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Titolo originale: Bush to Cities: Drop Dead! – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Le notizie sono tutte pessime. Ed è quasi impossibile concentrarsi su qualcosa davanti ai 99 articoli sul deficit crescente, i tentativi dell’amministrazione Bush di privatizzare la Social Security, o l’ultima richiesta multimiliardaria per finanziare la guerra in Iraq. Le cifre sono incomprensibili, le argomentazioni scottano come una piastra incandescente, e vien voglia di buttar via tutto. Lasciare che quei mollaccioni politicanti di Washington si azzuffino fra loro.

Poi c’è questo titolo del Washington Post, 14 gennaio 2005: “ Bush prevede tagli netti ai programmi HUD per le città”. Fa sbarrare gli occhi, vero? Magari è uno di quegli articoli che di solito si saltano. Dopo tutto, che c’entri, tu? Ma proviamo a leggere: “Funzionari dell’amministrazione hanno affermato ieri che la Casa Bianca tenterà di ridurre drasticamente gli 8 miliardi di dollari che il Department of Housing and Urban Development dedica al proprio community branch, tagliando dozzine di progetti di sviluppo economico, eliminando il programma di edilizia rurale, passando le competenze per gli impegni anti-povertà di alto profilo ai dipartimenti del Lavoro e del Commercio”.

Se ci si ragiona per un istante, si capisce che questo articolo tratta di cose che ci interessano. Cosa sono l’abitazione e lo sviluppo urbano se non architettura, progetto, pianificazione? Il fuoco della faccenda è che il bilancio proposto dall’amministrazione per il 2006 taglierà a metà i 4,7 miliardi di dollari del programma Community Development Block Grant (CDBG), da trent’anni fonte di finanziamento per cose che vanno dai sistemi fognari, alla tutela delle zone storiche, alle abitazioni popolari. È un programma tanto vitale per l’esistenza quotidiana delle città americane, che la conferenza nazionale dei Sindaci, riunita a Washington pochei giorni dopo la pubblicazione dell’articolo sul Post, ha approvato una risoluzione urgente a sostegno del finanziamento integrale del programma CDBG, che sembra un grido di dolore dalle casse svuotate dei governi locali.

Gli altri programmi destinati ad eliminazione o trasferimenti, comprendono la Brownfields Economic Development Initiative, che promuove iniziative di infill development e combatte l’insediamento diffuso (e che sarebbe cacciato come un orfano in un romanzo di Dickens, al dipartimento del Commercio), e il piccolo programma da 24 milioni del Rural Housing and Economic Development, che verrebbe eliminato.

Come dice il nome, lo HUD è l’ufficio federale che si occupa principalmente dei bisogni delle città (anche se concorre a costruire case e infrastrutture nelle zone rurali). E una parte del problema è che l’amministrazione Bush non è tanto entusiasta delle città, o delle persone che ci abitano; a novembre John Kerry si è preso il 54% del voto urbano, e il 60% di quello delle grandi città. Poi c’è la spesa crescente per la guerra in Iraq, insieme ai grandi tagli fiscali, e questo significa meno soldi da spendere in programmi interni. Bisogni come le case e le infrastrutture sono improvvisamente diventati dei lussi.

”C’è un deficit da affrontare, e la base di sostegno non sta nelle città” afferma Chandra Western, direttore della National Community Development Association, riassumendo i motivi per cui i tagli presidenziali potrebbero eliminare progetti utili a tante persone. L’architetto Bryan Bell, del North Carolina, noto per aver ideato tipi residenziali innovativi per i lavoratori stagionali agricoli, la prende da un’altra parte: “Credo semplicemente che si tratti dell’alternativa burro-cannoni. E stiamo perdendo il burro”.

”Essenzialmente quello che viene messo in discussione è se il governo federale debba continuare ad avere un ruolo nella soluzione dei problemi urbani e di sviluppo economico per le famiglie a redditi bassi e medio-bassi” spiega Paul Hilgers, responsabile per i quartieri, l’abitazione e il community development di Austin, Texas.

Hilgers dirige quella che è uno degli uffici per l’abitazione più progressisti del paese. Austin di recente ha completato un ambizioso progetto architettonico per uno homeless shelter and outreach center di 2.500 metri quadri, che utilizza acqua piovana per i servizi igienici e funziona ad energia solare. È stato finanziato in parte nel quadro del programma CDBG, che come sottolinea Hilgers fu lanciato da un repubblicano. “È iniziato sotto l’amministrazione Nixon, e l’idea era piuttosto semplice. Abbiamo problemi nazionali riguardo ai quali il governo federale ha alcune responsabilità, che non si sa come risolvere. Allora dobbiamo creare un programma che consenta parecchia flessibilità a livello locale”.

In altri termini, il programma CDBG è un modello di azione in cui un grosso governo agisce con la leggerezza del piccolo governo, e si tratta di un grosso risultato per l’amministrazione Nixon. Purtroppo l’idea di tagliare del 50% i fondi per il community-development ha il profumo di un altro presidente repubblicano anni ’70. È un prodotto dell’annata 1975, dal titolo: “ Ford alle città: a cuccia!”.

Ma può anche darsi che l’idea di un atteggiamento negativo del governo federale verso le città sia una generalizzazione eccessiva, un’astrazione di poca utilità. Magari si pensa a fogne e marciapiedi più o meno come ci si preoccupa di Sicurezza Sociale: non ci si vuol pensare gran che, ma ci si farebbe caso se non esistesse più. In questo caso, c’è una storia più piccola e più accessibile nascosta sotto tutte queste chiacchiere burocratiche. Riguarda il modo in cui negli ultimi dieci anni abbiamo imparato come abitazioni innovative e abitazioni a buon mercato non siano categorie che si escludono a vicenda. L’approccio bottom-up iniziato dallo HUD negli anni della presidenza Clinton (rendere disponibili fondi per il community development con minime formalità burocratiche) ha aiutato il sorgere di una nuova generazione di architetti che, ispirati dai successi del Rural Studio di Samuel Mockbee in Alabama, e da programmi simili in tutto il paese, hanno tentato di recuperare l’idea del Movimento Moderno, della casa per tutti.

Le generazioni precedenti avevano interpretato il messaggio modernista in modo piuttosto letterale, utilizzando i fondi federali per costruire i progetti residenziali monolitici diventati il simbolo dell’incapacità del settore pubblico di realizzare qualcosa di buono. Ora una nuova generazione di architetti trova interessante il tema dell’abitazione a basso costo: un enigma intrigante da risolvere. Giovani professionisti, spesso laureati nelle aree della progettazione/esecuzione, sono diventati maestri nel progetto e finanziamento di case a basso costo e prezzo. I fondi dello HUD entrano quasi sempre nell’equazione.

Hilgers ci dice: “Abbiamo un gruppo di giovani architetti molto innovativi che escono dalle scuole e sono veramente motivati ad alti livelli di progettazione creativa per abitazioni rivolte ai ceti meno abbienti. Non ci era mai successo prima. Ed è un peccato che, proprio quando abbiamo una struttura di giovani professionisti creativi che avrebbero bisogno di essere sostenuti, si debbano prevedere dei tagli”.

L’ufficio di Hilgers ha dato lavoro a studi di Austin come lo Krager Robertson Design Build, aiutandoli ad ottenere fondi federali. Il KRDB ha ottenuto fondi sufficienti dallo Housing and Urban Development attraverso l’amministrazione di Austin e il suo programma residenziale, per ideare, progettare e realizzare case a buon mercato in vendita per famiglie a medio reddito, sulla Cedar Avenue, nella zona est della città. Queste sottili ed eleganti case piene di luce, sono offerte a cifre da 105.000 a 125.000 dollari. Il sostegno dello HUD ha ridotto di 10-15.000 dollari il prezzo di vendita, e dato agli acquirenti un po’ di respiro nel pagamento degli interessi.

A Raleigh, lo studio di Bryan Bell, Design Corps, conta moltissimo sui finanziamenti delle varie branche dello HUD, compreso il programma Rural Housing and Economic Development di cui si prevede l’eliminazione. “Quando si parla di Home Investment Partnership (che per ora non è compresa nella lista dei programmi da eliminare) e di Rural Housing and Economic Development, quelle sono tutt ele risorse per i nostri progetti” dice Bell. “E que

Sotto accusa la attuale maggioranza governativa, e, soprattutto, i comuni ricchi ed egoisti delle banlieues metropolitane, i loro sindaci conservatori e il loro maître-à-penser: l’incauto e provocatorio ministro dell’interno Nicolas Sarkozy che sta boicottando in prima persona l’applicazione della legge. Da leggere per riflettere sulle affinità con la questione abitativa e la emergenza casa in Italia, e sui rischi che si potrebbero correre anche nelle nostre grandi città: se non cambiano le cose (m.c.g.).

Titolo originale: Ces banlieues riches qui poussent au crime - Traduzione per Eddyburg di Maria Cristina Gibelli

Dopo le rivolte urbane nella periferia parigina e in provincia, il problema delle case popolari è tornato in primo piano e, con esso, quello della attuazione della legge SRU (Solidarité et renouvellement urbain). Molti comuni della banlieue parigina, come ad esempio Neuilly-sur-Seyne e Saint-Maur-des-Fossés, preferiscono restare “fra ricchi”, lasciando agli altri il compito di risolvere i problemi di mixité sociale.

Concentrare le famiglie povere, gli stranieri, i disoccupati nei quartieri periferici degradati ha costituito da molto tempo un modo sicuro per non vedere i problemi – pagato con episodi di protesta sociale manifestatisi nel corso del tempo in diverse località. Le violenze che hanno scosso la Francia nel novembre 2005, e che hanno reso necessaria la proclamazione dello stato di emergenza nazionale, costringono ad aprire gli occhi.

Il mensile Alternatives Economiques, in un dossier premonitore pubblicato in ottobre (Pas de rélance pour le logement social), aveva già descritto una situazione allarmante: 100.000 famiglie solo a Parigi sono in attesa di un alloggio (con un ritmo di attribuzione di 12.000 alloggi per anno); ogni anno in Francia vengono resi disponibili soltanto 50.000 alloggi supplementari, di cui 35.000 nuovi (complessivamente, meno dell’1% del parco alloggi esistente). Le risorse finanziarie destinate all’edilizia sociale, che rappresentavano lo 0,4% del PIL all’inizio degli anni ’80, si sono dimezzate dall’inizio degli anni ’90. Un decennio più tardi, nel 2001, si è scesi allo 0,1% del PIL.

