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Enrico Bettini

Torino e la ‘corsa verso il cielo’

(contributo alla chiarezza)

Lo ‘skyline’

Lo skyline di Torino è mutato molte volte dall’epoca della sua fondazione. Per secoli è stato quello determinato dal castrum romano in cui a ‘svettare’ erano le torri a 16 lati alle estremità del cardo e del decumano. Poi, soprattutto a partire dal 15° sec. d.C, la città si espanse con palazzi, chiese e cappelle ( si pensi a quella della S.Sindone) che ne elevarono il profilo ad una quota ben maggiore di quella delle antiche porte di accesso alla città .

All’inizio del ‘900, dopo ulteriori e maggiori espansioni soprattutto in epoca industriale, avvenne l’ultimazione della Mole di Antonelli destinata a diventare il simbolo di Torino. Per competere con il diffondersi dei grattacieli di Chicago (sulla volontà di competere –a qualunque costo- da parte di Antonelli nessuno storico nutre dubbi) e per rispondere a quel suo rovello che era “..lo stupore che egli voleva suscitare, non solo presso le persone competenti, ma anche presso gli osservatori comuni. E poi ancora il senso della competizione: quella in altezza rimaneva in lui, fra tutte, la più ostinatamente perseguita…. quasi fosse travolto dall’ansia di passare ai posteri per qualcosa di moderno..” (R. Gabetti), progettò e realizzò una costruzione che andò oltre ogni limite allora immaginabile.

Dunque, solo una sfida nell’abilità di costruire in altezza, di realizzare in muratura ciò che in altra parte del mondo si rifiutava preferendo l’acciaio; una sfida anche culturale per affermare che la nuova via tracciata dalle certezze di calcolo acquisite dall’ingegneria e dall’evoluzione tecnologica dovesse per forza orientarsi a modi e a modelli alternativi nelle costruzioni, anche le più ardite. Un modo per dichiarare che- intravista al possibilità di legare il suo nome ad un primato di portata storica- non si è curato dell’inserimento ambientale cioè del rapporto con il tessuto degli isolati e del quartiere circostanti e tantomeno del sicuro sconvolgimento dell’immagine di Torino (che ora si accetta come immodificabile).

Alla Mole seguirono esempi di verticalismo –seppure non altrettanto spinto- con la torre littoria di Piazza Castello, con quella di Piazza Statuto e poi con la sede in acciaio e vetro di Porta Susa, con il ‘Palazzo Nuovo’ dell’Università, con le torri di fronte all’autostrada per Milano, con il palazzo della Telecom che sarà sede della Provincia, ecc.

Si può concludere che lo ‘skyline’ di Torino,in epoca moderna, è stato -anche in senso verticale, non solo orizzontale- in continua variazione ed evoluzione. Certo, le ‘case alte’che sono seguite alla Mole non sono state altrettanto dirompenti nel loro rapporto con l’intera città e nel modo di essere accolte dalla cittadinanza ma –a giudicare dalle reazioni fatte registrare dal grattacielo di Piano a distanza di un secolo e mezzo dall’irruzione della Mole nel panorama di Torino- quasi certamente lo sarebbero state se la Mole già non esistesse.

Il simbolo

Questa abitudine dei torinesi alla sua presenza, questa sua continuità ad esistere vincendo i dubbi e il precario destino iniziali hanno fatto sì che il monumento si riscattasse e si tramutasse in valore, in tradizione fino a diventare simbolo della città intera. C’è da chiedersi, semmai, perché ciò è successo per la Mole e non per le architetture di Juvarra o di Guarini o di Alfieri ..che sono ben più degne nel rappresentare la nostra città. Ciò vale non solo per Torino. Altro caso emblematico in proposito è quello di Parigi dove, quasi coeva alla Mole, per l’expo universale del 1889 sorgeva la Tour Eiffel, criticata e contestata da tutti –cittadini e intellettuali- (“..un’impalcatura sbagliata intorno al nulla ..’ , “ un brutto lampadario che prima o poi andrà smontato..”, ecc) progettata ed eseguita (18 mila travi di ferro assemblate con 2.5 milioni di bulloni) per essere smontata al termine dell’esposizione proprio a dimostrazione dei vantaggi di quella tecnica per cui Eiffel era già famoso nel mondo. Ma, come la Mole di Antonelli che la comunità israelitica si era convinta di non innalzare più, anche la Tour diventò inamovibile ed anch’essa diventò il simbolo della sua città a scapito, anche qui, di altre architetture ( Louvre, Notre Dame, ecc.) senz’altro di ben più alto significato storico e valore.

La spiegazione dell’affermarsi di tali simboli nonostante la loro “..sublime inutilità..” (C. Mollino) è da ricercarsi non solo nel loro gigantismo ma proprio nel loro elevarsi imperioso dalla massa urbana di tutti gli altri edifici. Decisiva, pertanto, è proprio l’altezza, il contrasto netto della loro eccezionale verticalità su quella ‘normale’ del resto della città di allora. Non solo questo.

La modernità (‘modernismo’ lo interpreto in modo dispregiativo)

Il procedere in altezza prima con cupole e guglie, poi con scheletri d’acciaio dalla possibilità di moltiplicazione all’infinito anche dell’altezza è il risultato della scienza e della tecnica senz’altro moderne. Il passaggio dalle case alte, alle torri, ai grattacieli è il percorso di un tipo ed un modello resi possibili dallo sviluppo di modelli matematici di calcolo e simulazione che fanno parte della storia recente e che sono in grado di spingere le costruzioni ben al di sopra dei 167 metri di Antonelli ed anche dei 324 (il doppio) di Eiffel.

Dunque il simbolo si arricchisce senz’altro di quest’aura di modernità, vuole significare anche il lasciarsi alle spalle i limiti imposti da una tradizione secolare nel costruire case e chiese. I 146 metri della piramide di Cheope sono raddoppiati, triplicati, ecc. senza dover ricorrere a centinaia di metri della base d’appoggio, alla sua colossale massa ma, al contrario, possono ergersi con sempre maggior leggerezza a quote sempre più alte nel cielo.

Negare che quando si progetta un grattacielo non lo si faccia con questo intrinseco significato è un po’ negare la storia della società moderna dall’Illuminismo in poi.

L’identità torinese nel grattacieli

E’ stato chiesto all’architetto Piano che cos’ha il suo grattacielo di Torino. L’architetto, molto disponibile e accondiscendente verso ogni argomento si è un po’ arrampicato sugli specchi ( “..l’atmosfericità e trasparenza del volume, l’articolazione della pianta, la proiezione contro l’arco alpino,..”). Ci siamo mai chiesti in che cosa la Mole Antonelliana rivela la sua identità torinese? (analogamente i parigini dovrebbero chiedersi che cos’ha la Tour Eiffel della loro città). Ce lo siamo chiesti per le torri che recentemente sono sorte su aree delle Spine? Che cos’hanno di torinese quelle torri?

