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Da video.com riprendiamo la presentazione e il video di un bellissimo documentario, nel quale Vittorio De Seta racconta un mestiere nel quale probabilmente si riconoscono molti di quanti ptaticano il mestiere dell'urbanista nello spirito, e nell'ideologia di eddyburg. Entrate nell'articolo e cliccate dove vi suggeriamo.

«Scorsese ha detto di luiche era un antropologo che si esprimeva con la voce di un poeta. A noi inveceha detto che dell’antropologia non gli importava proprio niente, e tutto quelche cercava era la poesia, “che è come il sale, conserva le cose”. In questa videointervista, realizzata da ZaLab a Barcellona nel 2008, Vittorio De Seta,padre del documentario italiano, ripercorre gli elementi fondamentali della suapersonalissima cinematografia, dal suono, al montaggio, al rapporto con ipersonaggi e i loro ambienti. Un appello alla resistenza per un mestieredifficile e necessario, un richiamo alla sfida del reale, che può tornare aimporsi anche quando sembra ormai troppo tardi»

Non crediamo di dover precisare che per "ideologia " non intendiamo una parolaccia ma solo «quell’insieme di credenze condivise da un gruppo e dai i suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali» (T. A. Van Dijk, Ideologie.Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Carocci, Firenze2004).
Sul mestiere dell'urbanista abbiamo ripreso a discutere su eddyburg a proposito dello "scandalo" dell'Università di Firenze e dell'articolo di Francesco Ventura. Proseguiremo su queste pagine e poi, magari, in occasione di un prossimo seminario della Scuola di eddyburg.

Quando si parla di città e territorio, è opportuno non mescolare troppo un approccio di carattere generale, che vede al centro la società e protagonista assoluto il cittadino, e uno professionale, molto diverso

Negli ultimi giorni ci hanno lasciato quasi contemporaneamente due giganti del pensiero, almeno per quanto riguarda la nostra idea condivisa di città moderna. Mi riferisco naturalmente a Oscar Niemeyer e a Guido Martinotti, indiscussi maestri rispettivamente dell’approccio architettonico progettuale modernista, e di quello sociologico del territorio, con particolare riguardo ai contesti metropolitani. Coincidenza tristemente utile, perché entrambi i protagonisti occupano in modo vistoso una posizione estrema nelle scale di giudizio correnti, ovvero da un lato quella che considera “urbanistica” tutto ciò che concerne la progettazione delle trasformazioni fisico-edilizie alle varie scale, dall’altro quella che allarga il campo – quasi ovviamente, viene da dire – alla componente umana, che distingue questi contenitori spaziali da lucide scatole desolatamente vuote. Entrambi approcci fondamentali, fondativi dell’urbanistica, quelli dell’architettura e della sociologia del territorio, che insieme a tanti altri hanno concorso a definire la disciplina più o meno com’è oggi.

Con una precisazione importante: tanti approcci significano anche tanti punti di vista, opinioni su quale possa essere il baricentro irrinunciabile dell’idea di città, e non si può negare che (soprattutto in Italia, ma non solo) la parte del leone spetti al contributo del progetto di trasformazione spaziale. Una cosa che vale sia per l’immaginario collettivo, sia in buona parte per l’esercizio professionale in senso lato, dalle consulenze private, alla pubblica amministrazione, all’insegnamento superiore e universitario. Naturalmente se si ragiona solo un istante sulle radici, sulla stessa legittimazione dell’idea di città e metropoli contemporanea, il pensiero non può che correre subito a figure che col progetto c’entrano direttamente poco o nulla. Esempi internazionali classici ne sono Robert Moses e Jane Jacobs, protagonisti a metà ‘900 dello scontro, dialettico e non solo, da cui in sostanza nasce la fondamentale critica al meccanicismo razionalista ancora pienamente attuale. Dottore in scienze politiche il primo, autodidatta senza alcun titolo superiore la seconda, rappresentano benissimo tante altre figure di spicco nella costruzione dell’urbanistica contemporanea, fra cui ad esempio in Italia Antonio Cederna, fra tutti.

Una grande ricchezza e complessità, che trovano un corrispettivo anche nel dibattito sulla formazione superiore dell’urbanista, cosa ben testimoniata dall’evoluzione dei corsi universitari e di specializzazione in tutto il mondo. Nel mio la Città Conquistatrice ho scelto di inserire, da questo punto di vista, i due contributi dell’europeo Gaston Bardet e dell’americano Frederick Adams: il primo con un orientamento molto tecnico e amministrativo diciamo “tradizionale” legato alle Alte Scuole francesi, il secondo più empiricamente anglosassone e aperto alle contingenze, che nel periodo in cui viene formulato vedono in primo piano le scienze sociali. Sappiamo tutti, poi, che negli ultimi decenni è emersa un’altra centralità, quella ambientale, a cui specie nel contesto europeo e italiano va sicuramente aggiunta e affiancata quella dei beni culturali e del paesaggio (questione specifica, e diversa dalla cultura del landscape). Ma, e ancora in particolare nella vicenda italiana, l’innegabile trait-d’union novecentesco di tutte le possibili prospettive urbanistiche resta comunque l’approccio progettuale, unito ad una certa sensibilità intuitiva.

E arriviamo all’attualità spicciola, che spicciola non è affatto, a ben vedere. Accade di recente nel nostro paese che per una integrazione didattica in un Laboratorio di Urbanistica universitario la Commissione giudicatrice, esaminati i curricula dei candidati, opti per un profilo non tecnico-progettuale, in particolare per una laurea spiccatamente umanistica e un percorso autodidatta. Siamo in buona sostanza, sul versante del metodo, dalle parti di Robert Moses e Jane Jacobs, ma trattandosi di concorso pubblico emerge il terzo incomodo: un ricorrente che rivendica classica e diversa interpretazione dell’urbanistica, un laureato in architettura, che si considera competente e formalmente qualificato, molto più di quanto non possano mai garantire gli altri due. Ecco: potremmo essere davvero di fronte a un’occasione per ragionare ancora sull’urbanista, sul rapporto fra discipline scientifiche, territorio, società. Invece la difesa d’ufficio della discrezionalità della Commissione (che ribadisce pubblicamente la propria scelta iniziale) ci porta in tutt’altra direzione. Ovvero dalle parti di quanto è identificato diffusamente come uno dei problemi centrali della nostra università: la selezione del personale docente.

Perché tutto, ma proprio tutto, il dibattito sull’alta formazione dell’urbanista, sin dai primi vagiti britannici a cavallo della Grande Guerra, che ne la Città Conquistatrice ho voluto riassumere con un raro articolo del giovane Patrick Abercrombie, si svolge a colpi di sistematicità dei percorsi, verificabilità dei titoli, strutturazione delle materie. Abercrombie già allora sottolineava con un efficacissimo cortocircuito quanto sia importante uscire da pur ricche vaghezze di sensibilità spazio-sociale spontanea collettiva: tutti conosciamo in qualche modo il territorio, ma l’urbanista comunque inteso sa tradurre questa conoscenza in operatività, ad esempio il militare che vince la battaglia sfruttando al meglio il campo. O per saltare ai nostri giorni il giovane Obama (tra l’altro futuro docente universitario), che da social organizer si portava appresso il libro di Jane Jacobs nel ghetto di Chicago per far interagire al meglio gli abitanti col loro quartiere. Sistematicità verificabile, percorsi di riflessione che si possono fare in una direzione o nell’altra, e che quindi sono in grado di stimolare altra sistematicità a chi si forma studiandoli e partecipando. Ad esempio in un Laboratorio di Urbanistica universitario (che è anche altro rispetto a un workshop partecipativo o a un seminario aperto).

Forse di questo, si dovrebbe parlare, replicando alle proteste, più o meno fondate, di chi si è sentito escluso da quello che considerava un diritto. Se c’è una vera differenza di legittimazione a esprimere e comunicare ad alto livello una cultura della città e del territorio, non è certo fra approcci tecnico-progettuali, o analitici, o storico-critici, o di carattere sottilmente trasversale e interdisciplinare. Piuttosto di garanzia a offrire una struttura comunicativa sistematica, e non un generico stimolo, per cui esistono altre forme, diverse da quelle degli incarichi di docenza. Almeno, così credo dovrebbe essere, ma probabilmente non ho capito nulla, e non mi riferisco solo all’urbanistica comunque intesa.

(le “prime puntate” di questa discussione aperta sono prima la notizia dal quotidiano La Nazione con relativa postilla, e poi l’articolo di Francesco Ventura sul caso)

Avevo chiesto a Francesco Ventura questo scritto anche per aprire una discussione che andasse al di là della povera contingenza. Condivido la scelta di cui in quest'articolo l'autore motiva le ragioni, e avevo promesso un mio commento. Una rapida postilla (come le postille devono essere) mi sembrerebbe però riduttiva e quindi affronterò il tema in un mio prossimo intervento, sempre su queste pagine.
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La notizia in breve

La facoltà di Architettura di Firenze ha bandito un concorso pubblico per l’assegnazione di due insegnamenti temporanei di urbanistica integrativi di Laboratori di progettazione architettonica. La commissione da me presieduta ha proposto al Consiglio di Facoltà, e il consiglio ha approvato, l’affidamento di un insegnamento a un filosofo e l’altro a un “paesologo”, maestro elementare senza laurea.

Uno dei concorrenti esclusi, che ha il titolo di dottore in progettazione architettonica e di cui ignoravo prima l’esistenza, ha fatto ricorso al TAR. Non contento e non sentendosi sicuro del buon esito del ricorso, e avendo i mezzi, ha lanciato una campagna di stampa scandalistica a sostegno del suo presunto diritto. Si direbbe quasi che il ricorso lo abbia fatto per poi lanciare l’offensiva mediatica. Tanto si sa, i processi ormai si fanno sui giornali, che sono andati con lui a nozze, scatenando poi una ridda di opinioni favorevoli e contrarie, ma per lo più abbastanza stravaganti su vari blog compreso una su Eddyburg che a suo modo vorrebbe essere benevola, ma sempre ignara dei fatti.

I giornali hanno preso qualche passaggio del ricorso e il punto di vista del ricorrente quali dati degli atti e dei fatti e li hanno pubblicati più o meno con questi toni: “una cattedra (sic!) di urbanistica assegnata a un filosofo e un’altra a un poeta senza laurea”. Ecco “il solito sistema” dei concorsi universitari. Insomma: sparando nel mucchio ci cogli sempre.

Consiglio a chi ne ha tempo e voglia di leggere un po’ di interventi sui blog, perché ce ne sono anche di veramente esilaranti come quello che suppone che qualcuno abbia voluto sistemare l’amante.

Viene in luce qualcosa di veramente illuminante: i giornali per lo più non riescono a dare notizie di atti e fatti e soprattutto del senso che chi li ha compiuti dà a quei fatti. Se fossero in grado di comunicare questo senso, poi sarebbe possibile per chiunque discuterlo. E una tale discussione sarebbe di grande utilità scientifica e culturale e non una ridda insignificante di opinioni banali (anche quando favorevoli) e di luoghi comuni astratti dalla realtà.

I mezzi di comunicazione di massa, non sapendo di che parlano, dicono “stronzate”. Questo è il titolo di un libro che consiglio a tutti di leggere: Harry Frankfurt, Stronzate. Un saggio filosofico Rizzoli 2005 (titolo originale: "On Bullshit"). La stronzata non è un falsità o un dire bugie, ma un parlare di cose che non si conoscono. Il politico è tra coloro che più è costretto, secondo Frankfurt, a dire stronzate. Ma io aggiungerei che forse molti giornalisti lo sono ancora di più. E ovviamente chiunque intervenga nel dibattito in rete che la presunta notizia scandalistica scatena arricchisce a dismisura la quantità di stronzate in cui siamo immersi nel nostro tempo. In altri termini: siamo nella merda!

Sono ancora in attesa che almeno Il Tirreno di Viareggio, città del ricorrente, e primo a lanciare lo scandalo, pubblichi la lettera di poco più di mezza pagina che con gli altri due commissari abbiamo inviato a breve chiarimento dei fatti. Ma a quanto pare fanno molta fatica a trovarle spazio.

Ora vorrei, almeno su Eddyburg, poter informare gli urbanisti e gli altri frequentatori di questo prestigioso blog, se avranno la pazienza di leggermi.

Gli antefatti

La facoltà di Architettura di Firenze ha deciso di integrare il Laboratorio di progettazione architettonica IV del Corso quinquennale di Laurea in Architettura con un insegnamento di urbanistica da 6 CFU (48 ore). Dato il numero di studenti, i Laboratori – e quindi anche i moduli – sono quattro. La sperimentazione è partita l’anno scorso e i quattro moduli sono stati affidati ad altrettanti docenti strutturati di urbanistica, tra i quali anch’io. L’ho accettato per spirito di servizio come secondo insegnamento. Per quest’anno accademico i tre miei colleghi hanno preferito altri impegni didattici. Sicché sono rimasti scoperti i relativi moduli. Uno è stato assunto da un altro collega, come me ordinario di urbanistica, e gli altri due sono stati messi a bando.

Nonostante non fossi stato tra i promotori dell’integrazione dell’urbanistica nel laboratorio di progettazione architettonica, mi sono posto, di necessità, il problema di come migliorare la sperimentazione, cercando di evitare che l’insegnamento dell’urbanistica si giustapponesse alla didattica dell’esercizio progettuale architettonico o ne fosse assorbito scomparendo di fatto.

Ho proposto che ogni studente potesse scegliere il modulo di urbanistica indipendentemente dal Laboratorio al quale fosse iscritto, senza che ciò comportasse per lo studente un esame specifico. Penso che lo studio non debba essere strumentale all’esame, ma lo scopo primario, lo dico sempre agli studenti. Ho proposto che il modulo tenuto dall’altro Ordinario di Urbanistica, Gabriele Corsani, fosse più disciplinare, di cultura urbanistica generale. Corsani ha un ottima cultura di storia dell’urbanistica. Mentre il mio modulo fosse organizzato in forma seminariale sul tema del “Culto contemporaneo del patrimonio” (urbano, paesaggistico, ambientale). E che questo mio seminario potesse avvalersi di contributi esterni, non presenti in facoltà, non strettamente disciplinari, idonei a corroborare l’approfondimento del tema.

Ci sono due criteri principali per conferire simili affidamenti temporanei a non strutturati. Uno, il più praticato, privilegia l’affidamento ad assistenti volontari del docente; preferendo a parità di condizioni coloro che hanno il titolo di dottorato (in questo caso dottorato in urbanistica, non certo, come il ricorrente, in progettazione architettonica). È questo un modo di compensare, con una piccola gratificazione accademica temporanea, l’aiuto gratuito fino a quel momento offerto dai volontari al docente. Io non ho, non ho mai avuto e non voglio assistenti. Sono assistente di me stesso e perciò libero. E quando invito qualcuno all’Università perché penso di imparare qualcosa da lui insieme agli studenti, lo assisto come un volontario. L’altro privilegia l’assegnazione a persone che possano apportare contributi didattici diversi da quelli interni, d’eccezione e, se possibile, di eccellenza.

La scelta degli affidatari

È su queste basi che i due insegnamenti integrativi sono stati affidati al filosofo e al paesologo, non laureato, su cui si sono scatenate facili e stupide ironie.

Chi sono costoro?

Emanuele Lago è un giovane filosofo, trentaquattro anni, allievo di Emanuele Severino, che nel 2005 ha pubblicato un libro in una collana Bompiani diretta da Massimo Cacciari (laurea ad honorem in architettura) intitolato La volontà di potenza e il passato. Nietzsche e Gentile. La sua lettura mi impressionò molto. Chiesi subito all’amico Severino i recapiti del giovane allievo. Il passato è il contenuto della memoria e il patrimonio è il sempre più vasto e ricco insieme delle tracce mnemoniche di ogni società, oggi del mondo intero. Ma cos’è il passato nel pensiero occidentale inaugurato dai Greci? E in che modo e perché il senso del passato è stato messo in crisi dal pensiero del nostro tempo, ossia dai grandi pensatori degli ultimi due secoli? Averne consapevolezza per chi si occupi di tutela del patrimonio è, per me, della massima importanza. Già da qualche anno, su mio invito, Lago ha tenuto seminari da noi anche con affidamenti. Lago non sente la filosofia come professione, ma come sapere in sé, perché la filosofia autentica non è una disciplina. Non ha alcuna intenzione di intraprendere la carriera accademica. Vive tranquillamente con altro lavoro e insieme continua a studiare con liberalità.

Franco Arminio, cinquantadue anni, è grande poeta e scrittore di crescente successo. Tra i molti premi ha appena vinto il “Premio letterario nazionale Paolo Volponi Letteratura e impegno civile” con il libro Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia (Mondadori 2011). Con Laterza nel 2009 ha pubblicato Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia, e molti altri in precedenza. Sarebbe troppo lungo elencarli. Coniando il termine “paesologia” ha dato un nome a un complesso di luoghi, i paesi morenti, di paesaggi in cui i paesi sono immersi e di sentimenti di straordinario interesse anche, e direi soprattutto, per gli urbanisti che guardino al territorio, al paesaggio all’ambiente e non solo all’urbanizzazione. A suo tempo ha cestinato la tesi di laurea già scritta. Un gesto encomiabile. Quando riusciremo ad abrogare il valore legale del titolo di studio?

Un paio di anni fa ho proposto e la Facoltà ha approvato un Seminario tematico sui paesi in abbandono. Insieme agli studenti e ad altri docenti mi sono messo a viaggiare nei paesi e a leggere tutto ciò che mi sembrava stare in relazione al tema. È così che mi sono imbattuto nei libri di Arminio. Ed è stato Vezio De Lucia, che già lo conosceva, a fornirmi i suoi contatti. Ai miei occhi, la sua opera, il suo peregrinare nella desolazione dei paesi, sono una potente forma poetica, originalissima, di culto del patrimonio. Qual è la sorte di questi luoghi e paesaggi? Il turismo? E cosa vuol dire? Non lo sappiamo, ma lo dobbiamo indagare. Arminio fornisce molteplici spunti anche contrastanti, tra le molte e dense parole che riesce a scrivere c’è questa che trovo bellissima e suggestiva: «turismo della clemenza».

L’attività didattica

Gli insegnamenti che il ricorrente vorrebbe a tutti costi far interrompere dal TAR sono già in corso. Con 45 studenti, io e Lago, a metà novembre siamo stati a Salvitelle e ad Aliano, il paese dove fu confinato Carlo Levi, celebrato nel suo Cristo si è fermato a Eboli. Lì Arminio ha promosso e dirige un festival molto particolare intitolato “La luna e i calanchi”, fatto di una serie di scuole paesologiche. Il TG3 della Basilicata ha dedicato ben quaranta minuti in diretta alla nostra partecipazione con interviste agli studenti, facendo in questo caso informazione corretta. (verrebbe da dire: l’arrogante turistica Viareggio e la nobile clemente Aliano).

Ci ha raggiunti Carlo Scoccianti, un biologo esperto di ecologia applicata al territorio, che da qualche anno ospito nel mio Laboratorio di progettazione urbanistica, purtroppo senza che abbia alcun incarico ufficiale (ma ciò finora mi aveva evitato scandali). È riuscito a far espropriare un centinaio di ettari nella piana fiorentina per ricostruire l’ambiente naturale scomparso (senza bisogno di mastodontiche e farraginose pianificazioni, che spesso o sono inutili o portano solo cemento). Con lavoro volontario, compresi i miei studenti, ha realizzato l’Oasi di Focognano. Ha molto da insegnare agli architetti e agli urbanisti che ritengono di sapersi occupare a vario titolo di ambiente, mostrando loro quali sono i più comuni e gravi errori che commettono quando progettano e pianificano pur nell’intento di tutelare paesaggio e sistemi ecologici.

Ebbene. Arminio si è innamorato di Lago. Lago di Arminio. Arminio si è innamorato di Scoccianti. Scoccianti di Arminio. E così via l’un con l’altro e io già con tutti e tre. Comincio a pensare che lo sconosciuto che ha scritto su qualche blog che probabilmente ho affidato gli insegnamenti a qualche amante abbia colto nel segno.

Poi Lago ha iniziato il suo seminario “La morte dell’arte” nel duplice senso della morte dell’arte di cui si parla oggi e della morte da cui l’arte trae origine, fino a chiarire il senso della crisi che sta vivendo l’architettura contemporanea. L’ordinaria di progettazione architettonica, Maria Grazia Eccheli, che con me segue, insieme a un centinaio di studenti, il Seminario, e che provenendo da Venezia conosce l’importanza dell’Estetica, dopo dieci minuti dall’inizio della prima lezione di Lago mi ha detto: “ti ringrazio di avermelo fatto conoscere e di averlo portato in facoltà”.

