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© 2024 Eddyburg

Lo shock e il disgusto prodotto dalle immagini non deve far dimenticare che di torture “democratiche” è lastricata la strada di tutte le guerre “civilizzatrici”. E anche quella delle missioni di “redenzione” interne (avete notato che almeno due dei riservisti torturatori di Abu Ghraib da civili facevano i secondini? Quanti film di Hollywood sulle sevizie nelle carceri Usa vi vengono in mente?). La possibilità che ci sia una corte marziale spettacolare, che sia licenziato il capo del Pentagono, e magari ci vada anche di mezzo il presidente che con tanta volontà aveva voluto questa guerra per i più santi valori dell’Occidente, non deve far dimenticare che in Usa, come in tutti gli altri Paesi “civili” per cose del genere non quasi è mai stato punito nessuno ai livelli più alti, e non sempre ha pagato nemmeno la semplice “manovalanza”.

La differenza rispetto al passato, anche molto recente, non è tanto che non si sapeva e non se ne parlava. Men che meno che non si poteva immaginare o prevedere che di certe schifezze si macchiassero i “liberatori” del paese faro di buone intenzioni. Non è certo il fatto che si sia consolidato il rigetto di pratiche da Medioevo: al contrario, la novità di questi ultimi anni, in modo specifico dopo l’11 settembre à semmai l’incredibile e agghiacciante ritorno di una discussione, non solo tra “specialisti”, ma gente colta e “civile”, volta a riabilitare e giustificare la tortura, “quando serve”. Forse non è nemmeno che i media americani, a riprova consolante che dopotutto lì c’è ancora la libertà di stampa e tv, abbiano avuto il coraggio di pubblicare. Forse è che quelle immagini “amatoriali” riescono a “fare notizia” in modo esplosivo in tutto il mondo perché nessuno sarebbe in grado di fermarle, non c'è censura che tenga di fronte al potere di internet. Un'amministrazione Usa ossessionata dall'immagine, che tutto aveva puntato sul controllo, la manipolazione e il dosaggio delle immagini, s'è trovata spiazzata dal potere delle immagini.

La prima volta che la generazione del dopoguerra mondiale era stata sconvolta dalle “torture democratiche”, a “fin di bene” (non di quelle dei nazisti o nei gulag, dei tiranni e dei selvaggi - trovo particolarmente ripugnante l’argomento: «ma quelli facevano peggio» - , ma di eserciti “perbene”, e “del Bene”, che si poteva supporre avessero un proprio “codice d’onore”), fu in Algeria. I parà inviati dal governo del socialista Guy Mollet (appoggiato anche dal Pcf), sotto le bandiere dell'esercito erede dei Lumi, si macchiarono di atrocità orrende, scrissero capitoli nuovi delle “tecniche” della tortura. In un’intervista a Le Monde, uno degli intellettuali francesi che più energicamente si sono battuti per estirpare quella vergogna, il grande grecista e superstite dei campi nazisti Pierre Vidal-Naquet, si dice «costernato, e al tempo stesso ammirato» per le rivelazioni sulle torture americane in Iraq. Costernato per l'orrore, ammirato della «rapidità della reazione» dei media americani, «all’opposto di quello che avevamo vissuto all'epoca delle guerra d’Algeria». E ricorda che, se ora si parla di punire i responsabili delle sevizie, per l’Algeria «nessun responsabile delle torture è stato mai giudicato o sanzionato». «Nessuno», ripete. Puniti furono solo coloro che le avevano denunciate, come Jacques de la Bollardière, uno degli ufficiali più decorati di Francia, o l’allora tenente Jean-Jacques Servant-Schreiber, rinchiuso in fortezza per 60 giorni e poi sbattuto in Africa nera. Avevo intervistato 10 anni fa per l’Unità il generale Jacques Massu, il capo dei parà, l’inventore del supplizio della «gégène». Mi aveva spiegato che, di fronte al dover estorcere da un sospetto “terrorista” informazioni che avrebbero portato al disinnesco di una bomba in un caffè affollato di donne e bambini innocenti, non aveva altra scelta. Pare che prima di morire abbia avuto ripensamenti, ma morì con tutte le sue decorazioni e gradi.