Possiamo dire che Antonelli si sia posto il problema? Proprio da un carattere orgoglioso ed autarchico come il suo, geniale nell’intuizione strutturale, ma insofferente ad ogni associazione del suo lavoro a modelli e stili precedenti e ad ogni condizionamento (da quello funzionale –la sinagoga è sempre stata per lui un pretesto- a quello finanziario, a quello delle scadenze temporali, ecc.) è difficile crederlo. Se davvero avesse sentito come vincolante l’impegno a qualificare la propria opera con precisi legami all’architettura torinese forse non avrebbe scelto di costruire cento metri sopra la Torino che lui conosceva; se il suo progetto fin dall’inizio si fosse curato di interpretare l’identità del luogo non avrebbe scardinato più e più volte il progetto stesso solo per realizzare un’altezza sempre più spettacolare. E’ più credibile che egli abbia voluto piegare sia quello che oggi chiamiamo skyline sia l’identità della città alla sua identità, al suo carattere forte e determinato.

Come può un grattacielo di 200 metri (o 150) farsi riconoscere nella sua appartenenza a Torino? Perché ad ogni piano ci sarà lo stemma dei Savoia? Perché sarà verniciato di giallo e di blu? O perché avrà la forma della Mole, un po’ stirata in alto di 50 metri? Quante volte siamo abituati ad osservare –giustamente- che quando si cambiano le proporzioni oltre certi limiti, la cosa cambia di senso. Ed è così anche in architettura. Se Versaille o la Reggia di Venaria fossero grandi come i nostri giardini Cavour, non sarebbero solo più piccole ma tutt’altra cosa. Una costruzione alta centinaia di metri appartiene ad un’altro modello di città, comunque. Per cui è inutile e fuorviante tentare imparentamenti e ricercare o pretendere riscontri con quella sostanzialmente orizzontale precedente. Più volte, correttamente, è stato fatto l’esempio della Défense di Parigi.

Le torri del PRG

Il Piano Regolatore di Torino in vigore dal 1995 prevede alcune torri da erigere in aree libere e/o dismesse di cui 2 di 100 metri all’interno della ‘Spina 2’ cioè in una zona fuori dal centro storico ma interna a quella napoleonica detta ‘dei grandi viali’. Dunque il PRG, in vuoti urbani, già prevedeva l’inserimento di grattacieli. Si tratta di stabilire la correttezza di tale impostazione iniziale dalla quale deriva la legittimità della proposta del grattacielo di Renzo Piano. Dal punto di vista del disegno urbano la ritengo una impostazione corretta perché si tratta di alcuni inserimenti limitati(3), circoscritti ad aree molto caratterizzate, in particolare quelle gemelle nei pressi di Porta Susa. I rilievi e le riserve devono essere, come dirò più avanti, di altro genere per altri problemi.

La collocazione delle tre torri previste, sempre dal punto di vista del disegno urbano, della forma della città, del progetto del suo rinnovamento così come nelle previsioni –appunto- del PRG, ha un senso se relazionata all’asse della Spina Centrale, al suo sviluppo dalla Spina1 alla Spina2, prefigurando in quella zona una sorta di centro direzionale cittadino avente i suoi capisaldi nelle suddette torri. Soprattutto le due a cavallo di Corso Inghilterra, individuano il ‘focus’ della mobilità torinese nella stazione di Porta Susa che sarà quella centrale di Torino. Non si tratta pertanto di una cittadella di grattacieli da spargere in tutta quella zona ma dei tre previsti. Quello che personalmente osteggerei –considerata l’opportunità dell’abbandono del suo uso da parte della Regione- è quello destinato, appunto, a sede degli uffici regionali da convertire senz’altro a zona verde con apice nella fontana di Mertz.

Dire che la città verrebbe deturpata anche da un solo grattacielo perchè totalmente incompatibile con la fisionomia sobria ed elegante di Torino è una reazione istintuale, di timore primordiale, che si colloca fuori dalla storia evolutiva che anche la nostra città ha avuto e che si ferma a Piazza Castello ed ai suoi dintorni.

Ma il disegno urbano ,conseguente e allegato al PRG, era relativo a torri di 100 metri e non 150 e tantomeno di 200. Oltre ai problemi di cui accennerò in seguito, ritorna immancabilmente quello del senso e utilità di un PRG sempre superato e più spesso smentito da una costante procedura di variante. Un PRG che ha subito una gestazione di 10 anni, non uno di meno. Il senso così si capovolge ed è quello non solo della deroga al PRG ma del suo annullamento di fatto, dell’annullamento del rispetto delle regole che lo sostanziano. Il senso vero è quello che ci si vuole lasciare alle spalle lo strumento di pianificazione preventiva per sostituirla con una sorta di pianificazione libera (libertaria) fatta di interventi caso per caso. Gli esempi che avvalorano questa che non è più una tendenza ma una prassi, non mancano.

Ciò per dire che la discussione sul grattacielo di Piano trascina con sé la questione delle regole e del modo con cui sono manipolate, del fastidio con cui ogni volta ci si sente in obbligo di inventarne di nuove; si trascina con sé l’evidente disparità nell’osservanza dei doveri tra chi vuol solo alzare di un piano la propria casetta -e le regole non glielo consentono- ed i potentati finanziari che alzano il loro grattacielo -che è già di 100 metri – di altri 100 e glielo si permette.

La concentrazione delle funzioni

Un altro dei veri problemi che si pone è quello dell’opportunità di collocare le torri (di 100, 150 0 200 metri) ai bordi della città storica. Un’allocazione più centrale alla città rende certamente maggior prestigio soprattutto ad attività che vivono molto della loro immagine. Stabilire, in ambito terziario, la propria sede di maggior rappresentanza nella zona aulica della città o, comunque, non lontana da essa, è comprensibile e ambìto da tutti ma in prevedibile contraddizione con gli standard funzionali e relazionali del tessuto urbano esistente circostante. Questo è un giusto approfondimento che può risultare decisivo.

Il problema principale, a mio avviso, è la congestione delle funzioni in quella zona. Nella Spina2 si sovrapporranno Il raddoppio del Politecnico, il nuovo collegio studentesco all’inizio di Via Boggio, la nuova biblioteca di Bellini, il futuro museo delle carceri Nuove e le OGR ristrutturate sulla stessa via; la cittadella giudiziaria già in funzione, la nuova sede della Provincia di prossima apertura ed il grattacielo più o meno gemello delle FFSS e quello di IntesaSanpaolo. Tutte queste funzioni devono essere supportate da una rete infrastrutturale e dei servizi di un tale livello da far sorgere più di un dubbio sull’opportunità di aumentare la concentrazione di attività e residenze con due grattacieli di centinaia di metri di altezza.

