilla, Giulio e Giuseppe Cederna riservano a un volume appena edito da Electa in cui sono raccolti una serie di articoli che il loro padre, Antonio Cederna, dedicò agli scempi e alla cattiva urbanistica di Milano e della Lombardia (il libro, firmato Antonio Cederna, s´intitola Scritti per la Lombardia, pagg. 236, euro 15). L´accusa è contenuta in una lettera al presidente nazionale di Italia Nostra, Alessandra Mottola Molfino. Perché a lei? Perché è sotto le insegne della sezione lombarda di Italia Nostra, l´associazione cui Cederna ha dedicato quarant´anni della sua vita e che con le sue battaglie si è identificata, che esce quel volume.

«Alcuni mesi fa», racconta Giulio Cederna, «fummo contattati dalla sezione milanese di Italia Nostra. Poi non abbiamo saputo più nulla. Una settimana fa abbiamo visto il volume e siamo rimasti sbalorditi. Fra le prefazioni compare un articolo scritto nel 1992 dall´urbanista Luigi Mazza, una recensione critica al libro di mio padre Brandelli d´Italia. Perché ospitarla senza un aggiornamento o una nota esplicativa? Inoltre Mazza è stato autore nel 2000 di un documento che ha messo le basi a Milano per uno stravolgimento di tutte le impostazioni più care a mio padre».

Ma c´è un altro intervento nel volume che irrita i Cederna, quello scritto da Alberto Ferruzzi, che, sotto forma di lettera allo stesso Antonio Cederna, cita come esempio negativo una delle più recenti battaglie di Italia Nostra, quella contro il parcheggio a pochi passi dalla basilica di sant´Ambrogio, una battaglia, scrive Ferruzzi condotta per salvaguardare beni monumentali senza «approfondita informazione storica (…) usando strumentalmente la loro tutela». «La pubblicazione degli articoli di nostro padre è stata utilizzata per veicolare tesi opposte a quelle che ha sempre sostenuto», insiste Giulio Cederna.

La reazione dei Cederna ha suscitato un vivace dibattito dentro Italia Nostra. Alcuni consiglieri nazionali chiedono una sconfessione piena dell´iniziativa, che la presidente Mottola Molfino attribuisce alla sola sezione lombarda dell´associazione e che, per parte sua, giudica «con disappunto», trovando improprio che in una pubblicazione del genere il nome di Cederna sia «accostato a quelli di cattivi interpreti o addirittura di suoi detrattori».

La replica dei vertici lombardi di Italia Nostra arriva per lettera ed è firmata dal presidente Luigi Santambrogio: non volevamo solo commemorare Cederna, scrive, ma «stimolare un rispettoso confronto dialettico sulle esigenze della contemporaneità». Ma per Camilla, Giulio e Giuseppe Cederna si è trattato di uno sfregio. Che tenteranno di bloccare anche rivolgendosi a un avvocato.

La lettera che pubblichiamo, rivolta al Consiglio Nazionale di Italia Nostra, smonta un’operazione di falsificazione del pensiero e dell’opera di Antonio Cederna, purtroppo non isolata: già in altre occasioni, su eddyburg, avevamo segnalato come il nome di Cederna venga utilizzato per giustificare operazioni che poco o nulla hanno a che fare con quanto il giornalista e intellettuale milanese ha affermato per tutta la vita. In maniera limpidissima e priva di ogni ambiguità come sa anche chi ha una superficiale conoscenza dei suoi scritti.

Ma in questo caso la mistificazione è ancor più inaccettabile perchè giunge ad uno stravolgimento completo di quello che è uno dei cardini metodologici ed ideali per i quali Cederna ha combattutto tutta la vita: la necessità di un’urbanistica guidata dalla mano pubblica come primo e indispensabile requisito di un governo del territorio corretto, mirato al raggiungimento di un migliore livello di qualità urbana e moderno nel senso europeo del termine.

La puntuale analisi critica contenuta nella lettera rimette le cose a posto, apre una ferita in Italia Nostra (l’Associazione di cui Cederna fu protagonista fin dalla fondazione) che dovrà essere sanata al più presto, ma ci testimonia anche, in maniera inequivocabile, dell’importanza del suo pensiero: così attuale ed imprescindibile da dover essere richiamato, seppur per rovesciarne il senso, tutte le volte che si parla di urbanistica e così vitale da trionfare contro le miserie di qualche malaccorto mistificatore.

Vezio De Lucia, Maria Pia Guermandi

Roma, venerdì 17 dicembre 2010

Gentile Presidente,

tempo fa una telefonata dalla sezione milanese di Italia Nostra ci annunciava il proposito di raccogliere e pubblicare una selezione di articoli di Antonio Cederna dedicati a Milano e alla Lombardia, sul modello di quanto già fatto a Roma e in Emilia Romagna. Fiduciosi nell’operato dell’associazione per la quale nostro padre si è speso dal 1956 fino alla morte, accogliemmo il progetto con il consueto entusiasmo e creammo il contatto con l’Archivio Antonio Cederna, al quale, com’è noto, abbiamo donato le carte, gli articoli, i volumi della sua biblioteca.

Una settimana fa abbiamo finalmente ricevuto copia del volume - Antonio Cederna, Scritti per la Lombardia. E’ facile immaginare la nostra sorpresa quando abbiamo scoperto che tra i promotori della meritoria iniziativa editoriale figura il noto urbanista Luigi Mazza, autore nel 2000 del documento di Inquadramento urbanistico di Milano che ha aperto le porte all’urbanistica contrattata a Milano e altrove, un piano che Antonio Cederna avrebbe avversato con tutte le sue forze. La lontananza di Mazza dal pensiero e dall’opera di Antonio Cederna è del resto dichiarata in una vecchia recensione al libro Brandelli d’Italia ripubblicata oggi, chissà perché, proprio nella sezione introduttiva del volume in esame. Nel testo, scritto ben 18 anni fa (è del 92 e non del 95 come riportato nel volume), l’autore definisce “leggi e divieti” - ovvero piani regolatori e vincoli - “scorciatoie brevi per sciogliere i nodi che un’attenta coscienza civile saprebbe risolvere senza atti di imperio”, e imputa alla cultura dei centri storici “di aver sottovalutato l’incidenza dei costi di ristrutturazione e di manutenzione dell’edilizia degradata, e l’impossibilità, una volta assunti standard di qualità, di procedere al suo recupero con le risorse disponibili per l’edilizia economica e popolare”.

L’articolo attribuisce inoltre ad Antonio Cederna sentenze non sue. Scrive ad esempio Mazza: “il blocco della crescita della città, spesso invocato da Cederna, ha come contropartita proprio un aumento della pressione speculativa sui centri storici che si vuole difendere”. Scriveva Cederna nel 1956 (introduzione ai Vandali in casa): “Un vecchio rione si salva e insieme si risana solo se si dà modo alla gente di poterci continuare a vivere ed abitare più umanamente, se si allontana da esso il peso del traffico e degli affari, inconciliabile con la sua antica struttura, e se si garantiscono alla città razionali possibilità di ampliamento: unica mira dei vandali è invece quella di realizzare immensi guadagni speculando sulle aree da vendere e sui fabbricati da ricostruire, scaraventando gli infelici abitanti in qualche infame borgata periferica…”.

Scrive Mazza: “Cederna a differenza di molti urbanisti, sa che l’esproprio è pochissimo usato da quei paesi che si assumono come modello di governo urbanistico, e lo scrive ma di fronte alla situazione italiana non vede altra risorsa che l’intervento della legge”. Nel 1992 Cederna aveva posto un grande punto interrogativo a margine dell’articolo che riportava questa frase (la recensione con l’appunto originale è conservata nell’Archivio Cederna, fascicolo 605). Diciotto anni fa le tesi di Mazza offrivano un’immagine discutibile, parziale e in parte caricaturale dell’impegno di Antonio Cederna (“l’importanza e il valore dei suoi contributi non sono da cercare nella congruità delle sue affermazioni tecniche, ma nella radicalità delle sue prospettive…”), dell’intera cultura urbanistica italiana e quindi dell’operato stesso di Italia Nostra, dei suoi cinquant’anni di storia e di battaglie. Diciotto anni dopo Italia Nostra Lombardia sceglie di ripubblicarle sic et simpliciter nella sezione introduttiva di un libro a firma di Antonio Cederna, senza un aggiornamento, una nota, un commento da parte dell’organizzazione, senza degnarsi di ospitare l’opinione di uno dei tanti urbanisti che la pensano in modo diverso, e che diciotto anni dopo avrebbero potuto spiegare come “senza atti d’imperio”, ovvero a partire dal piano firmato Luigi Mazza, si sia andata sviluppando in questi ultimi dieci anni Milano e quali mirabili progressi abbia fatto registrare la “coscienza civile” e la pratica della città in materia di ambiente e di urbanistica.

A chiarire quale sia oggi la visione strategica della sezione milanese di Italia Nostra, e in quale considerazione tenga le opinioni di nostro padre, ci pensa d’altra parte un altro promotore, Alberto Ferruzzi, che in un’amabile corrispondenza epistolare con Cederna - che purtroppo, com’è noto, non gli può più rispondere – lo aggiorna oltretomba sulle novità del paesaggio milanese: come Milano e i grandi comuni abbiano conosciuto “un’innaturale esplosione di costruzioni, largamente in soprannumero rispetto alle richieste di mercato”, “come il paesaggio urbano sia minacciato dall’esagerata contemporaneità di nuove costruzioni, quasi tutte di buon livello, spesso interi quartieri che non si sa a chi siano destinati”, come la nuova disciplina urbanistica – che oggi si chiama Piano di Governo del Territorio (e che ha ulteriormente contrattato al ribasso il piano del professor Mazza) abbia “trasformato il vecchio Piano regolatore in un cantiere sempre aperto che vive comunque dell’offerta dei privati”.

Davanti a una situazione tanto preoccupante, il Ferruzzi si perita di comunicare al “caro Cederna” una serie di considerazioni personali: “non so come riusciremo a gestire questo documento, ma la novità comunque ci affascina (!!!). Ho cercato di capire se in qualche modo viene preservato il paesaggio urbano, quella specie di vestito grigio di cui tu spesso parli nei tuoi articoli che coincide però con l’aspetto che amiamo di questa città (!!!). E non l’ho trovato (?)”. Per poi aggiungere: “(Nel piano) è ricomparsa latente la famosa grande strada di attraversamento che ti aveva fatto orrore quando si chiamava Racchetta e il cui sedime in parte è riconoscibile nel centro di Milano per l’esagerata sezione stradale di Piazza Santo Stefano fino a piazza Missori, con i ruderi artificiali di San Giovanni in Conca che tu hai salvato. Ora è sotterranea (il che è sicuramente meglio)”. Peccato che Cederna abbia speso decine di articoli proprio per denunciare il supposto “salvataggio” della Chiesa ad opera dell’Immobiliare nel 1948 e poi all’inizio degli anni Cinquanta, ovvero la “fabbricazione artificiale di un rudere con tutta l’apparenza dell’autenticità”, un “miserando reliquato monumentale in mezzo alla strada” che sorge “entro un salvagente semicircolare, rallegrato da prato e aiole” che “appare adesso come un antipatico moribondo che non vuol morire”: “chi ignora che questa misera rovina era un’antica e bella chiesa distrutta per pura bestialità in questi anni si meraviglia che Milano sappia con tanto amore richiamare in vita monumenti di cui nessuno sospettava l’esistenza” (si veda Lo sventramento di Milano, maggio 1954, purtroppo assente dalla raccolta).

Ma è nella conclusione del suo intervento, che il Ferruzzi dà il meglio: “Caro Antonio, come vedi alcune tematiche permangono: la paura dei grattacieli e i parchi archeologici, la mancanza di riguardo per la facies di Milano, e purtroppo la mancanza di approfondita informazione storica in chi conduce le battaglie di tutela dei beni monumentali usando strumentalmente la loro tutela: l’esempio della questione del parcheggio di Sant’Ambrogio docet. Non riesco a rassegnarmi invece per aver perso contro l’alterazione della Scala, la cui inutilità mi viene confermata assistendo ad ogni spettacolo“.

Et voilà, l’operazione è compiuta. La pubblicazione degli articoli di nostro padre viene utilizzata per veicolare tesi opposte a quelle che ha sempre sostenuto. A Cederna viene riservato lo stesso trattamento della Chiesa di san Giovanni in Conca: il suo pensiero viene sventrato, demolito, fatto a pezzi, raschiato, semiincastrato nei palazzacci costruiti da altri.

Ognuno è libero di pensare e scrivere ciò che vuole su Antonio Cederna, nessuno può permettersi di appropriarsi impunemente della sua opera per farla a pezzi. Per questo ci chiediamo e le chiediamo se e come questa operazione abbia potuto ottenere l’assenso di Italia Nostra nazionale; se le opinioni espresse a nome della sezione milanese sul presente e il futuro della città riflettano il pensiero di tutta l’associazione; che cosa intende fare Italia Nostra a livello nazionale per ristabilire la verità e riparare il torto intollerabile commesso nei confronti della memoria di nostro padre.

Con i migliori saluti,

Giulio, Camilla, Giuseppe Cederna

« Con Vendola il clima e la sensibilità giusti per una grande esperienza urbanistica»

NAPOLI — Nella città dove si conciona su tutto, il più spesso a sproposito, Roberto Giannì incarna una virtuosa vistosa eccezione. Da trent’anni, questo distinto signore si ostina a girare sempre in bicicletta, indifferente a qualsiasi clima, salita o delirio di traffico, occupa ruoli strategici all’interno della macchina comunale. Fedele alla regola di un’assoluta discrezione, parla oggi, ed è la prima volta, alla vigilia della sua partenza per Bari, dove dal gennaio dirigerà l’area urbanistica della Regione Puglia.

Un ritorno a casa: sei nato ad Acquarica del Capo, provincia di Lecce. Ma per tutti sei napoletano. «Beh, sono qui dal 1965, quando m’iscrissi al terzo anno dell’Istituto tecnico industriale Enrico Fermi».

Come mai venisti a Napoli?

«Amavo il nuoto e avevo il mito di Fritz Dennerlein. Dopo il biennio, quando si trattò di scegliere la specializzazione, m’inventai una passione per la fisica nucleare, a Casarano non c’era. A Napoli, però, passai presto a edilizia, la specializzazione più sfigata, scelta da chi non s’era iscritto a geometri. Capitai in una classe di pluriripetenti che non si spiegavano come mai fossi tra loro, visto mi applicavo piuttosto seriamente» .

Da lì, il passaggio ad Architettura e alla Casa dello studente («un posto magnifico, appeso alla collina di Capodimonte con vista sul golfo. Era l’unica di Napoli e fu chiusa ’73. Sarebbe bene che la Regione, che ne è proprietaria, la rimettesse in sesto» ). Tempi di tumultuosa ricerca. Con Sergio Cappelli e Benedetto Gravagnuolo facemmo amicizia col gruppo radicale degli Archizoom, che nel ’73 c’invitarono alla Triennale a Milano. Portammo un Super8 con spezzoni di film legati in una sorta di Non toccare la donna bianca. Era la lotta tra soldati blu e indiani associata alle lotte per la casa» .

Dopo gli innamoramenti iniziali per l’architettura radicale e (grazie ai corsi di Renato De Fusco e ai libri di Cesare de Seta) per la storia, all’urbanistica Giannì arriva dal versante politico. Decisivo l’incontro con Attilio Belli, che Napoli collaborava a Città-Classe. «Mi laureai con lui, Riccardo Dalisi correlatore: un tentativo estremo di tenere insieme due anime diverse» .

Era l’anno 1975, data fatidica per Napoli. «L’anno della prima giunta rossa. Stavo col manifesto e i collettivi di facoltà. Era una svolta: si poteva far qualcosa subito senza aspettare la rivoluzione. Per un’area politica da sempre fuori da tutto, si aprivano scenari impensabili. Mi si presentò l’occasione di lavorare con un gruppo di urbanisti, tra i quali Gianni Cerami e Sandro Dal Piaz, al Piano quadro delle attrezzature. Arrivarono altri giovani neolaureati: Elena Camerlingo, Giovanni Dispoto, Laura Travaglini, Giuseppe Pulli, Mario Moraca, quelli che poi sarebbero stati definiti i ragazzi del Piano. Lavorare al Comune era ritenuto un ripiego; ma noi, animati una forte sensibilità civile, volevamo convincere il Comune a dotarsi di un suo ufficio urbanistico, che non esisteva. Con Elena andammo a Venezia da Salzano, e a Bologna da Cervellati. Ci guardavano con simpatia, piaceva l’idea di un risveglio civico a Napoli. E potevamo contare un’amministrazione di persone intelligenti: Andrea Geremicca, Aldo Cennamo, eccellente assessore al Personale, Giulio Di Donato, assessore all’Urbanistica e nostro quasi coetaneo... Capivano che la pianificazione era un tema nodale».

Ai ragazzi furono affidati molti piani, tra cui quello delle periferie, approvato all’unanimità in consiglio comunale pochi mesi prima del terremoto: «Un frutto tipico dell’epoca, nato dalle lotte nei quartieri. Certe foto di Mimmo Jodice documentano quei luoghi prima del piano: vi si viveva in condizioni disumane, 3-4 persone a vano. Il piano voleva riorganizzare i quartieri conservandone il tessuto sociale. È significativo che mentre a Bologna si lavorava sul centro storico, a Napoli si partisse dalle periferie. Non era facile. Una volta, Giovanni Dispoto bussò a casa di una vecchietta che rispose: ‘‘ Chi site?’’ Siamo del Comune’’. ‘‘ E nun ve mettite scuorno?’’ [Non vi vergognate?]. La gente voleva i palazzi, e noi facemmo le case nuove, ma recuperammo pure le vecchie, e alla fine tutti avrebbero voluto tornarvi».

Risale ad allora l’incontro con Vezio De Lucia, alla Direzione generale del coordinamento territoriale del ministero dei Lavori pubblici, sancta sanctorum dell’urbanistica italiana. «Cercavamo aiuto per il piano e lo trovammo. ’76, Vezio aveva firmato con Antonio Iannello il mitico numero 65 della rivista Urbanistica dedicato a Napoli: quasi una folgorazione. Quella era una scuola di caratura internazionale. Per dire, il rinnovamento di Barcellona s’ispirò a quella rivista» . E quella cultura è anche alla base lavoro svolto, con De Lucia e i ragazzi del piano, al programma per la ricostruzione. «Fui colpito da un’affermazione di Leonardo Benevolo, che sosteneva la necessità di prevedere programmi di urbanizzazione pubblica, un sistema in cui si crea sinergia tra amministrazione pubblica e imprenditori illuminati. Si poteva immaginare un rapporto simile, basato su regole condivise, anche in una città in cui il piano regolatore del ’72 aveva dovuto presentarsi in pratica solo come uno scudo per proteggersi dalle nefandezze speculative? Fortuna volle incontrassimo Francesco Rallo, presidente dell’Associazione dei costruttori, che stabilì un ottimo rapporto con Guido Alborghetti, venuto a Napoli per assistere Valenzi. Fu Rallo, nell’ ‘83, a scrivere a Valenzi chiedendogli insistere sul recupero, perché Napoli era il più grande laboratorio italiano in questo campo».

Questa è pure la filosofia del lavoro svolto per redigere prg di Napoli, nato con l’arrivo di Bassolino sulla poltrona di sindaco nel ’93 e approvato nel 2004. «E ai molti che dicono che il mancato rinnovamento della città dipende dalle scelte urbanistiche fatte, rispondo che il vero problema, per me, è un altro. Quello di una mancata coesione corpo sociale. Il meccanismo s’inceppa proprio quando si dovrebbe avere la partecipazione convinta e fattiva una pluralità d’interlocutori per rendere operative le scelte del piano. In questi anni molte piccole cose si sono fatte, basti dire del progetto Sirena, intervenuto sul 10% patrimonio edilizio utilizzando le regole del Prg. Ma è mancata una collaborazione, una mobilitazione corale. Avviene il contrario: e ogni passaggio che si potrebbe fare pochi giorni impiega mesi, e magari s’insabbia fino alla paralisi».

Per esempio? «Il completamento del centro direzionale. Basato sulla finanza di progetto, è stato approvato cinque anni fa, ma i lavori non sono ancora iniziati. Nel frattempo sono insorte tante e tali complicazioni che se ne potrebbe fare un romanzo. Non so se accade dappertutto, ma insomma: superato il problema urbanistico, servono altri cinque anni per affrontare gli altri problemi».

Un po’ troppo per i partner privati. «Sì. Eppure, le scelte del piano hanno fatto sì che oggi siano in campo 40 grandi iniziative, non solo a Napoli per circa 3 miliardi di euro di investimenti privati. Ovviamente non potranno aspettare troppo. Vedi: tra i migliori conoscitori del piano, ci sono molti imprenditori. È curioso che in questi anni abbiamo avuto intellettuali pronti a giudicarlo impraticabile, e imprenditori che la pensano in modo opposto».

La Napoli di oggi presenta enormi criticità... «Ma io sono riconoscente al sindaco Iervolino e al vicesindaco Santangelo. Hanno sempre condiviso le scelte del prg e ne hanno tenute aperte le possibilità di riuscita senza cedere alle sirene della deregulation. Che partono, con molta superficialità, pure da sinistra».

