legati mani e piedi all'industria del marmo, dall'altra un movimento che guadagna terreno per la forza delle ragioni: in mezzo un'opinione disorientata dalla propaganda di chi oppone economia e lavoro all'ambiente». Il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2014
Verrà un giorno in cui le Alpi Apuane saranno come i dinosauri: sparite. Con la differenza che dovremo spiegare ai nostri figli che siamo stati noi a distruggere un pezzo straordinario del nostro territorio e della nostra vita. Parlare delle Apuane vuol dire descrivere – attraverso un caso estremo, e dunque più comprensibile – la situazione di tutto ciò che la Costituzione chiama «paesaggio e patrimonio storico e artistico della nazione». Le Apuane sono cancellate da una industria che crea sempre meno occupazione; sono cancellate in violazione delle leggi vecchie e nuove (per esempio annullando le linee di cresta anche sopra i 1200 metri di altezza, in barba al Codice del paesaggio); sono cancellate inquinando acqua e aria, e abbassando la qualità della vita degli abitanti (si pensi solo ai 700 camion che attraversano ogni giorno Carrara); sono cancellate da una politica incapace (per ignoranza e corruzione) di comprendere che è possibile un'altra economia; sono cancellate dal silenzio mediatico.
All'inizio del Novecento i cavatori erano 14.000, oggi sono poco più di mille, ma la loro produttività è andata alle stelle. Ogni anno si estrae un milione e mezzo di tonnellate di marmo, distruggendone però quasi dieci milioni. Il professor Elia Pegollo, che viene da una famiglia di cavatori, ha calcolato che col materiale escavato ogni anno si potrebbe lastricare un'autostrada a quattro corsie di 2500 km: da Firenze a Stoccolma, per intenderci. Ma l'80% del volume che ogni anno sottraiamo alla montagna non finisce in opere di architettura o scultura, bensì in filtri per acquedotti, adesivi edilizi, vernici e sbiancanti, industria alimentare, dentifrici. Il che rende grottesco l'uso abusivo della retorica michelangiolesca: come ha scritto lo storico dell'arte Fabrizio Federici, «se davvero, come poetava Buonarroti, le figure portate alla luce dallo scultore fossero già racchiuse entro il blocco di marmo, si assisterebbe a una quotidiana mattanza di Madonne e Bambini, di Veneri, di atleti, ridotti in scaglie e in polvere».
E mentre gli interessi speculativi sauditi sono accolti a braccia aperte, il Coordinamento imprese lapidee del Parco delle Apuane ha dichiarato una guerra santa contro il Piano Paesistico Regionale della Toscana, voluto dall'assessore Anna Marson (che è stata oggetto di pesanti attacchi personali). Il perché di una reazione così violenta lo ha chiarito bene l'urbanista Paolo Baldeschi: «Ma qual è il peccato mortale del Piano? La colpa è di cercare di frenare il taglio delle vette al di sopra dei 1200 metri e di limitare l’estrazione all’interno del Parco delle Apuane, facendo salve le concessioni esistenti, ciò che ha provocato la netta contrarietà del Presidente del Parco, (vicepresidente uscente, già segretario del Pd di Fivizzano), evidentemente più sensibile agli interessi dei cavatori che a quelli dell’ente da lui presieduto». D'altro canto, continua Baldeschi, «il Coordinamento dimentica di dar conto delle inadempienze sistematiche delle aziende impegnate nelle attività estrattive: la mancanza di raccolta delle acque a piè di taglio, l’assenza o il mancato utilizzo degli impianti di depurazione spesso esistenti solo sulla carta, i rifiuti abbandonati nelle cave dismesse, la mancata attuazione dei piani di ripristino, una diffusa e impunita inosservanza di regolamenti e prescrizioni. Si dimentica, altresì, dell’inquinamento delle falde, delle sorgenti e dei torrenti, della diffusione di polveri sottili, degli innumerevoli danni ambientale e paesaggistici».
Da una parte gli interessi dell'industria del marmo e una politica locale ad essi legata mani e piedi, dall'altra un movimento di opinione che guadagna terreno grazie alla forza delle proprie ragioni: nel mezzo un'opinione pubblica disorientata dall'eterna propaganda di chi oppone le ragioni dell'economia e del lavoro alle ragioni dell'ambiente. La sfida è quella di far comprendere che questa opposizione è un clamoroso falso, alimentato ad arte da chi ha interesse nella perpetuazione dell'attuale economia di rapina.
Sabato scorso è tornato a riunirsi a Casola, in Lunigiana, il movimento Salviamo le Apuane, e martedì prossimo si occuperà dello stesso tema la Rete dei Comitati, convocata a Firenze. L'obiettivo non è solo quello di fermare la distruzione delle Apuane, ma anche e soprattutto dire che un'altra economia apuana è possibile, e che è tempo di mettere a punto un Piano Alternativo di Sviluppo per le Alpi Apuane. Il messaggio è quello contenuto nella Carta delle Apuane, redatta nel 2010: «Le Apuane sono sottoposte ad un regime monocolturale che mortifica ed impedisce uno sviluppo economico potenzialmente notevole: si afferma dunque che la monocoltura della cava è incompatibile con lo sviluppo economico ed occupazionale del territorio ... Le Apuane possono diventare il cuore di un modello economico diverso, più equo e più fertile, che rifacendosi alle ricchissime quantità di risorse naturali, antropiche, idrogeologiche e paesistiche di questa catena, unica nel Mediterraneo e in Europa, possa estendersi alle colline e alle città costiere, nonché ai parchi limitrofi (Cinque Terre, Appennino, Magra, San Rossore) fino a costituire un formidabile complesso sociale ed economico, oltre la crisi e la bolla finanziaria». Con le Apuane, insomma, si può anche mangiare: se non ci divoriamo le Apuane.
Mentre auspichiamo che il piano paesaggistico possa entrare in vigore al più presto, sfuggendo alle forche caudine della cattiva politica, per dare una risposta certa e concreta al consumo di suolo, portiamo all’attenzione la contraddizione di una Regione che favorisce da decenni una devastazione senza precedenti in un Parco Regionale, da due anni promosso GeoParco Unesco, cioè il Parco Regionale delle Alpi Apuane. Il Parco è nato con le cave al suo interno, è nato ostaggio della politica e di pochi industriali.
Un convegno molto utile per capire, a San Casciano. Flavio Cattaneo (amministratore delegato Terna), Roberto Colaninno (presidente Alitalia), Vito Gamberale (amministratore delegato del fondo F2i, specializzato in investimenti in reti e infrastrutture), Mauro Moretti (amministratore delegato ferrovie italiane). Quattro nomi che interverranno nella giornata conclusiva del convegno "Le reti che fanno crescere l'Italia". Quattro nomi che rappresentano il ponte di comando delle infrastrutture italiane e dei relativi interessi e fin qui siamo all'ordinario lobbismo; ma che assumono un significato particolare se vi aggiungiamo Massimo D'Alema, Riccardo Conti e il ministro Altero Matteoli, i politici che parleranno insieme agli 'imprenditori'. La sede prescelta del convegno, che si terrà dal 10 al 12 novembre, è non casualmente San Casciano in Val di Pesa, il comune la cui pessima gestione del caso Laika per dichiarazione di Conti viene rovesciata in modello esemplare.
Il significato politico dell'incontro è del tutto evidente. Si vuole proporre un tipo di governance basato sull'intreccio fra (presunti) interessi pubblici e interessi privati alimentati con i soldi dei contribuenti. Il tutto in nome di una modernizzazione che ignora i problemi del territorio, della crescente scarsità delle risorse e che neanche i disastri e le alluvioni degli ultimi giorni riescono a riscuotere dal tetragono procedere verso l'insostenibilità sociale ed economica (oltre che ambientale). Una politica che vede il futuro della Toscana nel ruolo di piattaforma logistica dei trasporti e dei traffici nord-sud (meno di quelli est-ovest ha detto Conti con una puntatina di dissenso rispetto a precedenti dichiarazioni del presidente della Regione - quest'ultimo è solamente intervistato nella tre giorni). Un' iniziativa della parte più conservatrice del Pd a difesa delle posizioni di potere nella roccaforte, o presunta tale, toscana e chiaramente contro le timide aperture del governo regionale e la politica riformatrice dell'assessore al territorio, Anna Marson. Riccardo Conti, l'organizzatore, qui si presenta come vicepresidente dell'Associazione Romano Viviani a braccetto con la Fondazione Italianieuropei di Massimo d'Alema. Ma di fatto il suo ruolo è di coordinatore nazionale per le infrastrutture nel Pd, di consigliere di amministrazione di F2i (guarda caso) in rappresentanza del Monte dei Paschi di Siena e, sempre per la 'banca rossa' di consigliere amministrazione della società G6Rete Gas acquistata dal fondo F2i che diventa così il secondo distributore di gas in Italia, dopo Eni. Il tutto con la benedizione di Altero Matteoli, che di Conti condivide gli stessi interessi infrastrutturali e la stessa idea di una governance territoriale fatta da imprenditori e di politici cointeressati che fanno da riferimento a cooperative rosse e costruttori privati.
Notevole il fatto che nei tre giorni, per lo più popolati da politici e amministratori del Pd cresciuti nelle botteghe del partito e perciò sconosciuti alla società, siano stati invitati docenti universitari di vari atenei nazionali, ma non un solo docente toscano, nel momento che le Università di Firenze, Pisa, Siena formano una rete di atenei per la revisione del Piano di indirizzo territoriale, che a sua volta avrà qualcosa da dire su quali siano le reti che fanno crescere la Toscana. Ma ancora più notevole il fatto che non si accenni, nell'intervista di Conti apparsa su Metropoli (giornaletto locale di proprietà del coordinatore del Pdl Denis Verdini, che qui funge da cassa di risonanza del Pd), né ai movimenti e ai comitati che in Toscana sono attivi, non per contrastare, ma per qualificare in senso moderno, sostenibile e non cementizio lo sviluppo della reti (soprattutto immateriali), né all'opportunità e necessità di partecipazione dei cittadini.
D'altronde la politica come ramo specialistico delle professioni intellettuali che non deve essere condizionata dal 'popolo', vale a dire è sorda nei confronti della società civile, è il nocciolo del pensiero politico di D'Alema. Da qui le alleanze con i vari Matteoli, le pericolose frequentazioni dei Pronzato e dei Penati, il prolungato appeasement nei confronti di Berlusconi. E la triplice veste di Conti - che Bersani continua a ignorare - con i suoi corposi conflitti d'interessi, dà un pessimo segnale di contro-rinnovamento (dove il rinnovamento non è certo quello ultraliberistico di Renzi) e delude chi ancora spera nelle capacità del partito democratico di liberarsi dai condizionamenti delle conventicole affaristiche.
Quando la nausea mi assale succhio uno spicchio di limone. Quando ascolto storie come questa torno a leggere questo testo. Lo consiglio anche a voi
Il caso Laika, chiuso anche se malamente, suggerisce una riflessione su quanto dichiarato dai protagonisti nel dibattito che ha preceduto la decisione finale del presidente Rossi. Tutti, sindacalisti, politici e in particolare la presidente della Confindustria toscana, hanno ribadito la necessità di uno sviluppo industriale sostenibile, rispettoso dell'ambiente; ma né industriali, né sindacati, né politici sono veramente entrati nel merito della questione. Non basta dire sviluppo rispettoso dell'ambiente e del paesaggio, bisogna dire quale sviluppo; né sembra credibile che gli orizzonti dello sviluppo industriale toscano possano essere inquadrati genericamente in un rilancio dell'industria manifatturiera, come più volte è stato ribadito dai presidenti di Regione Toscana e Confindustria (mi chiedo, fra l'altro, se questa categoria ottocentesca significhi ancora qualcosa nel ventunesimo secolo, o se convenga inventare altri termini, che indichino come protagonisti i talenti e i cervelli oltre che le mani). L'impressione è che ancora si proceda a forza di slogan, forse utili nella polemica, ma poco costruttivi in prospettiva. Sarebbe, invece, opportuno esaminare alcuni possibili scenari produttivi e stabilire a quali condizioni possano coniugarsi con ambiente e paesaggio. Ne indico alcuni, come emergono dagli studi dell'Irpet e da vari documenti della Regione.
Il primo è il rilancio dell'industria tradizionale, che si esprime tipicamente nel distretto. Questa potrà sopravvivere solo ricollocandosi in produzioni di alta qualità, incorporando innovazione tecnologica e di mercato e a patto di avere dimensioni e spalle finanziarie; quindi, buona parte dell'industria tradizionale soffrirà di una crisi irreversibile.
Una seconda opzione è costituita da attività produttive che potrebbero insediarsi in Toscana attratte da alcuni vantaggi territoriali, comprese quelle di immagine, di 'brand'. Ben vengano, soprattutto se operano in settori avanzati, ma a condizione che non pretendano varianti ad hoc degli strumenti urbanistici; meglio ancora se utilizzeranno (in qualche caso ciò accade) edifici rurali o dismessi. Fattore di attrattività e allo stesso tempo, difesa rispetto a la scelta casuale dei siti, è la capacità da parte delle amministrazioni locali di offrire aree ben attrezzate, accoglienti ecologicamente ed esteticamente valide; ciò che richiede un coordinamento fra i diversi comuni gravitanti in una stessa zona economica, essendo impossibile che ognuno si costruisca o riconverta la propria area industriale in concorrenza con gli altri.
Una terza opzione, è lo sviluppo di una piattaforma logistica fatta di infrastrutture pesanti. Senza nulla togliere alla necessità di integrare i vari pezzi del sistema logistico toscano con porti e poli produttivi, pensare che questa sia la strada maestra per la modernizzazione dell'apparato produttivo regionale deve fare i conti con la necessità di raggiungere livelli di efficienza e competitività pari a quelli tedeschi, francesi o olandesi; un obiettivo difficile, se non impossibile, sia per mancanza di risorse finanziarie, sia perché la Toscana rimarrebbe comunque un appendice del sistema europeo. Inoltre, questa opzione va contro ai caratteri specifici del nostro paesaggio che ne costituiscono un fondamentale fattore concorrenziale, perché inevitabilmente impatta violentemente sul territorio. In parte collegata alla precedente vi è la questione delle grandi aree industriali localizzate sulla costa, dismesse o in crisi; che, tuttavia non possono essere trasformate, come alcuni vorrebbero, in case, alberghi e centri commerciali; una possibilità sarebbe la loro riconversione in parchi tecnologici (declinazione sostenibile della piattaforma logistica) da supportare con mirati investimenti infrastrutturali; una strada, tuttavia, che anch'essa chiede risorse e tempo. Queste e altre possibilità, compresi punti di forza e di debolezza, dovrebbero essere discusse e in questo contesto si potrebbe parlare concretamente di sviluppo in rapporto ad ambiente e paesaggio e dei limiti di un loro 'rispetto' declinato essenzialmente in termini di mitigazione, al meglio di sostenibilità intesa come 'carrying capacity'.
Per chi ne ha le chances (e la Toscana forse ne ha più che ogni altra regione al mondo) ambiente e paesaggio dovrebbero essere, al contrario, ingredienti costitutivi di uno sviluppo durevole, fattori essenziali di modernizzazione e competitività, non esternalità da mitigare e compensare a posteriori. L'orizzonte industriale da perseguire dovrebbe, perciò, essere basato sulla conoscenza, le tecnologie avanzate, la ricerca, i servizi di information technology, il know-how. Attività 'amenity oriented', che fanno della qualità dell'ambiente e del paesaggio un requisito essenziale di attrattività: per frenare, oltretutto, la fuga dei giovani laureati e dei ricercatori, che, secondo le stime di Confindustria, costa all'Italia più di un miliardo di euro all'anno.
Senza nulla togliere alle giuste rivendicazioni degli operai che, tuttavia, riguardano il 'qui e ora', è quindi il momento di aprire sul tema 'sviluppo, ambiente, paesaggio' un confronto aperto e senza pregiudizi: forse da questo potrebbe nascere una collaborazione per una Toscana più moderna e virtuosa e meno legata a produzioni obsolete, fra cui spicca l'edilizia delle seconde e terze case. Con un'ultima postilla: non si può non essere d'accordo con il presidente della Confindustria toscana, quando dice che le regole, quando ci sono, devono essere rispettate. Ed è vero che un'economia moderna non può crescere nell'anarchia; perciò, si presume, d'ora in poi l'associazione degli industriali stigmatizzerà la diffusa violazione di leggi e piani da parte di molti Comuni toscani, in stretta collaborazione con un mondo imprenditoriale che guarda più alla rendita che al profitto.
Gentile Presidente, gentile Direttrice, come forse sapranno, alcune settimane fa sono intervenuto con una breve nota (http://eddyburg.it/article/articleview/17623/1/92) in merito alla questione dei rinvenimenti archeologici di San Casciano. Il mio intervento, come archeologo e come cittadino italiano interessato alla conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, si limitava a brevi considerazioni e soprattutto a porre alcune domande, che nel frattempo non hanno ricevuto alcuna risposta. E nessuna risposta, mi sembra, ha ricevuto anche Salvatore Settis, che ha espresso pubblicamente i suoi dubbi e le sue riserve.
Poiché non conosco la situazione, non disponendo di informazioni di prima mano (e come me, credo, nessuno, al di fuori della stretta cerchia degli addetti ai lavori), non posso e non voglio entrare, anche in questa occasione, nel merito del significato e del valore, dell’entità scientifica e culturale del ritrovamento, né del perché dell’assenza di indagini preventive che probabilmente avrebbero evitato questa contrapposizione, e nemmeno delle scelte - a mio parere assolutamente discutibili, anche se certamente legittime e, in altri casi eccezionali, praticate - di ‘delocalizzare’ i resti archeologici (uso volutamente questa brutta espressione), pur restando dell’idea, come avevo già scritto, che:
a) «se i ritrovamenti sono relativi a “pochi muretti”, come qualcuno sussurra, si abbia il coraggio di portare la decisione alle estreme conseguenze, si documenti e si pubblichi l’intero contesto archeologico, e lo si sacrifichi autorizzando la costruzione del capannone al di sopra dei resti»;
b) «se, invece, si trattasse di elementi di grande interesse storico-archeologico, tali da richiederne addirittura lo smontaggio e la ricollocazione in altro luogo, allora forse sarebbe il caso di riesaminare più attentamente la questione, privilegiando la conservazione in situ».