Non basta, io credo, la vicinanza della stazione intermodale di Porta Susa a garantire i bisogni di mobilità derivanti da un simile impianto urbano. Non basta certo l’attuale linea di metropolitana e non bastano i servizi sociali oggi presenti nella zona e che sono destinati a veder decuplicata la loro domanda. Non saranno sufficienti –credo- nemmeno le aree verdi presenti (il giardino pensile del Palagiustizia e quello di risulta nell’area del grattacielo di Piano)se si sommano ai residenti e dipendenti attuali (Palagiustizia, Telecom, ecc.) gli almeno 6.000 nuovi dipendenti della banca, della Provincia, delle FFSS ecc. oltre alla massa preventivabile di visitatori che vorranno andare sulle terrazze dei grattacieli aperte al pubblico e tanto declamate come cosa pubblica.

Ciò che preoccupa è il ripetersi di una pessima abitudine: quella di anteporre gli insediamenti alla realizzazione delle infrastrutture e dei servizi necessari a quell’insediamento. E’ esattamente quel che è successo ancora recentemente con gli insediamenti nelle ‘Spine’ (vedi il convegno di ‘Cittàbella’ sulla Spina3). Ciò che va richiesta è proprio la previsione sull’intensità e organizzazione dei flussi della mobilità, della loro connessione e soddisfazione con passante, metro e tranvie (ad es. eventuali, ulteriori arterie sotterranee); sull’organizzazione della sosta e dell’accoglienza in zona (il riequilibrio con vuoti urbani che non vuol dire parcheggi); sull’organizzazione della pedonalizzazione e delle ciclopiste (indispensabile a tali livelli di concentrazione) il più possibile in alternativa con i parcheggi per le auto private; sull’organizzazione dei sistemi per la sicurezza (non solo quella interna) ; sulla probabile redistribuzione della rete del commercio, degli asili, delle scuole di primo grado, dei presidi sanitari, ecc. ecc.

Sono state fatte queste previsioni? Se sì ,occorre renderle pubbliche. Se no, occorre porvi mano immediatamente perché assolutamente condizionanti l’inserimento o meno di torri con tali carichi antropologici e delle relative attività.

La sostenibilità

Tutti coloro che operano nel settore dell’edilizia sanno che proprio per la scala dei problemi che le grandi torri devono affrontare esse sono all’avanguardia nella ricerca non solo nel campo della stabilità strutturale (il vento), in quello della mobilità interna (ascensori ad alta velocità), ma anche in quello della sicurezza interna (evacuazioni antincendio), in quello dei materiali in cui (la protezione dell’acciaio e l’evoluzione della tecnologia dei prodotti vetrari sono il risultato della sollecitazione proveniente dalle condizioni estreme proprie dei grattacieli).

Anche nel campo del consumo energetico da tempo proprio Foster e Piano hanno dato contributi che –testati su costruzioni colossali- sono applicabili e generalizzabili all’architettura meno ‘verticale’ ed estrema della loro. Le soluzioni per la ventilazione naturale sia notturna che diurna con appositi corridoi ad effetto camino; l’introduzione ed il ruolo assegnato alla vegetazione dei giardini interni; le facciate cosiddette ‘a doppia pelle’ con il proposito dichiarato di risparmiare il 25% di energia; l’attenzione posta al ruolo anche dei solai in funzione sia di limitazione dell’irraggiamento solare estivo sia di incanalamento delle correnti d’aria per il loro raffrescamento interno; il ricorso a grandi superfici di pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica. Insomma, non siamo più alle ‘case dello specchio’ cioè ai grattacieli che a New York che non si curavano per nulla della dispersione e quindi dell’enorme dispendio di energia. Sono soprattutto gli architetti europei che hanno sensibilizzato tutti gli architetti alla sostenibilità energetica e proprio anche per questa sensibilità e serietà professionale Piano è apprezzato in tutto il mondo.

A proposito di quartieri che auto- producono la corrente (Friburgo) viene da chiedersi perché le stesse preoccupazioni non sono state avanzate per la realizzazione dei nostri nuovi quartieri in questi anni. Perché il rigore nel rispetto della sostenibilità deve valere solo per i grattacieli e non per interi agglomerati urbani nuovi di zecca. Come ad esempio le Spine 3 e 4. Riconosciamo allora che abbiamo perso delle colossali, queste sì, occasioni. O bisogna risparmiare solo se si è ‘alti’?

Conclusioni

Oltre al rispetto –per tutti- delle regole, il vero nodo, a mio parere, è quello della compatibilità funzionale, infrastrutturale e dei servizi per decidere di intervenire all’interno di un tessuto urbano esistente . E quello della destinazione d’uso della torre, semmai (opportunità di una enorme sede bancaria, rapporto tra pubblico e privato, tra terziario e non, ecc.). Non quello della ‘sobrietà’ o meno che le torri a Torino devono avere (quanto ad eleganza non c’è miglior interprete di Renzo Piano). E per quanto riguarda l’impegno alla sostenibilità forse era il caso di leggere le relazioni del progettista allegate alla esposizione dei suoi plastici a Palazzo Madama. O attendere le sue spiegazioni in Consiglio Comunale.

C’è stata precipitazione e quindi non poca confusione nelle critiche alla presentazione della torre di Piano. Come dice N.Foster “… nessun’altra struttura ha tanta capacità di trasformarsi in icona”. Forse è proprio così. Ci si è fermati all’icona e si è tralasciato il suo contenuto.

Vezio De Lucia

Non concordo con le conclusioni

Caro Enrico, condivido e apprezzo molti degli argomenti oggetto della tua nota, argomenti che dovrebbero indurti a un giudizio non favorevole al grattacielo progettato da Renzo Piano. Mi pare che invece, alla fine, tu sia d’accordo. Provo a convincerti dell’errore. Comincio dal piano regolatore che, se non ho capito male, fissa per i tre previsti grattacieli un’altezza massima di 100 metri. Quello di cui si discute è alto il doppio, o quasi. Non è un’inezia e, come correttamente osservi, “la discussione sul grattacielo di Piano trascina con sé la questione delle regole e del modo con cui sono manipolate, del fastidio con cui ogni volta ci si sente in obbligo di inventarne di nuove; si trascina con sé l’evidente disparità nell’osservanza dei doveri tra chi vuol solo alzare di un piano la propria casetta – e le regole non glielo consentono – ed i potentati finanziari che alzano il loro grattacielo – che è già di 100 metri – di altri 100 e glielo si permette”. Già questo basterebbe per mettere in discussione la decisione comunale. Certamente ti ricordi che, nel convegno di Cittàbella del maggio scorso, avevamo apprezzato la situazione di Torino dove, al contrario di quanto succede a Milano, il piano regolatore è vigente e il potere pubblico lo fa rispettare. Scopriamo adesso che non è così e che Torino subisce il fascino del rito ambrosiano.

