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NENA news, 2 febbraio 2018. Prosegue senza tregua, rafforzato dall'intervento del bulldozer Donald Trump, il tentativo di Israele di cancellare cultura, storia e popolazione dalla Palestina

«Secondo lo studio, i progetti di Tel Aviv nelle parti occupate di Gerusalemme est sono usati come “mezzo politico per modificare la narrativa storica e promuovere la colonizzazione”. Un documento dell’Onu, intanto, identifica 206 aziende internazionali che fanno affari con gli insediamenti illegali israeliani»

Israele sta sviluppando i siti turistici e archeologici per legittimare le sue colonie illegali nei quartieri palestinesi di Gerusalemme. A denunciarlo sono stati ieri alcuni diplomatici europei.
Secondo il loro rapporto, riportato dal quotidiano britannico The Guardian, i progetti nelle parti occupate di Gerusalemme est sono usati come “mezzo politico per modificare la narrativa storica e sostenere, legittimare ed espandere gli insediamenti”. Sul banco degli imputati ci sono il governo israeliano e le organizzazioni private dei coloni che promuovono una narrazione degli eventi fondata sulla continuità storica della presenza ebraica nell’area a discapito di altre religioni e culture.

Nello studio è citato in particolare il progetto “La città di David”, un parco archeologico finanziato dallo stato nell’area palestinese di Silawan che offre “tour” nelle rovine dell’antica Gerusalemme. Peccato però che Silwan sia casa di 10.000 palestinesi e che da anni sta subendo un costante processo di de-arabizzazione il cui obiettivo palese è quello di cancellare qualunque traccia della presenza autoctona palestinese. La Città di David è diretta da una organizzazione di coloni, scrivono i diplomatici, che presenta una “narrativa esclusivamente ebraica separando il luogo dalle vicinanze palestinesi”.

L’eliminazione di un passato sgradito alla narrazione israeliana, passa necessariamente attraverso la distruzione di ciò che c’era, delle testimonianze della presenza (passata e presente) palestinese. Secondo lo studio, infatti, Israele ha demolito 130 edifici espellendo 228 palestinesi dalle loro case cambiando di fatto il volto alla città “che ha smesso di essere un centro commerciale, urbano ed economico palestinese come lo era un tempo”. Ad essere criticato è anche il progetto della funivia approvato a maggio che connetterà Gerusalemme ovest con la sua parte orientale (per il diritto internazionale occupata) e che vedrà una delle sue fermate a soli 130 metri dalla Cupola della Roccia, il terzo luogo sacro dell’Islam.

Ma le brutte notizie per Tel Aviv non finiscono qui. Un rapporto dell’Ohchr (Alto Commissariato delle Nazioni Uniti per i diritti umani) pubblicato mercoledì ha identificato 206 compagnie internazionali che fanno affari con le colonie israeliane costruite nella Cisgiordania occupata in barba al diritto internazionale. Lo studio dell’Ohchr avrebbe dovuto riportare originariamente anche i nomi delle aziende implicate, tuttavia, dopo intense pressioni statunitensi e israeliane, è stato deciso di indicare solo il numero delle compagnie che violano il diritto internazionale. “Gli affari – si legge nel testo – giocano un ruolo centrale nella fondazione, mantenimento ed espansione delle colonie israeliane. Agendo in questo modo, [le aziende] stanno contribuendo alla confisca di terra da parte d’Israele facilitando il trasferimento di popolazione nei Territori Occupati palestinesi e rendendosi complici dello sfruttamento delle risorse naturali palestinesi”.

Duro il commento dell’inviato d’Israele all’Onu Danny Danon che ha parlato di “una vergognosa e scandalosa lista nera”. Della stessa idea è Raz Shechter, ambasciatrice e rappresentante permanente d’Israele all’Onu: “E’ al di là delle competenze e autorità del Consiglio dei diritti umani compilare blacklist. Ma ciò rientra nei tentativi di provare a delegittimare Israele”. “Le compagnie – ha sottolineato Shechter – non stanno facendo alcuna attività illegale”. A darle man forte è l’ambasciatrice Usa all’Onu, Nikki Haley, secondo cui il rapporto è figlio del “cronico pregiudizio anti-israeliano” ed è l’ennesima “dimostrazione dell’ossessione anti-Israele del Consiglio”.

Sul piano politico, intanto, i ministri degli esteri arabi riuniti al Cairo hanno chiesto la creazione di un “meccanismo multilaterale” sostenuto dall’Onu per ravvivare il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Il vertice di due giorni nella capitale egiziana, che ha avuto al centro delle discussioni il recente riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele da parte del presidente Usa Trump, ha quindi proposto la convocazione di una conferenza internazionale per ravvivare i negoziati tra le due parti e per riconoscere lo stato di Palestina con Gerusalemme est come sua capitale. Non è chiaro quale sia questo “nuovo meccanismo” di cui parlano, ma il ministro degli esteri palestinese Riyad al-Malki ha ribadito che quello “vecchio ha smesso di esistere, è storia”. I palestinesi si muovono però anche sullo scenario internazionale: il 20 febbraio il presidente palestinese Abbas parlerà al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Ieri notte, intanto, l’aviazione israeliana è tornata a colpire la Striscia di Gaza. Secondo i palestinesi, i jet di Tel Aviv hanno colpito le al-Nada Tower nella zona nord orientale di Beit Lahiya. Non si registrano feriti. In precedenza, l’esercito israeliano aveva riferito che alcuni razzi erano stati lanciati dalla piccola enclave palestinese sotto assedio verso il territorio israeliano senza causare danni.

L'articolo è ripreso dall'agenzia NENAnews, ed è raggiungibile su questa pagina

Un'analisi ineccepibile, e riccamente documentata nel testo integrale dell'articolo (allegato in .pdf), della tragedia che sta distruggendo Venezia, come altri luoghi-simbolo di una civiltà che va scomparendo. Con riferimenti

1. Grandi Navi a Venezia: la corsa all'oroL'evoluzione economica del porto di Venezia si inserisce nel panorama più ampio delle trasformazioni urbane iniziate nel secondo decennio del Novecento, che hanno condotto alla progressiva delocalizzazione delle attività produttive in terraferma e alla conversione ad uso turistico e culturale della città storica insulare. È infatti in seguito all'espansione dei traffici portuali a Porto Marghera a partire dagli anni '60 che la Stazione Marittima entra in una prolungata fase di crisi, in cui si rende necessaria una ridefinizione del suo ruolo in rapporto alla città. Essa vede progressivamente ridursi il traffico commerciale, dal 50% del totale negli anni Sessanta, al 40% del 1970, al 22% del 1975, in parallelo all'emergere delle strutture ricettive destinate al traffico passeggeri come possibile nuova funzione per il porto.

Nel momento in cui il turismo crocieristico diventa di massa, grazie all'introduzione delle fun ships a basso costo, e punta ad espandersi nel Mediterraneo per diversificare la propria offerta, Venezia dispone quindi di un immaginario turistico consolidato e di uno spazio acqueo in pesante deficit da ricapitalizzare con urgenza. Il connubio non potrebbe essere migliore ed Alessandro di Ciò, presidente del Porto di Venezia dal 1986 al 1993, non tarda ad abbracciare il crocierismo come destino dell'intera area della Marittima.

Alla fondazione nel 1997 della società privata a partecipazione pubblica VTP S.p.A., incaricata di "gestire ed incrementare il traffico passeggeri", seguirà più di un decennio di lavori infrastrutturali volti all'ampliamento di banchine e servizi necessari ad ospitare l'ormeggio dei giganti del mare. I risultati sono immediati: in questo breve lasso di tempo Venezia diventa il nono porto crocieristico nel Mondo, il terzo in Europa ed il primo home port italiano, con una crescita complessiva del 436% ed un aumento annuale medio dei crocieristi tra 2005 e 2016 del 6,7%.

Nonostante l'emergere di istanze critiche nei confronti di tale sviluppo già dai primi tempi, lo sforzo di ampliamento della Marittima prosegue senza sosta, con la celebrata inaugurazione del teminal Isonzo 1 nel 2009 ed Isonzo 2 nel 2011, verso l'obiettivo dichiarato dei 2,5 milioni di crocieristi in transito all'anno, cifra stimata come limite massimo dell'offerta. Anno dopo anno, il crocierismo lagunare diviene così un business più ampio, il cui indotto si estende nell'intero Alto Adriatico e la cui legittimità pare tautologicamente asserita dalla propria stessa potenza economica.

Un momento di arresto simbolico si ha nel 2012 con il naufragio della Costa Concordia e la promulgazione del Decreto Clini-Passera, che vieta il passaggio in Bacino di San Marco e nel canale della Giudecca alle navi di stazza lorda superiore alle 40.000 tonnellate. Il provvedimento, sorto sull'onda emotiva per affrontare solamente la parte più evidente del problema delle Grandi Navi in Laguna, ovvero il transito all'interno della città storica, rinvia però la propria applicazione al momento in cui sarà trovato e realizzato un percorso d'ingresso alternativo. Nel confuso rimpallo di proposte, stalli, progetti e ricorsi che ne consegue, la provvisorietà diventa definitiva e, in attesa di una decisione univoca, nel 2015 le compagnie di crociera scelgono di posizionare a Venezia solo unità fino a 96.000 tonnellate.

Questa iniziativa, lungi dall'esprimere una qualche considerazione etica delle compagnie, rappresenta in realtà l'altra faccia della debolezza della governance territoriale. È infatti parte integrante della strategia di sviluppo delle aziende crocieristiche la privatizzazione della regolazione dell'industria stessa, ovvero la tendenza a sostituirsi alla legislazione statale dei paesi ospiti adottando dei codici di condotta volontari in cui i confini tra autorità pubblica e potere privato tendono a sfumare. Una strategia che, nel caso di Venezia, consente intanto alle compagnie di mantenere i privilegi d'uso della città, senza dover ridimensionare significativamente i propri traffici. Esse, anzi, rilanciano e nel 2016 acquistano le quote di VTP, diventando di fatto gestrici e clienti del terminal passeggeri veneziano, coincidenza che non giova né alla concorrenza di mercato né tantomeno alla diversificazione delle attività, poiché lega a doppio filo le sorti del porto storico alle multinazionali del crocierismo. Nonostante l'auto-limitazione di stazza, VTP capitalizza così nel 2016 un utile di 33 milioni di euro, il 22% in più rispetto all'anno precedente.

A pochi anni dalla privatizzazione dell'aereoporto Marco Polo, si assiste quindi al consolidamento di un grande polo privato che gestisce l'accesso navale e aereo alla città. Un'abdicazione del settore pubblico ai compiti pianificatori e direttivi che ha prodotto "un porto crocieristico estraneo alla città, anche se costruito con capitale pubblico. Un porto basato su una enclave extraterritoriale (le navi), gestito in regime di monopolio da compagnie di navigazione straniere, che hanno interesse a fare apparire pochi profitti in loco, trasferirli all'estero, con una corsa al ribasso dei costi ed un'alta precarizzazione dei rapporti di lavoro" (Tattara).

2. L'impatto sulla città

Da diversi anni il business crocieristico è oggetto di critiche incrociate da parte di comitati, cittadini, ambientalisti e studiosi di varie discipline. Oltre alle gravi conseguenze ambientali che le Grandi Navi hanno sull'ecosistema marino, sulla qualità dell'aria, sugli ambienti urbani e portuali, ad essere messi in discussione sono sempre più spesso la consistenza effettiva dei supposti benefici economici che esse generano ed il sistema-crociera nella sua stessa strutturazione. Tali critiche sono state già da tempo applicate alla realtà veneziana, particolarmente adatta come cartina da tornasole per la propria fragilità ecosistemica, anche grazie all'attività del Comitato NoGrandiNavi, dal 2012 instancabile promotore di studi indipendenti, manifestazioni ed iniziative pubbliche sul tema. Si è così dimostrato il pericolo che lo spostamento d'acqua prodotto dal passaggio delle navi costituisce per l'idromorfologia lagunare; si sono rilevati gli altissimi livelli di inquinamento dell'aria in prossimità del porto; si è relativizzato l'impatto economico proclamato dalle autorità sottolineando la povertà della base statistica di riferimento ed associando una prima valutazione delle esternalità negative; si è denunciata la costante minaccia alla sicurezza del patrimonio storico-artistico locale.

Esiste però una componente ulteriore dell'impatto del crocierismo sulla città sulla cui centralità per la realtà urbana si tende a sorvolare: l'impatto antropico. Normalmente, infatti, la discussione politica e mediatica si impernia sull'urgenza di vietare il transito nel Bacino di San Marco oppure sulla necessità di allontanare il terminal crocieristico dal cuore della città, decentrandone una parte a Porto Marghera o costruendo una piattaforma off-shore. Entrambe le posizioni, tuttavia, lasciano irrisolto un problema di fondo, che riguarda non tanto la nave in sé, quanto la sua estensione umana, ovvero la quantità e la tipologia di turisti che essa riversa in una città già drammaticamente desertificata dal modello estrattivista promosso dalla monocultura turistica.

La città di Venezia, la cui parte storica conta meno di 55.000 residenti, ospita annualmente una cifra stimata di 27 milioni di turisti. Di questi, 6,4 milioni sono i pernottanti, 16,6 milioni gli escursionisti e 1,7 milioni i passeggeri delle Grandi Navi (Carrera). Considerando la sola superficie calpestabile della città d'acqua, comprese le isole minori, la densità turistica ammonta oggi a 129.601 arrivi per chilometro quadrato e, con 88 pernottanti stimati per ogni residente, Venezia risulta la prima città italiana per pressione turistica sulla popolazione residente. Il quadro peggiora ulteriormente considerando l'indice di turisticità specifico degli escursionisti: essi sarebbero infatti 247 per ogni residente nella città d'acqua (CESDOC). Per quanto riguarda i crocieristi, invece, tra 1997 e 2012 sono transitate per Venezia 14 milioni di persone (un numero pari alla popolazione di Lombardia e Veneto) con una media, nel solo 2012, di 4.886 crocieristi al giorno (ovvero 5 volte la capienza massima del Teatro La Fenice). In questo contesto, divenuto ormai altamente critico, l'esigenza di una decrescita sostanziale dei flussi turistici è difesa da un numero sempre crescente di abitanti ed associazioni, nell'evidenza che la capacità di carico della città è stata superata da tempo.

3. L'impatto antropico

3.1. Il legame con l'escursionismo

Nonostante i crocieristi rappresentino solo una piccola quantità percentuale del turismo cittadino, essi possiedono una serie di caratteristiche che rendono la loro presenza particolarmente problematica.

Innanzitutto la triplice stagionalità: essi non sono equamente ripartiti durante l'anno, ma si concentrano nei mesi di massima pressione turistica (da Maggio a Settembre), nei fine settimana (in certe giornate scendono dalle navi anche 44.000 persone) e nelle ore di massimo afflusso.

In secondo luogo, sulla base del tempo trascorso in città, essi si configurano per lo più come escursionisti. Tale categoria, oltre al limitato apporto economico che la caratterizza, risulta a causa dei suoi numeri la principale responsabile dell'eccessiva pressione turistica cittadina e a causa delle sue modalità di fruizione dello spazio (necessariamente rapide e di superficie) svantaggiosa per il tessuto urbano e per la comunità locale, in un duplice senso. Dal punto di vista quantitativo, essa genera una presenza concentrata e di massa all'interno di un itinerario specifico in determinate fasce orarie, producendo fenomeni acuti di congestione ed una notevole riduzione di mobilità per gli altri fruitori urbani. Dallo studio condotto da Quinn risulta chiaramente come sia proprio la limitazione della percorribilità individuale nel tempo e nello spazio a costituire per i Veneziani l'aspetto più critico della convivenza con il turismo. Non è un caso che i recenti cortei di protesta abbiano scelto itinerari e orari tipicamente turistici, in una simbolica ripresa di possesso di luoghi e tempi di norma evitati, per rivendicare così proprio a partire dallo spazio, dalla calle, il loro diritto alla città.

Dal punto di vista qualitativo, invece, l'escursionismo genera una proliferazione di esercizi specifici (fast food, take-away, banchetti, negozi di souvenirs a basso costo...) lungo i percorsi di transito, riconfigurando l'intero tessuto commerciale in virtù della propria alta redditività, con un rialzo dei prezzi di affitto degli spazi ed una progressiva desertificazione delle aree marginali. Un processo di esponenziale squilibrio che alza il livello di competizione e costringe i negozi di prossimità destinati ai residenti a traferirsi o cessare l'attività. Questo riduce la qualità complessiva tanto della città "da abitare" quanto della città "turistica", impoverendo la specificità culturale del luogo che via via si omologa al modello di una Disneyland globale.