Secondo l’INSEE, la Francia contava nel 2002 3,5 milioni di persone in condizione abitativa precaria. Nel settore dell’HLM (edilizia economico-popolare), il 22% degli abitanti sono disoccupati, e più della metà hanno un reddito inferiore al 60% del reddito minimo di accesso .

Per cercare di invertire la tendenza, la legge RSU, adottata nel 2000 dal governo Jospin, ha fisssato un obiettivo a 20 anni: 20% di alloggi sociali per tutti i comuni con più di 1.500 abitanti in regione parigina, e con più di 3.500 abitanti in provincia. I comuni inadempienti si espongono a delle sanzioni pecuniarie, tutto sommato neanche molto elevate.

Così, il ricco comune di Saint-Maur-des-Fossés (Val-de-Marne), già famoso per essere una delle ultime città in Francia ad aver sempre rifiutato la raccolta differenziata, paga soltanto 800.000 euro di ammenda all’anno per l’assenza di un impegno sia pur minimo in materia di edilizia sociale.

“Case popolari” sì, ma per popolazione a buon livello di reddito

In un volantino distribuito agli abitanti di Saint-Maur, il sindaco Jean-Luis Beaumont invita a firmare una petizione per l’abrogazione della SRU (indicata come “legge SRU-Gayssot, dal nome del deputato comunista relatore della legge stessa, per spaventare un po’ di più i suoi elettori). Egli scrive che l’applicazione della legge “darebbe luogo a un saccheggio della buona urbanistica” e che “non vi è niente di sociale nell’addensare le abitazioni, nel momento in cui molti di quelli che ci vivono si augurano la scomparsa dei grands ensembles”. Si gioca sull’accostamento fra paura e un’immagine univoca dell’edilizia popolare: quella della tipologia degli edifici a torre (Creteil è a due passi…)

Saint-Maur propone di favorire l’accesso alla proprietà in 30 o 40 anni per le coppie che “dispongano di 2.000-3.000 euro di reddito mensile” (ricordiamo che il reddito medio lordo mensile è di 1.218 euro!); di “esonerare dal pagamento dei diritti di successione diretta, allorché questa successione o donazione riguardi un alloggio in cui l’erede elegge la sua residenza principale” (misura che favorisce i proprietari agiati e che non incide minimamente sull’edilizia sociale, occupata da affittuari), o ancora “di esonerare dalle spese notarili per l’acquisto della prima casa” (mentre il problema per i più poveri è, appunto, di accedere all’affitto).

E il sindaco di Saint-Maur vanta le realizzazioni in corso di edilizia sociale nel suo comune.. un centinaio di alloggi in tutto. Morale: restiamo in buona compagnia e infischiamocene degli altri…

Ma si deve a Nicolas Sarkozy un record ancora più scandaloso. Neuilly-sur-Seyne, di cui è stato sindaco per lungo tempo, si è data l’obiettivo di un tasso di edilizia sociale del 2.6%. Salutiamo questo sforzo, anche se la quota si è fermata all’1,3% nel 2002. Ecco da chi ci vengono date lezioni su come intervenire sulle periferie…

Felicitazioni anche a Ville-d’Avray (3,1%), Celle-Saint Cloud (3,6%), Vincennes (6,4%), Maisons-Laffitte (6,9%) !

Sempre meno abitazioni, sempre meno edilizia popolare

Non basta certo costruire abitazioni popolari. Occorre che siano accessibili a chi ne ha bisogno. E questo non è il caso dei 4 milioni di alloggi disponibili nel nostro paese (di cui la metà in affitto).

In primo luogo, l’aumento dei valori immobiliari spinge gli affittuari a permanere negli alloggi sociali più a lungo, e il tasso di rotazione è in costante diminuzione. Inoltre, i comuni che hanno accolto la maggiore quota di parco sociale, accumulano le difficoltà che si accompagnano alla concentrazione elevata di popolazione pauperizzata e non possono più costruirne di nuovi. Bisogna dunque contare sui comuni più altolocati che, però, non hanno una grande propensione a dedicarsi all’edilizia sociale (e a rischiare una mutazione del proprio elettorato).

Del resto, l’edilizia sociale più costosa (il cosiddetto PLS: Pret Locatif Social) costituisce oggi più del 20% della nuova offerta, contro il 13% di quattro anni fa. Questi alloggi sociali “haut de gamme”, in un mercato già saturo, attirano anche le classi medie. Il fatto è che, poiché questa offerta garantisce affitti più elevati, richiede minori sovvenzioni statali ed è quindi preferita anche a livello centrale.

Le abitazioni per i gruppi più svantaggiati sono sempre più una questione che riguarda il parco privato più degradato. E, per peggiorare le cose, lo Stato in questi ultimi anni ha fortemente ridotto il suo impegno in favore della riqualificazione del patrimonio abitativo più vetusto.

Aggiungete il fatto che la legge Besson del 1999 è stata rimpiazzata dalla legge Robien del 2002 (che prevede che gli aiuti finanziari alle operazioni di riqualificazione abitativa sono concessi a condizione di un impegno economico molto più elevato da parte degli affittuari destinatari degli aiuti stessi): la situazione dell’edilizia sociale non potrà che peggiorare.

E le sommosse ricominceranno per denunciare questa cecità.

Nota : il testo originale al sito ANNU:ART Sullo stesso argomento su Liberation “ 140 villes restent de marbre face à la loi SRU(m.c.g.)

Titolo originale: Madrid mayor: Visionary or ‘pharaoh’? Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini



MADRID – Più o meno ogni due settimane, Alberto Ruiz-Gallardón guida fino a una zona diversa della città, ringrazia gli abitanti per la loro pazienza, e sancisce formalmente l’ultimazione – o la parziale ultimazione – di uno degli oltre 70 grandi progetti di costruzione di Madrid.

Gallardón, sindaco di Madrid serio e che pensa in grande, ha sopportato più di due anni di lamentele e critiche da parte di abitanti stufi per i rinvii, gli ingorghi del traffico, le deviazioni il rumore e la polvere diventati parte della vita quotidiana da quando sono iniziati i grandi progetti, poco dopo la sua elezione nel 2003.

Ma il quarantaseienne Gallardón dice che sarà valsa la pena di questi inconvenienti alla fine dell’opera nel 2007, e Madrid chiede di diritto il suo posto fra le grandi città moderne d’Europa.

”Madrid ha un’ambizione: farsi carico della guida, in Spagna e oltre” ha dichiarato il sindaco giovedì in municipio dopo aver comunicato ai giornalisti la proposta di un nuovo progetto di rinnovamento per un’altra zona della città, stavolta sul margine meridionale del principale parco, la Casa del Campo.

Membro del conservatore Partido Popular, Gallardón sta mantenendo una promessa: è entrato in carica facendo voto di cambiare la faccia di Madrid. La città era considerata da lungo tempo arretrata rispetto ad altre capitali europee: un luogo sovraccarico di tradizione, lento a modernizzarsi.

Anche rispetto al resto della Spagna, la capitale appariva letargica, immobile mentre Barcellona, Bilbao e Valencia si rinnovavano, ravvivavano e reinventavano come città alla moda con appeal globale, alzando il proprio profilo internazionale a attirando turisti.

Ma ora la cronica trascuratezza di Madrid per la sua immagine è finita. Con Gallardón, la città si è trasformata in un grande cantiere, con scavi, gru, martelli pneumatici e cavalletti a bloccare le strade praticamente ad ogni angolo.

”Al momento Madrid sta attraversando il più grande processo di trasformazione urbana della sua storia, e uno dei più ambiziosi d’Europa” ha dichiarato il sindaco in un’intervista via e-mail. “Si sta scrollando di dosso una certa pigrizia del passato”.

E i progetti del sindaco vanno oltre il rinnovo delle infrastrutture. Parla di utilizzare gli enormi tesori artistici della città per proiettare una vivace e seduttiva immagine di Madrid al mondo. Ciò comporta modernizzare l’area attorno al “triangolo d’oro” dei musei d’arte, come il Prado, a creare “uno spazio pubblico veramente unico al mondo” sottolineato da fontane e alberature.

Descrivendo i suoi grandiosi piani, Gallardón si propone come un visionario. Ma i critici lo chiamano “il faraone”.

Proprio come i sovrani dell’antico Egitto, dicono, è ossessionato dall’idea di lasciare un’impronta duratura attraverso mastodontici progetti di costruzioni, senza badare ai costi. Quando terminerà il suo primo mandato nel 2007, si prevede che il debito per la città si avvicini ai 6 miliardi di Euro, circa cinque volte quello di quando è entrato in carica.

I critici contestano che questi progetti non solo stanno portando alla bancarotta la municipalità, ma azzoppano anche l’economia rendendo più difficile per i clienti raggiungere i negozi nelle zone delle costruzioni, e obbligando gli abitanti a impiegare più tempo per gli spostamenti quotidiani. In più, dicono, i lavori danneggiano l’ambiente e peggiorano la qualità della vita.

“La città è collassata” ha dichiarato in un’intervista Trinidad Jiménez, consigliera municipale per il Partito Socialista e probabilmente la critica più radicale del sindaco. “Ha creato il caos assoluto in città, con tutte le sue costruzioni”.

Gli abitanti impiegano in media 30 minuti in più al giorno per spostarsi in città, sostiene la signora, riducendo il tempo a disposizione per lavorare, per la famiglia e per il sonno. “Il problema non sono tanto le costruzioni” aggiunge la Jiménez. “È che ha deciso di fare tutto in una volta”.

La federazione dei tassisti dice che i propri aderenti perdono in media due viaggi al giorno, ovvero l’equivalente di 250 al mese, a causa dei lavori, e ha chiesto al sindaco di sospendere tutte le opere principali sin quando non sarà predisposto un piano per minimizzare gli effetti sul traffico.

Alcune delle critiche più dure si concentrano sulle conseguenze ambientali dei progetti; la signora Jiménez dice che sinora sono andati persi 25.000 alberi. Il sindaco ha promesso di ripiantarne molti, e di raddoppiare quasi il numero di quelli lungo le strade entro la fine del mandato. Ma i critici sostengono che ci vorranno decenni prima che gli alberi crescano maturi a sufficienza per ricostruire il paesaggio.

Gallardón nega che la città sia nel caos, sostenendo che il traffico nelle zone dei cantieri non è più lento che altrove, e che la città è ben lontana dall’essere paralizzata. “Il caos arriverebbe se non modernizzassimo in fretta le nostre infrastrutture, e ci sarebbe un collasso per mancata preveggenza” dice.