Ancora più importante è il problema che tu definisci della concentrazione di funzioni e, quindi, degli spazi pubblici mancanti che, secondo Diego Novelli, ammonterebbero almeno a otto ettari. Questo spazio non c’è, e allora? Torniamo alla questione del piano regolatore disatteso.

Ma, secondo me, l’argomento decisivo che impone di rifiutare il progetto di Renzo Piano, è quello che tu affronti sotto la voce skyline. Merito indiscusso della cultura italiana della seconda metà del secolo scorso (a partire dalla carta di Gubbio del 1960 a tutta le successive esperienze di recupero urbano) è l’acquisizione del carattere unitario dei centri storici, da proteggere perciò nella loro unitarietà, superando la precedente concezione che li individuava come luoghi di particolare concentrazione di monumenti (da tutelare) immersi in tessuto anodino (disponibile per ogni trasformazione, anche lo sventramento, purché accuratamente “ambientato”). Quell’acquisizione non può essere impunemente accantonata. Mi pare stantio e inutile il tentativo di attualizzare l’opera dell’ ingegner Antonelli al quale non si può attribuire la nostra sensibilità e non si capisce perchè avrebbe dovuto curarsi, come tu scrivi, “dell’inserimento ambientale cioè del rapporto con il tessuto degli isolati e del quartiere circostanti e tantomeno del sicuro sconvolgimento dell’immagine di Torino (che ora si accetta come immodificabile)”.

Ha scritto lucidamente Antonio Cederna, nelle mirabile premessa a I vandali in casa, che le discipline che in un tempo relativamente recente abbiamo inventato, gli studi storici, le scienze dell’antichità, l’archeologia, la storia dell’arte, l’estetica ci impongono, “se vogliamo veramente essere moderni e civili, di rispettare le testimonianze della Storia, di fare cioè quanto non è stato possibile in passato”. Questo è il punto, questa è la ragione per la quale bisogna opporsi al grattacielo previsto a ridosso del centro storico. La Mole antonelliana, piaccia o non piaccia, fa parte della storia di Torino, e il suo rapporto con lo sfondo delle Alpi e con la città non possiamo “superarli” con una nuova immagine che oblitera quella che abbiamo ereditato. Non è nella nostra disponibilità di uomini moderni: altro che sostenitori delle pecore in piazza San Carlo, come ha dichiarato il vostro sindaco. I grattacieli, se si vogliono fare, li si faccia nelle remote periferie dove potrebbero, forse, contribuire anche alla riqualificazione urbana. Ma penso che lì non ci sia alcuna convenienza – né di immagine, né di rendita immobiliare.

Ho cercato molto in sintesi di riepilogare le ragioni che hanno guidato la stesura del nostro appello, che perciò non è stato precipitoso, come tu giudichi, ma ancorato a profondi convincimenti. Che spero anche tu finisca con il condividere.

In bilico sul grattacielo. O meglio, sulla variante al Piano regolatore che consentirà a Intesa-Sanpaolo di costruire la torre più alta d’Italia proprio a due passi dalla stazione Porta Susa. Non è bello ritrovarsi a passeggiare sul cornicione del segno architettonico firmato Renzo Piano. Un’opera che farà ombra alla Mole (e al Pirellone), ma che per ora mette le vertigini solo alla maggioranza Chiamparino.

E’ di ieri infatti l’annuncio - da parte della cosiddetta «sinistra radicale» («Rifondazione Comunista», «Sinistra democratica» e «Comunisti Italiani») - che, allo stato attuale delle cose, proprio come i Verdi - questi gruppi non voteranno la variante al Prg. E così, se proprio il sindaco Chiamparino vorrà condurre in porto il progetto, dovrà ricorrere ai voti dell’opposizione. Un favore che, «trattandosi del grattacielo - ironizza Michele Coppola di Forza Italia - gli faremo cadere dall’alto, in cambio di precise garanzie, per esempio, sulle ricadute occupazionali». Ma le perplessità non restano circoscritte a quei gruppi che per tradizione danno filo da torcere all’assessore all’Urbanistica Mario Viano. E’ noto infatti che la sinistra radicale non gradisca un piano regolatore sottoposto a un balletto di modifiche (120 per la precisione). Ma non basta: ci sono perplessità anche nello stesso gruppo dell’Ulivo. Piera Levi Montalcini, per esempio, fa notare che «questo continuo gioco al rialzo dell’altezza della torre è inaccettabile: avevamo fissato 100 metri e 100 devono rimanere».

La replica del sindaco

Gli ambientalisti che tanto osteggiano l’arrivo della torre, dunque, Paolo Hutter in testa, possono prendersi un po’ di fiato: la discussione per dare il via libera al grattacielo si preannuncia lunga e laboriosa. «E’ giusto che si discuta e si discuta nei dettagli - replica il sindaco Chiamparino - basta però che ragioni senza far ricorso a pregiudizi ideologici». Contro-replica di Rifondazione comunista: «Nessun pregiudizio, ma così com’è il grattacielo non ci va bene e non lo voteremo» spiega il capogruppo Luca Cassano. Pretende di vederci più chiaro anche Monica Cerutti di «Sinistra Democratica»: «Tutti danno per scontato l’arrivo del grattacielo, al punto da organizzare su quel progetto una mostra - fa notare polemica -. Ma lo sa, la gente, che per realizzarlo dobbiamo approvare una variante al prg?».

Il referendum di Viale

La proposta del presidente dell’Associazione Adelaide Aglietta è solo una: «Questa novità urbanistica ha una portata troppo grossa per essere liquidata in Consiglio comunale - attacca Viale - c on i suoi 200 metri la torre del Sanpaolo sarà l’edificio più alto d’Italia, è quindi materia per un referendum popolare: il sindaco dovrebbe attivarsi per promuoverlo, si tratta di una decisione cruciale che cambia radicalmente l’aspetto della città».