Come dimostrato da Russo, si entra così nel circolo vizioso dello sviluppo turistico, dove è proprio l'aumento incontrollato dei day-trippers ad accelerare il declino della destinazione nel suo ciclo vitale, facendo lievitare i costi di gestione e mantenimento del sito e crollare il livello di qualità percepita. Un enorme costo economico e sociale cui corrisponde uno scadimento progressivo della tipologia turistica richiamata: una città configurata per soddisfare le esigenze degli escursionisti, infatti, sarà necessariamente meno attrattiva per un pubblico colto, più attento e curioso, più selettivo in acquisti ed attività, di media o lunga permanenza.

In altre parole, sommandosi nei momenti di maggiore afflusso agli escursionisti cittadini, i crocieristi costituiscono tanto una criticità fisica tangibile, quanto, e forse più profondamente, un autentico catalizzatore di cambiamento culturale.

3.2 La Grande Nave come segno

Tuttavia, rispetto ad altre forme di escursionismo i crocieristi possiedono anche una propria specificità: non un'identità ontologica, ma un'attitudine prevalente (habitus), ovvero un diffuso atteggiamento nei confronti dello spazio e delle comunità locali, indotto dalla struttura stessa dell'esperienza turistica in cui sono immersi. Un'esperienza in cui, per dirla con McLuhan, "il medium (la Grande Nave) è il messaggio".

Progressivamente, infatti, le navi da crociera si sono strutturate come vere e proprie città galleggianti, modellando il proprio interno con piazze, viali, ristoranti, boutiques. Come appare evidente nelle réclames e dalle dichiarazioni delle compagnie crocieristiche, è la nave a costituire ormai la vera destinazione. Essa acquista dunque una peculiare autosufficienza, che si traduce in un rapporto sempre più mediato e gerarchizzato tanto con il mare, quanto con i contesti di ormeggio.

L'intera semiosi della nave è costruita intorno ad un'insuperabile verticalità: fin dal suo ingresso in Laguna essa domina completamente il paesaggio, oscurando alla vista interi quartieri e destrutturando il senso topografico della città storica, nel suo caratterizzante equilibrio di forme e proporzioni e nel suo tipico sviluppo orizzontale. Una presenza che rappresenta qualcosa di ben più profondo di una semplice "puzzetta sotto il naso" di "chi dice che sono brutte da vedere", come sostiene l'attuale presidente dell'Autorità Portuale, Pino Musolino. Si tratta piuttosto di un atto che afferma, nella stessa possibilità del suo accadere, un enorme differenziale di potere, non solo economico, ma anche simbolico: la nave annichilisce la città che la ospita, riducendola a mero spazio scenografico, a oggetto rimpicciolito di uno sguardo a distanza in cui l'alterità di Venezia è svilita quale sfondo pittoresco e l'incontro con la sua realtà è per essenza negato. E forse è proprio la costruzione di tale sguardo dall'alto a valere il transito: più della méta finale, più delle facilities portuali, la fonte maggioritaria di plusvalore è l'offerta ai passeggeri di questa visione di dominio, l'ebbrezza di scorrere nelle viscere di un ecosistema antico e delicato come un petalo senza doverne apprendere il linguaggio, senza doversi misurare con la sua complessità. Che poi, detta con le parole di Galliano di Marco, CEO di VTP, significa poter accogliere i passeggeri "in the living room of Venice", anziché "welcoming them in the toilet (sic)", cioè Marghera.

Con la traccia di questo segno, l'estrazione del capitale simbolico e culturale della città è esasperata al punto da coincidere con la licenza di minacciarne la stessa esistenza. Un rischio che, del resto, le compagnie possono correre, data la disponibilità di un portafoglio amplissimo e diversificato di destinazioni cui volgersi in alternativa.

3.3. L'habitus del crocierista

Tali caratteristiche trovano un'ulteriore concretizzazione nelle modalità di visita del luogo cui i passeggeri vengono indirizzati. Secondo la logica del pacchetto che qualifica il crocierismo, l'esperienza a terra è infatti fortemente mediata dalla compagnia di navigazione. Le escursioni si svolgono in gruppi guidati di numero variabile, hanno una durata ridotta (che va mediamente dalle 2 alle 6 ore) e seguono itinerari prefissati. Se, data la sua conformazione urbana, la mobilità di gruppo rappresenta di per sé un fattore altamente problematico per la città di Venezia, la rapidità di fruizione e la convergenza di una grande quantità di gruppi in immediata successione nelle medesime zone aggravano ulteriormente l'impatto fisico dei crocieristi sulla popolazione e sul patrimonio storico-artistico. Per ottimizzare i tempi, inoltre, i passeggeri vengono movimentati tramite mezzi acquei privati (lancioni), trasferiti dalla Marittima a Piazza San Marco, spesso tradotti in una carovana di gondole, infine condotti a Murano e Burano e ritorno, generando un moto ondoso costante ed imponente che mette a rischio la sicurezza delle altre forme di navigazione lagunare ed aumenta il livello - già critico – di usura delle fondamenta veneziane.

È chiaro che, a partire da una simile strutturazione della visita, il grado di autonomia del crocierista nello spazio urbano è, se non del tutto assente, quanto meno fortemente limitato. Difficilmente egli riuscirà ad interagire realmente con il luogo e con i suoi abitanti, ad uscire dalla dimensione di gruppo e dai gusci nautici in cui progressivamente si situa, a costruire una propria esperienza aldilà delle veloci indicazioni della guida. Si tratta perciò di una forma di attraversamento che tende a restituirgli solo un surrogato della città e finisce per privarlo del senso stesso del viaggio: incontrare l'altro, entrare in dialogo con la diversità, affrontare l'imprevisto. Nell'escursione crocieristica le distanze sono infatti rigorosamente mantenute, così in nave come in terra, ed i locali tendono a ridursi a mere figure esotiche in un teatrino. Una modalità di consumo dei luoghi di stampo fordista, tarata sul criterio di massima prevedibilità e ripetitività, che, oltre ad espropriare le comunità ospiti del controllo sulla propria rappresentazione, riplasma lo spazio urbano come semplice scenario, drenandovi ogni significato culturale e sociale profondo e costruendo un mondo-sequenza: una serie di scene in successione prive di ordine interno significante, avulse da quel tessuto connettivo che qualifica l'urbano in sé, ed il veneziano in particolare.

In conclusione, anche quando è fuori dalla nave il crocierista finisce per muoversi in una "tourist bubble" che ne è la complementare estensione. A sua volta la terra toccata, anziché costituire la destinazione del viaggio, è investita da un progressivo processo di integrazione all'interno della nave, ovvero indotta a conformarsi plasticamente alle esigenze del modello disneyano di turismo che essa propugna. Non è una semplice coincidenza che il progetto più marcatamente "tematico" degli ultimi anni, la Veniceland di Antonio Zamperla, fosse pensato proprio per il pubblico delle Grandi Navi: tra la modalità di fruizione di una destinazione che caratterizza il crocierismo e la visita ad un parco dei divertimenti esiste una continuità tutt'altro che trascurabile. Chissà se allora anche ai Veneziani, come ai servitori di bordo e ai Disney-figuranti, sarà chiesto un giorno di sorridere, e porgere la mano.

3. Conclusioni

Se il turismo generato dalle Grandi Navi non può essere ritenuto il solo responsabile della difficile situazione in cui versa la città di Venezia, esso risulta tuttavia la più impattante tra le molte forme di viaggio e visita al momento possibili, ovvero quella dotata di maggiori esternalità negative per la popolazione residente. Infatti, all'ampio e documentato insieme di conseguenze di natura ambientale ed idromorfologica prodotte dal mezzo di trasporto in sé, si sommano la pressione antropica indotta dalle sue prassi escursionistiche (nella duplice modalità, pedestre e ondosa, del moto generato) e l'influenza dequalificante sul tessuto commerciale e culturale urbano.

Come dimostrato da Tattara, nessun'analisi del classico tipo costi/benefici può dunque essere applicata sensatamente alle Grandi Navi, dal momento che solo una parte della diade è calcolabile nel breve termine, mentre l'altra, i costi per la comunità, ha una natura molteplice, in parte immateriale, che solo nel lungo periodo può emergere statisticamente. I danni alla salute dei cittadini, alla struttura edilizia fondante, al patrimonio storico-culturale non riproducibile, lo stress quotidiano dei residenti, lo scadimento esponenziale della qualità della vita e dello spazio urbano, l'abbandono della città non sempre si toccano con mano, ma, come particelle elementari, esistono e determinano la possibilità di sussistenza del (e nel) luogo, il suo destino.

Per questo motivo le soluzioni di compromesso avanzate finora paiono insoddisfacenti: anche nel momento in cui venisse parzialmente mitigato (o semplicemente dislocato) l'effetto ambientale, infatti, l'impatto antropico del crocierismo continuerebbe a gravare sulla città, sia da un punto di vista fisico che antropologico-culturale, e, una volta venuti meno anche i residui limiti dimensionali, ancora più difficile sarebbe arginarne la crescita. In una fase in cui la necessità di contenere la pressione turistica, specialmente degli escursionisti, è divenuta una priorità riconosciuta per la città storica, quando non addirittura la condizione della sua sopravvivenza, il sistema-crociera risulta di fatto insostenibile, tanto on-shore quanto off-shore: il modello di fruizione urbana che esso genera è infatti per sua natura incompatibile con la città lagunare.

Ciononostante, il business delle crociere continua a godere di un appoggio pressoché incondizionato da parte delle istituzioni locali e nazionali, in conformità con il riflesso pavloviano del Paese a rispondere alla profonda crisi economica ed industriale con la manna dello "sviluppo turistico", dimenticando che, "in realtà, l'industria più pesante [...] del XXI secolo è proprio il turismo" (D'Eramo).

Parallelamente il pensiero critico che proviene dalla società civile, lasciato ai margini dal processo decisionale e dal suo balletto di competenze, si trova nella scomoda posizione in cui Günther Anders collocava il filosofo rispetto alle innovazioni tecniche: sempre costretto a dare "la precedenza a qualsivoglia apparecchio", ad essere "ritardatario". Infatti, laddove la discussione si sviluppa nel confine circoscritto delle modalità d'uso di una data tecno-struttura introdotta tramite processi top-down, alla comunità viene sottratta la possibilità di esprimersi anteriormente sulla sua stessa opportunità e desiderabilità. A comitati, associazioni e studiosi spetta pertanto l'ingrato compito di dimostrare solamente ex-post la nocività ed i costi di un dato mezzo e del modello economico che esso incarna, nella frequente ostilità di organi istituzionali ed attori economici coinvolti.

C'è un'immagine che forse, più d'ogni altra, riassume la distanza incommensurabile che intercorre tra questa componente critica dei Veneziani ed il dispositivo integrato dell'economia neoliberista che ne sta minacciando il presente, oltre che il futuro. Sono centinaia di persone lungo la riva delle Zattere che urlano in coro "Fuori le navi dalla laguna", fischiano, battono e con quanta voce hanno in gola tentano di far arrivare il loro messaggio alle navi in transito. Lassù, sul ponte, nell'aria afosa della sera, la band di bordo intona le prime note, il presentatore si lancia nei lazzi consueti ed i passeggeri, assiepati lungo i bordi, si godono divertiti e ammirati il paesaggio. Puntini in movimento, fumo colorato, flebili voci sfumate nel tramonto...uno spettacolo che carezza dolcemente la loro partenza e a cui rispondono agitando la mano in segno di saluto. Pare quasi, da laggiù, di vederli sorridere felici, mentre le grida si stemperano nell'acqua scura e densa dell'estate.

Riferimenti

Il testo integrale del saggio, riccamente integrato da grafici e note, è scaricabile in formato pdf adoperando questo collegamento: Clara Zanardi, Oltre la nave Si avverte che l'articolo è pubblicato su eddyburg con la licenza Creative Commons, che impone la rigorosa fedeltà nella citazione dell'autore, del titolo e della fonte.

La nuova formula adoperata per definire le porzioni del patrimonio immobiliare da destinare ai turisti nasconde un pesante inganno. È comunque un premio alla rendita immobiliare: una sommatoria di piccole speculazioni che, come la grande, toglie alloggi alla disponibilità dei residenti per darla ai turisti (e.s.).
Qui il link all’articolo

L'Espresso, 14 Novembre 2017. Dopo avere spacciato il turismo come un'irrinunciabile risorsa economica e lasciato a divorare le nostre città, le proteste di cittadini e il degrado forse faranno cambiare tattica, con Barcellona che ci prova (i.b).

Da Brescia arriva una sentenza che può esser rivoluzionaria. Qualche giorno fa il comune è stato condannato a pagare 50.000 euro a due cittadini che l’avevano denunciato per non aver controllato gli schiamazzi della movida del centro. Fiorita nel linguaggio (si appella al “rumore antropico per gli schiamazzi di avventori di alcuni locali che stazionano nei pressi dei plateatici o dei locali su suolo pubblico”), la sentenza dà finalmente ragione ai cittadini angariati dal fracasso. Se dovesse fare giurisprudenza, avrebbero di che tremare i comuni di mezza Italia, anzi di mezza Europa.

Da tempo, da città diverse e lontane (dalla Liguria a Barcellona, da Venezia a Firenze, dalle Cinque Terre al Salento, da Roma come dal lago di Garda) arrivano ruggiti di protesta nei confronti delle invasioni di turisti, di vacanzieri e di frequentatori di festival: folle incontrollabili, danni a monumenti e spazi pubblici, fracasso, indisciplina e molestie, risentimento e ira dei residenti.

A Barcellona, i residenti e le autorità si sono coalizzati e per la prima volta in luglio si sono avute manifestazioni di piazza contro l’orda turistica: «vogliamo i rifugiati, non i turisti», dicevano i cartelloni, che si son visti in giro almeno fino a che il terribile attentato di metà agosto non ha spostato l’attenzione. Nel contempo, a Venezia, Firenze e Roma si segnalano numerosi i casi di danneggiamenti e esibizioni hot prodotti da visitatori fuori controllo. Venezia perde a vista d’occhio residenti e converte le abitazioni in stanze da affittare. In alcune città di mare si studiano regole per limitare gli accessi alle spiagge pubbliche. Proteste dello stesso tipo si levano da più parti a proposito dell’occupazione notturna delle città, ormai soffocate da festival, musiche, gente sbronza e code di automobili. Perfino in montagna si segnalano folle di scalatori improvvisati, che danneggiano l’ambiente e si cacciano in situazioni spesso fatali.

Questi fatti minuti rivelano una metamorfosi profonda di alcuni aspetti del vivere nella modernità. Siamo stati abituati per decenni a considerare turismo e entertainment come risorse economiche e forme importanti di socialità e cultura. Ora scopriamo che stanno cambiando natura e diventando intrusivi e distruttivi. Invece di servire alla cura e alla protezione dell’ambiente in cui si hanno luogo, lo lasciano degradato e danneggiato.

Come si spiega questa svolta? Alle spalle di tutto sta la metamorfosi dell’idea diffusa di tempo libero e di divertimento, che è cominciata negli anni Ottanta e continua ancora. Fino a tre generazioni fa, il tempo libero era un intervallo, di durata variabile, ricavato tra due fasi del lavoro. Serviva soprattutto per riposarsi, cioè non far niente e ritrovare così le forze e la voglia di ricominciare. Grandiosa conquista delle democrazie occidentali con la spinta del socialismo umanitario, il tempo libero si deve alle lunghe lotte sindacali sviluppate tra Otto e Novecento per assicurare ai lavoratori dei giorni di riposo a paga intera. Inevitabilmente, anche nell’uso del tempo libero si riflettevano le differenze di classe: gli umili lo passavano nello stesso posto in cui abitavano, magari mandando i figli da uno zio o da una nonna; i benestanti andavano in vacanza o (come si diceva allora) in villeggiatura cambiando sede e ambiente.

Come in altri ambiti, anche qui la modernità ha cambiato le carte in tavola. Anzitutto, una cospirazione di fattori ha trasformato il tempo libero in tempo-sempre-occupato. Al non far niente s’è sostituito il divertimento. «Sentire la vita, divertirsi» precisa Kant nella sua “Antropologia pragmatica” «non è altro che sentirsi continuamente spinto a uscire dalla condizione presente (la quale deve quindi essere un dolore che spesso ritorna)». Sarà per il bisogno di uscire da questo “dolore” che il riposo è stato sostituito dalla spinta a partire a ogni costo e in ogni momento, cioè, in fondo, a stancarsi sotto altra forma? La villeggiatura (prima di sparire anche come termine) si è trasformata in viaggio, experience e quasi diritto politico; le plaghe più impervie e remote del pianeta sono diventate improvvisamente desiderabili per effetto delle culture alternative.