Ex procuratore e madrileno di nascita, Gallardón è al centro della politica della città da più di dieci anni, presidente per due mandati della regione madrilena prima di diventare sindaco nel maggio 2003. Conservatore moderato, è popolare in entrambi gli schieramenti ed è stato considerato a lungo un potenziale candidato per la presidenza del consiglio dei ministri.

Ma l’ampiezza della sua popolarità è forse la sua maggior debolezza, dice Carlos Mendo, amico del sindaco e editorialista del quotidiano El País.

”Il guaio con Alberto è che ha più fascino con l’uomo medio che con la base” racconta riferendosi alla base conservatrice del partito. “È un po’ troppo liberal per loro”.

Gallardón ha fatto infuriare i conservatori del partito sostenendo i diritti degli omosessuali. Ha anche suscitato scontento concentrandosi più sull’integrazione degli immigrati che nello scoraggiarli, o invitando alla moderazione nei rapporti con le regioni spagnole a cultura autonomista come quella basca e catalana.

Il sindaco afferma che non ha intenzione di presentarsi come candidato alla presidenza del consiglio alle prossime elezioni parlamentari previste per il 2008. Ma, come ricorda Mendo, Gallardón è abbastanza giovane per poter scegliere il proprio momento, e aspettare un turno in cui il pendolo del partito si sia spostato un po’ più a sinistra.

Gallardón ha dimostrato di aver fascino con gli elettori. Sposato e padre di quattro figli, ama andare in moto e suonare il piano, a sentire gli amici, e le sue conoscenze di musica classica possono rivaleggiare con quelle di uno studioso. Non molto tempo fa, un direttore di El País gli chiese di diventare il critico musicale del giornale: per scherzo, secondo Mendo.

La decisione di Gallardón di concorrere alla carica di sindaco nel 2003 è apparsa come un passo indietro, una mossa sorprendente per un giovane politico in ascesa. Ma sembrava attratto dalla possibilità per un sindaco di incontrare personaggi stranieri importanti e capi di stato, in visita a Madrid tutti gli anni, offrendo un’opportunità ideale per aumentare non solo la propria statura internazionale ma anche quella della città.

Una pietra miliare della sua strategia era vincere la candidatura alle Olimipiadi del 2012, che sosteneva avrebbero fatto alla città quello che era riuscito con i giochi del 1992 a Barcellona:trasformarsi in una delle metropoli più trendy d’Europa. Aver perso la scommessa con Londra in luglio è stato un passo indietro devastante, secondo gli amici.

In molti modi, le trasformazioni di Gallardón riflettono una tendenza. Favorite da una delle più lunghe fasi di espansione economica del continente, le città spagnole hanno ricostruito se stesse per oltre un decennio, modernizzando le infrastrutture e tentando di distinguersi attraverso specifiche architetture.

Seguendo l’esempio di Bilbao e del suo museo Guggenheim, che ha aiutato a trasformare la città da grigio centro industriale a una destinazione turistica di tendenza dopo l’inaugurazione del 1997, centri come Valencia, Barcellona e Córdoba di recente hanno ingaggiato architetti innovativi per aggiungere linee moderne alle proprie skylines.

Il rifacimento di Madrid comprende le immaginose espansioni dell’aeroporto e del museo di arte contemporanea Reina. È uno dei tre, insieme al Prado e al Thyssen-Bornemisza, che formano il “triangolo d’oro” della città e sono al centro del più decantato progetto di Gallardón. Il sindaco sta lavorando con costruttori privati per aggiungere un quarto museo e riunirli tutti in un unico quartiere che possa essere promosso all’estero come emblema delle ricchezze culturali della città.

In molti modi, la visione di Gallardón per Madrid è meno ambiziosa di quel che sembra. La città è ben nota per i suoi musei, l’esuberanza della vita notturna e la quantità praticamente infinita di bar, pochi dei quali sembrano mai vuoti. È anche il motore di una delle più vivaci economie d’Europa, una calamita per un numero crescente di immigrati, dall’unione Europea e da fuori.

Oggi sarebbero in pochi a definire Madrid quelloc he appariva solo qualche decennio fa: una grande città politica, dominata appunto da politici, scrittori, giornalisti e burocrati. Se mancava qualcosa, forse era un venditore: e Gallardón si presenta proprio come the man for the job.

Ai critici dei lavori di rinnovamento il sindaco risponde che non c’è scelta. Senza questi, avverte Gallardón, Madrid rischia di diventare un centro di secondo piano. Con le opere, prevede, Madrid volerà in alto, affermandosi non solo dal punto di vista della forza economica, ma come centro culturale e artistico con pochi rivali in Europa.

Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune; altri articoli della serie sui sindaci delle grandi metropoli del mondo in questa stessa sezione Eddyburg/Megalopoli (f.b.)

UNA DELEGAZIONE di costruttori edili americani, in visita da Chicago, è stordita dall´ammirazione: «Nel tempo in cui noi costruiamo un grattacielo, qui costruiscono da zero una città intera». È l´exploit estremo mai realizzato dalla Cina, che pure di grandi opere ha un´esperienza unica al mondo. In una zona dove fino a pochi mesi fa c´erano solo campi, tra un anno sorgerà dal nulla una città di centomila abitanti, Nuova Zhengzhou.

In meno di dieci anni sarà diventata una metropoli da un milione e mezzo di persone. È un record assoluto, una Dubai innalzata di colpo come un miraggio sulle rive del Fiume Giallo. E non avrà nulla in comune con altri tour de force della scatenata urbanistica cinese. Stop al gigantismo mostruoso e volgare che ha devastato Pechino, Shanghai e Canton, megalopoli-piovre di ipergrattacieli e autostrade urbane, metastasi impazzite della globalizzazione. Nuova Zhengzhou è la prima Utopia post-comunista della Repubblica popolare, la Venezia del terzo millennio, un´Arcadia ambientalista, oasi d´acqua e di giardini, di università tecnologiche e aria pulita.

Questo sogno meraviglioso, 30.000 operai con centinaia di gru e scavatrici lo stanno già costruendo a tappe forzate di giorno e di notte, senza pause né domeniche né vacanze. Il potere ha scelto un luogo simbolico, il cuore primordiale dell´Impero di Mezzo. La vecchia Zhengzhou è capitale di una provincia (Henan) che ha gli abitanti di Francia e Italia messe assieme. Ha 3.500 anni di storia. È un centro nevralgico all´incrocio esatto fra la ferrovia nord-sud Pechino-Canton e quella est-ovest che dal Mar Giallo arriva in Tibet. Tra quei due assi intasati di traffico, la vecchia Zhengzhou e i suoi 2,5 milioni di abitanti stavano soffocando. Così tre anni fa il governo locale ha partorito un progetto senza precedenti. Creare un´altra città più in là, molto più là, in mezzo alla vasta campagna semivuota. Costruirla da zero, in tutti i sensi. Non farsi vincolare dagli errori del passato, non sovrapporre cemento nuovo sul cemento vecchio. Su una pagina bianca disegnare la città-modello, l´ambiente ideale del nostro tempo. Hanno tradotto in mandarino dei concetti – qualità della vita, sviluppo sostenibile – che sembravano un lusso per la Cina. Con un miliardo e 300 milioni di abitanti, tra cui 800 milioni di contadini ancora fermi nel Terzo mondo, la crescita del Pil ad ogni costo ha avuto la precedenza.


Zhengzhou ha visto Chongqing, Pechino e Shanghai lanciate verso il collasso, proiettate oltre i 20, i 30 milioni di abitanti, strangolate negli ingorghi e nelle nebbie tossiche da inquinamento. Zhengzhou si è ribellata all´ineluttabilità di quel destino. I suoi amministratori hanno organizzato una gara internazionale tra architetti sfidandoli a progettare la Città-Simbiosi: con la natura, con la cultura e la tradizione cinese. Hanno fatto vincere un architetto-filosofo, artista e idealista, per di più giapponese: Kisho Kurokawa, l´autore del museo di arte contemporanea di Hiroshima e del museo Van Gogh di Amsterdam. Kurokawa non li ha delusi. La sua Nuova Zhengzhou è una sapiente e raffinata alternativa alle brutture che sfigurano le megalopoli cinesi. Restaura la civiltà urbana di questo paese: il tessuto dell´antica convivenza sociale favorito dagli hutong, vicoli stretti e nemici delle auto; dai siheyuan, le case familiari a un solo piano, armoniosi quadrilateri col cortile e il giardino interno. Nuova Zhengzhou è una città carosello immersa in un reticolo di canali, eco-corridoi che si collegano a 34 fiumi. Ha un lago artificiale di 800 ettari, il più grande della Cina. Si circonda di parchi e giardini vasti fino a raggiungere le foreste delle vicine montagne per proteggere la biodiversità della regione. Ha anche i suoi bei grattacieli, disposti lungo due girotondi e un arco sinuoso che visto dal cielo, e illuminato di notte, riproduce il carattere cinese riyu, simbolo di appagamento dei sensi. Ha un sistema di trasporti fondato sui vaporetti nei canali, i tram leggeri in superficie, un treno ad alta velocità verso l´aeroporto. Ha un parco tecnologico e tre campus universitari con dieci facoltà, inclusa l´Accademia della medicina tradizionale cinese e un Istituto per la conservazione dell´acqua.


È il Giardino dell´Eden. La potenza industriosa della Cina lo sta creando sotto i nostri occhi alla velocità della luce. Il pedaggio d´ingresso nel paradiso terrestre però è elevato: più di 300.000 euro per un appartamento di 80 metri quadri. I contadini a cui il governo ha espropriato le terre fanno la fila all´ufficio di collocamento, per essere assunti come manovali nell´esercito proletario che innalza l´Utopia metropolitana. Nella Nuova Zhengzhou la legge del mercato ha già escluso che ci sia posto per loro. La vecchia Zhengzhou, intanto, è la città-pilota per un altro esperimento di ingegneria sociale. È la prima municipalità ad avere reclutato i nuovi corpi speciali della polizia cinese, le teste di cuoio anti-sommossa.

APPENDICI (estratti e traduzioni per Eddyburg di Fabrizio Bottini)

Dal sito della Municipalità

La nuova zona di Zhengdong

Col nuovo secolo, Zhengzhou ha saputo cogliere le significative opportunità dell’ingresso della Cina nel WTO, il grande sviluppo della zona occidentale, e l’approvazione da parte dello stato del Piano Generale della Municipalità di Zhengzhou per la Costruzione della Municipalità Centrale Regionale, e ha fissato i propri obiettivi strategici per l’economia nazionale e lo sviluppo sociale nel “Decimo Piano Quinquennale” [...]