Il «sì» del centrodestra

Come spesso accade quando un provvedimento fa storcere il naso alla sinistra, raccoglie il consenso pressocchè unanime del centrodestra. Che gongola all’idea di vedere il sindaco Chiamparino costretto a chiedere i voti-soccorso dell’opposizione. «La variante per il grattacielo deve rappresentare l'occasione per riaffermare la centralità di Torino nel progetto industriale della nuova banca - spiegano Daniele Cantore e Michele Coppola di Forza Italia - abbiamo sentito tanti impegni verbali ma nei fatti tutti sanno che Intesa-Sanpaolo si è spostata a Milano». Incalzano: «Noi voteremo sì a patto che i vertici di "San Intesa" dimostrino un nuovo e maggiore impegno verso le istituzioni ma soprattutto verso i torinesi».

«Sì» incondizionato «ma i voti ce li deve chiedere Chiamparino in persona» da parte di Alleanza nazionale, come spiega il capogruppo Agostino Ghiglia: «Noi vogliamo una città piena di grattacieli, perché sono l’espressione di una metropoli moderna, prosperosa, piena di lavoro e progetti: ma faremo pesare l’importanza del nostro voto». D’accordo con l’idea di fare nascere su Spina 2 la torre del Sanpaolo anche Dario Troiano del gruppo Libertà (seguace della Brambilla), mentre l’Udc, voce fuori dal coro, - come spiega Federica Scanderebech - risponde con un netto «no, senza se e senza ma». Come finirà? Forse l’idea di Viale è l’unica in grado di sbrogliare la matassa.

Nota: in allegato, per maggiore informazione, la motivata posizione di Legambiente sul progetto per il grattacielo (f.b.)

Che fare? Ci si sente deboli di fronte alle continue violenze verso le città e il paesaggio. Era già rovinata al novanta per cento la povera Italia; ora, nel XXI secolo, si stanno accumulando dappertutto vessazioni di nuovo tipo, grattacieli a più non posso, dovunque, città, coste, centri e periferie. Noi milanesi memori della città abitabile e affabile siamo stati sconfitti sulla linea di resistenza verso le politiche urbanistiche ed edilizie del sindaco Gabriele Albertini e del nuovo sindaco Letizia Moratti, queste ben più intense e decisive per distruggere, anche mediante l’opera degli architetti internazionalisti “di nome”, il senso stesso di architettura urbana, il sentimento dei contesti di città e società sopravvissuti. Oggi sentiamo pena per la vicenda di Torino, la capitale piemontese che conosciamo bene, che sentiamo custode di tanta bellezza e giustezza proprio come architettura urbana, come insieme di città, come aria di luoghi ancora oppositivi rispetto ai nonluoghi che anche grattacieli irragionevoli contribuiscono a creare. Non più belle piazze, non più belle strade, non più percezione del valore estetico e talvolta ancora sociale dello spazio abitato, circoscritto, libero dal traffico privato. Invece, mostri sopradimensionati incapaci di costituire spazi umani, aria di città, e destinati a sconvolgerne l’eredità più preziosa, il suo volto ben riconosciuto dai cittadini: condizione essenziale per eternare il legame patrimoniale e morale fra le generazioni. Non è architettura egoistica, arrogante, dice Renzo Piano: ma è vero il contrario, di sicuro: quel grattacielo di duecento metri tracotante e insolente nei confronti di Porta Susa, di quel tramite fra la “porta” e il cuore della città e le diverse arterie rappresentato all’avvio da via Cernaia e via Pietro Micca mirabilmente porticate e unitarie, poi i grandi viali alberati, di nuovo le altre strade porticate e, perché no, le strade corridoio: tutto tenuto insieme da architetture singole coerenti, di altezza media, tutto a testimoniare che l’architettura designa la bellezza e l’armonia della città quando è la stessa cosa che, se così posso dire, l’urbanistica. Siamo spaventati, Torino. Come finirai sotto le mazzate di questo e degli altri tre grattacieli già pensati, dei loro metri cubi illegali, del traffico automobilistico che provocheranno? E ne seguiranno altri, e altri ancora, come a Milano ognuno vorrà il suo o i suoi, gli speculatori, gli amministratori pubblici, gli architetti di nome o senza nome, poca dignità e molta sicumera. Combattete ugualmente, torinesi, contro i moloch (a meno che, come altrove è successo, non vogliate sopravvivere alla loro ombra).

Un appello per evitare che Torino diventi la città dei grattacieli, che lo skyline venga definitivamente deturpato, che il cemento diventi l'unico padrone della città. In calce l'appello. Inviate le adesioni a
cieloditorino@libero.it

E’ in arrivo a Palazzo Civico di Torino la controversa votazione di una cosiddetta “Variante Parziale per l’ambito di Porta Susa” che sfonda anche la soglia di 150 metri di altezza a cui si era arrivati l’anno scorso e che scomputa i vani scala ed ascensori dal computo della slp (superficie lorda di pavimento). L’ulteriore sopraelevazione della progettata torre non è dovuto alla fusione con Banca Intesa, e neanche dalla volontà di surclassare in altezza la Mole (questa è una conseguenza) . Dicono che è per fare atri veramente alti al pianterreno e per realizzare solai e giardini d’inverno in cima.

In pratica, per venire incontro alle esigenze immobiliari del San Paolo da un lato si aumenta in altezza il volume, dall’altro si fa una specie di sconto contabile per evitare che la Banca paghi alla città tutto quello che dovrebbe, in termini di oneri di urbanizzazione di cessione di aree a standard. Qui viene subito fuori la problematicità di un edificio tanto alto. La stessa delibera di variante parziale dichiara nel testo che “Il numero di scale e di ascensori da realizzarsi per esigenze di sicurezza incide, inoltre, notevolmente sullo sviluppo della superficie effettivamente utilizzabile…..

Tali situazioni determinano un’incidenza dei sistemi connettivi orizzontali e verticali che può raggiungere valori che vanno dal 25% al 30% della superficie coperta di ciascun piano.” Argomenti che non hanno convinto i consigli di circoscrizione adiacenti, determinando una prima grana politica. La zona 3 ha votato contro, dichiarando che non sono previsti parcheggi sufficienti e non si vede dove potrebbero farli. Nel consiglio di circoscrizione del Centro Storico il parere favorevole che la giunta aveva dato è stato affondato dalla convergenza dei no della opposizione di centro destra e quelli di quasi metà del centro sinistra, compresi – oltre all’ ala sinistra – tre esponenti del nascente Pd e uno dell’ Italia dei Valori. Si sono dichiarati perplessi, han detto – e in particolare lo ha detto il verde Cossa - che di fronte al vantaggio evidente per il San Paolo, non si vede quale sia i vantaggio per la città.