Negli anni Settanta giovani alternativi, figli dei fiori, rasta o new age hanno inventato la cultura del viaggio estremo, aprendo piste verso paesi del tutto ignoti fin allora. A loro si sono poi aggregati anche i borghesi, medi e piccoli, e perfino piccolissimi, incoraggiati dalla nascita delle compagnie low cost. A quel punto (siamo agli anni Novanta del secolo scorso) il viaggio, il movimento, lo spostamento nei minimi intervalli di tempo è diventato un fenomeno frenetico, travolgente, inarrestabile, che coinvolge tutti e tutto. Inoltre, se il viaggio di un tempo si concludeva con un ritorno (alla maniera di Ulisse: come racconta Eric J. Leed nel suo bellissimo “La mente del viaggiatore”, il Mulino), ora sfocia in un altro viaggio. I paesi che non hanno risorse adatte, se le creano. Si inventano dal nulla ambienti fake con la neve in pieno deserto o isole artificiali per costruirci grattacieli (come ad Abu Dhabi).

La rete ha esaltato questo schema oltre misura: fornisce all’istante informazioni su paesi sconosciuti, offre sistemazioni di ogni tipo, confronta prezzi e favorisce amicizie per scambi di case e magari di coppie. In sostanza, erode il senso del reale, del distante e del diverso, banalizza la storia e la geografia, rende il pianeta ovvio e fake, fa sembrare tutto facile e elimina l’elemento di ignoto e di pericolo che il viaggio ha sempre contenuto. Oggi “si fa” (il termine tecnico è questo) la Thailandia o il Nepal con la stessa scioltezza con cui una volta si andava da Roma a Ostia; si sverna a Cuba o in Costa Rica; si fanno viaggi di nozze nelle foreste del Belize; si approfitta di ogni ponte per “fare (o farsi)” una riviera corallina australe o pernottare in mezzo al deserto. La funzione di scoperta è estinta: tolta forse la foresta pluviale e il centro del Congo, si parte sapendo già tutto. Naturalmente, quando il remoto e l’arduo diventano prossimo e banale, ci si arriva con la stessa sciatta incoscienza con cui si frequenta ciò che è prossimo e usuale, anche se Rangoon o il Nepal non sembrerebbero poter essere affrontati con lo stesso spirito, le stesse aspettative e lo stesso piglio con cui si va a Riccione o a Genzano.

A quest’impetuoso trend si sono accodate le amministrazioni pubbliche, che, sviluppando con malagrazia un’idea geniale di Renato Nicolini (Roma, anni Settanta), hanno deciso di trasformare le città in scenari di eventi di ogni tipo, preferibilmente fragorosi. Alcune città (come Gallipoli in Italia, Magalluf a Mallorca, Santorini in Grecia e tante altre) si sono immolate deliberatamente, proclamandosi luoghi di movida h24. A Parigi, la sindaca Anne Hidalgo ha creato perfino un “delegato alla notte”, anche se la cittadinanza comincia a non poterne più delle feste continue.

È la completa carnevalizzazione del mondo: ogni luogo, momento, monumento, risorsa, paesaggio è fatto per divertirsi. Il divertimento è ininterrotto, anche se dovesse produrre rovine, oltre che mostri. Sarà forse per il motivo che suggeriva l’acuto Kant (che non era mai stato in vacanza in vita sua), cioè per evitare «il vuoto di sensazioni in sé», che «desta orrore (horror vacui) e quasi il presentimento di una lunga morte»? Blaise Pascal sosteneva che «tutte le infelicità dell’uomo derivano da una sola cosa, cioè dal non saper restare in riposo in una stanza». Di certo esagerava. Ma con uguale certezza esagerano i milioni di turisti e movidari che, con la complicità di molti amministratori, trattano il resto del mondo come la loro stanza (a volte come la loro latrina) e non si curano neanche di lasciarla in ordine quando escono.

la Nuova Venezia, 21 novembre 2017. «Aumentati in centro storico, esplosi in terraferma. Murray Cox: “Servono regole o la città diventa solo scenario”». (m.p.r.)

Decuplicati. In due anni, gli appartamenti a uso turistico offerti sulla piattaforma Airbnb non sono solo cresciuti a Venezia (passando dai 2.672 del 2015 ai quasi 4 mila di oggi), sono più che raddoppiati nelle isole (da 147 a 391) e addirittura moltiplicati per dieci volte a Mestre e Marghera, dove erano solo 309 due anni fa e oggi sono oltre 3 mila: il che significa, che l'espulsione dei residenti per mancanza di case in affitto è un fenomeno che da Venezia si sta allargando, ammorbando anche la terraferma.

Il business. L'affare, per i proprietari, è troppo ghiotto: un appartamento affittato ai turisti - dicono i dati elaborati da Reset e Venice Project - a Venezia rende una media di 3 mila euro al mese, a Marghera 1700, a Mestre centro 1800 euro. E la copertura è superiore all'80 per cento dei giorni dell'anno. «Venezia deve decidere cosa vuole diventare: una città autentica o un hotel», dice Murray Cox reporter, fotografo, informatico. Australiano con casa a New York, sa bene di cosa parla: è stato il primo a studiare il fenomeno Airbnb e a vedere quello che gli altri ancora non conoscevano. In questi anni, ha collaborato con le amministrazioni di San Francisco, New York, Amsterdam, Minneapolis e altre città, proprio per gestire il fenomeno Airbnb e il suo impatto sociale sulle città.
Cox è a Venezia per due mesi: per imparare l'italiano e studiare sul campo il caso-Venezia, ospite dell'associazione Reset (che di residenza e turismo si occupa da tempo) e del VeneziaProject del professor Fabio Carrera (che da 25 anni fa studiare i fenomeni veneziani ai suoi studenti del Worchester Polyetechnic Institute). «In Usa per offrire una casa sul mercato turistico devi chiedere il cambio di destinazione d'uso da residenziale a commerciale, è più complesso rispetto a quanto accade qui», racconta Cox, che in questi giorni sta incontrando anche comitati e associazioni che si occupano dell'emergenza abitativa: «A Venezia, più della metà degli appartamenti è offerta da proprietari che hanno più case: un'operazione imprenditoriale che ha totalmente perso lo spirito originario».
Le regole mancanti. Il turismo è una risorsa, ma senza regolamentazione determina il crollo di una città», commenta Emanuele Dal Carlo, di Reset, «in questi anni siamo andati in Regione con proposte di legge concrete, per chiedere - ad esempio - che chi affitta più di una casa sia considerato attività imprenditoriale e debba avere una partita Iva. Che almeno paghi le tasse. In questi giorni, abbiamo cercato case in affitto per residenti su Airbnb: ne abbiamo trovate 20 a Venezia, contro 3 mila turistiche. Le istituzioni non vogliono toccare questa fascia perché è un ammortizzatore sociale in un momento di crisi». «Una legge utile e facile da fare», osserva Fabio Carrera, «sarebbe obbligare Airbnb a dare trasparenza ai dati, per sapere chi c'è e se paga le tasse. La situazione sta peggiorando, perché il problema dell'espulsione dei residenti si sta allargando a Marghera».
I rimedi. Quali le soluzioni proposte da Cox? «L'aumento del costo degli affitti è il danno principale, toglie case al mercato residenziale, provocando una spoliazione culturale e residenziale di un posto: chi arriva trova solo uno scenario, non più le persone. Sto cercando di capire le leggi e i regolamenti a Venezia e nel Veneto, per cercare alcune soluzioni. La prima è fissare delle regole: come l'obbligo di affittare su queste piattaforme solo una parte della casa dove si vive o quando si è in vacanza, e per non più di 90 giorni l'anno. E trovare il modo di rendere trasparenti i dati, la contabilità. Oggi ci sono troppe zone grigie».

La città invisibile, 13 novembre 2016. Analisi, a partire di Firenze, del turismo d'oggi come nuova forma di economia di saccheggio delle risorse operato dalle aziende globalizate nei deserti creaati dallo "sviluppo"

L’industria del turismo prolifera nella città storica, vuota di residenti stabili. È un’economia di rapina che saccheggia le città monumentali. Il turismo cava denaro da un patrimonio monumentale di dimensione finita e non è in grado di riprodurne. Assume caratteri simili a quanto, nel Sud del mondo, è stato definito “estrattivismo”: economia di saccheggio delle risorse e loro esportazione, attuata spesso con metodi violenti contro il volere delle popolazioni insediate.

Questa nuova forma di colonialismo operato non più dagli stati-nazione ma dalle multinazionali globalizzate, prospera – sub specie turistica – nei deserti urbani, nella città dei recinti, delle zone rosse, dei limiti invalicabili (che nascono e si moltiplicano nel clima determinato dagli attentati terroristici, indirizzati proprio verso le città d’arte). Nella città dei recinti, la cittadinanza è espropriata dei luoghi centrali di vita urbana, quando non fisicamente espulsa dai “centri storici” cui, negli anni Settanta, fu attribuito un forte ruolo sociale, aggregativo, civilmente costitutivo e oggi interamente soppiantato dal loro potenziale economico.

Ma come avviene l’espropriazione degli spazi urbani pubblici, monumentali, degli spazi comuni e di relazione? Quali sono le politiche di gestione e i meccanismi amministrativi che determinano l’espulsione fisica dei residenti e degli abitanti?- Cominciamo dagli spazi pubblici e dagli immobili di uso collettivo. Negli ultimi tre decenni, nelle città d’arte italiane, abbiamo assistit– all’allontanamento delle funzioni dal centro (operazione che un tempo andava sotto la voce “decentramento”). Sia delle funzioni rare (università, tribunali, teatri etc.) sia dei servizi al cittadino, diffusi nel tessuto centrale (uffici postali, anagrafe, poliambulatori, asili etc.);– alla compulsiva messa in vendita degli edifici pubblici, in posizione centrale, rimasti vuoti o appositamente svuotati di usi collettivi: caserme, tribunali, corte d’assise, etc., ma anche immobili destinati a residenza popolare (ERP);– alla trasformazione dei grandi immobili in disuso, sia quelli privati che quelli pubblici alienati di fresco, in strutture esclusive, rivolte al consumo di lusso, al di fuori ogni programmazione o comunque in deroga alla pianificazione;– alla pedonalizzazione di vaste aree centrali non compensata da un organico piano del servizio del trasporto pubblico: a Firenze, l’esclusione del transito dei mezzi pubblici da piazza del Duomo non affiancata da un’organica riorganizzazione della rete del trasporto pubblico medesimo ha sottratto l’accesso al Quadrilatero romano – piazze del Duomo, della Signoria e della Repubblica – a una fetta consistente della popolazione. La privatizzazione dell’ATAF (Azienda trasporti area fiorentina) ha fatto il resto;– alla metamorfosi dei monumenti e musei in cash machines (da fine anni Ottanta, nelle città storiche peninsulari le principali chiese sono trasformate in musei e, a causa del biglietto d’entrata, sostanzialmente chiuse ai residenti);
– alla mercantilizzazione delle piazze, dei ponti, delle strade e degli ambienti monumentali (musei, biblioteche etc.) tramite affitto temporaneo, finalizzato ad ospitare attività lucrative;
– alla liberalizzazione del commercio dovuta al decreto 114/1998, detto “Bersani” – che ha oliato il processo di propagazione dei centri commerciali suburbani, in voga negli anni ‘90 e duemila – e alla conseguente trasformazione delle botteghe artigiane e di vendita al dettaglio in luoghi del foodismo: l’assenza di piani del commercio che possano effettivamente definirsi tali asseconda il moltiplicarsi e il continuo ricambio di locali di ristorazione, settore di primario interesse della malavita organizzata (cfr. Rapporto Agromafie 2017).

L’espulsione della popolazione residente dal centro urbano monumentale è stata graduale, ma numericamente significativa. A dimostrazione del contrario – ma scambiando artatamente la residenza con il transito – il sindaco di Firenze ha gioito pubblicamente a seguito della pubblicazione di uno studio di mobile analytics che stima il passaggio giornaliero dal centro cittadino (in una città in cui il traffico privato e pubblico, su gomma e su ferro, è sostanzialmente centripeto e nella quale il polo fieristico è situato sul circuito delle mura trecentesche) in decine di migliaia di fiorentini e “city-users”.

Tale espulsione ha riguardato le fasce sociali basse e medie (che nel frattempo col turismo fanno i loro affari affittando appartamenti a breve termine), ma sta togliendo il respiro ai diseredati, agli ultimi, che si accalcano nei “bassi” e negli appartamenti più sfortunati delle aree ancora non appetibili, sulle quali tuttavia gli appetiti progressivamente si estendono. Diseredati e ultimi che pure costituiscono l’esercito dei manovalanti, sfruttati e malpagati, dell’industria turistica.

Verso gli ultimi, la guerra è in atto, su vari livelli. Sul fronte del diritto alla casa, innanzitutto: l’eclissi dell’edilizia residenziale pubblica e il ricorso diffuso e insistente a sfratti esecutivi hanno creato una pletora di famiglie in disagio abitativo legato alla mancanza di lavoro sicuro e tutelato.

L’altro livello di espulsione è fondato sul securitarismo, ed ha vari gradi di incisività: arredo urbano a carattere disciplinare (panche prive di schienale, dissuasori di sedute, catene e catenelle etc.); cancellate a chiusura dei portici di città, da secoli luoghi di pronta accoglienza per erranti; diffusione di illuminazioni in stile carcerario delle strade “calde” e la loro parziale militarizzazione. Infine, ultimo solo cronologicamente, il Daspo urbano: atto di «una guerra senza quartiere ai marginali d’ogni risma» che estende all’intera città le misure vigenti negli stadi, in nome della sicurezza e del decoro urbano.

Ciò che sconcerta è che il Daspo incide proprio sulle aree turistiche: mendicanti, poveri, diseredati, rom, “clandestini”, venditori “abusivi”, antagonisti, punkabbestia, dissidenti, graffitari, lavavetri, saltimbanchi e cantastorie rischiano infatti un «provvedimento di allontanamento» per condotta non consona al decoro delle aree urbane su cui insistono – eccoci al turismo – «musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici» (art. 5, comma 2, lett. c, del decreto Minniti del febbraio 2017).

È stato scritto che con il Daspo «Lo Stato Sociale si trasforma in Stato Penale»: l’attribuzione in capo ai sindaci della potestà di istituire un recinto turistico, un divieto ad personam di accesso alla città, corrisponde infatti all’abbandono della lotta alle diseguaglianze sociali dando l’avvio a una nuova battaglia, di stampo liberista, in favore dei privilegi proprietari.

Quali strumenti mettere in atto per confermare la tradizione di inclusività delle città storiche? Come restituirle alla cittadinanza espulsa? Come liberarsi dalla monocoltura turistica?

All’ostinato servilismo degli amministratori nei confronti delle multinazionali del turismo, alla gestione urbanistica ridotta a mera ragioneria, alla coincidenza tra città storica e Mercato, l’alternativa – almeno dal punto di vista urbanistico – risiede innanzitutto nella messa a fuoco del progetto comune sullo spazio comune (che ha interesse culturale globale), nell’assunzione di una visione organica delle trasformazioni, degli usi e delle disponibilità sociali degli spazi urbani centrali. Per colmare l’assenza di programmazione e di progettualità, e interrompere quel procedere per singole operazioni legate alle opportunità offerte dal Mercato a Comuni in balìa degli investitori esteri, è necessario far ricorso – e individuarne una possibile evoluzione – ai piani per la città storica messi in atto a partire da Bologna (1969). E, in primis, come nell’esempio appena richiamato, è urgente che l’edilizia residenziale pubblica torni nel cuore città storica.

Se è certamente necessaria una visione programmatoria del commercio al dettaglio e dei pubblici esercizi, ancor più lo è per un utilizzo sapiente e coerente dei grandi immobili pubblici dismessi, affinché caserme, ex conventi, case di mendicità, stabilimenti di manifatture etc. – trasformati in sedi di residenza collettiva, provvisoria e popolare, luoghi di lavoro e di elaborazione culturale – diventino, nei rioni, nuclei, fuochi di urbanità.

Abbandonato il ruolo di servizio alla rendita, le politiche urbane possono finalmente orientarsi verso pratiche di accudimento della città esistente (il centro quanto le periferie), di cura e di recupero, anche in senso sociale. Attraverso l’ascolto della cittadinanza – di quella più avvertita, più critica, e del fermento che agisce nelle città e nei territori dove si elaborano collettivamente forme di resistenza ed esistenza socialmente soddisfacenti e desiderabili – possono essere messe in atto pratiche di ricostruzione dei legami sociali e relazionali in senso ecologico.