Nel quadro degli obiettivi del piano quinquennale, la Nuova Area di Zhengdong sarà costruita con un alto livello, dal punto di partenza ai risultati, in modo da ampliare il quadro generale della città. La zona pianificata di Zhengdong inizia a ovest dalla Strada Statale n. 107, e raggiunge la progettata autostrada di Jing Zhu a est; a nord inizia dalla autostrada di Lian Huo, e arriva sino all’arteria veloce per l’aeroporto. L’Area copre un totale di circa 150 chilometri quadrati, ed è prevista una popolazione di 1,5 milioni di abitanti. Nel progetto e realizzazione sono contemplati concetti avanzati come la Città a sviluppo contemporaneo [ Co-growth City], Città Metabolica [ Metabolistic City] e Città ad Anello [ Ring-shaped City]. E verranno anche osservati principi come eguale attenzione alle traformazioni della città vecchia e sviluppo della nuova, edificazione coordinata, crescita e prosperità condivise, bisogni della popolazione in primo piano, priorità alla pianificazione, nel migliorare l’aspetto della città vecchia e accrescere la qualità dell’ambiente urbano. L’obiettivo finale è di realizzare Zhengzhou passo dopo passo, verso una città moderna, socialista, commerciale e di scambi, con le caratteristiche culturali delle Pianure Centrali, una capitale regionale nelle campagne.


Dal sito Zhenzhou Dahua

Il Nuovo Distretto Orientale di Zhengdong

La realizzazione del nuovo distretto di Zhengdong è un grande progetto a cui partecipano sia la Provincia di Henan che la Municipalità di Zhengzhou, per accelerare lo sviluppo della città. Il giapponese Kisho Kurokawa, maestro dell’architettura e dell’urbanistica apprezzato a livello mondiale, ha redatto il Progetto Concettuale Generale. Il piano adotta i concetti avanzati di città ecologica, simbiotica, metabolica e ad anello. Kisho Kurokawa è stato insignito del Cities Award for Excellence, all’incontro annuale dell’Unione Internazionale degli Architetti. Il nuovo distretto comprende, un Central Business District (CBD) con funzioni finanziarie, di affari, uffici, residenze. A nord-ovest, si prevede lo specchio d’acqua artificiale del Lago del Dragone, su circa 6 chilometri quadrati, circondato da bassi edifici residenziali. Il sub-core della zona degli affari, area principalmente turistica e residenziale, sarà organizzato sulla penisola protesa nel lago del Dragone. Il CBD si collega al sub-core attraverso un lungo canale che diventerà l’asse centrale commerciale e culturale della città su entrambe le rive, sulle quali si collocano alti edifici residenziali; centri logistici e industrie sono raggruppati in una fascia produttiva a forma di “V”. In più, lungo i corsi d’acqua, il lago, le strade trasversali e quella ad anello, ci sono ampi spazi a verde con funzione ecologica.

Ad ora, è stato attuato il piano per l’area iniziale di 45 chilometri quadrati, dove le strutture base come la rete stradale sono state quasi completate. Sono in corso di rapido sviluppo la vendita e organizzazione degli spazi, oltre al lavoro relativo all’immigrazione e ricollocamento entro il nuovo distretto. Fra i 18 progetti previsti nel CBD, sono in corso di costruzione il Centro Esposizioni Internazionale e quello Radio e Televisione; sono nella fase preparatoria del sito il Centro Belle Arti di Henan e la Città Universitaria; la Città della Tecnologia è agli inizi. La promozione degli investimenti ha avuto successo, e il totale ha raggiunto 1,2 miliardi.

Altri particolari disponibil al sito NHBY; di seguito due files immagine e un file estratto da China Daily sullo sviluppo della città (f.b.)

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International Herald Tribune, 4 dicembre 2005; Titolo originale:For Swedish mayor, a monumental task – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

STOCCOLMA – Gli autori della guida di Stoccolma della Time Out descrivono la città “di una bellezza mozzafiato”, “barometro del cool”,persino “meta per buongustai”: in breve, un gran bel posto dove andare e in cui stare.

E questo, dice il sindaco Annika Billstrom, è uno dei più grossi problemi.

”Tendiamo a pensare di condurre una vita la migliore possibile” racconta l’esponente socialdemocratica. “Ma Stoccolma è di fronte a una sfida: come è possibile per una piccola città del nord Europa giocare un ruolo mondiale maggiore di quello attuale? O affrontiamo questa sfida, o restiamo ai margini”.

Anche se l’area metropolitana di Stoccolma è la più popolosa della Scandinavia, con quasi due milioni di abitanti, quelli che abitano in città arrivano solo a circa 750.000.

La signora Billstrom, 49 anni, vuole attirare più residenti e visitatori. La sua idea per rivitalizzare la città comprende la realizzazione di quelli che chiama “edifici monumentali”.

”Un collega mi ha chiesto se potevo nominare due importanti opere terminate negli anni ’90, e non ci sono riuscita” dice la Billstrom, politica di carriera e primo sindaco donna di Stoccolma. “Siamo così incredibilmente nella media. Non ci impegniamo mai a dimostrare quello che sappiamo fare”.

Nel corso dell’intervista, nel suo ufficio dentro l’opulento municipio dove sabato si terrà il banchetto del Nobel, la signora Billstrom delinea i suoi piani per trasformare Stoccolma in una “autentica città mondiale” elencando puntigliosamente quello di cui c’è bisogno: un grosso stadio, una nuova biblioteca pubblica, un museo permanente del Nobel, un centro di mostra e promozione del design svedese. Questi edifici, dice, devono essere “innovativi”: preferibilmente “capolavori”. La maggior parte di questi progetti ha un ampio sostegno, e si prevede siano approvati dal consiglio comunale entro il prossimo anno.

Un secondo caposaldo del programma riguarda il ruolo di Stoccolma come “motore della crescita”. La capitale svedese, sostiene il sindaco suonando più affaristicamente “blairiana” che socialista tradizionale, ha bisogno di sostenere le imprese e stimolare un “tripla spirale” ascendente fatta di imprese, pubblica amministrazione, università. La Billstrom si lancia un po’ anche contro il welfare state svedese – amata creatura del suo partito – per come ha giocato un ruolo fondamentale nel creare il tipo di statica soddisfazione che la preoccupa.

Allo stesso tempo, una delle più discusse porposte della Billstrom da quando è entrata in carica nel 2002 è decisamente di sinistra: sta tentando di proibire qualunque cambiamento nella gestione dei restanti 100.000 alloggi di proprietà municipale ad affitto controllato di Stoccolma. Il suo predecessore, il conservatore Carl Cederschiold, aveva consentito la vendita di un’ondata di questi appartamenti. La Billstrom è stata eletta anche per la sua promessa di fermare la privatizzazione. Ma il potere a Stoccolma passa di mano ad ogni elezione dal 1973, e i sondaggi di opinione indicano che Billstrom e i suoi Socialdemocratici perderanno le elezioni del prossimo anno.

”Quando parlo alle persone che abitano in quegli appartamenti, mi dicono di essere soddisfatti della propria condizione” dice la Billstrom. “E se rinunciassi ad uno dei fondamenti del nostro stato sociale, non svolgere la mia funzione”.

La signora Billstrom si è trasferita a Stoccolma dalla piccola cittadina settentrionale di Harnosand nel 1976. A quel tempo la città era una calamita di immigrati da altre zone della Svezia. Oggi attira ancora nuovi residenti, ma la maggior parte vengono dall’estero: gli immigrati rappresentano il 20% della popolazione della città.

Col numero di abitanti in crescita fra gli anni ’60 e ’70 Stoccolma – come ad esempio Parigi – costruì città satellite lontane dal centro. Ora combatte contro la segregazione.

”Nonostante un avanzato sistema di welfare, abbaimo problemi seri con la segregazione etnica” racconta Roger Andersson dell’Istituto di Ricerche Urbane e per l’Abitazione. Gli immigrati hanno difficoltà a trovar casa nelle aree centrali pià attraenti, dove le occasioni di affitto sono rare e costose (i prezzi dei condomini in centro sono aumentati del 20% lo scorso anno).

Per evitare il crearsi del tipo di situazione che ha infiammato Parigi nell’autunno, dice la Billstrom, c’è bisogno di una migliore istruzione e case a buon mercato. Nel lungo termine, si spera che la città possa integrarsi.

”È un problema serio” dice. “E ci vorrà tempo per risolverlo, forse 15-20 anni, ma credo si possa fare”.

La miscela della Billstrom, di socialismo scandinavo e centrismo orientato al mercato, rispecchia il percorso della sua vita dalla povertà al successo. La minore di sei figli, ha visto i genitori divorziare quando aveva solo tre mesi ed è stata cresciuta dalla sola madre, che lavorava come cameriera. Oggi la Billstrom, che ha svolto attività politica per la maggior parte della propria, vive in un ampio appartamento in una zona alla moda di Stoccolma, e indica il golf come sport preferito. È sposata a un uomo d’affari, Lennart Weiss, e ha un figlio di 21 anni, Alexander.

Anche se definisce il suo stile e filosofia politica “attenti soprattutto ai risultati”, sono evidenti le tracce di un giovanile radicalismo. Colloca la nascita della propria consapevolezza politica agli anni ’70, citando spesso il colpo di stato del 1973 il Cile come momento importante per la propria coscienza.

La sua filosofia composita, e forse il fatto di essere una donna decisa in una posizione tradizionalmente occupata da uomini, l’hanno resa un personaggio discusso, sia tra gli oppositori politici che all’interno del suo stesso partito. Non passa giorno senza che la stampa non riferisca di qualche voce di lotte fra i socialdemocratici riguardo al sindaco. Viene regolarmente attaccata nelle pagine dei commenti, definita “goffa”, “arrogante”, “provocatoria”.

La Billstrom – che appare pacata e intelligente – non cerca di stare sulla difensiva. Sostiene che i fatti parlano da soli, e troverà la sua rivincita il giorno delle elezioni in settembre.

”Voglio diventare un caso storico, rompendo questa tendenza al cambio delle maggioranze” dice. “La gente di Stoccolma capisce quanto abbiamo realizzato”.

Billstrom indica alcune iniziative molto diverse, come l’accesso a internet in banda larga nelle case comunali, le scuole di lingua svedese per gli immigrati più recenti, la migliore pulizia delle neve nei rigidi inverni di Stoccolma.