Il parere più motivato contro il progetto è venuto dalla circoscrizione 4 San Donato. Il consigliere Ferdinando Cartella ha anche scritto che “Ciò avviene senza tenere conto che la Torre in progetto all’incrocio con corso Vittorio si pone sul cono visivo diretto verso la collina, salvaguardato da vincolo ambientale ex lege 1497/1939 , e al limite del centro “aulico” (per non dimenticare il dialogo con la Mole) dimenticando che la variabilità della sua altezza non sarà indifferente . Ciò avviene dopo che si è rinviata a fase successiva l’ “Analisi di compatibilità ambientale” prevista espressamente dall’art 20 della legge regionale 40/1988 : non si può negare che questi interventi in oggetto non siano “sostanziali per l’assetto urbanistico della Città”.

I pareri delle circoscrizioni non sono vincolanti , ma indicano che non c’è proprio unanimità attorno a questo progetto, destinato a cambiare il volto di Torino ancora più del controverso parcheggio di Piazza San Carlo. In consiglio comunale i gruppi di sinistra sono molto perplessi. Se venisse fuori malcontento in città di fronte all’idea di avere ,- a due passi dal centro storico - un edificio ben più alto e massiccio della Mole, i consiglieri Sd, Verdi, Pdci e Rifondazione potrebbero far mancare i loro decisivi voti al grattacielo. Ma la polemica potrebbe travalicare i confini cittadini. Legambiente e Italia nostra sposano l’appello promosso da una ventina di professori e personalità torinesi (già apparso su questo giornale ) che chiede di rivedere tutta l’operazione, che potrebbe risultare più invasiva che decorativa del profilo della città, e an che negativa sul piano energetico. Ma persino l’architetto Cagnardi, padre del piano regolatore torinese. è scandalizzato dell’idea di mettere due mega torri a casaccio (San paolo e suo eventuale vicino) nel delicato profilo della città, dietro alla Mole e davanti alle Alpi. Ha scritto il giovane architetto Filippo Ferrarsi a nuovasocieta.it, che per i nuovi uffici del san Paolo sarebbe molto meglio utilizzare e recuperare un edificio già esistente e inutilizzato o più edifici , magari a Italia 61, o al Lingotto o nelle aree dismesse.

Il diritto al paesaggio urbano

Comunicato stampa di Italia Nostra

Compare nel panorama torinese un quarto grattacielo! due a Porta Susa, uno a Spina 1, uno al Lingotto ... sarà finita?

È una rincorsa di progetti di “voluminoso” impatto che coinvolgono lo “spazio visuale” svilendo ambiti storico-culturali e prospettive urbane-paesaggistiche.

È architettura - quella dei grattacieli - che non nasce da un “bisogno”, ma piuttosto pare rispondere ad un narcisismo di interventi improvvisi.

È architettura globalizzata, indifferente, che non stabilisce un rapporto con la città, ma anzi si impone su di essa, frammentando la preesistenza di quartieri consolidati e vivibili, portando a somigliare sempre più a territori di periferia.

È espressione di una cultura di rapida trasformazione metropolitana e di consumo urbano, ben diversa dalla nostra cultura di uno storico sviluppo urbano organico, prodotto di una successione di adeguamenti.

Investono l’immagine, il carattere, il paesaggio della città.

Ma il paesaggio non è semplice res nullius, è res omnium: è un bene diffuso che pretende, di converso, il diritto ad esso.

Al pari della tutela di tanti altri interessi, pubblici e privati, occorre altrettanta dignità per il diritto al paesaggio urbano e la tutela da un inquinamento visivo all’interno dei nostri ordinamenti legislativi e normativi, assicurando procedure autorizzative nel rispetto del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e l’introduzione di una Valutazione d’Impatto Ambientale-urbano.

Torino, 3 ottobre 2007

Paolo Griseri

Torino cancella un pezzo di periferia

TORINO - Betty ha tre figli, fa la casalinga a Verona ed è tornata l´altro ieri nel grande quartiere all´ombra di Mirafiori. Ci è tornata dopo 18 anni di assenza a celebrare la fine di un simbolo, il crepuscolo delle periferie cresciute intorno allo stabilimento Fiat. «I simboli si rincorrono anche quando scompaiono», commenta amaro l´ex sindaco Diego Novelli che queste vie aveva battuto da cronista e militante del Pci all´inizio degli anni ?70. I grandi palazzi di via Artom, via fratelli Garrone, via Millelire, sono stati per quarant´anni il simbolo di una crescita tumultuosa e socialmente devastante, le strade dove arrivavano prima le case e solo con ritardo le fognature e i mezzi pubblici. I luoghi dei «meridionali» richiamati in massa dall´ampliamento della Fiat a produrre e trasformare un´ex capitale in metropoli industriale. Oggi alle 14,30 uno di quei palazzi, il numero 73 di via Fratelli Garrone, salterà in aria come un mostro di cemento qualsiasi, tra i tanti che deturpano il paesaggio italiano. Questa volta però la dinamite si porterà via un pezzo di storia sociale italiana.

Di quella storia Betty è stata protagonista. Era lei la «Ragazza di via Millelire», la capobanda nel film di Gianni Serra che per primo aveva raccontato, tra le polemiche dei torinesi doc, la vita delle periferie Fiat. Avevano girato nell´estate dell´80, mentre ai cancelli di Mirafiori si preparava lo scontro finale tra sindacati e azienda che sarebbe culminato nei 35 giorni di presidio dei cancelli e nella marcia dei 40 mila capi per le strade del centro. Betty ricorda «un quartiere dove i ragazzi non avevano orario: stavano in mezzo alla strada dal mattino alla sera e avevano tanto bisogno di raccontare le loro storie». Storie uguali alle molte che si rincorrevano, tra realtà e leggenda, nei quartieri intorno alla fabbrica. Storie di bande di cortile e di famiglie troppo numerose, dove le figlie nascondevano alle madri la pillola nella minestra. Storie di famiglie del Sud che ricordano da vicino quelle dei maghrebini di oggi: «Arrivavano a Torino - ricorda Novelli - e finivano ad occupare abusivamente le caserme abbandonate del centro storico, in via Verdi. O si costruivano baracche di fortuna». Una Torino in cui le case nuove venivano prese d´assalto prima ancora che gli operai lasciassero il cantiere perché è dura lavorare senza avere un tetto e un letto per la famiglia.

Ci sono voluti oltre vent´anni per ricucire lo strappo sociale, per far diventare città anche i casermoni della periferia, quelli costruiti a tempo di record con il piano Fanfani. «Li avevano fatti in fretta ma resistenti, guardate che fatica c´è voluta per abbattere le pareti interne», racconta con una punta d´orgoglio un altro ex sindaco, Giovanni Porcellana, già democristiano. Non è facile, con gli occhi di oggi, vantarsi per la realizzazione di questi alveari. Ma anche l´orgoglio di Porcellana ha una spiegazione, quella dell´amministratore di radice cattolica che con quegli alveari aveva provato a risolvere il problema di migliaia di famiglie baraccate. Oggi entra anche lui nel video realizzato per celebrare la grande esplosione.