Il problema che invece pongo, a questo punto, è un altro, forse ancor più significativo, perché tocca la concezione democratica e trasparente dell’archeologia. Perché non si sono fornite notizie sui ritrovamenti? Perché non si sono aperti i cantieri ad archeologi, ad esperti, ad associazioni, ai cittadini, come avviene in tutti i paesi europei, anche in problematici contesti urbani e rurali? Corrisponde a verità quanto si dice a proposito della minaccia dell’intervento delle forze dell’ordine per impedire alla stampa la ripresa fotografica e video dei resti?
L’opacità produce sempre dubbi e sospetti. L’archeologia ha bisogno di trasparenza e di coinvolgimento sociale.
Il prossimo anno terremo a Firenze un convegno sull’Archeologia Pubblica, al quale un gruppo di archeologi, tra cui chi scrive, sta lavorando da tempo. Come potremmo parlare di archeologia pubblica, di ruolo sociale dell’archeologia, di partecipazione democratica, mentre non si garantisce nemmeno, in situazioni come queste, un minimo di trasparenza?
Sono sicuro che, anche in questa occasione, la Regione Toscana, regione di solide tradizioni democratiche e modello di politiche di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, saprà offrire una risposta capace di fugare quei dubbi e quei sospetti che finora questa triste vicenda ha oggettivamente prodotto.
Con i saluti più cordiali e con grande stima
Giuliano Volpe
Con il comunicato di ieri del presidente della Regione Enrico Rossi e con l’intervista di oggi su Repubblica di Antonella Mansi, presidente di Confindustria Toscana, la vicenda Laika al Ponterotto passa ad una nuova fase. E’ vero, abbiamo cercato di impedire il trasferimento dei reperti archeologici che per quasi tutti (tranne i responsabili, per l’appunto) è uno scempio senza senso, che ci coprirà di ridicolo. Una soluzione poteva anche essere trovata, lasciando i reperti al loro posto e modificando la planimetria del capannone: ma non ne hanno voluto sapere. Vogliono far presto e bene, come dice spesso Rossi: perderanno un sacco di tempo (e di soldi) e faranno male, diciamo noi.
Tutto ciò ha contribuito a rimettere in luce una vicenda lunga dieci anni, pieni di dubbi e di passaggi poco chiari. Il terreno, agricolo, è stato venduto a prezzo industriale come dice oggi il direttore di Laika De Haas, e ripete il presidente Rossi, oppure no? Circa 20 € al metro quadro, nel 2002, sono tanti o pochi? Quali erano le alternative, se sono state cercate, e se no, perché? E la lunga procedura della valutazione, richiamata dal Sindaco, è stata una cosa seria o una farsa? E le cosiddette mitigazioni, a cui ancora oggi ci si appella, hanno ancora senso, dopo la scoperta dei reperti? E perché non è mai stato fatto un serio rilievo del terreno, quando era il momento? E chi, fra i responsabili ai vari livelli, conosce davvero la consistenza dei ritrovamenti, sui quali non è ancora stata prodotta alcuna relazione? E perché tutta questa segretezza, nel tenere nascoste decisioni già prese più di un anno fa, nell’impedire addirittura la visione dell’area ai “non addetti ai lavori”?
Queste domande resteranno senza risposta, anche se si può dire che se prima se ne parlava solo a San Casciano, ora se ne parla in tutta Italia. Ma partiamo dall’episodio di giovedì 13 ottobre, ben documentato su: http://inchieste.repubblica.it/. Nel corso della preparazione di un servizio sul caso Laika due giornalisti di Repubblica, Francesco Erbani e Mario Neri, si avvicinano con la telecamera per riprendere, dall’esterno, la zona degli scavi più vicina alla strada provinciale, dove stanno lavorando alcuni addetti della Soprintendenza: i quali accorrono subito al cancello del cantiere, intimano ai due giornalisti di andarsene e minacciano l’intervento dei carabinieri. Il tutto in nome del “Codice del Paesaggio”, che dovrebbe, a sentir loro, tutelare la riservatezza degli operatori, anche quando si tratta di beni culturali oggetto di discussioni pubbliche (e di fotografie sui giornali). Un simile trattamento non era certamente stato riservato, solo due giorni prima, ai rappresentanti delle categorie, inclusa Confindustria, invitati dal Sindaco alla presentazione del progetto e alla visita degli scavi. Il Codice non dice niente di simile, ovviamente, ma l’episodio è indicativo di un certo modo di procedere, che d’ora in avanti sarà bene cambiare profondamente.
Il quadrato intorno a Laika, come titolava la settimana scorsa il giornale locale Metropoli, formato da amministrazione comunale, partiti (PD + PdL) sindacato e Confindustria, è così “magico” che ha sempre pensato di far scomparire con un tocco di bacchetta ogni forma di dibattito fondato sulla conoscenza dei fatti. Se la scoperta dei reperti archeologici è venuta a galla, già all’inizio dei lavori nella primavera del 2010, lo dobbiamo al fatto che alcuni cittadini curiosi, che ben conoscono questa parte del territorio, seguivano con molta apprensione lo sviluppo del cantiere, ben sapendo che quel terreno nascondeva notevoli sorprese, come infatti si stava puntualmente verificando. L’impresa non poteva far altro che chiamare la Soprintendenza archeologica, che in un primo tempo accettava qualche forma di dialogo con i visitatori (i curiosi) locali. Quando le prime pietre cominciano a venir fuori dal terreno, secondo i solerti scavatori sono solo tracce di quei muretti che si mettono intorno agli olivi (forse in Puglia?): al che un agricoltore del posto fa notare che in quel fondovalle gli olivi non si coltivano, bisogna salire un centinaio di metri più su. Si trattava infatti del sito di origine etrusca, che emergeva ai piedi della collina accanto a una fontana settecentesca: proprio quello che i curiosi locali si aspettavano. Ne dà conto, del ritrovamento, un breve trafiletto su Repubblica del 7 giugno, che fa imbestialire la Soprintendenza. E qui si chiude ogni possibilità di rapporto amichevole con le autorità preposte allo scavo.
A una mia cortese richiesta via mail, l’ispettrice Alderighi rispondeva: “Le comunico che la situazione è del tutto tranquilla; è stato previsto un controllo archeologico dell'area su mia indicazione fin dal momento della procedura per la VIA; gli scarsi rinvenimenti che possono avere un interesse archeologico sono di minima importanza e verranno valorizzati nel miglior modo possibile”. E proseguiva con un tono sempre più seccato: “La curiosità sua e della popolazione deve attendere ancora un po’ in quanto è norma di questa Soprintendenza non rendere noto alcun risultato né agli studiosi né ai curiosi se non al termine dei lavori e, per iscritto, sul Notiziario della Soprintendenza che viene pubblicato l'anno successivo; pertanto, da parte di questa Soprintendenza, come per tutte le attività in altri siti, non è autorizzato alcun sopralluogo né rilasciato alcun comunicato durante i lavori; ad ogni modo si tratta di un cantiere privato e quindi, anche per quanto riguarda l'intero cantiere, a prescindere dai miseri ritrovamenti, un eventuale sopralluogo deve essere autorizzato dalla Proprietà”.
La mail è del 9 giugno dell’anno scorso. Soltanto di recente, nel mese di settembre, veniamo a sapere che nello stesso mese di giugno quella stessa Proprietà, con la maiuscola, aveva avanzato la richiesta di trasferire i “miseri ritrovamenti”, che allora comprendevano solo il sito etrusco-ellenistico, in altra sede: per poi estendere la richiesta, tre mesi dopo, a proposito del sito della villa romana. La richiesta era stata accolta dalla Soprintendenza regionale, e inviata a Roma al Ministero, che poi finirà per accoglierla, come è noto. Di tutto questo non trapela nulla, né sulla stampa né negli atti dell’amministrazione comunale.
Ogni tentativo di saperne di più era stato frettolosamente respinto. Cito dall’ordine del giorno presentato il 29 settembre da Lucia Carlesi:
“con domanda di attualità (delibera CC n. 26 de1 12 aprile 2010) furono richieste informazioni circa i ritrovamenti che stavano emergendo a Ponterotto avanzando richiesta di massima trasparenza e conoscenza del progetto e l'Amministrazione assicurò la presentazione di una relazione; la commissione Ambiente e Territorio nella seduta del 16 giugno 2010 esaminò la richiesta di sopralluogo sul cantiere Laika avanzata dei gruppi consiliari Laboratorio per un'Altra San Casciano-Rifondazione Comunista, Futuro Comune e Popolo della Libertà, per prendere visione degli scavi in corso e che tale richiesta fu respinta;”
Del trasferimento dei reperti si viene a conoscenza soltanto nello scorso agosto, anzi alla fine del mese, perché chi va a pensare che una delibera così importante venga presa dalla Giunta comunale il primo di agosto, senza alcuna pubblicità. E chi si poteva aspettare che il primo atto ufficiale in cui si parla di “accordo per la disciplina dei rapporti per la rimozione, ricollocazione, restauro e valorizzazione delle strutture archeologiche rinvenute in San Casciano Val di Pesa, località Ponterotto” venga non dalla Soprintendenza o dalla Regione, ma dalla Giunta che anticipa – senza neppure interpellare il Consiglio: e qui hanno commesso anche un errore procedurale, molto probabilmente – un protocollo che tutti gli interessati dovrebbero poi firmare. Qui si può dire che l’abitudine a lavorare di nascosto aveva preso un po’ la mano, ai nostri amministratori, forse convinti che nessuno si sarebbe accorto di quello che stavano facendo. Tanto più che se poi andiamo alla ricerca di qualcosa che somigli a un progetto di questa famosa “ricollocazione e valorizzazione” dei reperti dobbiamo andare a pescarlo in una deliberuccia precedente, risalente al 27 giugno, dal misterioso titolo “progetto esecutivo di valorizzazione dei siti archeologici e del parco sportivo ‘la Botte’ attraverso un sistema integrato di segnaletica turistica”.
Come mai il Sindaco avrà aspettato l’11 ottobre per presentare ufficialmente un progetto che se ne stava ben nascosto da tre mesi e mezzo? Come mai avrà scelto di presentarlo ai rappresentanti delle associazioni di categoria, e soltanto a loro: con successiva visita a “quei quattro sassi”, come li ha definiti la presidente di Confindustria? La risposta è semplice: perché solo nel mese di settembre un serio lavoro di denuncia e di comunicazione ha impegnato associazioni e comitati, oltre all’unica forza di opposizione rappresentata in Consiglio Comunale, quella di Laboratorio per un’altra San Casciano – Rifondazione Comunista. E’ stato sufficiente inventare un sito (http://archeopatacca.blogspot.com/), preparare qualche comunicato che dava pubblicità alla protesta per la mancanza di trasparenza. I primi attestati di solidarietà sono venuti proprio dal mondo degli archeologi, per i quali la stessa idea dello spostamento dei reperti suonava come uno scherzo di cattivo gusto. “La cosa che sollecita la mia curiosità e presenta, fin da subito, alcuni lati enigmatici è relativa al progetto di rimozione e ricollocazione dei resti archeologici: una procedura, tecnicamente assai problematica, alquanto rara e costosa”, così Giuliano Volpe il 12 settembre sul sito eddyburg, uno dei principali luoghi del dibattito sul territorio su scala nazionale.
Al resto ci hanno pensato proprio i sostenitori del progetto Laika, che per difenderlo con ogni mezzo hanno finito per contribuire a fare da cassa di risonanza: fino all’invasione del Consiglio Comunale in occasione della discussione su un ordine del giorno presentato da Lucia Carlesi, l’unica consigliera contraria all’operazione, accusata di voler togliere il lavoro agli operai e sottoposta a un vero e proprio tentativo di linciaggio politico. Antonella Mansi attacca gli “ambientalisti in cachemere”, e l’assessore Anna Marson risponde per le rime. Ma anche in questo caso quella che sembrava una posizione isolata, a San Casciano, è stata oggetto di una solidarietà ben più vasta e significativa, estesa a tutte le componenti dell’ambientalismo vecchio e nuovo. Anche fra le forze politiche che sostengono la Giunta regionale si sono manifestati seri dubbi sulla correttezza dell’operazione, fino al momento in cui Enrico Rossi ha chiuso ogni spiraglio annunciando la prossima firma del protocollo su “ricollocamento e valorizzazione” dei reperti, visto che è tutto in regola, con il benestare degli organi di tutela. L’archeopatacca si farà, dunque?
A questo punto possiamo promettere solo una cosa: che non staremo a guardare passivamente. Il lavoro di questi due mesi ha fatto emergere tutti i vizi di una vicenda nata male e continuata peggio. Un errore urbanistico iniziale, un disegno campanilistico in nome di presunti interessi dei lavoratori che coincidono con quelli dell’azienda, finisce per produrre una gaffe culturale senza precedenti. Ci dispiace che i dipendenti Laika siano stati tirati in ballo a sproposito per coprire responsabilità politiche (qualcuno ha anche parlato di “scudi umani”). E allora anticipiamo fin d’ora quelle che saranno le nostre domande nei prossimi mesi.
Quanto tempo ci vorrà per spostare i reperti in condizioni di sicurezza? Si parla di completare tutta l’operazione a primavera, del 2012: vogliamo scommettere che si arriverà a quella del 2013?
Quanti soldi costerà l’operazione? Si parla di 400.000 € da parte dell’azienda: e il resto? Il Comune dove li trova, i soldi (cosa che le delibere non chiariscono minimamente)? Li metterà la Regione, e con quale giustificazione? Ricordiamo che per rimpinguare le scarse risorse finanziarie il Comune ha già provveduto a vendere pezzi del proprio patrimonio: continuerà così?
Che aspetto avrà il sito-patacca? Le opere murarie saranno davvero “restaurate” come si sente dire, e inserite in un bel giardino pubblico? Quante risate si faranno i visitatori? O ci sarà da piangere?
E infine, quanti operai resteranno senza lavoro, una volta completata la nuova struttura produttiva, in nome della razionalizzazione invocata dall’azienda? E quali diritti spetteranno ai dipendenti che si sono schierati con il padrone (non si dice più?) legandosi mani e piedi alle sorti dell’azienda?
Sarà molto triste, fra qualche anno, dire che avevamo ragione: quando la frittata sarà fatta, con tutto il danno irreversibile a quel bene comune che è il paesaggio con i suoi valori storici e culturali. Se non possiamo impedire lo scempio, possiamo almeno dire che chi lo ha voluto se ne dovrà assumere la responsabilità, che l’operazione non potrà mai più essere sepolta sotto le formule del “è tutto sotto controllo” e “lasciateci lavorare”. Ci hanno provato, a fare tutto di nascosto: ma non ci sono riusciti. Questa è la nostra modesta vittoria, per ora: provino a sostenere il contrario.
Claudio Greppi si esprime anche a nome della Rete dei comitati per la difesa del territorio.
Personalmente e a nome della ReTe dei Comitati per la difesa del territorio esprimo piena solidarietà a Lucia Carlesi, consigliere comunale di San Casciano per il gruppo Laboratorio per un’altra San Casciano – Rifondazione Comunista, che nel corso di una movimentata seduta, nel pomeriggio del 29 settembre, è stata oggetto di violenze verbali, di insulti e di un vero e proprio tentativo di linciaggio politico.
L’occasione è stata la discussione su un ordine del giorno presentato da Lucia Carlesi a proposito dei reperti archeologici (etrusco-ellenistici, romani, settecenteschi) venuti alla luce nel corso della costruzione del nuovo stabilimento Laika Caravans al Ponterotto (sulla vicenda tutta la documentazione è reperibile su: archeopatacca.blogspot.com ).
L’ordine del giorno è stato spostato al primo posto per dar modo a un folto gruppo di dipendenti Laika di partecipare alla seduta, con cartelli e striscioni dentro e fuori la sala comunale. In questo modo si è voluto mettere in violenta contrapposizione chi difende il patrimonio culturale del territorio da chi difende il posto di lavoro, scaricando sugli ambientalisti la responsabilità dei ritardi nella realizzazione del progetto Laika, che prese il via ormai dieci anni fa.Davvero la colpa dei ritardi è degli ambientalisti? Non sapevamo di essere così potenti …
Ma andiamo con ordine: la trattativa per l’acquisto del terreno da parte di Hymer AG, la multinazionale tedesca che aveva rilevato l’azienda della Sambuca, iniziava nel 2001, sotto la guida del Sindaco di San Casciano e con l’accordo dei sindacati. Il terreno, di circa 15 ha (di cui 10 in fondovalle), era a destinazione agricola e quasi tutto faceva parte della fattoria di Sorbigliano, un’azienda agricola in perenne crisi. Il consiglio di amministrazione di Laika ne deliberava l’acquisto il 9 settembre 2002, e il consigliere delegato assicurava che i lavori si sarebbero conclusi (addirittura!) entro l’estate del 2004, mentre per il momento nessun atto ufficiale prevedeva il cambio di destinazione. Nell’estate del 2004 finiva però la legislatura, lasciando in eredità soltanto una mozione approvata dal Consiglio Comunale che auspicava il trasferimento di Laika al Ponterotto. La nuova amministrazione si impegnava in una complicata procedura urbanistica, barcamenandosi fra un Piano Strutturale appena adottato (ma non approvato, e poi abbandonato) e un vecchio PRG. Si scelse la via della variante a quest’ultimo, che venne adottata dopo ben due anni, nell’agosto del 2006. Ed è solo in questa fase che le associazioni ambientaliste (Legambiente, WWF, Italia Nostra) entrano in campo presentando una serie di osservazioni, come previsto dalla legislazione regionale. Da notare che una di queste osservazioni segnalava che la variante mancava del tutto della necessaria verifica cartografica di dettaglio, perché era disegnata in scala 1:10.000: ma neppure questa osservazione fu presa minimamente in considerazione, mentre un serio rilievo del terreno avrebbe consentito già allora l’indagine di archeologia preventiva.
A questo punto le associazioni ambientaliste hanno provato, inutilmente, a fermare l’operazione, denunciando la ferita che un capannone così grande (300.000 mc!) avrebbe inferto al territorio e proponendo alternative in zone industriali vicine: alla stessa Sambuca, dove nel frattempo si liberavano numerosi spazi, o alla Zambra in comune di Barberino, per non parlare delle aree industriali in val d’Elsa, dove si è formato il vero e proprio distretto della camperistica. Nessuno ha mai sostenuto che Laika non dovesse costruire un nuovo capannone, ma si contestava la scelta del Ponterotto. Si contestava con ricorsi ed esposti: che non hanno minimamente inciso sui tempi della progettazione del capannone stesso. Forse era l’azienda che non aveva molta fretta? Fatto sta che per la concessione edilizia dobbiamo aspettare il 2008, e per l’approvazione di un’ulteriore variante (richiesta dall’azienda stessa) il 2009. Ed eccoci al presente: appena cominciamo i lavori, nel 2010, saltano fuori i reperti.