E ora te ne vai. Tirando un respiro di sollievo? «Sono pugliese e avverto che in Puglia c’è un clima nuovo, una sensibilità al paesaggio, una dimensione imprenditoriale interessante. Vendola ha saputo catalizzare questa voglia di fare. Inoltre, mi manca un’esperienza di programmazione su scala più ampia».

Niente fughe, dunque? «Napoli vive un momento difficile, ma mi ha dato moltissimo. E sono abituato a tirare le somme algebriche: quelle dove, se prevale il segno più o il segno meno, lo capisci solo alla fine, evitando bilanci affrettati».

Rimpianti? «Ho ricordi bellissimi. Della dolcezza che Napoli ha saputo comunicarmi. E di una forza autentica: in quale altra città sarebbe stato possibile che a un gruppo di giovanissimi fossero affidate tante responsabilità? Avevo trent’anni firmavo stati di avanzamento per 40 miliardi al mese... Non dovrei dirlo io, ma il nostro ufficio di piano è stato giudicato un’eccellenza tra le amministrazioni italiane. E non escludo che mi abbiano chiamato in Puglia anche per questo, in un’area di coordinamento dove s’incontrano tante diverse specificità. Nel clima di grandi novità che rende quello di Vendola un esperimento più collettivo individuale, spero di ritrovare la dimensione in cui ho avuto il privilegio di crescere.

Vedi anche l' articolo di Vezio De Lucia su eddyburg



Quali caratteri dovranno avere le città del XXI secolo per competere ai livelli più avanzati, in termini di innovazione e creatività, di coesione sociale e di sostenibilità ambientale? Limitando l’attenzione alla sostenibilità, ecco alcuni indicatori della European Commission per le Green Cities: mobilità eco-compatibile, aumento delle aree verdi, riduzione del consumo del suolo e dell’acqua, raccolta differenziata dei rifiuti, uso prevalente di energia pulita, coinvolgimento della popolazione nella diffusione di buone pratiche.

Sono sempre più numerose le città europee che rispondono a questi indicatori, ma nessuna è italiana. Mi limito a segnalarne solo alcune. Vitoria-Gasteiz, capoluogo della regione basca, città verde del 2012, dove circa il 75 per cento dell’edilizia popolare è già dotata di pannelli solari, il rapporto tra aree verdi e popolazione è di quasi 50 metri quadrati per cittadino, la popolazione residente (circa 250 mila abitanti) dispone di almeno un giardino a neppure 300 metri dall’abitazione, i mezzi di trasporto sono pubblici e collettivi, le piste ciclabili sono già decine di chilometri con l’obiettivo preposto di costruirne centinaia in tempi brevi.

La città spagnola succede a Stoccolma e ad Amburgo, rispettivamente capitali verdi nel 2010 e nel 2011, mentre Nantes è stata designata capitale europea verde del 2013. Tra le città finaliste troviamo Barcellona, Copenaghen, Oslo e tante altre, tra cui la città tedesca Freiburg, grazie soprattutto alla realizzazione dell’ormai noto quartiere Vauban, diventato uno studio di caso sia per le trasformazioni urbane eco-compatibili sia per i processi di partecipazione che si sono innescati in questi ultimi 15 anni e sia, soprattutto, per la capacità di mettere in pratica forme di mix sociale. Va sottolineato che queste buone pratiche producono ricchezza in termini di occupazione (sono necessarie professionalità tecniche e di governance), di attrazione (in queste città è cresciuto il flusso dei visitatori e degli abitanti), di profitto: è stato un modo per uscire dalla crisi edilizia perché le imprese si sono, anch’esse, riconvertite nella riqualificazione e nell’uso di materiali eco-compatibili.

Che cosa accomuna questi esempi? In termini generali il fatto che le città si stanno organizzando all’insegna: dei principi eco-sostenibili; della valorizzazione del tessuto comunitario e del mix sociale; della mobilità pedonale, delle piste ciclabili e dei mezzi pubblici e privati collettivi, anziché di quella automobilistica privata se non per le auto ecologiche; del fatto che gli edifici vengono costruiti solo dopo aver predisposto le infrastrutture necessarie e i sistemi di collegamento; delle domande sociali, garantendo alla popolazione una buona qualità della vita urbana, a partire dai «percorsi brevi» per la vita quotidiana. In termini specifici, il fatto che si costruiscono nuovi edifici esclusivamente per rispondere a precise domande abitative. Il che significa anche che prima di tutto si riqualifica il patrimonio preesistente. Ogni nuova realizzazione deve essere, inoltre funzionale alle specifiche esigenze sociali. Non consumare suolo (in particolare quello a vocazione agricola) e riutilizzare invece quello già compromesso è, comunque, l’obiettivo prioritario.

L’Italia è ben lontana da questi standard, anche se, soprattutto in alcune regioni del Nord, escludendo città come Milano, ci sono degli esperimenti interessanti che vanno nelle direzioni sopra richiamate.

E in Sardegna che succede? Un po’ ovunque si sta abbattendo il Piano casa regionale, probabilmente uno dei peggiori d’Italia, e che sta contribuendo a snaturare il volto (o, se si vuole, l’identità) dei centri urbani. Si pensi a Sassari e al fatto che in questi mesi si sta compiendo quel lungo (e a quanto pare inesorabile) processo di abbattimento che ha attraversato freneticamente la città almeno dalla fine degli anni ’50 fino agli anni ’80, e che ha determinato prima la scomparsa di gran parte del patrimonio edilizio dell’Ottocento e del primo Novecento (ad esempio le ville liberty), ora sta portando alla distruzione del tessuto urbano della seconda metà del Novecento. Si tratta di un autentico dissesto del quale le amministrazioni pubbliche appaiono disinteressate o, quanto meno, non in grado di limitare i danni.

Eppure in Sardegna c’è un pezzo di quell’Europa rappresentata dalle città verdi sopra citate. Mi riferisco agli esperimenti di bioedilizia che si stanno realizzando a Carbonia nel quartiere Bacu Abis. Villaggio dei minatori che estraevano il carbone necessario per rispondere alla crisi energetica nazionale degli anni ’30, le cui case razionaliste sono altamente insicure perché sottoposte ai continui cedimenti dovuti all’instabilità del sottosuolo. Il distretto AREA (ex IACP) di Carbonia ha avviato un’opera di ricostruzione delle case più lesionate con criteri antisismici, utilizzando materiali leggeri come il legno, applicando molti di quei principi che hanno reso alcune città europee esempi di eccellenza, coinvolgendo imprese che hanno dimostrato capacità di innovazione tecnica. Ad esempio, queste nuove abitazioni che verranno realizzati in neppure 100 giorni, avranno il fotovoltaico come fonte energetica primaria, una manutenzione meno onerosa, interni adattabili alle esigenze sociali.

È chiaro che un singolo caso non fa primavera, ma vale la pena evidenziare alcuni fattori che confermano l’idea che la Sardegna può competere con il resto d’Europa.

In termini sociali, si inverte la tendenza diffusa che chi ha meno capacità economiche vive in case povere e brutte, poste in luoghi segregati. Così non è nel caso di Bacu Abis. In termini urbanistici, queste case sono rispettose dei caratteri del quartiere e, più in generale, della città di Carbonia. D’altronde, ciò si realizza in linea con gli indirizzi dell’amministrazione locale che in questi ultimi anni è stata particolarmente attenta a rispettare l’identità del luogo. A ciò va aggiunto che tale rispetto ha fatto sì che non ci fosse un aumento di volumetria e neppure di consumo di suolo, in linea con gli indirizzi dell’Unione europea, eppure vi sarà un incremento degli spazi interni grazie alle avanzate tecniche e ai materiali utilizzati. In termini economici, queste abitazioni di qualità, sono meno costose ed anzi sono produttrici di energia pulita che, in parte, sarà messa a disposizione degli abitanti, in parte verrà immessa sul mercato. In termini di partecipazione, perché il processo di ideazione, progettazione e costruzione è avvenuto all’insegna del pieno coinvolgimento della popolazione interessata. Ciò è stato possibile perché i dirigenti di Area hanno scelto di rendere trasparente l’iter progettuale e decisionale.

I ragazzini dell’Isola bergamasca che si sparano in cuffia l’ultimo album degli Arcade Fire, The Suburbs, sognano lontane frontiere, e non sanno di starci già immersi fino al collo in quelle strofe, fra centri commerciali “come catene di montagne”. La parola sprawl nella pianura padana è stata recentemente declinata nell’ambiguo slogan della “città infinita”, carica di impatto ambientale, e in definitiva di tara per lo sviluppo, oltre la qualità della vita. Mentre per fare alcune cifre, in Lombardia, solo dal 1999 al 2005 sono spariti sotto cemento e asfalto 22.000 ettari: come aver costruito dal nulla una città più grande di Milano. In Emilia le cose vanno quasi peggio, e altre regioni seguono a ruota.

Il gruppo di Mauro Baioni e Massimo Bernardelli ha portato a termine il piano a “crescita zero”, manifesto di sostenibilità locale per un piccolo comune dell’Isola bergamasca, Solza (2000 ab. su 1,23 kmq), dove il consumo di suolo ha già raggiunto la soglia critica del 50% del territorio comunale. Baioni dirige la Scuola Estiva di Pianificazione di Eddyburg, che ha affrontato il tema dello sviluppo sostenibile applicato all’organizzazione del territorio, e il piano per Solza si inserisce nel solco di un dibattito consolidato, per quanto non ancora mainstream.

Le decisioni hanno un percorso trasparente: confronto con la popolazione, inquadramento in una prospettiva di area vasta, a promuovere cooperazione con gli altri comuni, e riassumendo il resto in pochissime parole, preminenza di qualità e risorse: l’una da aumentare in servizi, abitabilità, occasioni, le seconde da conservare e valorizzare.

Questo si traduce in ricerca di integrazione dei tessuti urbani e aperti nell’intero territorio comunale (sacche monofunzionali, sistema di mobilità auto-centrico, crescita puntuale e a cul-de-sac dell’urbanizzazione), a partire dai rapporti col centro storico, con le polarità dei servizi. Un ruolo particolare, nella nebulosa regionale dei capannoni sparsi, assume la domanda: ma servono davvero allo sviluppo locale? E la risposta di solito è NO. Servono, a volte, solo ai comuni, a far cassa, e sempre a spese della risorsa territorio, preziosa e insostituibile. Il PgT di Solza è stato adottato con delibera del 29 giugno 2010.

I cosiddetti “piani a crescita zero” nascono dalla domanda lecita: a cosa serve l’urbanizzazione dei terreni aperti? A cui spesso viene data la sbrigativa risposta: allo sviluppo economico locale. Risposta che molti, sempre più, ritengono quantomeno parziale e incompleta.

Le prime esperienze si possono far risalire agli anni ’90 con l’obiettivo dello zero consumo di suolo per il piano di Napoli coordinato da Vezio De Lucia (approvato nel 2004), o quello di Lastra a Signa senza aree di espansione (2004). Molto noto quello per Cassinetta di Lugagnano, nell’area metropolitana di Milano (approvato nel 2007, 1500 abitanti, circa 200 abitazioni aggiuntive, tutte in recupero/ristrutturazione) dalla cui esperienza nasce poi la Associazione Stop al Consumo di Territorio. Fra gli altri comuni che hanno iniziato percorsi “virtuosi” di questo tipo spicca per importanza quello di Firenze. Situazioni assai diverse, dove però si cerca una risposta pratica, non ideologica e di lungo periodo al tema della sostenibilità, utilizzando il territorio come nodo per affrontare altri temi, quello energetico, o ambientale in senso lato, o di rapporto fra sviluppo e qualità della vita.

Unica pecca, se così si può definire, di questa piccola “famiglia” di piani, è la pessima pubblicità che li riguarda: utopie ambientaliste, progetti velleitari destinati a tramontare insieme ai loro sponsor politico-culturali, ostacoli alle attività di trasformazione indispensabili alla nostra civiltà … solo per riassumere le critiche più frequenti. In realtà, il solo fatto di essersi tradotti in strumenti approvati di governo del territorio ne dimostra la validità.

http://www.comune.solza.bg.it/

23 marzo 1986

La minaccia allo Stelvio arriva da Bolzano

Gravi minacce all’integrità del nostro più grande parco nazionale, quello dello Stelvio. 134 mila ettari: splendido scenario di natura alpina tra i 700 e i 3.900 metri d’altezza intorno al massiccio dell’Ortles-Cevedale, 40 mila ettari di conifere e un ingente patrimonio faunistico che si estende parte in Lombardia, parte in Trentino-Alto Adige.

L’insidia viene dalla Provincia autonoma di Bolzano, che da sempre considera il parco un’imposizione centralistica (anzi fascista: fu istituito nel 1935) e non ha mai tenuto conto delle norme di tutela dell’ente che lo gestisce (l’ex azienda delle foreste demaniali del ministero Agricoltura e Foreste), autorizzando la caccia e tollerando il bracconaggio.

Ora la giunta provinciale ha deciso di varare un disegno di legge che in pratica disintegra il parco nazionale: dei 55 mila ettari della parte altoatesina solo 23.500, nella fascia montana più bassa, verrebbero declassati a “preparco” con ammessa la caccia: i restanti 8 mila ettari di fondovalle verrebbero liberati da qualsiasi tutela. In pratica il parco nazionale sarebbe ridotto ai nevai, ai ghiacciai, ai prati alpini, alle pietraie.

Questa è una prospettiva rovinosa, basata su un’interpretazione arbitraria delle norme di attuazione dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige, che subordina l’eventuale modifica dei confini del parco ad accordi con lo Stato, nel rispetto delle “effettive esigenze di tutela”: ma all’oltranzismo altoatesino ha sempre fatto riscontro l’inerzia del governo. Eppure la Provincia di Bolzano ha qualche merito nell’utilizzazione del territorio. Dimostra una maggior cura per il paesaggio e per i centri storici, ha abolito la pubblicità stradale, eccetera: ma al rispetto per il paesaggio dal punto di vista estetico corrisponde l’incomprensione per l’ambiente e la complessità dei suoi aspetti naturalistici.

3 settembre 1989

Sotto tiro il parco dello Stelvio

Alta nel cielo l’aquila si fa portare dalle correnti, nei canaloni si muove pigramente lo stambecco, più in basso il cervo bruca tra gli abeti: la contemplazione delle meraviglie della natura corrobora spirito e corpo.

Ma al silenzio solenne e alla pace della montagna fa riscontro la guerriglia degli uomini e delle istituzioni che rischia di frantumare l’integrità di quello straordinario ambiente alpino che è il parco nazionale dello Stelvio. Contro di esso si batte da anni la Provincia autonoma di Bolzano, nei cui confini rientrano 55 mila ettari, che non riconosce la gestione statale e considera il parco un’imposizione centralistica, romana, a dir poco fascista (fu infatti istituito nel 1935). In base a un’interpretazione arbitraria dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige e assistita da compiacenti rappresentanti dell’Unione internazionale per la protezione della natura (Uicn), la provincia ha predisposto un disegno di legge che disintegra il governo del parco, elimina da qualsiasi tutela 8 mila ettari di fondivalle, e divide il parco in due zone: la zona A, dai 2000 metri in su, vero e proprio parco nazionale, e la zona B dove sarebbero consentite le tradizionali attività, tra cui il taglio dei boschi, e ammessa la caccia.

Il parco vero e proprio verrebbe dunque realizzato al di sopra del limite della vegetazione, in pratico ridotto quasi esclusivamente ai pascoli alti, alle petraie, al deserto nivale. Contro questa rovinosa prospettiva si battono le associazioni e la direzione del parco che ha sede a Bormio: ma un’altra gravissima minaccia viene dalla provincia di Sondrio.

La lobby dello sci e dell’indiscriminato sfruttamento turistico vuole realizzare una smisurata “ski-area” tra santa Caterina di Valfurfa e Bormio, undici impianti di risalita e un centinaio di chilometri di piste, meccanizzando, degradando, disboscando anche questo versante del parco. I grossi interessi in gioco rischiano di aver ragione del parere negativo della direzione del parco e del ministero dell’Ambiente.

Era ordinario di “Valutazione e gestione dei progetti” al Politecnico di Milano ed era stato vicedirettore della rivista Urbanistica.

La doppia laurea, in Architettura ed Economia, gli aveva consentito di occuparsi di problematiche, spesso scivolose e ambigue, quali la programmazione complessa, la fiscalità urbanistica e la compensazione, con una grande capacità teorica e con uno sguardo acuto e critico, e sempre lungimirante.

Insieme abbiamo curato nel 1996 il volume “Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano”, quando il tema era ancora ignoto nel nostro paese e le aspettative in materia di rilancio di una pianificazione di area vasta non più gerarchicamente ordinata, ma costruita dal basso attraverso procedure interattive e partecipative e attraverso la costruzione di “visioni condivise”, sembravano cariche di promesse.

Oggi, in un contesto (quello lombardo e milanese) in cui le tristi vicende quotidiane sempre più testimoniano di una caduta dei valori etici e collettivi e di un processo di deregulation urbanistica senza eguali in Europa, mi piace ricordare a tutti i lettori di eddyburg questo studioso senza compromessi, questo docente appassionato ed estremamente apprezzato dagli studenti (nonostante la “complessità” del linguaggio) e questo insostituibile amico.

Maria Cristina Gibelli

"HO SEMPRE sentito il peso terribile dell’espressione era imprevedibile, impiegata da uomini la cui ignoranza è imperdonabile, che cercano solo di coprire le proprie responsabilità: perché, se l’uomo non può impedire tutto, può prevedere molto: e ben pochi sono i disastri di fronte ai quali non resta che chinarsi a piangere i morti". Questo scriveva anni fa il grande geologo francese Marcel Roubault, e questo si adatta più che mai all’Italia.

Un’Italia vittima da quarant’anni, a intervalli regolari, di alluvioni frane straripamenti, per l’ignavia dei politici e l’arretratezza dei pubblici amministratori: ai ricorrenti sussulti dell’opinione pubblica ha fatto riscontro la quasi totale indifferenza del mondo della cultura. E di fronte a tante rovine e a tanti lutti, chi torna a riflettere e a scrivere su questa tragica costante dell’Italia moderna prova pena e imbarazzo. La tragedia di Piemonte, Liguria e Lombardia viene ad aggiungersi a un elenco infinito, che è stato mirabilmente descritto, qualche anno fa dal Servizio geologico nazionale, pubblicato nel volume "Il dissesto idrogeologico e geoambientale in Italia nel dopoguerra", che andrebbe diffuso nelle scuole. Sicilia e Calabria nel ‘51; Polesine, novembre dello stesso anno; Calabria nel ‘53; Salernitano nel ‘54; Vajont nel ‘63; un terzo dell’Italia sott’acqua nel ‘66; Val d’Ossola nel ‘78; Val di Stava nell’85; Valtellina, luglio ‘63 e luglio ‘87; Genova e provincia, ‘76, ‘86, ‘87. Eccetera, e sono solo gli eventi più disastrosi. In totale quasi 4.000 morti (quasi 7 al mese), un costo di 35.000 miliardi per lo Stato: impiegati per lo più in opere di regimazione cementizia dei fiumi (che saranno causa di nuove sciagure), e per rabberciare alla meglio e per un’infima parte del territorio, i guasti maggiori. C’è un fatto emblematico che illustra la nostra incuria, ed è questo.

Il Servizio geologico nazionale che dovrebbe provvedere alla sicurezza di suolo e sottosuolo, esercitare prevenzione e consulenza, è stato per decenni composto da una trentina di persone (venti volte meno che in Francia e Gran Bretagna), e solo da poco è passato alle dipendenze della Presidenza del Consiglio: il piano per il suo potenziamento rimane sulla carta, e per di più è ospitato, insieme ai suoi preziosi laboratori, in un edificio del centro di Roma che da anni rischia di franare. Quanto costerebbe assicurare un minimo di sicurezza fisica all’Italia? Nel 1970 la Commissione De Marchi stimava necessario investire 10.000 miliardi in trent’anni, cifra che oggi i geologi ritengono debba essere almeno decuplicata. Quanto all’attuale governo non è particolarmente interessato al problema. La legge finanziaria in discussione stanzia 330 miliardi (dal Tesoro alle Regioni), più 304 miliardi dai Lavori Pubblici (in gran parte per il magistrato del Po), più 150 milioni (sic) per informazione studi ricerche. In tutto 634 miliardi, l’equivalente del costo di una ventina di inutili autostrade: per le quali l’Anas (oggi Enas) dispone di migliaia di miliardi di residui, una parte dei quali, come giustamente verdi e progressisti propongono, deve ad ogni costo essere trasferita alla difesa del suolo. E la difesa del suolo, per i lavori che comporta, dalla capillare manutenzione al rimboschimento, dalla pulizia degli alvei al monitoraggio eccetera, è una straordinaria fonte di occupazione: migliaia di posti di lavoro che costano un terzo di quelli dell’industria.

Se la colpa dello stato comatoso del nostro suolo ricade su tutti i governi che si sono succeduti nei decenni, quello che fin qui ha fatto il governo Berlusconi ci prepara al peggio. Condono edilizio, con presumibile sanatoria anche di quanto è stato costruito sul greto dei fiumi e sui versanti instabili; depenalizzazione della legge Merli, condono a buon mercato per gli inquinatori, blande sanzioni penali solo ai criminali, quelli che scaricano nelle acque rifiuti tossici e persistenti; attacco ai parchi nazionali (si è distinto il ministro Matteoli) presidio della salute territoriale, a cominciare dal parco d’Abruzzo, che è un modello di buon funzionamento; sospensione della legge Merloni, nata per assicurare trasparenza agli appalti, dopo Tangentopoli; protrazione dei termini della legge per la difesa dell’ozono; riduzione dei controlli sulle aziende a rischio; blocco dell’"Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente", con paralisi dei controlli e della valutazione di impatto ambientale. E c’è anche il condono per le dighe abusive, che sono 700 (!).