Insomma, gli studenti (italiani, russi, albanesi, spagnoli, iraniani, israeliani), oltre alle mie lezioni e all’esercizio della progettazione architettonica sotto la guida di docenti ordinari, seguono rapiti le parole del filosofo, viaggiano, si immergono e osservano, con “la postura del cane” come consiglia loro Arminio, la straziante desolazione dei paesi in abbandono e vanno a piantare siepi nell’Oasi in costruzione di Scoccianti, nei posti giusti e non sui cigli delle strade che si trasformano in trappole mortali per gli animali e gravi rischi per automobilisti e motociclisti.

Conclusioni

Non so se qualche lettore sia riuscito a seguirmi fin qui. Documentarsi, conoscere è faticoso. La rapida ed evanescente levità dei giornali è preferibile. Ma allora quando non si vuol faticare restano solo due vie o tacere o dire stronzate.

(qui una prima replica di Fabrizio Bottini: sarà una stronzata? corriamo il rischio)

Stupore e dolore sono i sentimenti che provo per la morte di Guido Martinotti ed è difficile per me fare una riflessione a freddo. Il mio primo “incontro” con Guido è stato attraverso la lettura dell’ “Introduzione” a Città e analisi sociologica, saggio fondamentale per chiunque voglia capire che cos’è una città e come si studia. Non ricordo, però, quando lo incontrai per davvero, quel che è certo è che per me è stata una presenza familiare e amichevole, oltre che formativa, in tutto il mio percorso accademico. L’ultima volta che lo vidi è stata a Milano-Bicocca in occasione del suo convegno La metropoli contemporanea, il 4 maggio 2010, seminario di studi che volle organizzare sia per riflettere sui temi “caldi” nonché sugli sviluppi della nostra disciplina sia per festeggiare con noi la sua andata in pensione.

Che cosa ci lascia in eredità? Di sicuro tutti i suoi lavori - La città difficile, Milano ore sette: come vivono i milanesi, Metropoli. La nuova morfologia sociale della città e La dimensione metropolitana sono solo alcuni esempi -, ma soprattutto la sua insaziabile curiosità per tutto ciò che di nuovo si va profilando sugli scenari internazionali, a partire dalle potenzialità delle nuove tecnologie nello studio dei comportamenti sociali in ambito urbano e metropolitano, e il suo sguardo ironico verso il mondo.

Senza retorica posso affermare che in Italia non si sarebbe potuta sviluppare la Sociologia urbana in modo originale rispetto alla tradizione americana e ad altre tradizioni europee, senza la presenza attivamente critica di Guido Martinotti, il quale già nella seconda metà degli anni ’60 aveva posto in evidenza quanto fosse importante una comprensione multifattoriale dei fenomeni urbani per non cadere in uno sterile iper-specialismo. In proposito, penso ad un suo articolo pubblicato nel 1985 su “Quaderni di Sociologia”, nel quale Martinotti utilizza il cubo come metafora di spazio scientifico dal punto di vista dell’analisi territoriale. Le facce del cubo sono i “confini mobili” con altrettante discipline: la geografia e la scienza dell’ambiente, l’economia, la politologia, la psicologia e le scienze del comportamento. Naturalmente egli era consapevole che questa apertura ad altri punti di vista disciplinari costituiva un rischio di indebolimento dello statuto epistemologico della sociologia urbana, rischio che recentemente in Italia ha prodotto i suoi effetti in sede di riforma dei raggruppamenti disciplinari non garantendo l’autonomia della sociologia urbana rispetto ad altri campi disciplinari. Questa è stata una delle ultime battaglie che Martinotti fece e che perdette insieme a tutti noi.

Oggi è un giorno non solo triste ma molto più povero per me e per tutti i colleghi che hanno avuto il privilegio di conoscere e di leggere Guido Martinotti.

Polemica apparentemente chiara, potrebbe nascondere anche qualcosa di diverso dal solito malcostume accademico, e solleva un problema. La Nazione, 29 novembre 2012, postilla (f.b.)

Firenze, 29 novembre 2012 - Ha presentato un ricorso al Tar della Toscana un architetto-ricercatore all'Università degli Studi di Firenze per esprimere il proprio dissenso riguardo la nomina alla cattedra di Urbanistica a due docenti non specializzati nel settore. L'insegnamento in questione è stato infatti affidato, attraverso un bando avente per criterio la sola valutazione del titolo dei candidati, ad un laureato in filosofia e ad un insegnante di scuola elementare, poeta ed esperto in paesologia (disciplina compresa tra l'espressione poetica ed il territorialismo).

L'architetto e dottore di ricerca alla scoperta dei vincitori del concorso ha subito risposto presentando un reclamo in prima istanza al preside della facoltà, tuttavia la commissione giudicante, riunitasi di nuovo per emettere un verdetto, ha confermato la graduatoria, adducendo come criterio di scelta il maggior prestigio dei curricula e quindi dei titoli dei due vincitori. Il ricercatore non ha accettato il giudizio ed ha immediatamente presentato ricorso al Tar della Toscana, non ritenendo giusto affidare due cattedre di urbanistica di 48 ore ciascuna ad un filosofo specializzato nel pensiero di Hegel e Heidegger, e ad un maestro elementare non laureato.

Postilla
Abbastanza esemplare, questo caso, della confusione che circonda la parola “urbanistica” particolarmente nel nostro paese: esaminati i curricula, una commissione universitaria giudica, e richiamata in causa ribadisce, la migliore qualificazione di alcuni candidati rispetto ad altri per l’insegnamento della materia. L’escluso presenta ricorso (ne ha pienamente diritto naturalmente) sulla base di una convinzione di fondo: urbanistica è materia da architetti, esclusivamente o prevalentemente; chi non ha competenze ed esperienze maturate nel campo della regolamentazione tecnico-normativa delle trasformazioni edilizie del territorio e dintorni è al massimo un geniale dilettante, i cui titoli culturali pesano in realtà pochissimo. Che so, come chiamare “urbanista” Celentano grazie al suo interesse per la qualità urbana, il verde, la cementificazione della via Gluck e gli alberi di trenta piani al posto dei prati di periferia.
Ma senza farla tanto lunga, cosa che pure meriterebbe, però non qui, chiedo ai classici venticinque lettori: secondo voi chi ha ragione? Il tecnico qualificato, o la commissione che prova ad esprimere un’idea di “urbanistica” adeguata ai tempi? Oppure dobbiamo cambiargli il nome e la sostanza, alle discipline della città del territorio e dell’ambiente? Sono gradite risposte, di qualunque tono, purché pubblicabili. Grazie (f.b.)

La Repubblica, 13 novembre 2012

Paolo Ravenna aveva 86 anni, se n’è andato domenica sera. Da qualche giorno era tornato a casa sua a Ferrara, in via Palestro, si era seduto dietro la scrivania dello studio. Non ne poteva più. Ci mancava dal terremoto di maggio. Poi un infarto, l’ospedale e il respiro si è spento. Ravenna era un avvocato, ma il suo mestiere era la memoria. Non una memoria colta con lo sguardo all’indietro, bensì tenendo sempre di mira l’indomani.

Famiglia della borghesia ebrea, il padre podestà fascista fino alle leggi razziali, poi la tragedia. Tutti i Ravenna muoiono ad Auschwitz: Margherita, Alba, Gino, Bianca si spegne nascosta a Roma sotto falso nome, i loro figli, tranne Eugenio, detto Gegio. Paolo e il padre Renzo si salvano, vengono internati in Svizzera. Tornato a Ferrara, Paolo porta con sé l’incarico di raccontare ogni cosa dei suoi. Senza commozione, con l’energia che un dolore sordo trasforma in vitalità. Raccoglie carte, lettere, fotografie e ogni tanto pubblica un piccolo libro. Gli fa compagnia, nel ricordo, Giorgio Bassani. Lo ha conosciuto nel ’38, quando lo scrittore dei Finzi-Contini fa lezione a casa sua per i ragazzini espulsi dal liceo Ariosto. Il cugino Gegio, sopravvissuto ad Auschwitz, è raffigurato da Bassani nel Geo Josz di Una lapide in via Mazzini.

Geo torna a Ferrara dove nessuno lo riconosce e dove incalza la fretta di dimenticare. Ravenna non ha mai fatto politica attiva, ma se Ferrara esprime una qualità urbana molto al di sopra della decenza, lo deve al suo culto per la memoria e all’esuberanza dei suoi progetti. Nel campo d’internamento conosce Antonio Cederna e, nel 1955, Ravenna è in Italia Nostra. Con Cederna mette a punto il restauro delle mura che Biagio Rossetti realizzò per la città. D’accordo con loro è Bruno Zevi. Ma il restauro è il primo passo di un programma più ambizioso: i 1200 ettari che dalle mura arrivano al Po, l’area che gli Estensi chiamavano il Barco e che è il luogo della naturale espansione di Ferrara. Ma un’espansione, un’addizione verde. Fino a quando le gambe glielo consentono, Ravenna gira con una macchina fotografica nel loden per beccare il minimo abuso.

Immagina solo proiezioni future. Il Museo della Shoah, un’idea alla quale lavora per anni, pensando persino a un edificio d’architettura contemporanea dentro il Barco. E poi una sistemazione fra arte e natura per la tomba di Bassani, nel cimitero ebraico. E poi i libri, l’ultimo sulla sinagoga di Ferrara. O quello, un’esilarante delizia, con le caricature vergate durante le riunioni di Italia Nostra – Cederna, burbero e sornione, Antonio Iannello, scamiciato e spettinato, e di nuovo Bassani. Negli ultimi anni gli occhi non lo assistono. Silvia, la segretaria, legge per lui, gl’insegna l’informatica. Ma quante idee gli brillino dentro è difficile conteggiare. Ogni tanto annuncia di volersi ritirare, ma è solo il preludio per ripartire. Era riuscito a sistemare l’archivio di casa. Aveva in calendario un libro sugli incontri di una vita. Troppo breve, la sua vita, per contenere tutta quella memoria.


Più volte Aldo Natoli ha ricordato la sua “scoperta dell’urbanistica”. Nel dialogo con Vittorio Foa del 1992 racconta che nel 1956 al comune di Roma aveva affrontato “per la prima volta i problemi dello sviluppo delle città e della loro organizzazione urbanistica come nessuno aveva mai fatto in Italia”.
Nella premessa alla ricerca di Luigi Coletta, Giuliana De Vito e Roberta Persieri sulla Proprietà fondiaria a Roma negli anni ’80 scrive che all’inizio del 1954 a lui, Luigi Gigliotti e Piero Delle Seta accadde di imbattersi “nei misteri dell’urbanistica”:
[…] giungemmo a scontrarci con il nocciolo duro della realtà; lo sviluppo, o meglio, la crescita della città non obbediva ad alcuna normativa generale, tanto meno alla razionalità di un disegno ideale; e, quanto alla funzione amministrativa e alle sue regolamentazioni, esse erano determinate, direttamente o indirettamente, dal vero motore del meccanismo della crescita e questo altro non era che l’interesse materiale dei proprietari del suolo urbano. Tutta la “scienza” urbanistica poggiava […] sulla concreta realtà del suolo urbano.

In verità è impropria la parola urbanistica. Aldo Natoli si occupò soprattutto del peso che giocava la grande proprietà fondiaria nelle decisioni riguardanti il futuro della città. Siamo nel vivo dello scontro sul piano regolatore di Roma, che si sviluppò nei primi anni Cinquanta quando Natoli era capogruppo Pci in consiglio comunale (lo fu fino al 1966, e fino al 1954 fu anche segretario della federazione). Sull’urgenza di una politica attiva delle aree fabbricabili le sue idee sono chiarissime.
Se non riusciremo a risolvere positivamente questo problema – scrive nel Sacco di Roma –, tutto il resto diventa illusorio. Noi potremo parlare quanto vorremo della conservazione del vecchio centro, della creazione di altri centri, della distinzione di centri culturali, artistici, politici, dello sviluppo della città a raggio, a stella, a nuclei satelliti, potremo parlare quanto vorremo di tutte queste belle cose; ma in realtà tutto questo non avrà nessun senso […].

Il sacco di Roma, com’è noto, raccoglie il lungo intervento di Natoli che, nel febbraio del 1954, occupò più sedute del consiglio comunale impegnato nel dibattito introdotto da Enzo Storoni, assessore all’urbanistica (sindaco Salvatore Rebecchini), che aveva concretamente messo mano alla formazione del nuovo piano regolatore generale con un’allarmata e coraggiosa relazione sull’“anarchia edilizia” imperante a Roma. Storoni era un galantuomo liberale, collaboratore del «Mondo» di Pannunzio, che cercava di ridurre lo strapotere della proprietà fondiaria attraverso strumenti fiscali e con la moralizzazione degli uffici comunali. Per Natoli, invece, che pure aveva rispetto e stima per Storoni, l’unico rimedio per bloccare la speculazione era l’esproprio delle aree destinate all’espansione e la formazione di un demanio comunale.

Aldo Natoli è stato il primo autorevole esponente politico italiano a porre così lucidamente la questione della rendita fondiaria. È bene chiarire subito che la proprietà pubblica dei suoli non era una novità: era noto il libro pubblicato in Italia nel 1951 La città e il suolo urbano, di Hans Bernoulli, importante studioso e amministratore svizzero, convinto sostenitore della proprietà pubblica delle aree urbane. Natoli aveva anche studiato le esperienze urbanistiche inglesi, svedesi, olandesi. Conosceva certamente l’art. 10 della legge di approvazione del Prg del 1931 e l’art.18 della legge urbanistica del 1942 che consentivano l’espropriazione dei suoli destinati all’espansione urbana. E soprattutto a Roma erano conosciute le realizzazioni del regime fascista (l’E42, le bonifiche e le nuove città) fondate sulla preventiva acquisizione dei suoli.

Ma allora (oggi è ancora peggio), i temi dell’urbanistica e dintorni erano considerati di natura tecnica, riservati alla competenza di specialisti, non meritevoli dell’impegno politico di vertice. Aldo Natoli fu un’eccezione. L’unico altro autorevole esponente politico italiano che si spese per la proprietà pubblica dei suoli urbani fu Fiorentino Sullo, – raro esempio di democristiano giacobino – che nel 1962, esattamente cinquant’anni fa (ma otto anni dopo Natoli), quando era ministro dei Lavori pubblici, presentò un disegno di legge di radicale riforma urbanistica. Era fondato sull’esproprio generalizzato delle aree urbane che i comuni, dopo averle urbanizzate, dovevano cedere in diritto di superficie ai costruttori privati. Com’è noto, Sullo finì male, accusato di voler togliere la casa agli italiani, fu sconfessato dal suo partito, lentamente ma ferocemente emarginato dalla politica. Ma non si spense il terrore della riforma urbanistica, tant’è che nell’estate del 1964, per paura che il primo governo organico di centro sinistra presieduto da Aldo Moro la riproponesse, fu addirittura tentato un colpo di Stato.

[Aggiungo, fra parentesi, che il terzo uomo politico di rango nazionale sicuramente attento all’urbanistica è stato Silvio Berlusconi. Beninteso su un versante opposto a quello di Natoli e di Sullo. La sua micidiale parola d’ordine è stata “padroni in casa propria”; ha firmato due condoni, e il “piano casa” che è peggio di un condono. Al paesaggio italiano Berlusconi ha fatto più danni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Adesso sembra politicamente finito ma è più che mai diffuso il berlusconismo.]

L’interesse per l’urbanistica di Aldo Natoli non fu adeguatamente apprezzato dai vertici del Pci. Sempre nel dialogo con Vittorio Foa ricorda che quando nel 1954:
nel lasciare la segreteria della Federazione romana, feci un rapporto al Congresso della federazione tutto impostato sulle questioni dello sviluppo della città e quindi sulla prospettiva di una riforma urbanistica, c'era Togliatti presente e non disse niente. Poi parlando con degli altri disse che questi erano problemi da intellettuali. […]. Cosa che poi mi fu riferita. Ma del resto, lo ripeto, non ebbi mai l'appoggio. La cosa che bisognava fare allora, con la grande forza che il partito aveva nelle amministrazioni comunali, era la mobilitazione di queste amministrazioni comunali perché si impegnassero nella preparazione di Piani Regolatori moderni. Non è stato mai fatto questo. Io sono stato isolato sempre, cioè nessuno mi ha mai impedito di fare certe cose, però le facevo da solo e il tentativo di generalizzare il lavoro che si era fatto a Roma, che pure aveva avuto una grande risonanza nazionale, di generalizzare questo lavoro nei comuni, non si fece.

Edoardo Salzano, che nel 1966 successe a Carlo Melograni nel gruppo consiliare capitolino del Pci, nel suo libro di memorie conferma il disincanto di Aldo Natoli e scrive:
Il leader del ruppo consiliare non era più Aldo Natoli, che era su posizioni molto rigorose. […] Ma era l’insieme dell’atteggiamento del Pci che stava cambiando. L’urbanistica, almeno a Roma, non era più argomento centrale: le sue scelte potevano essere adoperate come merce di scambio per ottenere altri vantaggi […]. Così, in cambio d’un atteggiamento della Dc più vicino alle posizioni della sinistra sui grandi temi simbolici (come l’approvazione unanime da parte del consiglio di un ordine del giorno contro la guerra del Vietnam) assumemmo un atteggiamento più disponibile sulla politica urbanistica.

Intervistato da Peter Kammerer e Stefano Prosperi nel 2001 Aldo Natoli insiste sul colpevole silenzio del partito che “duole dirlo, neanche i dieci anni di amministrazione capitolina di sinistra sono valsi ad interrompere. In campo politico, civile, economico-sociale, culturale, una sconfitta che nulla vale ad attenuare”. Il riferimento di Natoli al decennio delle amministrazioni di sinistra (1976-1985, da Argan a Vetere) è in larga misura da condividere, ma a me dispiace di non sapere qual è stato il suo giudizio su Luigi Petroselli. Il quale, da giovane dirigente politico e amministratore di Viterbo, sensibilizzato proprio dall’azione capitolina di Natoli, aveva posto l’urbanistica al centro del suo impegno e, a Roma, nel progetto per Tor Bella Monaca realizzò un’inedita intesa con i costruttori romani disposti a operare su area pubblica, sottraendosi al canto delle sirene della speculazione fondiaria. Infine, devo aggiungere, mi dispiace non aver trovato nelle interviste citate alcun apprezzamento per il progetto Fori, la più bella idea per l’urbanistica di Roma moderna, sostenuta con entusiasmo da Petroselli.

Non dimentico di ricordare che Natoli fu sempre privo di indulgenza per l’abusivismo. A Kammerer e Prosperi dichiara: “tu sai quanto era sensibile a quel tempo la direzione del Partito alla alleanza con certi strati di piccoli borghesi. Il problema di avere una influenza sulla piccola borghesia era uno dei cardini della strategia di allora del partito, non della tattica, ma della strategia”. E a Roma la piccola borghesia è certamente quella degli abusivi. Nella citata prefazione alla ricerca sulla proprietà fondiaria scrive delle “fandonie sulla «metropoli sponanea» e di Roma soggetta “senza alcuna possibilità di riscatto ad una mala, sordida continuità. Speculazione fondiaria, abusivismo, crescita a macchia d’olio: questa la triade fenomenica”. La metropoli spontanea è il titolo di un famoso convegno del 1983 in Castel Sant’Angelo, voluto dal comune di Roma (allora amministrato dalle sinistre) proprio per celebrare l’abusivismo. L’unico comunista autorevole che prese le distanze fu Piero Della Seta.

L’impegno urbanistico di Aldo Natoli non fu adeguatamente riconosciuto neanche dagli studiosi dell’urbanistica romana, e mi riferisco in particolare a quelli pur critici con le amministrazioni democristiane. I prestigiosi fascicoli 27 e 28-29 della rivista «Urbanistica» integralmente dedicati alla formazione del piano regolatore di Roma negli anni Cinquanta, trattano pochissimo di Natoli. Carlo Melograni, che fu con Natoli nel gruppo capitolino del Pci dal 1960 al 1966, conferma che l’avversione al Pci era innegabile anche in alcuni dei migliori urbanisti di quella stagione, simpatizzanti democristiani (Leonardo Benevolo, Michele Valori) e olivettiani (Giovanni Astengo, Ludovico Quaroni). L’eccezione fu Italo Insolera. Sul n. 40 di «Urbanistica», trattando del dibattito relativo all’adozione del piano di Roma nel 1962, prende le distanze dalla “posizione preconcetta anticomunista, in una situazione in cui i comunisti si assumono l’impegno dell’estrema difesa del rigore urbanistico”.