Tutti sapevano, al Ponterotto, che quella era una zona “sensibile” all’archeologia, bastava grattare il terreno per trovare dei cocci: l’indagine preventiva (che evidenzia le strutture murarie) avrebbe evitato di trovarsi impreparati proprio al momento in cui i lavori dovevano iniziare. I lavori del cantiere venivano seguiti giorno per giorno da chi si aspettava che qualcosa venisse fuori: e siccome quei reperti non passavano inosservati fu necessario coinvolgere la Soprintendenza: altro tempo perso, che non dipendeva certo dagli ambientalisti, i quali stavano a vedere e aspettavano di capire quali fossero gli sviluppi della situazione.
Ma da questo momento in poi, per più di un anno, della questione non si sa più niente, in Comune si trincerano dietro un “è tutto in mano alla Soprintendenza”, alla Soprintendenza rispondono con un “lasciateci lavorare, è tutto sotto controllo”. Fino a scoprire, ma soltanto nello scorso agosto, che era già stato proposto (da Laika) e autorizzato (dal Ministero) il trasferimento dei reperti in altra sede. Di questo trattava, appunto l’ordine del giorno di Carlesi: se è vero, come sostengono gli archeologi più qualificati, che il trasferimento fuori dal contesto di reperti di questo tipo non ha senso, perché accordarsi (in gran segreto) per un finto parco archeologico, con una forte spesa da parte del Comune, e nuovi ritardi di mesi e mesi, invece di adeguare il progetto del capannone, che fra l’altro non sembra nemmeno destinato a utilizzare tutti i 20.000 mq della superficie utile? Oppure, ci dicevano gli stessi archeologici, se i reperti non hanno grande valore, si faccia il rilievo e poi si ricoprano, come si fa in tante situazioni, o si distruggano, se ci si vuole prendere la responsabilità di farlo. Come ha detto la presidente di Confindustria toscana, perché quattro sassi devono intralciare un progetto così rilevante?
E qui veniamo alla seduta del Consiglio Comunale. Lucia Carlesi è rimasta da sola con il suo ordine del giorno, contro destra e sinistra, padroni, sindacati e operai. Una vera e propria ammucchiata, che il Sindaco Pescini ha avuto la sfacciataggine di definire “la vera comunità di San Casciano”. Nel Consiglio Comunale Carlesi era sola, ma al di fuori non lo è, come dimostra la partecipazione sulla rete, sul blog e su Facebook. E’ vero, su oltre 500 iscritti al gruppo Fb, molti non sono sancascianesi: ma è proprio questo che conta. Se alziamo un momento lo sguardo dal campanilino del paese e guardiamo un po’ più in là, ci accorgiamo che è il Comune di San Casciano ad essere isolato: si veda l’articolo di Salvatore Settis, il più autorevole esperto di paesaggio, del 28 settembre scorso su la Repubblica, dove la vicenda del Ponterotto è citata come scempio di portata nazionale. La scelta di volere per forza un insediamento industriale di quella portata dentro i propri confini comunali è miope e campanilistica, se non vogliamo pensare ancora peggio. Se i lavoratori Laika stanno ancora aspettando questo benedetto trasferimento, dopo dieci anni, devono solo ringraziare i propri rappresentanti politici e sindacali.
Diversi commenti al mio post del 18 agosto affermavano che in Italia di grandi opere non se ne vedono poi molte. Se è un rammarico, come penso, lo ritengo sciocco, per le ragioni che ho già spiegato. Peraltro c’è effettivamente una grande opera che non vede la fine (oltre alla leggendaria autostrada Salerno-Reggio Calabria). Essa è nata nel lontano, mitico 1968 e non si è appunto ancora conclusa. E sarebbe meglio non si concludesse, come dirò in seguito. E’ l’Autostrada Tirrenica, da Livorno a Civitavecchia.
Dicevo, nata nel 1968, con la costituzione di una società che avrebbe dovuto realizzarla (la Sat – Società Autostrada Tirrenica), l’opera rimase nei cassetti fino al 1982 (governo Craxi), anno in cui fu rispolverata. Nel 1993 fu realizzata la tratta Livorno-Rosignano, ma non di autostrada trattavasi, bensì di una nuova superstrada a quattro corsie, realizzata appunto dalla Sat. Restava da coprire il residuo tratto Rosignano-Civitavecchia.
Per questo tratto, subito fu presentato un progetto che potremmo tranquillamente definire demenziale, che prevedeva un tracciato interno, che se ne andava a spasso senza alcun senso per le colline della Maremma, creando un elevatissimo impatto ambientale. Talmente alto che il progetto fu bocciato dalla Commissione Via di allora (ministro per l’Ambiente Giorgio Ruffolo). Era il 1990.
Passarono più di dieci anni e nel 2001 l’Anas – in un soprassalto di saggezza – presentò un progetto che semplicemente prevedeva, al posto dell’autostrada, l’ammodernamento dell’Aurelia, portandola a quattro corsie ed eliminando tutti i punti pericolosi esistenti. Ipotesi evidentemente troppo semplice e troppo poco costosa: in Italia le opere pubbliche devono costare molto per essere approvate. E infatti fu così che nel 2004 l’Anas mise in un cassetto saggezza e progetto.
Ed ecco, come l’araba fenice, con a capo del governo Berlusconi e Lunardi ministro alle Infrastrutture, ricomparire il vecchio tracciato demenziale fra le colline maremmane. Scontato coro di proteste ampiamente giustificate e anche questo progetto viene accantonato, per lasciare posto a quello attuale: un’autostrada che si sovrappone alla vecchia Aurelia, nel senso che a nord di Grosseto essa si sovrappone alla variante Aurelia (superstrada a quattro corsie), a sud di Grosseto si sovrappone proprio all’attuale strada statale.
A questo punto, gli ambientalisti, gli intellettuali, gli studiosi e i sindaci dei comuni di Capalbio, Manciano, Montalto di Castro e Cellere, recuperano uno studio scientifico del 2003 firmato dal prof. Marco Ponti dell’Università Cattolica di Milano (lo stesso che ha dimostrato l’insensatezza della Tav) e dal prof. Andrea Boitani del Politecnico di Milano. Lo studio dimostra che i costi di un ammodernamento dell’Aurelia sono di gran lunga inferiori rispetto a quelli di un’autostrada costruita ex novo e che la scelta autostradale è irrazionale sotto vari punti di vista (consumo di territorio, impatto, riassetto della viabilità, costi maggiori per la comunità).
Nulla da fare: irrazionalità e opere pubbliche vanno a braccetto, così come destra e sinistra (in questo caso, Governo Berlusconi e Presidenza Regione Toscana). L’ultimo tracciato è stato inserito fra le priorità del Cipe e i lavori dovrebbero iniziare a breve. L’autostrada sarà realizzata dalla sempiterna Sat, come già previsto nel 1968, la quale così si troverà il percorso già in gran parte realizzato, lo acquisirà in concessione e farà pagare il pedaggio. Risultato: i cittadini che fino ad oggi percorrevano strade statali, si troveranno a percorrere un’autostrada a pagamento.
Presidente della Sat è Antonio Bargone (avvocato Pd, buon amico di D’Alema), un tempo sottosegretario ai Lavori pubblici, e poi consulente della Regione Toscana in materia di opere pubbliche, e, pensate un po’, dal 2010 anche Commissario straordinario del governo per la costruzione dell’autostrada tirrenica, col modesto stipendio di 214mila euro lordi all’anno. Nominato da chi? Da Altero Matteoli (Pdl, già sindaco di Orbetello e, tra l’altro, noto per essere stato il primo cacciatore a ricoprire la carica di ministro dell’Ambiente). Aspetto per lo meno curioso: nel 1998 – governo D’Alema e Bargone sottosegretario ai Lavori Pubblici con delega alle autostrade – la Sat (che allora navigava in pessime acque) ricevette 172 miliardi e 500 milioni grazie ad un aumento di partecipazione pubblica nel suo azionariato.
Si, la vicenda di Rimigliano è durata troppo. I ritardi amministrativi vanno combattuti, ma, aggiungo, perseguendo il bene comune, perché la rapidità, di per se, non è detto che generi effetti socialmente positivi. A Rimigliano devono essere analizzati tutti gli interessi in gioco.
É interesse legittimo, non un “sacrosanto diritto acquisito”, quello della società “Rimigliano srl” che, in base alle previsioni del Piano Strutturale, chiede di poter realizzare un albergo di 6.000 mq. e di trasformare in circa 180 abitazioni tutti i fabbricati rurali, demolendo e ricostruendo gran parte del patrimonio edilizio, per scorporarle poi dalla tenuta agricola e venderle liberamente sul mercato come seconde case.
É interesse legittimo anche quello di chi chiede di istituire l’ANPIL [Area naturale protetta d’interesse locale], dopo decenni di ritardo, e di realizzare il parco naturale come era stato concepito negli anni 70 e 80, con la conservazione dell’uso agricolo nella tenuta (non l’esproprio) e la pubblicizzazione della fascia a mare, con impegni finanziari sicuramente sostenibili per un Comune che ha più case che abitanti e alti incassi da oneri di urbanizzazione e ICI. Qui, più che altrove, è necessario tutelare le residue aree agricole e le coste pubbliche.
Questi interessi sono entrambi attuali e concreti, perché prima della sottoscrizione di convenzioni con i privati o del rilascio dei permessi di costruzione, qualsiasi decisione urbanistica può essere modificata. Atti che mancano a Rimigliano. Il Comune può quindi decidere liberamente cosa fare di quel territorio. Se in passato le amministrazioni avessero assunto come “vincolo” il piano regolatore che prevedeva 300.000 metri cubi di volumi turistici lungo la costa, oggi non si parlerebbe neppure del parco. Lo stesso vale per i parchi di San Silvestro, Sterpaia, Populonia e Baratti dove sono state cancellate previsioni urbanistiche per milioni di metri cubi e centinaia di ettari di cave. Se quei terreni avessero mantenuto le destinazioni originarie, avrebbero prodotto grandi rendite per i proprietari, ma non sarebbero stati realizzati i parchi della Val di Cornia.
La “Rimigliano srl” rivendica la costruzione dell’albergo e delle seconde case ricordando che “il prezzo pagato per l’acquisito della tenuta è stato di 30,5 milioni di euro, mentre se avesse avuto destinazione solo agricola il suo valore sarebbe stato solo di 6 milioni di euro”. Dunque la “Rimigliano srl” ha acquistato per 24,5 milioni di euro la “rendita immobiliare” regalata dal Comune alla Parmalat quando, nel 1998, decise di fargli costruire un grande albergo nel parco. Per questo chiede ora di attuare remunerative operazioni immobiliari. I dirigenti del PD sollecitano il Comune a chiudere rapidamente la vicenda e gli amministratori comunali obbediscono, assicurando che faranno presto.
E’ la conferma che il sistema politico ha sposato la tesi secondo cui la rendita creata dalle decisioni pubbliche in materia urbanistica costituisce “titolo esigibile” dai proprietari e vincola i Comuni a non modificare più le scelte compiute. Al più si contratta. Ma nessuna legge lo prevede. Addirittura la legge regionale 1/2005 stabilisce che “le previsioni soggette a piani attuativi perdono efficacia se entro 5 anni non viene stipulata la convenzione” tra Comune e privati. Contrariamente alle leggi, si è invece consolidata una prassi che “garantisce perennemente” le rendite. E’ per questo che si è investito più nella rendita che nella produzione e sono stati distrutti beni essenziali non riproducibili, come il paesaggio e il patrimonio culturale.
San Vincenzo non si sottrae a questa logica e dimostra che il centrosinistra non è in grado di contrastare il dominio del “partito trasversale della rendita”. Anzi, non sembra neppure interessato a valutare soluzioni alternative che a Rimigliano esistono con la costruzione di un albergo fuori dal parco, il rilancio dell’agricoltura e un qualificato progetto di recupero del patrimonio esistente per fini agrituristici, come integrazione del reddito agrario. La disputa vera, quindi, non è tra chi persegue lo sviluppo e chi lo avversa, ma tra chi sta acriticamente dalla parte della rendita immobiliare e chi chiede maggiore considerazione dei beni comuni e dell’interesse generale.
Massimo Zucconi è stato il costruttore, e per molti anni il presidente, della “Parchi Val di Cornia”. Ora è capogruppo della lista civica Comune dei Cittadini.
Le denunce dei comitati locali (Giù le mani da Baratti, Comitato per Campiglia), di Legambiente, delle liste civiche della Val di Cornia e soprattutto del Forum per San Vincenzo (lista civica guidata dal giovane Nicola Bertini), ripropongono all’attenzione dell’opinione pubblica toscana e nazionale la vicenda del Parco di Rimigliano, nel Comune di San Vincenzo.
Un piccolo Comune lungo la costa dell’alta maremma con più case che abitanti (7856 abitazioni per 7002 abitanti censiti nel 2009) e un consumo di suolo cresciuto del 70% negli ultimi dieci anni. Un paese sul mare cresciuto a dismisura, trasformato radicalmente in ogni suo angolo e deprivato della propria memoria; irriconoscibile per chi ricorda com’era solo 40 anni fa. Una costa urbana con spiagge snaturate dalle costruzioni fin sugli arenili e, in ultimo, massacrate da un orrendo porto che negli ultimi anni ha obliterato per centinaia di metri anche la vista del mare. Le colline sopra il paese aggredite già negli anni 70-80 da un edilizia selvaggia e disarmonica, proseguita poi lungo gli stupendi viali di campagna che da San Vincenzo risalivano sulle colline fino a San Carlo, piccolo e ben conservato nucleo di abitazioni per i dipendenti della Solvay. Lungo quei viali sono sorti fabbricati di ogni genere, con vecchi edifici rurali deformati e lievitati volumetricamente a dismisura fino a diventare anonimi condomini. La bellissima campagna che degradava dalle colline verso il mare è oggi irriconoscibile, disseminata di seconde case costruite intorno ai vecchi poderi e massacrate da vere e proprie “micro lottizzazioni”, non si capisce come autorizzate nel territorio rurale. Questo è oggi San Vincenzo.
Qui, da 13 anni, è in corso un dibattito sulle sorti del parco di Rimigliano, dopo che nel 1998, con l’approvazione del primo piano strutturale, l’amministrazione comunale decise sciaguratamente di concedere, all’allora proprietario Callisto Tanzi, la possibilità di costruire un grande albergo di 15.000 mq. all’interno della tenuta agricola che da il nome al parco: 560 ettari di campi e pinete lungo la costa a sud del paese di San Vincenzo, con decine di fabbricati rurali storici sapientemente inseriti in uno straordinario paesaggio rurale. Quella stessa tenuta che, alla metà degli anni 60, aveva suggerito ad altre amministrazioni di sinistra la sua classificazione a parco naturale, insieme agli otto chilometri di litorale coperti da ottanta ettari di macchia mediterranea e da pinete.
Contro quella decisione intervennero associazioni ambientaliste e l’architetto Italo Insolera, ideatore e progettista del parco di Rimigliano, la cui storia è raccontata nel bellissimo libro “Parchi Naturali. L’esperienza di Rimigliano” di Luigi Gazzola e Italo Insolera. (Edizione delle Autonomie. Roma, 1982). Rimigliano fu il primo parco della costa livornese da cui trasse spunto il più vasto progetto del sistema dei parchi della Val di Cornia, delineato alla fine degli anni 70 con i piani regolatori coordinati dei comuni di Campiglia. Piombino, San Vincenzo e Suvereto.
Contro quella decisione intervenni pubblicamente anch’io (allora presidente della società “Parchi Val di Cornia” che i Comuni avevano costituito proprio per attuare il sistema dei parchi previsti dai piani regolatori coordinati) perché avvertivo che quella decisione rappresentava una ferita insanabile per Rimigliano, totalmente incoerente con le finalità del parco e foriera di ulteriori e peggiorativi sviluppi urbanistici. Sviluppi che, purtroppo, si sono poi configurati con la successiva variante del 2008 al piano strutturale, fino alla variante del 2010 al Regolamento urbanistico che riduce l’albergo da 15.000 a 6.000 mq. (spostandolo però nel centro della tenuta agricola) e apre la porta a circa 180 seconde case che saranno realizzate demolendo e ricostruendo, in luoghi diversi, circa due terzi dei 17.000 mq. di poderi e annessi agricoli d’interesse storico. Il cosiddetto piano di miglioramento agricolo ambientale, già approvato dalla provincia di Livorno e dallo stesso Comune di San Vincenzo, prevede solo il mantenimento di 650 mq. di annessi agricoli e nessuna abitazione rurale per una azienda di 560 ettari: uno scandalo che merita di essere indagato perché quelle scelte portano diritto alla dismissione della funzione agricola e non certo al suo miglioramento, in netto contrasto con gli indirizzi delle leggi regionali.
Sulla variante, con le osservazioni, hanno espresso giudizi fortemente negativi il Forum per San Vincenzo, il Comitato per Campiglia e la stessa Regione Toscana che ha avanzato precise richieste di chiarimento sugli effetti che saranno prodotti sui poderi storici, sul paesaggio rurale e sull’ambiente, a partire dai consumi idrici dell’albergo, delle seconde case e delle piscine previste nella tenuta, in una zona con gravi problemi di salinizzazione delle falde.
L’assessore all’urbanistica della Regione Toscana, Anna Marson, sollecitata da cittadini e comitati, ha manifestato la propria disponibilità a sostenere un percorso partecipativo qualora l’amministrazione comunale di San Vincenzo lo richieda. Per questo è stata redarguita dai dirigenti locali e regionali del PD.
Il professore Salvatore Settis, a più riprese, è intervenuto sulla stampa per denunciare lo scempio che si sta per consumare. Le occasioni sono state offerte da recenti dibattiti pubblici per la presentazione del suo ultimo libro “Paesaggio, Costituzione, Cemento” (Giulio Einaudi Editore. Torino. 2010) nel corso dei quali il caso di Rimigliano è stato sollevato per denunciare quanto sia arduo in Italia preservare il paesaggio, inteso come bene comune vitale per l’identità, il benessere dei cittadini e l’economia del paese. Tanto più in un Comune come San Vincenzo che ha dilapidato il patrimonio identitario del suo territorio per approdare ad una anonima conurbazione affogata nel cemento.