Con questi orientamenti, continueremo nella strada senza ritorno. Proseguirà l’urbanizzazione selvaggia che ha sommerso sotto cemento e asfalto il venti per cento (6 milioni di ettari) dell’Italia, riducendo del trenta per cento la capacità di assorbimento delle piogge. Continueremo a trasformare i fiumi in canali e a costruire nelle aree golenali (e chi si oppone, dicono vaneggiando quelli di Forza Italia, è affetto da "demagogia ecologica"). E invece che gestione e manutenzione, avremo appalti truccati e ruspe. Come ha scritto ieri Giorgio Bocca, c’è davvero qualcosa che non funziona "in questo sviluppo senza limiti del capitalismo e del consumismo, incuranti del bene comune".



Indice



CAPO I – PIANO PAESAGGISTICO TERRITORIALE REGIONALE (PPTR)

Art. 1 - Finalità del piano paesaggistico

Art. 2 - Procedimento di approvazione e variazione



CAPO II – OSSERVATORIO REGIONALE DELLA PUGLIA PER LA QUALITÀ DEL PAESAGGIO E PER I BENI CULTURALI

Art. 3 - Istituzione dell’Osservatorio

Art. 4 - Finalità e funzioni dell’Osservatorio

Art. 5 - Assetto organizzativo dell’Osservatorio

Art. 6 - Norme finanziarie relative all’istituzione dell’Osservatorio



CAPO III – DISPOSIZIONI IN MATERIA DI AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA

Art. 7 - Autorizzazione paesaggistica per la trasformazione degli immobili soggetti a tutela paesaggistica

Art. 8 - Commissioni locali per il paesaggio

Art. 9 - Rilascio dell’autorizzazione paesaggistica

Art. 10 - Procedimento di delega



CAPO IV - DISPOSIZIONI FINALI

Art. 11 - Norme finali

Lo scritto che segue è stato redatto dagli autori riprendendo il materiale di una intervista radiofonica svolta sui RAI3 per la trasmissione “Chiodo Fisso”. Le immagini che lo corredano, visibili nel file scaricabile in calce, si riferiscono alla esperienza svolta dalla città di Settimo Milanese, dove i concetti qui espressi sono stati sviluppati e sperimentati.

Una delle ‘cifre’ più significative che misurano il livello di civiltà raggiunto nel funzionamento di una città è dato dalla diffusione dell’uso della bicicletta.

Stiamo parlando di utenza effettiva della bicicletta e non di infrastrutture per la bicicletta: i metri di piste ciclabili realizzate sono, da questo punto di vista, poco significativi, perché l’uso della bicicletta ha piuttosto bisogno di un contesto generale che lo consenta, lo favorisca e lo induca. E siccome la bicicletta è un “mezzo gentile”, questo contesto non può che essere quello di una “città gentile”.

Bisogna quindi interrogarsi su cosa renda una città “gentile”.

La città gentile lo è anzitutto nei comportamenti, a partire da quelli dei suoi utenti più fragorosi, più rumorosi, più invasivi, che sono gli automobilisti. Una città dominata dai comportamenti aggressivi, dalla velocità, dai sorpassi, dal non rispetto delle regole, dalle doppie file, dalla prepotenza, non potrà mai essere una città ciclabile, per quanti chilometri di piste ciclabili si costruiscano.

Occorre quindi operare per ridurre e trasformare lo spazio dedicato alle automobili, con una attenta rigerarchizzazione delle strade, con il severo ridimensionamento degli spazi di circolazione e con l’inserimento di elementi diffusi di controllo dei comportamenti degli automobilisti.

La città gentile poi deve esserlo nella sua organizzazione urbanistica, che deve essere non segregata e segregante, con servizi ed opportunità distribuiti e vicini alle residenze, senza i gigantismi dei grandi centri commerciali che concentrano molte funzioni in pochi luoghi lontani e costringono a spostamenti troppo lunghi e necessariamente motorizzati.

Una corretta pianificazione urbanistica deve dunque in primo luogo garantire alla maggior parte dei propri cittadini la prossimità ai servizi di cui hanno bisogno: le scuole, il verde, i negozi per gli acquisti quotidiani.

La città è inoltre gentile nella qualità e nell’organizzazione dello spazio pubblico.

Ciò in primo luogo significa che quest’ultimo deve cessare di essere disegnato attorno all’automobile o deformato da quest’ultima, con spazi ovunque e comunque consegnati alla circolazione ed alla sosta dei veicoli e sottratti alle altre funzioni, con marciapiedi inesistenti e sensi unici che impongono lunghe deviazioni anche agli ‘incolpevoli’ ciclisti.

Significa poi omogeneità nelle modalità progettuali, qualità dei materiali, attenzione nella manutenzione e, soprattutto, presenza diffusa del verde urbano.

E’ un obiettivo al quale devono poter concorrere tutti gli interventi, dai più piccoli ai più importanti, che vanno ad incidere sullo spazio pubblico, siano essi maturati nell’ambito di uno strumento di settore (come il PGTU) che in quelli della pianificazione e progettazione urbanistica.

La città deve essere gentile nelle opportunità di mobilità, deve cioè garantire a tutti ed in tutte le condizioni in cui si trovano la possibilità di muoversi.

Noi viviamo in città nelle quali ci si può muovere solo in automobile perché il nostro sistema del trasporto pubblico è, come ben noto, gravemente insufficiente ed inefficiente, soprattutto nelle città di piccole e medie dimensioni.

Invece il trasporto pubblico è un elemento essenziale per la diffusione della ciclabilità, dato che l’integrazione tra i due modi consente ad entrambi di ampliare fortemente il rispettivo ambito di utilizzazione.

Infine la città è gentile nella coscienza dei propri cittadini, nel senso che andare in bicicletta è anche il portato di una consapevolezza diversa e più profonda della vita propria, di quella degli altri e delle condizioni che ne permettono oggi e nel futuro una dignitosa continuazione.

Sono ad esempio preziose in questo senso le iniziative come quelle della costruzione della città dei bambini e delle bambine, dallo sviluppo dei processi partecipativi, dal rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini.

Prima di concludere il breve ragionamento che si è cercato qui di sviluppare, pare necessario rispondere alle perplessità che possono derivare dall’aver parlato di ciclabilità senza dedicare nemmeno un accenno alle tecniche che la riguardano.

E’ chiaro che occorre disporre di un buon hardware per la ciclabilità, cioè una rete caratterizzata da continuità e connettività degli itinerari, completezza delle polarità servite, adeguatezza degli standard geometrici, sicurezza e comfort; caratteristiche anch’esse poco diffuse –come la gentilezza- negli esempi italiani; è chiaro che bisogna rendere maggiormente visibile il linguaggio proprio della bicicletta in città (si pensi semplicemente alla segnaletica); è chiaro che bisogna investire costantemente in promozione ed educazione all’uso della bici; è però altrettanto chiaro che tutto questo, calato in una realtà poco ‘gentile’ sarebbe destinato a raccogliere risultati ben modesti.

Speculazioni edilizie smodate, abusi, inquinamenti, torri eoliche a go go, opere pubbliche inutili, sono esito di condiscendenze e connivenze oltre che di processi decisionali corrotti. A bruttezza dei luoghi corrispondono non solo sciatteria e assuefazione ma dosi variabili di illegalità. Gli affari in danno del bene comune crescono, pure nel consenso. E chi dissente prova la stessa sensazione di Steve e Jane nel film "Blob" che avvisavano i concittadini del fluido gelatinoso tracimante e nessuno li ascoltava.

Roba da allarme rosso, nonostante la sottovalutazione della politica. Eluso da affermazioni vaghe e accomodanti, il buon governo del territorio è un genere rubricato tra le fisime di estremisti. Prevale l'idea che basti delegare un manipolo di ambientalisti: contano poco e danno un tocco verde alle assemblee. Mentre la tv ci rassicura: celebra la bell'Italia che resiste, le mete che valgono un viaggio, le bandiere al mare più blu. Di malaurbanistica si parla poco. Solo quando la terra scivola sotto le case o si scopre l'ecomostro utilissimo a offuscare le aggressioni ordinarie al paesaggio. La politica, il governo: chi si impegna contro le aberrazioni urbanistiche la paga. Due casi meritano attenzione. Renato Soru in Sardegna: il suo partito, il Pd, in parte avverso ai suoi atti per la difesa del paesaggio, lo ha contrastato (con il preambolo «coniugare ambiente e sviluppo») e lo ha portato alle dimissioni anzitempo. La Toscana, mito della buona amministrazione, è in una fase che ricorda l'esperienza sarda: nel recente passato troppi atti urbanistici controversi, alcuni sotto inchiesta, e qualche sconcertante programma. Anna Marson, nuovo assessore regionale decisa a contrastare l'assalto al paesaggio, è già accusata di eccessiva intransigenza («Pd contro Marson», su l'Unità del 15 agosto). Come se non meritasse rigore il paesaggio della Toscana, risorsa pubblica di lunga durata, motore della sua ricchezza.

La rincorsa è per prendersi i luoghi più preziosi. Ai bordi di un insediamento storico, in prossimità delle coste, nelle vigne con vista sono molto alte le suggestioni e il valore dell'investimento è dato dal sacrificio di quote di paesaggio - bene comune sull'altare del ciclo edilizio. Deborda l'insofferenza di chi rivendica libertà per questo sviluppo che premia pochi. E quando si almanacca con gli argomenti della prevaricazione delle autonomie locali è segno che spinte localistiche non stanno nel quadro delle regole translocali. Marson presidia quelle regole. Le parole di dirigenti del Pd in Toscana la indeboliscono, additando come dispotiche le sue iniziative. «Le regole dell'assessore fanno un po' Urss», fa lo spiritoso il presidente della Provincia di Firenze. Che ne pensano a Roma? Si affronterà il caso o mettiamo in conto un epilogo come quello sardo? È troppo aspettarsi una politica - di sinistra - che si impiccia, che non contraddice la sua tradizione nelle faccende locali fino ad annullarsi? Si può smetterla con la formula liofilizzata «coniugare e ambiente e sviluppo» che ciascuno adatta agli affari suoi?

Questo contributo rappresenta la sintesi di una ricerca volta a sottoporre a sperimentazione la capacità dei metodi configurazionali di fornire interpretazioni convincenti circa la distribuzione dei crimini e a costruire un modello multidimensionale di analisi dei principali fattori di rischio per la sicurezza urbana.

La ricerca è stata finanziata all’interno del programma internazionale “Territoires urbains et sûreté”, promosso dal Programme Urbanisme Construction Architecture (PUCA) del Ministero francese per lo sviluppo sostenibile, ed è stata condotta dal gruppo di ricerca dell’associazione Kallipolis, insieme al Dipartimento di Pianificazione dell’Università IUAV di Venezia e al DIEM dell’Università di Genova.

Il lavoro di ricerca muove dall’ipotesi, ormai largamente condivisa tra gli studiosi della materia, secondo cui è lecito associare lo sguardo e la presenza di persone in uno spazio pubblico a una forma efficace di prevenzione del crimine (Jacobs 1961). In questa ottica, diviene allora di fondamentale importanza studiare il movimento delle persone e comprenderne le dinamiche e il funzionamento, per ricavarne chiavi di lettura degli spazi urbani interessanti ed esplicative anche in riferimento al tema della sicurezza urbana.

Ciò che gli studiosi anglosassoni hanno verificato attraverso le analisi configurazionali, è che i fattori che rendono uno spazio più attraente di un altro, fino ad influenzare il movimento naturale delle persone e la distribuzione delle attività economiche sul territorio, non sono le sue caratteristiche locali e peculiari ma le sue relazioni configurazionali con il resto della struttura urbana (Hillier 1993). Queste relazioni, che rappresentano l’intelligibilità e la permeabilità dei sistemi urbani, sono espresse e sintetizzate da Hillier e dai suoi collaboratori attraverso la teoria dei grafi e sono, quindi, misurabili. La loro misurazione rende possibile una lettura, sotto forma di mappa assiale, del livello di intelligibilità e permeabilità di un tessuto rispetto a un altro e, dunque, della sua propensione a essere attraversato da flussi di movimento.

Lo studio, che è stato applicato a cinque aree nelle città di Torino e Genova, in primo luogo ha verificato la capacità dei metodi configurazionali di predire i movimenti pedonali e di interpretare i fenomeni della sicurezza, applicandoli a strutture urbane e contesti diversi da quelli in cui sono già stati oggetto di sperimentazione. In seguito è stato elaborato un modello di analisi multidimensionale accostando alle caratteristiche socioeconomiche, architettoniche e di percezione della sicurezza delle aree soggette allo studio, i valori configurazionali della maglia urbana, verificando la capacità del modello multidimensionale di interpretare i fenomeni legati al crimine, di indicare cioè le zone più o meno a rischio di vittimizzazione.

L’analisi ha portato alla luce alcuni risultati di rilievo. È stato innanzitutto verificato che esistono effettive corrispondenze tra la configurazione spaziale e i flussi di passaggio pedonale, sebbene con valori variabili tra le aree.

Dall’applicazione del modello di analisi multidimensionale sono emersi tratti comuni tra i diversi casi studio che hanno permesso di trarre conclusioni più generali sui fattori di rischio più rilevanti per la sicurezza urbana. Sono state cioè individuate categorie che esprimono fenomeni urbani correlati a criticità differenti e, di conseguenza, sono state estrapolate le problematicità a partire dalle quali sarebbe possibile formulare politiche per la sicurezza.

Il modello di analisi così costruito ha evidenziato situazioni di maggiore o minore rischio legate a caratteristiche specifiche del contesto. È così emerso che, laddove gli spazi pubblici presentano contemporaneamente fattori configurazionali che favoriscono i flussi di movimento pedonale, e una alta concentrazione di elementi funzionali ed economici che ne incoraggiano la fruizione, si verificano punte di carico che talora sfociano in congestione. I casi studio hanno mostrato che a questa tipologia di spazi corrisponde un numero elevato di episodi di vittimizzazione.

In secondo luogo, risulta che gli spazi caratterizzati da maggiore marginalità configurazionale e segregazione spaziale sono meno colpiti da episodi di vittimizzazione rispetto al primo gruppo. Tuttavia, è evidente che la rinuncia a frequentare un’area a causa della sua marginalità riduce il numero di crimini ma non ne aumenta certamente la sicurezza percepita.

Infine, i luoghi accomunati da una alta qualità urbana, un adeguato mix funzionale e flussi di movimento pedonali sostenuti ma non eccessivi, presentano valori molto bassi di vittimizzazione.

Da una parte la ricerca conferma quanto, in materia di sicurezza urbana, Jane Jacobs ed altri studiosi dopo di lei hanno sostenuto, ovvero che le politiche di prevenzione del crimine dovrebbero mirare innanzitutto ad assicurare la vivibilità delle città e dei quartieri, attraverso la promozione della vitalità dei luoghi pubblici e il miglioramento della loro qualità urbana. Dall’altra, la significativa interconnessione che emerge tra il disegno della maglia urbana, il movimento delle persone e la distribuzione delle funzioni, ci suggerisce la necessità di includere gli aspetti configurazionali nelle fasi di analisi e progettazione di interventi di riqualificazione urbana.

Renato Pollini erano uno di noi, unpezzo della nostra storia. La sua morte ci lascia un immenso vuoto e il ricordo di una grande stagione politica. Faceva parte, infatti, di quella generazione che ha costruito la democrazia italiana. Sin da 1946, a 21 anni, quando divenne consigliere provinciale, poi assessore ai lavori pubblici, fino all’elezione, nel 1951, a sindaco di Grosseto. Aveva appena 25 anni e riuscì a cambiare la città seguendo sempre la stella polare degli interessi generali. Quando altrove si imponeva uno sviluppo sregolato e predatorio, a Grosseto si puntò invece sull’idea di una città senza periferie, di uno sviluppo a dimensione umana. Un modello che vedeva nella partecipazione e nella forza della cultura i suoi perni essenziali. Erano i tasselli di quello che D’Alema ha definito il «riformismo reale» del Pci, che fu ragione del suo radicamento nella società. Nel1970 l’esperienza di amministratore di Pollini fece un salto di qualità: consigliere regionale e assessore alle finanze della Regione Toscana. Partecipò così alla fase fondativa di un importante istituto della nostra democrazia, che proprio con le elezioni del 1970 muoveva i primi passi. Dovette misurarsi con problemi forse più complessi malo fece sempre con coraggio, senza pause e tentennamenti. Aveva un forte spirito di servizio e fu per questo che arrivato alla maturità, essendouncomunista italiano, non scelse la tranquillità degli allori ma rispose alla richiesta di un impegno che costava molta fatica e nessuna visibilità: il tesoriere del Pci. Quell’incarico Renato lo svolse in anni complicati, quali furono per il Pci gli anni ‘80, fino alla crisi dei partiti. Ma lo portò avanti impegnandosi per salvaguardare e accrescere un patrimonio unico, costruito dai militanti del Pci. Non si accontentò mai di amministrare i soldi del finanziamento pubblico, ma continuò sempre a puntare sulla partecipazione, a considerare l’autofinanziamento come una forma insostituibile di esercizio della democrazia. Lo ha detto lui stesso più volte: è stata quella scelta a prevenire la degenerazione della politica, che pure in quegli anni si avvicinava alla sua esplosione. Pollini conobbe personalmente l’amarezza dei processi degli anni di tangentopoli. Fu inquisito otto volte e otto volte è stato assolto: la presunta benevolenza delle procure nei confronti del Pci, come Marcello Stefanini purtroppo non può raccontare, è quindi solouna livorosa favola propagandistica. Quando a febbraio festeggiammo a Firenze i suoi 85 anni, Renato ci ha ringraziato con queste parole che voglio ricordare: «Se ho potuto fare vari mestieri, li ho potuti fare grazie al Pci, perché è grazie al Pci che ho imparato quello che so. Vi ringrazio per tutto quello che mi avete insegnato». Ora che non ci sei più, caro Renato, siamo noi, con la tristezza nel cuore, a dirti grazie per sempre.

Postilla

È stato soprattutto un grande sindaco. Era diventato noto come “il sindaco dell’Ombrone” quando, dopo la paurosa rotta del fiume di Grosseto, si prodigò personalmente tra il fango e le correnti, in mezzo al suo popolo, e fu protagonista della ricostruzione dopo l’evento. Fu l’unico comune d’Italia che riuscì ad applicare il famoso articolo 18 della legge urbanistica del 1942 ed espropriare le aree per l’espansione della città (“una città senza periferie”, come la voleva), dopo anni di vertenze con il tribunale amministrativo.



Fu protagonista d’un riformismo che sapeva guardare a traguardi lontani e rispettare fedeltà internazionali che rendevano globali le lotte locali. Il sistema di asili nido e scuole materne introdotte a Grosseto contendevano il primato alle istituzioni per l’infanzia dei comuni rossi dell’Emilia Romagna. Un esempio limpido di un welfare urbano, ispirato alle città eque e vivibili delle socialdemocrazie nordeuropee, che sapeva durare (fu sindaco per 19 anni, dal 1952 al 1970, e seppe formarsi un successore, Giovanni Battista Finetti, che ne continuò l’opera con coraggio) perché sapeva che costruire una città giusta è un lavoro di lunga lena.

In occasione della festa organizzatagli per l'85° compleanno ha detto, "Io credo che la più grossa intuizione che abbiamo avuto è stata di avere subito un il Piano regolatore", per realizzare "una città senza periferie" e senza squilibri tra città e campagna. (vedi il filmato, al minuti 1'20").

Come amministratore del PCI fu coinvolto nelle vertenze giudiziarie di Mani pulite, uscendone pulito dopo otto processi.

Era amico di quanti, nei suoi anni, si occupava di urbanistica. Anche per questo vogliamo ricordarlo. Qui potete scaricare il link a un filmato realizzato da Ugo Sposetti per l'85° compleannio; potrete rivedere il suo volto e ascoltare le sue parole.

FIRENZE. Sui porti turistici e più in generale sull’urbanistica la tensione si impenna all’interno della maggioranza regionale. La presa di posizione di Matteo Tortolini, responsabile Ambiente e infrastrutture della segreteria regionale del Pd, che nella sua intervista di ieri al Tirreno ha duramente criticato le posizioni dell’assessora Anna Marson, e la reazione del sindaco di Piombino Gianni Anselmi non potevano certo passare inosservate. «A memoria d’uomo - commenta un politico toscano che preferisce non essere citato - non si ricorda che in Regione ci sia mai stato un attacco così pesante e diretto da parte del più forte partito della coalizione a un assessore della propria maggioranza». A pochi mesi dal varo della giunta Rossi, in effetti, nessuno poteva aspettarsi uno scontro così repentino tra l’esecutivo e il vertice del Pd regionale, tanto che, nell’imbarazzo generale, più di un consigliere preferisce defilarsi ed evitare commenti. Un commento, piuttosto gelido, arriva invece dal presidente Enrico Rossi. «Dopo la pausa estiva - dice il governatore - discuteremo nel merito delle questioni e sono certo che ci comprenderemo e troveremo un’intesa. Nel frattempo, mi limito a dire che il sindaco Anselmi e alcuni altri suoi colleghi hanno ragione a chiedere rispetto; allo stesso tempo, loro mi capiranno se dico che analogo rispetto merita ed è dovuto all’assessore Anna Marson». Pur non entrando nel merito, insomma, il presidente Rossi sembra far capire ancora una volta di condividere l’operato dell’assessora all’Urbanistica, anche se si preoccupa di smorzare una polemica che rischia di mandare in cortocircuito lo stesso Pd. Del resto, poche settimane fa, un’altra intervista della Marson rilasciata al Tirreno aveva provocato la dura reazione di alcuni sindaci della costa e Rossi sembra preoccupato di questa escalation.