Il distacco dal paradigma economicista-finanziario – fondato sul mito della produttività, dell’efficacia, della competizione – costituisce la premessa inaggirabile per questo rivoluzionario “balzo” verso un modello di riproduzione, di cura dell’esistente, di costruzione di sapienti relazioni col vivente tutto.

Il presente testo è la trascrizione del contributo dell’autrice all’incontro “Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo”, con Marco D’Eramo, Franca Falletti, Ornella De Zordo e ​Clash City Workers​. L’incontro, tenutosi a Firenze il 21 ottobre 2017, è il primo appuntamento del ciclo “La fabbrica del turismo nelle città d’arte: il caso Firenze” organizzato dal laboratorio politico perUnaltracittà e CCW.

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lacittàinvisibile, 27 ottobre 2017«​Il turismo non è solo bancarelle e code ai musei. È molto di più: un’industria e un sistema di governo del territorio, che arriva a plasmare le città e il territorio circostante» (c.m.c.)

La riflessione intorno a Il selfie del mondo di Marco D’Eramo ha inaugurato il ciclo di incontri La fabbrica del turismo nelle città d’a​​rte: il caso Firenze organizzato presso lo Spazio InKiostro.

La presenza di Marco D’Eramo, il 21 ottobre scorso davanti ad una sala strapiena, è stata utile per delineare insieme l’oggetto delle analisi e delle categorie con cui meglio cogliere le diverse articolazioni che danno forma al “turismo” contemporaneo. Si tratta infatti di una vera e propria “industria pesante”, la cui potenza può essere paragonata a quella dell’industria metalmeccanica degli anni ’60. Il turismo si intreccia, ed egemonizza, la produzione dei mezzi di trasporto (aerei, autobus), l’edilizia (costruzione di nuovi villaggi, case vacanza), la viabilità e l’accoglienza (nuove strade, nuovi aeroporti), l’urbanistica (centri storici vetrina ed espulsione dei cittadini storici), il mercato del lavoro (flessibilità e sommerso), la cultura (grandi eventi) e tanto altro ancora. Insomma il turismo come macchina del capitalismo contemporaneo, che per essere compreso deve essere posto dentro, appunto, un contesto di sistema.

La “fabbrica del turismo” va a riempire un vuoto lasciato da altri sistemi produttivi, imponendosi come monocultura industriale (come Torino o Detroit degli anni ’60 e ’70, le città dell’auto) anche a causa dei mancati o insufficienti investimenti su nuovi modelli di produzione del reddito e utilizzo delle risorse.

Nel caso di Firenze e dell’Italia il turismo va poi contestualizzato nel sistema capitalistico nazionale, che si basa comunque sul sommerso e il lavoro nero, in un paese in stasi economica dal 1991: in questo contesto il turismo emerge come unica risorsa economica per il Pil del bel paese. Ecco quindi dei buoni motivi per sostenere che le lamentele contro i “turisti” servono in realtà per spostare la critica dal capitalismo al viaggiatore in sandali e bermuda. E per sollecitare una politica, locale ma anche nazionale e internazionale, che il turismo governi e regolamenti nell’ottica della ridistribuzione delle risorse e della ricchezza.

D’Eramo ci ha offerto un’altra riflessione importante. Riguarda il disprezzo con cui spesso i turisti vengono descritti e il tentativo di differenziare, in molte discussioni, viaggiatori “buoni” versus turisti “cattivi”. Questa rappresentazione ha le proprie radici nell’800, quando la borghesia cominciò ad adottare comportamenti fino ad allora prerogativa dell’aristocrazia, che si vendicò svilendoli. Con la massificazione del turismo, e il passaggio dalle vacanze alle ferie negli anni del secondo dopoguerra, assistiamo a un acuirsi dello sprezzo con cui il “gregge di turisti” – espressione coniata, ci dice D’Eramo nel libro, a metà ‘800 da Joseph Arthur de Gobineau, tra i primi teorici del pensiero razzista moderno – viene descritto. Si tratta del classico schema per cui i ceti inferiori rincorrono le pratiche delle classi superiori, che così si svalutano; pensiamo, in altro campo, all’educazione nel momento in cui diventa “di massa”. La consapevolezza di questo fenomeno è molto utile per sgombrare il campo da stereotipi prima di iniziare un approfondimento critico.

Le domande che ci siamo posti, e a cui cercheremo di rispondere nei prossimi incontri, sono secondo noi cruciali per riportare la discussione nell’alveolo della politica e della critica di sistema: chi si arricchisce con il turismo? Chi ci perde? Chi e come andrebbe governato, affinché non sia soprattutto, come spesso accade, un’economia di rapina per molti cittadini e molti luoghi toccati dal turismo di massa?


Programma

giovedì 23 novembre​, 18.00​
​Il lavoro nel tempio del turismo di massa. Fra lustrini e precarietà
martedì 5 dicembre​, 18.00​
Cultura usa e getta​​
martedì 19 dicembre, 18.00​​
Turismo di massa e città: da Barcellona a Berlino cosa si muove intorno a noi

Tutti gli incontri si terranno allo Spazio InKiostro in via degli Alfani 49 a Firenze​

La Nuova Sardegna, 19 settembre 2017. Una sofferta riflessione, con un incipit utilmente autobiografico, sul turismo balneare che, scongiurato nel 2006 dal piano paesaggistico rischia, adesso di riprendere lo sfruttamento e il degrado.

Molti si interrogano sul modello di accoglienza turistica più conveniente per la Sardegna. Stringi stringi è la questione al centro del dibattito sul DdiL del governo regionale in materia urbanistica.

Alle mie deduzioni sono arrivato passando per varie tappe, due essenziali che richiamo per spiegare l'evoluzione dei punti di vista sul tema. La prima tappa: da consigliere comunale di Sorso (debutto a 25 anni). Irresistibile l'appello di Enrico Berlinguer, il partito preso senza dubbi (quando ero ancora incerto se amare più i Beatles o i Rolling Stones). La voglia di mettere i piedi in terra, in testa suggestive lezioni di pianificazione territoriale e l'impegno della sinistra sull'urbanistica in città del centro Italia.

L'attività di amministratore prolungata (un'infatuazione Sturm und Drang) mi ha consentito di seguire da vicino il corso del dibattito di quegli anni. E di convincermi: nel territorio costiero meglio non costruire nulla tranne i servizi connessi alla balneazione. Per conservare i paesaggi costieri, ma pure per la sconvenienza delle comunità insediate più o meno vicino al mare. Impedire l'ospitalità sparsa nella linea di costa a vantaggio di chi abita a 3 km. Ragionevole utilizzare le urbanizzazioni di un paese, i servizi e pure le dignitose case disabitate. I turisti mischiati ai residenti. Possibile con qualche accorgimento. Senza complessi d'inferiorità perché i villaggi turistici offrono meno opportunità ai vacanzieri sempre più interessati a conoscere la Sardegna che esiste pure d'inverno.

Difficile da proporre: l'offerta ricettiva in un centro di origini contadine in alternativa alle proposte glamour di Club Med o Valtur, ma pure alle sciatte iniziative immobiliari sulla spiaggia.

Scontati gli insuccessi come documentano i suburbi di Platamona (non saranno molti a difenderli). E dai dai la lezione di quegli errori è rimasta nello sfondo, e oggi la costa di Sorso è integra per circa il 70%.

Tutt'altro che scontato. La politica isolana schierata al tempo per fare case ovunque e una legislazione lasca. Qualche sussulto grazie a Luigi Cogodi in un Pci- Pds sviluppista poco propenso a dargli retta. Così le scorrerie non avrebbero avuto veri ostacoli fino all'imprevisto Ppr 2006 ( due anni dopo, le dimissioni di Soru, mai spiegate, raccontano l'ostilità a quella scelta di un pezzo del PD sardo con ciò che consegue).

La seconda tappa in questa temperie: l'impegno nella redazione del PUC di Orosei, antico centro a un paio di km dal mare; paesaggio articolato, montagna- campagna-mare e il Cedrino, confine pacificatore tra la terra dei pastori e quella dei contadini. Molta natura superstite, l'incanto di Biderrosa superstar, e le ferite come altrove.

La maggioranza al governo d'accordo con l'orizzonte indicato dal PPR, la minoranza non del tutto ostile a quella visione. Una trentina di affollati confronti dopo il 2008, il piano adottato dal Consiglio nel 2010. Una sollecitudine che certifica una sostanziale adesione della popolazione al progetto.

Anche in questo caso è servita la percezione del pericolo e quindi l'accoglimento dell'idea di fondo nel PPR: impedire le trasformazioni nei litorali e facilitare l'accoglienza nelle aree urbane. Un'altro modello di sviluppo. Condiviso da tanti comuni con sbocco a mare: vicini al mare come Sorso e Orosei, o anche lontani come Villanova Monteleone.

È sempre più vasto il consenso delle comunità locali al disegno di tutela, in crescita la diffidenza verso le promesse di occupazione, più volume = più turisti: non ci crede nessuno. La sfida quell'altra: estendere gli effetti del turismo nello spazio (oltre le coste) e nel tempo ( non solo in agosto), come ripetono con molta passione alcuni sindaci non di mare (come Daniela Falconi di Fonni e Angelo Sini di Pattada). Appunto per concorrere a frenare lo spopolamento, più intenso in aree distanti dalle rive. Tutti d' accordo per impedire lo squilibrio territoriale, pure il governo regionale che parla bene ma non è conseguente com'è evidente in alcuni articoli del Ddl Erriu.

C'è speranza di invertire la tendenza solo se si andrà senza indugi oltre su connottu: il programma predatorio, dissipatore e inopportuno che conosciamo da secoli. E poi la Sardegna, si sa, non è in crisi perché scarseggiano residenze stagionali e alberghi. E comunque occorre cautela con l'edilizia nei litorali. C'è il rischio che si riduca l'attrazione dell'isola, come ammoniva il prof. Francesco Pigliaru nei suoi libri: “ogni investimento effettuato per aumentare il grado di sfruttamento turistico della risorsa (strutture ricettive, per esempio), ne determina un 'consumo' irreversibile”. Meglio non azzardare!

Una critica apparentemente ragionevole del sociologo agli effetti economici del «turismo a buon mercato». Ma il problema non colpisce solo l'economia, e non sembra risolubile con qualche regola in più. Internazionale, 18-24 agosto 2017, con postilla (i.b.)

Quest’anno il numero dei turisti in Spagna si avvicinerà agli ottanta milioni, con un aumento dell’11 per cento rispetto al 2016. La Catalogna ne ha ospitati quasi il venti per cento. Nel 2015 l’industria turistica rappresentava l’11,1 per cento del Pil e il 12 per cento dell’occupazione. Oggi 2,8 milioni di persone lavorano in questo settore. Il turismo traina l’economia spagnola e il paese è avvantaggiato, perché le altre possibili mete nel Mediterraneo sono diventate più rischiose e perché i cittadini europei spendono sempre più per i viaggi (questo, paradossalmente, non vale per i cittadini spagnoli: il 40 per cento di loro quest’anno infatti non è andato in vacanza).

Si tratta di un turismo a buon mercato, con una spesa media di 129 euro al giorno, molto più bassa rispetto a Francia o Italia. È anche diminuita la permanenza media, che è scesa a 7,9 giorni. Il settore sta passando sempre di più dalle mani dei tour operator e delle grandi catene alberghiere a quelle dei siti internet come Airbnb, che gestiscono pernottamenti non sempre in regola con la complicità di proprietari e inquilini speculatori in rotta con i vicini.

La saturazione è evidente: alle Baleari quest’anno sono attese due milioni di persone, quando i residenti delle isole sono in tutto 1,1 milioni. Una situazione che ha delle ripercussioni sui servizi pubblici (in primo luogo sulla sanità), che non riescono a soddisfare le necessità di questa popolazione stagionale. C’è un rincaro di affitti e prezzi, per la distorsione tra la domanda globale e l’offerta locale. I residenti sono costretti ad abbandonare le loro città e a volte la convivenza civile è messa in crisi dai turisti che esagerano con l’alcol e le droghe.

Questo spiega le reazioni dei cittadini in diverse località di villeggiatura, soprattutto in Catalogna e alle Baleari, i territori più sottoposti a questa pressione incontrollata. Non sono reazioni violente. Il lancio di coriandoli non provoca feriti e nessuno slogan scritto sui muri da persone esasperate si è tradotto in aggressioni. Paragonare questa protesta, come ha fatto il Partito popolare, alla kale borroka (le azioni di guerriglia urbana degli indipendentisti baschi) è un’offesa a chi in passato ha sperimentato sulla sua pelle le violenze dei separatisti dell’Eta.

È eloquente che i popolari, sempre più al centro delle critiche, vedano in qualsiasi protesta un potenziale reato. In realtà, considerando il mondo in cui viviamo, le iniziative simboliche di protesta contro il turismo senza limiti sono servite a risvegliare la coscienza civile e politica, facendo capire che siamo di fronte a un problema serio.

Per molti i disagi sono il prezzo da pagare per un’attività economica che dà da vivere a molte aree del paese. In realtà, i vantaggi sono discutibili. Chi pensa che questo tipo di turismo faccia bene alla Spagna ha un’idea obsoleta dell’economia, in cui contano solo i profitti delle aziende e la creazione di posti di lavoro. Dimentica però il contributo allo sviluppo della ricchezza del paese a lungo termine e non considera i costi non contabilizzati: di bilancio, sociali e ambientali.

Perché la madre dell’aumento della ricchezza è la produttività del lavoro.

Tra il 2000 e il 2014 la produttività spagnola non è cresciuta e oggi aumenta quasi dell’un per cento all’anno, molto meno rispetto ai paesi vicini. Questa situazione è direttamente legata al predominio

di settori a bassa produttività, come il turismo e l’edilizia. La bassa produttività non dipende solo dal tipo di attività (negli Stati Uniti e in Francia, il turismo è più produttivo della media), ma anche dall’abbondanza di lavoratori scarsamente qualificati.

Nei pochi mesi in cui lavorano nel settore turistico, le persone non hanno il tempo di diventare più qualificate e gli imprenditori non hanno interesse a investire nella formazione.

Come denunciano i sindacati, spesso le condizioni di lavoro sono difficili (sovraffollamento, alti ritmi di lavoro, precarietà). I salari sono i peggiori sul mercato del lavoro, mille euro o meno in media. Questa situazione ha conseguenze importanti sul welfare, perché gli stipendi bassi finanziano a malapena la previdenza sociale, mentre i servizi di sanità, istruzione e pensione devono comunque essere garantiti a questi lavoratori e alle loro famiglie.

Più lavoro precario si crea nel settore turistico, più si aggrava la crisi del welfare e meno si contribuisce al miglioramento dell’economia, che è legato alla capacità di consumo della popolazione. Le Baleari, che erano la regione spagnola più ricca, stanno perdendo terreno proprio per questo motivo. Al buon andamento del settore si accompagnano la precarietà e i bassi salari, oltre all’impatto negativo sull’ambiente e sulla qualità della vita dei residenti. Un turismo con più regole,
come propone il governo delle Baleari, sarebbe una benedizione per il nostro paese. Quello attuale
non è sostenibile e fa danni sia dal punto di vista sociale sia da quello economico.

postilla

La critica al “turismo di massa” o al “turismo a buon mercato” come lo chiama Castells puòessere un punto di partenza per comprendere gli effetti collaterali di un’economiabasata sul turismo. Ma focalizzando la critica a questo tipo di turismo emettendone in evidenza gli svantaggi economici, il rischio è quello che laregolamentazione si traduca nella scelta di un “turismo di élite”. Quest’ultimocertamente ha dei vantaggi apparenti e immediati, come la riduzione del numerodei turisti, la crescita della loro spesa giornaliera, la specializzazione deilavoratori del settore, ma non quello di contenere i prezzi e di evitare lagentrificazione delle aree più appetibili e l’alienazione dei beni più belli aconsumo turistico. Esemplare è il caso di Venezia.La logicacapitalistica impedisce di concepire e pensare a un turismo di massa, quindidestinato a tutti e non solo ai pochi che se lo possono permettere, che consentaalle città e ai suoi abitanti di convivere con il turismo senza farseneschiacciare. Nel capitalismo c’è solo una logica: lo sfruttamento. (i.b.)