Nella prefazione al volume di Piero Della Seta, Carlo Melograni e Aldo Natoli che raccoglie i loro interventi in quello stesso dibattito, difende con convinzione la decisione comunista di votare contro l’approvazione del piano (che pure era firmato da Luigi Piccinato e altri importanti urbanisti). Un piano affetto da un esorbitante dimensionamento e da vistose previsioni a favore della grande proprietà fondiaria, ma di quel piano vanno pure apprezzati la chiarezza con la quale si proponeva di costruire la città moderna nella prima periferia orientale, accanto alla Roma storica e il vasto e diffuso sistema di verde pubblico formato da giardini storici (villa Ada, villa Chigi, villa Doria Pamphili) e da parti pregiate dell’agro romano (Castel Fusano, Castel Porziano, Veio, Valle dell’Aniene e poi l’Appia Antica).

Il voto contrario del Pci ha avuto un’importanza storica. Fu una decisione, coraggiosa, ben motivata, razionale e radicale, tuttavia molto sofferta e accolta dal partito non senza disagio. Una decisione la cui lungimiranza si è imposta con il passare degli anni ed ha accreditato a lungo la competenza e il rigore del Pci in materia di urbanistica.
L’isolamento dal mondo degli intellettuali non sfuggì certo a Natoli che, nella citata intervista di Kammerer e Prosperi, lamenta giustamente la distanza con la quale urbanisti e intellettuali progressisti trattavano la posizione comunista: “Ora leggo dei libri che vengono pubblicati in cui – scrive Natoli – quello che ho fatto io nei primi anni al consiglio comunale è completamente ignorato, completamente come se non fosse esistito”.

Torno alla biografia di Natoli. Nel 1954, quando lasciò la federazione di Roma per la direzione del partito si occupò della sezione Lavoro di massa con Luigi Longo, e lo fece con grande impegno. Il rapporto con gli operai lo travolse, finì con il dimenticare le precedenti esperienze. E nel 1956 (secondo Natoli, “l’anno in cui finisce la speranza”), dopo i fatti dell’Ungheria e il XX congresso del Pcus, fu spostato (retrocesso?) agli Enti locali, ma non ci pensò nemmeno a tornare all’urbanistica. Eppure, nel colloquio con Foa, riferendosi ai primi anni Sessanta, dichiara:
Pensa che cosa si poteva fare in Emilia, in quegli anni il partito controllava tutti i capoluoghi di provincia, se si fosse sistematicamente lavorato nei comuni per attuare e per, come dire, preannunciare la riforma urbanistica. Non si è fatto. Io ho chiesto più volte che si facesse, non l'ho mai ottenuto, non si è mai fatta una riunione. Mentre si sono fatte le riunioni del Comitato Centrale in cui si è parlato della nazionalizzazione dell'industria elettrica o addirittura della nazionalizzazione della Montecatini così si diceva allora, non è stato mai fatto nulla per la riforma urbanistica, sono stato sempre isolato. Infatti, qualche anno dopo, io ho deciso di non occuparmi più dell'urbanistica, perché mi ero reso conto che non potevo assolutamente modificare la posizione del partito.

La verità è che Natoli è preso da altre passioni. Dimentica o ignora che, proprio nel 1960 – lo ricorda Carlo Melograni –, si svolse un incontro con Mario Alicata, allora responsabile nazionale della cultura, con esponenti del Pci di Bologna che chiedevano la disponibilità di un compagno romano per l’incarico di assessore all’urbanistica del capoluogo emiliano (invito raccolto, com’è noto, da Giuseppe Campos Venuti): era evidentemente ancora indiscutibile il primato urbanistico del partito di Roma.
Ma Natoli l’urbanistica l’ha ormai lasciata spalle. Approfondisce la critica all’Unione Sovietica, comincia a seguire l’esperienza cinese.
Ed è lo stesso negli anni successivi, intorno al 1968, quando segue con attenzione la nascita della contestazione operaia e studentesca. Non possono essergli sfuggite le forti manifestazioni organizzate, in particolare a Torino nel 1969, proprio intorno all’insostenibilità della condizione urbana e dalla drammatica carenza di alloggi. La riforma urbanistica era fallita nel 1963 soprattutto perché Sullo – a causa dell’alterigia propria di un intellettuale giacobino –, non aveva capito l’importanza di un sostegno di massa. Anzi, contro Sullo si formò un fronte interclassista (“le fanterie” e “gli stati maggiori” della speculazione, secondo un’intramontabile definizione di Valentino Parlato).

Ma nel 1968 e negli anni successivi è cambiato tutto. Lo sciopero generale del 19 novembre 1969 per l’urbanistica e la casa fu una delle più possenti manifestazioni dell’Italia contemporanea e i risultati si videro, tant’è che nei mesi successivi, proprio grazie al sostegno operaio e sindacale, si ottennero importanti leggi di riforma del settore dell’edilizia abitativa e dei servizi collettivi.
Ma Aldo Natoli è ormai lontano.
E della sua azione in campo urbanistico non resta niente: questa è la mia amara riflessione conclusiva. Come non resta niente del tentativo di riforma urbanistica di Fiorentino Sullo, né della Roma di Luigi Petroselli. Non resta niente dello spirito autenticamente riformatore del centro sinistra. A me pare che in nessun campo come il quello delle politiche territoriali sia stato così rovinoso l’effetto delle filosofie neoliberiste che si sono affermate a partire dai primi anni Ottanta e hanno scompaginato anche la politica e la cultura di sinistra. Che negli anni più recenti ha accettato ambiguamente, ma più spesso esplicitamente, il primato della proprietà fondiaria, quella grande e quella minuta, quella legale e quella illegale.

Mi limito a tre esempi:
- nel 1986 la marcia, sostenuta dal Pci (Lucio Libertini), dei sindaci siciliani a favore dell’abusivismo
- nel 2005 la cosiddetta legge Lupi – dal nome del suo principale ispiratore, il deputato di Forza Italia Maurizio Lupi – con il complice silenzio della sinistra, che cancella il principio stesso del governo pubblico del territorio, non approvata per un pelo
- nel 2008 l’approvazione del nuovo piano regolatore di Roma (sindaci Francesco Rutelli e Walter Veltroni), rispetto al quale il piano regolatore del 1962 (quello che raccolse il voto contrario dei comunisti) è un capolavoro di cultura politica e urbanistica.

Com’è stata possibile, in pochi decenni, una così devastante regressione?


Di grande e raffinata cultura aveva collaborato a«Urbanistica informazioni» negli anni in cui la rivista bimestrale dell’Inu fudiretta da Eddy Salzano. Aveva curato in particolare la rubrica Anologia dove pagine di autori classicio comunque importanti per il nostro lavoro – da Hans Bernoulli a RanuccioBianchi, da Carlo Cattaneo a Manlio Rossi Doria – erano presentate da Francocon una nota densa di intelligenza e di curiosità. Aveva pubblicato saggi ericerche (Morfologia territoriale eurbana del 1983, Immaginazione di Roma, del 1994), nel 2008 Storia dell’Inu, Settant’anni di urbanistica italiana 1930-2000, con prefazione diAlessandro Montebugnoli. Negli ultimi anni aveva collaborato con il sindacatodei pensionati Cgil, proponendo anche nuove soluzioni urbanistiche etipologiche. Ciao Franco, non ti dimentichiamo.

Salvatore Settis I falsi difensori del paesaggio che violano la Costituzione

Il paesaggio e la sua tutela:«Quale è, su questo punto, la favoleggiata “agenda Monti”?». La risposta sembra chiare. La Repubblica, 21 ottobre 2012

IL DISEGNO di legge sulle semplificazioni appena approvato dal Consiglio dei ministri si scontra con un piccolo intoppo: la Costituzione. Il ddl modifica la normativa sui permessi di costruire nelle zone con vincolo paesaggistico. Ma insiste nella “dottrina Confindustria” secondo cui la tutela del paesaggio è un inutile freno all’edilizia, considerata contro ogni evidenza come il principale motore dell’economia del Paese.

Tre sono gli strumenti escogitati negli ultimi anni per vanificare la tutela del paesaggio in barba alla Costituzione: la devoluzione di fatto ai Comuni delle procedure autorizzative, la diluizione dei pareri tecnici dei Soprintendenti in “conferenze dei servizi” dominate dalle istanze della politica localistica, e infine varie forme di silenzio-assenso (“chi tace acconsente”). È su quest’ultimo punto che interviene il ddl in discussione. Il silenzio-assenso, nato per tutelare il cittadino dall’inerzia della pubblica amministrazione, non può applicarsi in qualsiasi ambito, e infatti la legge 537/1993 ne escludeva beni culturali e paesaggio. Tuttavia si tentò con ripetuti colpi di mano di rovesciare le carte, in un idillio bipartisan in cui il ddl Baccini del 2005 (governo Berlusconi) e il ddl Nicolais del 2006 (governo Prodi) si somigliano come due gocce d’acqua. In ambo i casi, lo scempio fu denunciato da questo giornale e da altri, bloccando l’iter dei provvedimenti. Ma il governo Berlusconi, già in avanzato stato di decomposizione, portò a segno nel maggio 2011 un colpo di coda, il D. L. 70 (poi L. 106): il silenzio-assenso veniva introdotto modificando il testo unico sull’edilizia e il Codice dei beni culturali.

Ora, che cosa fa il ddl Monti? In apparenza migliora la situazione, togliendo dal Codice lo smaccato invito alle procedure di silenzio-assenso. Ma gli apparenti miglioramenti, su cui l’ignaro Ornaghi si auto-elogia a vuoto, non cambiano in nulla la sostanza anzi la confermano fingendo di volerla sanare. Il dispositivo che risulta dal nuovo ddl, in un labirinto di commi e codicilli, è confuso e farraginoso, ma qualche punto è chiaro. I permessi di costruire nelle aree vincolate vanno richiesti a uno “sportello unico” presso ciascun Comune. Le Soprintendenze, organo a cui la legge affida la tutela del paesaggio, vengono interpellate insieme con le altre ammini-strazioni, e possono essere convocate in conferenze di servizi dove sono ovviamente in posizione minoritaria. Per giunta, il parere dev’essere reso “in conformità al piano paesaggistico” locale, cioè può non tener conto dei vincoli ministeriali, a volte non inclusi nel piano paesaggistico, a volte successivi ad esso. In ogni caso, il parere delle Soprintendenze dev’essere espresso entro 45 giorni; se no, il Comune può decidere quel che gli pare. Con la pistola alla tempia, i Soprintendenti o decidono o perdono ogni potere: di fronte a questo dato di fatto, la dichiarazione del Ministero secondo cui «la nuova norma rafforza la tutela» è irresponsabile. Perché la tutela si rafforzi è indispensabile che vi sia chi la fa: ma le Soprintendenze sono delegittimate dall’incompetenza e dall’inerzia degli ultimi tre ministri, e al 40% coperte per reggenza; i loro funzionari sono in costante calo numerico per carenza diturn-over, hanno un’età media di 55 anni, e sono stati borseggiati da cinici tagli di bilancio, tanto che mancano i soldi per pagare il telefono e per ispezionare il territorio. In queste condizioni, ridurre da 90 a 45 giorni i tempi di risposta è uno sberleffo ai funzionari che provano eroicamente a fare il proprio lavoro.

Fingendo di dar risalto al parere delle Soprintendenze, il ddl Monti le mette in condizioni di minorità, introducendo una nuova versione del famigerato silenzio-assenso: il silenzio-abdicazione. Si demanda di fatto ogni decisione ai Comuni che dappertutto, con un sottobosco di deleghe e subdeleghe, gestiscono il territorio in funzione di manovre elettorali e degli interessi dei costruttori. Ma il silenzio-assenso in tema di paesaggio è contrario all’art. 9 della Costituzione, come ha dichiarato la Corte Costituzionale in almeno cinque sentenze: in questa materia «il silenzio dell’Amministrazione preposta non può avere valore di assenso» (sentenza 404/1997). Il silenzio non ha di per sé alcun significato giuridico: è il legislatore che sceglie se attribuirgli un significato, e quale. Se il legislatore privilegia l’interesse pubblico a tutelare il paesaggio, attribuirà al silenzio dell’amministrazione il valore di un diniego; se (come nel ddl Monti) gli dà invece valore di assenso o, che è lo stesso, di abdicazione in favore dei Comuni, privilegia l’interesseprivatodi chi intende devastare boschi, coste, zone archeologiche. Questo disegno di legge impegna la credibilità del governo e il rispetto della Carta fondamentale dello Stato. Ma l’assalto al paesaggio italiano è, a quel che pare, irrinunciabile: basti pensare alle dichiarazioni (Passera, Ciaccia) sulla cementificazione del territorio con grandi opere da finanziarsi con denaro pubblico, cioè accentuando i tagli alla spesa sociale.

Anche il ddl Catania sui suoli agricoli, partito bene, sta intanto cambiando pelle, tanto che secondo l’assessore all’urbanistica della Toscana, Anna Marson, «il testo dichiara di voler tutelare i suoli agricoli e limitarne il consumo, ma nei suoi dispositivi concreti rischia di produrre nuovo consumo di suolo, anziché ridurlo». La debole risposta del ministro dei Beni culturali non fa notizia: Ornaghi, si sa, ha la genuflessione facile. Con accanimento suicida, si invocano le ragioni dell’economia, le stesse che da trent’anni a questa parte legittimano condoni, sanatorie e piani casa in nome di uno sviluppo che non c’è stato. Come ha scritto l’antichista David Sedley, la passività dei governi rispetto alle pretese leggi dei mercati, sempre più simile a una superstizione, ha la funzione che nell’impero romano ebbe l’astrologia (anche imperatori assai pragmatici non muovevano un dito senza consultare gli astrologi di corte). Ma la tutela del paesaggio è vitale nel sistema di diritti della Costituzione: è espressione dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art.2), indirizzata al «pieno sviluppo della personalità umana» (art.3), collegata alla libertà di pensiero e di parola (art.21), alla libertà dell’arte, della scienza e del loro insegnamento (art.33), al diritto allo studio (art.34), alla tutela della salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art.32).

Secondo la Costituzione il bene comune non comprime, ma limita i diritti di privati e imprese: alla proprietà privata deve essere «assicurata la funzione sociale» (art.42), la libertà d’impresa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» (art.41). Mettiamo dunque sul tappeto questa domanda: l’alto orizzonte di diritti che la nostra Costituzione consegna ai cittadini è compatibile con le (vere o false) costrizioni dell’economia? E se non lo è, come si risolve il contrasto, archiviando la Costituzione o agendo sull’economia e sulla politica? Quale è, su questo punto, la favoleggiata “agenda Monti?

Su proposta del ministro per le Politiche agricole, il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge quadro sulla valorizzazione delle aree agricole e il contenimento del consumo del suolo. L’obiettivo – meritorio – dell’iniziativa è porre un freno a quella che Italo Calvino, nel suo romanzo La speculazione edilizia, chiamava “la febbre del cemento”: la bramosia di edificare anche dove e quando non serve, alimentata dall’alleanza tra il potere politico-amministrativo, ampiamente inteso, e l’insieme degli operatori economico-professionali del settore dell’edilizia. A leggere sul sito del Governo il comunicato che illustra il contenuto del disegno di legge, si resta sorpresi da una certa veemenza del lessico: l’obiettivo è “di disincentivare il dissennato consumo di suolo”, al quale ci si è abbandonati finora (nel comunicato si ricorda che “in Italia ogni giorno si cementificano 100 ettari di superficie libera”). La novità del ricorso ad aggettivi con forte connotazione negativa è il segno della necessità di porre un argine a quella parte dell’edificazione gonfiata da aspettative speculative.

Buoni propositi in attesa di fatti

Per perseguire i suoi buoni propositi, il ddl prevede il ricorso ad alcune misure puntuali e a uno strumento di pianificazione di portata più generale. È da quest’ultimo che ci si attende il maggior contributo alla salvaguardia del suolo agricolo, contenendone la trasformazione in edificabile; ma è anche quello che suscita qualche perplessità. Quanto alle iniziative di carattere specifico, sono diverse e i risultati che sarà possibile conseguire dipenderanno dal come ognuna sarà attuata. Viene vietato, per almeno dieci anni, il cambio della destinazione d’uso dei terreni agricoli che hanno usufruito di aiuti di stato o comunitari (art. 3); si incentiva il recupero del patrimonio edilizio rurale (art. 4); presso il ministero delle Politiche agricole è istituito un registro dei comuni virtuosi che economizzano il consumo del suolo agricolo (art. 5); si abroga (art. 6) la normativa che autorizza i comuni a impiegare una parte (arrivata fino al 75 per cento del totale) degli introiti derivanti dagli oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa corrente.

Oneri di urbanizzazione per strade e scuole

Quest’ultima previsione è particolarmente rilevante. La distrazione di una quota degli oneri di urbanizzazione dalle loro finalità naturali di finanziare la realizzazione di strade, fognature, acquedotti (opere di urbanizzazione primaria), scuole, palestre (opere di urbanizzazione secondaria), è stato un modo per addolcire l’opposizione o ottenere l’assenso dei cittadini alla trasformazione di terreno agricolo in aree edificabili anche quando non servivano. Ai cittadini si è proposto uno scambio tra espansione edilizia e minori tasse per pagare i servizi di cui beneficiano. Nell’immediato hanno la percezione di un vantaggio, perché non mettono in conto che essi stessi e i loro figli e nipoti dovranno pagare i costi dell’accresciuta domanda di servizi indotta dalla nuova edificazione. Il solo impiego di una quota degli oneri di urbanizzazione per coprire la spesa corrente amplifica di per sé il “dissennato consumo di suolo”. Quando viene edificata una nuova area, le opere di urbanizzazione devono essere comunque fatte, se non si vogliono costruire ghetti senza strade, scuole e servizi. Poiché il comune non può sostenerne la spesa, vengono realizzate dalle imprese coinvolte nelle lottizzazioni, le quali vengono compensate con premi di superfici edificabili.

Chi decide quanto costruire

Restituire la totalità degli oneri di urbanizzazione alla loro originaria finalità è senz’altro opportuno, non è, però, sufficiente a bloccare il consumo del territorio originato dalla speculazione – che, infatti, avveniva anche quando gli oneri non erano destinati in parte a spesa corrente. Per questo il governo propone un intervento molto più radicale, ma sulla cui efficacia e operatività è difficile scommettere. Con un decreto interministeriale (Agricoltura, Ambiente, Infrastrutture e trasporti) “è determinata l’estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale” (comma 1, art. 2 del Ddl). In sostanza, tenendo conto del terreno agricolo disponibile, di quanto già edificato, degli immobili non utilizzati, della domanda di case e infrastrutture, vengono calcolati dei “numeroni” su quanti metri quadrati di abitazioni, capannoni, strade eccetera devono essere costruiti in Italia. Questa superficie agricola edificabile viene ripartita tra le Regioni, le quali, a loro volta, la suddividono tra i comuni, considerando anche la loro popolazione. Il ddl non dettaglia i criteri per la determinazione, con cadenza decennale, dell’estensione di superficie agricola edificabile a livello nazionale, né quelli per sua ripartizione ai livelli territoriali sottostanti. Il meccanismo, però, richiama alla mente la pianificazione di stampo sovietico e rischia di produrre effetti inefficaci e paradossali non dissimili da quelli che si verificavano in Urss: là i campi venivano annaffiati anche mentre pioveva, perché così era programmato, da noi si corre il rischio che a Regioni e comuni con un sovrappiù di capacità edificatoria rispetto alle esigenze, facciano da contrappunto Regioni e comuni con un deficit, perché quella è la situazione determinata dalla ripartizione territoriale dell’ammontare nazionale di suolo agricolo edificabile (ammesso, e non concesso, che tale ammontare rifletta il reale fabbisogno del paese).

Una misura transitoria

La procedura che dovrebbe disegnare la geografia delle aree edificabili nel nostro paese sembra macchinosa e foriera anche di innescare una conflittualità tra territori e tra livelli istituzionali. Di certo, se mai sarà attuata, comporterà una spoliazione delle competenze in materia di pianificazione urbanistica ora esercitate da Regioni e (soprattutto) comuni, senza, tuttavia, la certezza di conseguire l’obiettivo. L’intervento dello Stato potrebbe essere molto più efficace se, in attesa di una più ponderata riforma delle norme sul governo del territorio, inducesse le amministrazioni comunali a una maggiore parsimonia nella definizione e attuazione delle previsioni dei loro strumenti urbanistici. Un buon passo avanti, per esempio, potrebbe essere una misura transitoria che consenta ai comuni di approvare nuovi piani attuativi di aree già edificabili solo successivamente alla totale attuazione di quelli approvati in precedenza. In questo caso, anche le aree già trasformate in edificabili dal Prg, sfuggirebbero alla “dissennata cementificazione” finché non vi fossero reali bisogni da soddisfare e non fosse possibile farlo in altro modo. Sembra una piccola cosa, ma potrebbe dare grandi risultati.