E siccome i simboli si rincorrono, a decidere di piazzare i candelotti è stato un giovane assessore di origine pugliese, Roberto Tricarico, l´unico uomo del Sud tra i 14 membri della giunta cittadina di centrosinistra guidata da Sergio Chiamparino. Una rivincita? «Rivincita è un´espressione eccessiva - protesta Tricarico - ma certo l´orgoglio di essere riuscito ad avviare il recupero di una parte importante della periferia». Suo padre era arrivato a Torino nel ?66, nello stesso anno in cui venivano terminati i casermoni di via Millelire: «Essere nato in una famiglia del Sud mi è servito soprattutto a intendermi con le famiglie, a organizzare il loro trasloco in altri alloggi popolari. Non è stato un lavoro facile».

Che ne sarà di via Artom, che cosa sorgerà al posto del cratere? Servizi pubblici e centri di incontro, promettono i progettisti del comune. La speranza è che un giorno anche questa parte di Torino diventi un quartiere normale, come tanti altri. «Quel che colpisce - dice Novelli - è la contemporaneità degli avvenimenti: cadono i palazzi di via Artom mentre si discute che farne di Mirafiori». Il grande stabilimento è ormai attivo solo per metà e l´amministrazione sta discutendo come occupare gli spazi vuoti. Tutti sanno che non tornerà più la fabbrica con 60 mila operai dell´inizio degli anni ?70. Perché c´è un destino che unisce i simboli: si rincorrono anche nella caduta.

L’assessore al Territorio della Toscana, Riccardo Conti, liquida le critiche avanzate da Vittorio Emiliani su ciò che accade da un punto di vista urbanistico in quella regione, con l’accusa di essere un grafomane (vedi Unità del 17 novembre) con «una visione ottocentesca dello Stato e del paesaggio». A Torino il Sindaco è stato ancor più sarcastico nei confronti di chi ha espresso riserve sulla sua vocazione per i grattacieli. Chi non la pensa come lui «vorrebbe vedere tornare le pecore in Piazza San Carlo». Ma non basta. Con il concorso dei prestigiosi progettisti (Piano e Fuskas), di due degli annunciati grattacieli (ma ce ne è già un terzo dietro l’angolo), si è scatenata da parte delle autorità cittadine e regionali una campagna «per la modernità, per lo sviluppo, per la trasformazione», contro «i retrò, il vecchiume», contro «coloro che temono il futuro» (Renzo Piano), tra innovatori e conservatori.

Conosco e stimo Renzo Piano da almeno trent’anni, da quando collaborò con l’Amministrazione di sinistra di Torino per i primi interventi nel centro storico e soprattutto per il riuso degli edifici industriali abbandonati e più precisamente il Lingotto. Fu lui ad indicarci come la deindustrializzazione, nella sua crudeltà (perdita di occupazione), poteva rappresentare un’occasione per ridisegnare la città, recuperando spazi per i servizi, per il verde, per il decongestionamento provocato dallo sviluppo selvaggio degli anni Cinquanta e Sessanta quando furono costruiti tremila edifici abusivi e vennero rilasciate, da parte delle amministrazioni centriste, ben cinquemila licenze edilizie in contrasto con il piano regolatore allora vigente.

Credo sia interessante cercare di capire ciò che sta accadendo oggi, non solo a Torino e in Toscana, ma in Italia, soprattutto negli Enti Locali governati dal centro sinistra, visto che la destra è sempre stata schierata dalla parte della speculazione fondiaria. Non avendo riserve ideologiche nei confronti dei grattacieli (fui affascinato la prima volta che vidi quelli di Chicago, molto più belli di quelli di New York) la domanda che in molti ci siamo posti è questa: la modernità di una città è rappresentata da uno o più “segni fallici”, inventati da oltre cent’anni che per Torino, tra l’altro, alterano la linea dell’orizzonte (skyline) unico al mondo con il fondale delle montagne? Ma al di là delle questioni estetiche (non dimenticando però che la Costituzione tutela il paesaggio), ci sono almeno tre questioni di fondo che sollevano perplessità. Se ne può parlare, oppure si è subito tacciati di essere dei “dinosauri o dei trogloditi”?

1) Il progetto di Renzo Piano richiede una nuova variante al piano regolatore, a pochi mesi di distanza da quella che portava l’altezza massima degli edifici da cento a centocinquanta metri. Il nuovo grattacielo sfiora i duecento metri, calcolando anche le “vele” che saranno installate in cima per tutti gli impianti tecnologici. La Mole Antonelliana, con la stella, supera di poco i centosessanta metri. Non discutiamo dei costi dell’opera: paga la Banca San Paolo-Intesa (anche se si tratta di un istituto di diritto pubblico e non di una azienda privata). Ma è peccato chiedere quali saranno i costi di gestione, la quantità di energia necessaria per tenerlo caldo d’inverno e fresco d’estate, con il petrolio a cento dollari al barile? E poi: quale sarà lo scenario energetico fra dieci-venti anni? La vera architettura d’avanguardia, innovativa, che considera anche i cambiamenti climatici possibili, è quella autosufficiente, “la casa passiva” come viene chiamata in Germania, oppure a Friburgo dove hanno già realizzato “il quartiere sostenibile”.

Renzo Piano, trent’anni fa, ci indicava come risanare le case fatiscenti del centro storico, coinvolgendo gli abitanti, senza deportarli nei nuovi ghetti della periferia. Ci entusiasmava con le sue idee sulla città moderna al servizio dei cittadini, ponendo al centro dell’attenzione dei pubblici amministratori le esigenze e le aspirazioni delle persone che vivono la città. Anche lui ha cambiato opinione?

2) Il grattacielo in questione rappresenta una gigantesca speculazione immobiliare. Se venissero applicati gli standard urbanistici fissati dal piano regolatore di Gregotti e Cagnardi, per realizzare i volumi di cubatura previsti sarebbe necessaria un’area di ottantamila metri quadrati (otto ettari!). Il presidente del San Paolo ha presentato invece l’operazione come un regalo alla città, «vuole lasciare un ricordo di sè». Un po’ di megalomania non guasta mai.