In difesa del proprio assessore si schiera l’Italia dei Valori che definisce, quelli di Anselmi e Tortolini, «attacchi inutili e dannosi». Per il vicecapogruppo dell’Idv Marco Manneschi, «nel programma del presidente Rossi c’è un esplicito riferimento alla difesa dell’ambiente e ad una urbanistica sostenibile. E ciò comprende, ovviamente, ogni azione che la Regione deve sviluppare per mantenere inalterati, e se possibile incrementare, i vantaggi territoriali che un paesaggio unico al mondo hanno conferito alla Toscana. Sono vantaggi che verrebbero irreversibilmente compromessi se prevalesse la logica della cementificazione». Per Manneschi, «quello che l’assessore propone non è un modello sovietico ma un metodo trasparente e partecipato; un metodo che, come si è visto nella vicenda del Parco della Piana, trova i sindaci e le comunità tutt’altro che contrari. In tal senso, non possono essere condivisi, ne’nel merito ne’nel metodo, i continui attacchi di cui è oggetto l’assessore Marson e che si risolvono in attacchi all’azione di tutta la giunta regionale».

Sull’urbanistica si apre la prima crepa tra Pd e governo regionale. Già la prima intervista al Tirreno dell’assessore Marson, che aveva annunciato di voler rivedere il Piano di indirizzo territoriale e modificare la filosofia di gestione del territorio, aveva fatto registrare dei malumori.

Adesso, la nuova intervista rilasciata al Tirreno dall’assessore all’urbanistica crea un vero e proprio caso politico all’interno della maggioranza e dello stesso Pd. Anna Marson, che è stata indicata dall’Italia dei Valori ma la cui linea è condivisa con convinzione da Enrico Rossi, ha infatti espresso la volontà di rivedere anche il Masterplan dei porti con l’intenzione di ridurne l’impatto ambientale, ossia le volumetrie di cemento destinate a servizi e residenziale. L’idea della Marson, infatti, è di aumentare i posti barca attraverso la creazione di porti «leggeri», riservando l’offerta di ormeggio soprattutto a una clientela medio-bassa, ossia a imbarcazioni fino a sei/sette metri.

Di fronte alle parole della Marson, il malumore del sindaco di Piombino Gianni Anselmi, a cui si accompagnano i distinguo del suo collega viareggino (del Pdl) Luca Lunardini, è rilevante, ma ad aprire un caso politico sono le parole del responsabile ambiente e infrastrutture del Pd toscano Matteo Tortolini (vedi intervista a parte) che boccia su tutta la linea l’impostazione dell’assessore regionale, sottolineando che la politica non può decidere la lunghezza delle barche.

Anche la reazione di Gianni Anselmi è molto dura, anche nei toni, e se non ci sarà una ricucitura c’è da pensare che non mancheranno le scintille all’incontro in programma a Piombino a fine settembre sulla programmazione del territorio a cui è stata invitata Anna Marson. «La partecipazione - va giù duro Anselmi - non può consistere nella lettura dei giornali, ma nel dialogo e nella discussione. Cambiare impostazione è legittimo, ma bisogna capire se vogliamo utilizzare un metodo autoritativo o uno partecipativo, se vogliamo emettere editti o coinvolgere anche i Comuni e le Province. Io spero che la partecipazione non significhi escludere i sindaci dal dibattito sulla gestione del territorio». Sul metodo Rossi-Marson è più conciliante Luca Lunardini (Pdl), sindaco di Viareggio, dove è in programma un significativo allargamento del porto turistico. «Per certi aspetti - dice - il decisionismo di Rossi è apprezzabile, ma a patto che non si vogliano prevaricare le realtà locali, perché questo non sarebbe accettabile». Sul merito, Lunardini e Anselmi concordano: «Sono i Comuni - dice Lunardini - che conoscono il territorio e un controllo eccessivo da parte della Regione rischierebbe di ingessare la necessaria autonomia delle amministrazioni». Anselmi, che se la prende con il «francescanesimo nautico» della Marson, ha un sospetto: «Spero che vengano fatti salvi i percorsi pregressi, come il nostro progetto. Mi inquieterei se non fosse così».

«Rispetti il programma»

Tortolini, responsabile ambiente [sic]dei democratici: Firenze non può stabilire i requisiti dei progetti «La politica non deve decidere la lunghezza delle barche ormeggiate»

«LA POLITICA degli annunci è fragile e difficilmente produce reali innovazioni. Nel nostro programma non c’è scritto niente di quanto affermato dall’assessore Marson e quindi si pone una questione democratica: i programmi si possono cambiare, ma attraverso il confronto». A Matteo Tortolini, responsabile ambiente e infrastrutture nella segreteria regionale del Pd non piacciono le parole di Anna Marson.

Cosa c’è che non va?

«Non credo a un’alternativa tra porti con grandi cementificazioni e porti scarni, così come non penso che si debba scegliere tra dirigismo e deregulation. C’é una terza via, che io definisco riformista, che punta sulla cooperazione tra gli enti. Non spetta alla Regione stabilire i requisiti dei progetti. Il Pit, il piano di indirizzo territoriale, deve fissare dei paletti non negoziabili a cui tutti debbono attenersi; su questa base la Regione deve poi concorrere a indirizzare le decisioni di una filiera istituzionale alla quale devono partecipare Comuni e Province».

Allora, qual è il ruolo della Regione?

«C’è ad esempio il problema del coordinamento della rete territoriale dei porti; occorre porsi il problema di come si possano specializzare i vari approdi, differenziandoli tra di loro».

Ogni Comune dev’essere libero di costruirsi il proprio porto?

«A chi pensa di importare una strategia neodirigistica in materia, ricordo che la legge Burlando permette ai privati di presentare dei progetti per realizzare porti turistici in aree demaniali anche in deroga ai piani regolatori».

Non le pare che sia in arrivo un mucchio di cemento insieme ai nuovi porti?

«Non generalizzerei. Io credo che l’esigenza di realizzare porti “leggeri” si possa realizzare con strumenti diversi da quelli ipotizzati dall’assessore Marson; il problema è stabilire dove si fanno. Un porto realizzato lontano dagli insediamenti esistenti necessita di un’ingente volume di servizi, mentre se il legame è stretto, l’impatto può essere più leggero».

Come mai tutta questa avversione nei confronti dell’idea di modificare Pit e Masterplan dei porti?

«Sono radicalmente contrario all’idea che la politica debba decidere quanto debbano essere lunghe le imbarcazioni ormeggiate nei porti toscani. Dipende dalle caratteristiche dei fondali e anche dalle necessità di riconversione dei territori. A Piombino, ad esempio, proprio in ossequio all’attuale Pit, è stato modificato il progetto, che inizialmente prevedeva il nuovo porto in un’area sabbiosa lontana dal centro. Adesso, non sarà una sorta di cattedrale nel deserto, ma si integrerà con il tessuto urbano e con il distretto della nautica che dovrà nascere e su cui si gioca il futuro di Piombino. Chi dice che occorre fare solo porti per barche di sette metri, deve venire a dire alla gente che per altri 150 anni Piombino dovrà fare affidamento solo sulla siderurgia. La presenza dei megayacht porta con sé la nascita di una filiera produttiva vasta e articolata che produce lavoro e specializzazioni importanti».

Qualcosa di sostanziale sta cambiando, in meglio, nell’urbanistica toscana, fin dalle dichiarazioni del neo-presidente Enrico Rossi: «le villette a schiera non sono il futuro della nostra urbanistica». Meno lottizzazioni, insomma, e più impegno nel recupero/restauro, in una politica per la qualità. Strategia confermata dalla scelta di un assessore di solida competenza come la docente Anna Marson per ridare forza alla pianificazione regionale e locale. Troppo prossimi, oggettivamente, i Comuni agli interessi immobiliari locali per poter usare incisivamente lo strumento della tutela paesaggistica. Troppo indebitati, purtroppo, per non turare le falle di bilancio spingendo l’acceleratore dell’edilizia e degli oneri di urbanizzazione.

Così è venuto il primo stop alle 32 licenze edilizie a Montespertoli e poi quello al regolamento urbanistico di Rio Marina nell’Isola d’Elba. Stop al quale il sindaco elbano ha reagito commentando che così «si fa morire l’Elba». Una lamentela ben nota contro gli “immobilisti”, contro gli “imbalsamatori del paesaggio”. Amministratori locali che non riescono a guardare lontano, che ormai non vedono più il tanto, troppo cemento sparso a blocchi e blocchetti in uno dei paesaggi più strepitosi del mondo, “fatto a mano” quello agrario, determinante per il resto nei secoli passati e che in alcune zone (nel Chianti, o Chiantishire) si sta difendendo anche con l’evitare l’asfaltatura delle strade poderali, anche col ricostituire se ne occupa Paolo Baldeschi docente a Firenze fondamentali terrazzamenti collinari.

Inutile dire quanto un paesaggio integro sia essenziale per il turismo culturale, per l’enogastronomia, per l’agriturismo, per lo stesso export agro-alimentare (negli Usa e in altri mercati “maturi”). Ma il berlusconismo del mattone facile ha aperto falle anche a sinistra. Sulla costa, negli anni scorsi, si sono moltiplicate lottizzazioni proposte da interessi forti. La polemica più recente è quella scoppiata a Capalbio. Essa non ha davvero niente a che fare coi Vip: riguarda la tutela di 12 chilometri di spiaggia libera a dune dietro cui c’è, intatta, la straordinaria Oasi di Burano, gestita dal Wwf. Nuovi stabilimenti balneari esigono nuove strade e nuovi parcheggi, o la dilatazione di quelli esistenti. Per non parlare di un porto turistico alla foce del Chiarone, di un villaggio turistico e di un resort. Se ne discuterà lunedì in Comune. Perché non lo si è fatto prima di deliberare? La Toscana può conquistare sul campo la leadership della pianificazione attenta e intelligente. Tu


Niente mattoni a Castello. La Regione approva la variante al Piano d'indirizzo territoriale (Pit) con l'obiettivo di progettare la nuova pista dell'aeroporto e mette i vincoli su tutta l'area. "Una salvaguardia rispetto ad ogni altra previsione o progetto in attesa di ridisegnare questa parte di territorio", annuncia il governatore Enrico Rossi. Con la conseguenza che su quei terreni al di là del viale XI Agosto non si potrà costruire niente (a parte la Scuola dei carabinieri). Neppure i palazzi per i quali FondiariaSai e Ligresti avevano già ritirato le licenze edilizie. Fino a quando? Il vincolo, spiega Rossi, durerà per tutto il tempo necessario a tratteggiare un nuovo progetto urbanistico.

Si tratta di un vincolo che oggi non modifica lo stato dell'arte: dopo il sequestro dei terreni deciso dalla magistratura ormai nel novembre 2008 e dopo il blocco edilizio scattato il 24 scorso su tutto il territorio fiorentino per effetto del Piano strutturale che ancora non c'è, è di fatto il terzo capestro apposto su quel terreno. Con questa mossa però la Regione quasi "commissaria" Palazzo Vecchio in materia di riassetto urbanistico di Castello. Ed è il segnale quello che conta: la Regione fa sul serio, fermo restando il Parco della Piana l'aeroporto passa avanti a tutto. Edifici di Ligresti e Cittadella viola compresi.

Lo scalo di Peretola del resto, "quella roba lì" come la chiama Rossi con un moto di disprezzo, non è degna di Firenze: "Non è compatibile con la Toscana, così com'è non può essere la porta di questa regione". E' per questo, ribadisce per l'ennesima volta il governatore, che accanto all'inceneritore e al Parco della Piana la Regione ha ritenuto che l'adeguamento dello scalo fosse una priorità. "Tutto il resto è secondario", sostiene Rossi. 

Non solo: "Giorni fa ho preso l'aereo per Parigi, la Scuola dei carabinieri è proprio sotto, se si potessero aprire i finestrini ci si potrebbe tirare sopra qualcosa con una fionda. Non ci si può mettere tutto su quell'area. E la Regione ha già scelto l'aeroporto come priorità". Rossi non esplicita fino in fondo il suo pensiero, ma il senso è chiaro: non c'entrano gli edifici di Ligresti, non c'entra neanche la Cittadella. E la Fiorentina che mette fretta per avere la localizzazione allora? "Vorrei che anche la Fiorentina ne discutesse". Discutesse cioè di un'area come quella di Castello che non può includere tutto.

"Proponiamo al Comune un accordo di pianificazione che faccia scattare la salvaguardia e sarebbe un errore prevedere localizzazioni che pregiudicano l'adeguamento dell'aeroporto", conclude perciò Rossi.

Il presidente toscano conferma il sì alla Valutazione d'impatto sanitario (Vis) chiesta dal sindaco di Campi Adriano Chini: "E' giusto che siano fatte tutte le valutazioni, se serve anche quella d'impatto ambientale. Perché l'aeroporto è un gran bene, ma è anche un male come tutte le attività umane e le valutazioni devono essere fatte". Del resto, la delibera di integrazione al Pit approvata dalla giunta regionale, spiega Rossi, attiva una procedura di partecipazione.

E tutti i soggetti interessati verranno ascoltati, promette: "I sindaci, le Asl le associazioni, i comitati, le categorie economiche i ministeri, l'Unione piloti e l'Enac. Magari anche la Fiorentina". 

Il calendario della partecipazione, che sarà messo a punto dal garante regionale della comunicazione Massimo Morisi, sarà presentato entro il 10 settembre. E scatterà subito dopo. Ognuno potrà esprimere la sua, spendendosi a favore della pista parallela piuttosto che di quella obliqua. Tutto dovrà essere però concluso entro la fine di novembre e, da quel momento, sulla base delle opinioni e degli approfondimenti raccolti strada facendo, si aprirà la fase di vera e propria progettazione urbanistica del nord-ovest di Firenze. Tenendo sempre presente, ripete Rossi, che "Parco e aeroporto non sono in contraddizione". Chi è che deciderà alla fine la nuova configurazione di Castello?

L'ultima parola, in punta di diritto, è di chi la variante al Pit la fa e la approva. Cioè della Regione. Ma è chiaro che potrà farlo solo con un accordo sostanziale con Palazzo Vecchio. Anche se, con questa mossa che formalmente estromette Firenze dal ridisegno dell'area, la Regione si assume la responsabilità di dire no a Ligresti. Con tutto quel che ne consegue: mandare a carte quarantotto i suoi progetti, a costo di pagare poi contenziosi e penali. La Regione sta forse pensando a forme di compensazione per FonSai? "Vedremo, ma l'urbanistica contrattata - dice Rossi liquidando i laceranti dibattiti fiorentini degli anni Ottanta - è bene che rimanga una cosa del passato". Niente trattative con i privati dunque, il metodo Rossi non le prevede.

É consolante apprendere che dal PD viene una proposta, quella relativa alla riforma degli ordini professionali, che ammette anche le associazioni volontarie fra professionisti diversi. Almeno, consolante dovrebbe essere per chi ha, nel tempo, argomentato più volte circa l’inadeguatezza della figura-principe del Grande Architetto come ‘autore’ di urbanistica ‘di diritto’ – e di diritto tendenzialmente esclusivo. Nella patria del diritto d’autore, dove è semisconosciuto, per non dire applicato, il fai use o public domain d’oltreoceano, si tratta quasi di una proposta eversiva.

Ma a guardar meglio si vede poi dove cade questa proposta: in un paese dal quale, al pari della peste dai climi temperati, l’urbanistica si avvia a scomparire, e forse anch’essa, come il morbo, per anni.

Si vede l’oscurità dei grandi squarci di vuoto che promette di aprire l’ “integrazione” dell’articolo 41 della Costituzione sull’iniziativa economica, o l’ “aggiramento” dell’articolo 118 della Costituzione stessa, che combinati “costituzionalizzano” la liceità dell’abuso, purché sia compiuto in piena ‘responsabilità’,e fino a che, naturalmente ex post, non sia stato provato.

Ci si domanda,certo, chi mai sarà tanto dissennato da volere/potere aprire qualsivoglia tipo d’impresa in un paese (e in un continente) impoverito, spaventato, dal futuro oscuro e malcerto: sono davvero i controlli ex ante della pubblica amministrazione il problema. Naturalmente no, ma il plauso peloso degli imprenditori resta…

Guardando ancora, si vede il vuoto aperto dalla possibilità, data ai Comuni, di avvalersi anche loro (debitamente autorizzati dall’esecutivo di Roma) di quelle famose norme sui ‘grandi eventi’ che di recente in Italia hanno generato fra l’altro Draquila e il ddl contro le intercettazioni o legge-bavaglio: già, i Comuni potranno decidere “che cosa” sia da considerarsi per loro “grande evento”, e aggirare come per Draquila (ma come per il G8, come per gli Europei di nuoto, come per le Olimpiadi…) le leggi sugli appalti e ogni altro tipo di norma; indifferibilità e urgenza; emergenza; sicurezza nazionale… Più vicino, si vedono come morsi di tarme i vuoti aperti dalle norme sull’accatastamento dell’abusivo del dl 78/2010 (detto anche Manovra) – come pure da quelle sul taglio delle consulenze a carico degli enti locali.

Chi controllerà ‘ex post’ – chi verificherà la rispondenza alle norme urbanistiche dell’abusivo neo-accatastato, gli Uffici tecnici dei Comuni costretti a non assumere e a non avvalersi di consulenti? Di quei Comuni – questa volta i grandi – che già all’epoca del primo condono ( original) furono costretti a esternalizzare in blocco a società private la verifica delle masse di pratiche confluite ai loro Protocolli? Sulla carta, certo, per i geometri ci sarà molto lavoro – né più né meno come nel 1985 e dintorni; forse anche per ingegneri e architetti; un profluvio di accatastamenti e di autocertificazioni.

E l’Urbanista?, questa figura che già non era né carne né pesce né altro alimento, il cui lavoro consiste (dovrebbe consistere) esattamente nell’apporre le famose norme che giustificano oggi i perfidi controlli ex ante? Che fine farà (o ha già fatto) questo personaggio disgraziato, che ha sulla coscienza (udite!) il peccato grave e imperdonabile di apporre ostacoli alla miracolosa ripresa?

In realtà, l’urbanista è già “postumo”, e sopravvive a se stesso solo in alcune parti del paese le cui classi dirigenti sono intenzionate a non perdere del tutto la faccia – ovvero devono comunque distribuire qualcosa ai propri clientes pianificatori, oppure in quei grandi e costosi parcheggi che sono le università italiane, intente a formare stuoli di pluri-dottorati-masterizzati destinati ben che gli vada a popolare per brevi dolorosi periodi qualche call center, e, se hanno la casa dei genitori, a restarci.

La cosa singolare - vista dall’esterno – è che questi ‘mondi’ separati, queste ’nicchie’, paiono comportarsi come se nulla stesse accadendo – mentre non si tratta di questi mesi o di questi giorni, ma di una storia che continua da anni, e le cui vittime sono tra noi.

Spigoliamo da Repubblica tra ottobre 2009 e giugno 2010:

"Protagonisti di questa sorta di dolenteSpoon River da quell'al di là che è il mondo di chi viene privato del lavoro, e in cui moltissimi rischiano di precipitare, sono i giovanissimi della laurea breve, i diplomati e quelli delle scuole specialistiche. Ragazzi che, sui banchi delle università, hanno studiato come gestire i rischi ambientali e a cui ora non viene dato alcun ruolo nella società attiva."

"Da Strasburgo ci scrive un ragazzo che si è laureato in geologia e ha un dottorato in geofisica. 'L'Italia non ha bisogno di un sismologo, non ha bisogno di un esperto di geotermia e non ha bisogno di persone che studiano e sviluppano lo sfruttamento delle energie rinnovabili'"

"[...]alla metà di maggio, al Comune di Napoli, si sono presentati in 112mila per 534 posti. E in questi giorni al Comune di Varese sono arrivate 150 domande per un posto da educatore part time; a Busto Arsizio, dove cercano 16 tra vigili e impiegati, hanno scritto in duemila; a Treviso una folla di 857 persone si contende un posto da impiegato comunale".

E Draquila è lì, a certificare che, come scrive il ragazzo, “l’Italia non ha bisogno di un sismologo”.

Ma Draquila, con le sue new town, è lì anche a dimostrare, come nel favoloso racconto del Ministro per il Turismo Brambilla, l’Italia in realtà non ha bisogno neppure di un urbanista, dal momento che è il Presidente in Consiglio in persona a studiare a tavolino o dove che sia (comunque ad Arcore) il nuovo assetto della Draquila post-terremoto (terremoto?,ma non avevamo detto che non serviva un sismologo?...).

Figure postume, gli urbanisti, uomini o donne, zombie, morti viventi.

Ma – il punto è -, ma lo sanno? Ai nostri occhi arriva la luce di stelle morte: così, i pregevoli e ricchi siti o portali che si interessano alla materia.