Osservazioni al disegno di legge in materia di valorizzazione aree agricole e di contenimento del consumo di suolo.

Art. 1 Si propone una definizione più mirata delle motivazioni a cui risponde la legge:

1. La presente legge detta principi fondamentali per la conservazione e la valorizzazione dei terreni agricoli, al fine di promuovere l'attività agricola -necessaria anche nel contenimento dissesto del territorio - riconoscendole un ruolo fondamentale per il perseguimento di un rapporto equilibrato tra sviluppo delle aree urbanizzate e aree rurali, al fine di contenere e progressivamente azzerare il consumo di suolo libero, nonché per la tutela del paesaggio in attuazione della Convenzione Europea del Paesaggio e dell'art. 9 della Costituzione.

Al comma 2, si ritiene più opportuna la seguente definizione: Le politiche di tutela e valorizzazione del territorio e del paesaggio agricolo e di contenimento del consumo del suolo e di sviluppo territoriale sostenibile sono coordinate con la sono attuate mediante la pianificazione paesaggistica prevista dalle disposizioni della Parte Terza del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni.

Al comma 3, si ritiene fortemente limitativa la definizione di aree agricole in rapporto alla loro destinazione in seno agli strumenti urbanistici vigenti. Occorre infatti tenere presente che in tutta Italia gli strumenti urbanistici vigenti hanno fino ad oggi previsto ampliamenti dell'urbanizzato in funzione di scenari di sviluppo economico e demografico largamente eccedenti le verosimili proiezioni, generalmente basandosi sull'assunto che i nuovi bisogni insediativi fossero sempre e comunque corrispondenti ad ampliamenti dell'urbanizzato, considerando il tessuto urbano come 'consolidato' non solo nel suo perimetro ma anche nelle sue funzioni, e trascurando così sistematicamente i vuoti funzionali lasciati alle spalle dai nuovi fronti urbani. Pertanto, la gran parte delle aree considerate “urbanizzabili”, non solo non saranno realisticamente urbanizzate, ma in molti casi risulta opportuno vengano fatte oggetto di revisione, onde verificare se i bisogni insediativi ivi localizzati non possano trovare altra, e più idonea, localizzazione all'interno del perimetro del tessuto urbano consolidato. Inoltre, il concetto di piani urbanistici 'vigenti' senza alcuna indicazione di soglia temporale fa sì che la semplice acquisizione dell'attributo di 'vigenza' di un piano urbanistico, indipendentemente da quando venga approvato, determina il venir meno automatico della attribuzione di area agricola: non è pertanto superflua la specificazione di una 'vigenza' entro l'entrata in vigore della presente legge, o comunque una scadenza temporale adeguatamente ravvicinata. Si richiede in ogni caso di definire le aree agricole in funzione del loro stato di fatto (come già avviene ad esempio nella legislazione della regione Lombardia), includendo anche le aree forestali:

“Ai fini della presente legge costituiscono terreni agricoli tutte le superfici interessate dalla presenza di suoli produttivi o comunque vegetati, coltivati, incolti o forestali, comunque non interessate libere da edificazioni e infrastrutture allo stato di fatto. Sono fatte salve le aree per le quali sono stati rilasciati titoli edilizi alla data di entrata in vigore della presente legge”

Art. 2 commi 1-4 e 9-10 Si riterrebbe molto opportuno, in incipit, introdurre un riconoscimento e una attribuzione valoriale al suolo: il suolo è un bene comune e una risorsa naturale fondamentale della Nazione. La progressiva espansione di aree urbanizzate e di usi del suolo concorrenti con la produzione vegetale determina effetti ambientali estremamente gravi ed una erosione irreversibile delle potenzialità produttive derivanti dalle lavorazioni agricole e forestali dei suoli e delle vegetazioni

La definizione di una soglia massima di superficie agricola 'edificabile' e il meccanismo di applicazione prospettato dalla norma (secondo una logica discendente, dal Governo, alle Regioni, ai Comuni) è una opzione di regolazione del consumo di suolo che non ci sentiamo di condividere stante la definizione di cui al primo articolo. In base alla lettera del testo, essa verrebbe infatti definita per sottrazione rispetto al suolo agricolo residuo alle previsioni urbanistiche vigenti in essere o future: ferma restando la possibilità di edificare per effetto di previsioni urbanistiche vigenti, si tratterebbe di una possibilità ulteriore, attualmente non data, di trasformare aree agricole. La proposta diventa ovviamente interessante se la definizione di area agricola viene modificata e resa aderente all'effettiva consistenza delle superfici agricole, e se la soglia di incremento, coerentemente con lo spirito della iniziativa legislativa, viene definita ad un livello molto inferiore al tasso annuo di variazione registrato negli ultimi decenni con riguardo alla componente 'superfici edificate', tenendo conto del patrimonio edilizio inutilizzato, sotto-utilizzato e recuperabile e se la stessa soglia di incremento ricomprende al suo interno anche le previsioni non attuate degli esistenti strumenti di pianificazione comunale. Preme in questa sede osservare come il meccanismo sotteso alla definizione di una soglia massima prescrittiva, concettualmente semplice, sia invece di attuazione estremamente complessa, in considerazione delle competenze pianificatorie concorrenti di Regioni ed enti locali, e della non­linearità del processo pianificatorio, che notoriamente risponde poco a meccanismi di comando-controllo di natura esclusivamente amministrativa. Inoltre, la distribuzione tra tutti i comuni di quote di territorio agricolo edificabile prefigura una attuazione della norma deresponsabilizzante per l'ente territoriale, che si troverebbe a disporre di una aliquota di superficie edificabile, additiva rispetto a quella derivante dalla propria pianificazione territoriale, in ogni caso utilizzabile a prescindere da appropriate valutazioni di fabbisogno locale, la stessa, per essere ritenuta sostenibile (come prima indicato), non dovrebbe essere additiva, ma comprensiva delle previsioni pianificatorie non ancora attuate. Infine, la definizione di una soglia per l'edificabilità dei terreni agricoli, operativa nel suo recepimento da parte del piano urbanistico comunale, affronta solo una parte del problema del consumo di suolo, che avviene certo per progressione di edificazioni, ma anche per altre trasformazioni (reti infrastrutturali, cave, discariche, cantieri, aree attrezzate, ecc.), gran parte delle quali non dipendenti da potestà decisionali di livello comunale, ma ugualmente meritevoli di adeguata considerazione circa l'effettiva inevitabilità del consumo di suolo che ne deriva. Riteniamo in ogni caso che non si possano a priori prevedere limiti, comunque fissati, all'urbanizzazione di suoli agricoli, se, a monte, non si è censito il fabbisogno effettivo e non lo si è rapportato alle potenzialità di reimpiego di spazi già urbanizzati ma inutilizzati o sotto-utilizzati. Riteniamo pertanto che la presente legge debba prioritariamente imporre il censimento del patrimonio edilizio esistente e le sue potenzialità residue, e solo dopo questa varare specifici provvedimenti che concedano aliquote di nuovo consumo di suolo, demandando alle Regioni le modalità attuative, nonché i compiti di verifica e controllo dell'espletamento degli obblighi di censimento da parte dei singoli Comuni, ma stabilendo in ogni caso, fino all'adempimento di tale verifica, una sospensione dell'efficacia di tutti i piani e varianti per gli ambiti la cui attuazione contempli l’esigenza di nuovi consumi di suolo libero, nonché il divieto di approvarne di nuovi.

A valle del censimento, la quantificazione di fabbisogni che richiedono un consumo di nuovo suolo agricolo deve essere effettuata tenendo conto delle vigenti previsioni di carico insediativo dei piani urbanistici (prevedendo, nel caso che queste siano superiori, una adeguata rimodulazione delle previsioni di crescita).

commi 6-8 La funzione di 'monitorare il consumo di superficie agricola sul territorio nazionale e il mutamento di destinazione d'uso dei terreni agricoli' appare impropriamente attribuita ad un Comitato interministeriale costituito ad hoc, quando invece si tratta di funzione che appare più appropriatamente attribuibile ad una istituzione di studio e statistica territoriale quale, ad esempio, ISTAT, che già opera in questo campo e che il Senato della Repubblica ha recentemente indicato come istituzione di riferimento per il rilevamento e il monitoraggio del consumo di suolo. Quanto si richiede è, piuttosto, che le legende, le scansioni temporali, l'accuratezza e il grado di risoluzione delle misure vengano predeterminati in accordo con i criteri adottati da altre istituzioni e centri studio (ISPRA, JRC, Servizi tecnici delle Regioni, AGEA, CRCS-Politecnico di Milano), già attive in questo campo, onde individuare un protocollo comune di rilevamento e monitoraggio, scalabile fino al livello comunale e coerenziato con i sistemi di misura in essere negli altri Paesi UE. Si richiede inoltre una classificazione nazionale organica e coerente dei suoli agricoli in base alla classe agronomica, adottando per esempio il criterio introdotto in Piemonte da IPLA.

Si propone invece di attribuire a detto comitato la funzione di coordinare e monitorare l'attuazione della strategia nazionale per la riduzione del consumo di suolo, nonché di prevedervi la partecipazione di tre rappresentanti rispettivamente designati dalle organizzazioni agricole, delle associazioni riconosciute di protezione ambientale, delle istituzioni scientifiche

Art. 3 Si propone di prolungare ad almeno 20 anni il divieto di mutamento di destinazione per i terreni che hanno beneficiato di aiuti di Stato e Comunitari relativi alle misure di miglioramento del paesaggio agrario (molte delle quali prevedono interventi di natura agropaesistica e forestale la cui maturità interviene ben oltre i 5 anni dall'impianto).

Al comma 1, si ritiene pertanto più opportuna la seguente definizione:

I terreni agricoli in favore dei quali sono stati erogati aiuti di Stato o aiuti comunitari non possono avere una destinazione diversa da quella agricola per almeno venti anni dall’ultima erogazione salve più restrittive disposizioni esistenti. Fino alla realizzazione dell'intervento edilizio, sui terreni oggetto di trasformazione urbanistica sono comunque consentiti, nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, gli interventi strumentali alla coltivazione del fondo, all’allevamento del bestiame, alla silvicoltura, nonché quelle funzionali alla conduzione dell’impresa agricola e alle attività di trasformazione e commercializzazione dei propri prodotti agricoli.

Art. 4 Si fa presente che relativamente al contributo di costruzione citato al comma 3, il riferimento di legge corretto deve includere anche l'art. 19 del DPR 6 giugno 2001, n 380, per gli edifici non destinati a residenza.

Per le finalità del presente articolo, devono essere destinate ai Comuni specifiche risorse anche per la redazione di piani di recupero, corredati da studi di fattibilità, che prevedono la riqualificazione e rivitalizzazione dei medesimi centri e nuclei abitati.

Art. 5 Il registro dei comuni deve evidenziare pratiche urbanistiche effettivamente virtuose nei confronti della riduzione del consumo di suolo: per questo l'approvazione di strumenti urbanistici privi di ampliamenti di aree edificabili può rappresentare il requisito minimo di ingresso al registro, ma il punteggio di merito comporta ulteriori e più incisive azioni, che vanno dalla riduzione/stralcio degli ambiti edificabili già previsti negli strumenti urbanistici vigenti alla adozione di regolamenti edilizi che prevedano la riduzione dell'impermeabilizzazione, alla attivazione di misure agroambientali compensative delle trasformazioni urbanistiche. I comuni iscritti al registro devono beneficiare di priorità nell'erogazione di trasferimenti per la redazione di piani di recupero dei centri e nuclei abitati, ovvero di accesso a fondi istituiti ad hoc in materia di manutenzione del territorio.

Art. 6 L'articolo è fortemente condiviso nelle sue sottintese finalità, quanto si auspica è senz'altro la soppressione dell'abnorme facoltà concessa ai comuni di distogliere risorse dalla copertura dei costi di interventi di urbanizzazione alla copertura di spese correnti, ripristinando appieno lo spirito della legge 10/1977, art. 12. Nella versione originaria del 1977 (L. 10/1977) tale articolo prevedeva l'"utilizzo per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, per il risanamento dei complessi edilizi nei centri storici, per l'acquisizione di aree da espropriare". La modifica intervenuta nel 1986 (D.L. 318/1986 convertito in L. 488/1986) introduceva l'espressione “nonché nel limite massimo del 30% per le spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale". L'art. 136 del D.P.R. 380/2001 tuttavia ABROGAVA integralmente tale fondamentale articolo. A fronte di quanto testé ricostruito, l'abrogazione della norma citata dal disegno di legge (peraltro trattasi di norma prevista a scadenza il 31.12.2012) non appare sufficiente: tale norma infatti stabilisce unicamente limitazioni alla discrezionalità concessa al comune dal testo unico dell'edilizia per come modificato nel 2001. La abrogazione di tali norme perciò non impedisce al comune di impiegare, anche al 100%, le entrate da oneri ai fini di coperture di spesa corrente. Ciò che è richiesto pertanto, in aggiunta alla abrogazione contemplata dal DdL, è il ripristino del disposto dell'art.12 l.10/1977, nella versione anteriore all'abrogazione intervenuta nel 2001, opportunamente attualizzata. La formulazione aggiornata e corretta che proponiamo è la seguente:

"i proventi derivanti dai titoli abilitativi edilizi e dalle specifiche sanzioni di cui al D.P.R. 380/2001 sono versati in un conto corrente vincolato presso la tesoreria comunale e sono destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria -tra cui le bonifiche ambientali/di aree inquinate e la messa in sicurezza del territorio e delle discariche ­per il risanamento dei complessi edilizi e la riduzione dei rischi (sismici in primis), per l'acquisizione di aree ed immobili da espropriare, nonché, nel limite massimo del 30%, per le spese di manutenzione del patrimonio comunale (tra cui , e nel limite massimo di un ulteriore 20%, per la bonifica ambientale e messa in sicurezza del territorio e delle discariche"

La nostra proposta riprende in altre parole la versione modificata nel 1986 della cd. 'Legge Bucalossi', ma estende le possibilità di utilizzo delle risorse, fermo restando il divieto di utilizzo a copertura delle spese correnti, prevedendo che il risanamento possa essere non solo per i centri storici ma per tutti i complessi edilizi, alla luce delle tantissime aree degradate e/o da bonificare collocate anche in posizioni periferiche, ed inoltre inserendo la possibilità di espropriare anche gli immobili (oltreché le aree). Il mantenimento della facoltà di utilizzo del 30% per la manutenzione ordinaria e straordinaria del patrimonio comunale appare opportuno per sanare troppe situazioni di degrado e obsolescenza del patrimonio edilizio comunale, tenuto conto del difficile contesto di trasferimenti di risorse ai comuni a fronte di esigenze impellenti di miglioramento dell’efficienza energetica e di messa in sicurezza statica e sismica. Rispetto all'epoca in cui fu varata la legge 'Bucalossi' inoltre, si vuole prevenire un eccesso di investimenti in nuove opere pubbliche (che anch'esse sovente determinano rilevanti ed evitabili consumi di suolo agricolo), privilegiando invece la manutenzione del patrimonio e del territorio esistente.

Oltre a ciò, riteniamo che si debbano prevedere opportune compensazioni per prevenire uno stato di sofferenza delle risorse finanziarie a comporre il bilancio di parte corrente, fino ad oggi (impropriamente) coperte dall'utilizzo degli oneri. Riteniamo che il recupero di gettito a livello di ente locale possa avvenire attraverso premialità in virtù delle quali, nella misura in cui un dato Comune dimostri di tutelare e valorizzare il suolo agricolo, ad esso derivino precisi ritorni, ad esempio in termini di maggior partecipazione al gettito fiscale derivante da imposte sul reddito, IMU e ex-ICI.

Ci auguriamo che le presenti osservazioni possano essere tenute in considerazione e cogliamo l’occasione per porgere i nostri più cordiali saluti.

Per il Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio

Roberto Burdese, Damiano Di Simine, Alessandro Mortarino

Qui in eddyburg è scaricabile il testo integrale dell'ultima bozza(9.10.2012 del disegno di legge

INFO

Che cos'è il Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio

Il Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio è stato costituito formalmente il 29 Ottobre 2011 a Cassinetta di Lugagnano (Milano). Si tratta di un aggregato di associazioni e cittadini di tutta Italia (sul modello del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua), che, mantenendo le peculiarità di ciascun soggetto aderente, intende perseguire un unico obiettivo: salvare il paesaggio e il territorio italiano dalla deregulation e dal cemento selvaggio. Vi aderiscono attualmente oltre 12.000 persone a titolo individuale e 828 Organizzazioni (84 associazioni nazionali e 744 tra associazioni e comitati locali), tra cui tutte le principali realtà italiane operanti nel campo della salvaguardia del territorio, dell'ambiente, del paesaggio, dei suoli agricoli (l’elenco aggiornato è visibile nel sito Salviamo il paesaggio.

Consumo del suolo, Catania: con ddl approvato in CdM vogliamo cambiare modello di sviluppo del Paese (14/09/2012)

"Grazie alle misure contenute nel disegno di legge contro il consumo del suolo, approvato oggi dal Consiglio dei Ministri, facciamo un decisivo passo in avanti per raggiungere l'obiettivo di limitare la cementificazione sui terreni agricoli, in modo da porre fine a un trend pericoloso per il Paese. Questo provvedimento tocca temi molto sensibili, come l'uso del territorio e la sua corretta gestione, ma coinvolge anche la vita delle imprese agricole e l'aspetto paesaggistico dell'Italia. Riguarda il modello di sviluppo che vogliamo proporre e immaginare per questo Paese, anche negli anni a venire".

Lo ha detto il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, Mario Catania, intervenendo nel corso della conferenza stampa che si è tenuta a Palazzo Chigi - alla presenza del presidente Mario Monti - al termine del Consiglio dei Ministri, durante il quale è stato approvato il disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo.

"Abbiamo introdotto - ha spiegato Catania - un sistema che sostanzialmente prevede di determinare l'estensione massima di superficie agricole edificabile sul territorio nazionale. Questa quota, quindi, viene ripartita tra le Regioni le quali, a caduta, la distribuiscono ai Comuni. In questo modo otterremo un sistema che vincola l'ammontare massimo di terreno agricolo cementificabile distribuendolo armonicamente su tutto il territorio nazionale. Vogliamo - ha aggiunto Catania - interdire i cambiamenti di destinazione d'uso dei terreni che hanno ricevuto i fondi dall'Unione Europea, infatti abbiamo previsto che queste superfici restino vincolate per 5 anni. Inoltre, il provvedimento interviene sul sistema degli oneri di urbanizzazione dei Comuni. Nella normativa attualmente in vigore è previsto che le amministrazioni possono destinare parte dei contributi di costruzione alla copertura delle spese comunali correnti, distogliendoli dalla loro naturale finalità, cioè il finanziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Questo fa sì che si crei una tendenza naturale delle amministrazioni e dei privati a dare il via libera per cementificare nuove aree agricole anche quando è possibile utilizzare strutture già esistenti. Le nuove norme avranno sicuramente un impatto su questo fenomeno".

Di seguito, in sintesi, i punti principali del provvedimento:

1. Vengono definiti "terreni agricoli" tutti quelli che, sulla base degli strumenti urbanistici in vigore, hanno destinazione agricola, indipendentemente dal fatto che vengano utilizzati a questo scopo;

2. Si introduce un meccanismo di identificazione, a livello nazionale, dell'estensione massima di terreni agricoli edificabili (ossia di quei terreni la cui destinazione d'uso può essere modificata dagli strumenti urbanistici). Lo scopo è quello di garantire uno sviluppo equilibrato dell'assetto territoriale e una ripartizione calibrata tra zona suscettibili di utilizzazione agricola e zone edificate/edificabili;

3. Si introduce il divieto di cambiare la destinazione d'uso dei terreni agricoli che hanno usufruito di aiuto di Stato o di aiuti comunitari. Nell'ottica di disincentivare il dissennato consumo di suolo la misura evita che i terreni che hanno usufruito di misure a sostegno dell'attività agricola subiscano un mutamento di destinazione e siano investiti dal processo di urbanizzazione;

4. Viene incentivato il recupero del patrimonio edilizio rurale per favorire l'attività di manutenzione, ristrutturazione e restauro degli edifici esistenti, anziché l'attività di edificazione e costruzione di nuove linee urbane.

5. Si istituisce un registro presso il Ministero delle politiche agricole in cui i Comuni interessati, i cui strumenti urbanistici non prevedono l'aumento di aree edificabili o un aumento inferiore al limite fissato, possono chiedere di essere inseriti.

6. Si abroga la norma che consente che i contributi di costruzione siano parzialmente distolti dalla loro naturale finalità - consistente nel concorrere alle spese per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria - e siano destinati alla copertura delle spese correnti da parte dell'Ente locale.