Chissà che effetto gli avrebbe fatto vedere che, tanti anni dopo, il suo “argomento” tornava tanto in auge. Recentemente lo si è sentito ripetere anche in Israele, martoriata dagli attentati suicidi. Ricorre ogni volta che una guerra si mette male, non si sa dove sbattere la testa. In Iraq si era cominciato subito, ma c'è chi nota che la sistematicità cieca è venuta quando si sono accorti di non riuscire a controllare più nulla. Altri argomentano che la brutalità è imposta dalle circostanze, qualunque siano le intenzioni originarie (qualcuno ha applicato l’argomento anche a Hitler, notando che lo sterminio sistematico degli ebrei seguì il peggioramento sui campi di battaglia). Brutale era certo anche Yitzhak Rabin, quando disse ai soldati di «spaccare le ossa» a quelli che facevano l’intifada. Ma poi si accorse che la soluzione possibile era solo un’altra, e andò a stringere la mano ad Arafat, per questo un fanatico lo uccise. François Mitterrand è stato uno dei più grandi statisti della sinistra europea, ma al tempo dell’Algeria era ministro; non poteva non sapere, ma non ne disse mai nulla. Più di recente, Jacques Chirac ha raccomandato l’espulsione dai ranghi del generale Paul Aussaresses, che in un libro pubblicato all'età di 83 anni si vantava di aver sistematicamente torturato e giustiziato con le proprie mani i suoi prigioniero, come «metodo per prevenire la morte di innocenti per mano dei terroristi». Ma questo solo dopo che un tribunale parigino nel 2001 lo aveva condannato per «apologia di crimini di guerra» (non al carcere o alla degradazione, i crimini erano già “prescritti”, ma ad una multa, di 7.500 euro).

Poi venne il Vietnam, dove si continuò a massacrare e torturare a tutto spiano, dalla parte “buona” e “civile” come da quella “cattiva” e “incivile”. La mia generazione, quella del ‘68, vide solo una parte della medaglia, forse non avrebbe capito quello che V.S. Naipaul avrebbe cercato di spiegare, molti anni dopo, nel suo discorso di accettazione del Nobel per la letteratura 2001, raccontando di quando, andato in Argentina dopo la caduta dei generali, trovò chi gli diceva che «c’è tortura buona e tortura cattiva», nel senso che «tortura buona era quella che tu facevi ai nemici del popolo, tortura cattiva era quella che i nemici del popolo facevano a te», e lamentando non aver trovato un vero dibattito ma «solo passioni e gergo politico preso a prestito dall’Europa». Ci furono foto che fecero il giro del mondo e segnarono un’epoca, come quella del massacro di My Lai (l’ufficiale che lo aveva ordinato fu processato, condannato a tre anni, è in libertà da venti). Altre che non furono mai viste. Un collega reporter veterano del Vietnam ha di recente ricordato come gli uffici di grandi giornali e tv a Saigon negli anni ‘60 fossero tappezzati di foto rivoltanti: arti mutilati, soldati che si fregiavano di collane di orecchi e testicoli recisi, di uomini e donne torturati, picchiati a morte, annegati, attaccati ad elettrodi, umiliati, da soldati col sorriso sulle labbra. Ricorda anche una foto di un torturatore con un palloncino in testa, con la scritta: «Così impari a parlare con la stampa!». Chiese perché non le pubblicassero. «Pubblicarle senza spiegare il contesto più ampio della guerra, sarebbe sensazionalismo», gli dissero i colleghi. Le torture americane erano “aberrazioni”, quelle del nemico la realtà nel suo contesto. «É qui che appendiamo la nostra coscienza», gli disse uno. Molti non si limitarono ad appendere con le puntine le proprie coscienze, tornarono in America a raccontare quello che avevano visto. Tra questi l’allora tenente John Kerry. Ma nessuno fu mai licenziato al Pentagono. Per molto tempo, nei decenni successivi, si sarebbe parlato solo delle torture inflitte dai vietnamiti ai prigionieri di guerra americani. Ne dobbiamo concludere che, comunque sia, non ci sono guerre “pulite”? Le Monde ha rivolto questa domanda a Vidal-Naquet. «É falso, nella guerra 1915-18 non ci furono torture», la sorprendente risposta. Bastava e avanzava il puro massacro, tra i più sanguinosi nella storia di tutte le guerre

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