Unica prospettiva realistica, per i loro curatori/frequentatori, una dimensione quietamente, rassegnatamente, fenomenologica: osservare e descrivere quel che succede. O per dir meglio: descriverlo fino a che rimanga legittimo farlo – con o senza iscrizione all’Ordine dei Giornalisti – con obbligo di rettifica entro le 48 ore (norma del ddl intercettazioni rivolta ai blogger).

Attrezzatevi!



Indice

TITOLO I - PIANIFICAZIONE TERRITORIALE ED URBANISTICA

CAPO 1° - FINALITÀ, OGGETTI E REGIMI URBANISTICI DELLA PIANIFICAZIONE TERRITORIALE ED URBANISTICA (PT ED U)

Art. 1 - Finalità e campo di applicazione

Art. 2 - Oggetti della PT ed U

Art. 3 - Regimi della PT ed U

Art. 4 - Ambiti di PT ed U

TITOLO II - I SOGGETTI DELLA PT E U

CAPO 1° - DEFINIZIONE DEI SOGGETTI DELLA PT E U

Art. 5 - Enti territoriali elettivi - attività di pianificazione

Art. 6 - Altri Soggetti attivi della PT e U

CAPO 2° - COORDINAMENTO DEI SOGGETTI DELLA PT ED U

Art. 7 - Soggetti proponenti il coordinamento

CAPO 3° - GLI UTENTI

Art. 8 - Utenti e processi di pianificazione

Art. 9 - Partecipazione degli Utenti ai processi di pianificazione e di valutazione

TITOLO III - GLI STRUMENTI E LE STRUTTURE OPERATIVE

CAPO 1° - STRUMENTI ISTITUZIONALI

Art. 10 - La Carta Regionale dei Suoli

Art. 11 - Documento Preliminare

Art. 12 - Quadro Strutturale Regionale

Art. 13 - Piano Strutturale Provinciale

Art. 14 - Piano Strutturale Comunale

Art. 15 - Piano Operativo

Art. 16 - Regolamento Urbanistico

Art. 17 - Piani Attuativi

CAPO 2° - STRUMENTI NON ISTITUZIONALI

Art. 18 - Piani e Programmi complessi

CAPO 3° - STRUTTURE OPERATIVE DELLA PT E U

Art. 19 - Progettazione e Valutazione

Art. 20 - Attuazione e Gestione

TITOLO IV - I MODI DELLA PIANIFICAZIONE TERRITORIALE ED URBANISTICA

CAPO 1° - CONTINUITÀ, ORDINARIETÀE CICLICITÀDELLA PT E U

Art. 21 - Continuità ed obbligo di controllo della pianificazione istituzionale

Art. 22 - Ciclicità ed interazione nella PT e U

Art. 23 - Rapporto Urbanistico

CAPO 2° - CONCERTAZIONE

Art. 24 - Modalità di concertazione

Art. 25 - Conferenza di pianificazione

Art. 26 - Accordo di Pianificazione

Art. 27 - Conferenze di Localizzazione

Art. 28 - Accordo di Localizzazione

CAPO 3° - MODALITÀ DI VALUTAZIONE

Art. 29 - Verifica di coerenza

Art. 30 - Verifica di compatibilità

Art. 31 - Il ciclo della valutazione

Art. 32 - Nucleo di Valutazione Urbanistica (NVU)

CAPO 4° - MODALITÀ DELLA PEREQUAZIONE URBANISTICA

Art. 33 - Finalità e contenuti della perequazione

Art. 34 - Ambiti, Distretti Urbani e strumenti perequativi

CAPO 5° - MODALITÀ DI FORMAZIONE, APPROVAZIONE, ATTUAZIONE E MODIFICA DEGLI STRUMENTI

Art. 35 - Modalità di adozione e approvazione della CRS

Art. 36 - Modalità di formazione, adozione ed approvazione della PT e U - del PS e del RU

Art. 37 - Modalità di formazione, adozione ed approvazione della Pianificazione Operativa (PO)

TITOLO V - NORME GENERALI E TRANSITORIE

Art. 38 - Disciplina delle aree prive di regime urbanistico

Art. 39 - Misure di salvaguardia

Art. 40 - Regolamenti Edilizi

Art. 41 - Sistema Informativo Territoriale (SIT)

Art. 42 - Modalità di definizione della CRS in fase di prima applicazione della presente legge

Art. 43 - Modalità di definizione dei QSR e PSP in fase di prima applicazione della presente legge

Art. 44 - Adeguamento degli strumenti urbanistici comunali in fase di prima applicazione della presente legge

Art. 45 - Norme transitorie per gli strumenti urbanistici adottati e/o approvati antecedentemente alla presente legge

Art. 46 - Interventi sostitutivi della Giunta Regionale

Art. 47 - Norme finanziarie per l’avvio dei procedimenti

Art. 48 - Abrogazioni

Art. 49 - Pubblicazione

EDOARDO SALZANO - Nell’opinione corrente Napoli è un disastro. Rifiuti, camorra, sporcizia fisica e morale, inefficacia della politica, amministrazioni allo sbando e in rissa tra loro. Questa sono i tratti che sembrano caratterizzare, nel pensiero comune, Napoli e, per traslato, l’intera Campania. Questa immagine è mille miglia lontano da quella del cosiddetto Rinascimento napoletano, del quale tu fosti partecipe e co-protagonista. So bene che oggi si tende a semplificare, a schematizzare, a ridurre la realtà (che è sempre complessa e variegata) a una icona: una sola immagine, meglio se a tinte forti. Credo che chi vuole agire deve anzitutto comprendere, e formarsi della realtà una visione il più possibile compiuta. Oltre lo scuro, c’è nella realtà della Napoli di oggi qualcosa che sia anche luce? O la Napoli del Rinascimento è solo il ricordo di una realtà che è stata possibile, ed è scomparsa senza lasciare tracce?

VEZIO DE LUCIA - Da oltre un anno, da quando la questione dei rifiuti ha raggiunto dimensioni oltraggiose (e mai davvero risolte), e dopo l’ultimo scandalo sull’appalto global service al gruppo Romeo, molti osservatori – giornalisti, scrittori, intellettuali, specialisti di varie competenze, analisti della società e del costume – concordano nel ritenere irreversibile la decadenza di Napoli (e dell’intero Mezzogiorno). Ci restituiscono l’immagine di una vera e propria tragedia etica e politica, di una città senza speranza, soffocata dalle immondizie, dalla camorra, dal cattivo governo. Sono gli ingredienti che hanno contribuito al successo planetario di Roberto Saviano. Ritorna, è vero, di tanto in tanto, ma sempre meno convincente, il mito di Napoli che produce cultura, arte, musica, cinema e teatro, e resta la fede imperterrita negli ideali giacobini del 1799. Ma continua a mancare, secondo me, un’indagine approfondita sul funzionamento della città per comprenderne davvero la sua realtà politico-istituzionale. In antitesi alla crisi dello smaltimento dei rifiuti e ai recenti episodi di corruzione, c’è almeno un importante settore dell’apparato comunale che opera bene, anche se in condizioni di evidente isolamento, ignorato dall’opinione pubblica, spesso e volentieri criticato dalla stampa, mal sopportato dal mondo politico e da quello accademico. Mi riferisco agli uffici urbanistici del comune di Napoli che, nonostante tutto, lavorano in modo eccellente, e provo a darne conto.

SALZANO - Cerchiamo di ragionare su questo aspetto, questo settore. É un settore importante, perché forse più di altri più effimeri, o nei quali il Comune ha capacità d’incidere meno diretta, agisce fortemente sul futuro della città. Le trasformazioni territoriali, che la politica urbanistica deve gestire, sono tra le meno reversibili di tutte quelle che le politiche comunali possano governare. A che punto stiamo in questo campo?

DE LUCIA - Prendo le mosse da un recente intervento di Roberto Giannì, coordinatore del dipartimento urbanistica del comune di Napoli, che ha presentato un sintetico ma efficace bilancio dell’urbanistica partenopea degli ultimi anni . Ha fornito dati molto importanti: negli anni successivi all’approvazione della nuova disciplina urbanistica, gli atti abilitativi a qualunque titolo rilasciati (autorizzazioni, concessioni e simili) è passata da poche decine a circa 500 all’anno, quantità poi in parte ridotta con l’estensione della Dia (denuncia inizio attività) agli interventi di ristrutturazione. La maggioranza degli interventi riguarda il centro storico, dove vige una normativa basata sull’analisi e la classificazione tipologica, che consente interventi diretti, cioè senza il preventivo ricorso a piani particolareggiati, com’era invece indispensabile secondo il vecchio piano regolatore del 1972 .

Inoltre, negli ultimi quattro anni, sono stati approvati o sono in via di approvazione ben 38 piani urbanistici attuativi e altri grandi progetti urbani, quasi tutti a carico dell’iniziativa privata, mentre negli oltre 30 anni di vigenza del precedente piano non fu approvato neanche un piano particolareggiato. E’ stato stimato che queste sole opere comportano investimenti privati per circa 2 milioni di euro, e che l’insieme delle iniziative a vario titolo in attuazione del nuovo piano regolatore, determinerebbe un incremento del patrimonio di attrezzature di quartiere per una superficie di 280 ettari, circa il venti per cento del fabbisogno quantificato dal nuovo piano regolatore.

Non sono notizie di poco conto. Dimostrano che, in materia di attività edilizia, si sta consistentemente sviluppando un’iniziativa privata integralmente legale, attività che Napoli non aveva forse mai conosciuto prima, almeno non in questa misura, e sicuramente non negli ultimi decenni.

SALZANO - Quello che dici stupisce chi si basa sull’immagine stereotipa di Napoli che è data dai media di massa. Intanto, sui giornali ho letto cose molto diverse: si parla di un piano che ha “ingessato” Napoli, e in particolare il centro storico, che il Prg ha perimetrato con ampiezza, rifacendovi alle acquisizioni culturali di Leonardo Benevolo e Anntonio Cederna e ai principi della Carta di Gubbio. Mi sembra però particolarmente interessante la sottolineatura che fai dell’attività edilizia “legale”, come se questo fosse una novità per Napoli.

DE LUCIA - In effetti, il mezzo secolo che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni Novanta si può pensarlo diviso in due periodi di uguale durata: fino al 1970 circa, l’attività edilizia era caratterizzata dall’essere apparentemente legale. Cioè, la grande speculazione che ha devastato il Vomero, Posillipo e il resto, quella degli scempi e delle mani sulla città, era la somma di edifici tutti dotati di licenza edilizia (allora si chiamava così), ma si trattava di licenze prevalentemente illegittime, cioè in contrasto con le norme vigenti, e quasi sempre i fabbricati erano per di più difformi dai progetti (illegalmente) approvati. Tutto ciò fu molto ben documentato dall’indagine sull’edilizia privata a Napoli, condotta nel 1971 dal ministero dei Lavori pubblici, indagine che purtroppo non ebbe la risonanza e non determinò le conseguenze (legge ponte, standard urbanistici) della più nota indagine sulla frana Agrigento del 1966.

Nel secondo quarto di secolo del dopoguerra (circa 1970 – 1995), a Napoli, l’edilizia privata apparentemente legale è stata quasi totalmente sostituita da due altre modalità che, negli anni precedenti, erano state marginali, mi riferisco all’edilizia abusiva, e all’edilizia pubblica. L’edilizia abusiva è del tutto diversa dall’edilizia speculativa dei decenni precedenti. Quest’ultima, seppure contaminata da fattori di illegalità urbanistico-edilizia, apparteneva pur sempre al mercato abitativo ufficiale; le imprese erano più o meno in regola e regolare era la compravendita degli immobili. Quella abusiva è invece un’attività criminale, direttamente o indirettamente connessa alla malavita organizzata. Ogni segmento del processo costruttivo era, ed è, contrario alla legge: dall’acquisizione delle aree al reclutamento e trattamento della manodopera, all’acquisizione dei materiali e dei mezzi di produzione, all’allacciamento e alle forniture dei servizi, alla vendita dei manufatti, e così di seguito. A Napoli, tra l’altro, non è mai esistito l’abusivismo chiamiamolo mutualistico, quello dei borghetti di Roma dei primissimi anni del dopoguerra, quello del neorealismo, l’abusivismo cosiddetto della domenica, quando intere famiglie di immigrati, per i quali era irraggiungibile il mercato abitativo ordinario (anche perché era ancora vigente la legge contro l’inurbamento), si aiutavano scambievolmente nella costruzione della proprie abitazioni “spontanee” . A Napoli, invece, l’abusivismo è stato quasi sempre espressione dell’imprenditoria delinquenziale.

Quanto all’edilizia pubblica, è bene ricordare che a Napoli ha spesso raggiunto risultati quantitativamente e qualitativamente significativi, a partire dal Risanamento . Ma negli ultimi anni, intorno all’edilizia pubblica opera una sorta di damnatio memoriae, oppure è stoltamente criminalizzata, come succede per le Vele di Secondigliano .

SALZANO - Ecco, le Vele a Scampìa. Nell’opinione corrente sono una delle brutture più pesanti, caso esemplare di un degrado sociale provocato dal tipo di insediamento. Qual è la tua opinione sulle Vele e sulla situazione sociale di Scampìa?

DE LUCIA - L’insofferenza per le Vele è analoga a quella manifestata in altre città d’Italia per quartieri più o meno coevi che hanno subito le stesse selvagge mutilazioni e sono stati oggetto di una irresponsabile gestione comunale: Corviale e Laurentino 38 a Roma, lo Zen a Palermo. Anche in quei casi si dà tutta la colpa agli architetti. Franco Ferrarotti ha scritto che Corviale resta “un monumento all’insipienza di chi ha scambiato i valori collettivi con la mancanza di rispetto per i diritti individuali”. È una bella espressione, ma ingenerosa, e forse sbagliata. È vero che si tratta di scelte architettoniche scomode, e oggi imbarazzanti, perché frutto delle speranze di riforma e di progresso che attraversarono l’Italia alla fine degli anni Sessanta. “La casa come servizio sociale”: da parola d’ordine dei cortei si pensò di trasformarla in pratica sociale, e con quell’idea si misurarono anche alcuni dei migliori architetti che hanno operato in questo Paese. Le Vele, lo Zen, Corviale, Laurentino 38 sono una coraggiosa configurazione di quella parola d’ordine e rara testimonianza degli ideali di un’epoca, poi travolti dal ripiegamento degli anni Ottanta. In altre società, e in altre epoche, la “monumentalizzazione” dell’edilizia ordinaria è andata a buon fine . E le cose potevano andare diversamente anche a Roma, a Napoli e a Palermo, se le amministrazioni comunali fossero state più energiche e consapevoli e non inerti, o forse complici.

SALZANO - Tu sei stato assessore alla vivibilità nella prima giunta Bassolino. Che cosa avrebbe potuto fare la giunta per affrontare il degrado delle Vele?

DE LUCIA - Secondo me, il difetto essenziale del quartiere Scampìa, di cui le Vele sono solo un dettaglio, dipendeva (e dipende) dal fatto che si tratta di un quartiere, anzi una circoscrizione intera, quella di Scampìa, fatta solo ed esclusivamente di edilizia pubblica. Ci sono solo case, nient’altro che case, e pochissimi servizi collettivi (solo con gli interventi per il dopo-terremoto gli abitanti hanno avuto un gran bel parco). Insomma, una specie di mostro. La nostra idea era di aggiungere altre funzioni, per quanto possibile importanti, pubbliche e private, prospettiva agevolata dalla bassa densità dell’insediamento e dalle possibilità di trasformazione (la demolizione delle Vele era solo una delle ipotesi). Contavamo anche sul fatto che la vicina fermata della metropolitana, collegando Scampìa al centro della città in tempi brevi, una volta inimmaginabili, avrebbe certamente reso meno complicato l’insediamento di nuove attività, e anche di abitazioni private. Debbo dire che la risposta dell’imprenditoria fu deludente. tante chiacchiere ma niente di concreto. un interlocutore importante fu invece l’università, e ricordo con riconoscenza e gratitudine l’allora rettore Fulvio Tessitore che accolse con entusiasmo l’ipotesi di affidare alla presenza degli studenti e dei docenti un ruolo decisivo nel riscatto del quartiere. Cominciammo a valutare la possibilità di trasferire due facoltà: agraria e biotecnologie. Molto, troppo lentamente, il disegno mi pare che sia andato avanti, almeno in parte. Nei giorni scorsi ho incontrato Vittorio Gregotti che mi ha detto di aver da poco consegnato al comune un progetto relativo alla facoltà di medicina per Scampìa.

SALZANO - Torniamo all’attività edilizia «legale». Allora, a Napoli il Prg ha incontrato l’interesse operativo dei costruttori onesti, quelli che in un altro contesto, a roma, Luigi Petroselli chiamava gli imprenditori che cercano «l’equo profitto», cioè che si affidano all’attività imprenditiva e non alla rendita. ricordo che un rapporto positivo con i costruttori napoletani era già stato sperimentato dall’équipe che ha lavorato al prg, e che allora riuscì a costruire una positiva e «pulita» collaborazione per la ricostruzione dopo il terremoto del 1980, a differenza di quanto allora avvenne nel resto della Campania.

DE LUCIA - La recente ripresa, a Napoli, dell’edilizia privata regolare, “pulita”, è indubbiamente una realtà rilevante. Chissà perché è sconosciuta, o è volutamente ignorata dai commentatori e dal mondo istituzionale. Non dagli imprenditori. La rassegna stampa comunale degli ultimi anni è fitta di articoli e di dichiarazioni di costruttori e di esponenti dell’associazionismo imprenditoriale che apprezzano l’azione amministrativa del capoluogo campano. Cito per tutti Ambrogio Prezioso, presidente dell’associazione costruttori che, all’indomani dell’approvazione del piano regolatore, esprime soddisfazione per la conclusione “di un lavoro lungo e difficile frutto di un’azione amministrativa tenace” e ricorda il contributo della sua categoria reso “con un energico spirito di cooperazione tipico di chi è consapevole che l’approvazione del Prg è fondamentale per ottenere certezze per il recupero della città, dal centro storico alle periferie” . Lo stesso Prezioso, intervistato da la Repubblica all’inizio del 2007, dichiara che “ora la pianificazione c’è e ci sono i progetti. Non resta dunque che ripartire” , e cita i trenta progetti presentati dalla sua associazione (e poi in parte approvati dal comune).

SALZANO - Il Prg non serve solo a regolare l’attività edilizia. Un problema molto pesante per gli abitanti – a Napoli forse più ancora che nella altre grandi città italiane dove non c’è una tradizione di buona urbanistica – è quello dell’accessibilità: l’esigenza della mobilità è cancellata dalla caoticità del traffico. La tua esperienza napoletana è cominciata, in occasione del G7 del 1994, con la scelta di adoperare i finanziamenti speciali per risolvere problemi ordinari. Tra questi, particolare evidenza ha avuto la pedonalizzazione di Piazza Plebiscito. L’eliminazione del traffico da questo luogo, fino ad allora congestionato e degradato, e la sua restituzione alla pienezza della vita cittadina è stato un risultato secondo me eccezionale. Ricordo che costò faticose discussioni, richiede una faticosa conquista del consenso all’interno stesso dell’amministrazione, e anche con categorie importanti della vita sociale della città. In che modo la questione della mobilità è stata affrontata nella successiva pianificazione, che conflitti e consensi ha provocato e quale esito ha avuto?

DE LUCIA - Certamente, alle informazioni sull’attività urbanistica ed edilizia bisogna aggiungere quelle relative alla realizzazione della nuova rete metropolitana. Una successione di atti sempre più perfezionati – il piano comunale dei trasporti del 1997, il piano della rete stradale primaria del 2002, e il cosiddetto piano “delle 100 stazioni” dello stesso anno – hanno orientato e determinato la progettazione e la realizzazione degli interventi. Il punto di partenza, nel 1994, erano due linee ferroviarie nazionali, due metropolitane (quella storica del passante ferroviario realizzato nel 1927 e le tre fermate della nuova linea 1), quattro funicolari, quattro linee tranviarie, per un totale di 45 fermate e solo cinque nodi di interscambio. Fra pochi anni la popolazione servita sarà raddoppiata (da 536 mila a 970 mila); sono previste dieci linee metropolitane, con 114 stazioni che formeranno 36 nodi d’interscambio ferroviario e 24 di scambio con parcheggi. Metà del programma è realizzato e si procede con inconsueta regolarità, operando in piena coerenza con le scelte urbanistiche, grazie in particolare alla tenacia di Elena Camerlingo che dirige l’ufficio studi e infrastrutture del comune.

Intanto, la restituzione ai pedoni di alcuni dei luoghi più congestionati della città e soffocati dalle automobili fa affiorare qualità perdute (da piazza del Plebiscito a piazza Cavour a piazza Dante). Dovrebbe essere cancellato lo scandalo delle strade interrotte da muretti in cemento armato in corrispondenza dei passaggi a livello (via Ferrante Imperato a S. Giovanni a Teduccio); sarà almeno in parte ricostruito il paesaggio del Miglio d’oro disastrato dalla linea ferroviaria costiera che ha isolato il mare dal retroterra. Infine, il litorale e il parco della nuova Bagnoli saranno direttamente serviti dalla rete su ferro.