Ma si prevede che le elezioni saranno dominate da un plebiscito sulla tariffa da congestione del traffico, simile a quella imposta a Londra per ridurre il numero delle auto private circolanti sulle strade. L’esperimento – che qui si chiama “tariffe ambientali” – comincerà il 3 gennaio e continuerà sino a luglio. Gli abitanti di Stoccolma voteranno sul mantenere la tariffa in modo permanente in un referendum contemporaneo all’elezione del sindaco; e la maggior parte degli osservatori ritiene che questo la influenzerà.

Impopolarità della tariffa a parte – circa il 70% degli abitanti di Stoccolma sono contrari, secondo i sondaggi – la Billstrom durante l’ultima campagna aveva promesso che non la si sarebbe applicata. Ha rinnegato la sua promessa cedendo alle pressioni del partito a livello nazionale, che ha bisogno dell’appoggio dei Verdi per il nuovo governo.

Secondo qualcuno, la questione ha qualificato il sindaco come persona debole e poco affidabile.

”Credo che sia orribile quello che ha fatto con questa tassa” dice Eva Wolf, infermiera in pensione di 79 anni, su un marciapiede non lontano dalla casa della Billstrom. “Di solito voto i socialdemocratici, lei ha un bell’aspetto e parla bene: ma è una cosa semplicemente ingiusta”.

La Billstrom, che sembra un po’ provata dalle critiche, è stata evidentemente segnata dal suo turbolento mandato. Se il partito perderà il prossimo anno – uno scenario che dice di non voler nemmeno prendere in considerazione – non è certa di voler continuare la sua battaglia.

”Molti sono stupiti dal fatto che io non sia stata distrutta da quanto accaduto negli ultimi quattro anni” dice. “Ma non ho ancora deciso cosa farò se non dovessimo vincere”.

Poi la “sopravvissuta” – altro nomignolo che si è guadagnato sulla stampa – alza il mento, come ha l’abitudine di fare. “Comunque, per me c’è solo un obiettivo: vincere nel 2006”.

Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune; per i vari temi citati nell’articolo si veda tra l’altro sul mio sito in costruzione Eddyburg-MALL un esauriente documento degli anni ’60 sul sistema dei centri commerciali di Stoccolma nel quadro delle città satellite di iniziativa pubblica; per il processo di integrazione degli immigrati in Svezia e non solo, su Eddyburg si veda il saggio dell’economista Peter Elmlund sul loro ruolo nella rivitalizzazione urbana ripreso anche sull'ultimo numero della rivista Metronomie (f.b.)

Le periferie parigine sono in tumulto e Romano Prodi ha ammonito: le nostre non sono meno degradate. Forza Italia gli ha dato dell'incendiario. I sindaci gli hanno detto che no, le nostre sono diverse. Calderoli invece che sì, e bisogna cacciare gli immigrati. Pisanu non teme le periferie perché da noi il luogo del tumulto è la Val di Susa. L'opposizione ha obiettato «sì, ma». Adriano Sofri scrive arguzie sulle automobili. Ma Prodi ha ragione, variano soltanto le dimensioni, che non sono poca cosa. E' il grande agglomerato urbano che si è formato negli anni dell'espansione, alimentato dall'immigrazione interna ed esterna, che si separa in zone invalicabili, e più cresce più si separa per censo. La città europea è gerarchica. Attorno al nucleo dei signori si sono andati via via accumulando i poveri e i fragili. A Parigi il centro è dei signori e degli intellettuali che se lo possono permettere, oppure dei turisti, e resta governo, potere, cultura, arte, soldi. Lo circonda una grande fascia di gente assai per bene, come a Milano o a Roma, di quartieri borghesi che detestano i blocchi dormitorio che vengono per chilometri subito dopo, senza soluzione di continuità urbana, dove era una volta la cintura dei comuni rossi e fumavano le ciminiere delle grande aziende. Da essi si ritrae anche una quarta fascia di chi sarebbe disposto ad abitare luoghi più verdi, ma i comuni in cui arriva ancora qualche lembo di foresta si guardano bene dal costruire il venti per cento degli alloggi popolari che la legge prescrive (pena una multa di 150 euro) perché in questo caso la gente bene non ci verrebbe a stare. Quanto agli immigrati di ultimo arrivo non hanno quartiere, fanno gli squatter nelle case vecchie e disabitate dovunque siano, e succede come questa estate che vi muoiano per incendio nelle condoglianze di tutta la città. Questa la geografia di una capitale, ma non soltanto di Parigi.

E' la città tipica dell'Europa affluente, che oggi scricchiola. Il post industriale non ha bisogno di manodopera, i governi dismettono gli alloggi calmierati, e quelli che vi si trovano stentano a pagarsi gli affitti. Questa la geografia sociale che si può leggere nei blocchi ripetitivi di cemento, nella quantità di scuole che ci sono o non ci sono, degli insegnanti che ci vanno o non ci vanno, delle presenze o assenze di teatri, musei, locali, luoghi di cultura. Nella terza fascia il resto di Parigi non si inoltra mai. Chi vi era arrivato trenta o quaranta anni fa trovava lavoro e aveva qualche prospettiva, oggi i suoi rampolli non lo trovano, e non ne hanno nessuna. Sono nati in Francia, scolarizzati in Francia, parlano francese. Non frequentano né scuole né chiese né moschee, non amano una scuola che non gli promette nulla. Sono per le strade. In rottura con i genitori, che li rimproverano e con i quali il dialogo, ammesso che ci sia mai stato, è finito.

Sono in rottura con i simboli di quella ricchezza radiosa che li ammicca da tutte le parti, manifesti e tv, che gli è preclusa. Gli è venuta voglia di spaccarli tutti, non di spaccare tutto - sono dieci giorni che alcune periferie bruciano ma a nessuno viene in testa di prendere la Bastiglia. Sono indifferenti se quella che distruggono è l'auto o la motocicletta del vicino. Gareggiano, come l'età e il cinema vuole, fra quartiere e quartiere. Non hanno organizzazione, non è vero che siano infiltrati dalla criminalità della droga, più che non lo siano le periferie romana o milanese o torinese. Sono tagliati fuori dall'ascensore sociale, lo sanno e se lo sentono dire. Hanno cominciato con un solo slogan: «Rispetto, vogliamo rispetto». E quando il ministro degli interni li ha chiamati teppaglia è stato come versare benzina sul fuoco. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, il primo ministro è venuto alla tv e se occorre i prefetti decideranno il coprifuoco. Il primo ministro, diversamente da Sarkozy, ha balbettato di qualche causa sociale cui però nessuno è in grado di opporre facili rimedi. Vero, i rimedi sono i posti di lavoro che in questa fascia sociale mancano fino al cinquanta per cento dei richiedenti di quella età, mancano scuole qualificate, mancano case che non siano casermoni, manca una rete associativa e, soprattutto, manca la fine della discriminazione che si sentono addosso.

Non si fa in un giorno quel che si è reso precario per anni. Ma questa precarizzazione cresce un poco di più tutti i giorni. Chi se la sente di dire che, salvo le dimensioni, questo non succede anche a Milano, Roma o Bologna? Non è il modello di integrazione sociale francese che va a pezzi, vanno a pezzi tutti i modelli di crescita inseguiti da vent'anni a questa parte in Europa, e cari ai riformisti, una crescita a basso costo del lavoro, se non senza lavoro e a tagli vigorosi di welfare. Un terzo della popolazione ne viene tagliata fuori, emarginata. E oggi è sufficientemente acculturata da non sopportarlo. E sufficientemente scettica davanti allo spettacolo della politica da non vedere via d'uscita. Questo è il modello che anche i nostri riformisti ci propongono, e che in tempi di stagnazione, se non di recessione, diventa una tagliola crudele. Perché le istituzioni se ne accorgano ci vogliono le fiamme e i morti. E quando se ne accorgono altro non sanno fare che mandare i carabinieri e affollare le galere. Non succede anche da noi?

Ha ragione il critico William J.R. Curtis a dire che quando sarà scritta la «verità storica» sullo sviluppo dell'architettura della fine del ventesimo secolo, Raj Rewal prenderà il posto che si merita. L'architettura moderna, infatti, ha «radici indiane» e Raj Rewal è di sicuro tra i suoi massimi e originali interpreti. Ne è una dimostrazione la mostra dei suoi progetti in corso a Parma fino al 25 settembre, allestita nei meravigliosi spazi del Teatro Farnese in occasione del Festival dell'Architettura, e curata con passione da Claudio Pavesi. Nato in Punjab nel 1934, Rewal ha studiato a Delhi e a Londra, e ha poi trascorso qualche anno a Parigi nello studio di Michel Ecochard. Di ritorno in India nel 1963, oltre a partecipare e a vincere numerosi concorsi di architettura per edifici pubblici e privati, ha insegnato fino al 1972 Teoria del progetto e Storia dell'architettura indiana a Delhi, presso la locale Scuola di urbanistica e architettura. La sua opera architettonica si concentra per lo più a Nuova Dehli e i suoi esordi rientrano nell'ambito dell'edilizia residenziale: nel corso degli anni firma fra l'altro gli alloggi per il personale di servizio dell'Ambasciata di Francia (1967-69), il complesso di alloggi Sheikh Sarai (1970-82), il complesso di alloggi Zakir Hussain (1979-84).

Raj Rewal sperimenta e realizza una edilizia compatta, ad alta densità, dai forti connotati morfologici, memore delle problematiche del Team Ten e dei «reticoli urbani» di Candilis, Josic e Woods per Tolosa e Berlino. La «trasparenza labirintica» di quei modelli urbani, l'architetto indiano l'ha conosciuta durante il suo soggiorno in occidente, ma è la stessa che egli ritrova in India nelle città di Jaisalmer e Fatehpur Sikri caratterizzate da un ordito orizzontale che - come ha scritto Daniel Treiber - sembra echeggiare i modelli insediativi di Van Eyck e di Hertzberger. Per Rewal è semplice comprendere le profonde ragioni che accomunano le antiche testimonianze indiane e i progetti urbani del Team Ten: entrambi ricercano uno spazio collettivo vivibile, attento alle relazioni tra i residenti, con una identità estetica e funzionale che siano espressione di valori sociali condivisi.