Fra i tanti lavori che negli ambiti più diversi Italo Insolera ha progettato e realizzato, ve n'è uno rimasto di necessità in ombra nei numerosi articoli comparsi a suo ricordo: quello del restauro e del recupero dell'antico. Ricordo come mi illustrasse con affetto particolare il ripristino filologico dei giardini sopra Villa Giulia a Roma, quelli che connettono la residenza di papa Ciocchi Dal Monte alla contigua Villa Borromeo, e quanto tenesse a quella verde reintegrazione che costituiva un altro passo avanti nel completamento del restauro del sistema delle Ville romane, da Villa Borghese fino a Villa Giulia.

In quell'ambito ebbe poi l'incarico di restaurare Villa Poniatovski (nobili polacchi innamorati della musica e musicisti più che amatoriali essi stessi, grandi amici di Rossini), in origine Sinibaldi, rimaneggiata dal Valadier e più tardi degradata e manomessa a cereria industriale. Vi girammo con lui un servizio per "Bellitalia" (Raitre) all'epoca curata da Fernando Ferrigno. Restauro durato a lungo e al quale concorse Francesco Scoppola che molti anni prima aveva studiato con Italo a Ginevra. Anche di quel significativo ripristino completato poco tempo fa Insolera parlava con affetto intenso. A quel punto al sistema delle ville mancava - e putroppo manca - all'appello soltanto Villa Strohl Fern lasciata dal nobile alsaziano alla Francia e dai francesi maltrattata come poche.

In questi siti, come a San Paolo alla Regola, Italo, lo voglio sottolineare, portò la sua grande conoscenza di storico di Roma e una precisa consapevolezza filologica , senza pretendere di "lasciare il segno", a differenza di tanti architetti suoi contemporanei. Un grande merito pure questo.

I due volumi realizzati per ENI a metà degli anni Sessanta: quello sulle coste e quello sugli Appennini, furono per me il primo approccio con Italo Insolera. Quello in particolare sui paesaggi appenninici, ai quali pure iniziavo a dedicarmi, mi apparve quanto di più chiaro, sintetico e al tempo stesso profondo, si potesse realizzare per illustrare agli italiani la complessità sedimentata dei quadri visivi depositati dalla natura e dalla storia del lavoro umano. Uno spunto prezioso, per avviare poi un’analisi sistematica dei rapporti fra paesaggi ed aree culturali nell’ambito delle Campagne di rilevamento promosse da Andrea Emiliani, prima, e poi delle attività dell’Istituto per i Beni culturali dell’Emilia Romagna.

La collaborazione , nello scambio di opinioni e di esperienze, venne in seguito, con l’elaborazione del Piano Paesistico regionale negli spazi e con molti dei materiali raccolti dall’IBC. Le colonie sulla costa “riminizzata”, l’inventario e la perimetrazione dei centri storici, l’organizzazione degli insediamenti e del territorio rurali e i metodi di analisi ai fini di una tutela mirata, passarono sotto la sua visione e i suoi consigli grafici per essere trasferiti nelle norme e nella cartografia di Piano, con l’attenzione rivolta alla comprensione anche dei cittadini non addetti ai lavori.

L’ultimo incontro, preparato da Lucio Gambi, avvenne nella sua casa sul lago Maggiore, dove ci accolse , con Annina, con grande calore, per offrire all’IBC il prezioso archivio fotografico del fratello Delfino, al quale si doveva, fra l’altro, la collana audiovisiva “Conosci la tua regione” curata da Franca Cantelli.

È come se, d’improvviso, le solitudini delle nostre città si fossero fatte più acute, il loro degrado più irreversibile, la loro ingiustizia più radicale. Assieme agli occhi dell’architetto e urbanista Italo Insolera (nato a Torino nel 1929 e scomparso a Roma lunedì) si spegne, infatti, uno degli ultimi sguardi capaci di diagnosticare il male che sforma il nostro tessuto urbano e, con esso, il nostro modo di essere, anzi di non essere più, cittadini.

Una delle ultime, fulminanti diagnosi, Insolera l’aveva affidata a un’intervista a Francesco Erbani (Repubblica, 13 aprile 2010): “L’urbanistica? È ormai figlia dell’architettura. E l’architettura ridotta a pura forma assorbe tutto il dibattito culturale. Tutto lo spazio dell’informazione. Diventa il paradiso delle archistar. Si bada più al singolo progetto che non al disegno complessivo. Più al singolo manufatto che non alla città. Più all’individuo che non al collettivo. Occorre invece che l’urbanistica recuperi la sua linfa sociale”. Parole profetiche, una per una: proviamo a verificarle pescando a caso nella cronaca di questi giorni, anzi di queste ore.

Ieri il ministro Corrado Clini (che ormai porterà incollata per sempre la definizione geniale che ne ha dato Riccardo Mannelli su questo giornale: “Il ministro dell’Abbiente”), il governatore del Veneto, il presidente della Provincia e il sindaco di Venezia hanno inaugurato la mostra sul cosiddetto Palais Lumière di Pierre Cardin. Ancor prima che l’Enac dica se la torre di 250 metri che dovrebbe nascere a Marghera sia compatibile col traffico aereo, le istituzioni benedicono e consacrano un progetto – il dettaglio è grottesco – che scaturisce dalla tesi del nipote dello stilista, laureatosi con essa a Padova nel 2011. Le stesse istituzioni che non sono state capaci di aprire un vero confronto pubblico sul recupero della zona industriale di Marghera, di pianificare un risanamento urbano attraverso la partecipazione popolare, si prostrano all’istante di fronte a un singolo privato che presenta un progetto faraonico fatto in casa, che si basa sull’evidente desiderio di “oltraggiare Venezia” (così Salvatore Settis), modificandone per sempre lo skyline con una gigantesca torre luminosa degna del più cafone degli emiri.

Immancabilmente, il dibattito pubblico si è concentrato sulla forma della torre e sul suo valore estetico (“è bella o non è bella, mi piace o non mi piace”) sotterrando sotto il soggettivismo dell’archistar (in questo caso dell’apprendista archistar) ogni idea di città, di sviluppo sociale, di comunità. Naturalmente l’argomento più forte è che Cardin ci mette i soldi, e che siccome è molto anziano bisogna dire di sì all’istante: così, come in un nuovo medioevo, le torri dei feudatari più ricchi e potenti simboleggiano nel modo più violento e indelebile il trionfo degli individui sul collettivo, espellendo dalle vene esauste dell’urbanistica italiana le ultime gocce di linfa sociale (per usare le parole di Insolera).

In un bellissimo ricordo di quest’ultimo comparso ieri sul Corriere della Sera di Roma, Paolo Fallai ha citato un’intervista del 1993, quando qualcuno propose la candidatura dell’urbanista a sindaco di Roma. Insolera era forse il più profondo conoscitore della storia urbanistica recente della città, a cui nel 1962 aveva dedicato il fondamentale Roma moderna, ripubblicato da Einaudi nel 2011, con ampliamenti e contributi di Paolo Berdini (il quale è vicino a Insolera anche nell’impegno civile). Ma, nonostante questa indubbia competenza, Insolera declinò l’invito, e non già per pigrizia o codardia: “Non ho mai pensato di aver l’idea chiave in grado di capovolgere le cose – dichiarò in quell’intervista –. Un uomo, un’idea, un progetto non cambiano niente. Può riuscirci solo un lavoro faticoso, paziente, di tante persone. Solo la società può cambiare la società”. E al giornalista che gli chiedeva quando Roma sarebbe potuta rinascere, Insolera rispose: “Quando tornerà l’ideologia, una qualsiasi, si potrà fare. Per ricostruire, per risanare, occorre prima sapere quale tipo di città si vuole”.

Vent’anni dopo non solo questa analisi è ancora drammaticamente attuale, ma si può trasferire dall’urbanistica alla politica, da Roma all’Italia: con l’abdicazione della politica e il commissariamento dei tecnici tentiamo di risanare e ricostruire un Paese facendo a meno di un progetto comune. Ma, continua a martellarci la voce di Insolera, “solo la società può cambiare la società”.

So di dover resistere alla tentazione che la commozione e il dolore per la perdita di un amico prevalgano sul dolore e la commozione per la scomparsa del grande urbanista, intellettuale, storico, studioso di città. Sui giornali di oggi firme autorevoli – Paolo Berdini, Vittorio Emiliani, Francesco Erbani, Paolo Fallai, Grazia Pagnotta, Walter Tocci – e tanti altri sui blog e sui siti informatici – Ella Baffoni, Edoardo Salzano, Sauro Turroni – ricordano le cose fondamentali della sua vita di piemontese innamorato di Roma e che ha dedicato alla capitale le sue straordinarie attitudini. Aggiungo qualche disordinata riflessione. Ci saranno altre più meditate circostanze per ricordare compiutamente la sua figura e la sua opera.

Prima di ammalarsi Italo ha completato la nuova stesura di Roma moderna, il suo capolavoro, il più importante libro sulla storia urbana della capitale. Fu presentato nel novembre dell’anno scorso presso l’istituto francese di piazza Navona da Renato Nicolini, altro grande eretico, prestigioso esponente della cultura antiaccademica che ci ha lasciato da pochi giorni. La novità più rilevante dell’ultima edizione di Roma moderna, alla quale ha collaborato Paolo Berdini, riguarda l’inizio del racconto, spostato all’indietro, al 27 luglio 1811, data in cui Napoleone I firmò il decreto imperiale per “l’embellissement de Rome”. Insolera scrive nella premessa che la Rivoluzione francese “ha un carisma storico-culturale ben maggiore dei ministri e dei generali della modesta dinastia sabauda, incerta se allearsi con Garibaldi, sicura di avere in Mazzini un nemico”, e perciò è giusto attribuire ai francesi il merito di aver dato inizio a Roma moderna.

Il racconto di duecento anni di urbanistica romana – dal 1811 al 2011 – è la storia di un massacro, e dovrebbe indurre alla disperazione, la conclusione dovrebbe essere che hanno vinto i portatori degli interessi fondiari e speculativi.

Ma Italo Insolera non si arrende. Il suo amore per Roma lo induce all’ottimismo, proponendo per Roma moderna una prima conclusione riferita all’Appia Antica come “un auspicio per un futuro migliore”. L’Appia Antica – lo sappiamo – è una parte essenziale della vita di Insolera.

Ma a questa prima, forse scontata, aggiunge una seconda sorprendente conclusione: “Roma multietnica”. Si intitola così l’ultimo capitolo del libro che racconta della recente immigrazione. La capitale è sempre stata multietnica, da Adriano in poi gli imperatori provenivano dalle terre conquistate. Così anche le legioni che formarono nuovi nuclei familiari. E lo stesso è per la Chiesa cattolica con la presenza di religiosi provenienti da tutto il mondo.

Oggi a Roma vivono circa 600 mila immigrati ma continua a prevalere un atteggiamento di diffusa chiusura. Insolera racconta drammatici episodi generati dalla negazione dell’accoglienza e la tragica sorte dei Rom sui quali “si scaricano i pregiudizi e il latente razzismo della popolazione romana”.

Ma nonostante tutto l’integrazione va avanti e il quartiere di piazza Vittorio è diventato il simbolo della trasformazione. Proprio da piazza Vittorio prende nome l’orchestra formata da musicisti provenienti da ogni parte del mondo: Argentina, Brasile, Cuba, Ecuador, India, Mali, Senegal, Stati Uniti, Tunisia e Ungheria. Un insieme di sensibilità, strumenti e suoni che “getta alle ortiche la difesa di ormai inservibili identità culturali e religiose. Meno male che a Roma c’è l’Orchestra di Piazza Vittorio”: scrive Insolera. Non poteva esserci una più appropriata, convincente e conclusiva dichiarazione d’amore per Roma.

La prima edizione di Roma moderna del 1962 raccoglieva lunghi e documentati articoli scritti alla fine degli anni Cinquanta per la rivista «Urbanistica» che, allora, ai tempi di Adriano Olivetti e Giovanni Astengo, era la più importante rivista del mondo in materia di città e di territorio. A Torino, nella redazione di «Urbanistica» conobbe Annina, giovanissima, ma che già aveva alle spalle una bella storia, e poco nota, di staffetta partigiana, che da quel momento, schiva e silenziosa, ha seguito passo dopo passo con competenza e intelligenza il lavoro e la vita di Italo, la sua libertà intellettuale. E di questo, sapendo di interpretare il pensiero di quanti hanno conosciuto e stimato Italo, voglio ringraziarla, con tutto il cuore.

Torno a Roma, città che non ha ricambiato l’amore irriducibile di Italo. Mi riferisco alla Roma ufficiale, alle istituzioni rappresentative che hanno sempre accuratamente evitato di avvalersi della sua competenza. Talvolta chiamando in causa il suo brutto carattere. Prima o poi si dovrà scrivere la storia dei delitti commessi con il pretesto di scansare i portatori di temperamenti non accomodanti. Il brutto carattere di Insolera è una bugia, era solo rigoroso, e chi lo ha conosciuto, chi ha lavorato con lui sa quanto fosse illimitata la sua disponibilità all’ascolto e alle ragioni degli altri, al farsi carico dei problemi della pubblica amministrazione, quanto fosse trascinante la sua ironia, quanta insospettata dolcezza ci fosse anche nei rapporti professionali.

Il punto è che Italo aveva idee chiare e chiaramente le esponeva. Cito qui una sua intervista a l'Unità sull'esperienza delle giunte di sinistra in Campidoglio cominciata nel 1976 e stancamente finita nel 1985. “Non voglio dimenticare nulla, né la sparizione delle borgate, né le estati romane. Ricordo tutto e lo apprezzo (...). Dico che mancò una filosofia complessiva del cambiamento, non si cambia nel profondo se si insiste nell'abbandono di ogni ideologia come ispiratrice dei fini e dei mezzi. E se qualcuno sostiene che la pianificazione non occorre sono costretto a ricordargli che non occorre alle classi dirigenti, ma alle altre sì”.

E in un'altra intervista al Corriere della sera che gli chiede a quali condizioni Roma può rinascere, Insolera risponde: "Quando tornerà l'ideologia". E a una successiva domanda sull'utilità di un nuovo piano regolatore, risponde che sarebbe utile "solo se avesse un obiettivo ideologico, se puntasse a realizzare una grande idea. Se andasse oltre i metri cubi".

Era questa chiarezza d’idee, non il brutto carattere, era la sua concezione che l’urbanistica non può essere acriticamente asservita alle idee di chi esercita il potere che ha impedito ai mediocri esponenti della politica romana di passare alla storia lavorando con Insolera.

Insomma, Roma con Italo è stata matrigna. Ha studiato le vicende di Roma per oltre mezzo secolo (e non da erudito anodino ma da appassionato e fattivo elaboratore di idee ed i proposte): il mezzo secolo durante il quale sono stati formati due piani regolatori, un numero sconfinato di varianti, di studi, di progetti. Mentre Insolera continuava a essere inascoltato.

Vittoria Calzolari e Walter Tocci sono stati gli unici assessori del comune di Roma che hanno chiesto la sua collaborazione, Vittoria per il restauro degli alloggi di San Paolino alla Regola, Walter per la mobilità e soprattutto per il ritorno del tram. Quest’ultima esperienza, Insolera, Tocci e Domitilla Morandi l’hanno raccontata in un libro Avanti c’è posto, fra i più utili per comprendere le recenti vicende dell’urbanistica di Roma.

Diversa è la storia con la soprintendenza archeologica di Roma, e per essa intendo Adriano La Regina e Rita Paris, che hanno stabilito un duraturo e vitale rapporto di collaborazione con Insolera. Ripetuti e continui i contributi che in varia forma Italo ha dato all’Appia Antica. E posso appena ricordare la mirabile intesa che si stabilì fra La Regina, Antonio Cederna, Insolera, Leonardo Benevolo al tempo del sindaco Luigi Petroselli, quando sembrava che il progetto Fori fosse davvero fattibile, quando si credeva che la storia, anche quella più remota, potesse agire da protagonista della città moderna. E poi Tormarancia. Si deve allo studio condotto da Insolera se quella spettacolare porzione di campagna romana non è finita sotto il cemento e l’asfalto e oggi è integrata nell’Appia Antica.

Allora non è un caso se il luogo in cui siamo oggi, dove Roma saluta Insolera, è un’espressione della storia e dell’archeologia.

Insolera non si è occupato solo di Roma. Ha insegnato a Firenze, Venezia, Ginevra. Ha lavorato per tante città. Qui mi pare importante ricordare che fu progettista – insieme a Leonardo Benevolo, Carlo Melograni, Tommaso Giura Longo e altri – dei piani coordinati di Cecina, Castagneto Carducci, San Vincenzo, Sassetta, Bibbona, comuni della Maremma livornese. Un’esperienza eccezionale dovuta ad amministratori illuminati che raccolsero le idee e le proposte di Italia Nostra contro “il mare in gabbia”. Si deve a quei piani se nella Maremma livornese – nonostante più recenti cedimenti – sopravvivono tratti di costa sottratti all’edificazione e spazi pinetati aperti a tutti.

Italo se n’è andato – lo hanno ricordato in molti – nello stesso giorno in cui sedici anni fa ci lasciò Antonio Cederna. Il sodalizio Cederna – Insolera è stato quello più detestato dai nemici del genere umano, come Cederna usava definire speculatori e associati. Fra le tante virtù che li affratellavano mi pare importante ricordare il saldo e indiscusso rapporto che entrambi ebbero sempre con le associazioni ambientaliste e culturali, e più in generale con il mondo della partecipazione popolare, dei comitati, della protesta.

È questa – di saper stabilire un rapporto fecondo fra l’alta cultura e i fermenti autentici e profondi della società – l’eredità più difficile che dobbiamo raccogliere.

Arrivederci Roma

Paolo Berdiniil manifesto

Italo Insolera È scomparso a 83 anni, l'intellettuale, urbanista e architetto che ha dedicato una vita di feconde riflessioni alle metropoli e alle trasformazioni del territorio italiano Italo Insolera È scomparso a 83 anni, l'intellettuale, urbanista e architetto che ha dedicato una vita di feconde riflessioni alle metropoli e alle trasformazioni del territorio italiano. Chiunque si sia occupato o si occuperà dell'evoluzione storica, urbanistica e sociale della città eterna si è formato su i suoi studi. Un

Italo Insolera ha dedicato una vita di feconde riflessioni alle città e alle trasformazioni del territorio italiano e la morte di un grande intellettuale lascia sempre un vuoto incolmabile. Mancheranno i suoi insostituibili libri, le sue intuizioni, il suo profondo impegno morale per rendere migliore la vita urbana. Mancherà il suo impegno formativo verso tante generazioni di urbanisti compiuto con i primi incarichi di insegnamento presso la facoltà di Architettura di Roma, continuato dal 1960 con la docenza presso l'Università di Venezia per poi concludersi all'università di Ginevra. Potremo rendere meno violenta la sua scomparsa soltanto se sapremo far iniziare in Italia e in tante sue città una profonda fase di trasformazioni urbane pensate in sintonia con il suo straordinario pensiero.

Italo Insolera nasce a Torino nel 1929, ma compie i suoi studi a Roma dove la famiglia si era trasferita poco dopo la sua nascita e si laurea in architettura presso l'Università La Sapienza nel 1953. Negli anni della formazione romana entra in contatto con il mondo di Italia Nostra e dell'Istituto nazionale di urbanistica. Con Antonio Cederna inizia un sodalizio che durerà tutta la vita e produrrà la straordinaria elaborazione sul parco archeologico dei Fori e dell'Appia Antica. Nell'Istituto nazionale di Urbanistica, allora profondamente ispirato dal pensiero di Adriano Olivetti, inizia a occuparsi sistematicamente di Roma e sul prestigioso periodico Urbanistica, allora diretta da Giovanni Astengo, scriverà due memorabili numeri sulla storia urbanistica di Roma moderna.

Roma diviene così il baricentro della sua vita. Grande intellettuale e uomo di vasta cultura, si è interessato dell'urbanistica italiana e dello sviluppo delle città. Questa attenzione è magistralmente esemplificato in una delle opere più straordinarie: la voce «urbanistica» nella Storia d'Italia edita da Einaudi (1973). In una meravigliosa sintesi traccia la storia delle evoluzioni delle maggiori città, ricercandone le attinenze dettate dalla congiuntura economica e culturale dei vari momenti e le specificità dovute alle generali origini storiche, alle condizioni morfologiche, alla storia locale come elemento connotativo dell'incessante evoluzione delle città e dei territori. Il suo ragionamento parte da una illuminante intuizione iniziale: «La città considerata come principio ideale delle istorie italiane: così Carlo Cattaneo alla fine del 1958 intitolava un saggio che muovendo da alcune considerazioni sulle città nella storia preunitaria, implicitamente poneva il problema del ruolo delle città italiane nell'imminente Stato unitario». La sua grande lezione è quella di saper partire dai concetti fondamentali che sono alla base delle trasformazioni del territorio, del paesaggio e delle singole città. Un percorso logico che nella sua vita ha dato frutti straordinari. Tra i tanti importanti saggi pubblicati, è almeno il caso di ricordare il bellissimo Saper vedere l'ambiente (De Luca, 2008), dove le trasformazioni dell'ambiente umano vengono rese intellegibili nel loro inscindibile rapporto con l'azione umana egli errori delle azioni delle classi dirigenti.