SALZANO - Attività edilizia, mobilità, abbiamo affrontato due aspetti importanti della politica urbanistica napoletana. Ci sono altri aspetti che mi interesserebbe approfondire con te. La questione degli spazi pubblici, dei parchi, delle attrezzature civili. So che il piano ha dato il via a grandi progetti, come l’area ex industriale di Bagnoli e il grande sistema dei parchi urbani e territoriali, e le attrezzature già previste dal piano delle periferie che costituisce in qualche modo un’anticipazione del Prg. Mi sembra che a Napoli queste realizzazioni sono avvenute senza gli umilianti patteggiamenti che hanno caratterizzato altre esperienze, dove all’urbanistica “regolativa”, cioè comandata dalla mano pubblica, hanno preferito della contrattazione con la proprietà immobiliare, tra l’altro secondo modalità che hanno visto sempre le amministrazioni pubbliche subalterne rispetto agli interessi privati. Ti sarei grato se volessi fare un breve excursus sulle differenze tra l’esperienza napoletana e quella della altre grandi città italiane, da Milano a Roma.

Ma prima ancora, vuoi dirmi in che modo il Prg ha influito sulla rendita immobiliare? gli economisti dicono che la rendita è una dimensione economica insopprimibile, e che la questione sta nella risposta alla domanda: chi si appropria del valore determinato dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, se il pubblico o il privato. Ma è certo che anche la pianificazione incide sul maggiore o minore valore dei terreni, quindi sull’incremento della rendita. Che cosa puoi raccontare a questo proposito?

DE LUCIA - Ho già raccontato altre volte che un momento molto importante della mia vita di amministratore, anzi, più in generale, della mia vita di urbanista, fu quando, una bella mattina, mi telefonò il direttore generale dell’Iri per dirmi che nel bilancio 2006 della società del gruppo Iri proprietaria di Bagnoli, la Cimimontubi, il valore dei suoli sarebbe stato ridotto di circa il 30%, per adeguarlo alle minori possibilità edificatorie consentite dal nostro piano urbanistico rispetto alle loro aspettative (non era solo un gesto amichevole nei nostri confronti, allora esisteva ancora il reato di falso in bilancio ...). Il fatto che un piano urbanistico abbia determinato non l’incremento ma la riduzione del valore dei suoli mi pare un risultato strepitoso, purtroppo raro. Che dimostra come il controllo pubblico della rendita sia lo strumento decisivo dell’urbanistica, senza il quale si disegnano pupazzi.

SALZANO - L’esperienza napoletana mi sembra coerente con quella degli anni della “buona urbanistica”, quella dei piani di Astengo (Assisi, Bergamo), Detti (Firenze), Piccinato (Siena, Padova), Campos Venuti (Bologna), ma assolutamente anomala rispetto a due riferimenti: rispetto al degrado degli altri aspetti della situazione napoletana, dai quali siamo partiti, e rispetto ai piani urbanistici degli ultimi tempi, degli anni craxiani e post-craxiani. Vogliamo dare uno sguardo a ciò che si è

fatto altrove?

DE LUCIA - Il contrasto fra il generalizzato decadimento della città e il buongoverno urbanistico emerge accentuato dal confronto con le vicende urbanistiche di altre importanti città italiane, caratterizzate dalla prevalenza degli interessi privati e dall’arretramento dell’azione pubblica o, nei casi peggiori, dal palese asservimento agli interessi fondiari e immobiliari. E forse una rapida analisi puà essere utile per comprendere meglio il caso napoletano.

SALZANO - Cominciamo dalla “capitale morale d’Italia”, da Milano, che a prima vista mi sembra l’esperienza più lontana da Napoli e dall’eredità culturale cui a Napoli avete fatto riferimento.

DE LUCIA - Il comune di Milano ha da tempo sostituito il piano con la somma dei progetti. All’origine della nuova urbanistica sta il documento Ricostruire la grande Milano, redatto nel 2000 dall’assessorato allo sviluppo del territorio. Il capoluogo lombardo non è mai stato un modello di rigorosa amministrazione del territorio. Non a caso, si chiamò “rito ambrosiano” (la definizione è di Pietro Bucalossi, ex sindaco del capoluogo lombardo e poi benemerito ministro dei lavori pubblici) la specialità milanese di piegare le norme al variare delle circostanze. La tradizione, grazie anche a nuovi provvedimenti regionali, ha raggiunto negli ultimi anni soglie estreme. In buona sostanza, progetti e programmi pubblici e privati non sono obbligati a uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il piano regolatore che si deve adeguare ai progetti. Il piano regolatore è diventato, così, una specie di catasto che registra le trasformazioni edilizie contrattate e concordate. Siamo di fronte a un possente rilancio della rendita e della speculazione immobiliare, mistificata come modernizzazione, con le conseguenze che si possono immaginare dal punto di vista morale e della trasparenza delle procedure. Come a Napoli, negli anni di Achille Lauro, quando si affermava che “il piano regolatore serve a chi non si sa regolare”.

L’esito più clamoroso del nuovo rito ambrosiano è il progetto dell’area ex fiera, poi battezzata CityLife, con i tre grattacieli di Daniel Libeskind (quello detto il Curvo, 170 metri), di Zaha Hadid (lo Storto, 185 metri), di Arata Isozaki (il Dritto, 218 metri). Fulvio Irace ha scritto che

come nella parodia di un film di Verdone; il «famolo strano» sembra infatti es- sere l’unica regola certa di una professione che ha rinunciato alla pretesa etica di governare la trasformazione riducendo il governo del territorio a un problema di audience di massa. tanto da far venire in mente, davanti alle pretese di una tale “modernità”, l’acre battuta di Noel Coward in Law and order: «non so dove stia puntando Londra, ma più si alzano i grattacieli, più si abbassa la morale» .

L’importo a base d’asta dell’intervento era di 250 milioni di euro; il progetto vincitore (Ligresti, Toti, Generali, Allianz) prevede un valore, e quindi una cubatura, più che doppi, con il conseguente dimezzamento degli standard urbanistici. La scelta del progetto, insomma, ha mirato a massimizzare l’utile, non a migliorare le condizioni abitative dei cittadini (com’è avvenuto, per esempio, con il riuso delle aree dismesse della fiera di Monaco) .

L’assegnazione a Milano dell’Expo 2015 sta moltiplicando le operazioni immobiliari. Secondo Alberto Statera “sono venticinque i grandi progetti, lottizzati tra i gruppi immobiliari con le immutabili regole del manuale Cencelli – tot a me, tot a te – che stanno cambiando lo skyline meneghino insieme a quelli del potere e delle ricchezze immobiliari d’Italia" .

il colpo di grazia è stato sferrato con la proposta dell’assessore allo sviluppo del territorio Carlo Masseroli di incrementare in modo generalizzato gli indici di edificabilità, con il virtuale incremento della popolazione da un milione e 300.000 a 2 milioni di abitanti, con vincoli e regole ridotti al minimo.

SALZANO - Certamente, Milano è un estremo nella storia della pianificazione delle grandi città italiane. Possiamo dire che Bologna e Firenze sono l’altro estremo, la testimonianza di politiche urbanistiche sagge e lungimiranti: basta ricordare Armando Sarti, Giuseppe Campos Venuti, Pierluigi Cervellati per l’una, Edoardo Detti per l’altra.

DE LUCIA - Per gli urbanisti della mia generazione Bologna era un mito. Era un mito la consulta urbanistica dell’Emilia Romagna (che anticipò gli standard urbanistici del 1968), erano un mito gli uffici urbanistici comunali, i piani regolatori e i piani di zona di città grandi e piccole, le scuole di Reggio Emilia, il piano per il centro storico di Bologna degli anni Settanta. Furono mitici Giuseppe Campos Venuti e Pierluigi Cervellati. Ma tout passe, tout casse, tout lasse, tout se remplace. Bologna si è accodata al declino dell’urbanistica progressista dell’ultimo quarto si secolo e non è mai stata rimpiazzata. Secondo me, l’ultima manifestazione del primato bolognese fu la comparsa sulla scena nazionale della Compagnia dei celestini, un’associazione di urbanisti, molti giovanissimi che, all’inizio del secolo, si fecero conoscere per le critiche dure e circostanziate che muovevano alla politica urbanistica cittadina e regionale. In particolare, s’impegnarono a documentare “il livello di ipocrisia progettuale e politica” degli interventi di riqualificazione urbana che hanno “riqualificato ben poco se non il valore immobiliare dei suoli sui quali si è costruito” .

Un esempio del malgoverno urbanistico bolognese è il programma di recupero e di riqualificazione urbana di via Due Madonne, nel quartiere San Vitale, a est della città, in un’area compresa fra la tangenziale nord e la ferrovia per Ancona. Con l’approvazione del piano regolatore del 1985, furono raccolte le osservazioni dei proprietari e, modificando le precedenti più modeste previsioni, fu decisa una destinazione dell’area ad attività terziarie e telematiche – il World Trade Center – con un indice di 0,7 metri quadri a metro quadro. Quando, nel 1997, il comune votò il bando per “programmi integrati aventi l’obiettivo del recupero e della riqualificazione urbana”, i proprietari chiesero un cambio di destinazione per costruire alloggi invece del World Trade Center. La proposta fu accolta e il progetto definitivamente approvato nel luglio 2000 autorizzò un complesso edilizio formato, tra l’altro, da sette edifici residenziali (altezza massima 18 metri).

Uno dei fabbricati è localizzato lungo la tangenziale, al fine di formare una barriera contro il rumore prodotto dal traffico. La convenzione prevede che una parte degli alloggi debba essere di proprietà pubblica e riservata a edilizia sociale. “Ma dove sarà collocata la quota di edilizia sociale? Proprio nell’edificio vicino alla tangenziale: saranno le abitazioni dei meno abbienti a fare da schermo antirumore per le abitazioni più ricche!” .

Recentemente Bologna sta sperimentando il ritorno alla pianificazione. Nel luglio 2008 è stato approvato il piano strutturale comunale cui farà seguito il piano operativo, come prescrive la legge regionale del 2000. L’intenzione è di integrare in un’unica strategia interventi di trasformazione e di riqualificazione. Forse per Bologna il peggio è passato, ma non sarà mai più come una volta.

A Firenze, al centro della bufera urbanistica che nell’autunno 2008 ha travolto il sindaco Leonardo Domenici e la sua giunta sta, ancora una volta, il progetto dell’area ex Fondiaria, oltre 180 ettari nella piana fiorentina, in località Castello, accanto all’aeroporto di Peretola, il progetto contro il quale si era scagliato, nella primavera del 1989, Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci, mettendo in crisi il suo partito al governo della città. Fu un atto clamoroso, che in molti salutammo con entusiasmo. Faceva seguito a un importante discorso dello stesso Occhetto a favore della foresta amazzonica e per la riconversione ecologica dell’economia. Ci illudemmo di essere alla vigilia di una svolta risolutiva dell’urbanistica italiana, almeno quella di sinistra. Ma rapidamente tutto rientrò nella normalità, a Firenze furono riprese le proposte di prima con qualche aggiustamento e qualche mistificazione.

Dopo quasi vent’anni, la lottizzazione di Castello – intanto acquisita dal costruttore Salvatore Ligresti, dove sono previsti un milione e 400 mila metri cubi di nuova edificazione che comprendono la sede della regione e la scuola sottoufficiali dei carabinieri e circa 80 ettari di un parco-filtro ai margini dell’aeroporto – ha provocato una nuova gravissima crisi politica e giudiziaria. Sono stati inquisiti per corruzione il vicesindaco e un assessore, un altro assessore si è dimesso, si è dimesso anche il direttore de la Nazione a causa di compromettenti intercettazioni. Il piano strutturale (la prima parte del piano regolatore, secondo la legge urbanistica toscana) non è stato approvato. Il sindaco Domenici si è platealmente incatenato sotto gli uffici romani de la Repubblica per protestare contro alcuni articoli del quotidiano e del settimanale “l’Espresso” che criticano l’operato suo e dell’amministrazione fiorentina. Il tutto è cominciato nel settembre 2008, quando il patron della Fiorentina Diego della Valle ha presentato un progetto di Massimiliano Fuksas per un complesso di circa 80 ettari, battezzato cittadella dello sport, che comprende uno stadio da 50 mila posti, un centro commerciale, una galleria di negozi, un museo, un parco ricreativo del pallone, oltre ad attività ricettive e residenze. Dire di no al progetto sarebbe stato impopolare, ma dove trovare lo spazio disponibile? Comune e regione hanno proposto di utilizzare per il progetto Della Valle-Fuksas l’area destinata a parco nella lottizzazione di Castello, ma il consiglio comunale non ha approvato e tutto è stato rinviato alla prossima amministrazione, dopo le elezioni del giugno 2009.

Paolo Baldeschi ha scritto che “il caso Fondiaria è l’ennesima dimostrazione che a Firenze prima si stabilisce l’edificabilità di un’area in termini di metri cubi patteggiati con i privati e poi si cercano utilizzazioni che assicurino ritorni economici a breve termine. Da qui il balletto delle destinazioni dove predominano incoerenza e improvvisazione e un ingente spreco di denaro pubblico per progetti non realizzati” .

SALZANO - Veniamo alla capitale d’Italia. Roma ha sempre aperto strade alla pianificazione. Ricordo il Prg del 1962, che introdusse gli standard urbanistici e una prima sperimentazione del programma pluriennale d’espansione. E negli anni di Rutelli e Veltroni?

DE LUCIA - Il nuovo piano regolatore del comune di Roma, al quale si mise mano nel 1993, è stato approvato soltanto negli ultimi giorni dell’amministrazione di Walter Veltroni, alla vigilia delle elezioni del 2008 vinte da Gianni Alemanno. Nei tre lustri di governo del centro sinistra, la politica del Campidoglio è stata come quella di Milano, con l’aggravante dell’ipocrisia, si praticava la contrattazione contrabbandandola per politica di piano (pianificar facendo è slogan che ha accompagnato l’esperienza romana). Ma la colpa più grave dell’amministrazione capitolina è stata nel non aver posto alcun limite al consumo del suolo agricolo o in condizioni naturali, comunque non ancora urbanizzato. Roma perde abitanti da trent’anni, ma il nuovo piano prevede un incremento di circa 70 milioni di metri cubi (pari al 10 per cento del volume preesistente) e un’espansione di almeno 15 mila ettari (pari al 36 per cento del suolo precedentemente urbanizzato). Un’espansione quindi a bassa densità, in tutte le direzioni, che si salda ai comuni limitrofi. L’Agro romano, lo spazio che da sempre ha isolato Roma dal resto del Lazio, la più importante risorsa archeologica del mondo, è massacrato. Intanto il centro storico continua a espellere abitanti – che vanno a vivere in periferie sempre più lontane – cedendo spazio ad attività e servizi, in particolare turistici e commerciali, che hanno snaturato il cuore della città. Lavoro dentro, abitanti fuori, è questo il modello che si consolida ogni giorno di più, con conseguenze insostenibili in termini di tempo destinato agli spostamenti, di inquinamento, di stress, di malessere urbano.

Paolo Berdini ha raccontato e documentato compiutamente come si è sviluppata la vicenda romana : le aggiunte continue al piano in formazione, il ricorso agli accordi, alle intese, alle compensazioni, alle perequazioni, alla difesa di inesistenti diritti edificatori. È senza fine la lista degli istituti derogatori che si sono utilizzati per disseminare insediamenti in ogni dove, in genere anticipati da centri commerciali, sempre più grandi, negli ultimi anni se ne sono costruiti trentuno. Le critiche di Berdini sono state poi riprese e divulgate da un efficacissimo servizio di Report che ha sconcertato il mondo politico e l’opinione pubblica.

Accanto a Berdini e a Report, va ricordato il recente libro di Walter Tocci, vicesindaco di Roma dal 1993 al 2001 (sindaco Rutelli), poi autorevole parlamentare del partito democratico, che affronta le questioni cruciali della politica urbanistica della capitale, gli errori commessi, le occasioni perdute, la subordinazione agli interessi fondiari (“A Roma la forza unificante dell’economia del mattone ha sempre vinto sulle differenze degli ordinamenti politici”) . Secondo Tocci, a Roma si è formato “uno dei più grandi esempi di sprawl in Italia e per certi versi anche in Europa. È paragonabile a quello dell’area milanese e a quello del Nord-est, ma prende gli aspetti peggiori di entrambi, la forte gravitazione del primo e la bassa densità del secondo”. Il nuovo piano regolatore di Roma non è neppure un nuovo piano, ma un’ennesima variante di quello del 1962, di cui si condivide la forte geometria espansiva. “Attuare oggi quelle previsioni urbanistiche – scrive Tocci – è in un certo senso più grave che averle pianificate negli anni sessanta”: nessuno di noi, critici da sempre del piano di Roma, aveva osato arrivare a questa conclusione.

SALZANO - Torino mi sembra un caso un po’ diverso dai precedenti. Lì la pianificazione sembra essere ancora uno strumento adoperato con un certo rigore, sebbene anche lì ci sono molte critiche, sia nei confronti del Prg vigente sia, soprattutto, per la sua attuazione.

DE LUCIA - É vero, Torino è un caso molto diverso da quelli precedenti, ma vale la pena di parlarne soprattutto perché dimostra che la vigenza di un piano regolatore è comunque un fattore di garanzia e di trasparenza. Mi riferisco in particolare al modo in cui si è sviluppata negli ultimi anni la contrastata vicenda dei nuovi grattacieli proposti nelle aree centrali di Torino in contrasto con il piano regolatore approvato nel 1995. È un piano che aderisce dichiaratamente a un modello di sviluppo post-industriale, assumendo la produzione dei servizi come settore portante dell’economia cittadina. Prevede infatti il sostanziale azzeramento delle aree industriali, sostituite da quasi 900 ettari di attività terziarie. La cosiddetta Spina Centrale (un lungo corridoio in direzione nord-sud, a cavallo del passante ferroviario interrato) è il luogo privilegiato per l’insediamento di nuove abitazioni e di funzioni rare e di comando, con l’aspirazione ad assumere rilevanza simbolica a scala nazionale e internazionale. Non sono mancate contestazioni alla filosofia e alle scelte del piano L’assenza di riferimenti all’assetto dell’area metropolitana; il riconosciuto protagonismo della grande e piccola proprietà fondiaria; il rafforzamento del ruolo dominante del centro cittadino a svantaggio di un equilibrato rapporto con il territorio regionale; il ricorso a densità insediative abnormi: sono queste le critiche prevalenti e più convincenti .

Ma qui interessa porre in rilievo che, a differenza di Milano e di Roma, nell’esperienza del capoluogo piemontese non è mai stato in discussione il rispetto del piano, né si è fatto diffusamente ricorso a istituti derogatori. La lunga e partecipata discussione a proposito dei grattacieli si è sviluppata intorno alla necessità o meno di apposite varianti allo strumento urbanistico, senza scorciatoie. Il riferimento condiviso al piano regolatore è la ragione, secondo me, dei buoni risultati ottenuti dall’opposizione ai grattacieli. Com’è noto, l’unico per ora approvato è il grattacielo Intesa-San Paolo a Porta Susa (altezza 180 metri), a lato della Spina Centrale e le procedure seguite sono state quelle di un’ordinaria variante al piano regolatore (che limitava l’altezza a 70 metri). Il movimento sviluppato intorno al comitato “Non grattiamo il cielo di Torino” è esemplare e dispiace che qui possiamo ricordarlo solo con brevi cenni. A favore dei grattacieli si erano dichiarati il sindaco Chiamparino (“C’è chi vorrebbe vedere in città ancora pascolare le pecore”) e la presidente della giunta regionale Mercedes Bresso (“Chi è contrario pensa ancora ai dinosauri”) ma l’opposizione a mano a mano più vigorosa alla fine ha raggiunto risultati all’inizio impensabili. È stato ripetuto che la Mole Antonelliana, piaccia o non piaccia, fa parte della storia di Torino, e il suo rapporto con lo sfondo delle Alpi e con la città non possiamo “superarli” con una nuova immagine che oblitera quella che abbiamo ereditato. Non è nella disponibilità della nostra generazione, ce lo inibisce la nostra cultura: altroché sostenitori delle pecore in piazza San Carlo.

Grazie alla forza e alla qualità del movimento, dopo l’approvazione del grattacielo Intesa-San Paolo, il consiglio comunale ha accolto una delibera di iniziativa popolare di sostanziale moratoria sui progetti di grattacieli. Vi si legge infatti che “in tutto il territorio comunale, fatti salvi gli interventi già autorizzati con specifici provvedimenti (grattacielo San Paolo, n.d.r), non dovranno essere consentite nuove edificazioni, o sopraelevazioni, che superino l’altezza di m. 100, fatti salvi i limiti più restrittivi già previsti”. In un ambito più ristretto intorno alla Mole Antonelliana, sono consentite altezze massime di 80 metri.

SALZANO - Mi sembra che dal confronto con le politiche urbanistiche delle altre grandi città quella napoletana appare chiaramente come un’anomalia: un’anomalia positiva, una volta tanto. La prima domanda che scaturisce da questa analisi è: come mai nessuno sembra accorgersene? Come mai questa orrenda semplificazione, che di Napoli vede solo il brutto e lo sporco?

DE LUCIA - Non so se le informazioni raccolte nel paragrafo precedente sulle città italiane dove si pratica correntemente l’urbanistica contrattata sono note a coloro che criticano l’esperienza napoletana. Certo è che a quanti decantano le magnifiche sorti e progressive del modello romano o di quello milanese, a quanti si appassionano alla gara a chi il grattacielo ce l’ha più lungo o più storto: a tutti costoro una vicenda come quella napoletana, fondata preminentemente sulla correttezza amministrativa e sull’equilibrato rapporto fra imprenditori e uffici comunali, deve evidentemente apparire come affetta da arretratezza e da rifiuto della modernità.