Tutto questo accade mentre il Comune di San Vincenzo ha deciso, nel 2009, di rivedere il vecchio piano strutturale, dichiarando, con atti amministrativi, di volersi allineare alla pianificazione degli altri Comuni (che, al contrario di San Vincenzo, hanno classificato tutti i parchi come “aree naturali protette” ai sensi della legge quadro 394/1991), di voler proteggere il residuo ecosistema comunale, di voler garantire che nelle campagne si faccia solo agricoltura. Tutti buoni propositi clamorosamente contraddetti, però, dalle decisioni che il Comune sta per assumere in via definitiva in questi giorni.
Per restituire un minimo di credibilità alla politica, occorre dunque sospendere le decisioni su Rimigliano. Occorre mettere mano con urgenza al nuovo Piano Strutturale di San Vincenzo, bloccare le scelte non ancora attuate che possono compromettere i beni comuni (e Rimigliano lo è), confrontare le strategie di governo del territorio con quelle degli altri Comuni e con i nuovi indirizzi del governo regionale e, infine, sarà necessario assumere decisioni coraggiose coerenti con la tutela dell’agricoltura e del paesaggio.
Decidere di far costruire un albergo e seconde case nella tenuta agricola di Rimigliano era un gravissimo errore già nel 1998, ma di fronte al consumo di suolo degli ultimi 10 anni, alla disgregazione del territorio rurale, alla crescita smisurata e patologica di seconde case, insistere ancora su questa posizione è semplicemente un attentato al bene comune e all’interesse generale, di San Vincenzo e della Toscana.
L’Autore è stato presidente della società Parchi Val di Cornia dal 1998 al 2007. Dal 2009 capogruppo della lista civica “Comune dei Cittadini” nel Comune di Campiglia Marittima.
Aeroporto, niente scambi con la tramvia. Sulla pista parallela non ci sono compensazioni che tengano: «Se Manciulli e Rossi vogliono discutere di tramvia bene. Benissimo. Ma sia chiaro che con l´aeroporto e il parco non c´entra nulla». Dalla vetta della discarica di Case Passerini con vista sui terreni della pista parallela, i sindaci della Piana restituiscono l´offerta al mittente: «Per la tramvia non ci vendiamo».
Era stato il segretario regionale Pd Andrea Manciulli a dirlo all´assemblea a Sesto, mercoledì scorso: «Il primo problema della Piana è il traffico». Non l´aeroporto, aveva detto il segretario, facendo intendere di esser lì ad anticipare una proposta del governatore Enrico Rossi. E i sindaci della Piana, al sopralluogo organizzato dal sindaco di Sesto Gianni Gianassi per «dimostrare che la pista parallela cancellerebbe tutto», gli hanno risposto. «Anche Mubarak ha fatto finta di nulla ma poi ha dovuto accettare il dialogo. Sarebbe intelligente mettersi a discutere», gli dice il sindaco di Campi Adriano Chini. Il presidente toscano Rossi come Mubarak dunque? «Finora il dialogo non c´è stato, la tramvia è sicuramente un bisogno, ma non può essere messa sulla bilancia. Che modo è?», insiste Chini. «Aeroporto e parco con la tramvia non c´entrano», sostiene anche il sindaco di Calenzano Alessio Biagioli.
I sindaci della Piana ricordano che la discarica sta lì a testimoniare che loro non sono i sindaci del no: «Ci sono qua oltre 2 milioni di metri cubi di rifiuti proveniente anche da Firenze». E che sono stati eletti con la promessa del parco e del termovalorizzatore: «Abbiamo fatto la campagna elettorale in ottemperanza con quanto deciso dalla Regione. E i "ribelli" adesso sono quelli che vogliono cancellare tutto con un colpo di spugna», dicono i sindaci della Piana muovendo il braccio per indicare i terreni che dovrebbero essere asfaltati per far posto alla pista. Sul fianco destro dell´autostrada A11, con le spalle a Firenze, fino all´altezza del distributore. Direzione Prato, in bocca all´ex Motel Agip di Firenze nord: «E´ chiaro che la pista parallela cancellerebbe una volta per tutte il parco».
«Dobbiamo capire meglio di cosa parliamo, vediamo il piano industriale. Problemi, mi pare, ce ne sono», dice il presidente della Provincia Andrea Barducci. «Questo è un nuovo aeroporto», scuote la testa la consigliera regionale Pd Daniela Lastri. «La guerra interna del Pd impedisce un esame sereno e il vero rischio è che alla fine non si decida nulla», incalza il collega dell´Udc Marco Carraresi. Mentre anche il consigliere Pd Paolo Bambagioni appare perplesso. Soprattutto per il voto che sarà chiamato ad esprimere: «Votare la variante al Pit? Sono aperto, ma per ora vedo buone ragioni per non farla, aspetto di vedere quelle a favore».
"La pista non c´entra". "Guardate quanto spazio"
Gianassi e Giani, ovvero i mondi paralleli del PdÈ stato il sindaco di Sesto a volere la visita: assenti le giunte fiorentina e pratese Se si sposterà il Fosso Reale la Firenze-Mare dovrà essere alzata di sette metri
«Guardate l´autostrada: la striscia d´asfalto della pista arriverebbe fino all´altezza del distributore. E altri 2-300 metri se ne andrebbero per la fascia di salvaguardia. Qui la pista non c´entra», dice il sindaco di Sesto Gianni Gianassi. «Avete visto quanto spazio? Più vedo la Piana e più mi convinco, il parco ci sta anche con la pista», ribatte il presidente del Consiglio comunale e consigliere regionale Eugenio Giani.
E´ quasi mezzogiorno e la carovana di sindaci, amministratori e politici è sulla sommità della discarica di Case Passerini, la collina dei rifiuti che torreggia sul lembo di terra più conteso della storia politica fiorentina. Al sopralluogo «sul campo» voluto dallo stesso Gianassi mancano solo la giunta fiorentina e quella pratese. E sotto il cielo grigio di questo fine settimana pasquale, svettano sullo «skyline» della città la cupola del Duomo e il Palagiustizia ad un tiro di schioppo.
Quasi non si avverte l´olezzo perforante che nei giorni ventosi veleggia fino a Novoli. Si avverte invece l´odore acre dello scontro di casa Pd. La Piana, Prato le due Province da una parte, la Regione e Palazzo Vecchio dall´altra. Nero e bianco, perfino davanti allo stesso quadro. Qualcosa di più però di un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Perché comunque la si veda, realizzare la pista parallela è un´opera faraonica. Per il conto economico che comporta.
Per fare la pista si dovrebbero espropriare ben 120 ettari di terreno privato. In pratica, l´intero fabbisogno. A quale prezzo? Il Polo scientifico di Sesto, che si trova proprio sopra la pista futuribile, si è visto chiedere 200 euro al metro per la cassa di espansione idraulica. Ma l´esproprio è solo l´inizio.
C´è da spostare lo svincolo autostradale per Sesto. E c´è, soprattutto, da spostare il Fosso Reale. Che non in realtà un fosso ma un canale pensile a 6 metri dal livello del suolo. E visto che oggi attraversa l´autostrada più o meno a metà della lunghezza della ipotetica pista parallela dovrebbe essere portato più a nord. Con la conseguenza di dover innalzare di almeno 7 metri l´attuale carreggiata dell´autostrada, cioè dell´imbocco della Firenze Mare. Non è finita. C´è da spostare la stessa cassa d´espansione idraulica del Polo scientifico, situata proprio sulla direzione della pista. E c´è da spostare anche l´oasi della Querciola, dove i Cavalieri migrano arrivando puntualmente il 13-14 marzo di ogni anno per poi ripartire a fine agosto. Per non parlare dell´oasi di Focognano, che verrebbe asfaltata. Ma chi paga? Chi tira fuori i soldi?
Secondo i conti fatti dall´assessore all´urbanistica di Signa Paolo Pecile (che è stato anche amministratore dell´aeroporto), c´è bisogno di qualcosa come 220 milioni di euro. Una cifra enorme. Che, stante le difficoltà finanziarie del pubblico, non potrà che arrivare dal privato. Ma quale se lo stesso Pecile, davanti alla commissione regionale, ha fatto presente che l´attuale società di gestione non è in grado di sostenere più di 30-40 milioni d´indebitamento?
Eppoi: «Ammesso che ci sia un privato disposto a tirar fuori questi soldi, quanti milioni di passeggeri dovrebbe movimentare Peretola per coprire l´investimento?», chiedono i sindaci della Piana, Alessio Biagioli (Calenzano), Adriano Chini (Campi), Alberto Cristianini (Signa) e Gianassi. Rinnovando la richiesta di un piano industriale centrato sulla pista parallela per capire di cosa e di quanto parliamo. «Senza il piano industriale rischiamo di fare solo una discussione astratta», mandano a dire al governatore Enrico Rossi. Una vera e propria sfida, visto che a stare ai conti dell´assessore Pecile, gli unici fin qui presentati, l´aeroporto di Firenze avrebbe bisogno per rientrare dagli investimenti di un numero di passeggeri di gran lunga superiore al bacino potenziale della Toscana centrale.
Le difficoltà urbanistiche, la complessità delle opere, i soldi: «Sapete come andrà a finire? E´ dagli anni ´90 che abbiamo detto di voler fare il termovalorizzatore», dice Gianassi indicando l´area sottostante la discarica destinata ad accogliere l´impianto e il camino di 70 metri. Ma non prima del 2016-2017: «Immaginatevi dunque se si vuole realizzare un´opera come la pista parallela che non ha neppure il consenso delle amministrazioni - conclude Gianassi - la storia italiana dice che non si farà mai».
Un ex assessore alle Infrastrutture della Regione Toscana che quindici giorni dopo aver lasciato l’incarico entra nel cda di un fondo pronto a investire nelle stesse infrastrutture. Un uomo che mentre siede nel consiglio di amministrazione è coordinatore del settore Infrastrutture del Pd. La storia di Riccardo Conti, esponente del Pd vicino a Massimo D’Alema, è emblematica delle polemiche che rischiano di spaccare il centrosinistra toscano. Oggetto: le grandi opere. Due in particolare: gli aeroporti (Firenze, ma anche Siena) e la famigerata autostrada Livorno-Civitavecchia. Da una parte il Pd, soprattutto la componente dalemiana, che sostiene le opere in singolare consonanza con il Pdl (il ministro alle Infrastrutture, Altero Matteoli). Dall’altra l’Idv e la sinistra che mostrano più di una cautela.
Cominciamo dall’aeroporto di Firenze (tra i soci il gruppo Benetton). Nessuno ha dubbi: la struttura attuale non è adeguata a una città con 8 milioni di turisti l’anno. Le ipotesi: la realizzazione di una pista parallela all’autostrada (200 milioni) oppure l’allungamento di quella attuale (60 milioni).
A chi, soprattutto a Firenze, si schiera per la costruzione del nuovo tracciato, rispondono i comuni vicini: la pista parallela “peserebbe” su di loro invadendo zone agricole di pregio. Il progetto è fortemente avversato dal Coordinamento dei Comitati della Piana di Prato, Firenze e Pistoia.
Ma il dibattito non è solo logistico. Imprenditori e politici giocano ruoli chiave. E il centrosinistra segue, appunto, due piste diverse. Le cronache cittadine registrano le prese di posizione a favore della nuova pista. Prima fra tutte quella del sindaco Matteo Renzi che vedrebbe l’aeroporto ampliarsi liberando aree da destinare magari allo stadio (altre polemiche). Ma tra gli alleati di Renzi spunta il toscanissimo ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli (Pdl).
I nodi, però, sono altri. L’Idv è perplessa. A cominciare da Anna Marson, assessore regionale all’Urbanistica, che sta suscitando malumori nel Pd toscano per le sue scelte anti-cemento: “La Regione ha approvato un documento che prevede entrambe le ipotesi. Ma per la pista parallela dobbiamo ancora valutare il rapporto con l’ambiente”. Marson racconta: “Vedo grandi manovre a livello nazionale per la nuova pista”. Quali? “Il ministero delle Infrastrutture ha presentato uno studio in cui l’aeroporto di Firenze improvvisamente diventa di interesse nazionale”, spiega l’assessore. Aggiunge: “Poi c’è l’Enac, che dovrebbe essere garante. Invece si è schierato per la seconda pista”. Il presidente Vito Riggio l’ha detto chiaramente: “Senza nuova pista l’aeroporto finirà in serie B”.
Qui la questione si allarga. Ampliare l’Amerigo Vespucci significherebbe mettere in sofferenza tre scali importanti nel raggio di 150 chilometri: Firenze, Bologna e Pisa. E infatti a Pisa non l’avevano presa bene perché l’aeroporto va a gonfie vele (4 milioni di passeggeri l’anno). Oggi il sindaco Marco Filippeschi pare più tranquillo: “La Regione ha stanziato 28 milioni per il trasporto veloce tra la stazione e l’aeroporto. Questo indica la scelta di puntare su Pisa. Con Firenze non dobbiamo essere concorrenti, ma alleati”. L’assessore Marson ricorda altri “dettagli”: “La pista parallela potrebbe porre problemi di sicurezza e di rumore nei paesi vicini”. Ancora: “Così si allontanerebbe l’aeroporto dalla Piana di Castello, aumentando il valore delle aree dove Salvatore Ligresti deve costruire (il re del mattone lombardo è anche socio dell’aeroporto, ndr)”.
Non basta. Marco Manneschi, consigliere regionale Idv, punta il dito sul Pd: “Il fondo di investimenti F2i vuole entrare nella società dello scalo fiorentino. È stato proprio l’ex assessore Riccardo Conti a comunicarlo. Ci colpisce che si ritrovi, in veste di manager, a voler comprare le infrastrutture di cui si occupava come amministratore”.
Ecco le due anime del centrosinistra. Conti è anche coordinatore del settore Infrastrutture del Pd. E soprattutto è stato uno degli sponsor della contestatissima autostrada Livorno-Civitavecchia (che dovrebbe essere realizzata dalla Sat, controllata da Benetton): “Certo che sono favorevole, è l’unica zona costiera d’Europa senza un’autostrada. Ma va fatta bene, deve essere ambientalizzata, non un troiaio”, spiega oggi Conti. Una grande opera che, di nuovo, ha sollevato questioni di opportunità sul doppio ruolo (prima politico, poi manageriale) di un esponente Pd: Antonio Bargone è stato sottosegretario proprio ai Lavori Pubblici e oggi si ritrova presidente della società che realizzerà l’autostrada.
Sempre il Pd vicino a D’Alema. Conti non si scompone: “Sono amico di Massimo, è un peccato?”. E il passaggio dalla poltrona di assessore a quella di manager nelle infrastrutture? “Il nostro fondo è pubblico-privato e non ha intenti speculativi”. Ma chi l’ha indicata per la poltrona? “La fondazione Monte dei Paschi di Siena”.
La “banca rossa”, l’ultimo tassello dell’amore tra il centrosinistra e gli aeroporti toscani. Mps è tra i soci del fondo F2i. Non solo: è anche nello scalo di Siena (21 per cento) di cui sostiene l’ampliamento (avversato dagli ambientalisti, e non solo). Una storia finita in Procura: il presidente di Mps, Giuseppe Mussari, è sotto inchiesta per concorso morale in turbativa d’asta e falso in atto pubblico. Secondo i pm Mario Formisano e Francesca Firrau, la selezione del partner privato per l’adeguamento infrastrutturale dell’aeroporto di Ampugnano fu falsata.
Ci sono comuni noti in Italia per la qualità delle loro politiche: ad esempio, Cassinetta di Lugagnano, il comune zero consumo di suolo o il comune di Peccioli che detiene il record toscano e forse nazionale per la raccolta differenziata. Anche il comune di Casole d’Elsa, almeno a livello toscano, rivendica un primato, ma in concorrenza con le peggiori amministrazioni: quello dell’ente locale che nell’arco di dieci anni o poco più ha compiuto il maggior numero di operazioni illegittime: contro la legge di governo del territorio, contro il PIT e il PTC di Siena, contro le normative paesaggistiche e ambientali e perfino contro le disposizioni del vincolo idrologico. Dieci anni di mala urbanistica e mala edilizia, durante i quali la Regione Toscana, nonostante le relazioni dei propri uffici che indicavano la non sanabilità degli abusi promossi dal Comune , nonostante gli avvisi di reato (32 fra tecnici e amministratori) e i sequestri della Procura della Repubblica, ha continuato imperturbabile a coprire le malefatte dell’amministrazione e degli speculatori che con questa fanno tutt’uno. La Variante del Piano strutturale, ora adottata, è un suggello che vorrebbe mettere una pezza sulle porcherie pregresse. Il tutto condito con la solita retorica che condiziona lottizzazioni e nuovi usi di suolo al massimo impegno nella tutela del paesaggio.
Il grande protagonista di tutte le vicende è Piero Pii, già vicepresidente del consiglio regionale toscano, in buoni rapporti con Riccardo Conti, ex assessore al territorio e infrastrutture della Regione. Pii è sindaco di Casole d’Elsa, per l’allora Pds, dal 1994 al 2004, mentre nel 2004 come continuatrice del tracciato di mala urbanistica gli succede Valentina Feti (Ds), precedente vicesindaco. Nel frattempo la società Castello di Casole, promotrice di varie iniziative immobiliari e proprietaria di aree nel comune, dà l’incarico a Pii, per 140.000 euro l’anno, di seguire le proprie pratiche urbanistiche ed edilizie presso il Comune. A perfezionare il tutto, nel 2009 Piero Pii si presenta di nuovo alle elezioni, questa volta contro il suo ex partito, a capo di una lista civica appoggiata dal Pdl e, diventato sindaco per una manciata di voti, adotta una Variante al Piano strutturale destinata far scuola su come si aggirino le norme urbanistiche. Una Variante, si è detto, che vorrebbe sanare le precedenti malefatte e compensare i privati ‘penalizzati’ dai sequestri dalla Procura della Repubblica.