Oltre a questa insostituibile elaborazione di carattere generale, è a Roma che Insolera ha dedicato studi e approfondimenti, lasciando un patrimonio di conoscenze senza uguali. I due numeri monografici di Urbanistica diventeranno nel 1962 Roma moderna la prima e la più completa storia delle trasformazioni della città. Il volume edito da Einaudi verrà ristampato e ampliato ben 14 volte fino alla suo aggiornamento di pochi mesi fa, in occasione del cinquantenario dalla prima edizione. Chiunque si sia occupato o si occuperà dell'evoluzione storica, urbanistica e sociale della città eterna si è formato su quel fondamentale volume. Nella premessa di Roma moderna, Italo Insolera sottolineò i ringraziamenti ad Antonio Cederna «per il suo continuo insegnamento e per avermi proposto cinquant'anni fa di scrivere questo libro». Sono gli anni in cui Cederna inizia la sua strenua battaglia in difesa dell'Appia antica e Insolera con i suoi studi urbanistici fornisce prezioso materiale alla elaborazione del grande progetto di sistemazione dell'area centrale dei Fori e della creazione del parco dell'Appia Antica. Numerosi articoli, libri fondamentali, mostre documentarie e lavori condotti per conto della soprintendenza di Stato, in particolare quando essa è diretta da Adriano La Regina, costituiscono le basi scientifiche e culturali con cui questi due grandi intellettuali italiani hanno lasciato il loro più straordinario risultato. Questo legame tra i due grandi italiani è sottolineato anche da un fatto simbolico: Insolera muore il 27 agosto, sedici anni esatti di distanza dal suo grande amico Antonio Cederna.

Ma, come dicevamo per il suo atteggiamento sulla storia urbana italiana, lo sguardo di Insolera per la sua città elettiva era sempre rivolto al futuro. La immensa conoscenza della sua storia era lo strumento per pensare a una città migliore, umana, rispettosa dei diritti di tutti i cittadini, a iniziare dalle fasce socialmente più sfavorite. Questa sua tensione verso il futuro trova un parziale riconoscimento negli anni '90 durante i primi anni delle amministrazioni di centro sinistra nate sulla spinta morale del post Tangentopoli. È il vice sindaco Tocci ha chiamarlo in qualità di consulente sulla materia della mobilità e anche questa volta Insolera pensa alla città del futuro. Propone nuove linee tramviarie (memorabile quella di costruire una linea sui lungoteveri così da abbattere il traffico di attraversamento che li soffocano) e collabora alla realizzazione della linea tramviaria 8, la più grande realizzazione della recente vita della città. Un altro tassello della concezione unitaria dell'Appia antica, Insolera lo mette a segno proprio in quegli anni, collaborando all'interramento del Grande raccordo anulare che prima spezzava in due la «regina viarum» e, ancora, nella relazione di vincolo sul comprensorio di Tor Marancia, scritta su incarico della soprintendenza archeologica di Stato insieme a Vezio De Lucia e Carlo Blasi. E, ancora una volta, la sua attività professionale lascia lo spazio per una più generale riflessione sulla città in Avanti c'è posto, scritto con Walter Tocci e Domitilla Morandi (Donzelli, 2008).

E proprio concludendo la sua riflessione su Roma culminata con la nuova edizione (2011) di Roma moderna, Insolera ci lascia la grande eredità per il futuro. Dopo essersi infatti chiesto se non fosse il caso di mutare il titolo del libro apponendovi un punto interrogativo, giudicando dunque Roma una città non moderna al pari delle altri capitali europee, perché lasciata dai pubblici poteri in balia della più avida speculazione immobiliare, conclude il libro con una straordinaria idea. Roma potrà diventare moderna se saprà fare del grande vuoto del parco dell'Appia antica la «spina dorsale» di uno sviluppo che guarda al benessere dei cittadini e non all'affarismo di pochi speculatori immobiliari.

Oggi l'Italia della grande crisi economica è ad un bivio: siamo ancora in tempo per seguire la sua lezione abbandonando la speculazione e iniziando a pensare che le città sono il luogo della vita di milioni di cittadini. Farli vivere bene è un grande obiettivo etico e morale. Al raggiungimento di questo obiettivo ha dedicato la vita Italo Insolera.

La Roma di Insolera

Vittorio Emiliani– L’Unità

Si spegne con Italo Insolera una delle voci più alte, autorevoli coraggiose dell’urbanistica e della sua travagliata e entusiasmante storia. Scompare con lui uno degli intellettuali di sinistra che, con idee ben chiare e fermamente praticate, hanno segnato in positivo la vita democratica delle nostre città e, in particolare, di Roma. Alla quale Italo ha dedicato tanta parte delle ricerche, della elaborazioni progettuali, degli scritti di una incessante attività di architetto e urbanista, di esperto di restauri antichi e di mobilità urbana, di storiografo e saggista.

Nasce nel 1929 a Torino dove il padre Filadelfo, importante matematico originario di Lentini, in Sicilia, ha cattedra da tempo. Tre anni dopo la famiglia si trasferisce a Roma, dove Filadelfo ha studiato, e dove Italo si laureerà in architettura alla Sapienza nel 1953. Ben presto è in contatto con gli ambienti di Italia Nostra e dell’INU, all’epoca presieduto da Giovanni Astengo, si lega soprattutto ad Antonio Cederna, di otto anni più anziano, che dalle pagine del “Mondo” polemizza a tutto campo contro una speculazione selvaggia. Sodalizio durato una vita con al centro il tema, enorme e affascinante, del rapporto fra passato, presente e futuro.

Nel ’62 esce “Roma moderna” che, ampliato e aggiornato, avrà 14 ristampe e costituisce lo straordinario breviario laico per chiunque voglia occuparsi della più complessa delle capitali, fra Cesari, Papi e Terza Roma, in mezzo a ondate speculative che le forze democratiche hanno cercato di controllare con la pianificazione e col trasporto pubblico su ferro. Non però con l’energia severa che Italo aveva nel proprio Dna, morale e culturale.

Con Cederna collabora attivamente al progetto – fatto proprio da Luigi Petroselli – di un grande parco urbano dai Fori ai Castelli. Inoltre sovrintende al recupero di San Paolo alla Regola e, più tardi, all’interramento del raccordo anulare che trancia l’Appia Antica. Egli lavora in numerose città e regioni, come architetto e come pianificatore. Con una visione internazionale che gli viene dai molti anni di insegnamento a Ginevra e dalle consulenze, l’ultima – per il Consiglio d’Europa – finalizzata al recupero del centro storico di Antigua (Guatemala). Con Leonardo Benevolo e Pier Luigi Cervellati si occupa a lungo del centro storico di Palermo. L’esito finale non li soddisfa e però, sul piano teorico/pratico, essi dettano linee e metodi di intervento tuttora fondamentali.

L’ho avuto per sette anni collaboratore al “Messaggero” e ne ho apprezzato la capacità di lucido divulgatore. Come quando raccontava la stridente contraddizione di un’Italia che non progredisce nel trasporto su rotaia e invece esporta il know-how per tramvie e metrò. E dalla bocca gli uscivano lente e sarcastiche le battute per le quali andava noto. Se Roma è in parte tornata al tram, lo si deve in buona misura alla sua sagacia e al lavoro che, soprattutto con la Giunta Rutelli-Tocci poté mettere in cantiere, partendo da una straordinaria conoscenza storica di Roma che ai tempi del sindaco Nathan vantava primati in fatto di tramvie, purtroppo divelte da Mussolini (le giudicava “poco confacenti col carattere imperiale di Roma”) e anche dalle giunte post-belliche.

E’ stato in prima fila in tutte le buone battaglie per l’urbanistica, per la difesa del paesaggio, dall’Agro Romano, che conosceva come pochi, al nuovo Auditorium di Roma sul quale ci ha lasciato un libro esemplare. Battaglia che Cederna, lui, Vezio De Lucia, Giovanni Pieraccini ed altri condussero da posizioni culturali di minoranza. Per risultare poi vincenti.

Non ebbe, o forse non volle avere, a differenza di altri esponenti della cultura urbanistica e ambientale, una “chance” parlamentare (lo stesso Cederna fu candidato ed eletto una sola volta alla Camera). Troppo severo, autonomo, libero di mente, come Antonio del resto, scomparso anch’egli un 27 agosto di sedici anni fa. Ma è dal loro lavoro che si deve di nuovo passare, oggi e domani, se si vuole riprendere il filo rosso di una pianificazione democratica e incisiva che riporti in onore un valore da parecchi anni oscurato o dimenticato: l’interesse generale. Te ne siamo riconoscenti, Italo, la tua lezione resta con noi.

Addio a Insolera urbanista militante

Francesco Erbanila Repubblica

Italo Insolera è morto ieri. Architetto, urbanista, storico, aveva ottantatré anni e appena un anno fa aveva dato alle stampe una nuova edizione del suo libro più importante, Roma moderna.

Molti malesseri lo tormentavano dolorosamente. Ma era contento, il velo di malinconia degli ultimi tempi svaniva mentre sfogliava quel volume che Einaudi aveva rilegato con una copertina grigia e tre foto aeree della città. Il libro l’aveva scritto nel 1962, più volte ristampato e infine aggiornato alle ultime vicende della capitale, con l’aggiunta di un capitolo iniziale sulla Roma napoleonica (in questa fatica era stato aiutato da Paolo Berdini). In chiusura aveva inserito un “glossario dell’urbanistica romana”. Quasi che il modo di crescere della città in due secoli avesse qualcosa di singolare e di esemplare al tempo stesso, fino a esprimersi in una lingua propria, poi diventata universale. Abusivismo, borgata, condono, palazzina, palazzinari, Società generale immobiliare...

Era nato a Torino nel 1929 e si era laureato a Roma nel 1953. Ha insegnato (a Venezia e a Ginevra). Ha realizzato piani territoriali (in Abruzzo, Sardegna, Puglia, Toscana, Emilia Romagna) e piani regolatori di città (a Livorno, a Lucca), si è occupato del centro storico di Palermo (con Leonardo Benevolo e Pierluigi Cervellati, sindaco Leoluca Orlando), di quartieri Ina-Casa (da Napoli a Siracusa) e di parchi (l’Appia Antica). Ha scritto tanti libri, in gran parte dedicati a Roma, agli sventramenti fascisti, all’Eur, all’Appia Antica, ai Fori imperiali. In un volume, scritto con Water Tocci e Domitilla Morandi, Avanti c’è posto (Donzelli), ha illustrato un piano di mobilità romana fondata sul ritorno del tram e in particolare su una linea che sarebbe dovuta correre sul Lungotevere ai bordi del centro storico, trasformato in un fantastico boulevard. Nessuna amministrazione comunale è stata però all’altezza delle sue idee.

Sui Fori imperiali è ritratto in una foto del 1981 (conservata nell’Archivio Cederna). Al collo ha una macchina fotografica e lo sguardo accigliato rivaleggia con quello, che si intravede, di Cederna. Eppure è passato appena qualche mese dalla distruzione, voluta dal sindaco Luigi Petroselli, di via della Consolazione, la strada che taglia i Fori sotto al Campidoglio. Il primo atto di un grande progetto che ha una valenza storico-culturale e urbanistica, l’eliminazione della via dei Fori imperiali e la riunificazione di tutta l’area archeologica. In quel progetto Insolera crede moltissimo (con Cederna, Benevolo, La Regina e altri). Ma non se ne farà nulla, nessuno dichiarerà decaduta l’idea, e silenziosamente anche questa, troppo alta per chi governava Roma, scomparirà dalla scena della città.

In esergo a Roma moderna aveva voluto una frase di Giulio Carlo Argan, sindaco di Roma fra il ‘76 e il ‘79: «La storia urbanistica di Roma è tutta e soltanto la storia della rendita fondiaria, dei suoi eccessi speculativi, delle sue convenienze e complicità colpevoli». Espressione lapidaria, che nel libro trovava una distesa articolazione, niente affatto costretta dentro un abito declamatorio e invece sostenuta da una documentazione impressionante. Storia urbanistica, ma tout court della città, dai decreti napoleonici che prefiguravano un parco archeologico fra Fori, Palatino e Colosseo, fino al “piano casa” e all’incubo proposto da Alemanno, e fortunatamente svanito, di trasformare l’Eur in una pista per la Formula 1. E fino al sogno che Roma possa diventare veramente moderna puntando sul suo essere multietnica.

«E l’urbanistica?», si domandava. L’urbanistica «è ormai figlia dell’architettura», rispondeva. «E l’architettura, ridotta a pura forma, assorbe tutto il dibattito culturale. Si bada al singolo progetto e non al disegno complessivo, al singolo manufatto e non alla città, all’individuo e non al collettivo». Occorre, aggiungeva, che l’urbanistica recuperi la linfa sociale smarrita, sovrastata com’è da un’attitudine analitica e descrittiva che oscura il resto, limitandosi a raccontare ciò che accade nelle città e fuori di esse e ritenendo inevitabili, irreversibili, al massimo mitigabili, la dispersione abitativa e il consumo del suolo. E invece lui insisteva su un’altra dimensione dell’urbanistica, a tratti militante, che attraverso la pianificazione può consentire alle persone un vero diritto alla città e una vita meno in affanno.

Non abbiamo dato il giusto ascolto alle idee di Italo

Walter TocciL’Unità

Scrivo questo ricordo di Insolera sulla sua scrivania. Ero venuto ad abbracciare Annina, l’amatissima compagna della sua vita, quando mi hanno telefonato da l’Unità. Qui ci sono le carte e i libri su cui stava lavorando, con difficoltà crescente a causa della malattia, ma con la curiosità mai sazia della sua pur sconfinata cultura, con il guizzo geniale e l’attenzione ai particolari, con lo scetticismo di tante delusioni ma con l’indomita fiducia nell’invenzione che talvolta sgorgava da un imprevedibile sorriso. In evidenza ci sono i materiali dell’ultimo libro che non è riuscito a concludere, un ripensamento del progetto di Quintino Sella per Roma, la grande idea di una capitale della cultura, come luogo dedicato al «cozzo delle idee», da realizzare tramite l’insediamento delle migliori università e centri di ricerca nelle stupende ville storiche che allora circondavano la città barocca, prima di essere distrutte dalla speculazione edilizia. Legare un primato moderno a quello antico era il solo modo per fare di Roma una vera capitale.

Quella intuizione era per Italo di straordinaria attualità e aveva mobilitato tutti i suoi amici per studiarne i dettagli. Quando si andava a trovarlo ognuno di noi doveva portare qualche nuovo contributo alla sua ricerca, ma era soprattutto un grande piacere ascoltarlo. Dopo averlo salutato, spesso, mi chiedevo le ragioni di quella passione. C’era forse un’inconsapevole identificazione con quel piemontese come lui che era rimasto ammaliato da Roma. Ancora di più, nell’insistenza su quella ricerca riaffiorava - stavolta quasi in forma di congedo - il suo vecchio assillo di comprendere come un progetto di città possa sposarsi con unaforte volontà politica.

Era lo stesso motivo che lo aveva portato a sostenere con sapienza ed entusiasmo il Progetto Fori di Luigi Petroselli, il sindaco che aveva saputo ascoltarlo. Ma ancora prima, c’era stata la speranza che le lotte popolari della periferia romana potessero costituire quell’energia riformatrice mancata alle perfide classi dirigenti della città nel secolo postunitario, come scrive nella prefazione all’edizione del 1971 di Roma Moderna: «se nei prossimi anni qualcuno dalle baracche, dalle borgate, dalla periferia riprenderà la lotta per un avvenire civile di questa città e troverà in essa ancora qualcosa da amare, qualcosa da vivere, sarà merito della loro tenace opposizione alla sistematica distruzione di Roma».

Sembrava allora possibile coniugare l’illuminismo del progetto con la concretezza della vita popolare. Una piccola conferma veniva anche dalla straordinaria diffusione di quel libro nei luoghi più diversi: nel seminario universitario, nell’ufficio di progettazione, nella redazione di un giornale, nella sede di un comitato di quartiere o di una sezione di partito. Poi nelle edizioni successive scomparve quell’inno alle lotte popolari e la speranza venne poggiata sull’impegno civile di Antonio Cederna. Se ne sono andati nello stesso giorno, il 27 agosto. E insieme spesso sono rimasti inascoltati.

Quando di questo saremo pienamente consapevoli ci mancheranno, non solo per i loro studi, per la passione civile, per l’esempio morale, ma per quella ricerca ancora da portare avanti di un legame tra il progetto di città e la vita quotidiana dei cittadini. La mia generazione ha avuto il privilegio di studiare sui suoi libri. Abbiamo imparato tante cose, ma non siamo riusciti a metterle in pratica compiutamente. Alle nuove generazioni non mancherà l’occasione di rileggerli con spirito nuovo, per fare meglio di noi. L’opera di Insolera merita di esser compresa in avvenire. Perfino Annina, dopo averlo amato per una vita, mi dice nel suo sobrio dolore che vorrebbe ancora chiedergli tante cose.

Anche Italo ci ha lasciato. Siamo sempre più soli a contrastare l’inesorabile avanzata del cemento e dell’asfalto sui paesaggi italiani, a difendere i nostri beni culturali dalla manomissione, a cercare di contrastare il mercimonio a cui si sono ridotti l’urbanistica e il governo del territorio.

Le sue idee, i suoi scritti, insieme con quelli di Antonio Cederna hanno indirizzato la vita di molti di noi. E’ stato così anche per me, sia per quel che riguarda l’attività professionale sia quella politica.

Di lui voglio ricordare due cose fra tante : l’appoggio forte e senza alcuna remora alla durissima ed estenuante battaglia che avevamo intrapreso per impedire la manomissione del San Domenico di Forlì, aiutandoci col suo sostegno e la sua autorevolezza a contrastare un progetto che avrebbe devastato una antica chiesa e i chiostri del convento, restituiti oggi alla città, finalmente restaurati ed adibiti a spazi culturali così come anch’egli suggeriva. Ricordo la fermezza con cui volle che il Piano Paesaggistico dell’Emilia Romagna a metà degli anno 80 venisse rappresentato interamente con tavole colorate, di immediata lettura e inequivocabile comprensione, anche e soprattutto per i cittadini che avrebbero così potuto meglio comprendere il sistema di tutele a cui veniva sottoposto il paesaggio della nostra regione di cui le carte ne rappresentavano anche gli elementi costitutivi.

Quando in Parlamento, talvolta anche in solitudine, cercavo di contrastare provvedimenti che avrebbero minacciato il nostro patrimonio storico artistico, i nostri beni archeologici, o quelli con cui si cercava di venderli o quando si varavano condoni edilizi, quando contestavo ciò che si voleva fare a Roma con sottopassi come a Castel Sant’Angelo o con piazze manomesse come quella di Montecitorio sapevo sempre che avrei ricevuto da Italo un sostegno sobrio e fermo che mi sarebbe stato di grande e insostituibile aiuto e conforto.

l’Unità

Chiarante, forza gentile del Pci

di Aldo Tortorella

Scrivere della scomparsa di un amico e compagno carissimo, con cui ho condiviso scelte e lotte politiche per un quarantennio, è cosa assai dolorosa e difficile. Incominciammo a lavorare insieme quando assunsi la responsabilità della sezione culturale ed egli si occupava della scuola. E la comune visione di quel che dovesse e potesse essere la sinistra ci ha portato, insieme, sino ad ieri. Ci separavano pochi anni, quello che bastava perché lui non potesse partecipare alla Resistenza e vivere quella esperienza che portò parecchi di noi, allora studenti, alla adesione al Pci. Chiarante seguì una strada completamente diversa, che diverrà esemplare di coraggio politico e di forza morale. Partecipe del mondo cattolico, iniziò il suo percorso nel movimento giovanile della Democrazia cristiana, di cui divenne rapidamente uno dei massimi dirigenti, schierato con la sinistra di Giuseppe Dossetti, uno dei principali estensori della Costituzione repubblicana. Protagonista nel 1953 della fondazione della corrente di Base, che raccolse l’eredità di Dossetti fattosi sacerdote, venne eletto, poco più che ventenne, nel consiglio nazionale della Dc al congresso del 54 che vide l’affermazione di Amintore Fanfani.