«"Come luogo di residenza e di vita, la città turistica diventa invivibile per l’autoctono.." Pubblichiamo un estratto dal saggio di Marco d’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo». che-fare.com, 4 agosto 2017 (c.m.c)

Marco d’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, Feltrinelli

I geografi distinguono “tre tipi fondamentali di città turistiche: le stazioni (resorts) turistiche ‘costruite espressamente per il consumo dei visitatori’; città turistiche storiche che ‘pretendono un’identità culturale e storica’; e città convertite, luoghi di produzione che devono ricavare uno spazio turistico all’interno di contesti altrimenti ostili ai visitatori”.

Poiché non esiste ormai città al mondo in cui non capiti per sbaglio qualche turista, il termine città turistica va precisato: per esempio, molti stranieri visitano São Paulo, ma quest’enorme megalopoli brasiliana prescinde a tal punto dalla presenza di turisti che è impossibile trovarvi una cartolina da comprare, come si scopre con un sollievo di liberazione.

In senso lato, sono turistiche le città in cui il numero di visitatori annui supera di gran lunga il numero di abitanti: in questo senso sono tali non solo Kyoto, Dubrovnik, Bruges, Venezia o Firenze, ma anche centri più grandi come Roma o Barcellona; persino Parigi e Londra sono “città turistiche”, come anche New York, se ci si limita all’isola di Manhattan. Ma in senso più stretto, il turismo sta diventando la sola industria locale per molte città, che così diventano company towns, come Essen era la città dell’acciaio (Krupp), Clermont-Ferrand quella della gomma (Michelin), Detroit e Torino erano le città dell’automobile (General Motors e Fiat).

Come per i corpi c’è una temperatura precisa in cui passano dallo stato solido a quello liquido, o dallo stato liquido a quello gassoso, ed è la temperatura in cui avviene la transizione di fase, così si può definire una soglia precisa che separa una città turistica in senso stretto da una città che vive anche di turismo. Finché l’aflusso di visitatori non supera questa soglia, i turisti usufruiscono di servizi e prestazioni pensati per i residenti. Oltre questa soglia invece, i residenti sono costretti a usufruire dei servizi pensati per i turisti.

Il superamento della soglia di transizione ha conseguenze impreviste e irreversibili. Questo è chiaro nei ristoranti. Sotto la soglia, i turisti mangiano in ristoranti che cucinano per i locali, oltre quella soglia i residenti dovranno mangiare in trattorie mirate al mercato turistico. Trent’anni fa era praticamente impossibile mangiare male a Roma e Firenze. Oggi è difficilissimo mangiare bene. […] Nei termini dell’economia mainstream: il mercato per la domanda dei residenti non coincide con il mercato per la domanda dei turisti, ma i due mercati si sovrappongono nel tempo e nello spazio ed entrano in conflitto o divergono.

Se il residente ha bisogno di riparare le scarpe, mentre il turista ha fame di uno snack, e se i turisti spendono più dei residenti, il risultato è che scompare la bottega artigiana del ciabattino e si moltiplicano i fast-food. Non basta. Nella città turistica non è solo la tipologia dei servizi a mutare drasticamente, ma viene stravolta la stessa funzione degli edifici. Una volta l’ingresso nelle chiese era non solo libero ma auspicato. In fondo, se i poveri sarebbero stati i primi a entrare in paradiso, non si vede perché non dovevano entrare gratis nel tempio del signore.

Oggi invece per entrare a Santa Croce (Firenze) e in tantissime altre chiese bisogna pagare: “In tutto il mondo, chiese, cattedrali, moschee e templi si stanno convertendo da funzioni religiose a funzioni turistiche”. Così che i templi di una religione che considera il denaro un Demonio (Mammona, in altre lingue Mammon) sono accessibili solo grazie a quel denaro che maledicono. […] In generale, la proliferazione di stabilimenti e impianti turistici va di pari passo con la scomparsa di attività produttive, artigianali, ma non solo. Non è chiaro quale dei due fenomeni è causa e quale l’effetto: spesso sono effetto l’uno dell’altro e si rafforzano a vicenda.

In linea con l’idea “postmoderna” di turismo, si ritiene che le città lo sviluppino per compensare il declino dovuto alla deindustrializzazione. Fu certamente il caso dell’Inghilterra degli anni 1970-1990, quando il passato cominciò a diventare un’industria nazionale. Come osservò Robert Hewison nel 1987, dei 1750 musei allora presenti in Gran Bretagna, ben la metà era stata aperta dopo il 1970: in soli sedici anni erano stati istituiti tanti musei quanti in tutti i secoli precedenti! “Mentre le prospettive per il futuro sembrano ridursi, il passato cresce costantemente.”

Persino Manchester, che nell’Ottocento Friedrich Engels aveva scelto come paradigma di città manifatturiera, ha cercato di reinventarsi quale destinazione turistica (in particolare di turismo calcistico per i tifosi che da tutto il mondo vanno in pellegrinaggio allo stadio Old Trafford della squadra Manchester United), e ha impiantato in centro una bella ruota panoramica anche se non c’è assolutamente nulla da vedere.

In realtà, la funzione compensatoria va oltre l’ambito strettamente industriale: in una città il turismo acquista tanta più importanza quanto più declina ogni attività – industriale o meno – che produceva la sua tradizionale ricchezza. Così, una volta esauritasi la sua funzione portuale, Liverpool si è reinventata come attrattiva turistica, e là dove una volta si commerciavano schiavi in carne e ossa (a quella tratta la città dovette la sua rigogliosa, improvvisa crescita nel Settecento), ora sorge un “museo della schiavitù”.

Ma naturalmente l’esempio classico non può non essere Venezia che prese a coltivare la vocazione turistica ben quattro secoli fa, nel Seicento, quando la sua potenza commerciale mondiale stava svanendo nel ricordo. Fu a partire da quel momento che il Carnevale veneziano divenne un’attrattiva per tutta Europa, conoscendo il suo massimo splendore nel Settecento, quando richiamava decine di migliaia di stranieri (e tutta la nobiltà d’Europa) in cerca di bellezza e arte certo, ma soprattutto di gioco d’azzardo, divertimenti divulgati come sfrenati, débauche, licenziosità, trasgressione di tutte le inibizioni sociali (un po’ come il Carnevale di Rio ai giorni nostri). Ma (come nel Carnevale di Rio) era una sfrenatezza canalizzata e controllata dall’occhiuta e preoccupata Repubblica della Serenissima: “Fu instaurata una vera e propria politica dei piaceri. Il Carnevale divenne un’arma destinata a esorcizzare l’angoscia provocata dalla diminuzione del numero di nobili e dall’erosione del primato di Venezia sulla scena politica ed economica d’Europa”. […]

Ormai le tecniche per riplasmare la città turistica sono state perfezionate, testate e in un certo senso standardizzate, tanto che ovunque assisti allo stesso riarredo urbano “tipico, caratteristico, regionale”: l’industria turistica “ha messo a punto i procedimenti di condizionamento che permettono di consegnare i centri storici e i quartieri antichi già pronti per il consumo culturale. […]

Città turistiche che, per attrarre i turisti e per esaltare la propria irripetibile unicità, si ridisegnano, si ripensano, si riprogettano tutte uguali tra loro, nella lotta per sottrarsi turisti. Non bisogna più pensare alla singola città turistica, quanto alla rete, al sistema delle città turistiche. Ma il cambiamento più visibile nel tessuto urbano è provocato da una caratteristica specifica del turismo che era stata individuata da MacCannell: l’autenticità è visibile al turista solo se “marcata” da un marker, se “ostentata”, anzi, se “messa in scena” (staged). Qui il riferimento esplicito è alla teoria formulata da Erving Goffman sulla “presentazione di sé nella vita quotidiana”. […]

L’idea di Goffman è che nella civiltà moderna, nelle relazioni interpersonali, ogni persona si offre e si presenta agli altri costruendo la propria rappresentazione che cambia a seconda dei contesti e degli interlocutori, e quindi esponendosi su un “palcoscenico” (frontstage), e nello stesso tempo riservandosi un “dietro le quinte”, un backstage, delle coulisses in cui riorganizzare la presentazione, fare le prove, allestire i travestimenti, ripetere la parte, riprendere forze (il termine esatto italiano per coulisse sarebbe “retroscena”, il cui significato metaforico ha però sopraffatto quello letterale). Va sottolineato che per Goffman la dimensione teatrale del rapporto di sé agli altri non è un accessorio: è presente sempre e comunque in ogni interazione. […]

È questa messa in scena a dare alla città turistica la sua inconfondibile teatralità. Ogni città deve “recitare” se stessa: Roma deve mettere in scena la romanità, Parigi deve corrispondere all’idea che un americano si fa di Parigi. Il bistrot diventa la caricatura del bistrot. Nello stesso modo, Trastevere è la caricatura del romanaccio. […]

Se si accoppiano gli effetti della messa in scena da un lato e dell’eliminazione delle altre attività produttive dall’altro, si ottiene un deperimento complessivo della città turistica. Ho molto frequentato il Quartier Latin di Parigi per tutti i primi anni settanta del secolo scorso: era animato, vivo, nonchalant; quarant’anni dopo, è un quartiere morto, un’area disastrata dominata da squallore a buon mercato. Il Quartier Latin è un buon esempio di come il turismo può uccidere un quartiere facendolo vivere. Tutto il quinto arrondissement è come svuotato dall’interno, chiusi i negozi utili come ferramenta, mercerie, casalinghi, elettricisti; ogni manifestazione di vita locale è sostituita a poco a poco dal falso cinese, dal falso greco, dalla paninoteca e dal gelataio. E questo nonostante il quartiere sia ancora la sede della Sorbona, del Collège de France, di licei… […]

Proprio per la natura teatrale dell’attività turistica, “la posizione del lavoro nella fornitura di prodotti turistici è insolita, perché i lavoratori sono nello stesso tempo fornitori di servizi e parte del prodotto consumato”. Ovvero gli addetti all’accoglienza turistica costituiscono l’infrastruttura del sightseeing, ma sono nello stesso tempo essi stessi oggetto del sightseeing: la qualità del servizio, “l’amichevolezza, la cordialità” dei “locali” sono atout importanti per una destinazione turistica.

Detto in altre parole, un cameriere deve non solo servire a tavola, ma anche mettere in scena il servizio. In termini barthesiani, il linguaggio corporeo del cameriere deve connotare non solo la sua professione, ma anche la sua “italianità”, “francesità”, insomma la sua “tipicità”, nel senso dei “prodotti tipici”.Anche perché addetti e personale di servizio costituiscono in realtà la più frequente, e spesso l’unica, realtà umana locale con cui i turisti vengono a contatto. […]

E per gli altri autoctoni, che di turismo non vivono? Ma noi italiani lo sappiamo benissimo: lo “sguardo turista” agisce anche su chi di questo sguardo è oggetto, non solo su chi lo lancia: fa sì che i cittadini delle città d’arte vivano sempre sotto lo sguardo turista, vivano sempre sotto sorveglianza di uno sguardo letteralmente “fuori posto”. Come andare in bagno la notte quando la casa è piena di ospiti indesiderati, scavalcando corpi sconosciuti in salotto.

La metafora è appropriata perché, nei termini di Goffman, il cesso è il backstage, è il retroscena per eccellenza dei nostri teatri quotidiani: “Nella nostra società la defecazione implica un’attività individuale definita incompatibile con le norme di pulizia e purezza espresse in molte nostre rappresentazioni. Una tale attività obbliga sempre l’individuo a disfarsi dei vestiti e a ‘uscire dal gioco’, cioè a lasciar cadere la maschera espressiva che usa nell’interazione a tu per tu. Gli sarebbe difficile in queste condizioni ripristinare la propria facciata personale nel caso si presentasse all’improvviso la necessità d’interazione. È forse una delle ragioni per cui nella nostra società le porte dei bagni sono munite di serrature”.

Perché se il disvelamento progressivo del backstage non “allestito” è un inseguimento senza fine, e se il turista è l’Achille, allora l’indigeno è la tartaruga, alla ricerca di luoghi e situazioni sempre più romiti, più discosti, sempre più irraggiungibili dal turista. I residenti sono costretti a entrare in clandestinità, a comunicarsi sottovoce gli ultimi indirizzi accettabili (“ma non farlo sapere ai turisti!”). Ben sapendo che prima o poi anche quegli indirizzi affioreranno dalle coulisses e saliranno alla ribalta, costringendo gli autoctoni a cercare nuovi anfratti, nuovi rifugi provvisori.

Coscienti che l’esito è segnato: come luogo di residenza e di vita, la città turistica diventa invivibile per l’autoctono che sempre meno può permettersela in termini economici e sempre più ne è espulso in termini relazionali. In quanto industria, il turismo rende la città invivibile, proprio come la città manifatturiera (la Coketown di Dickens) era irrespirabile per i suoi slums, i suoi miasmi e fetori.

Il turismo non provoca questi effetti, ma uccide la città in modo più sottile, svuotandola di vita, privandola dell’interiore, proprio come nella mummificazione, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica, in una sorta di tassidermia urbana: musei e paninoteche, ruderi e boutique di lusso, “suoni e luci” tra pizze al taglio e ristoranti a tre stelle Michelin, isole pedonali, e poi tanti dormitori eleganti per ceti medi. Già oggi nel Nord Europa le isole pedonali si assomigliano tutte (sono un altro dei “non luoghi” di Marc Augé) e i centri vengono trasformati in entertaine- ment districts, dove però non si diverte nessuno. […]

Invertendo la vecchia idea di Alois Schumpeter, secondo cui specifica del capitalismo è la sua “distruzione creatrice”, il turismo pratica una “creazione distruttiva” perché producendo crescita economica e sviluppo distrugge le basi su cui quella crescita era basata.

“Due strade si separavano nel bosco/e io ho preso la meno battuta/e questo ha cambiato ogni cosa”, scrisse il poeta Robert Frost. A Daniele Kihlgren è successo davvero, ha trovato un bivio che somigliava tanto al destino e gli ha cambiato la vita. “Ero in Abruzzo, stavo facendo un giro in moto”. La strada che si arrampica sul Gran Sasso, tra prati dove puoi incontrare cavalli lasciati liberi al pascolo con l’erba che comincia lentamente a ritrovare il verde. Decine di bivi, ogni volta il dubbio, destra o sinistra. Finché la sua moto si lascia guidare dalla discesa fiancheggiata dal rosa dei mandorli in fiore e Daniele si trova lì: “Davanti a me ho visto quella torre, le case. Mi sono detto: questo sarà il mio borgo”.

Già, perché Daniele, un ragazzone che oggi ha 44 anni, ma l’entusiasmo che vorrebbero avere i ventenni, dentro di sé aveva un sogno: “Volevo trovare un paese, ancora intatto, e riuscire a riportarlo com’era. Le case, ma anche la vita. Senza un euro di contributi pubblici”.

E quel borgo aspettava proprio lui. Era Santo Stefano di Sessanio, un grumo di case arrampicate sulle pendici del Gran Sasso. Per capire come Daniele ha realizzato il suo sogno bisogna lasciarlo parlare, con quei suoi pensieri che ricordano gli studi di filosofia e l’accento lombardo che invece ti dà un’idea di sana concretezza. Poi ci sono le origini mezze svedesi, rigore e sincerità senza ombre. Ecco, Daniele è un idealista pragmatico. Soltanto una persona così poteva far rinascere un paese coinvolgendo gli abitanti. Ma soprattutto salvandone l’identità, parola che Daniele ripete spesso, come un mantra.

Un filosofo, persona normale

Ma perché ha scelto Santo Stefano di Sessanio? Kihlgren si guarda intorno, è già una risposta: non si vedono che prati, bianchi d’inverno quando la temperatura a 1.200 metri scende a meno venti, di un giallo ineguagliabile in primavera. Poi monti: il Gran Sasso, sulle spalle ne senti l’enorme massa. E la Maiella a segnare l’alba, il Sirente dove il sole tramonta. Intorno non c’è un abitato. Di notte è solo buio.

“Comprai un rudere, poi altri. Non costavano niente”, racconta. Basta vedere le vecchie fotografie di Santo Stefano per rendersene conto. Dopo gli anni ‘50 il Borgo aveva cominciato a spopolarsi, con le bestie non ci si campava più. Era una vita dura spostarle ogni stagione, dal Gran Sasso fino al Tavoliere delle Puglie.

“Negli anni Ottanta si è cominciato a pensare al turismo”, spiega Elisabetta Leone, il sindaco di queste 120 anime. Aggiunge: “Ma ci voleva un progetto. Finché è arrivato Daniele”. Sì, in paese lo chiamano per nome. Kihlgren non ha grandi imprese alle spalle, è solo con gli abitanti del paese. Con loro si mette a ristrutturare le case che ha comprato. “Utilizziamo materiale del luogo, spesso di risulta. Niente cotto che fa chic, ma qui non c’entra. All’interno i mobili contadini risistemati”.