Affinché i lettori di eddyburg possano apprezzare pienamente l’operato del Comune e il ruolo politico della Regione dobbiamo, rapidamente e omettendo molti particolari e aggravanti, accennare all’operazione cardine di dieci anni di mala urbanistica, un Piano integrato di intervento (P.I.I, come il suo ispiratore) la ‘madre’ di molti degli abusi urbanistici edilizi, paesaggistici e ambientali che sanciscono il primato negativo di Casole. Il Piano integrato di intervento è uno strumento urbanistico che per legge dovrebbe durare non oltre il mandato dell’amministrazione promotrice, finalizzato a realizzare opere pubbliche (strade, infrastrutture, spazi collettivi, ecc.), mentre i privati possono proporvi l’inserimento di loro progetti non oltre il termine perentorio di 60 giorni dalla data di approvazione del piano. Il Comune di Casole, infischiandosene della legge, tiene invece aperto il piano ‘sine die’, inserendovi via via gli interventi richiesti dai promotori immobiliari, difformi dal PS ma regolarmente pubblicati sul Bollettino ufficiale della Regione. Fra questi spicca il piano di recupero di San Severo, inserito nell’aprile 2004 (quindi 3 anni dopo la scadenza ‘perentoria’), e approvato nel 2005.
Il piano ‘recupera’ un podere con due case coloniche, stalle e altri annessi per un totale di 5.860 mc trasformandolo in edilizia residenziale a villette per 7.530 mc (Il P.I.I. prescriveva che la volumetria del piano di recupero non dovesse superare quella esistente), ma il Comune generosamente rilascia permessi per quasi 11.200 mc e i costruttori, non contenti, ne realizzano più di 12.000 divisi in 55 appartamenti. Osserva, a tale proposito, il dott. Formisano, Sostituto Procuratore presso il tribunale di Siena, che “è evidente che in tanto l’impresa ha edificato oltre il consentito in quanto era certa che l’Amministrazione avrebbe comunque assentito ogni eventuale abuso. I rapporti con l'Amministrazione erano di tale natura che mai vi sarebbe stato un controllo con successivi provvedimenti di demolizione degli abusi realizzati. Il silenzio serbato dell'Amministrazione, che si è limitata ad attendere gli sviluppi delle indagini ed a porre in essere solo gli accertamenti obbligati, dimostra in modo evidente la volontà di ridimensionare le condotte poste in essere dagli indagati. Appare sin troppo evidente che si ignorano le responsabilità e gli obblighi che la normativa urbanistica riserva agli uffici comunali in materia”.
Intanto, di fronte a incriminazioni, sequestri, ricorsi al Tar, denunce di comitati, di cittadini, circostanziate ricostruzioni delle vicende da parte di Italia Nostra, articoli di giornale, inchieste televisive, pareri negativi dei suoi stessi uffici, la Regione si tappa gli occhi, le orecchie (e il naso), rimanendo inerte e continuando a pubblicare sul proprio Bollettino ufficiale le varianti al Regolamento urbanistico (complessivamente 24), al P.I.I. e al Piano di recupero, che via via il Comune approva in un quadro di totale illegalità.
Gli abusi edilizi si sommano, perciò, agli abusi urbanistici che, a loro volta, si inquadrano in una sostanziale difformità del Regolamento urbanistico approvato nel maggio del 2001 rispetto al PS vigente, le cui previsioni, come viene ammesso nella Relazione della Variante al Piano strutturale del novembre 2010, superano largamente quelle consentite.
Arriviamo ai nostri giorni: venendo a mancare le coperture politiche, la situazione diventa insostenibile per l’amministrazione comunale. Nel giugno 2010 viene, perciò, approvata una Variante di ‘assestamento’ al Regolamento urbanistico che sostanzialmente conferma, con qualche ridimensionamento minore, le previsioni del precedente Regolamento, mettendole ‘in salvaguardia’: vale a dire ‘congelandole’, in attesa che una Variante al PS sani la situazione, ratificando quanto anticipato in quella di assestamento.
Siamo giunti, quindi, alla Variante al PS, adottata nel novembre del 2010 che ha l’obiettivo di ‘sdoganare’ le operazioni messe in salvaguardia. Il dimensionamento residenziale è basato su una previsione di crescita della popolazione da 3 860 a 5 660 unità (il 50%) pari a 180.000 mc di edificazione, quasi tutta nuova. A questo dimensionamento ‘domestico’ si sommano 1.440 posti letto per attività turistico ricettive - pari a 120.000-140.000 mc, - che si vanno ad aggiungere ai 380 posti letto esistenti, con un incremento quasi del 400% (saranno tutti confermati nella destinazione?). Infine la Variante prevede addirittura 210.000 mq di superficie coperta per attività artigianali/industriale e commerciali/direzionali; ciò significa un impegno di suolo circa 70 ettari e implicherebbe un’occupazione, a regime, di circa 3.500-4.000 addetti. Si tratta evidentemente di previsioni ipertrofiche, non sorrette da alcuna analisi della domanda (le aree industriali presenti sono solo parzialmente utilizzate). O meglio, la stima della domanda residenziale è basata su un incremento di quasi novecento residenti nell’ultimo decennio, attirati da altri comuni con l’offerta di case: si offrono abitazioni si aumenta la popolazione e sulla base di questo aumento si ipotizza una nuova domanda (mentre è evidentemente l’offerta che comanda), un vecchio trucco che premia i comuni meno virtuosi.
Ciò che, tuttavia, maggiormente stupisce è l’assenza nel PS di qualsiasi analisi sulla dotazione di risorse, forse contenuta nella Valutazione strategica che dovrebbe essere allegata al piano, ma di cui il garante alla comunicazione del Comune non ha dato notizia. Ma, in un’ottica ancora più complessiva, è tutto il Piano strutturale – variante o non variante – che tradisce non solo la norma, ma lo spirito della legge di governo del territorio e del PIT, con buona pace dell’invariante strutturale ‘patrimonio collinare ‘ che in quella parte di territorio vieta lottizzazioni residenziali. Basti dire che, incredibilmente lo Statuto del territorio (che nelle NTA viene ancora chiamato ‘dei luoghi’) non contiene né l’individuazione delle invarianti, né una qualunque disciplina di tutela ambientale e paesaggistica, limitandosi a indicazioni generiche, non statutarie, e rimandando ogni eventuale disciplina al Regolamento urbanistico. La Variante al PS ha, evidentemente, un unico scopo: tentare di sanare il cumulo di atti illegali pregressi, mettere al riparo i responsabili dalle incriminazioni passate e future della Procura della Repubblica e accontentare società immobiliari e costruttori.
La Variante ora adottata dovrà essere esaminata dagli uffici della Regione. Sarà interessante vedere se questi non avranno nulla da obiettare (come è avvenuto in passato in tutto l’iter del Piano integrato di intervento e delle varianti al regolamento urbanistico) o se la Regione eserciterà il suo ruolo di garante del rispetto della legge nei confronti dei cittadini. I quali confidano che la nuova amministrazione regionale segni un punto di svolta in materia urbanistica rispetto a quella precedente.
Qui il link ai documenti della Variante, per valutare e, se credete, presentare osservazioni
Là dove c’era la spiaggia Torre Mozza,
resta lo spazio per una sola fila di ombrelloni
di Francesca Lenzi
In tre anni persi quattro metri di arenile: le barriere non reggono
PIOMBINO. Nei punti più larghi raggiunge a fatica i 20 metri di profondità. Ma è l’eccezione. Lo spazio medio ormai si aggira intorno alla metà: in alcuni casi la spiaggia sparisce del tutto, coperta dalle onde, o impedita dal crollo di un albero, piegato da una mareggiata e finito sulla sabbia. Siamo a Torre Mozza, una delle spiagge della costa est piombinese sulla quale l’azione erosiva del mare mostra in maiera più chiara i propri devastanti effetti. Soprattutto dalla parte verso Follonica.
Volgendo lo sguardo in quella direzione, subito a lato del torrione che dà il nome alla località, la spiaggia è solo uno stretto cordone di sabbia. La riduzione dell’arenile non è certo cosa nuova. I tanti bagnanti che da anni frequentano la zona sembrano essere d’accordo nel ricordare una costante attività di erosione che ha portato Torre Mozza all’aspetto attuale. Certo è che ormai, di fronte alla modesta striscia di rena, ogni ulteriore sottrazione, benché minima, rappresenta un evidente e doloroso guaio.
Esemplare è il caso del bagno “Torre Mozza Beach” che si estende per 240 metri su un’unica fila di ombrelloni. I clienti hanno l’indubbio vantaggio di una vista mare affascinante e libera, ma i problemi che la situazione crea ai gestori non sono pochi: «Ogni sera dobbiamo togliere le sdraio per evitare che il mare durante la notte se le porti via. È un grande impegno di energie e di denaro. Ogni anno è peggiore del precedente. In tre stagioni se ne saranno andati 4 metri di spiaggia».
Per cercare di ridurre l’azione dell’acqua si è provveduto con la costruzione di una barriera in muratura e l’introduzione ad argine di nasse contenenti grosse rocce. Purtroppo in diversi punti la parete è crollata, trascinando parte del terreno retrodunale, mentre non tutte le recinzioni hanno retto.
La sistemazione del muro e il rifacimento delle reti faranno parte di un intervento già predisposto. È ormai imminente infatti il piano definitivo per il ripristino del sistema dunale della costa est piombinese, risultato del finanziamento della Regione e che interesserà 6 chilometri di litorale. Riguardo alla questione più complicata di un eventuale ripascimento, non esistono al momento previsioni di interventi in mare.
Nonostante la situazione non certo rosea, nella più larga considerazione a livello regionale, Torre Mozza non risponde ad uno stato di urgenza erosiva tale da valutare un’operazione simile.
È in atto però un monitoraggio costa per controllarne lo sviluppo, ed eventualmente concepire un progetto operativo da avviare in un secondo tempo. Non solo nell’ambito di Torre Mozza, ma in relazione ai vari tratti della costa est più gravemente colpiti dall’erosione.
Porti, non villaggi: stop a Talamone
di Carlo Bartoli
Ancora alta tensione nel Pd, il coordinatore Sani attacca la Regione «L’assessore Marson sbaglia, però la costa va protetta dalle speculazioni»
Piombino sì, Talamone no. Livorno sì, Cecina nì. Il dibattito sui nuovi porti turistici e sul pericolo di cementificazione della costa, è incandescente e da Luca Sani, coordinatore della segreteria regionale del Pd, arriva una rimessa a punto della posizione del Pd toscano, che molti osservatori avevano giudicato in rotta di collisione con l’assessore regionale Marson che ha il sostegno del presidente Enrico Rossi. Da Sani arriva un netto no a un neocentralismo regionale, ma anche un’apertura a ridiscutere progetti particolarmente invasivi.
Tra giunta regionale e Pd si è sfiorata la guerra. Come mai?
«Discutere del governo del territorio come dei porti turistici è necessario, ma sarebbe opportuno che, prima che sulle pagine dei giornali, il dibattito si svolgesse nelle sedi appropriate. Altrimenti si rischia di promuovere discussioni estive autoreferenziali, mentre la pianificazione urbanistica ha bisogno di confronto e concertazione. Per questo è positivo l’invito del presidente Rossi ad aprire a settembre un confronto di merito».
Quello dei nuovi porti turistici è un tema delicatissimo. Come mai?
«Non comprendo i pregiudizi ideologici nei confronti di un certo tipo di nautica. Se a Livorno si è favorito l’insediamento dei cantieri Azimut nell’ex area Orlando, è evidente che va prevista la realizzazione di porti in grado di accogliere anche i grandi yacht».
Non nutre alcun dubbio sui progetti presentati?
«Al Pd non piacciono le lottizzazioni immobiliari camuffate da porto turistico. Se a Piombino si è definito un progetto sostenibile, scongiurando appetiti immobiliari e tenendo conto delle reali esigenze della nautica, la stessa cosa va fatta anche nei casi in cui la cubatura residenziale rischia di essere debordante. Come era, e forse è ancora, nelle intenzioni della giunta di centrodestra di Orbetello, per il nuovo porto di Talamone».
Non vorrà criticare solo l’unico porto promosso da un Comune di centrodestra?
«Noi vogliamo che vengano realizzati porti e non villaggi e se si sono previsti migliaia di metri cubi di residenziale è bene parlarne. Facciamo pure una riflessione sulle strutture a terra. Ho fatto l’esempio di Talamone perché lì c’è il rischio di snaturare un ambiente di grande pregio. Se ci sono altri casi Talamone è giusto discuterne. L’attuale Pit dà, comunque, grandi garanzie. Il progetto del nuovo porto di Cecina, datato 13 anni fa, ad esempio, non sarebbe proponibile oggi. Sulla portualità serve un confronto a cui partecipino tutti i protagonisti della filiera nautica».
Non pensa che la Marson rischi di soccombere sotto il fuoco amico?
«Sulle politiche di governo del territorio, il ritorno a un neocentralismo regionale non è garanzia di maggior qualità urbanistica o tutela ambientale: molti degli interventi edilizi su cui in questi anni si è discusso sono il residuo delle pianificazioni sbagliate adottate ai tempi della famigerata Crta, molto spesso modificate al ribasso. Per questo, non servono le fughe in avanti dell’assessore Marson, anche perché rischiano di legittimare gli stessi comportamenti da parte di altri amministratori».
A chi si riferisce?
«Al caso dell’Alta velocità e dell’aeroporto a Firenze. L’invito del presidente Rossi ad aprire un confronto servirà anche a ribadire le scelte infrastrutturali fondamentali che sono Tirrenica, Due mari e Alta velocità. Anche su questo, occorre una visione di insieme lontana da localismi e da protagonismi mediatici».
Resta l’incubo cemento
CAPALBIO. Le associazioni ambientaliste, dopo l’incontro con il sindaco di Capalbio, Luigi Bellumori, confermano gran parte dei loro dubbi in merito al rischio-cementificazione in una delle spiagge maremmane più incontaminate [vedi il comunicato stampa in calce].
Pur considerando positivo il confronto, viene sottolineata negativamente «la volontà, ribadita dal sindaco, di concedere al privato interventi ad alto reddito/rendita quali il porto turistico al Chiarone e il nuovo villaggio turistico, per ottenere in cambio finanziamenti per la sistemazione idrogeologica del Fosso Chiarone e delle aree circostanti».
Le associazioni, in una lettera firmata tra gli altri da Alberto Asor Rosa, Vittorio Emiliani e Gianni Mattioli, ripetono «la necessità di preservare un patrimonio ormai unico alla fruizione corretta dei cittadini attraverso il mantenimento dell’ampia fascia di spiaggia libera e pensando, assieme al Wwf, gestore della riserva naturale del Lago di Burano, a forme più ampie di turismo naturalistico al di fuori della stagione estiva».
Un’abbuffata di cemento. Associazioni ambientaliste Rete dei comitati per la difesa del territorio, Legambiente, Wwf, Comitato per la bellezza, movimento ecologista Terra di Maremma, nonchè singoli esponenti del mondo della cultura e dell’ambientalismo definiscono così il protocollo d’intesa fra il Comune di Capalbio e la Provincia per la sistemazione e valorizzazione della fascia costiera. E dicono: «Con questo piano si stravolge l’assetto paesaggistico, naturalistico e urbanistico della fascia costiera di Capalbio, una delle più integre dell’intera Toscana». Troppe le domande alle quali non c’è ancora risposta, per gli ambientalisti. Che riguardano tutto il piano che interessa la fascia costiera.
Il protocollo d’intesa quindi, per i firmatari del documento, non può passare così come è stato presentato. «Si prevede la costruzione di nuovi casali fra la strada litoranea e il mare ma non solo - dicono - la realizzazione di nuovi parcheggi anche in area dunale sia a Macchiatonda che alla Torba, un nuovo villaggio turistico e un porto al Chiarone, la concessione di nuovi stabilimenti balneari a Macchiatonda e alla Torba, la rettifica della strada provinciale costiera». Interventi che sono stati decisi, dicono, senza alcuna partecipazione pubblica e sostanzialmente in contrasto con il piano strutturale e che porterebbero a gravi conseguenze anche sul turismo che si basa proprio sulla conservazione e la difesa di un territorio ancora esente da pesanti speculazioni immobiliari. Un documento che analizza punto per punto le diverse criticità e che chiede al Comune, alla Provincia e alla Regione un approfondito confronto.
Non convince il piano per il recupero dei poderi alla Sacra. «Se si tratta del completamento dell’appoderamento previsto dalla stessa Sacra negli anni ’30 del secolo scorso - dicono - allora è cosa ben diversa con la costruzione di nuovi edifici abitativi e annessi agricoli, con il conseguente evidente stravolgimento del carico insediativo e dell’attuale assetto urbanistico della fascia costiera a valle della Litoranea e non solo». Anche sul porto turistico al Chiarone, per gli ambientalisti mancano garanzie. Perché ancora, i posti basrca non sono stati definiti. E sempre al Chiarone, non sono ancora state definite le volumetrie del villaggio che sorgerà dietro la duna. Stesso discorso vale per il nuovo parcheggio a Macchiatonda, nelle adiacenze dell’antica Dogana. Opposizione anche al nuovo stabilimento balneare a Macchiatonda, che comporterebbe un’ulteriore urbanizzazione della costa.
L’aveva detto. E alla fine, con un blitz, l’ha fatto. L’assessore regionale all’urbanistica Anna Marson ha messo nero su bianco quanto annunciato nelle settimane scorse: la Regione vigilerà sui Comuni, i regolamenti urbanistici che in alcuni casi hanno «bruciato» le previsioni pluriennali dei piani strutturali e l’autonomia che in diverse zone della Toscana sarebbe sfuggita al controllo.
Tutto questo è contenuto in poche righe. In una variazione al Dpef (documento di programmazione economica e finanziaria) approvata con una delibera di giunta il 12 luglio. Nella quale si stabilisce «di rivedere e perfezionare la legge 1 del 2005 (quella con le norme per il governo del territorio) per quanto concerne le relazioni fra Regione, Province e Comuni in merito alla redazione e approvazione degli atti di pianificazione e governo del territorio, al fine di assicurare un corretto ed efficace rapporto fra piani strutturali e regolamenti urbanistici e di accompagnare le autonomie comunali con adeguati strumenti di indirizzo, monitoraggio e valutazione».
Ma perché si tratterebbe di un blitz? Perché questa modifica, secondo il Pdl, è venuta dopo la fase di concertazione con le parti sociali e le associazioni, compresa quella dei Comuni, l’Anci. L’ultimo tavolo prima della variazione che riporta poteri di controllo, indirizzo e valutazione sull’urbanistica in seno alla Regione si era tenuto il 21 giugno scorso. A rappresentare l’Anci era intervenuto il sindaco di Pontassieve Marco Mairaghi, ma di una simile (anche se annunciata sui giornali e in Consiglio regionale) variazione quel giorno non se ne parlò, come si legge sui verbali della riunione.