A Nuova Delhi, sia nel villaggio olimpico per i Giochi Asiatici (1980-82) sia negli alloggi per l'Istituto nazionale d'immunologia (1983-85), Rewal chiarisce con precisione la sua idea di architettura fondata sul rispetto della tradizione e dell'ambiente. La sua «architettura climatica», con poche eccezioni, non è mai un oggetto isolato e autoreferente, ma un organismo complesso regolato da una maglia strutturale all'interno della quale si articolano le unità abitative e gli spazi all'aperto: una architettura che si ammira per le sue qualità morfologiche e il suo carattere polifunzionale e per il modo in cui si integra al paesaggio, autentico «guscio-contenitore di umanità».

Nella Biblioteca del Parlamento (1993-2000) Rewal si è confrontato con maggiore decisione con l'architettura coloniale, ma anche in questo caso ha preferito compiere un gesto antidogmatico, al tempo stesso simbolico e del tutto originale. Lo sconosciuto architetto di Fatehpur Sikri gli ha insegnato che per raggiungere Dio ci sono molti modi, e che di conseguenza non bisogna mai restare bloccati a ripetere sempre la stessa soluzione ma ricercarne sempre di diverse.

Abbiamo incontrato Rewal durante il suo breve soggiorno a Parma e con lui abbiamo cercato di comprendere meglio la sua architettura in relazione con quella indiana, tradizionale e contemporanea.

Lei appartiene alla terza generazione degli architetti modernisti indiani. Giovanissimo, ha conosciuto l'eclisse dell'impero coloniale britannico e ha partecipato alle recenti evoluzioni della storia dell'architettura occidentale. Può spiegarci quale è stata la sua formazione di architetto e quali sono i suoi riferimenti culturali?

Come molti architetti della mia generazione, ho appreso che il primo principio della buona architettura è un onesto edificio funzionale, dove i principi costruttivi sono osservati e i materiali vengono espressi francamente. Grazie alle mie osservazioni sull'architettura indiana tradizionale, ho imparato a tenere conto di altri attributi, come i valori umani e le situazioni climatiche. La mia terza scoperta è stata l'espressione architettonica: la Cappella di Ronchamp di Le Corbusier ha certamente incrinato il principio della sincerità funzionale nell'edificio, ma ha introdotto un elemento poetico o - per usare un termine sanscrito - il gusto spirituale « rasa». La corretta espressione per le differenti tipologie di edifici è per me un principio importante, ma rimango fedele agli ideali di una architettura onesta e umana.

Cosa è stata secondo lei l'architettura indiana dopo l'Indipendenza e quali sono le sue relazioni con l'architettura coloniale e lo storicismo, ad esempio, con opere come quella di Lutyens a Delhi?

Sono cresciuto a Nuova Delhi che era stata disegnata come una città-giardino da Lutyens. L'aspetto imperiale della città aveva trasformato il tessuto democratico dell'India. La casa del vicerè britannico viene ora usata come sede del presidente indiano, e la sua sala delle cerimonie è utilizzata per le funzioni democratiche. La biblioteca principale che ho costruito è separata rispetto al complesso di Lutyens, perché rappresenta una estensione dell'edificio del Parlamento. Per me si trattava di una sfida: come elaborare un progetto che tenesse conto della vicinanza con il contesto coloniale, ma affermasse allo stesso tempo i valori democratici indiani? La funzione centrale della Biblioteca del Parlamento è di essere una «casa della conoscenza», simbolicamente un luogo di illuminazione. Poiché ci eravamo prefissi lo scopo di individuare una espressione architettonica di basso tono che esprimesse prudenza e eleganza spirituale, senza cercare di competere con la potenza del Parlamento, il progetto ha quindi concepito un edificio interno che riflettesse la specifica scelta per uno spazio recintato e subalterno, piuttosto che le forme della magnificenza coloniale-imperialistica. Mettendo a confronto la proposta della biblioteca con il Parlamento già esistente, può emergere in certo senso una analogia con la relazione che intercorre tra un guru e il re. In entrambi gli edifici, visivamente e simbolicamente, la sala centrale del Parlamento (che connota il potere dei popoli, il consenso e la democrazia) è unita con la parte centrale del nuovo complesso - emblema di conoscenza - su un asse centrale, attraverso una sequenza di spazi che culminano in un auditorium per 1100 persone. Abbiamo così concepito dentro la tradizione indiana una struttura formale, costruita però con un idioma contemporaneo, allo scopo di catturare l'essenza senza imitare gli stili storici del passato.

A proposito ancora della Biblioteca del Parlamento di Nuova Dehli, Krishna Menon, ha scritto che l'edificio dimostra che si può risolvere il perenne problema di «come è possibile scovare le proprie radici ed essere ancora moderni».

Rispetto alla Biblioteca del Parlamento, le soluzioni progettuali richiedevano che si tenesse conto di alcune importanti considerazioni. In primo luogo, l'edificio era stato costruito in quello che è forse il più importante sito dell'India, le cui ragioni storiche, culturali e urbane non potevano essere ignorate. Il mio obiettivo dunque era di disegnare un edificio che risuonasse con quella idea di istruzione che avevo percepito nelle tradizionali costruzioni buddiste e nei templi jain, ma di costruire con la tecnologia dei nostri tempi. Ho quindi ricercato il rispetto delle dimensioni degli edifici circostanti e ho costruito in armonia con il contesto.

È possibile parlare di una «architettura indiana», con una identità legata alla sua realtà politica di nazione, in presenza di un paese così vasto, che presenta una notevole varietà tra nord e sud, est ed ovest? E potrebbe chiarirci che cosa sia la «identità indiana» in architettura, ammesso che essa esista, e se siano individuabili i suoi principi generali?

L'immensa varietà dell'architettura tradizionale indiana può essere compresa sotto vari aspetti. Le storie dell'architettura l'hanno divisa in periodi: hindu, buddista, islamica e coloniale. Ma nell'architettura indiana alla base di monumenti, complessi civici e edifici vernacolari, esiste anche una secolare tendenza che spesso è stata ignorata nella letteratura, e i cui temi ricorrono in varie fasi dello sviluppo, emergendo nelle forme della contemporaneità. Gli architetti possono quindi guardare al passato per trarre ispirazione, oppure al contrario possono provare essi stessi a contraddire gli antichi modelli. Il metodo del costruire, le condizioni sociali e il clima hanno determinato l'evolversi dell'architettura indiana. E se le tecniche, così come le modalità della vita quotidiana, stanno fortunatamente cambiando, il fattore climatico rimane invece costante. Gli elementi tradizionali del progetto basati sul caldo clima indiano hanno quindi da sempre una forte rilevanza nei caratteri del nostro lavoro. Uno dei miei primi edifici era un complesso per una esposizione permanente di una fiera campionaria, costruito nel 1972 a Nuova Delhi. Lo spazio formato dal sistema strutturale segue le prescrizioni principali dell'architettura moderna per la copertura di ampie sale e la sua costruzione si adattava all'intenso lavoro dell'industria indiana. La pianta è composta di una vasta sala collegata a quattro sale più piccole con rampe intermedie, e include una corte centrale per mostre all'aperto e meeting. Come nei modelli della tradizione indiana degli spazi pubblici, la corte emerge come il punto focale dello schema. La sua geometria spaziale rimanda alla struttura mughal della tomba di Humayun. Personalmente fui sorpreso di aver ripreso, senza neanche rendermene conto, quel particolare riferimento. Ma compresi che le strutture formali indiane di tutti i periodi avevano una certa affinità secondo la disposizione degli spazi o la modulazione dei recinti. In dettaglio, il sistema strutturale del complesso espositivo era impiegato per rifrangere il sole e ideato nei termini della tradizione indiana jali, un modello geometrico di fori che compongono un elemento principale sulla facciata che serve a ostruire i raggi diretti del sole permettendo all'aria di circolare.

Tra la modernizzazione del vernacolare e la monumentalità del moderno - penso ai casi esemplari degli edifici di le Corbusier a Chandigarh e di Kahn a Dhaka - la sua architettura appartiene insieme a quella di Charles Correa a quel «postmodernismo indigeno», come è stato definito, che evoca la tradizione senza rinunciare alla lezione dei maestri dell'architettura occidentale. Cosa significa - e come si esprime nella sua opera architettonica - la modernità a confronto con la storia millenaria dell'India?

Noi abbiamo appreso da Le Corbusier e Kahn l'importante lezione che l'architettura moderna è in grado di esprimere profonde emozioni. Io non so se sia possibile definire la mia architettura come «postmoderna». Spero di avere evitato gli sterili aspetti del modernismo, così come il cliché di imitare il manierismo storico del passato, tipico di certi postmodernisti. Non credo che si possano trasferire i motivi architettonici dal passato negli edifici di oggi, ma sono convinto che l'architettura tradizionale possa darci delle importanti lezioni. Nel campo delle considerazioni climatiche, le città del Rajasthan e le città storiche italiane, con la loro tradizionale morfologia, hanno insegnato moltissimo per la loro bassa altezza e lo sviluppo ad alta densità delle abitazioni, e questo fattore ha direttamente influenzato il mio progetto di cinquecento unità di abitazioni a Nuova Dehli per il Villaggio dei Giochi Asiatici. Viene qui rigettato lo sterile modello istituzionale di abitazioni promosso dagli ingegneri dipartimentali per i lavori pubblici, basato su una infinita ripetizione di uno schema. Al contrario, è stato fatto un tentativo per creare norme urbane da una rete di strade pedonali e piazze. Una strada tangente il complesso consente l'accesso veicolare da due parcheggi terminali, circondati da sentieri pedonali che si collegano ai garage delle abitazioni. Il Villaggio dei Giochi Asiatici reinterpreta molti degli elementi salienti del design vernacolare che ha resistito alla prova del tempo.

Lo scorso anno, al Forum delle Culture di Barcellona lei ha usato parole molto critiche sulla «città verticale» e ha criticato il modello di crescita urbana che si sta sviluppando in Asia, in particolare modo in Cina. Contro la proliferazione dei grattacieli delle mega città di Shangai, Hong Kong e Beijing lei è il più strenuo difensore degli edifici a «scala umana». Ci può spiegare nel dettaglio come immagina la crescita delle città indiane e quali sono i suoi riferimenti teorici e gli esempi già realizzati che considera più interessanti?