È lo stesso Daniele che spiega lo spirito del suo lavoro:“Non sono un architetto, ho studiato filosofia, ma sono soprattutto una persona normale”. Aggiunge: “Sarebbe straordinario riuscire a recuperare il patrimonio storico minore. In Italia ci sono 2.500 borghi abbandonati e oltre 15.000 compromessi. E noi li lasciamo andare, la storia per noi sono i grandi imperi, i monumenti solenni. Invece la vita dell’Italia è anche questa, di semplici paesi, luoghi poveri”.

Teorico, ma anche concreto: “Il recupero del patrimonio è anche un’occasione per l’economia. E alla fine la gente se ne accorge: arriva il lavoro e le case, se recuperate bene, valgono molto di più”. Con una sola condizione: “In luoghi come questi non si deve costruire più nulla. Cemento zero. In Italia continuiamo a costruire e ci sono milioni di case vuote. I costruttori devono trasformarsi in restauratori”.

Alla fine il progetto ha preso corpo: “È nato un albergo diffuso, con le stanze disseminate nelle case, così che gli ospiti potessero vivere in mezzo alla gente del paese e far rivivere il borgo”.

Camping, ristorante e cinque bambini

L'entusiasmo di Daniele è stato contagioso: lui possiede un sesto delle case di Santo Stefano, ma anche gli altri abitanti hanno cominciato a restaurare, con la stessa cura. E sono ritornati i negozi, i locali. Racconta Elisabetta Leone, il sindaco: “Abbiamo 120 abitanti, l’emorragia della popolazione si è fermata. Ma soprattutto molti di noi possono lavorare qui. La disoccupazione quasi non esiste”. Davide De Carolis è arrivato per aprire un camping. Francesca Pasquali e il suo compagno Vittorio De Felice hanno messo su il ristorante “Tra le braccia di Morfeo”. Raccontano: “Abbiamo clienti da tutto il mondo”. Tra i trentasei tavoli, vengono serviti agnello scottadito, formaggi di Castel del Monte, paccheri con la zucca. Ti capita di incontrare reali del Belgio tra i comuni visitatori. Insomma, Santo Stefano di Sessanio sta rinascendo davvero, anche se i bambini sono solo cinque, ma l’anno scorso è nata Giulia Cesare. Tutto così semplice? “Sì, si potrebbe replicare ovunque”, è convinto Kihlgren. E racconta: “Ho ricevuto 600 mail da paesi che vogliono affidarsi a noi. Ma non posso. Oggi stiamo lavorando in otto borghi e soprattutto ai Sassi di Matera. Vorrei diffondere gli alberghi diffusi, soprattutto nei borghi sconosciuti e meraviglio-si della Calabria”.

Tutti d’accordo? “A volte abbiamo paura che il nostro paese diventi un borgo per vip. Che i vecchi abitanti vendano le loro case ai turisti”, sussurra qualcuno nel bar di piazza Mediceo. Kihlgren è sicuro che non sarà così: “Noi siamo l’opposto del Chiantishire. La ricetta è semplice: identità e cura. Bisogna mantenere le costruzioni e gli arredamenti, ma anche i cibi, insomma la cultura. E soprattutto le persone”.

Una cura contro il sisma

Già, la cura è il segreto che ha salvato Santo Stefano di Sessanio dallo spopolamento e, due anni fa, anche dal terremoto. Aprile 2009: il sisma devasta l’Abruzzo, decine di paesi vengono rasi al suolo. Santo Stefano no, le case restaurate con la massima cura subiscono danni minimi. Crolla solo l’antica torre medicea. Perché? “Più di dieci anni fa – racconta Camilla Inverardi, noto architetto dell’Aquila – c’era stato un intervento pubblico per realizzare un belvedere in cima alla torre. Il legno era stato sostituito con una soletta di cemento”.

Gli antichi costruivano meglio di noi? No, secondo Daniele: “La scienza strutturale è andata avanti, l’etica, però, è tornata indietro”.

Nota: in effetti l'iniziativa di recupero abruzzese non è cosa nuova, qui su eddyburg.it parecchi anni fa abbiamo già riportato un esauriente articolo da la Repubblica (f.b.)

Due sono state le notizie principali in Sardegna, nelle prime settimane di Agosto. Di peso ed interesse diverso esse mi hanno offerto l’occasione di una riflessione.

La prima, non molto importante, è l’appello di Briatore contro la cosiddetta “tassa sul lusso” in Sardegna; un appello che sicuramente si presta a facili ironie: in ogni caso il suo nocciolo è che il turismo dei ricchi porta benessere.

La seconda, molto importante, è l’annuncio che fra due anni si chiuderà la base militare della Maddalena; e qui mi sono ricordato che il Presidente della Sardegna Soru da tempo ha condotto questa benemerita battaglia (ed anche quella sulle servitù militare), ma che tra le sue proposte per l’economia della Maddalena c’è il cosiddetto turismo di lusso (o dei ricchi: riassumibile nella formula “hotel a cinque stelle e campi da golf”).

In un certo senso, nonostante le polemiche tra loro, vi è forse un “comune sentire” fra Briatore e Soru.

Non voglio paragonare il faccendiere Briatore, che pure è persino simpatico (a parte il rispetto che va tributato a chi ha avuto al fortuna ed il merito di essere scelto come fidanzato da Naomi Campbell), ma che miliardario (billionaire) probabilmente non è, a Soru.

Soru miliardario lo è per davvero: è stato tra i primi cento ricchi del mondo nella classifica di Forbes, ma soprattutto è un grande imprenditore, capace di innovazione e visione (un innovatore nel senso che gli dava Schumpeter).

Ma sembrano entrambi convinti che il turismo buono sia quello di lusso.

Questo vorrei porre in dubbio.

Lo faccio anche considerando un’altra iniziativa del Presidente Soru: quella relativa al “Bando per la cessione, riqualificazione e trasformazione di ambiti di particolare interesse paesaggistico del parco geominerario della Sardegna”.

È un bando che prevede la vendita di edifici in “luoghi ormai abbandonati da molti decenni, che sono stati nel passato centro di importanti vicende operaie e industriali, costituiti da villaggi operai raccolti attorno a piccole chiese, palazzine direzionali, edifici scolastici, che si affiancano alle grandi strutture legate all'attività estrattiva, imponenti laverie, pozzi, giganteschi impianti industriali. Sono le architetture di un'epoca passata che sorgono in una zona costiera, in gran parte intatta, un vero spettacolo della natura.”

Si tratta di 260.000 metri cubi, da destinare “a strutture alberghiere ricettive con annessi centri benessere, strutture sportive e per il golf, interventi di miglioramento ambientale e di forestazione, realizzazione di strutture di supporto alla fruizione turistica dei siti di archeologia industriale eventualmente insistenti su tali aree.”

Anche qui ci si immaginano le cinque stelle, mentre il golf è esplicitamente citato.

Vero è che l’elenco delle destinazioni d’uso è “esemplificativo e non esaustivo”, come è stato precisato in un dei “quesiti e chiarimenti”, ma esemplificare significa appunto “proporre ad esempio”.

Ci sono delle considerazioni di tipo generale: perché vendere e non dare in concessione o gestire direttamente o con una società mista?

Ci sono considerazione legate ai quei luoghi: perché vendere quelle straordinarie architetture che sono luoghi di grande rilievo storico, culturale ed identitario (io le ho conosciute attraverso il film di Cabiddu, Il figlio di Bakunin)? Perché destinare a “strutture per il golf” zone estremamente “sensibili” per le emozioni e le memorie, che poi sorgono in una zona costiera “che è un vero spettacolo della natura”, estremamente sensibile dal punto di vista ambientale?

Ma quello che non mi convince, che mi pare non meditato, banale e non motivato è il convincimento che traspare qui, come in molti altre proposte, secondo cui il “turismo di lusso” è un buon turismo.

Non è così; in linea generale, almeno.

Non lo è (certamente) da un punto di vista ambientale: l’impronta ecologica del turista di lusso è enorme e assai fetida.

Non lo è (io credo) da un punto di vista economico: tende a creare ghetti autosufficienti, occupazione di bassa qualità e di tipo servile, servizi di tipo “internazionale” e non legati ai luoghi, incentiva il turismo “mordi e fuggi” dei voyeurs, è egoista e tendenzialmente stagionale, provoca aumenti di prezzi, privatizza spazi pubblici.

Può darsi che in altri tempi non ci fossero alternative, ma quella era l’epoca in cui si veniva mandati in Sardegna per punizione e non per premio.

Il turismo “buono”, sostenibile ambientalmente ed economicamente, non si distingue per fascia di reddito, ma per il rapporto che ha con i luoghi.

Facciamo degli esempi.

È buono il turismo dei giovani e degli studenti, che magari spendono poco, ma si muovono sul territorio, interagiscono tra loro e con i residenti e si affezionano e tornano e ne parlano.

È buono il turismo “elitario” di persone ad alto reddito (in genere non strettamente “ricchi”) che cercano situazioni e sensazioni “speciali”, che hanno cultura e rispetto per i luoghi e che hanno bisogno di servizi ad alto valore aggiunto.

È buono il turismo fedele si persone a reddito medio, magari di pensionati, che “si affezionano” ad un luogo, tornano anno dopo anno, magari nei periodi non di punta, magari per risparmiare (è la propensione al risparmio uno dei fattori possibili di successo di azioni per “destagionalizzare”.

In genere è buono un turismo di “cittadini”, ovvero di persone che si sentono a casa loro e che perciò danno oltre che prendere e che si mescolano ai residenti e che vivono un po’ della loro stessa vita; tra loro forse qualche ricco vero cui proporre qualche cinque stelle o qualche bell’hotel de charme (che tra l’altro non sono tutti a cinque stelle).

Certo nella miscela necessaria per una massa critica si dovrà scontare per un po’ una quota di turismo omologato (ricco, povero e medio), ma una “politica del turismo” punta non tanto ad aumentare questo tipo di turismo, ma a lavorare per migliorare questo turismo e a competere per attrarne un altro.

La giusta battaglia che in altre epoche è stata fatta per evitare di “diventare un popolo di camerieri” può aver condotto a qualche guaio ambientale , ma aveva un senso ed esprimeva una necessità anche economica; un buon turismo è un turismo senza troppi camerieri (con tutto il rispetto e la stima per i camerieri, anche perché esistono camerieri di grande qualità e di grande valore aggiunto che è bene avere e – a quel livello – è anche un buon mestiere).

Un buon turismo non è una mono-cultura.

Un buon turismo è un’attività economica che si integra con altre.

E allora è bene essere prudenti e non seguire i luoghi comuni, ma è opportuno “calcolare” (come avrebbe detto forse Leibniz).

Ad esempio dire “basta seconde case” non è la stessa cosa di dire “facciamo più alberghi”; può darsi che qualche volta sia così e senza dubbio basta con altre seconde case, ma delle seconde case che ci sono già cosa ne facciamo? Che se ne stiano vuote per 335 giorni all’anno? E se magari un alcuni contesti, fossero proprio quelle case gli “alberghi” che servono?

Ad esempio “più occupazione nel settore del turismo” non è sempre una cosa positiva; c’è occupazione e occupazione: ci sono posti di lavoro servili e precarie indotti dal “turismo di rapina” (come giustamente lo ha definito il Presidente Soru) e ci sono quelle prestigiose e di qualità.

Che tipo di turismo serve per una “buona occupazione”?

Intanto partiamo da qui: vendere per un turismo così (che forse non distinguerebbe la Sardegna da Marrakesh, come dice giustamente il Presidente Soru) proprio quei luoghi della Sardegna sud-occidentale tra il Guspinese e il Sulcis Iglesiente, non è neppure un affare, credo.

Non mi riferisco al fatto che 40 milioni di euro siano pochi o tanti; non lo so.

Mi riferisco al fatto che il turismo possibile ed utile in quei luoghi è un altro; per luoghi carichi di storia, c’è bisogno di sobrietà e di rispetto; i luoghi della memoria vanno conosciuti ed assimilati, recuperati poco a poco e delicatamente, man mano che si bonificano, trasformandoli in un processo che crei una comunità di persone che imparano a conoscerli e ad amarli, persone che da sempre hanno vissuto in quei luoghi e persone che li hanno visitati una sola volta.

Esperienze sagge e di successo non mancano.

Un passo indietro: prima di vendere, pensiamo a cosa è meglio.

Con la capacità di visione delle persone creative, con la capacità di correggere i propri errori delle persone intelligenti: insomma con le doti dell’imprenditore schumpeteriano.

C’è un’ambiguità senza soluzione nei discorsi di chi parla di turismo interno che consisterebbe nell’arte di convincere chi se ne sta al mare ad alzarsi, scuotersi il torpore di dosso ed andare verso le zone interne e impervie le quali, secondo i teorici di questo tipo di turismo, sarebbero in questo modo finalmente “valorizzate”. Insomma, traslando il turista bagnante in una zona montuosa, si vorrebbe trasformarlo da essere inanimato su una sedia a sdraio in un viaggiatore interessato ad usi e costumi diversi dai suoi, mosso dalla forza della curiosità e dotato di un’anima nuova.

Ma una creatura del genere è difficile da trovare in natura: bisogna crearla.

Bene, vediamo come dovrebbe accadere e partiamo da qualche osservazione sulle vacanze di un turista di terra e di un turista di mare, generi che sono di solito separati anche nei menù. Due categorie di pensiero diverse, due specie diverse che adesso si vorrebbero incrociare per creare una razza nuova: un ibrido molto difficile da ottenere. Serviranno l’ingegneria genetica ed investimenti ma c’è anche il rischio, manipolando i cromosomi turistici, di creare mostri imprevedibili.

Analizziamo la fisionomia che ha assunto la vacanza dalle nostre parti.

Prima di tutto qua si viene, appunto, in vacanza e bisognerebbe mettersi d’accordo proprio sulla parola vacanza che contiene una quota di significato già di per sé pericolosamente tossica.

La vacanza, etimologicamente, proviene da vacuum ovvero vuoto. La vacanza è un periodo di vuoto che può essere anche drammatico e lo si può riempire come si vuole. Perciò la vacanza riflette un vuoto oppure cerca di colmarlo: due condizione opposte.

Gli sviluppisti che vogliono divorare l’isola e trasformarla in un postribolo estivo teorizzano la vacanza vuota, coltivano e propagano il modello della vacanza vacua, senza significato. Giorni trascorsi nel nulla perché il nulla sarebbe riposo.

Gli sviluppisti, in generale se ne impipano del turismo interno. Loro non vogliono che il turista si muova dall’incubatrice turistica dove viene conservato. Considerano, si sa, il turista una merce da movimentare e il viaggio un prodotto.

Non si immagina come il turista disposto a farsi ipnotizzare nel ciclo del cosiddetto riposo vacanziero, che rende ebeti anche se per una sola settimana, possa mutare di colpo. E’ improbabile che un essere ridotto ad uno stato elementare di organismo semplice, monocellulare, che il turista, insomma, si trasformi di colpo, lasci il vuoto in cui l’hanno imprigionato e prenda la corriera attratto dalle cosiddette zone interne.

Altra definizione potenzialmente drammatica. Tecnicamente il termine è ineccepibile: sono in effetti zone interne.

Ma si trascura di dire che sono territori in via di abbandono. Insomma sono aree interne e deserte che si stanno svuotando perché tutti accorrono verso il vuoto morale dell’idea sviluppistica che affligge e impesta le coste.

Le zone interne non sono solo aree recondite, sono zone dove l’uomo nativo non si troverà più se non conservato come in un museo. Sono zone quasi morte dove la memoria dell’isola resiste, conservata da pochissimi che ancora praticano l’identità e conservano caratteri identitari. Che non diventi, appunto, un museo vivente in cambio di qualche turista.

Se, poi, quei pochi visitatori diventassero molti, allora in esatta proporzione alla “crescita” turistica, i “sardi sopravvissuti” si estinguerebbero, sostituiti da sardi finti, di plastica, simili a quei souvenir – gondolette, colossei ecc. – che si conservano nelle vetrinette di casa.

E’ perfino ingiurioso che qualcuno arrivi qua da un villaggio vacanze per vedere che esistono mondi arcaici dei quali, poi, parleranno come di un viaggio nella macchina del tempo. Loro, i turisti, erano nel proprio luna park quando li hanno prelevati e condotti a vedere per un giorno uomini e donne nella loro riserva mentre tosano oppure tessono all’arcolaio.

Insomma, è una fortuna che il cosiddetto flusso turistico – dannoso come un’infestazione – non sia orientabile verso le zone interne che, proprio perché interne, devono restare inaccessibili e devono interessare solo uomini curiosi e desiderosi di osservare un mondo e una società differente, conservativa e fragile come la nostra.