La mossa della Regione è preliminare. Ma con due certezze importanti: si farà in fretta (il Dpef dovrebbe essere approvato entro la fine di luglio) e ci sarà la revisione della legge 1 sul governo del territorio (per la felicità della Rete dei comitati toscani, era la prima loro richiesta ufficiale a Rossi e Marson). Con in più, scritti neri su bianco nel Dpef altri principi dell’inversione di tendenza nell’urbanistica toscana: il potenziamento del riuso e della riqualificazione dei volumi edilizi esistenti; la tutela del territorio rurale; la definizione del pianto integrato territoriale rendendo effettiva la salvaguardia, la valorizzazione e la riqualificazione dei paesaggio regionali e l’adeguamento degli strumenti conoscitivi dello stato del territorio regionale (in primis il progetto di una nuova cartografia). Sulla carta insomma un bel giro di vite alla nuova edilizia.
Un blitz— dove è stata cancellata anche la soppressione delle Comunità Montane ma non un suo possibile «superamento» in favore delle Unioni dei Comuni — appunto, per il consigliere regionale del Pdl Nicola Nascosti: «Le comunità Montane non saranno soppresse e con le Unioni dei Comuni nascerà una nuova sovrastruttura. Sull’urbanistica invece la "sovietizzazione" tanto temuta dal presidente della Provincia di Firenze Andrea Barducci si è realizzata con il commissariamento delle politiche urbanistiche dei Comuni introdotto in un vero e proprio blitz dopo la concertazione a cui aveva partecipato anche l’Anci. La linea Marson è stata introdotta in maniera subdola». Per tutto il gruppo del Pdl però c’è di più in questo Dpef: «Una crisi istituzionale senza precedenti». «La giunta — ha detto il capogruppo Alberto Magnolfi — ha portato avanti la concertazione infrangendo le regole statutarie. Rossi contravvenendo allo statuto non ha presentato al tavolo delle parti sociali ed economiche gli atti di indirizzo del consiglio. Così si inficia la procedura. Ci riserviamo di impugnare il tutto davanti alla commissione di garanzia».
«Tutti sono molto affezionati alla nota ditta Martini&Rossi, che produce un vermouth internazionalmente conosciuto, ma adesso il presidente della Regione è Enrico Rossi e bisognerà farsene una ragione». La polemica scoppiata tra il neo assessore Anna Marson da una parte e una bella fetta di sindaci della Costa, con il rinforzo del Pd, non riscalda il cuore del presidente, che anzi liquida con una battuta l’ammutinamento dei primi cittadini, insoddisfatti per il cambio di rotta in materia di urbanistica. Uno a zero, e con un gol pesante, per la Marson. Ma un attimo prima, lo stesso Enrico Rossi aveva chiuso a doppia mandata ogni possibilità di rimettere in discussione la realizzazione della Tirrenica, dopo il pesante giudizio espresso del suo assessore all’Urbanistica che quindi da una parte esce rafforzata e dall’altra ridimensionata.
Dopo giorni di polemiche, alla fine Enrico Rossi ha insomma sciolto, con un taglio netto, la questione.
A far divampare le fiamme, una serie di affermazioni della titolare dell’Urbanistica che avevano, di fatto, ribaltato la filosofia del suo predecessore Riccardo Conti.
«L’errore più grande - aveva dichiarato al Tirreno Anna Marson - è di aver dato autonomia ai Comuni senza accompagnarla con un adeguato sostegno. Non bisogna tornare al centralismo regionale, ma creare ai poteri dei Comuni dei contropoteri».
Marson aveva inoltre criticato la «Villettopoli» versiliese, l’eccessiva cementificazione di zone di grande pregio come l’Arcipelago e sostenuto l’idea che «c’è un limite allo sviluppo urbanistico». Al posto della vecchia filosofia, la Marson ne ha proposta un’altra, all’insegna del recupero degli edifici esistenti, di centri storici da riqualificare, di «interi quartieri da rottamare».
Queste parole hanno provocato la reazione di una serie di sindaci, con in testa il livornese Cosimi e il piombinese Anselmi. Il primo cittadino di Piombino ha parlato di «un approccio ideologico al non consumo di territorio che rischia di alimentare la rendita, anziché contrastarla», bollando l’impostazione della Marson come il frutto di una posizione elitaria e conservatrice.
Alessandro Cosimi, che è anche il presidente dell’Anci toscana, è andato oltre chiamando in causa direttamente Enrico Rossi.
«Mi pare incredibile - aveva dichiarato Cosimi - che si possano dare dei giudizi su dieci anni di governo regionale e aprire una nuova fase senza un’adeguata riflessione».
La posizione di Rossi, al riguardo, è stata chiara: «Una legislatura è finita e ne è iniziata un’altra, è normale che ci sia un cambiamento nelle politiche, senza che questo significhi rinnegare e contestare le scelte effettuate in precedenza».
Rossi ha ricordato che la scelta di limitare il consumo di territorio e di incentivare il riuso «è scritta nel mio programma» ed ha aggiunto che «stiamo lavorando all’elaborazione di proposte concrete che possano incentivare, in accordo con i Comuni e con i privati, delle esperienze importanti in grado di tutelare le città toscane e i centri storici, piuttosto che consumare il territorio, oltretutto adesso che c’è un elevato livello di invenduto».
Sul fronte della Tirrenica, porte chiuse, invece, alla Marson che aveva criticato l’opera per il suo «impatto pesante sul paesaggio rurale storico» e perché «introduce un elemento di frattura forte tra area costiera e centri retrostanti». Anche su questo, Rossi è netto: nessuna marcia indietro e anzi la volontà di andare in tempi brevi «a un punto complessivo con il ministro Matteoli». Sulla Tirrenica, ha aggiunto, si andrà alla piena «attuazione dell’accordo Martini-Conti sulle infrastrutture».
L’errore più grande? «Aver dato autonomia ai comuni senza accompagnarla con adeguato sostegno. Non bisogna tornare al centralismo regionale ma creare ai poteri dei comuni i corrispettivi contropoteri», risponde il neo assessore all’urbanistica Anna Marson dalla sua casa a Mercatale, un borgo vicino a Firenze, che negli ultimi mesi è entrato nell’occhio del ciclone per alcuni presunti scandali edilizi. Da qui, dal suo buen retiro toscano, Anna Marson, veneta, docente di urbanistica a Venezia, dove è stata assessore alla Provincia, ha inviato ieri una lettera di apertura alla Rete dei comitati per la difesa del territorio.
L’assessore Marson ha promesso la revisione del Pit, il piano integrato del territorio, del suo predecessore Riccardo Conti. Sull’urbanistica si volta pagina.
Torniamo all’autonomia dei sindaci. Cosa intende per contropoteri?
«Dobbiamo sottoporre gli esiti delle pratiche di autonomia a una effettiva valutazione pubblica e se questi sono insoddisfacenti devono poter scattare dei poteri sostitutivi».
Proprio in questi giorni i sindaci dell’Elba si sono scagliati contro il presidente del parco Mario Tozzi che li ha accusati di voler cementificare. E’ d’accordo con il grido di Tozzi?
«Nel mio ruolo di assessore non sta a me gridare, ma migliorare le pratiche. Posso solo far mia l’osservazione di un famoso economista politico secondo cui è vero che tutti vorrebbero avere la casa nel bosco. Ma se tutti costruiscono una casa nel bosco, il bosco inevitabilmente sparisce. E’ chiaro che sull’Elba, sulla costa tirrenica e sulle zone più pregiate della Toscana dovremo fare una riflessione per affermare che c’è un limite allo sviluppo urbanistico e che se non lo si rispetta la bellezza del territorio è gravemente a rischio».
Che fare?
«Credo che si imponga, anche per la crisi economica del Paese, una politica di recupero degli edifici esistenti. La costruzione di nuove case in aree agricole comporta opere di urbanizzazione, che i comuni, anche per la crisi economica, non sono in grado di fare».
Troppo cemento?
«Io penso che di cemento non ce ne sia troppo in assoluto ma è male distribuito. Se ragioniamo sullo sfilacciamento di molti tessuti urbanizzati ritengo che ci sia spazio ancora per costruire nuovi volumi. Altra cosa è secondo me andare ad aggredire nuovo territorio».
Troppe seconde case?
«Dovremo riqualificare i centri esistenti e portarci i turisti. Anche all’Elba la domanda delle seconde case è più forte lungo la costa e meno all’interno dell’isola. La costa toscana è abbastanza differenziata. La Versilia sembra un pezzetto di Padania per il modello insediativo nel senso che c’è una dispersione insediativa molto elevata, quella che Pier Luigi Cervellati chiama Villettopoli. A sud di Pisa ci sono ancora porzioni di territorio rurale che è importante salvaguardare, portando i turisti nei centri all’interno».
San Vincenzo e Val di Cornia: ha letto la polemica sulle troppe case?
«Sono intervenuta solo per notare che in quelle zone, come anche in altre in Toscana, è stato esaurito il dimensionamento previsto dal piano strutturale. Ci sono comuni che con il primo regolamento urbanistico hanno bruciato le previsioni del piano strutturale. Il mercato rispetto a questo eccesso di offerta non è che l’assorbe tutta. Realizzare le previsioni un po’ qui e un po’ là è un disastro economico nel medio lungo termine per i comuni, che deve fornire i servizi».
Stop all’attività edilizia?
«Occorre indirizzare l’attività edilizia a intervenire sul tessuto già urbanizzato. Puntare soprattutto al recupero edilizio. Sia attraverso una maggiore chiarezza normativa che con procedure più snelle per promuovere il recupero e la ristrutturazione. Ci sono quartieri da rottamare. C’è un problema rilevante di edifici energivori da riqualificare o sostituire. Di centri storici da restituire allo splendore di un tempo. Occorre una maggiore qualità urbana. Ma, dentro questo obiettivo, c’è spazio anche per nuovi volumi».
Dalle case alla Tirrenica: superstrada o autostrada?
«Non c’è dubbio che l’autostrada, rispetto alla superstrada, soprattutto nel tratto da Grosseto a Civitavecchia, ha un impatto molto pesante sul paesaggio rurale e storico e introduce un elemento di frattura forte tra area costiera e centri retrostanti. Oltre a questo mi sembra che ci siano problemi per il project financing nel senso che scarica costi consistenti sulla collettività sia per i pedaggi che per il finanziamento chiesto alle istituzioni pubbliche».
Si potrà rivedere il progetto autostradale?
«Questa non è mia competenza. C’è una cosa che mi sta a cuore: le trasformazioni dell’uso dei suoli contermini all’opera prevista. Il problema è quello delle attese di valorizzazione dei terreni vicino all’autostrada, ai suoi svincoli e alle opere complementari».
In quelle zone i terreni non dovranno passare da agricoli a edificativi?
«Se qualche trasformazione è utile e necessaria andrebbe pianificata. Però nell’interesse collettivo e non di pochi soggetti...».
Le recenti polemiche sul regolamento urbanistico di Campiglia, quanto oggetto di dichiarazioni da parte dell'assessore Marson alla Commissione del Consiglio Regionale competente in materia di assetto del territorio, richiamano alla mente la narrazione di Vezio De Lucia nel suo ultimo libro "le mie città".
Non si vuole di nuovo recensire quel libro, ma molto di quel libro precipita naturalmente nel dibattito odierno. Infatti, illustrando un percorso che mobilita, prima ancora dell'intelletto, delle capacità tecniche e professionale, la coscienza, l'etica dell'agire professionale e politico, De Lucia richiama l'attenzione su una tendenza, o forse sarebbe meglio dire deriva, che sembra accompagnare molte parabole degli uomini politici: il riflusso figlio esclusivamente delle logiche di potere, dei giochi di forza e della carriera politica, che inevitabilmente conduce a sposare interessi particolari assunti come alleati in campo.
Illustrando proprie esperienze ci richiama all'importanza dei piani territoriali di coordinamento, ad una loro forza e cogenza, a fronte dell'evanescenza normativa, della struttura narrativa di strumenti che hanno finito per lasciare campo libero agli interessi particolari che attraversano i nostri territori.
E d'altra parte se l'assessore Marson dice "che dovremo riprendere in mano l'intera questione" per ridefinire il rapporto tra piano strutturale e regolamento urbanistico, qualcosa che non funziona ci deve essere.
E allora se è così appare utile ricordare che in Toscana si è data una interpretazione estrema del principio di sussidiarietà che è stata veicolo della atomizzazione comunale dell'urbanistica e della complessiva perdita di controllo delle trasformazioni; appare utile annotare che troppe volte ragion politica e accordi politici, o di potere che dir si voglia, hanno piegato la logica urbanistica; sembra ancora necessario ricordare che il progressivo affidamento delle trasformazioni urbanistiche, per l'individuazione delle realizzazioni con il bando aperto delle proposte per la formazione del regolamento urbanistico, come con i concorsi per il cofinanziamento degli interventi per la realizzazione di edilizia a canone controllato o sostenibile, ha di fatto finito spesso per relegare l'amministrazione pubblica al ruolo di notaio che avvalla scelte ed interessi altrui.
In questo contesto la citazione del libro di De Lucia appare utile non solo perché ripropone all'attenzione temi e problemi che sono il nocciolo del fare urbanistica, ma anche perché richiama ad un rigore professionale, oltre che disciplinare, che sono le uniche vere armi con le quali si possono affrontare le complesse vicende del governo del territorio, con le quali resistere al sistema degli interessi che via via si sono fortificati perchè l'Italia ha fatto del mattone, della relativa facilità di accumulare denaro speculando sul passaggio dei terreni da agricoli a edificabili, una pratica diffusa, un volano di sviluppo a discapito della nostre risorse (perché di tutti):identità culturale e integrità fisica.
Incrociando le vicende urbanistiche toscane e la lettura di un libro: le prime come espressione dei tempi e dei bisogni, la seconda come occasione per riallineare buone prassi e priorità del governo del territorio, si può insomma sperare di riavviare un cammino positivo a partire da una capacità di confronto che negli ultimi anni è mancata o è stata ridotta a comunicazione unidirezionale.
«Io, compagno eretico, accuso Venturina»
Zucconi: il Pd dovrebbe ascoltare di più.
E questo paese è un dormitorio senza identità
In Toscana ci sono buoni principi e cattiva prassi. Non c’è una visione del futuro e non ci sono anticorpi. Manca l’aspetto educativo della politica
«La Toscana, il Pd toscano, dovrebbe farne tesoro, invece le critiche le vive con sofferenza. Il partito dovrebbe ascoltare di più, essere più dinamico. Se non lo capisce vuol dire che è in crisi». Parola di un ex. Un ex di lusso come Massimo Zucconi, fino al 2004 uno degli uomini di punta dei Ds piombinesi, dirigente pubblico e dal 2002 al 2007 presidente della società Parchi Val di Cornia. Oggi, quasi sostituendo l’opposizione nel Consiglio comunale di Campiglia Marittima, è la vera spina nel fianco della giunta di centrosinistra guidata dal sindaco Rossana Soffritti. È stata la sua lista civica, «Comune dei cittadini» — l’anno scorso ha incassato il 18,5% — a sollevare un caso che rischiava di passare inosservato. Quello di un piano strutturale che fino al 2020 prevede un massimo di 650 alloggi da costruire, ma che secondo i «civici» grazie al regolamento urbanistico approvato dal Comune il 12 maggio, consentirebbe già per i prossimi cinque anni la costruzione di oltre 700 alloggi grazie all’edilizia sociale (che premia il costruttore) e lo sfruttamento delle cosiddette aree critiche.
Zucconi siete i responsabili di uno scontro politico che in Val di Cornia non si vedeva da almeno quindici anni. Stupisce che il grimaldello di questa situazione sia un ex del partito...
«Sono stato iscritto prima al Pci, poi al Pds e ai Ds. Me ne sono andato nel 2004 dopo una serie di tensioni che si erano create proprio a partire dai temi urbanistici». Spieghi meglio... «Non ho condiviso i piani regolatori di questo territorio fin dal 1995. Alcune scelte che hanno riguardato il parco di Rimigliano a San Vincenzo dove il Comune ha permesso la costruzione di un grande albergo. Era il ’96 e io da consigliere comunale di Campiglia non votai il piano regolatore perché secondo me conteneva già i germi di una logica espansiva. Oggi infatti ci troviamo con una quantità di alloggi smisurata e una qualità abitativa che peggiora».
Siete stati accusati dai sindaci di Piombino, Suvereto e Campiglia di «sfacciataggine» e «smemoratezza». Loro difendono la bontà della pianificazione territoriale in Val di Cornia. È davvero tutto da buttare?
«Mi riaggancio a quanto ha detto l’assessore Anna Marson. Dico che i principi contenuti nella legge 1 del 2005 che tutela il paesaggio sono di buon governo. Un altro discorso è come viene applicata questa legge. Dobbiamo però riflettere sulla natura stessa dei piani strutturali, che sono piani di principio, ma non fanno quello che l’urbanistica dovrebbe fare: scelte concrete sul territorio. Disciplinare e localizzare gli interventi».
Vuol dire che i Comuni applicano male la legge toscana?
«Il punto critico sono i regolamenti. Che ogni Comune si fa e approva. Nel caso di Campiglia il regolamento tradisce il piano strutturale. La Toscana può essere presentata come una terra di buoni principi, ma con una prassi che spesso li contraddice. Condivido quanto dice il presidente Enrico Rossi che l’identità della nostra regione è fatta di patrimonio culturale, di centri storici e campagna. Ma non mi sembra ci sia una seria volontà di tutela del nostro territorio se nelle campagne consentiamo di fare di tutto trascurando agricoltura e paesaggio». È una critica anche al Pd toscano? «Credo che la Toscana nei suoi gangli istituzionali e politici non sia così consapevole e convinta della strategia che viene annunciata. A mio parere c’è una debolezza politica. Guardo a Campiglia dove secondo me è venuto meno anche l’aspetto educativo della politica con gli amministratori lasciati da soli nello scontro tra interessi privati e interessi generali. C’è un appiattimento del dibattito, qui l’opposizione è da 15 anni in silenzio. E se penso ai Ds e al Pd locale sono decenni che non vedo un comunicato del partito, ma solo del sindaco e dei tecnici del Comune. Credo non ci sia una visione del futuro e senza anticorpi abbiamo subito le pressioni degli interessi immobiliari. È mancata la politica. In Toscana c’è uno scarto troppo ampio tra la fase dell’enunciazione e la pratica. Si predica bene e si razzola male. Non avremo tutte le ragioni, ma il confronto è necessario. Qui criticare è quasi come essere eretici».