Mi rendo conto che le «città verticali» sono inevitabili nelle zone-isola come Manhattan a New York o nelle città-stato come Singapore dove sono richieste eccezionalmente altissime densità abitative. Ma non vedo alcuna logica nella crescita verso l'alto di edifici destinati ad abitazioni in molte città asiatiche. In nome della globalizzazione povere copie dei luccicanti grattacieli made in Usa sono stati imposti a grandi città come Dubai, Beijing o Gurgaon, dove in realtà non hanno alcuna pertinenza né dal punto di vista climatico né da quello culturale. In tutti questi luoghi le forme sembrano seguire la finanza piuttosto che la funzione: ora, è inevitabile che il senso comune veda gli immobiliaristi perseguire la ricchezza, ma ciò non dovrebbe accadere a scapito dei valori umani. La mia opinione è che la bassa altezza e l'alta densità delle abitazioni è la soluzione umana. I nostri progetti per il Villaggio dei Giochi Asiatici o l'Istituto Nazionale di Immunologia sono due possibili esempi. Infatti, la scala delle città potrebbe derivare dai principi di sostenibilità e dagli armoniosi valori del vicinato.

Dai suoi interessi per l'espressione delle strutture deriva quello per lo sviluppo di tipologie e tecnologie per la costruzione di edifici a basso costo per i più poveri. Qual è la situazione in questo momento nel suo paese e a Dehli dove l'attività di Sharma e dell'agenzia Hudco (Housing and Urban Development Corporation) negli anni Ottanta è stata un'esperienza molto importante?

In India noi siamo fortunati a lavorare sotto l'ombrello dell'Hudco e altre organizzazioni pubbliche per progetti di abitazioni a basso costo. Il mio lavoro nel Nuovo Mumbai (Bombay) per abitazioni per poveri è stato un esempio interessante. Invece di costruire larghi blocchi monolitici paralleli di tetre dimensioni, noi abbiamo optato per specie differenti di modelli insediativi. È il caso del progetto per un vasto numero di unità residenziali, frammentato all'interno da più piccole aggregazioni che racchiudono una varietà di spazi e che possono essere congiuntamente ordinate sul versante di una collinetta e disposte insieme con sentieri pedonali. Ma modulando e cambiando le formazioni dei gruppi basati sullo spazio standard, si possono ottenere differenti unità residenziali. A causa del costo dovuto, non è possibile aumentare lo spazio standard per l'abitazione sociale, ma sicuramente un vocabolario di soluzioni progettuali può essere elaborato per gli spazi esterni, al tempo stesso privati e pubblici. Le città del Rajasthan e i villaggi mediterranei forniscono importanti lezioni in questo senso per lo sviluppo ad alta densità. Studi di modelli tradizionali di convivenza forniscono spunti per luoghi che possono promuovere attività collettive, come gli spazi di riunione per gli adulti o le aree per il gioco dei bambini. Il nostro scopo era creare piacevoli recinti di vicinato per la socializzazione e la ricreazione: l'ambiente in casi del genere incoraggia l'amicizia tra le persone di diverse esperienze.

Allora voi qui siete socialisti? Il vicesindaco Erik Sten, 37 anni, allenta il nodo della cravatta. Si vede che deve far spazio a una risposta che aveva in canna da molto tempo: “Be’, qualcuno dovrà esserlo”. I Bush non hanno mai messo piede a Portland, è come se Berlusconi andasse a Livorno. Nella “repubblica cristiana d’America” dell’era teocon questa è certo la città del Diavolo. Èinvece il paradiso in terra e la mecca laica per l’altra metà degli americani: “ Portland, la città perfetta” ha titolato recentemente il New York Times, per citare solo uno dei grandi giornali che negli ultimi mesi hanno raccontato il fenomeno della piccola - circa 600 mila abitanti -metropoli ribelle del Nord West, nell’Oregon, la nuova frontiera dello spirito “ radical” (ma non chic, perché anche il bostoniano Kerry, che qui l’anno scorso prese l’80 per cento dei voti, “non diventerebbe neanche assessore” garantisce Sten).

Tanto per cominciare, diversamente dal resto degli Stati Uniti, “pubblico” non è una parolaccia a Portland. Anzi, è la parola chiave per scoprire il segreto della sua diversità, e la pronunciano tutti quasi con ostentazione, così che sembra l’ultima trovata tecnologica, una cosa appena scoperta, moderna e rivoluzionaria.

Il 90 per cento dei bambini frequenta la scuola pubblica

Un mese fa, a dichiarazione dei redditi già presentata, il 70 per cento della popolazione ha votato sì a un referendum comunale che chiedeva un aiutino extra per sanare il bilancio delle Superiori pubbliche. Il comune, senza incontrare ostacoli, ha piazzato 900 case popolari nel Pearl District, ex quartiere operaio oggi sofisticato centro artistico e professionale di Portland: “Non siamo contro il privato, ma ci piace di più se c’ è anche una buona dose di pubblico” spiega Sten “il rosso”. Per gli homeless (quelli che qui arrivano in abbondanza, triturati dal liberismo) i servizi sociali hanno costruito fuori porta un villaggio tutto per loro: Dignity Village si chiama, basta rubare una volta per tornare sotto i ponti. Ma è sul fronte energia che Portland fa notizia. Ricordate Enron, il colosso dello scandalo? Ecco: era il maggiore fornitore d’energia in città, ma il comune ha comprato le centrali spendendo un’iradiddio, perche Portland sta diventando il laboratorio ambientale d’America, si gioca tutto sul verde.

Un incubo per Bush: questi rompiscatole hanno avuto il coraggio, unici negli Usa, di applicare gli accordi di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. I dati sono usciti proprio mentre eravamo lì: dal 1993 il livello di emissioni pro capite è diminuito del 13 per cento. “Kyoto avrebbe distrutto la nostra economia” dice Bush. E a Portland rispondono: “Kyoto ci ha resi più ricchi e più sani”. E giù con l’elenco: meno tasse per tutti spese in energia, trasporto pubblico (soprattutto tram) così efficiente ed economico che in quattro anni il traffico è calato del 25 per cento, mille chilometri di piste ciclabili, una generazione di “cervelli verdi” richiesti in tutto il mondo e che è volano per l’eco-economia locale: hanno addirittura inventato lampadine per semafori che consumano l’80 per cento in meno di elettricità e fanno risparmiare un milione di dollari l’anno. “Un successo che va controllato” dice Ken Rost, 32 anni, manager pubblico che ha rinunciato a un megastipendio della portlandese Nike: “C’è la corsa a venire a vivere qui, soprattutto dopo la guerra in Iraq e la rielezione di Bush. E diversamente dalle altre città qui tutti vogliono abitare in centro; i prezzi aumentano e dobbiamo difendere il tessuto comunitario, evitare divari tra ricchi e poveri, continuare a essere l’anti corporated city”.

E il privato? La forza diabolica di Portland (chi legge Chuck Palahniuk, il vate dell’America “altra”, già lo sa) è soprattutto nell’arte di vivere controcorrente. Nelle storie, per esempio, di gente come Naomi e Michael Hebberoy. Sono chef, “chef anarchici”. Se gli chiedi quanti anni hanno rispondono “non abbastanza per ricordarci l’amministrazione Reagan”. Li hanno giudicati tra i dieci più influenti ristoratori d’America. Sei anni fa erano una coppia disoccupata: “Sapevamo solo fare buon sesso. E buoni piatti dopo il sesso”. Concepirono un piano: costruirono un grande tavolo e invitarono a casa trenta amici, il prezzo: una sedia. La volta successiva gli amici degli amici dovevano portare una bottiglia e lasciare cinque dollari. Da quel ristorante clandestino è nato Family Supper, il primo locale per sole famiglie degli Usa. Lì c’è ancora lo stesso tavolo. Ora gli Hebberoy gestiscono tre ristoranti, hanno cento dipendenti e un fatturato annuo di sette milioni di dollari. Eppure Michael sta per pubblicare un libro intitolato Kill the restaurant: “Voglio creare una rete nazionale di ristoranti illegali, underground. Mangiare bene deve essere un diritto per tutti”. Micidiale: ha rifiutato la prenotazione di 15 executive della Monsanto, quella che ha il monopolio mondiale delle coltivazioni Ogm. “Non voglio il nemico in casa” gli ha detto.

Portland è una città slow food. L’85 per cento dei ristoranti acquista prodotti biologici dai contadini della regione. “Qui è difficile trovare i pomodori in dicembre” dice Haward Silverman del centro Ecotrust, nato per difendere le risorse locali: “Prendi il salmone. Con la nostra politica quello non coltivato costa un terzo meno di quello d’allevamento”. Un mondo a parte che richiama sul Pacifico carovane di “pionieri dell’anima” come li definisce Palahniuk, il più famoso tra tanti scrittori adottati dalla città americana che legge di più, tanto che vanta il più grande negozio di libri usati del mondo, Powell’s Books, 15 mila metri quadrati, un intero isolato. “Siamo tutti resistenti, profughi e fuggiaschi” dice il regista Gus van Sant, che come Todd Haynes ha lasciato Los Angeles per venire qui. Viaggi “one way” come quello di Jeffrey Kovel, 32 anni, l’architetto del “costruire sostenibile” più corteggiato degli Usa che ha lasciato New York “perché la noia mi uccideva. Qui - racconta - ho trovato il Rinascimento”.

Ogni ultimo venerdì del mese nel Pearl District banche, poste, fruttivendoli, boutique diventano gallerie d’arte. I nuovi cercatori d’oro sono però soprattutto musicisti in cerca d’ispirazione più che di gloria. Portland è diventata l’ultimo avamposto delle band. C’è chi sfonda come I Pink Martini e ci sono i musicisti sconosciuti della scuderia di John Askew, il più noto dell’etichetta Film-Guerriero, cooperativa che pubblica solo cd di nicchia: “La vita costa poco, nessuno parla mai di soldi e di religione, ci sono duecento locali, comprese le panetterie, dove puoi suonare e poi, se ti viene un cancro, puoi suicidarti in santa pace” dice Askew, riferendosi all’ultima conquista della secolare Portland, l’assisted suicide, legge che permette ai malati terminali di ingoiare una manciata di barbiturici prescritti dal medico. Pare che la Corte Suprema si prepari ad abolirla, come è accaduto per altre leggi progressiste votate nella città del Diavolo. “Non accettiamo il conformismo, fino alla fine” dice Susan Tolle, direttrice del Centro per l’Etica e la Salute. “Siamo diversi. Per tanti americani la morte è una sconfitta. Per noi può essere una conquista. Ma siamo un’isola in un mare d’ipocrisia”.

Nota: qui su Eddyburg molti articoli trattano le politiche urbanistiche e ambientali a Portland, come quello sul Piano 2040; altri testi che contengono riferimenti alla città si possono trovare semplicemente utilizzando il “cerca” del sito con la parola chiave Portland (f.b.)