Basterebbero due, tre stagioni turistiche come quelle che qualcuno auspica per le zone interne per renderle un posto qualunque, abitato da gente qualunque, un posto uguale a tanti altri posti uguali..

Ma è solo una questione di tempo.

Il turismo distruttivo come un’invasione di locuste che gli sviluppisti desiderano per l’isola la distruggerà in modi diversi e tutti efficaci. Però cerchiamo di ritardare la fine e lasciamo in pace le zone interne.

Ci sarà una distruzione del paesaggio, una distruzione geologica, come un’effusione lavica che ricopre tutto e rende tutto grigio. Ci sarà una distruzione dei caratteri e, se esiste, della psicologia isolani che tenderanno a rassomigliare a quelli di chi viene a consumare il paesaggio come un dvd. Ci sarà una distruzione economica perché tutto dipenderà da quanti, fotocamera a tracolla, sbarcheranno nell’isola. E ci sarà una distruzione morale poiché questo modello turistico verrà condotto, spinto dalle regole della concorrenza, sino alle sue estreme conseguenze, sino alle sue forme più turpi.

Meno male, meno male che il turista di terra e il turista di mare sono due categorie dello spirito talmente differenti che non si incontreranno mai e che l’unico congiungimento riuscito tra terra e mare è stato e rimane, come dice Achille Campanile, quello perfetto delle seppie con i piselli.

L'articolo è comparso su la Nuova Sardegna nell'aprile 2005

All'inizio di luglio ho trascorso qualche giorno in Tunisia coi colleghi dell’Università e del Ministero per un progetto comune sulla salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali in area mediterranea. Il progetto è attualmente fortemente sponsorizzato dal governo locale, che vi intravede la possibilità di positive ricadute per l’incremento del settore turistico: risorsa sulla quale tutto il Maghreb sta puntando molto.

In realtà il turismo rappresenta ormai il settore trainante di tutta l’economia in un numero sempre maggiore dei paesi in via di sviluppo: già Rifkin, fra gli altri, ci aveva insegnato che il turismo era destinato a divenire l’attività prevalente nel passaggio che la globalizzazione sta accelerando fortemente fra un’economia a produzione industriale ed una nella quale prevarrà la produzione culturale. In questo ambito il mutamento è già compiuto: da alcuni anni, infatti, il turismo rappresenta la prima industria mondiale; con un giro di affari di $ 500 billioni annui e il 35% dei servizi esportati, l’industria turistica rappresenta il settore che, secondo gli analisti economici, è destinato ad avere la crescita più rapida nell’economia globale: nel 2020 il traffico turistico mondiale si attesterà vicino a 1.6 billioni di arrivi. L’Europa sarà destinata a cedere il primato assoluto che tuttora conserva, pur rimanendo per molto tempo ancora una delle destinazioni preferite, anche se superata dalla Cina.

In tale contesto ben si comprendono gli sforzi che in tale direzione i paesi in via di sviluppo stanno compiendo: la torta è troppo ghiotta per poterci rinunciare, ma gli ingredienti rischiano di essere, in larga parte, molto indigesti. Così come altrove, in queste aree, il modello di sviluppo turistico largamente prevalente si sta rivelando un giano bifronte che distrugge le ricchezze sulle quali prolifera. Il capitale principale, spesso assolutamente l’unico di cui dispongano questi paesi, è costituito da una natura incontaminata e da una cultura indigena autentica: la loro salvaguardia è un problema che ci riguarda da vicino soprattutto perché noi turisti occidentali siamo fra i principali fruitori – distruttori di queste risorse. I pericoli insiti in questo modello sono stati più volte analizzati con grande lucidità anche in numerosi interventi di eddyburg (cfr. soprattutto Ravaioli), ma vale forse la pena sottolinearli ancora una volta, con attenzione particolare a contesti extraeuropei.

Cominciamo dall’urbanistica. Lungo le coste del Mediterraneo, il secolo scorso ha visto la crescita e l’addensamento di strisce a forte urbanizzazione, un vero e proprio sprawl costiero, scarsamente connesso con le zone dell’interno e fruito da una popolazione che raggiunge picchi altissimi stagionali per poi decrescere drasticamente in alcuni mesi dell’anno. In brevissimo volgere d’anni sono sorti villaggi, resorts, alberghi dalle architetture improbabili e assolutamente sciatte che nulla hanno a che fare con le tradizioni costruttive locali. Il panorama è peggiorato, in Tunisia, ma non solo, dal compresente fenomeno per cui gli spazi vuoti della costa, fra un enclave e l’altro, sono devastati da pessime costruzioni nella quasi totalità appartenenti alla tipologia della casa unifamiliare e ascrivibili ad uno stile che potremmo definire arabo modernista, sconfortante oltre che nei moduli raccogliticci che assembla, per la desolante ripetitività. Percentualmente numerosissimi, poi, all’interno di questa ‘villettopoli’ di serie b che assume il carattere di una vera e propria lottizzazione dispersa, gli scheletri di edifici: un pessimo effetto di dejà vu per chi ha anche superficiale esperienza di certe zone del nostro meridione.

Sul piano ambientale, l’irragionevole dispendio di risorse provocato da questo modello di sviluppo turistico è ben esemplificato dall’uso dell’acqua: uno studio delle Nazioni Unite ha calcolato che le risorse idriche necessarie a 100 turisti per 55 giorni, sono equivalenti all’acqua necessaria a coltivare una quantità di riso sufficiente per nutrire 100 abitanti locali per 15 anni (avete letto bene, ‘anni’).

I pacchetti all inclusive costituiscono già oggi la tipologia prevalente in Tunisia, ma non solo: i grandi operatori turistici, sempre più globalizzati, (le ‘7 sorelle’ dell’era dell’accesso?), stanno espandendo ed omologando questo tipo di offerta secondo una consolidata tecnica di progressivo controllo dei mercati. Le analisi al proposito, del resto, evidenziano come, in un pacchetto all- inclusive, circa l’80% delle spese del turista vadano a compagnie aeree, hotels, altre compagnie internazionali: alle economie locali rimangono le briciole, quindi.

Altre pesanti ricadute negative sono costituite dall’aumento del costo della vita per i locali determinato dalle richieste dei turisti, primo fra tutti quello delle abitazioni. L’industria turistica, inoltre, per lo più esclude l’imprenditoria locale di medio e basso livello innanzi tutto per la sua incapacità di investire risorse adeguate, come per la mancanza di contatti, e l’insufficiente gestione del marketing: attività anche questa largamente monopolizzata dai circuiti degli operatori finanziariamente più consistenti.

Complessivamente, infine, l’economia fondata solo sul turismo è fragile, largamente dipendente da troppi fattori esterni: crisi politiche, terrorismo, disastri ambientali, cambio delle mode. Le infrastrutture richieste dagli investitori turistici sono molto alte e richiedono sforzi notevoli da parte dei governi che spesso, con l’illusione di ritorni economici a breve termine, stornano risorse da altri settori (educazione, assistenza sanitaria, ecc.) per adeguarsi alle richieste degli investitori stranieri. Il carattere stagionale del lavoro incrementa la precarizzazione: l’incertezza della continuità lavorativa è un elemento ormai globalizzato…

Per quanto riguarda la Tunisia, la ricchezza del suo patrimonio culturale è risaputa: alcuni dei siti romani, ampiamente diffusi su tutto il territorio, sono fra i più belli di tutto il Maghreb, per non parlare delle testimonianze dell’architettura araba e dei siti berberi cinematograficamente pluricelebrati dalla saga di Star Wars. Eppure anche qui il modello ampiamente più diffuso è quello costituito da enclavi rigidamente separate dal resto del territorio. In villaggi vacanze e resorts spesso suddivisi per nazionalità e dall’accesso sorvegliatissimo (motivi di sicurezza, ci si dice) un turista non particolarmente motivato dal punto di vista culturale può trascorrere un’intera vacanza senza alcun contatto con la realtà locale se non quello costituito dalla presenza di personale autoctono e dalle serate a tema: vale a dire per 6 giorni su 7 si mangiano spaghetti e per una volta ci si traveste da beduino e si mangia cous-cous. Tali situazioni sono vissute con ostilità crescente dalla popolazione ‘esterna’, tanto più che le possibilità di lavoro che offrono ai locali si limitano a mansioni dei livelli più umili: il resto del personale (direttori, animatori, ecc.) è di ‘importazione’. A ciò si aggiunga che tali strutture sono nella quasi totalità dei casi estremamente dispendiose dal punto di vista delle risorse energetiche e ambientali: chissà perché prati all’inglese e piscine di ogni foggia e dimensione (anche a bordo mare) sono considerati imprescindibili, così come la presenza di temperature irreali dovute alla presenza costante di aria condizionata in ogni ambiente. Comincia a diffondersi anche qui la perversa moda dei campi da golf, idricamente costosissimi e per favorire i quali le amministrazioni locali non esitano ad espropriare a bassissimo prezzo terreni agricoli contribuendo ad espellere da attività di sostentamento tradizionali percentuali sempre più rilevanti di popolazione locale.

Al di fuori di queste zone franche, i turisti trasmigrano intruppati lungo gli itinerari più reclamizzati e spesso si limitano a gironzolare alla ricerca del ricordo di viaggio per medine e souk, dove i pochissimi manufatti di artigianato locale cedono sempre più spazi all’invasione globalizzante dei gadget Ferrari o di derivazione calcistica. In questi giorni di altissima presenza turistica abbiamo visitato, in perfetta solitudine, gli straordinari siti di Sufetula, Cillium, Haidra, mentre qualche straniero in più (non italico) era presente nelle famosissime aree di Dougga e Bulla Regia.

In generale, infine, l’esperienza della cultura locale diviene qualcosa di completamente asettico che può addirittura prescindere dal contatto con la popolazione locale: ciò che Daniel Boorstin definisce pseudo-evento. Ma anche laddove il contatto sia ricercato, l’istinto profondamente tradizionalista del turista tipo spinge affinchè il “colore locale” rimanga immutato anche a costo di mantenere zone di degrado. In tal senso è stato verificato, da studi recenti, come talune aree, quali il South Bronx a New York, stiano diventando meta turistica proprio perché consentono, al turista un po’ più avventuroso, il brivido dell’esperienza fuori dalle regole. Ad evidenziare quanto tali meccanismi incidano poi sulle politiche urbane delle amministrazioni locali, basterebbe ricordare il celeberrimo e nostrano affaire di Piazza della Signoria a Firenze, dove uno straordinario palinsesto archeologico messo in luce durante i lavori di ripavimentazione della Piazza è stato ricoperto a furor di popolo perché non consono alla perpetuazione dell’atmosfera medicea del luogo. I beni culturali quando sono capitalizzati a fini esclusivamente turistici sono vissuti, insomma, come esperienze chiuse scarsamente efficaci sul piano della divulgazione e dell’interazione culturale.

"Trionfo di Bacco", Museo archeologico di Sousse (Tunisia)

Di fronte alla constatazione di un paesaggio dall’aspetto ormai diffusamente predesertico, i colleghi tunisini ci hanno sottolineato come il degrado ambientale non sia solo un fenomeno legato ai tempi moderni. L’espansione agricola dei romani distrusse buona parte delle foreste della Tunisia (dal 30% stimato in epoca romana si è arrivati a meno del 2% di oggi), con una conseguente grave perdita di biodiversità: scomparso per sempre l’ampio campionario zoologico che popolava gli splendidi mosaici di domus e villae. L’equilibrio biologico degli altipiani è stato distrutto per sempre e la Tunisia perde ogni anno all’incirca 23.000 ettari di terra coltivabile a causa dell’erosione. Le regioni del Tell dedicate alla coltura dei cereali fin dall’epoca romana sono segnate da profonde gole causate dai fenomeni erosivi e molti terreni un tempo agricoli oggi sono adatti solo a pascolo. Gli enormi consumi idrici richiesti dall’industria turistica hanno abbassato il livello dei pozzi artesiani e prosciugato le sorgenti: questa situazione è evidente soprattutto a Djerba dove le esigenze idriche degli alberghi e dei resorts dell’isola hanno minacciato la sussistenza dell’agricoltura e reso l’acqua non potabile.

A buon diritto si può affermare quindi che i turisti abbiano assunto il ruolo dei nuovi coloni delle zone costiere del mediterraneo. Certo l’attività turistica è destinata a provocare, seppur in maniera più limitata del dovuto, anche ricadute positive; così il miglioramento delle infrastrutture e dei servizi determinato e spesso imposto dalle grandi compagnie di turismo, produce, in ogni caso vantaggi anche per i residenti e le popolazioni locali e consente spesso rapidi miglioramenti di reti idriche, elettriche, stradali. Proprio perché fattore determinante e ormai irrinunciabile di sviluppo, il fenomeno va quindi piuttosto governato e ridefinito, alla luce di differenti obiettivi come quelli di salvaguardia culturale e ambientale, gli unici compatibili, del resto, con proiezioni di sviluppo economico a lungo termine. Occorre insomma uscire dall’alternativa esiziale: sottosviluppo attuale vs depauperamento a medio e lungo termine. Alla fase di stagnazione del modello Butler cui le attuali tendenze rischiano di condurre inevitabilmente queste aree e che è caratterizzata da un uso eccessivo delle risorse e dalla crescente opposizione locale oltre che all’esplicitarsi di problemi ambientali e sociali, bisogna contrapporre azioni di aggiustamento e vera e propria riduzione dei ritmi di crescita, così come imposto dalle sempre più urgenti azioni di protezione delle risorse.

Gli introiti derivati dal turismo debbono rimanere nei paesi ospitanti ed essere destinati a opere di protezione ambientale.

Qui come altrove, qui più che altrove, occorre costruire in maniera eco-compatibile. Complessivamente vi è quindi la necessità di compiere uno sforzo intellettuale per immaginare approcci alternativi, dal punto di vista urbanistico e culturale prima di tutto. In questa direzione e in tempi recentissimi, qualcosa si sta muovendo: ad esempio ad opera di gruppi di urbanisti- architetti spagnoli che propongono, oltre all’istanza ‘zero consumo’ di nuovo territorio, un sistema di azioni destinate ad attivare un turismo ‘attivo’, fondate sulla molteplicità e sovrapposizione di usi di una determinata area e creatrici di quella che viene definita “intelligenza di costa”. Analogamente, in un’altra area mediterranea dove ci si confronta da alcuni anni con le conseguenze di questo turismo invasivo, la Croazia, attraverso il Matra Projects Program finanziato dal ministero degli affari esteri olandese a sostegno del processo di trasformazione nelle aree del centro ed est europa, si sta sostenendo l’attività dell’Associazione di architetti croati che ha elaborato una serie di progetti fondati su un’impostazione ideologica alternativa ai modelli correnti. Secondo tale impostazione i cambiamenti territoriali possono essere solo il frutto di una intelligenza collettiva, debbono coinvolgere tutti i rappresentati dello spazio sociale e si pongono come fine, oltre ad un diverso modello di sviluppo del territorio, una forma di democratizzazione della società stessa.

Infine, la rete. Anche in questo ambito Internet può dare una mano dispiegando innanzi tutto le proprie potenzialità di strumento di critica attiva. La rete può innescare positivi dispositivi di autorganizzazione: così come ha contribuito ad un generale abbassamento dei costi dei viaggi aerei ed ha incrementato una reale competizione fra tour operators, così può contribuire a creare e consolidare, ad esempio, le comunità e le pratiche del turismo fair-trade, che attualmente seppur in crescita, rappresentano ancora percentuali troppo minoritarie per poter incidere sull’impatto globale. Attraverso Internet si possono diffondere notizie per itinerari meno banali e scontati e accrescere una maggiore consapevolezza nei confronti dei luoghi visitati, dando voce ad opinioni alternative e soprattutto al punto di vista dei locali e proponendo alternative ai circuiti chiusi e rigidamente consumer-oriented della maggior parte dei tour operators e della consona documentazione di viaggio oggi disponibile.

Durante una riunione di lavoro al museo del Bardo, ci sono giunte le notizie degli attentati londinesi: nello smarrimento iniziale, con sottile inquietudine, ho avvertito come i commenti dei nostri ospiti fossero improntati oltre che alla dovuta pietas nei confronti delle vittime, anche ad una sorta di neutrale constatazione dell’inevitabile. Anche lì, nella laica, occidentalizzata, modernista Tunisia, dove i rigurgiti di integralismo islamico, pur esistenti e periodicamente riafforanti come fuoco sotto la cenere, sono stati sempre stroncati, a volte brutalmente. “Non cambieremo il nostro stile di vita” abbiamo ripetuto – noi occidentali – in quei giorni, eppure l’impressione, da quei luoghi, è che se per molti aspetti non impareremo a farlo (ovviamente in altro senso da quello prefigurato da terroristi brutali), chi è dall’altra parte troverà motivi altrettanto forti del mantenimento di uno status quo.