E voi con la lista civica ne avete approfittato...
«Abbiamo intercettato il voto di protesta. I dieci anni del sindaco Silvia Velo (oggi parlamentare) sono stati anni di silenzi che hanno mortificato la democrazia e la trasparenza del Comune. Non hanno saputo gestire le cave e gli impianti produttivi sono stati realizzati in campagna lasciando degradare il centro. Venturina è un dormitorio, non c’è una piazza, non c’è identità».
Eppure lei fino al 2007 e ancora oggi da dirigente al Comune di Piombino è a stretto contatto con gli uomini e il partito che critica...
«Sono sempre stato un dirigente pubblico e tuttora lo sono. Ho scelto di dedicarmi alla costruzione dei parchi, alla società Parchi Val di Cornia. In quel momento mi sono reso conto quanto valga il nostro patrimonio paesaggistico e più cresceva la mia sensibilità più mi staccavo dalla politica. Sono uscito nel 2007 dalla gestione dei parchi da uomo libero. Il mio mandato cessava, ma credo che non fossi nemmeno più gradito. La mia lista civica non vuole diventare un partito, solo riportare la discussione e la trasparenza in Consiglio comunale. Se non ci fossimo stati noi nessuno avrebbe detto nulla su questo regolamento».
Il regolamento ammette il raddoppio degli alloggi in edilizia sociale. Ma secondo i tecnici del Comune ciò non avverrà «per mancanza oggettiva di spazio fisico a disposizione». Insomma il raddoppio ci sarà o no?
«Questo mi sembra un principio inedito nell’urbanistica: l’autoregolazione dei costruttori. Ogni considerazione è superflua. Così come è scritta quella norma vuol dire raddoppio. Se il Comune non vuole davvero il raddoppio degli alloggi deve fare una cosa molto semplice: cancellare la norma».
Vezio De Lucia
«Volevo soltanto migliorare,
e sono diventato un pretesto»
Il padre del piano strutturale dei Comuni di Campiglia, Suvereto e Piombino, l’architetto Vezio De Lucia, nei giorni scorsi aveva criticato il regolamento urbanistico di Campiglia. Quello che rischia di far aumentare il numero di alloggi previsti fino al 2020 già nei sui primi cinque anni di attuazione.
I sindaci dei tre comuni, Rossana Soffritti, Gianni Anselmi e Giampaolo Pioli martedì hanno scritto una lettera anche per criticare le parole del noto urbanista. Eccone un passaggio: «Stupisce che l’architetto di scagli contro sue medesime scelte». E ancora: «Limitare esclusivamente al numero degli alloggi il contenuto di un regolamento urbanistico denota un approccio al tema meramente ideologico e, cosa più grave, denuncia un appannamento deontologico che fa il paio con l’opportunismo politico: entrambi aspetti aggiuntivi e preoccupanti del degrado etico che ci avvolge».
Ieri De Lucia ha voluto replicare ai sindaci. Ecco il testo del suo comunicato: «Come sempre, quando mancano gli argomenti, si ricorre agli insulti (mi si accusa nientemeno di "appannamento deontologico" e "opportunismo politico". Perbacco). Nell’intervista al Corriere Fiorentino mi sono limitato a dire che si è bruciata, in un brevissimo periodo, una previsione di lungo periodo. E ho aggiunto: "O il mio lavoro era sbagliato o con questo regolamento c’è stato un eccesso". Questo è tutto. Non ho accennato neanche alle aree critiche (le cosiddette aree degradate non compatibili con i centri abitati, ndr) che, nel piano strutturale, sono definite come limitate porzioni di territorio che confliggono con l’assetto urbanistico nel quale sono inserite (edifici abbandonati, sottoutilizzati o destinati a funzioni improprie). L’obiettivo del piano era la riqualificazione ambientale e paesaggistica, e in questo senso va letta anche la norma che, solo per alcune aree critiche, non fissa il dimensionamento. Succede invece che una previsione volta a migliorare esteticamente e funzionalmente luoghi degradati viene utilizzata come pretesto per sovradimensionare il regolamento urbanistico (e si accusa me di appannamento deontologico)».
Alessandro Grassi
«Nessun raddoppio di alloggi, chiariremo tutto»
Lettera del coordinatore dell’ ufficio urbanistica Val di Cornia
Caro direttore, la notizia di una quantità così rilevante di edilizia sociale tutta a carico dei privati sarebbe stata, per il Comune di Campiglia Marittima, una cosa di cui andare fieri. Siccome, purtroppo, la cosa non è vera, mi spiace deludere le attese delle tante famiglie che non trovano la casa in affitto.
Mi dispiace soprattutto per coloro i quali, pur distanti dalla vita delle comunità locali, si sono affrettati a sentenziare giudizi senza aver approfondito più di tanto la proposta di piano o, più semplicemente, fidandosi di dossier, di letture e giudizi altrui.
Innanzi tutto mi preme tranquillizzare Vezio De Lucia che in più di una occasione, dopo la conclusione del lavoro sul piano strutturale, si è espresso con giudizi poco lusinghieri sulla Val di Cornia. Dico a De Lucia che i regolamenti urbanistici di Campiglia e Suvereto sono perfettamente coerenti al «suo» piano strutturale, sia sotto il profilo normativo che per i principi fondativi e strategici.
Nello specifico è bene ricordare che l’edilizia sociale riguarda la possibilità di realizzare alloggi da destinare permanentemente alla locazione. Il legislatore ha ulteriormente introdotto, suppongo per facilitare la sostenibilità finanziaria da parte di capitali privati, la possibilità di una locazione temporanea, generalmente compresa tra i 10 e i 30 anni.
Non si tratta quindi di nuove «case popolari» ma di un nuovo strumento a disposizione dei Comuni per coniugare governo del territorio e politica della casa.
L’equivoco dei 300 alloggi sociali a Campiglia nasce da una forzata interpretazione della norma contenuta nel nuovo piano comunale, che recita testualmente: «La realizzazione di n˚1 alloggio a canone sociale per ogni alloggio di edilizia libera realizzato come premio in aggiunta al limite stabilito nella presente scheda». Scusate tanto, ma quale razza di «premio» sarebbe la possibilità di realizzare alloggi da destinare permanentemente alla locazione ad un canone che non supera i 300 euro mensili? Si conoscono le difficoltà dei bandi regionali sull’affitto e del sistema di fondi immobiliari a rilevanza locale per la costruzione di edilizia sociale privata?
Il premio individuato dalla norma di piano prevede la possibilità di realizzare ulteriori alloggi liberi (rispetto al numero indicato nella norma) nella misura pari a quelli sociali. Siccome poi lo spazio fisico è comunque limitato dalle prescrizioni di verde, parcheggi, strade, e così via, diciamo che sarà quasi impossibile andare oltre qualche unità di alloggi aggiuntivi. Detto quindi che la teoria del raddoppio del dimensionamento del piano nasce da una errata interpretazione normativa, che sarà certamente chiarita in sede di osservazioni, ribadisco la piena conformità del regolamento urbanistico al piano strutturale di Vezio De Lucia.
Aspetto di vedere altrettanto equilibrio nei futuri piani comunali in Toscana, unitamente ad un’attenta valutazione politica sui tempi e sui costi della pianificazione, sulla continua e ininterrotta attività di adeguamento del Ps al Pit e al Ptc, prima di affrontare il rapporto tra piano strutturale e regolamento urbanistico.
«Rivedere il rapporto tra piani strutturali e regolamenti urbanistici». Probabilmente nemmeno ieri mattina si riferiva al caso specifico di Venturina, ma l’assessore regionale all’urbanistica Anna Marson, nel corso della prima riunione della commissione territorio e paesaggio in Consiglio regionale, è andata a toccare proprio il punto. Quello contestato dai comitati di cittadini, dalle liste civiche e da noti urbanisti e professori (Vezio De Lucia, Rossano Pazzagli, Massimo Zucconi e ultimo il direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis). Il cuore o il fattore principale del contestato sviluppo urbanistico nei comuni di Campiglia Marittima e Suvereto: il rapporto tra piano strutturale e regolamento urbanistico con quest’ultimo che secondo il fronte del no ha «bruciato» già nei primi cinque anni il numero di alloggi previsti dal piano strutturale pensato da De Lucia che ne prevedeva 650 fino al 2020.
Il tema è questo. Da una parte i piani strutturali, dall’altra i margini di manovra e di interpretazione delle norme dei Comuni. E su questo, Venturina o non Venturina, ha puntato l’assessore che ieri mattina avrebbe anche telefonato ai sindaci di Suvereto, Campiglia e (sicuramente) Piombino dopo la lettera pubblicata ieri dal Corriere Fiorentino in cui, forse con troppa irruenza, vengono duramente criticate le dichiarazioni rilasciate al nostro giornale dall’assessore. «Il rapporto tra piano strutturale e regolamento urbanistico — ha detto Marson in commissione — è problematico perché i regolamenti tendono ad allocare subito tutte le quantità edificabili previste dai piani strutturali (come è successo a Venturina secondo i comitati, ndr). Oltretutto, visto che in situazioni di crisi come quella attuale il mercato non assorbe tutta l’edilizia, a trovarsi in difficoltà sono gli stessi Comuni».
L’assessore ha riconosciuto l’importanza dell’autonomia dei Comuni, «ma tali autonomie vanno accompagnate da strumenti di indirizzo, monitoraggio e valutazione adeguati». E infine ha confermato quanto aveva già detto lunedì sulla legge 1 del 2005 (norme per il governo del territorio che la Toscana ha varato quando al posto della Marson c’era Riccardo Conti): «Ha introdotto elementi positivi, ma va rivista in alcuni punti chiave, a partire dal rapporto tra i piani strutturali, di medio-lungo periodo (come quello di Campiglia, Suvereto e Piombino, ndr) e i regolamenti urbanistici che dovrebbero invece corrispondere al mandato di un sindaco » . Da Campiglia però arriva un nuovo allarme. A lanciarlo sempre la lista civica guidata da Massimo Zucconi, urbanista, ex uomo di punta dei Ds piombinesi che alle elezioni del 2009 ha raggiunto il 18,5%. «Il regolamento urbanistico ignora completamente il centro storico, dal quale scompaiono progressivamente i residenti. Degli oltre 700 nuovi alloggi previsti nei prossimi 5 anni, solo 24 sono localizzati a Campiglia e tutti in discutibili aree di espansione nel paese nuovo. Ma la cosa ancora più sconcertante è che dei 299 alloggi di edilizia sociale (destinati ai residenti e alle fasce sociali più deboli), neppure uno è destinato a Campiglia e al centro storico. Gli alloggi di edilizia sociale previsti dal regolamento urbanistico appaiono più come "premio edificatorio" per coloro che costruiranno nuove case a Venturina: un meccanismo che raddoppia le volumetrie nelle zone dove sono già previste troppe nuove case, mentre ignora del tutto le esigenze del riuso del centro».
Mentre prosegue il dibattito sui piani urbanistici dei comuni della Val di Cornia (si veda in proposito la tempestiva rassegna stampa del sito Il comune dei cittadini), il nuovo assessore regionale all’urbanistica sottolinea uno dei nodi della discutibile gestione della legge urbanistica toscana attuato ai tempi dell’assessore Riccardo Conti, emerso nella denuncia di Vezio De Lucia a pèroposito del Piano strutturale dei comuni della Val di Cornia («il mio piano urbanistico» Bruciato il mio piano urbanistico»): il rapporto tra l’assetto a lungo termine del piano strutturale e quello a breve termine del regolamento urbanistico. Il primo dovrebbe indicare, secondo la stessa legge regionale, le condizioni che le caratteristiche del territorio pongono alle potenziali utilizzazioni, ed essere riferito al lungo periodo (tendenzialmene “a tempo indeterminato”), il regolamento urbanistico dovrebbe definire le previsioni a breve periodo, tendenzialmente commisurate al quinquennio del mandato amministrativo (il “piano del sindaco”). Le possibilità di trasformazione edilizia definite dal Piano strutturale dovrebbero insomma costituire il contenuto di molti, successivi Regolamenti urbanistici. In molti comuni è invece prassi, tollerata se non incoraggiata negli anni scorsi dalla giunta Martini-Conti, esaurire in un solo quinquennio tutta l’edificabilità teoricamente consentita per l’eternità dal Piano strutturale. Una follia, che ha indotto molti a ritenere ormai del tutto inutile l’articolazione del piano regolatore generale in due distinti strumenti: appunto, in Toscana, il Piano strutturale e il regolamento urbanistico.
L’errore del rapporto scorretto tra Piano strutturale e Regolamento urbanistico è comunque un aspetto della più generale impostazione errata del rapporto tra regione e comuni, che è stato predicato e praticato dalla giunta Martini-Conti. Questa ha sostanzialmente lasciato mano libera ai comuni (salvo che per le grandi infrastrutture), trascurando il fatto che esistono interessi - quali quelli del paesaggio - che travalicano le competenze comunali, e che la sommatoria delle decisioni dei comuni possono pesantemente compromettere l’assetto territoriale regionale. Come è puntualmente avvenuto nella Regione Toscana.
L’assessore: “Qualcosa non ha funzionato. troppe critiche, legge da ripensare” - Arriva sul tavolo della Regione il dossier sulla Val di Cornia, sul Web appello dei comitati ai cittadini
CAMPIGLIA (Livorno) — I comunicati, le lettere dei comitati dei cittadini. Ma anche le critiche di importanti urbanisti — da Vezio De Lucia a Massimo Zucconi — sono entrati a far parte di un piccolo dossier che l’assessore regionale all’urbanistica Anna Marson prenderà in analisi già nei prossimi giorni. Comunque sia, la chiaccherata con l’assessore parte proprio da qui. Dal caso del piano strutturale e del successivo regolamento urbanistico di Campiglia-Venturina e di Suvereto che in questi giorni sta agitando, e non poco, la Val di Cornia.
Cittadini e associazioni stanno protestando con le reciproche amministrazioni comunali, accusandole di aver stravolto i buoni propositi contenuti nel piano strutturale realizzato proprio dal noto urbanista De Lucia che, ad esempio, per Campiglia prevedeva di realizzare un massimo di 650 alloggi da qui al 2020 e che invece già il primo di tre regolamenti urbanistici potrebbe innanzare a oltre 700. Secondo comitati e urbanisti, con una sorta di escamotage perfettamente legale che è l’edilizia sociale (in alcuni casi consente ai costruttori di raddoppiare gli edifici come una sorta di premio) e in seconda battuta con la previsione delle aree critiche (zone degradate non compatibili con l’abitato che veranno sostituite da case).
Il tema è sì in questo caso la Val di Cornia, ma più in generale la tenuta della legge regionale sull’urbanistica. Un tema che l’assessore Marson affronterà presto. Per sgomberare il campo dai sospetti. «Di sicuro nel rapporto tra piano strutturale e regolamenti urbanistici c’è qualcosa che non funziona — spiega — non so quanta sia la responsabilità di chi ha scritto quella legge o se il problema stia nel fatto che non sono stati realizzate linee di indirizzo adeguate sul come applicare la norma. Certamente, dovremo riprendere in mano l’intera questione, ma non è detto che sia necessario rivedere la legge, anche se le critiche su questo aspetto della normativa regionale arrivano da più parti. Prima voglio sentire tutti i soggetti coinvolti, anche perché alcune valutazioni sono condivise dagli stessi Comuni».
L’assessore Marson domani, tra le altre cose, farà il suo esordio nella prima riunione della commissione regionale ambiente e territorio. Probabilmente qualche consigliere regionale le chiederà una presa di posizione o chiarimenti sulle vicende della Val di Cornia e più in generale sul rapporto tra piani strutturali e regolamenti urbanistici varati dalle amministrazioni comunali. «Non c’è solo il caso di Campiglia o Venturina — continua l’assessore — le critiche che ci arrivano un po’ da tutta la regione ci impongono una riflessione. Il fatto che il regolamento urbanistico abbia esaurito tutte le quantità edificabili previste dal piano strutturale è un caso molto diffuso in Toscana, non riguarda solo la Val di Cornia. In questo momento sto cercando di valutare come muovermi».
Intanto, mentre la lista civica «Il Comune dei Cittadini» ha chiesto un incontro all’assessore Marson, sui siti internet del movimento e sui blog dei cittadini, come quello di Uniti per Suvereto, non si discute di altro che dei due regolamenti urbanistici — quello di Campiglia e di Suvereto appunto — approvati il 12 maggio scorso. Su facebook, sui forum online i «civici» incitano i cittadini e le associazioni di categoria a presentare in questi due mesi di tempo le osservazioni per ribaltare quanto previsto dai regolamenti urbanistici. E tornare al vecchio piano strutturale.
«Il mio piano strutturale è stato bruciato». O meglio, «il mio piano era un ragionamento, una previsione di lungo periodo che è stata bruciata in un periodo brevissimo. Allora, i casi sono due: o il mio lavoro era sbagliato o con questo regolamento c’è stato un eccesso». A parlare è l’urbanista Vezio De Lucia, il padre del piano strutturale di Campiglia-Venturina, Suvereto e Piombino. De Lucia è un urbanista di fama, ha lavorato come consulente di amministrazioni comunali, provinciali e regionali in numerose città e territori del Lazio, della Toscana e dell’Emilia Romagna. Per Venturina, il suo piano strutturale prevedeva un massimo di 650 alloggi e che questi fossero realizzati entro il 2020 attraverso tre regolamenti urbanistici. Il 12 maggio il Comune di Campiglia, con i voti della maggioranza, ha dato il via libera a un regolamento che sulla carta rispetta il piano realizzato da De Lucia. Ma che prevede deroghe all’edificazione di ulteriori alloggi nelle cosiddette aree critiche (zone degradate con attività incompatibili con i centri abitati) che secondo il comitato Comune ai Cittadini «sarebbero schizzate in modo improprio» e attraverso l’edilizia sociale che premia i costruttori ai quali è consentito realizzare alloggi aggiuntivi.