Erano, quelli, gli anni più aspri della guerra fredda. La contrapposizione tra i blocchi, e il monopolio statunitense dell’arma atomica, faceva temere la possibilità di una nuova catastrofica guerra. Chiarante, con altri esponenti di parte cattolica e molti intellettuali indipendenti di ogni parte d’Europa, decise di partecipare come osservatore al congresso costitutivo del movimento internazionale dei «partigiani della pace», subito bollato come filosovietico. Ne nacque una dura polemica con Fanfani, culminata con il rifiuto dell’autocritica e con l’espulsione. Da allora si fece più stretto l’incontro di Chiarante e del gruppo che faceva capo a lui e a Lucio Magri con le posizioni dei comunisti cattolici di Franco Rodano, con cui fondò la combattiva rivista Il dibattito politico. Quell’incontro sfociò, poi, nella adesione al Pci. Chiarante, come giornalista, era, intanto, divenuto vice direttore di Paese sera, quotidiano progressista indipendente di ampia diffusione.

Nella discussione interna al partito, egli portò le posizioni di chi, pur condividendo pienamente la scelta democratica e gradualista di Togliatti, sottolineava la necessità di marcare le esigenze riformatrici e trasformatrici, particolarmente dopo il superamento dell’arretratezza e l’avvenuta trasformazione dell’Italia in un Paese industriale avanzato. La discussione divenne più acuta dopo la scomparsa di Togliatti con cui Chiarante si era già misurato sulle colonne di Nuovi Argomenti quando si incominciò ad intravedere che venivano maturando tempi nuovi e temi fino a quel momento sconosciuti. Si era alla vigilia del 68, e dei mutamenti ma anche delle involuzioni di quel moto che fu, in Italia, giovanile e operaio. Chiarante fu allora con i compagni che sentivano il fascino delle posizioni di Ingrao, ma non parteciparono poi alla esperienza del Manifesto, pur rifiutandone la radiazione avvenuta sulla base di uno statuto che cambierà troppo tardi.

La differenza di opinioni non impediva però, allora, la assunzione di responsabilità rilevantissime. Chiarante fu responsabile della politica per la scuola, e poi delle politiche per la cultura, e direttore di Rinascita, la rivista settimanale edita dal partito: ovunque portando il peso della sua personalità pacata e ferma, come la sua scrittura. Il primato della scuola, della ricerca, della cultura per un Paese che voglia dirsi moderno e avanzato ebbero in Chiarante un interprete rigoroso e creativo. E la legislazione italiana per la difesa del nostro patrimonio culturale gli deve molto. Ma proprio perciò egli, come accadde a me e ad altri, temette, nel momento in cui fu proposto il mutamento del Pci in altro da sé, la dispersione di una comunità e di un grande patrimonio che non era solo di memorie e di sentimenti pur cari, ma di elaborazioni concrete e precise, perfettibili certamente, ma non così povere da dover rincominciare da zero. Non comprendevamo l’ansia di tagliare le proprie radici che non erano le medesime di quelle che avevano prodotto frutti avvelenati, anche se capivamo il bisogno di rinnovamento di una nuova generazione. Perciò non volemmo la scissione. E Chiarante assunse, anzi, quale esponente della minoranza congressuale, la responsabilità del gruppo senatoriale e della commissione di garanzia del nuovo partito reggendole entrambe con grande capacità e lealtà.

Parve a lui, e a me, che la nostra storia di partito dovesse concludersi con il bombardamento di Belgrado. Eravamo nel ‘98. Non ci convinceva la lacerazione tra le due sinistre, tema che oggi si ripropone, e perciò, assieme ad altri, partecipammo alla costruzione di una associazione per il rinnovamento e per l’unità della sinistra, di cui Chiarante è stato animatore determinante. Egli ha riassunto la sua storia, che è gran parte della storia del dibattito nel gruppo dirigente del Pci tra il ‘60 e il ‘90 in due densi volumi. Chi li legge può vedere non solo quante realtà egli avesse visto in anticipo. Ma quanta fermezza e coerenza vi sia stata nella sua volontà di una sinistra veramente nuova e aperta al futuro. Ciò che non si può leggere è che persona squisita fosse, quanta forza trasmetteva la sua serena coscienza, mai esibita. Anche per questo rimarrà non solo nei suoi scritti ma nell’animo di chiunque l’abbia conosciuto.

il manifesto

Addio a Giuseppe Chiarante Tutta la saggezza e le speranze degli anni '60

di Rossana Rossanda

Quel che è più triste dell'invecchiare è il perdere gli amici d'una vita. Quelli un poco più anziani di me se ne sono in gran parte andati, e anche diversi più giovani. Fra essi era Giuseppe Chiarante, Beppe, dal bel viso sereno e la voce tranquilla; lo conoscevo da non so quanto, più di mezzo secolo e abbiamo a lungo lavorato insieme, oltre che spartire le corse fuori porta, quando eravamo giovani e vispi settentrionali nella dorata Roma. Era l'amico e sodale di Lucio Magri, i due poco più che ragazzi della sinistra cattolica di Bergamo, negli anni '50 la città più inquieta della enorme Democrazia cristiana. Erano una fronda, facevano insieme il ribelle e il conformista, avevano finito con l'iscriversi al Pci, assieme ai grandi, i deputati Mario Melloni, Fortebraccio, e Ugo Bartesaghi. Non erano soli, altri ne condividevano molte idee senza però fare il salto. E non potevano essere più diversi nel carattere: quanto Lucio era prometeico, asseverativo, ostinato, tanto Beppe era prudente, pur nell'autonomia delle scelte, dialogante, aperto anche al dubbio. Lucio aveva le qualità del capo, Beppe quelle del saggio. Negli anni '60, quando fui chiamata a Roma per dirigere la sezione culturale in via Botteghe Oscure, Beppe ne fu incaricato come me e con me rimase finché fui allontanata, prezioso nel lavoro e nei rapporti, coltissimo, leale. Dei '60 condividemmo le speranze, cui il partito credeva di meno. Non so quanto contasse in lui l'essere cattolico, il suo riserbo non mi permetteva domande, ma la questione fra comunisti e cattolici gli stava molto a cuore, alimentata da quel Concilio Vaticano II che sembrò aprire tutte le strade e che i pontefici successivi a Giovanni XXIII chiusero, lentamente, forse senza una precisa intenzione Montini, con una accelerazione Karol Woytjla e non senza brutalità Ratzinger. L'incontro fra le due culture non doveva essere quello fra Dc e Pci, ma proprio fra una ispirazione di fondo che parve privilegiare i valori invece che i consumi, i "fondamentali" invece che le manovre. Ma anche una comune avversione a quello che il Pci chiamava, con la scusa di Gramsci, economicismo, in chiunque si occupava di più del capitale - la famosa struttura - che delle vicende politiche, l'altrettanto famosa sovrastruttura.

Su questo d'altronde Enrico Berlinguer avrebbe tentato negli anni '70 quel compromesso storico che non funzionò. Nei '70 il Pci era già meno comunista e la Dc meno cristiana di quanto fossero venti anni prima. Alla commissione culturale facemmo due convegni nei quali l'apporto di Chiarante fu decisivo: uno sulla famiglia, che contribuì alla fama di eterodossia che presto ci avvolse - eravamo antifamilisti e anticlericali - per cui Nilde Jotti e Emilio Sereni ci criticarono assai, e uno sulla scuola, sulla scia di quel Convegno sulle tendenze del capitalismo italiano che era stato organizzato dall'Istituto Gramsci nel 1962 e segna una prima linea, se non di rottura, di divisione nell'analisi che il partito faceva sulla situazione. Pur pensando in gran parte come noi, Chiarante non ci seguì nella vicenda del manifesto: e non per mancanza di coraggio ma per la persuasione che non sarebbe bastata una forza minoritaria a produrre in Italia un cambiamento. La sua posizione fu dunque non poco scomoda, perché restò nel Pci ma votando, assieme a pochi altri, contro la nostra radiazione. E del Pci seguì le sorti agitate, alleandosi con la mozione del "no" sulla svolta, negli anni turbolenti che seguirono l'89. Sperò anche lui in una presa di posizione fondamentale che si sarebbe dovuta prendere alla riunione di Arco e non fu presa. Da allora il Pci venne via via perdendo molti compagni, non occhettiani né dalemiani, ma neppure in consonanza con Rifondazione. Con Aldo Tortorella salvò dall'estinzione Critica marxista, che ha diretto assieme a lui assieme alla Associazione per il rinnovamento della sinistra, che opera tuttora cercando di riunificarne gli spezzoni non su proposte politiche estemporanee a breve, ma su un filone culturale ed etico, per la cui mancanza il Pci e poi il Pds avrebbero cessato di esistere. La confusione che seguiva nell'ex Pci ad ogni cambiamento di nome, impedì al partito di compiere ogni sforzo per trattenere loro, ma prima Ingrao, poi Bertinotti, e poi altri ancora, senza rendersi conto che stava perdendo l'essenziale del suo patrimonio politico ed umano.

Quando decidemmo come manifesto di riprendere una nuova serie del mensile sul quale eravamo nati, Chiarante lavorò con noi. E parallelamente scriveva, oltre che su Critica marxista, i tre volumi di storia del Pci ( La fine del Pci. Dall'alternativa democratica di Berlinguer all'ultimo Congresso 1979-1991, del 2009, Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico 1958-1975 del 2007 e Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta del 2006), tutti pubblicati dall'editore Carocci, che sono una miniera di dati. Nel confronto con Il sarto di Ulm di Lucio Magri si vede la differenza dei caratteri: Magri è sempre sui limiti di quel che il Pci avrebbe potuto fare, Chiarante si attiene a una documentazione e testimonianza niente affatto asettica, appena un po' meno spietata. Oltre a questo, Beppe sperò a lungo come senatore che fosse perseguibile una difesa coerente del patrimonio culturale del paese, preceduto dalla compagna della sua esistenza, Sara Staccioli. Li vedevo assieme anche alle grandi esposizioni di Parigi, finché le condizioni di salute gli permisero di vedere: la perdita della vista fu, fra i mali che lo hanno assalito da anni, quello che lo tormentava di più. L'ho visto per l'ultima volta alcuni mesi fa, con l'indomita Sara che lo portava a un concerto all'Auditorium; era come sempre affettuoso ma stanco, molto.

Addio, caro Beppe, compagno ed amico. Il mio universo non è più lo stesso, ne guardo l'orizzonte e troppe sono le assenze.

il manifesto

Addio a Giuseppe Chiarante Passione, cultura, intelligenza. Ci mancherà molto

di Luciana Castellina

Ieri notte Beppe Chiarante ci ha lasciati. Era il giorno del suo ottantatreesimo compleanno, nove giorni più vecchio di me e infatti celebravamo spesso assieme l'anniversario: da circa sessant'anni, ché tanti sono quelli della nostra strettissima amicizia. Beppe aveva avuto fino alla nostra rottura del manifesto lo stesso percorso di Lucio Magri, di cui si può dire che sia stato fratello.

Nati e cresciuti nella stessa città, Bergamo, ambedue entrati nei Gruppi giovanili Dc, perché in quella provincia bianchissima (a meno di non vivere nella fabbrica ed essere uno straordinario, precoce e però isolatissimo operaio come il nostro Eliseo Milani) la politica lasciava solo la scelta fra le correnti di quel partito. Quella di Beppe e Lucio fu la scelta della sinistra dossettiana, la cosa più a sinistra che lì si potesse incontrare. Ma i Gruppi giovanili andarono parecchio oltre nella loro critica anticapitalista, tanto che Fanfani, alla vigilia del congresso di Napoli del '54, sciolse l'esecutivo dell'organizzazione e poi cacciò Beppe dal Consiglio nazionale del partito cui, molto precocemente, era stato nel frattempo promosso.

Ma una parte consistente di loro non abdicò e dette vita ad una serie di pubblicazioni di cui Beppe fu, con Lucio, uno dei principali animatori: Il ribelle e il conformista, diretto da un altro bergamasco (e in seguito colonna de il manifesto), Carlo Leidi, e Prospettive, in cui ritroviamo le firme dei tanti che poi approdarono alle fila comuniste: Baduel, Guerzoni, Asperti...

Ricordo questa vicenda non solo perché è fondante dell'itinerario politico di Chiarante, ma perché è un pezzo di storia italiana di cui poco si è scritto e che è stata invece di grande interesse. Lo stesso travaglio dei Gruppi giovanili della Dc fu infatti vissuto negli stessi anni dalla ben più corposa Giac, la Gioventù di Azione cattolica, i cui due presidenti, difronte al viscerale anticomunismo di Gedda e alla realtà democristiana, preferirono la via di un esule sacerdozio.

La Fgci - ma anche il Pci - capì poco e tardò ad offrire una sponda.

Da ponte, loro ormai fuori dalla Dc, funzionò il Dibattito politico di Franco Rodano, una rivista di cui Beppe fu per un periodo anche vicedirettore. Era nata per raccogliere i cattolici di sinistra e diventò invece - di fatto - una voce nuova e più di sinistra rispetto alla linea ufficiale del Pci. Poi ci fu l'ingresso nel partito, di cui Beppe sperimentò tutti i livelli: vicedirettore de Il Paese, dove lavorammo assieme all'inizio degli anni '60, poi con Rossana alla cultura, quindi con Tortorella, direttore di Critica marxista, di Rinascita, nella direzione e alla fine nella segreteria del Pci, nella seconda fase berlingueriana.

Non c'è stato mai, io credo, un vero dissidio politico fra noi che abbiamo scelto di dar vita al manifesto e Beppe, ma forse una differenza di carattere che ci ha portato a compiere scelte difformi: lui era prudente e paziente, noi no.

Giudicò allora il nostro un errore tattico. Ma non perché Beppe fosse un moderato: i suoi tantissimi scritti testimoniano la radicalità del suo pensiero. Quando nacque il Pds in quel nuovo partito resse poco: ne uscì con Aldo Tortorella in occasione della guerra alla Jugoslavia e con lui dette vita all'Ars, l'Associazione per il rinnovamento della Sinistra.

Ci ha lasciato la più lucida e completa analisi del dopoguerra in Tra De Gasperi e Togliatti; Da Togliatti a D'Alema; Con Togliatti e Berlinguer; Italia '95, la democrazia difficile; La fine del Pci.

Ai tanti di noi che l'hanno avuto per amico e compagno mancherà moltissimo la sua straordinaria intelligenza, il suo equilibrio, la sua cultura. Anche la sua passione, celata dietro il suo carattere schivo. Io non so più a chi potrò andare a chiedere consiglio. Sua moglie Sara è stata bravissima: sembrava fragile, è stata fortissima nell'aiutarlo a vivere in questi anni in cui la malattia l'ha attaccato. Le siamo vicini, come manifesto, il giornale cui aveva finito per collaborare spesso.

Anche l´Italia, nel suo piccolo, funziona. Da Nord a Sud ci sono 63 comuni d´eccellenza dove tutto è ecosostenibile, riciclabile, alternativo. Ponte nelle Alpi, ad esempio. Ottomila anime nel Bellunese dove la raccolta differenziata è arrivata al 90%. O Melpignano (Lecce) dove una cooperativa per il fotovoltaico voluta dal sindaco permetterà ai cittadini di non pagare la bolletta per vent´anni. Amministrazioni coraggiose, medaglie al valor civile appuntate sul territorio italiano.

I primi della classe sono riuniti nell´associazione Comuni virtuosi (da non confondere con la lista ufficiale del ministero dell´Economia degli enti che rispettano il patto di stabilità), nata nel maggio del 2005 con un obiettivo semplice: «Diffondere il buon esempio - spiega Marco Boschini, coordinatore dell´iniziativa - e creare una rete di condivisione delle esperienze mettendo a disposizione delibere e progetti già realizzati per chi vuole innovare». Perché un´altra amministrazione è possibile, anche con la crisi.

Sfogliando l´elenco dei virtuosi, ci si imbatte in Corchiano, 4000 abitanti, in provincia di Viterbo. I vigili girano in bici per inquinare meno, lo scuolabus è alimentato col biodiesel prodotto con gli oli esausti da cucina recuperati dal Comune, la fontana pubblica ha eliminato l´uso di 200 mila bottigliette, le ristrutturazioni degli edifici si fanno solo se migliorano l´efficienza energetica. C´è poi Cassinetta di Lugagnano, in provincia di Milano. Un borgo medievale sul Naviglio grande, 1800 abitanti, che per primo in Italia ha abolito gli oneri di urbanizzazione. «Difendiamo il territorio dalla cementificazione - spiega l´ex sindaco di centrosinistra Domenico Finiguerra - consentiamo solo restauri dei fabbricati esistenti. Per compensare gli incassi mancati, abbiamo tagliato le luminarie di Natale e i fuochi d´artificio. Ci siamo inventati i "matrimoni a mezzanotte" nelle ville del nostro paese. Portano 30 mila euro all´anno».

Far parte del club dei migliori comuni d´Italia, però, non è da tutti. Ci sono criteri rigorosi per l´ammissione: avere un livello di raccolta differenziata superiore al 65 per cento, una superficie urbanizzata inferiore al 15, un piano energetico comunale, forme di mobilità alternativa (piste ciclabili, car sharing, piedibus), stili di vita improntati alla sobrietà. Castellarano, in provincia di Reggio Emilia (vincitore nel 2011 del premio "Comuni a 5 stelle" indetto dall´associazione), fa quasi vergognare per quanto è perfetto. L´impianto fotovoltaico pubblico da un megawatt è stato realizzato su una vecchia discarica dismessa, evitando spreco del suolo. È nato qui uno dei primi Gruppi di acquisto solidale del fotovoltaico. Nelle aree verdi si utilizza il compost per la concimazione, negli uffici pubblici si usa solo carta riciclata e i dipendenti fanno la spesa via web. E non è finita: per gli operai del comprensorio della ceramica è stato messo in piedi un progetto di condivisione dell´auto per ridurre il traffico.

Si dirà che queste esperienze funzionano, ma solo nelle piccole realtà. «Non è così - ribatte Boschini - in Europa ci sono esempi di amministrazioni votate all´ecosostenibilità. Basti pensare a Friburgo, o anche ad alcuni progetti realizzati da Parigi e Londra. Con impegno e coraggio, le cose si possono fare anche a Roma o a Milano». In Italia il Comune virtuoso più grande per ora è Capannori, in Toscana, con 47 mila abitanti. Tra i vari meriti, ha anche quello di aver inaugurato l´era del bilancio partecipativo. I cittadini vengono informati con assemblee pubbliche di tutte le spese effettuate. «Dopodiché - spiega l´assessore all´Ambiente Alessio Ciacci - sono loro, tramite una votazione pubblica, a decidere come utilizzare 500 mila euro che ogni anno riserviamo ad hoc in bilancio». L´anno scorso sono serviti per finanziare la ristrutturazione di alcune scuole, voluta e votata dai cittadini.

A volte per essere bravi amministratori basta una piccola grande idea. A Melpignano nel Leccese il sindaco Ivan Stomeo si è inventato, caso unico in Italia, la cooperativa del fotovoltaico. «Sfruttando i tetti piani delle nostre case - racconta - abbiamo creato una cooperativa che compra gli impianti e li installa sulle case dei soci, gratis. La cooperativa si finanzia con gli incentivi del Conto Energia, chi aderisce ha energia gratis per vent´anni. Finora abbiamo installato una sessantina di impianti». E a Berlingo, nel Bresciano, 2500 abitanti, la giunta ha trasformato una discarica in centro in una struttura polifunzionale alimentata con fonti rinnovabili. Dal letame nascono davvero i fiori.

Il 12 giugno è morta Elinor Ostrom, insignita nel 2009 del premio Nobel per l'Economia. La ricordiamo pubblicando un estratto dell'introduzione al volume "La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica", a cura di E. Ostrom e di C. Hess, pubblicato da Bruno Mondadori nel 2009.

Con la parola “conoscenza” (knowledge() si intendono in questo libro tutte le idee, le informazioni e i dati comprensibili, in qualsiasi forma essi vengano espressi o ottenuti. Il nostro approccio è in linea con quello di Davenport e Prusak (1998, p. 6), i quali scrivono che «la conoscenza deriva dalle informazioni come le informazioni derivano dai dati». Machlup (1983, p. 641) ha introdotto questa distinzione fra dati, informazioni e conoscenza, in cui i primi sono frammenti di informazione allo stato grezzo, le informazioni sono costituite dall’organizzazione contestualizzata dei dati, e la conoscenza è l’assimilazione delle informazioni e la comprensione del modo in cui esse vanno utilizzate. In questo libro impieghiamo il termine “conoscenza” per riferirci a tutte le forme di sapere conseguito attraverso l’esperienza o lo studio, sia esso espresso in forma di cultura locale, scientifica, erudita o in qualsiasi altra. Il concetto include anche le opere creative come per esempio la musica, le arti visive e il teatro. Alcuni ritengono che la conoscenza sia “dialettica”,
nel senso che possiede una doppia “faccia”: in quanto merce e in quanto elemento fondante della società (Reichman e Franklin 1999; Braman 1989). Questa doppia funzionalità – come esigenza umana e come bene economico – è indizio immediato della natura complessa di questa risorsa. Acquisire e scoprire conoscenza è al contempo un processo sociale e un processo profondamente personale (Polanyi 1958).