E pensare che poche sere prima, durante il concerto di Riccardo Muti nell’anfiteatro romano di El Djem, alle 10,30 il maestro aveva interrotto ex abrupto l’esecuzione perchè il muezzin della vicina moschea potesse recitare la sua preghiera: in quell’atmosfera irreale e fantastica creata da un silenzio sospeso e dalle mille candele che illuminavano i fornici di pietra rosa una convivenza possibile era sembrata, a tutti noi, così vicina, così inevitabile.

* Il ciclo Butler ( http://www.geographyonline.co.uk/sitetour/resources/leisure/info3.html ) utilizzato per l’analisi dell’evoluzione del fenomeno turistico è contraddistinto dal succedersi delle fasi di: esplorazione, coinvolgimento dei locali, sviluppo, consolidamento, stagnazione, cui può eventualmente seguire una fase di ripresa.

L’introduzione dell’articolo 14 (legge obiettivo per il turismo di qualità) nel Decreto sulla competitività, proposto dall’on. Crosetto (FI) merita qualche ulteriore considerazione. La proposta di cedere in concessione a privati beni demaniali costieri per un periodo di 90 anni al fine di impiantare strutture alberghiere di qualità e case da gioco, per contribuire al decollo dell’economia del Mezzogiorno, in deroga a qualunque previsione urbanistica e di tutela vigente, è la cosiddetta ciliegina sulla torta. La trovata si inserisce infatti perfettamente in quella linea di pensiero e di azione più volte esplicitata dall’attuale maggioranza politica al governo del paese sintetizzabile nell’obiettivo di rastrellare risorse economiche comunque e dovunque, senza andare troppo per il sottile.

La famosa cartolarizzazione, cioè la vendita del patrimonio immobiliare pubblico, con la conseguenza di un gran numero di sfratti agli inquilini di case di proprietà di enti pubblici, per non parlare delle implicazioni squisitamente culturali sulla alienazione del patrimonio edilizio storico; la deregulation in campo urbanistico con l’ingresso sempre più invasivo del privato nelle decisioni urbanistiche, consacrato nella legge nazionale sul “governo del territorio” nota come legge Lupi, fortunatamente bloccatasi per mancanza di copertura finanziaria, sono alcune delle performances più significative dell’attuale maggioranza politica al governo del paese.

A onor del vero l’insofferenza verso le regole dell’urbanistica (i cosiddetti lacci e lacciuoli che impediscono la libera iniziativa degli imprenditori privati) si è manifestata da più di un decennio e ha prodotto il varo di strumenti urbanistici che prevedono l’affermazione del partenariato pubblico-privato, il ruolo crescente del partner privato e la deroga sistematica alle norme contenute negli strumenti urbanistici. Ci riferiamo ai cosiddetti “programmi complessi” tra cui si annoverano i PIT (Programmi integrati di intervento) i PRUSTT (Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio); iniziative promosse da privati, spesso sostenute da finanziamenti europei, con percorsi molto accelerati di progettazione e di approvazione, a scapito della qualità progettuale e della trasparenza delle procedure.

Sulle questioni accennate non ci è sembrato cogliere un grande interesse e un adeguato atteggiamento critico da parte delle forze politiche del centro-sinistra, che sono sembrate tendenti a sposare tout-court le innovazioni, dimenticando forse che la paleo-urbanistica, tradizionalmente affidata al soggetto pubblico, nonostante alcune innegabili rigidezze, garantiva almeno irrinuciabili fasi di pubblicizzazione delle scelte urbanistiche e di democrazia partecipativa alle scelte stesse (pubblicazione dei piani, osservazioni e opposizioni dei cittadini e dei soggetti portatori di interessi collettivi come le associazioni culturali, ambientaliste, etc..). Le procedure accelerate, gli “sportelli unici” e i “silenzi-assenso” rendono molto difficile l’informazione e la conoscenza delle iniziative proposte dal privato di turno.

Nell’art. 14 proposto dall’on. Crosetto troviamo tutti gli ingredienti di cui sopra tendenti a spianare la strada del privato, ma gli stessi contenuti e obiettivi erano stati dichiarati più volte in precedenza dall’on. Miccichè, in varie interviste rilasciate da quando ha assunto la carica di Ministro per la Coesione Territoriale (?) con particolare riferimento allo sviluppo del Mezzogiorno.

Ascoltando e leggendo le interviste dei suddetti politici c’è da chiedersi in che misura essi conoscano il Mezzogiorno, le relative angosciose problematiche, le straordinarie risorse territoriali, ancorchè sottoutilizzate, e che cosa intenda il Ministro Miccichè per “coesione territoriale.”

Il Mezzogiorno, come è noto, è una terra di forti squilibri e di grandi contraddizioni: abbandono e spopolamento delle aree interne; congestione delle aree costiere; inquinamento marino di natura antropica; carenza di infrastrutture territoriali di collegamento; dissesto idrogeologico; carenza idrica; crescita dissennata delle città con croniche carenze di attrezzature e servizi pubblici; degrado e abbandono dei centri storici; dismissioni industriali e crollo degli indotti; agricoltura precaria. A ciò fa da contraltare la ricchezza del patrimonio naturalistico, paesaggistico, storico, archeologico, culturale, ubicato anche in aree interne e poco conosciute; la qualità architettonica e paesaggistica dei centri storici; la gastronomia e alcune piccole produzioni pregiate che cominciano ad affermarsi; una nuova attitudine imprenditoriale nel settore dell’agriturismo e del turismo rurale che utilizza una piccolissima parte della grande quantità di manufatti storici diffusi nel territorio. Da non dimenticare, ovviamente, l’ipoteca della criminalità organizzata su qualsivoglia iniziativa.

L’art. 14 mette su carta le intuizioni del Ministro Miccichè sul ruolo salvifico del turismo d’élite per il decollo del Mezzogiorno, tramite le procedure deregolatorie di cui si è già detto e che sono state evidenziate da altri commentatori sulla stampa nazionale.

E’ stato evidenziato giustamente anche che l’impresa mafiosa, che è l’unica ad avere capitali da investire nel Mezzogiorno, correrebbe a vele spiegate a cogliere le opportunità offerte dalla nuova normativa, ivi compresa la possibilità di aprire case da gioco, che come tutti sanno, servono egregiamente a ripulire il denaro di provenienza sospetta.

Ma i problemi sono anche altri e investono il ruolo che può avere realisticamente il turismo per contribuire allo sviluppo economico delle comunità del Mezzogiorno. Infatti la crisi dei sistemi produttivi tradizionali sembra affidare lo sviluppo del territorio delle regioni meridionali quasi esclusivamente all’incremento delle economie derivanti dall’attività turistica, invocata sistematicamente, ma in maniera piuttosto astratta, nei documenti delle forze politiche e sempre più presente nei progetti di sviluppo locale, anche se in forme disorganiche e di dubbia efficacia.

A tali manifestazioni di indirizzo programmatico non è comunque corrisposta una crescita del settore turistico come rivelano dati e statistiche recenti; infatti, il turismo, per diventare una attività produttiva di rilievo, deve fare parte di un progetto politico complessivo, in grado di intervenire non solo su tutta la filiera dell’offerta turistica, ma anche sulla riqualificazione del territorio, sul ripristino dell’equilibrio ambientale, sull’integrazione dei collegamenti territoriali, sull’incremento della portualità, etc…

L’offerta turistica del Mezzogiorno, al centro del Mediterraneo, che costituisce uno dei più grandi bacini turistici esistenti, dove confluisce il 35% del turismo mondiale, è ancora poco articolata per genere con prevalenza del turismo balneare, caratterizzata da una breve durata (il periodo di luglio e agosto) e concentrata su poche località da sempre inserite nei circuti turistico-balneari tradizionali.

Sicuramente non basta il cosiddetto turismo d’élite (alberghi a cinque stelle, campi da golf e case da gioco) specie se destinato a congestionare ulteriormente le fasce costiere a dare una spinta significativa e sana allo sviluppo delle comunità del Mezzogiorno.

Una autentica sensibilità verso la “coesione territoriale” dovrebbe indurre il governo a occuparsi del Mezzogiorno in maniera più organica, guardando anche alle risorse potenziali espresse dalle aree interne come parchi e riserve naturali, aree archeologiche, centri storici, produzione agricola ed eno-gastronomica di qualità; risorse straordinarie, che comunque non riescono ancora a fare “sistema” e a diventare attrattori di varie tipologie di turismo.

Il Ministero della “coesione territoriale” forse dovrebbe iniziare ad applicare sul campo la ragione sociale che lo definisce.

Incrementare il turismo. Fare del turismo il volano della ripresa. Imparare a sfruttare l’Italia, paese particolarmente adatto - per le sue eccezionali qualità storiche, artistiche, paesistiche, climatiche - a un turismo d’élite non meno che a un turismo di massa. Eccetera. Sono auspici con insistenza ricorrenti sulle bocche di politici di ogni livello, leader di partito, ministri, presidenti di regione, sindaci di piccoli comuni periferici. Puntualmente seguono, pronunciate con virtuosa convinzione, frasi del tipo “Anche perché il turismo non inquina”, “Molto meglio che alimentare consumi inutili”. Eccetera.

Nessuno, ch’io sappia, ha mai avuto nulla da obiettare. Incredibile. Nessuno sembra riflettere un attimo sulla sorte di città uniche e preziose (vedi Firenze, Venezia, il centro storico di Roma, ma gli esempi potrebbero essere infiniti) addirittura stravolte dal turismo di massa. E non solo per via delle folle stipate e faticosamente semoventi all’interno di stradine minime, vicoli e callette, nati quando gli umani erano meno di un decimo di quelli oggi viventi sulla Terra, e solo una quota minima di loro abitava in città, la maggioranza essendo allora residente e operante nelle campagne. Stradine vicoli callette che addirittura la massa dei visitatori impedisce, a sé e agli altri, di vedere, e che d’altronde pur restando (quando accade, e accade sempre più di rado) gli stessi di quattro cinque sei più secoli fa, nella struttura muraria, nelle facciate, nei tetti, negli infissi, risultano radicalmente trasformati, privi di senso, se la bottega del vecchio artigiano è stata sostituita da un fast food, e il negozio d’abbigliamento di antica tradizione si è trasformato in una jeanseria, e accanto a una celebre cattedrale staziona una bancarella traboccante di “ricordini” in alabastro e finto murano, e dovunque c’è un minimo di spazio sono tavoli e sedie di caffè trattorie pizzerie a occuparlo, e i rifiuti si ammucchiano in libertà e in vigoroso aumento.

Nessuno sembra ricordare che è stato il turismo, ricco o povero, di massa o d’élite, la causa prima della mostruosa cementificazione delle coste, non solo italiane, ma spagnole, greche, turche, nordafricane, e via via del mondo intero, invase da alberghi albergoni pensioni seconde e terze case. Che sempre il turismo, nelle sue diverse pratiche e accezioni, alla caccia di sempre nuovi e più lontani “paradisi incontaminati”, è tra i responsabili dell’abbattimento di foreste millenarie per far posto a villaggi turistici e centri commerciali, del dissesto ecologico di interi arcipelaghi, e (con il moltiplicarsi di natanti di tutti i tipi e misure, di porti grandi e piccoli, di depuratori malfunzionanti o inesistenti, di bagnanti distratti o maleducati) del crescente e sempre più allarmante inquinamento dei mari di tutte le latitudini; e quindi della distruzione di irripetibili fondali, della perdita di un altissimo numero di specie vegetali e animali, il corallo in primis, di uno squilibrio cui non pochi studiosi attribuiscono anche tsunami sempre più numerosi e violenti.

Men che meno qualcuno sembra considerare quale cospicuo apporto alla generale crisi ecologica rappresenti la mobilità che per definizione al turismo appartiene, qualunque sia il mezzo di trasporto. Automobile, con relativa produzione di gas serra, e insieme crescita esponenziale di produzione di macchine, di autostrade, di problemi di traffico urbano ed extraurbano, di malattie dell’apparato respiratorio. Aereo, con analogo ma enormemente più alto contributo all’effetto serra, e non piccolo contributo alla cementificazione del mondo mediante la moltiplicazione di aeroporti di ogni dimensione. Treno, con minore ma non trascurabile impatto ambientale connesso al numero crescente dei convogli, all’apertura di nuovi tunnel, all’alta velocità, e così via.

So benissimo, nel dire queste cose, di attirare la dura riprovazione non solo di quanti, direttamente o indirettamente, sul turismo di massa vivono e prosperano, ma anche di coloro che lo vedono come una conquista sociale, come il diritto di accesso da parte di tutti (o quasi) a quello che era privilegio di pochi, come nuova opportunità esperienziale e cognitiva da annoverare sul piano del diritto alla scuola e al sapere nella sua interezza, come strumento di sensibilizzazione e arricchimento mentale. Ma siamo certi che questa sia la funzione, e questo sia il risultato, del tipo di viaggi e vacanze “tutto compreso”, così come vengono organizzati e offerti, a prezzi di “assoluta competitività”, insomma il tipo di turismo più diffuso, in quanto accessibile a quelle masse che un tempo dal turismo erano escluse?

Viaggi per gruppi massicci, organizzati come catene di montaggio, secondo tempi strettissimi e obbligati, tappe di un giorno o due quando non addirittura di poche ore in famose città d’arte e soste di qualche minuto di fronte ai monumenti più significativi, il tutto a volte sostituito da un giro in bus con la voce della guida a indicare il Colosseo, il Louvre, il Partenone. Sempre però lasciando largo spazio a foto e filmati, e puntualmente prevedendo visite al vecchio mercatino o al nuovissimo shopping center per gli acquisti ricordo, includendo nel programma ristoranti “etnici” con cibi tradizionali da tempo adattati ai gusti dei visitatori, serate in locali di folklore anch’esso debitamente riveduto e corretto; in un sapiente gioco di rimando e accumulo tra mercato turistico e tutti i possibili mercati collaterali. Quanto può tutto questo contribuire all’apertura mentale, all’arricchimento culturale, al fervore immaginativo di una persona? E analogamente - fatta salva la “ricreazione” fisica - quanto può servire a questi scopi la vacanza in terre sempre più lontane, che proprio l’afflusso turistico non solo rende sempre più somiglianti all’occidente (nell’edilizia, nel traffico, nella cucina, nell’intrattenimento, nella crescente disponibilità di merci di produzione occidentale appunto) ma separa dal contesto generale del paese, in un processo che non ne risana ma ne contamina e squilibra la realtà, sovente creando due economie parallele, una (relativamente prospera) in dollari, l’altra (poverissima) in moneta locale?

Il fatto è che il turismo è soggetto a quel processo di assimilazione di ogni attività individuale e sociale alla merce (alla progettazione, alla produzione, alla commercializzazione, al consumo delle merci), che sempre più definisce sotto ogni aspetto l’attuale forma del sistema capitalistico, cioè il neoliberismo; il quale solo all’aumento del prodotto finalizza il proprio agire, del tutto trascurandone i contenuti, la qualità, le conseguenze. E’ un processo che riguarda ormai la totalità dei servizi, inclusi quelli che più dovrebbero restarne immuni, in quanto riguardano quella che Engels chiamava “produzione delle persone”, appunto distinguendola dalla produzione di merci: cioè non solo sanità, istruzione, ricerca scientifica, informazione di ogni tipo, ma anche le tante altre attività che hanno una significativa ricaduta sociale e culturale, che intervengono nella formazione dell’immaginario e dell’inconscio collettivi, di cui anche il “divertimento” in tutte le sue manifestazioni (ivi compreso il turismo) è parte non certo secondaria.

C’è qualcosa da fare? Non molto, temo, finché le sinistre non si accorgeranno che adeguarsi alle politiche economiche della destra, continuando a inseguire crescita, competitività, profittabilità, ecc., imponendo la quantità come categoria portante del nostro esistere, così come oggi accade, ci sta conducendo alla catastrofe, e non solo ambientale. Dopotutto il turismo, così come viene proposto e praticato oggi, appartiene a questa logica. Forse però, anche senza uscire da questa logica (cosa per ora difficilissima), si potrebbe riflettere che puntare sul continuo aumento del turismo per la ripresa economica, significa distruggere proprio quello che fa del nostro paese una meta turistica privilegiata, e dunque pervenire all’effetto opposto.

O si potrebbe almeno smettere di affermare che il turismo non inquina?

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