Uno che dissente esplicitamente dall’urbanistica napoletana è il direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco Demarco. Sul suo giornale, commentando il crollo di un edificio a Montecalvario nel luglio 2008, ha scritto quanto segue.

“Sarebbe fin troppo facile, ora, polemizzare con quanti, nel tempo, si sono tenacemente opposti a ogni progetto di modernizzazione urbanistica della città, e in nome di una conservazione del patrimonio edilizio hanno favorito il dilagare del degrado e dell’abusivismo. Non è il caso di riaprire vecchie ferite. E tuttavia una questione va posta. Ed è la seguente. Da oltre un quarto di secolo un gruppo di urbanisti e di architetti rappresenta la continuità nel governo urbanistico della città. È quel gruppo definito, in un recente libro di Gabriella Corona, «I ragazzi del piano». Del piano regolatore, per intenderci. Da quando questo gruppo governa di fatto la città si sono succeduti sindaci comunisti e di pentapartito, Bassolino e Iervolino. Convinti della produttività economica e sociale dell’ambientalismo, i ragazzi del piano si sono strenuamente battuti perché non un mattone si eliminasse o si aggiungesse nel centro storico, e perché nulla prendesse forma a Bagnoli. A loro va posta una sola domanda: è questa la città che avevate in mente? Perché se è questa, è bene che si sappia che non è una bella prospettiva passare dai cumuli di immondizia ai cumuli di macerie” .

SALZANO - Perché dai tanta importanza a un intervento come questo? Espime in modo abbastanza piatto un’ideologia corrente: ciò che serve è la “modernizzazione”. Modernizzerebbero anche il Partenone. Non hanno capito niente dell’importanza della storia rappresentata nella materialità del territorio, ai fini della conosccenza del mondo in cui viviamo e della nostra capacità di trasformarlo. Bisognerebbe invitarli a leggere il bel libro di Piero Bevilacqua sulla “Utilità della storia”. Ripeto, perchè ti riferisci a questo brano?

DE LUCIA - Semplicemente perché Demarco enuncia critiche cir- costanziate e il suo testo possiamo assumerlo come rappresentativo del pensiero di altri detrattori dell’urbanistica napoletana che non perdono occasione per affermare che il piano ha «ingessato» napoli e in particola- re il centro storico. uno fra i più tenaci è paolo Macry, che talvolta se la prende personalmente con me. altri dichiarati avversari del piano sono gli economisti Mariano D’Antonio e Massimo Lo Cicero e l’attuale assessore regionale alla Cultura Claudio Velardi. Comunque, prima di replicare a Demarco, è bene ricordare che «i ragazzi del piano» sono un gruppo di tecnici, funzionari comunali, che cominciarono a lavorare insieme negli anni dell’amministrazione di Maurizio Valenzi (quando erano davvero ragazzi), e si deve a essi, come hai ricordato, il cosiddetto «piano delle periferie», approvato dal Consiglio comunale prima del terremoto del novembre 1980 e poi in larga misura realizzato con gli interventi per la ricostruzione post-sismica (di cui si occuparono gli stessi «ragazzi del piano»). Con la prima amministrazione Bassolino hanno partecipato alla formazione del nuovo piano regolatore e sono attualmente impegnati nella sua attuazione. rappresentano quindi un raro esempio di consolidata continuità tecnico-amministrativa, una delle ragioni dell’efficacia dell’esperienza urbanistica napoletana..

Torniamo all’articolo di Marco Demarco e proviamo a rispondere, punto per punto. In primo luogo, la conservazione del patrimonio edilizio, scrive Demarco, favorisce il dilagare del degrado e dell’abusivismo. Una tesi sbalorditiva, assolutamente infondata, l’abusivismo fiorisce laddove è tollerato dai pubblici poteri, indipendentemente dalle politiche di conservazione o di espansione. A Roma, dove, com’è noto, l’attività edilizia ha avuto uno sviluppo vertiginoso e i problemi della tutela del patrimonio storico sono affrontati con disinvoltura – basta ricordare il contestatissimo nuovo involucro dell’Ara Pacis sul lungotevere di Ripetta o lo sventramento del Pincio per ospitare un megaparcheggio (opera quest’ultima poi bloccata dal sindaco Alemanno) – a Roma, le domande del condono 1994-2003 sono state più di 85.000, una quantità inverosimile, quasi la metà dell’abusivismo nazionale, mentre, a Napoli, sono state circa ottomila.

In secondo luogo, Demarco sostiene che i ragazzi del piano si sono strenuamente battuti perché non un mattone si eliminasse o si aggiungesse nel centro storico. Ma abbiamo ricordato sopra che la maggioranza delle domande di atti abilitativi approvate in vigenza della nuova disciplina urbanistica (consistentemente aumentati rispetto all’ancien régime) riguardano il centro storico. Proprio quel centro storico che durante tutti i decenni di vita del vecchio piano regolatore del 1972 era rimasto, allora sì, del tutto bloccato. Perché Demarco non si informa? Primo requisito del buon giornalista non dovrebbe essere la completezza e la qualità delle sue informazioni?

Ed eccoci al progetto Bagnoli che, secondo Demarco, non prende forma sempre per colpa dei ragazzi del piano. Ma egli sicuramente sa che – dopo l’approvazione del piano particolareggiato redatto dagli uffici comunali – l’operazione Bagnoli è gestita da una società ad hoc, caratterizzata soprattutto dalla lentezza esasperante con la quale opera. Da almeno un lustro il parco di Bagnoli doveva essere una realtà, si continua invece a tergiversare. Secondo me, la verità è che, in fondo, aldilà delle dichiarazioni rituali, quasi nessun esponente del Palazzo condivide davvero il progetto Bagnoli e si cerca l’occasione buona per rimetterlo in discussione. Ben due autorevoli soggetti, il Cresme e Rothschild-Acb Group, furono incaricati di verificare se le previsioni del vigente piano particolareggiato fossero davvero vantaggiose per l’interesse pubblico, anche dal punto di vista economico e finanziario, e i risultati furono nettamente positivi. Ciononostante, ogni occasione è buona per proporre incrementi di cubatura. Negli anni passati, la Coppa America parve fatta apposta per rimettere in discussione il progetto. Una caterva d’incompetenti, economisti da passeggio, giornalisti e architetti in lista d’attesa, continuarono a ripetere che 120 ettari di parco pubblico a Bagnoli erano un’esagerazione, che quello spazio doveva essere dato a chi sapeva farlo fruttare, che il portafoglio viene prima del verde pubblico, che il comune di Napoli non può sprecare le poche risorse di cui dispone per contentare i capricci di qualche anima bella. Già in altra occasione ho ricordato che a Ferrara, città di circa centocinquantamila abitanti, è prevista ed è in attuazione la cosiddetta “addizione verde” (in pendant all’“addizione erculea” di Ercole d’Este), un parco territoriale di 1.200 ettari, dieci volte più grande del previsto parco di Bagnoli. Il quale non è un lusso, è un’infrastruttura essenziale perché Napoli sia una città moderna. Non meno della metropolitana. Se Napoli non recupera posizioni nella graduatoria della vivibilità, dell’efficienza e della trasparenza, non esiste alcuna prospettiva di progresso economico e sociale.

Sia consentito infine chiedere a Demarco – e voglia scusarmi se continuo a utilizzarlo come interlocutore di comodo – se non ritiene che sia sbagliato, e anche pericoloso, sottovalutare l’indiscutibile trasparenza con la quale è gestito, a Napoli, un settore di fondamentale importanza come quello dell’urbanistica e dintorni. Non pensa Demarco che, in una città strozzata dalla camorra, dove vasti apparati della pubblica amministrazione sono inquinati da presenze malavitose o squalificati da amministratori disonesti, in una città nella quale, insomma, la questione morale si pone come determinante, il buon governo urbanistico, quasi anomalo nel panorama nazionale, non dovrebbe essere più puntualmente e favorevolmente segnalato ai lettori e all’opinione pubblica?

SALZANO - Vorrei concludere facendoti due domande, che mi si sono affacciate più volte nel corso delle tue riflessioni. La prima. Come mai l’urbanistica napoletana ha potuto svilupparsi così positivamente, il progetto di città che avevate configurato nel 1994 con il documento preliminare e la strategia allora delineata hanno potuto svilupparsi così compiutamente nonostante il degrado politico e amministrativo che vi circondava? Come mai quella strategia ha potuto superare indenne le fasi critiche che pure si sono manifestate nel passaggio dalla prima alla seconda giunta Bassolino? Devo dirti che a Venezia ho vissuto un’esperienza del tutto diversa. Lì avevamo ottenuto l’adozione di un piano per la città storica, faticosamente redatto con con Edgarda Feletti e Gigi Scano, che al mutar del clima culturale (la maggioranza politica era rimasta la stessa) è stato travolto dalla deregolamentazione. Lì ci ha certamente indeboliti il fatto che non c’erano i “ragazzi del piano”, cioè una struttura pubblica altamente qualificata, fortemente motivata, resa coesa dalle esperienze accumulate insieme. Ma anche la scarsa capacità di aggregare attorno al nostro progetto interessi sociali, necessità dei cittadini, speranze degli abitanti realmente consistenti. Il nostro collegamento con la società passava quasi esclusivamente attraverso i partiti (anzi, il partito), e una unità politica più larga che abbracciava quasi tutte le formazioni politiche presenti su alcuni grandi temi. Ecco allora la seconda domanda: a quali condizioni pensi tu che l’esperienza napoletana possa proseguire positivamente?

DE LUCIA - Non vi è dubbio che il sostanziale isolamento nel quale si sviluppa l’esperienza urbanistica napoletana determina condizioni di fragilità e, alla lunga, spinge su un binario morto, esponendo quell’esperienza a ogni rischio. Come successe nel 2003, al tempo del piano territoriale di coordinamento della provincia. Che avrebbe potuto e dovuto riprendere e rafforzare le linee del piano regolatore di Napoli, affrontando soprattutto le questioni non risolvibili in ambito comunale. Imboccò invece la strada del sacco edilizio, riannodando i fili della peggiore tradizione cementifera. Adottato con il consenso di tutti i partiti del centro sinistra, il piano provinciale prevedeva l’urbanizzazione di aree agricole della penisola sorrentina, del Vesuvio, dei Campi Flegrei, delle isole del golfo, in totale ben 25 mila ettari. Ma qui interessa soprattutto ricordare che anche quei brandelli di spazio miracolosamente scampati al massacro dentro il comune di Napoli – a Posillipo, allo Scudillo, nel vallone S. Rocco, nella piana del Sebeto, nella conca di Agnano, nella zona delle masserie di Chiaiano – e che il nuovo piano regolatore destina a parco regionale, sarebbero finiti sotto il cemento e l’asfalto. La catastrofe fu sventata grazie al tempestivo intervento di Italia nostra e Wwf e alla determinazione di Antonio di Gennaro che raccolse anche in un piccolo libro la cronaca della tentata strage, con splendide immagini dei beni a rischio .

in conclusione riprendo la questione dell’anomalia e del controsenso dell’esperienza napoletana rispetto a ogni altra situazione nazionale di scala equivalente. Ho ascoltato al Città territorio festival di Ferrara un memorabile intervento di Raffaele Cantone, il giudice bravo e coraggioso, profondo conoscitore della malavita dei nostri paesi. Secondo lui, la corruzione meridionale risiede in larga misura negli apparati pubblici, più ancora che nel personale politico. Quest’ultimo è soggetto a cambiamenti frequenti, anche repentini, mentre i funzionari sono gli stessi per lunghissimi periodi di tempo. Ed è lì, e specialmente negli uffici che si occupano di edilizia e di urbanistica, che si annidano le collusioni con la camorra, che si favorisce l’abusivismo, che si allestiscono devastazioni e scempi. nel comune di Napoli tutto ciò non succede, però – ed è questo l’aspetto inquietante – la buona amministrazione urbanistica napoletana non ha generato eredi. nessuno dei comuni circostanti ha seguito l’esempio del capoluogo, che resta isolato, anzi accerchiato dal vasto hinterland nel quale la pianificazione non viene praticata. Le responsabilità della politica regionale sono innegabili. La Campania e il Lazio sono le uniche regioni in cui decine di comuni non si sono mai dotati di un piano regolatore e dove i piani vigenti sono in prevalenza vecchissimi e snaturati dalle varian- ti e dalla malaurbanistica. Sono due facce della stessa medaglia. il disastro della Campania (e dell’intero Mezzogiorno) è figlio della stessa cultura politica che non valorizza, o addirittura ignora l’esperienza urbanistica napoletana, mal sopportata da molti amministratori e accusata dalla stampa, come abbiamo visto, di inaudite responsabilità. Come se ne volesse la omologazione allo standard medio circostante.

Infine mi hai chiesto a quali condizioni penso che l’esperienza napoletana possa proseguire positivamente. Mi sembra che l’intera nostra conversazione abbia posto in luce il progressivo affievolimento dell’azione politica riguardo all’urbanistica di Napoli. Questa è ormai quasi tollerata e forse subita, comunque è affidata alla sola iniziativa del gruppo dirigente tecnico. Se non si torna a una stagione di autentica ripresa del protagonismo politico nel governo della città, e più in generale nella politica sociale ed economica, l’esperienza napoletana è destinata certamente a estinguersi. Ma forse, grazie agli sconvolgimenti provocati dall’attuale crisi dell’economia planetaria, tutto torna in gioco, e anche l’urbanistica di Napoli potrebbe avere un migliore destino.

Questo dialogo tra De Lucia e Salzano ha avuto luogo nell’ottobre del 2008, e quindi non tiene conto di sviluppi successivi molto rilevanti per le questioni trattate, in particolare non era stata ancora approvata dalla regione Campania la legge regionale che espone anche la città di Napoli al rischio di una nuova manomissione.

Indice

CAPO I - DISPOSIZIONI GENERALI

Art. 1 - Norme generali

Art. 2 - Commissione urbanistica provinciale

Art. 3 - Norme comuni alle commissioni urbanistica e per l'edilizia abitativa agevolata

Art. 4 - Sopralluoghi e rilevamenti

CAPO II – PIANO PROVINCIALE DI SVILUPPO E COORDINAMENTO TERRITORIALE

Art. 5 - Contenuto del piano provinciale di sviluppo e coordinamento territoriale

Art. 6 - Elementi del piano provinciale di sviluppo e coordinamento territoriale

Art. 7 - Pubblicazione del piano provinciale di sviluppo e coordinamento territoriale - osservazioni

Art. 8 - Pronuncia sulle osservazioni al piano provinciale di sviluppo e coordinamento territoriale

Art. 9 - Pubblicità ed effetti del piano provinciale di sviluppo e coordinamento territoriale

Art. 10 - Revisione periodica del piano provinciale di sviluppo e coordinamento territoriale

Art. 11 - Piani di settore

Art. 12 - Pubblicazione ed approvazione del piano di settore

Art. 13 - Pubblicità ed effetti del piano di settore

CAPO III – PIANO URBANISTICO COMUNALE

Art. 14 - Piano urbanistico comunale e collaborazione per la sua formazione

Art. 15 - Contenuto del piano urbanistico comunale

Art. 16 - Aree per opere ed impianti di interesse collettivo e sociale

Art. 17 - Allegati al piano

Art. 18 - Efficacia del piano urbanistico comunale

Art. 19 - Procedimento per l'approvazione del piano urbanistico comunale

Art. 20 - Approvazione del piano urbanistico comunale da parte della Giunta provinciale

Art. 21 - Varianti al piano urbanistico comunale

Art. 22 - Piani urbanistici intercomunali

Art. 22/bis - Piani delle zone di pericolo

Art. 22/ter - Attuazione della direttiva 96/82/CE

Art. 23 - Sostituzione della Giunta provinciale

Art. 24 - Programmi pluriennali di attuazione

Art. 25 - Tutela degli insiemi

Art. 26 - Concessione di contributi o sussidi

Art. 27 - Obblighi di convenzionamento

Art. 28 - Salvaguardia del patrimonio abitativo

Art. 28/bis - Deroga all'obbligo del convenzionamento

Art. 29 - Salvaguardia della ricettività turistica

Art. 30 - Prescrizioni di piani di attuazione

Art. 31 - Consorzi tra comuni limitrofi

Art. 32 - Approvazione dei piani di attuazione

Art. 33 - Inclusione di edifici da demolire o trasformare

Art. 34 - Piani di attuazione per piccole zone

Art. 34/bis - Modifiche al piano di attuazione

CAPO IV - ZONE DI ESPANSIONE PER L’EDILIZIA RESIDENZIALE

Art. 35 - Dimensione delle zone di espansione

Art. 36 - Definizione delle zone di espansione

Art. 37 - Piano di attuazione della zona di espansione

Art. 38 - Contenuto del piano di attuazione

Art. 39 - Iniziativa dei proprietari e costituzione della comunione

Art. 40 - Convenzione con i proprietari

Art. 40/bis - Convenzione urbanistica

Art. 41 - Procedimento d'ufficio

Art. 41/bis - Aumento della densità edilizia

Art. 42 - (Effetti giuridici della notificazione del decreto della comunione dei terreni)

Art. 43 - (Acquisizione delle aree non edificate da parte del comune)

CAPO V - ZONE PER INSEDIAMENTI PRODUTTIVI

Art. 44 - Zone per insediamenti produttivi

Art. 44/bis - Zone produttive con destinazione particolare

Art. 44/ter - Attività commerciale nelle zone per insediamenti produttivi

Art. 44/quater - Alloggi di servizio

Art. 45 - Insediamento delle imprese

Art. 45/bis - (Costituzione della comunione e esecuzione della divisione materiale delle aree)

Art. 46 - Esproprio degli immobili

Art. 46/bis - (Acquisto di aree nel verde agricolo da parte della provincia o del comune)

Art. 47 - Piani d'attuazione delle zone produttive

Art. 47/bis - (Assegnazione di aree nelle zone produttive)

Art. 47/ter - (Alienazione di terreno produttivo da parte dei proprietari)

Art. 48 - Urbanizzazione delle zone produttive

Art. 48/bis - (Revoca dell'assegnazione)

Art. 48/ter - (Procedura)

Art. 48/quater - (Responsabilità solidale in caso di costituzione di diritti reali, di godimento o diritti di obbligazione)

Art. 48/quinquies - (Attività commerciale nelle zone per insediamenti produttivi)

Art. 49 - Assegnazione degli immobili

Art. 49/bis - Prezzo d'assegnazione

Art. 49/ter - Obblighi di legge per l'assegnatario

Art. 50 – Sanzioni

Art. 50/bis - Revoca dell'assegnazione

Art. 51 - Procedura contrattuale

Art. 51/bis - Business Location Alto Adige

Art. 51/ter - Disposizioni transitorie

CAPO VI - ZONE DI RECUPERO

Art. 52 - Individuazione delle zone di recupero del patrimonio edilizio esistente

Art. 53 - Lavori in attesa del piano di recupero

Art. 54 - Contenuto del piano di recupero

Art. 55 - Piani di recupero

Art. 55/bis - Piano di riqualificazione urbanistica

Art. 56 - Interventi di recupero e programmi pluriennali

Art. 57 - Piani di recupero del patrimonio edilizio esistente

Art. 58 - Recupero mediante occupazione temporanea

Art. 59 - Definizione degli interventi

Art. 60 - Sistemazione temporanea di famiglie

Art. 61 - Incaricato per il recupero

Art. 62 - (Assunzione della progettazione)

Art. 63 - (Recupero di case inabitabili)

Art. 64 - (Standards minimi per il recupero)

Art. 65 - Opere di urbanizzazione

CAPO VII – CONCESSIONE EDILIZIA

Art. 66 - Obbligo della concessione

Art. 67 - Impianti di interesse provinciale

Art. 68 - Norme per l'esecuzione di lavori pubblici

Art. 69 - Determinazione del Sindaco sulle domande di concessione edilizia

Art. 70 - Rilascio della concessione edilizia

Art. 71 - Concessione in deroga

Art. 72 - Termini di inizio e di ultimazione del lavoro e certificato di abitabilità

Art. 73 - Contributo relativo alla concessione edilizia

Art. 74 - Sospensione dei lavori in attesa del piano

Art. 75 - Determinazione del contributo sul costo di costruzione

Art. 75/bis - Destinazione d'uso di beni immobili trasferiti

Art. 76 - Esonero dal contributo sul costo di costruzione

Art. 77 - Adeguamento di edifici esistenti

Art. 78 - Concessione relativa ad opere od impianti non destinati alla residenza

Art. 79 - Edilizia convenzionata

Art. 79/bis - Cancellazione del vincolo di cui all'articolo 79

CAPO VIII – VIGILANZA SULL’ATTIVITÀ URBANISTICO-EDILIZIA

Art. 80 - Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia

Art. 81 - Opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità o con varianti essenziali

Art. 82 - Determinazione delle variazioni essenziali

Art. 83 - Opere eseguite in parziale difformità dalla concessione

Art. 84 - Interventi abusivi di ristrutturazione edilizia

Art. 85 - Accertamento di conformità

Art. 86 - Varianti in corso d'opera

Art. 87 - Opere eseguite su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici

Art. 88 - Annullamento della concessione

Art. 89 - Annullamento di provvedimenti in contrasto con le norme urbanistiche

Art. 90 - Responsabilità del titolare della concessione, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori nonché del progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività

Art. 91 - Riscossione

Art. 92 - Nullità degli atti giuridici relativi ad edifici

Art. 93 - Lottizzazione

Art. 94 - Confisca dei terreni

Art. 95 - Demolizione di opere

Art. 96 - Valore venale dell'immobile

Art. 97 - Aziende erogatrici di servizi pubblici

Art. 98 - Opere interne

Art. 99 - Ritardato od omesso versamento del contributo afferente alla concessione

Art. 100 - Sanzioni penali

Art. 101 - (Sanzioni a carico dei notai)

Art. 102 - (Norme relative all'azione penale)

Art. 103 - Mezzi per l'attuazione della legge

Art. 104 - Controlli periodici mediante rilevamenti aerofotogrammetrici

Art. 105 - Ricorso popolare

Art. 106 - Intervento d'ufficio della Giunta provinciale

CAPO IX – IL VERDE AGRICOLO, ALPINO E BOSCO

Art. 107 - Il verde agricolo, alpino e bosco

Art. 107/bis - Interpretazione autentica

Art. 108 - Disposizioni urbanistiche riguardanti l'esercizio di attività economiche secondarie nella sede dell'azienda agricola

Art. 109 - Densità fondiaria nel verde agricolo

Art. 110 - L'urbanizzazione primaria nel verde rurale

Art. 111 - Il paesaggio agrario-tradizionale

Art. 112 - Distanze dalle strade pubbliche e dalle ferrovie

Art. 113 - Albo degli esperti in urbanistica e tutela del paesaggio

Art. 114 - Previsione di spesa

CAPO X – DISPOSIZIONI VARIE

Art. 115 - Commissione edilizia comunale

Art. 116 - Regolamenti edilizi comunali

Art. 117 - (Approvazione dei regolamenti edilizi comunali)

Art. 118 - Oneri e vincoli non indennizzabili

Art. 119 - Indennità agli immobili soggetti a vincolo

Art. 120 - Sistemazione edilizia a carico dei privati - procedura coattiva

Art. 121 - Rettifica dei confini

Art. 122 - Limiti di progettazione per professionisti

Art. 123 - Spazi per parcheggio

Art. 124 - Spazi per parcheggi per edifici esistenti

Art. 125 - Prescrizioni in Comuni sprovvisti di strumento urbanistico

Art. 126 - Gli standards urbanistici

Art. 127 - Interventi sugli edifici

Art. 128 - Ampliamento degli esercizi alberghieri esistenti

Art. 128/bis - Zona per impianti pubblici sovracomunali

Art. 128/ter - Affitto di camere e appartamenti per ferie

Art. 129 - Conservazione di esercizi alberghieri storici

Art. 130 - Coordinamento della disciplina delle cave e torbiere con l'urbanistica

Art. 131 - Rilascio del certificato di abitabilità

Art. 132 - Denuncia di inizio di attività edilizia e autorizzazione

Art. 133 - Norma transitoria

Art. 134 - Abrogazione di norme

Nota. Gli articoli con la rubrica tra parentesi sono stati abrogati.