Ancora: la conoscenza è cumulativa. Nel caso delle idee l’effetto cumulativo genera vantaggi per tutti nella misura in cui l’accesso a tale patrimonio sia aperto a tutti, ma sia quello dell’accesso sia quello della conservazione erano problemi seri già molto prima dell’avvento delle tecnologie digitali. Una quantità infinita di conoscenza attende di essere disvelata. La scoperta delle conoscenze future è un tesoro collettivo di cui dobbiamo rispondere di fronte alle generazioni che ci seguiranno. Ecco perché la sfida di quella attuale è tenere aperti i sentieri della scoperta.

Assicurare l’accesso alla conoscenza diventa più facile se se ne analizza la natura e si mette bene a fuoco la sua peculiarità di bene comune. Questo approccio è in contrasto con la corrente letteratura economica, nella quale la conoscenza è stata spesso indicata come tipico esempio di bene pubblico “puro”: un bene disponibile per tutti e il cui uso da parte di una persona non limita le possibilità d’uso da parte degli altri. Nella trattazione classica dei beni pubblici, Paul A. Samuelson (1954, pp. 387- 389) ha classificato tutti i beni che possono essere utilizzati dagli esseri umani come puramente privati o puramente pubblici. Samuelson e altri, tra cui Musgrave (1959), hanno posto tutta l’enfasi sull’
esclusione: i beni dal cui uso gli individui potevano essere esclusi andavano considerati privati. Nell’affrontare questi problemi, gli economisti si concentrarono dapprima sull’impossibilità dell’esclusione, per poi orientarsi verso una classificazione basata sull’alto costo
dell’esclusione. Da quel momento i beni sono stati trat-tati come se esistesse una sola dimensione. Solo quando gli studiosi hanno sviluppato una duplice classificazione dei beni (V. Ostrom ed E. Ostrom 1977), è stato pienamente riconosciuta l’esistenza di un loro secondo attributo. Il nuovo approccio ha introdotto infatti il concetto di
sottraibilità (a volte definita anche
rivalità) – per cui l’uso del bene da parte di una persona sottrae qualcosa dalla disponibilità
dello stesso per gli altri – come fattore determinante di pari importanza per la natura di un bene. Ciò ha condotto a una classificazione bidimensionale dei beni. La conoscenza, nella sua forma intangibile, è rientrata allora nella categoria di bene pubblico, dal momento che, una volta compiuta una scoperta, è difficile impedire ad altre persone di venirne a conoscenza. L’utilizzo della conoscenza (come per esempio la teoria della relatività di Einstein) da parte di una persona non sottrae nulla alla capacità di fruizione da parte di un’altra persona. Questo esempio, naturalmente, si riferisce alle idee, ai pensieri e al sapere derivanti dalla lettura di un libro: non al libro in quanto oggetto, che sarebbe classificato come bene privato.

In questo volume impieghiamo le espressioni
beni comuni della conoscenza e
beni comuni dell’informazione in maniera intercambiabile. Alcuni capitoli si concentrano in particolare sulla comunicazione scientifica e accademica, ma le questioni discusse hanno un’importanza cruciale che si estende ben al di là della “torre d’avorio”. Ciascun
capitolo si dedica a un particolare aspetto della conoscenza in forma
digitale, principalmente perché le tecnologie che consentono una distribuzione globale e interattiva dell’informazione hanno trasformato

radicalmente la struttura della conoscenza come risorsa. Uno dei fattori critici relativi alla conoscenza digitale è la continua e radicale trasformazione (“ipercambiamento” o (hyperchange) ( delle tecnologie
e delle reti sociali che coinvolge ogni aspetto della gestione e del governo delle conoscenze, compresi i modi in cui esse sono generate, immagazzinate e conservate.

I sempre più numerosi studi sui vari approcci ai beni comuni della conoscenza mostrano la complessità e la natura interdisciplinare di queste risorse. Alcuni beni comuni della conoscenza risiedono al livello locale, altri al livello globale o in una posizione intermedia e tutti sono suscettibili di una molteplicità di utilizzi diversi e sono oggetto di interessi in competizione. Le aziende hanno premuto per misure più rigide a tutela di brevetti e copyright, mentre molti ricercatori, studiosi e professionisti si impegnano per assicurare il libero accesso alle informazioni. Le università si trovano su entrambi i fronti del dibattito sui beni comuni: da una parte, sono detentrici di un crescente numero di brevetti e fanno sempre più affidamento sulle sovvenzioni alla ricerca da parte delle aziende; dall’altra, incoraggiano il libero accesso alla conoscenza e la creazione di archivi digitali per i risultati delle ricerche svolte nei loro dipartimenti.

Gran parte dei problemi e dilemmi che affrontiamo in questo libro sono sorti in seguito all’invenzione delle nuove tecnologie digitali. L’introduzione di nuove tecnologie può rivelarsi decisiva per la robustezza o la vulnerabilità di un bene comune. Le nuove tecnologie possono consentire l’appropriazione di quelli che prima erano beni pubblici gratuiti e liberi: così è avvenuto, per esempio, nel caso di numerosi “beni comuni globali” come i fondali marini, l’atmosfera, lo spettro elettromagnetico e lo spazio. Questa capacità di appropriarsi di ciò che prima non consentiva appropriazione determina una meta-morfosi sostanziale nella natura stessa della risorsa: da bene pubblico non sottraibile e non esclusivo, essa è convertita in una risorsa comune che deve essere gestita, monitorata e protetta, per garantirne la sostenibilità e la preservazione.

Francesco Erbani, Antonio Cederna. Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza, Roma, Legambiente-La biblioteca del cigno, 160 pp., 9,50 euro.

Il nuovo volume di Francesco Erbani è dedicato ad uno dei maestri del giornalismo italiano e, assieme, uno dei più importanti intellettuali italiani della seconda metà del ‘900, ben noto ai lettori di eddyburg: Antonio Cederna.

Il volume ripercorre la vita e il pensiero di Cederna sin dalle prime battaglie contro i monopoli e la rendita fondiaria, ancora oggi attualissime. E dall’insieme del volume emerge l’inalterata modernità del suo pensiero: dalle cronache sul Mondo che dal 1949 documentano il modo perverso in cui stanno crescendo le città italiane.

Indimenticabili le battaglie per la difesa dell’Appia e a favore di una pianificazione urbanistica pubblica.

Ma nel corso di oltre quarant’anni, Cederna sarà chiamato a denunciare le mille vicende che testimoniano l’assalto al territorio, il suo degrado e assieme quello del patrimonio culturale italiano.

Ora più che mai occorre rileggere Cederna!

Le prime presentazioni del volume:

5 giugno 2012 - Ferrara, Università di Ferrara, Facoltà di Architettura, via Quartieri, 8, h. 16:

Dialogano con l’autore: Francesca Leder, Arturo Lanzani e Elena Granata.

7 giugno 2012 – Roma, Villa di Capo di Bove, Appia Antica 222, h. 17:

Assieme all’autore intervengono Vezio De Lucia, Roberto Della Seta, Maria Pia Guermandi, modera Marco Fratoddi.

Portano una testimonianza: Desideria Pasolini dall’Onda, Adriano La Regina, Carlo Melograni, Edoardo Zanchini.

Antonio Cederna su eddyburg

Titolo originale: A Passion For Urban Planning, And For Food – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

La vita di Terry Tondro ha toccato cose diversissime. Professore di diritto lontanissimo dall’accademico nella sua torre d’avorio, adorava la buona tavola e il buon vino, preferendo cucinare da solo. E adorava le città: profondamente urbanista, ma che sapeva apprezzare l’oceano e l’aria frizzante del Maine rurale. Conoscitore della musica operistica, ascoltava anche con passione Ella Fitgerald. Ha lavorato per tutelare edifici storici, ma anche contribuito a realizzare case per e meno abbienti e la popolazione di colore. Uomo d’azione, Tondro, ma che faceva ogni cosa con stile e buon gusto. Affermato e riconosciuto esperto nel campo dell’urbanistica e del territorio, rimase sempre una persone umile.

"Era un egualitario nel profondo" ricorda il figlio Trevor. "Detestava apparire in qualche modo snob, pretenzioso, superiore rispetto agli altri. Era più un tipo dalle maniche rimboccate che uno con la camicia inamidata". Tondro è morto a Hartford, dove abitava, per un infarto in 26 aprile, due settimane prima del 74° compleanno. Era nato il 7 maggio 1938, cresciuto sulla sponda dell’oceano a Santa Monica, California, vicino a Los Angeles. Maggiore dei cinque figli di Lloyd e Italia Tondro (famiglia francese, il cognome originario si scrive Tondreau). Padre imbianchino, gran sostenitore di Franklin Delano Roosevelt e dell’idea di pari opportunità per tutti. Tondro inizia a lavorare in un caffè, poi in un elegante ristorante sul Wilshire Boulevard a Los Angeles durante le medie superiori. Il tutore scolastico gli consiglia ("un tipo senza troppa immaginazione" giudica oggi la moglie di Tondro) di iscriversi alla Scuola Superiore Alberghiera della Cornell University per diventare uno chef. Contemporaneamente Tondro ottiene anche una borsa per la Stanford University.

Desideroso di viaggiare sceglie la Cornell, ma dopo due anni a studiare “ospitalità” e raffinate tecniche di cucina, vuole passare ad un percorso di studi diverso. L’iscrizione al Reserve Officer Training Corps gli garantisce la copertura finanziaria. Dopo aver ottenuto il diploma nel 1961, Tondro entra nell’Esercito, e davanti alla scelta fra i carristi (servizio in Germania) e i paracadutisti (servizio nel territorio dello stato), opta ancora per la destinazione più lontana. Sfrutta le vacanze per viaggiare in Europa. L’idea originaria era di proseguire gli studi in Storia Americana, ma dopo il servizio militare ha imparato il valore dell’esperienza pratica, di “fare delle cose”. E così si iscrive a Legge. Per ingannare l’attesa dei corsi che cominciano solo nell’autunno 1964, Tondro torna in California dove lavora come istruttore di guida. Una delle allieve è Helle Stueland, giovane norvegese appena laureata all’Università di Berkeley. Si vedono regolarmente dietro il volante di una VolksWagen. Quando Helle si trasferisce a est l’inverno seguente sono ufficialmente fidanzati, si sposeranno nel giugno 1965.

Tondro ha ottimi voti alla Scuola di Diritto della New York University, e dopo aver ottenuto il titolo lavora per un anno all’Office of Economic Opportunity nel quadro del programma di Guerra alla Povertà del Presidente Lyndon B. Johnson: un’esperienza molto formativa. Per un breve periodo collabora anche con la fabbrica di calzature Paul Weiss di New York, salvo scoprire che detesta il diritto privato. Si iscrive allora alla Yale University per studiare urbanistica sino a ottenere una specializzazione in American Studies. Nel 1973 inizia a insegnare diritto all’Università del Connecticut, proprio nel momento in cui la città di Hartford sperimenta un percorso urbanistico chiamato Hartford Process. Progetto fallito, ma Tondro ha trovato la sua collocazione.

È coautore di una memoria presentata alla Cortre Suprema del Connecticut su un caso di variante all’ordinanza di zoning per East Hampton che impone una superficie minima degli alloggi di cento metri quadrati, considerata discriminante per i poveri (la corte stabilirà che si tratta di un provvedimento irrazionale e senza giustificazioni imposto dall’amministrazione, e lo boccia). Svolge approfondite ricerche su vari casi di destinazioni d’uso e zoning traendone un testo che diventerà per decenni una specie di bibbia per costruttori, urbanisti, amministratori e magistrati. "È stato in pratica un manuale per come prendere le decisioni in quell’area" commenta Dwight Merriam, esperto di diritto urbanistico di Hartford, che ne ha una copia tenuta insieme da strisce di nastro adesivo. Oltre a studiare casi, Tondro aveva inserito anche commenti propri di carattere più generale, sulle sentenze per le l’ambiente, le lottizzazioni, lo sviluppo urbano. Alle assemblee si portavano tutti il libro di Tondro, Connecticut Land Use Regulation: A Legal Guide for Lawyers, Commissioners, Consultants and Other Users of the Land tenendolo aperto sulle ginocchia.

“Facevamo a gara fra chi citava meglio quei passaggi scritti da Terry e che consideravamo più importanti per il nostro punto di vista" ha ricordato il magistrato Mark Dubois nella serata dedicata a Tondro. "Era diritto urbanistico reso accessibile a tantissimi" ricorda Tim Hollister, relatore di maggioranza per il caso East Hampton. "Aveva opinioni molto nette e non mancava mai di schierarsi chiaramente. Testimoniava anche cosa volesse dire esprimere un punto di vista disinteressato sulle scelte". Fu nominato dal Governatore William O'Neill presidente della Blue Ribbon Commission on Housing, e scrisse gran parte dei provvedimenti che oggi consentono di introdurre quote di case economiche in trasformazioni di abitazioni più costose, rendendo molto difficile per le amministrazioni escludere dal proprio territorio le case popolari. Secondo Tondro il sostegno alla casa per tutti non doveva arrivare solo dai comitati per i diritti, ma anche da chi come l’amministrazione vuole un alloggio per i ceti medi. A differenza di tanti professori che vivono in un mondo fatto di aule e biblioteche, Tondro apprezzava la militanza, vedere le proprie idee trasformarsi in realtà."Era uno di quei tipi di accademici, sempre più rari, davvero disponibili a partecipare e schierarsi sulle questioni urbane. Teneva un piede in entrambe le scarpe: gli studi, e la partecipazione urbanistica" ricorda Merriam.

Nella scuola legale, Tondro insegnava vari aspetti del diritto."Era abbastanza concentrato sugli aspetti economici delle trasformazioni, come la finanza influisca sulle capacità dei costruttori, sul rischio che una separazione per zone induca una divisione di classe” ricorda Michael Ziska, ex studente che ricorda Tondro come maestro. “Terry cercava sempre di unire pianificazione urbanistica e la possibilità di case per tutti. È grazie alle sue capacità che abbiamo fatto progressi". Da ragazzo Tondro aveva aiutato il padre nei lavori di manutenzione edilizia, e capiva essenzialmente il settore. Gli piacevano molto gli edifici storici, in particolare a Hartford quelli in stile vittoriano del XIX secolo. Nel 1973, quando sorse la protesta per la demolizione di un edificio storico sulla Prospect Avenue a Hartford, Tondro entrò nella Hartford Architecture Conservancy partecipando poi ad altre battaglie di tutela, con la Connecticut Trust for Historic Preservation, di cui fu presidente di sezione, e consigliere del Trust for Historic Preservation nazionale.

Fu approvata una legge sugli sgravi fiscali che rendeva più conveniente per le proprietà conservare gli edifici storici. “Terry vide la possibilità che in Connecticut si potesse fare tutela” ricorda Jared Edwards, architetto fra i fondatori della Hartford Conservacy. Tondro coinvolgeva ex studenti diventati deputati statali per sostenere il disegno di legge, che avrebbe protetto tanti edifici anche industriali. “Nel suo modo molto posato faceva notare quanto lo stato dovesse assumere un ruolo guida per gli investimenti privati nella tutela" ricorda Edwards. “Mise le basi per leggi che hanno ottenuto enormi risultati per decenni”. Svolse anche un ruolo essenziale per la destinazione a parco nazionale della tenuta agricola Wilton, del pittore impressionista ottocentesco J. Alden Weir. “Col suo talento arrivava a risultati che si ritenevano impossibili”.

Tra le grandi passioni di Tondro c’era anche la buona tavola. Dopo aver trascorso un mese in Italia con la famiglia nel 1978, era tornato portandosi ricette di cucina del tutto nuove: niente a che vedere con il solito sugo alla marinara, spaghetti e polpette. Le sue cene erano la leggenda di tutto il West End a Hartford. “L’invito era per le sette, si cominciava a mangiare alle nove, e ci si alzava all’una di notte” ricorda ancora Edwards. “Quando eravamo convinti di aver finite, ecco che spuntava un altro piatto ancora più elaborato. ... Quella sì che era vita. Certo con dieci chili in più”. Quando stava con la famiglia a New York andavano all’opera due volte la settimana, biglietti posti in piedi da uno a tre dollari. Lo facevano anche abitando in Connecticut. Dal 2000,dopo il pensionamento, passava ogni anno sei mesi con la moglie a Roma, studiando la lingua, sperimentando la la cucina, frequentando concerti e musei, soprattutto passeggiando per la città.

Tondro adorava le cravatte a papillon, che indossava con molto stile. Negli ultimi anni aveva avuto qualche piccolo attacco, ma anche quest’inverno era comunque andato qualche mese a Roma. Oltre alla moglie lascia due figli e tre nipoti. È sepoloto al Cimitero dei Veterani di Middletown. Molto adatto a lui, commenta la moglie: tutti con la medesima lapide, indipendentemente dal grado o dalla posizione sociale. Col rumore delle auto che ricorda a tutti quanto nonostante il prato verde si sia sempre in città. “Aveva un senso egualitario difficile da descrivere” ricorda Bill Breetz, vicino di casa ed ex collega di insegnamento. “Una cosa che ha attraversato tutta la sua opera: le case popolari, un’urbanistica inclusiva, la tutela per tutti della Weir Farm, e fare delle città posti migliori per viverci”.

La tutela urbanistica regionale non può essere sostitutiva di quella statale, ma soltanto “aggiuntiva”. Può cioè ampliare il livello della tutela del bene protetto, non, all’inverso, servire a restringere l’ambito della protezione assicurata dalle leggi statali. Lo ha ribadito nei giorni scorsi la Corte costituzionale con la sentenza n.66/2012 nei confronti della legge n.10/2010 della Regione Veneto, in specie dell’art. 12. [Vedi il testo della sentenza e un primo commento qui su eddyburg - ndr]

La Corte riafferma dunque, più che opportunamente, un principio essenziale: il legislatore regionale non può scalfire la potestà dello Stato in materia di beni primari quali i beni paesaggistici. Punto di frizione fra norme statali e legge veneta? La possibilità per quest’ultima di eliminare, pur “sussistendo il vincolo paesaggistico”, l’obbligo dell’autorizzazione. Che resta invece intatto, in forza della legge Galasso/1985 e del Codice per il Paesaggio.

La “via veneta al paesaggio” porterebbe ad una sostanziale “delegificazione” della materia, dice la Corte, demandando ai Comuni di individuare i territori con caratteristiche analoghe a quelli inseriti nelle Zone A (centri storici) e B (tessuto edilizio consolidato). Una sorta di risotto paesaggistico alla veneta, che aprirebbe la strada ad uno spezzatino alla lombarda (in un paesaggio già disastrato dalle spinte della Lega), o all’amatriciana. Le deroghe – fa notare la Corte costituzionale – finirebbero per essere determinate direttamente dall’amministrazione locale, senza che lo Stato risulti in alcun modo chiamato a partecipare al relativo procedimento.

Finché vige l’art. 9 della Costituzione (“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”), non c’è spinta federalista che tenga, come sembrano invece predicare pure alcuni ex governatori del Pd. E’ un caso se è la Regione Veneto ad aver prodotto una simile normativa? Purtroppo no, la collina di Zanzotto, di Parise, di Piovene è stata massacrata nell’ultimo trentennio; nell’area dei Colli Euganei sorgono ben tre cementifici con livelli spaventosi di smog (un solo cementificio ne produce, in un anno, quanto 300.000 veicoli). Ora si pensa di accorparli in un unico forno con una torre alta ben 90 metri, nuovo colpo al paesaggio, all’agricoltura, al turismo e alle tante possibili attività indotte (e pulite).

La sentenza della Corte dà quindi forza alle Direzioni Regionali e alle Soprintendenze statali impoverite, nell’era berlusconiana, di mezzi e di tecnici. In conclusione: la materia paesaggistica non può essere affidata ai Comuni né alle sole Regioni, lo Stato ha la priorità. A questo punto il Ministero batta un colpo. Bondi è stato un fantasma. Per ora lo è pure Ornaghi in tema di piani paesaggistici e non solo. E’ proprio ineluttabile assistere alla rovina del Belpaese?

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