Due clausole che per la lista civica capeggiata dall’urbanista Massimo Zucconi, ex presidente della società Parchi Val di Cornia, hanno consentito al Comune di Campiglia guidato da Rossana Soffritti di aumentare già con il primo dei tre regolamenti urbanistici previsti il numero di alloggi consentito dal piano strutturale (713 contro 650). «Un piano strutturale deve cercare equilibrio tra domanda e offerta, non c’è dubbio che a Campiglia si possano costruire case — spiega De Lucia — visto che c’è domanda, ma il punto è che un piano strutturale non può seguire l’offerta altrimenti perde tutte le sue caratteristiche di tutela».
Secondo l’urbanista, la vicenda di Campiglia-Venturina «non è l’unica in Toscana e questa storia dei regolamenti urbanistici successivi al piano strutturale mettono in discussione la bontà della legge toscana, la sua efficacia. Se il regolamento assorbe e anzi supera le previsioni del piano, la sussistenza dei due atti è inutile. Ed è del tutto inutile anche un piano strutturale di lungo termine (quindicennale) come questo. Probabilmente la nuova giunta regionale dovrà affrontare questo tema».
Rossano Pazzagli, ex sindaco di Suvereto (dal 1995 al 2004 come indipendente, appoggiato da una coalizione di centrosinistra), il Comune che ha approvato lo stesso giorno di Campiglia il suo regolamento urbanistico, è ancora più netto: «Corriamo gli stessi rischi di Campiglia e Venturina. Bisognerebbe interrogarsi sul perché chi ha fatto il piano strutturale non è stato messo nelle condizioni di fare anche i regolamenti urbanistici visto che si è voluto interrompere il rapporto con De Lucia e affidare la pratica a un altro consulente. Così è chiaro che la coerenza tra i due piani viene meno. In questa zona, è vero, c’è una pressione turistica e ovviamente c’è la pressione immobiliare, della rendita. Due fattori a cui le amministrazioni pubbliche dovrebbero resistere».
A Suvereto, tra l’altro, proprio ieri un comitato di cittadini (Uniti per Suvereto) ha denunciato sia «i 700 alloggi in cinque anni previsti a Campiglia, più di quanti ne prevedeva il piano strutturale in quindici» che i rischi cui va incontro il piccolo comune: «A Suvereto oltre a nuovi alloggi e capannoni si prevede di costruire, ampliare, un centro commerciale subito fuori il centro storico medievale, lungo le mura antiche. Ci auguriamo che le osservazioni dei cittadini e delle associazioni di categoria possano ribaltare una previsione che farebbe fare un salto indietro alla qualità di Suvereto. Ma temiamo che al di là del nostro Comune, stiano suonando gravi campanelli di allarme per l’intera Val di Cornia».
L’ex sindaco che dice? «L’impressione è che le aree critiche e l’edilizia convenzionata siano il grimaldello per rispondere agli appetiti imprenditoriali. Si predica bene e si razzola male, questa la linea data dall’ex assessore Riccardo Conti. Il Pd toscano fa buone leggi, buoni principi, ma poi nei piani regolatori si fa altro».
Febbraio 2010: sulle pagine del Corriere di Siena, per chi ha l’occasione di sfogliarle, capita di imbattersi in titoli come “il cemento che piace agli enti locali” (23 febbraio, a firma Sonia Maggi), “Qual è l’interesse pubblico?” e “Bagnaia, chiesti i danni al sindaco” (12 marzo, si fa riferimento all’interrogazione della consigliera di Rifondazione a Sovicille, Angela Bindi, nonché al ricorso al TAR da parte della Agricola Merse s.p.a.), e ancora “Bagnaia, il parere dei tre Comuni” (14 marzo). L’ultimo articolo, che reca il sottotitolo “Massima attenzione ad un intervento imprenditoriale di qualità”, e riporta la posizione ufficiale dei Comuni interessati, è anche reperibile nella rassegna stampa fornita dalla Provincia di Siena nel suo sito on-line: gli altri no, si trovano solo nella versione cartacea, che può consultare solo chi vive o lavora a Siena. Nella censura ricade anche un comunicato della sezione senese di Italia Nostra, del 22 marzo, che neppure il Corriere di Siena ha voluto pubblicare. Sul caso di Bagnaia, evidentemente i nervi sono un po’ scoperti.
La storia è lunga: nel 2000 la Soc. Agricola Merse s.r.l., di proprietà Monti Riffeser, firma un protocollo d’intesa con i Comuni di Murlo, Sovicille e Monteroni d’Arbia, tutti in provincia di Siena, per un piano di sviluppo turistico nella tenuta di Bagnaia, che si estende appunto sui tre comuni. Il piano prevede il completamento delle strutture già avviate intorno al nucleo della fattoria di Bagnaia, in comune di Murlo, con un centro congressi e un albergo a cinque stelle, e inoltre una serie di interventi fra cui un campo da golf di 18 buche con annesso albergo, ancora un altro albergo con centro congressi sulla Siena-Grosseto, una beauty farm. Nel piano sono previsti anche la conversione al biologico delle produzioni agricole e alcuni interventi di miglioramento ambientale.
Siamo pochi chilometri a sud di Siena, dove il pian di Rosia raggiunge il corso della Merse e si accosta ai poggi di Murlo. La fitta rete di canali testimonia l’importanza delle opere di bonifica in quello che era il punto più delicato dell’idrografia senese. Sull’altra sponda del piano, oltre il crinale di San Rocco a Pilli, si disegna il profilo di Siena. Le altre sponde collinari, a ovest e a sud, ospitano nuclei storici di grande pregio come Orgia, Stigliano, Torri e Rosia, da una parte, e le Stine, Grotti e Radi dall’altra. Tanto per dire che non siamo in una parte qualsiasi di un territorio qualsiasi.
Il piano del 2000 viene in parte realizzato, ma già nel 2006 si rende necessaria una variante, che viene ratificata in un nuovo protocollo d’intesa, auspice l’Amministrazione Provinciale di Siena. La variante riguarda l’assetto agricolo, con la rinuncia all’indirizzo biologico perché “non conveniente”, ma soprattutto riguarda la destinazione degli interventi turistico-ricettivi: non solo alberghi ma RTA (Residenze Turistico-Alberghiere) o addirittura CAV (Case Appartamenti Vacanze). La differenza non è da poco: se le prime, le RTA, non possono (almeno in teoria) essere frazionate e messe in vendita, le seconde nascono già come seconde case, al pari di qualsiasi insediamento residenziale. Cambiano anche le tipologie: da strutture a schiera, a volume compatto con resede unitario, si passa alla disseminazione delle villette e relativi giardinetti.
Così circa 65.000 mc di nuove costruzioni si vengono ad aggiungere ai 90.000 mc già disponibili per ristrutturazioni edilizie a destinazione turistica. Senza contare i volumi interrati che contribuiscono insieme al campo di golf al rimodellamento completo di tutta la morfologia collinare. Da notare che fra le integrazioni del 2006 c’è anche lo spostamento di una delle strutture ricettive previste, che ricadeva nell’area della bassa Merse, compresa in un SIC (Sito di interesse comunitario) verso l’area già interessata dal previsto campo da golf , ossia “antropizzata”, dice la relazione dell’azienda. Come dire: rispettiamo “i forti connotati naturali” del fondovalle, e carichiamo ulteriormente di nuovi volumi le colline …
Il documento è datato 19 gennaio 2006. L’unica reazione, in febbraio, sembra essere quella del gruppo consiliare di Rifondazione Comunista alla Provincia di Siena, che interroga in proposito il presidente (firmatario dell’atto integrativo del protocollo) e mette in dubbio la correttezza delle procedure previste rispetto alle direttive regionali. Ma è solo in settembre che la stampa sembra accorgersi della portata degli interessi in gioco. Il 10, domenica, e di nuovo il 13, mercoledì, le pagine toscane di Repubblica ospitano due ampi servizi di Maurizio Bologni sul caso di Bagnaia, con foto dei luoghi (e della signora Marisa Monti Riffeser) e titoli molto significativi: “Da albergo a case in vendita. Business immobiliare, la Provincia di Siena dice sì”, e ancora: “Bagnaia, violata la legge regionale” (virgolettato, attribuito a Rifondazione) e sotto “L’opposizione prepara osservazioni alle varianti e ricorsi al Tar”, dove per opposizione si intende sempre il solo PRC.
Attenzione alle date: siamo ai primi di settembre 2006, e solo pochi giorni prima si era aperto il caso di Monticchiello con il celebre articolo di Alberto Asor Rosa sulle pagine culturali di Repubblica. In quel particolare clima anche le denunce fatte ormai da qualche mese riemergono finalmente in tutta la loro rilevanza: “Bagnaia equivale a Monticchiello”, si legge su Repubblica. E sotto l’occhiello “le reazioni”, nel secondo intervento, lo stesso giornale riporta le interviste con il senatore Boco e il consigliere regionale Erasmo D’Angelis con un titolo che rincara la dose, “modello toscano al capolinea: nell’urbanistica serve una nuova fase”. A riguardare oggi quelle pagine ci si rende conto di quanto sia mutato in seguito l’atteggiamento istituzionale. A quel tempo sembrava possibile un dialogo, c’era la disponibilità a rivedere qualche aspetto della gestione del territorio: poi, a partire dai primi mesi del 2007, le pubbliche amministrazioni, Regione in testa, si sono arroccate sulla difensiva, mentre la denuncia di emergenze urbanistiche e ambientali non faceva che estendersi a tutta la Toscana.
La linea fissata nel protocollo di gennaio non poteva non essere rivista, o almeno ritoccata: nel febbraio 2007 i tre Comuni sottoscrivono un accordo esecutivo nel quale si stabilisce che “laddove in luogo delle strutture alberghiere fossero realizzate case ed appartamenti per vacanze” andava prevista una riduzione complessiva del 15 % dei volumi. Ma intanto la procedura va avanti, lentamente come in tutti i casi in cui le regole urbanistiche devono essere piegate alle urgenze politiche, col risultato di ingarbugliare ulteriormente la già complicata matassa delle normative. Contro la variante allo strumento urbanistico di Murlo (l’unico comune che dispone di un Regolamento Urbanistico) interviene in novembre il WWF con una circostanziata osservazione, nella quale si rileva anche la totale mancanza di valutazioni di impatto. Sovicille e Monteroni arrivano all’adozione del Piano Strutturale molto più tardi, rispettivamente nel febbraio e nel giugno 2008, dopo mesi di varianti e varianti di varianti al vecchio PRG, sempre in base all’ art. 40 della legge 5/95.
Si arriva dunque all’adozione di nuovi strumenti urbanistici quando ormai si è formato un nuovo contesto legislativo: quello della nuova legge per il governo del territorio, approvata nel gennaio 2005 (LR 1/05), e del Piani di Indirizzo Territoriale, PIT, adottato in aprile e approvato in luglio 2007. Già in aprile i sindaci dei comuni della Toscana ricevevano una circolare della Direzione Generale delle politiche territoriali e ambientali relativa alle misure di salvaguardia, ossia alle conseguenze immediate dell’adozione del PIT. In presenza di piani attuativi non ancora convenzionati, “nel caso in cui il Comune stia formando il Piano Strutturale ed esso non sia stato ancora adottato – recita la circolare – il Comune procede ad effettuare la valutazione integrata di tali piani attuativi”. Se compatibili, questi piani faranno parte del Piano Strutturale a tutti gli effetti. Di solito ci vuole poco a stendere una “valutazione integrata” per dimostrare che va tutto bene. Ma nel caso di Sovicille il PS, redatto dall’arch. Giovanni Cardellini, conferma sì le previsioni della variante al PRG approvata a suo tempo per Bagnaia, ma richiede anche ulteriori precisazioni che riguardano fra l’altro la tipologia architettonica (compatta e non dispersa), nell’ambito di un progetto unitario “che consenta di controllare il migliore inserimento nel paesaggio”.
Il PS viene adottato in febbraio 2008. In quel momento tutti gli occhi sono puntati sull’eventuale ampliamento dell’aeroporto di Ampugnano, contro il quale si stanno mobilitando Comitati, Rete e Associazioni, ma la proprietà Monti Riffeser non tarda a far sentire la propria voce. In agosto l’avvocato Arizzi incaricato dalla Agricola Merse s.p.a. invia una nota al sindaco di Sovicille nella quale si sostiene che “[…] c) il testo del PS adottato dal Comune di Sovicille è del tutto compatibile con quello della predetta variante” e che “d) il Comune di Sovicille potrà e dovrà quindi introdurre il testo di cui sopra nella vigente strumentazione urbanistica locale” (sottolineatura mia). L’avvocato trasmette anche in allegato un’ampia relazione illustrativa che l’azienda ha predisposto, “pur non essendovi tenuta” (ci tiene a precisare).
E veniamo dunque alla Relazione sugli interventi attuati, che comprende la Cronologia sugli [sic!] interventi in corso di realizzazione e da realizzare. Nella premessa si ricorda che il primo Protocollo d’intesa era stato firmato nel 2000, ma si giustificano le successive variazioni di programma: “Il modificarsi in questi ultimi anni in modo rilevante della domanda turistica ha indotto la proprietà a valutare meglio la coerenza degli interventi ancora da attuare con le evoluzioni e prospettive del mercato turistico”. Di qui la necessità di “rimodulazioni”, che del resto sono quelle già stabilite nel successivo Protocollo del 2006, rispetto al quale si richiede tuttavia “una maggiore flessibilità delle norme affinché queste non limitino gli insediamenti realizzabili alla sola tipologia alberghiera”. Si allegano “a titolo puramente indicativo” due schemi planimetrici della lottizzazione che si vorrebbe realizzare intorno al podere San Giovanni: si tratta di dodici doppie villette, che comunque vengano distribuite non possono che rivelare la propria natura di case vacanza, casualmente disposte in un contesto collinare che non viene neppure visualizzato.
Ormai non si può più nascondere il fatto che la proprietà è orientata a realizzare case e appartamenti per vacanze, ossia le famigerate CAV sulle quali il Comune non sembra avere intenzione di cedere, sostenuto anche da una delibera della Giunta Regionale (n. 289 del 2007) nella quale si legge che “le case per vacanze per quanto riguarda la disciplina urbanistica non rientrano nella destinazione turistico ricettiva, ma in quella residenziale”. Ma l’azienda non ci sta: nel gennaio 2009 l’avv. Arizzi presenta ricorso al TAR per conto dell’Agricola Merse, sostenendo fra l’altro che “i Comuni di Monteroni e Sovicille hanno da tempo adottato il PS nel quale per le aree interessate dal protocollo è esplicitamente prevista anche la possibilità di realizzare CAV”.
La Regione, almeno come struttura tecnica, non può che venire in aiuto del Comune di Sovicille, e lo fa con una Integrazione all’osservazione che era stata trasmessa al Comune (nel maggio 2008) a proposito del PS adottato. La nota, trasmessa dalla Direzione Generale delle politiche territoriali e ambientali, a firma dell’arch. Renato Faltoni, è estremamente interessante. Cito: “A seguito di approfondimenti e nello spirito di collaborazione cui all’art. 27 della L.R. 1/05, si ritiene necessario integrare l’osservazione al Piano Strutturale presentata da questo Ente, relativamente alle previsioni turistico-ricettive in loc. Bagnaia”. “Gli interventi – prosegue la nota – si collocano in territorio rurale, nell’ambito di beni costituenti il ‘patrimonio Collinare’ del PIT”. Quindi si precisa che le CAV sono assimilate a civili abitazioni e pertanto “non possono essere realizzate in aree nelle quali non è ammessa la destinazione d’uso residenziale”. Queste, cioè le zone residenziali, sono localizzate dal PS di Sovicille esclusivamente in aderenza e a completamento dei nuclei insediativi esistenti, anche perché “il PIT disincentiva lo sviluppo residenziale in ambiti collinari”. Ed è ancora al PIT che la nota fa riferimento quando sostiene che gli interventi nel settore residenziale non possono garantire l’opzione strategica relativa “al progressivo superamento dei fenomeni di rendita connessi all’utilizzo delle risorse territoriali”.
La nota è molto chiara, e non fa che ribadire orientamenti già espressi in sede regionale e comunale. Prudentemente, l’estensore la definisce “Integrazione” alla precedente osservazione, perché sa che i tempi per le osservazioni sarebbero abbondantemente scaduti. Per l’Agricola Merse, invece, si tratta proprio di una “Osservazione tardiva”: così in una nota inviata il 26 marzo al Sindaco e per conoscenza alla Regione. E’ evidente che siamo in un impasse. La proprietà ha avuto sempre, fin dal 2000, ampie rassicurazioni sulla volontà politica di consentire la realizzazione del progetto turistico di Bagnaia, in particolare da parte del Presidente della Provincia Fabio Ceccherini. Eppure le regole fissate dalle stesse forze politiche in Regione ne intralciano la realizzazione. Che fare?
Qui arriva il colpo di genio con il quale si apre l’ultimo atto dell’operetta. L’iniziativa non poteva che passare direttamente ai politici. L’assessore regionale Riccardo Conti, o chi per lui (il servizio di Sonia Maggi sul Corriere di Siena attribuiva l’iniziartiva al sindaco di Sovicille Alessandro Masi), promuove un nuovo strumento, del quale ancora non si era sentito parlare: il Protocollo d’intesa istituzionale. Non si tratta di un accordo fra privati e amministratori, ma di un atto firmato da sindaci, presidente della Provincia e assessore della Regione, che si impegnano a sostenere un progetto privato. Ma la novità non è soltanto procedurale, è soprattutto lessicale. E perché? Perché quelle lottizzazioni che si vogliono realizzare a Bagnaia non sono residenze più o meno mascherate, che diamine, ma fanno parte di un progetto di “Comunità turistica”, per il quale tutte le istituzioni interessate manifestano un genuino “interesse pubblico”.
Ebbene sì. L’atto firmato il 14 dicembre 2009 dall’assessore Conti, dal presidente della Provincia Bettini e dai tre sindaci recita testualmente: “Le Pubbliche Istituzioni che sottoscrivono il presente protocollo d’intesa convengono di individuare l’intera tenuta di Bagnaia, come perimetrata negli strumenti urbanistici generali dei tre Comuni, quale ambito unitario intercomunale con carattere di comunità turistica. In tale ambito saranno previste strutture turistico-ricettive e residenze a vocazione turistica, oltre alla funzione residenziale insediata nel patrimonio edilizio esistente, o già convenzionato. Le nuove volumetrie residenziali saranno funzionalmente e strettamente integrate alle strutture turistico-ricettive e alle relative attrezzature (convegnisti che, sportive, di benessere e termali) e la loro collocazione risponderà ai principi insediativi richiamati dal PIT e PTC, nonché dalla normativa regionale di settore”. Amen.