Legge abrogata quasi interamente dalla LP 1/2008, ma a decorrere dalla data che sarà stabilita dai successivi regolamenti di attuazione, e pertanto ancora vigente.



Indice

TITOLO I - DISPOSIZIONI GENERALI

Art. 1 - Oggetto della legge

Art. 2 - Soggetti della pianificazione ed organi tecnici

Art. 3 - Compiti della Giunta provinciale

Art. 4 - Compiti dei comuni

Art. 5 - Compiti dei comprensori

Art. 6 - Commissione urbanistica provinciale

Art. 7- Ordinamento della CUP

Art. 8 - Commissione provinciale per la tutela paesaggistico-ambientale

Art. 9 - Ordinamento della CTP

Art. 10 - Commissioni comprensoriali per la tutela

paesaggistico-ambientale

Art. 11 - Ordinamento delle commissioni comprensoriali per la tutela paesaggistico-ambientale (CTC)

Art. 12 - Albo degli esperti in urbanistica e tutela del paesaggio

TITOLO II - STRUMENTI DI PIANIFICAZIONE TERRITORIALE

CAPO I - PARTE GENERALE

Art. 13 - Piani urbanistici ed altri strumenti di pianificazione territoriale

CAPO II - PIANO URBANISTICO PROVINCIALE

Art. 14 - Contenuti

Art. 15 - Elementi

CAPO III - PIANO COMPRENSORIALE DI COORDINAMENTO

Art. 16 - Contenuti

Art. 17 - Elementi

CAPO IV - PIANO REGOLATORE GENERALE

Art. 18 - Contenuti

Art. 18 bis - Perequazione urbanistica

Art. 18 ter - Strumenti d'attuazione della perequazione

Art. 18 quater - Compensazione urbanistica

Art. 18 quinquies - Disposizioni in materia di edilizia abitativa

Art. 18 sexies - Disciplina degli alloggi destinati a residenza

Art. 19 - Elementi

Art. 20 - Piani regolatori generali intercomunali

CAPO V - REGOLAMENTO EDILIZIO COMUNALE

Art. 21 - Contenuti

Art. 22 - Formazione

TITOLO III - NORME DA OSSERVARSI NELLA REDAZIONE DEGLI STRUMENTI DI PIANIFICAZIONE TERRITORIALE

Art. 23 - Standard urbanistici e rappresentazioni grafiche

Art. 24 - Tutela degli insediamenti storici

Art. 24 bis - Conservazione e valorizzazione del patrimonio edilizio montano esistente

Art. 25 - Edificazione nelle aree destinate all'agricoltura

Art. 26 - Tutela dagli inquinamenti e sicurezza del territorio

Art. 27 - Sistema informativo territoriale

Art. 28 - Disposizioni di coordinamento in materia di igiene e sanità pubblica

Art. 29 - Requisiti igienico-sanitari dell'edilizia residenziale

Art. 30 - Limiti alle variazioni di piano

Art. 31 - Piani urbanistici e valutazione dell'impatto ambientale

TITOLO IV - PROCEDIMENTI PER LA FORMAZIONE DEGLI STRUMENTI DI PIANIFICAZIONE TERRITORIALE

CAPO I - PIANO URBANISTICO PROVINCIALE

Art. 32 - Documento preliminare

Art. 33 - Adozione

Art. 34 - Formazione del disegno di legge di approvazione

Art. 35 - Varianti

Art. 36 - Adeguamento dei piani subordinati

CAPO II - PIANO COMPRENSORIALE DI COORDINAMENTO

Art. 37 - Adozione

Art. 38 - Approvazione ed entrata in vigore

Art. 39 - Varianti

CAPO III - PIANO REGOLATORE GENERALE

Art. 39 bis - Documento preliminare

Art. 40 - Adozione

Art. 41 - Approvazione ed entrata in vigore

Art. 42 - Varianti

Art. 42 bis - Rettifica delle previsioni del piano regolatore generale

CAPO IV - PIANI ATTUATIVI

Art. 43 - Disposizioni generali

Art. 44 - Piano attuativo a fini generali

Art. 45 - Piano attuativo a fini speciali

Art. 46 - Piano di recupero

Art. 47 - Contenuti

Art. 48 - Formazione

Art. 49 - Effetti

Art. 50 - Approvazione della Giunta provinciale

Art. 51 - Comparti edificatori

Art. 52 - Espropriazione

Art. 53 - Piano di lottizzazione

Art. 54 - Elementi e caratteristiche

Art. 55 - Formazione del piano di lottizzazione ad iniziativa privata

Art. 56 - Formazione del piano di lottizzazione d'ufficio

TITOLO IV bis - PROGRAMMI INTEGRATI DI RIQUALIFICAZIONE URBANISTICA EDILIZIA ED AMBIENTALE

Art. 56 bis - Programmi integrati di intervento

TITOLO V - MISURE DI SALVAGUARDIA

CAPO I - SALVAGUARDIA STRAORDINARIA DEL TERRITORIO E DELL'AMBIENTE

Art. 57 - Divieti temporanei

Art. 58 - Applicazione dei divieti

Art. 59 - Condizioni per i divieti

Art. 60 - Deroghe al divieto

Art. 61 - Cessazione dei divieti

Art. 62 - Validità delle concessioni rilasciate prima del vincolo

CAPO II - SALVAGUARDIA DEGLI STRUMENTI DI PIANIFICAZIONE TERRITORIALE

Art. 63 - Salvaguardia del piano urbanistico provinciale

Art. 64 - Salvaguardia dei piani subordinati

Art. 65 - Salvaguardia del piano di lottizzazione

TITOLO VI - LIMITAZIONI ALLA PROPRIETÀ PRIVATA ED ESPROPRIAZIONI

CAPO I - LIMITAZIONI ED OBBLIGHI

Art. 66 - Accesso alla proprietà privata

Art. 67 - Durata ed effetti dei piani

Art. 68 - Sistemazioni edilizie a carico dei privati

Art. 69 - Edificazione nei comuni sprovvisti di piano

Art. 70 - Distanze di rispetto stradale

Art. 71 - Apertura di strade

Art. 72 - Obblighi particolari e interventi urgenti ai fini della tutela della sicurezza pubblica, del decoro urbanistico e della tutela del paesaggio

Art. 72 bis - Interventi di urgenza e di carattere straordinario riguardanti immobili ricadenti negli insediamenti storici

Art. 73 - Spazi per parcheggio

Art. 74 - Espropriazioni a fini di edilizia abitativa

Art. 75 - Limiti all'utilizzo di aree comprese nei piani attuativi a fini di edilizia abitativa

Art. 76 - Espropriazioni per insediamenti produttivi

TITOLO VII - DISCIPLINA DELLE MODIFICAZIONI DELL'USO DEL SUOLO

CAPO I - DISPOSIZIONI GENERALI

Art. 77 - Disciplina degli interventi sul territorio

CAPO I bis

Art. 77 bis - Definizione delle tipologie di intervento

CAPO II - OPERE PUBBLICHE

Art. 78 - Opere pubbliche dello Stato

Art. 79 - Opere pubbliche della Provincia e della regione

Art. 80 - Opere pubbliche dei comuni

Art. 81 - Linee elettriche

CAPO III - CONCESSIONE E DENUNCIA D'INIZIO DI ATTIVITÀ

Art. 82 - Interventi soggetti a concessione

Art. 83 - Interventi soggetti a denuncia d'inizio di attività

Art. 84 (Interventi soggetti a denuncia d'inizio di attività)

Art. 84 bis - Disposizioni per la ricostruzione di edifici danneggiati o distrutti

Art. 85 (Opere interne)

Art. 86 - Varianti in corso d'opera

Art. 87 - Caratteristiche e validità della concessione

Art. 88 - Presentazione della domanda di concessione

Art. 89 - Rilascio della concessione

Art. 90 - Condizioni particolari

Art. 91 (Rilascio dell’autorizzazione)

Art. 91 bis - Disposizioni relative alla denuncia d'inizio di attività

Art. 91 ter - Limiti alle concessioni, alle denunce d'inizio di attività e al rilascio del certificato di abitabilità per la mancata osservanza delle norme sulla sicurezza del lavoro, al fine di prevenire gli infortuni da caduta dall'alto nei successivi lavori di manutenzione sulle coperture

Art. 92 - Fornitura di servizi pubblici

Art. 92 bis - Disciplina per l'installazione di tunnel e serre a scopo agronomico

CAPO IV - AUTORIZZAZIONI AI FINI DI TUTELA DEL PAESAGGIO

Art. 93 - Lavori assoggettati ad autorizzazione

Art. 94 - Individuazione di beni ed inclusione negli elenchi

Art. 95 - Caratteristiche e validità dell'autorizzazione

Art. 96 - Autorizzazioni di competenza della Giunta provinciale

Art. 97 - Autorizzazioni di competenza della CTP

Art. 98 - Autorizzazioni di competenza della CTC

Art. 99 - Autorizzazioni di competenza del sindaco

Art. 100 - Limiti alle facoltà degli organi competenti alle autorizzazioni

Art. 101 - Ricorsi

Art. 102 - Disposizioni di coordinamento con i vincoli di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 8 ottobre 1997, n. 352)

Art. 103 - Interventi per la conservazione e sistemazione paesaggistica

CAPO V - CONCESSIONI IN DEROGA

Art. 104 - Esercizio dei poteri di deroga

Art. 104 bis - Realizzazione di opere per l'eliminazione delle barriere architettoniche e di parcheggi residenziali e commerciali in deroga

Art. 105 - Deroga per opere pubbliche non soggette a concessione

TITOLO VIII - CONTRIBUTI ED ONERI PER IL RILASCIO

DELLA CONCESSIONE

Art. 106 - Contributo di concessione

Art. 107 - Regolamento comunale

Art. 108 - Determinazione del costo medio di costruzione

Art. 109 - Onerosità della concessione per attività produttive

Art. 110 - Onerosità della concessione per complessi ricettivi turistici all'aperto

Art. 111 - Esenzione dal contributo di concessione

Art. 111 bis - Edilizia convenzionata

Art. 112 - Destinazione dei proventi delle concessioni

TITOLO IX - PROGRAMMA PLURIENNALE DI ATTUAZIONE

Art. 113 - Contenuti

Art. 114 - Dimensionamento

Art. 115 - Formazione

Art. 116 - Effetti

TITOLO X - VIGILANZA E SANZIONI

Art. 117 - Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia

Art. 118 - Ordinanza di sospensione

Art. 119 - Effetti dell'ordinanza di sospensione

Art. 120 - Responsabilità del titolare della concessione, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori

Art. 120 bis - Responsabilità del progettista per gli interventi soggetti a denuncia d'inizio di attività

Art. 121 - Definizione delle costruzioni abusive

Art. 122 - Sanzioni per opere eseguite in assenza o in difformità dalla concessione

Art. 123 - Lottizzazioni abusive

Art. 124 - Determinazione del valore venale delle costruzioni

Art. 125 - Demolizione di opere

Art. 126 - Acquisizione gratuita

Art. 127 - Coordinamento delle sanzioni pecuniarie

Art. 128 - Sanzioni per opere eseguite in assenza o in difformità dalla denuncia d'inizio di attività

Art. 129 - Concessione in sanatoria

Art. 130 - Pagamento delle sanzioni e dei contributi. Interessi e riscossioni

Art. 131 - Sanzioni a tutela del paesaggio

Art. 132 - Sanzioni a tutela del paesaggio per l'apposizione di cartelli o altri mezzi pubblicitari non autorizzati

Art. 133 - Limitazioni agli incarichi professionali

Art. 134 - Annullamento di provvedimenti

Art. 135 - Interventi sostitutivi da parte della Giunta provinciale

TITOLO XI - DISCIPLINA TRANSITORIA

CAPO I - STRUMENTI DI PIANIFICAZIONE

Art. 136 - Piano comprensoriale

Art. 137 - Piano regolatore generale

Art. 138 - Programma di fabbricazione

Art. 139 - Pianificazione degli insediamenti storici

Art. 140 - Piano particolareggiato

Art. 141 - Piano a fini speciali

Art. 142 - Piano generale di zona

Art. 143 - Piano di lottizzazione

CAPO II - DISPOSIZIONI VARIE

Art. 144 - Concessioni e autorizzazioni

Art. 145 - Autorizzazioni per la tutela del paesaggio

Art. 146 - Limiti alle autorizzazioni paesaggistiche

Art. 147 - Distanze di rispetto stradale

TITOLO XII - DISPOSIZIONI FINALI

Art. 148 - Modifica all'allegato C della legge provinciale 29 aprile 1983, n. 12, concernente "Nuovo ordinamento dei servizi e del personale della Provincia autonoma di Trento" e successive modifiche ed integrazioni

Art. 149 - Istituzione dell'ufficio centri storici nell'ambito del servizio urbanistica e tutela del paesaggio

Art. 150 - Adeguamento del piano urbanistico provinciale

Art. 151 - Aree di tutela ambientale

Art. 152 - Commissioni tecniche

Art. 153 - Norma transitoria per l'approvazione dei piani degli insediamenti storici

Art. 154 - Abrogazione di disposizioni provinciali in materia di insediamenti storici

Art. 155 Modifiche della legge provinciale 27 agosto 1982, n. 21

Art. 156 - Regolamento di esecuzione

Art. 156 bis - Disposizioni di coordinamento procedurale

Art. 157 - Abrogazione di disposizioni in materia di edilizia abitativa

Art. 158 - Abrogazione di disposizioni in materia di urbanistica e di tutela del paesaggio

TITOLO XIII - AGEVOLAZIONI FINANZIARIE

Art. 159 - Spese inerenti la pianificazione urbanistica

Art. 160 - Incentivi indiretti per la formazione dei piani

Art. 161 - Incentivi per la pianificazione

Art. 162 - Incentivi per il verde urbano

Art. 163 - Norma transitoria

TITOLO XIV - DISPOSIZIONI FINANZIARIE

Art. 164 - Autorizzazioni di spesa

Art. 165 - Copertura degli oneri

Art. 166 - Variazioni di bilancio

Nota. Gli articoli con la rubrica tra parentesi sono stati abrogati.

Carlo Aymonino si è spento l’altra notte a Roma. Avrebbe compiuto 84 anni fra qualche giorno. Architetto, professore universitario (fu anche rettore dello Iuav di Venezia), assessore al Centro storico di Roma nella giunta guidata da Ugo Vetere, nei primi anni ‘80, esponente di spicco del Pci nella capitale, era nipote di Marcello Piacentini, ma non ereditò nulla della magniloquenza retorica dell’architetto fascista, che pure sopravvisse al regime. I suoi primi lavori romani, dopo la laurea nel 1950 in un’università ancora dominata dagli uomini di Piacentini e dell’altro campione della retorica mussoliniana, Arnaldo Foschini, furono di tutt’altro segno e fecero rivivere linguaggi diversi non solo d’architettura, ma artistici, come quelli della Scuola romana, della pittura neorealista e di Mario Scialoja. Come esperienza d’esordio, Aymonino si impegnò in uno dei quartieri esemplari dell’Ina-Casa a Roma e non solo, il Tiburtino, in un gruppo capeggiato da Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi, e formato da giovanissimi esponenti dell’architettura che dagli anni Trenta avevano tratto altra linfa (quella di Giuseppe Pagano) e cioè Carlo Melograni, Carlo Chiarini, Mario Fiorentino, Piero Lugli.

Aymonino lavorò per l’Ina-Casa anche altrove, a Brindisi, per esempio, e a Foggia. E compì interventi di edilizia popolare alle Spine Bianche di Matera, sul finire degli anni ‘50. Fu tra i protagonisti di quei generosi e contraddittori esempi di un’architettura pubblica concepita per chi aveva bisogno di case e che rappresentava l’alternativa ai quartieri costruiti su suoli privati e a fini di speculazione (alternativa fino a un certo punto, perché spesso l’iniziativa pubblica agevolò proprietari fondiari e costruttori).

Quella stagione dell’architettura italiana resterà ai margini delle città e della loro caotica crescita. E di interventi pubblici se ne faranno complessivamente assai meno che altrove in Europa. Il nome di Aymonino si lega, poi, fra la fine degli anni ‘60 e i primi ‘70, al complesso Monte Amiata, nel quartiere gallaratese di Milano, un intervento realizzato però in convenzione fra pubblico e privato. Con lui lavorano il fratello Maurizio e Aldo Rossi. È un quartiere residenziale, che si arricchisce di molte soluzioni progettuali, le quali caratterizzeranno lo stile di Aymonino. In questo e nei periodi successivi l’architetto romano realizza complessi scolastici, un centro direzionale e abitazioni a Pesaro, il Palazzo di Giustizia a Ferrara e altri edifici.

Negli anni Ottanta, dopo l’esperienza all’università di Venezia, Aymonino torna a Roma, alla "Sapienza", e diventa assessore al Centro storico, al posto di Vittoria Calzolari. Dopo lo slancio impresso all’amministrazione capitolina da Giulio Carlo Argan e Luigi Petroselli, inizia una fase di ripiegamento.

I grandi progetti, come quello dei Fori – con la soppressione di via dei Fori Imperiali e la formazione di un’area archeologica e verde che riconnetteva la testa di via Appia con il centro della città, progetto promosso da Antonio Cederna, Adriano La Regina, Filippo Coarelli, Leonardo Benevolo e Italo Insolera – entrano nel congelatore (anche se Aymonino non fu tra i detrattori del progetto Fori, anzi lo sostenne). Ma era tutta la politica romana che procedeva con passo lento, anche sulle questioni urbanistiche, in sintonia con quanto accadeva nel resto del Paese. Aymonino si impegnò con costanza sul centro di Roma, teorizzando l’intervento moderno nell’antico e immaginando il riempimento dei tanti vuoti che lo caratterizzavano. E ancora lo caratterizzano, perché molto poco di quelle idee, che suscitarono vivaci discussioni, andò in porto.

Fra le ultime cose significative di Aymonino c’è sempre il centro storico della capitale, segno di un’attrazione intellettuale e culturale, prima che progettuale. In un caso portando a termine la sistemazione della statua equestre di Marco Aurelio; nell’altro partecipando, insieme a Leonardo Benevolo, ma senza l’attenzione che a detta di molti avrebbe meritato, al concorso per l’assetto di uno dei luoghi più irrisolti, o malamente risolti, della capitale: piazza Augusto Imperatore.

L'icona è un autoritratto del 1983, "PTrovato dalla vita"; dal sito exibart.com

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