3) Contrariamente a quanto scritto da Curzio Maltese su la Repubblica del 14 novembre, non esiste a Torino contrapposto «al rumore sul grattacielo di Piano», il silenzio sull’operazione Ligresti (l’intramontabile pregiudicato uomo d’affari) che vorrebbe realizzare un nuovo villaggio residenziale ai confini della città, al posto di un parco pubblico. Addirittura si sono opposti un gruppo di esponenti dei vecchi Ds, valutando la speculazione attorno ai cento milioni di euro. Il fatto è che l’Assessore all’urbanistica di Torino considera benevolmente la rendita sui suoli purchè il frutto della speculazione venga reinvestito in città come ha promesso Ligresti. Anche questo sarebbe un segno di modernità e di sviluppo.

Ma ciò che maggiormente sconcerta è la caduta, da un punto di vista culturale, da parte del centro sinistra su questi temi. Mentre il problema della casa si fa ogni giorno più acuto per milioni di famiglie, di edilizia popolare (o convenzionata) non si sente più parlare e tanto meno di una nuova legge urbanistica sui regimi dei suoli. I piani regolatori delle grandi città attraverso le varianti a go-gò (a Torino abbiamo superato quota centosessanta) sono diventati un mercato diretto dai costruttori e dagli speculatori. L’ultima puntata televisiva di Report su Milano è stata illuminante e nel contempo agghiacciante. Nelle zone rurali fioriscono ovunque villaggi residenziali con villette e case a schiera, che continuano a mangiare fette del “Belpaese”. Ad esempio vorrei chiedere all’assessore Conti notizie dell’unico esempio che conosco personalmente della sua Regione: perchè è stato consentito lo scempio del nuovo villaggio realizzato sotto le bellissime mura del comune di Magliano in Toscana?

Non ho nostalgie per il passato, anzi considero la nostalgia un disvalore (a differenza della memoria), però “la voglia di futuro”, caro vecchio amico Renzo Piano, è per vivere meglio e non peggio. Non amo l’Italia degli outlet così ben descritta da Aldo Cazzullo nel suo ultimo libro.

Nota: sui temi dei grattacieli, e sul caso di Torino in particolare, Eddyburg ha dato spazio in questi giorni anche all'appello del Comitato " Non grattiamo il cielo" (f.b.)

La sovrintendente Liliana Pittarello stoppa il grattacielo di Piano progettato per Intesa-San Paolo nella zona di Porta Susa. La direttrice regionale del Ministero dei Beni culturali e responsabile della tutela paesaggistica in Piemonte chiede una pausa di riflessione e un tavolo istituzionale per affrontare le questione tecniche. Al famoso architetto la Pittarello non risparmia poi una frecciata: "Per i progetti non bastano i grandi nomi".

Se non proprio uno stop, una battuta d’arresto e una pausa di riflessione. Per mettersi intorno a un tavolo con Comune e Regione e affrontare "da tecnici" questioni per le quali è in gioco la percezione della città nei prossimi secoli. E’ quanto ha chiesto il direttore regionale dei beni culturali Liliana Pittarello durante l’affollata audizione ieri a Palazzo Civico in merito alle due torri di Porta Susa, nell’ambito della II e VI commissione presiedute da Piera Levi Montalcini e Vincenzo Cugusi. Un discorso lungo e articolato il suo, che è partito da lontano, chiamando in causa una tradizione torinese di tutela paesaggistica che affonda le radici negli anni ‘50 e non si vede perché dovrebbe arrestarsi proprio adesso. E non c’è grande architetto che tenga, non basta il nome di Renzo Piano, che ovviamente difende la sua creatura. E il suo invito "a non avere paura". Agli amministratori occorrono maggiori garanzie, a chi si occupa di tutela, maggiori informazioni. "Scriverò una lettera alle istituzioni coinvolte, in cui richiederò che ai nostri uffici siano dati elementi di conoscenza precisi" ha detto in chiusura. Un intervento insomma che potrebbe fare saltare il previsto passaggio la settimana prossima in commissione Urbanistica della modifica alla variante 164, quella che dovrebbe consentire un’altezza superiore ai 150 metri già approvati per il grattacielo Intesa San Paolo.

«Sono stata chiamata in corso di istruttoria, il che non mi piace mai molto. Ma credo che le questioni istituzionali vadano discusse in sede istituzionale» ha esordito Pittarello. Per spiegare poi che a Torino gli uffici della Soprintendenza hanno deciso di occuparsi della questione grattacieli "perché questa è una città ‘disegnata’ da un potere che così ha voluto, con vincoli apposti sin dagli anni ‘50, sulla collina prima, sui corsi poi. La nostra è una città con un patrimonio culturale, paesaggistico e urbano particolare, importante per la vita delle persone, che in esso si identificano, di cui sono orgogliose, come hanno dimostrato recenti sondaggi. Quindi, quando si parla di queste cose, bisogna essere cauti".

Poi il riferimento a Renzo Piano: «Mi stupisce che una persona della sua levatura, di cui ho la massima stima, abbia chiesto coraggio e invitato a non avere paura. Qui non è questione di coraggio o paura, c’è un progetto che richiede studio e scelte da compiere. Piano mi ha chiamato più volte, ci sentivamo spesso anche quando ero a Genova. Certo, lui parla di un grattacielo leggero, trasparente, ma le qualità del progetto devono essere verificate dall’amministrazione pubblica, non ci si può affidare ai progettisti, anche se di gran nome». Pittarello non è morbida nemmeno con il grattacielo di Fuksas per la Regione nell’area ex Avio: «Non sono contro i grattacieli, il mio non è un partito preso. Ma abbiamo valutato anche la torre di Fuksas, che coinvolge non solo l’edificio del Lingotto, ma l’intero quartiere. Ai nostri uffici l’architetto ha detto che sarebbe stata alta 190 metri, poi sui giornali abbiamo letto che arriverà a 220». Infine un invito: «Chiedo che non ci si fermi ai vincoli già apposti in passato, ma che la tutela del paesaggio riguardi l’intera città».

Dopo il suo intervento, la replica dell’assessore all’Urbanistica Mario Viano: «Sono d’accordo a trovarci intorno a un tavolo e a lavorare. Teniamo conto però che ci sono le aspettative e le esigenze di un’azienda che ha un peso specifico nell’economia della città». La soddisfazione era evidente nella sinistra radicale: «In queste audizioni – scrivono in un comunicato Monica Cerutti, Luca Cassano e Domenico Gallo, capigruppo di Sinistra Democratica, Rifondazione Comunista e Comunisti italiani – è emerso come le nostre perplessità siano del tutto fondate».

L'icona che illustra la presentazione di questo articolo, e che adornerà tutti i pezzi dedicati ad analoghe perversioni, è disegnata per eddyburg da Elena Tognoni e illustra una felice espressione coniata in un articolo di Giuseppe Pullara.

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