Difficile trattenere la rabbia. Ma forse il modo più coerente per sostenere la straordinaria popolazione della Valle Susa è non farsi spezzare il filo del ragionamento, riuscire ad essere più tenaci dei manganelli; non smettere di argomentare, avere fede nel convincimento.

E se la violenza repressiva del Governo delle destre lesiona i corpi, spezza gli arti, produce dolore fisico (altra forza non conoscono), una sofferenza non meno amara produce l’incomprensione di tanta parte dei rappresentati del centrosinistra, che propugnano una urbanistica e un ambientalismo contrattato, una sorta di compromesso tra le ragioni del vivere e quelle del mercato.

Chiamparino, Bresso, persino Ciampi… che pure sono persone studiate e intelligenti, non riescono a comprendere la novità dei conflitti territoriali di “nuova generazione”che stanno impegnando intere comunità di abitanti in vertenze territoriali di straordinaria radicalità.

Valle di Susa è l’ultimo e più drammatico, ma evidentemente non hanno prestato sufficiente attenzione ai premonitori Scanzano, Acerra, Civitavecchia, Marghera e molti altri che non hanno avuto nemmeno il sostegno delle cronache. Ciò perché non solo le destre, ma anche la cultura tradizionale della sinistra sono così stregate dall’idolatria della crescita, dello sviluppo, del progresso tecnologico, da dimenticare di porsi la più semplice delle domande: "Perchè lo si fa, a quale scopo, a favore di cosa, a discapito di chi altri?". Siamo in un mondo - diceva Rossana Rossanda in Appunti di fine secolo - in cui la febbre del fare strumentale soffoca l’essere.

Insomma, abbiamo perso il senso, il significato, la ragione finale del nostro agire produttivo. Siamo immersi in un mondo che dà per scontato che il bene coincida con la quantità di denari che si riescono ad investire, con la quantità di metricubi che si riescono a costruire, con la quantità di merci che si riescono a produrre, con la velocità con cui le materie prime si trasformano in merci e le merci in rifiuti. Se metti in dubbio questi assiomi ti prendono per pazzo: "Come? Non vuoi che le merci corrano più veloci? che le fabbriche costruiscano più vagoni? che gli ingegneri progettino sistemi sempre più evoluti? Ma allora sei contro il progresso!".

La loro logica è totalizzante, impenetrabile, un “pensiero unico” ossessivamente ripetuto: l’occupazione, il salario, la ricchezza, il benessere… la felicità, in definitiva, dipendono dai capitali investiti e messi a valore in produzione. Il presidente della Patria declama: "Non possiamo essere tagliati fuori dall’Europa". Ma in realtà pensa che non si può rinunciare ad un investimento europeo così grande. Il professor Prodi titola: “Sviluppo o declino” e alle nostre orecchie suona come una minaccia.

Da professoressa di Ecologia ambientale Bresso, spiega: "I treni sono meglio dei Tir". In realtà pensa che la logistica sia il settore strategico per il futuro dell’economia. Come si fa a rifiutare questo ben di Dio? Retrogradi ed egoisti!

Premesso che la prospettiva di vivere in un “corridoio”, per quanto numerato “5” e dalle origini e destinazioni affascinati (Barcellona-Kiev), non può attrarre nessuna persona di buon senso; superato ciò che non si può superare, cioè l’irreversibilità di alcuni impatti ambientali; fingendo di non sentire le bugie francesi secondo cui i Tir viaggerebbero ad Alta velocità; messe da parte le incongruenze progettuali e le alternative mai comparate (Valutazione strategica del progetto) … rimane la questione di fondo: è proprio vero che far transitare più merci e più passeggeri lungo la Pianura padana comporti qualche beneficio ai suoi legittimi abitanti?

Oppure, più crudemente, ci viene chiesto di immolare un ulteriore pezzo della nostra terra e della nostra vita al dio della crescita, del progresso e della redditività dei capitali delle banche europee?

Vista dal satellite la Pianura padana ha l’aspetto di una megalopoli “senza forma e senza sentimento”, una non-città maleodorante, un fenomeno cancrenoso cui insiste permanentemente una nube brunastra di gas tossici, densa solo quanto quella stazionante su Bombay. Vista da dentro la città diffusa padana è un’“ampia poltiglia” di cemento e asfalto a servizio delle più casuali, bizzarre, inquinanti iniziative economiche dove è sempre più difficile muoversi, respirare, vivere.

E’ questo lo sviluppo “effettivamente esistente” che gli abitanti in carne e ossa conoscono. Ed è questo il “modello” che la Tav è destinata a servire e ad incrementare. Non c’è, quindi, nulla da stupirsi se qualche comunità locale non ancora disintegrata nelle sue relazioni umane dall’avanzare della città capitalistica diffusa abbia deciso di opporre un rifiuto (rifiuti analoghi li hanno posti gli svizzeri, gli austriaci, gli sloveni). Se ciò avviene non è per merito dell’ecomarxismo e nemmeno dell’anarcolocalismo. Avviene semplicemente perché la saturazione è un fenomeno naturale conosciuto sia in fisica (ancorché ignorato dagli economisti) che in sociologia (ancorché contrastato con i manganelli della polizia).

In altri termini, molte persone hanno preso coscienza dei propri luoghi e non credono più alla bugia della diffusione del benessere per trickle down effect. Per “sgocciolamento” o per “percolazione” sul territorio arrivano solo i reflui inquinati delle grandi opere.

7 dicembre 2005

Gli abitanti della Val Susa che si oppongono alla costruzione del mega tunnel per l´alta velocità ferroviaria hanno ragione sia in linea teorica che pratica ma temiamo che saranno sconfitti perché le follie e le illusioni dello sviluppo sono irresistibili. Da Rutelli a Fassino la sinistra che dovrebbe difendere gli uomini dalla rincorsa cieca e autolesionista allo sviluppo dissennato, ha già alzato bandiera bianca. Il governo della ragione può aspettare, quello dei sogni e delle illusioni disastrose deve continuare. Che il mito dell´alta velocità si risolva in pratica nel suo contrario se ignora la ragione e segue solo gli interessi di chi ci guadagna sopra, è sotto gli occhi di tutti: nelle grandi città traffico e trasporti sono più lenti oggi che un secolo fa, si passa più tempo nelle code automobilistiche che quando si andava a piedi o in carrozza. Gli abitanti della valle di Susa marciano con bandiere e cartelli per dire no all´alta velocità ferroviaria che per cominciare rovinerebbe la qualità della vita nella valle per almeno quindici anni, lavori in corso con frastuoni, inquinamenti, avvelenamenti. Ma temiamo che dovranno cedere, rassegnarsi, l´opinione pubblica vincente è quella che applaude il Celentano, che celebra il rock scattante, veloce contro il retrogrado lento. È tornato il futurismo, compagno di strada del fascismo.

Ha scritto Hanna Arendt: «Sembra che fra le principali caratteristiche di questo tempo ci sia la mancanza di pensiero. Quello che io propongo è molto semplice, niente di più che pensare a quello che facciamo».

Ma chi ti lascia il tempo per pensare, come puoi pensare se la regola di vita dominante nel capitalismo come nel comunismo è quella di fare ciò che vogliono le élites al potere? La pianura padana da Torino a Novara è stata squarciata, devastata, cementata dalla linea ferroviaria dell´alta velocità.

Non l´abbiamo pensata perché le aziende delle costruzioni e del cemento non avevano alcun interesse a discuterne con gli italiani, e ora in moltissimi siamo di fronte al fatto compiuto, la linea ad alta velocità è quasi pronta.

Per risparmiare un quarto d´ora di viaggio si è piantata nella più fertile e bella pianura d´Italia una gigantesca linea Maginot. La più indecente delle speculazioni, milioni di metri cubi di cemento per sovrappassi faraonici, viadotti giganteschi che si torcono, si intrecciano fra cielo e terra senza alcuna utilità come serpenti creati dall´uomo per soffocare la sua specie maledetta, cacciata dall´Eden. Il ministro della devastazione Lunardi ha già percorso la linea su un treno speciale che fra Torino e Novara ci ha messo dieci minuti in meno. Ci sono dei retrogradi che si chiedono se non sarebbe meglio per i cittadini metterci dieci minuti in più ma in carrozze più comode e senza le cimici e magari avere una rete più sicura, ponti che non cadono ad ogni alluvione, treni riscaldati per gli operai, vetture letti e ristoranti decenti.

L´alta velocità della Val Susa, i cinquantadue chilometri in galleria che ne cambieranno gli equilibri hanno il consenso di tutti i rock italiani.

Mussolini queste cose le aveva capite da bravo populista, offrì agli italiani il primato aereo di velocità di un prototipo e poi mandò migliaia di aviatori alla morte su aerei vecchi e mal costruiti. Imitato oggi dai berlusconiani delle grandi opere che scavano una galleria di settanta chilometri sotto gli Appennini da Modena a Firenze per guadagnare venti minuti ma non hanno speso una lira per dare acqua alle regioni assetate del sud. E naturalmente si sono messi sotto accusa per aiutare il finto progresso i politici «lenti», come Sergio Vallero, presidente del Consiglio provinciale di Torino o i sindaci di Condovea e di Chianocco perseguiti per «resistenza a pubblico ufficiale e blocco stradale». Ma non sono di buon senso le cose dette da Sergio Vallero, «Ci hanno messo di fronte a uno scontro istituzionale nocivo mentre noi abbiamo sempre cercato il dialogo e la mediazione»? Bisogna stare attenti con il decisionismo berlusconiano in una valle come quella di Susa delle poche in Piemonte ad essere una valle «urbana», non una società montanara addormentata nella tradizione ma industrializzata, passata per le lotte operaie e per la resistenza che ha conosciuto anche il movimentismo feroce di Prima linea. Non abbiamo alcun rimpianto per i disperati alla Sergio Segio o alla Fabrizio Giai che si autonominarono avanguardia degli sfruttati e seminarono morte nella valle come nei sobborghi torinesi ma un consiglio alla prudenza ci sembra opportuno, la resistenza degli abitanti della Val Susa va affrontata con sapienza politica, con rispetto degli altri, di quelli che per i decisionisti non contano. C´è sempre un ceto di proprietari che pensa in grande alle spalle degli altri, che fa sacrificare gli altri per le sorti progressive dell´umanità, che in pratica sono quasi sempre le sorti progressive del loro potere e dei loro redditi. Forse è arrivata l´ora che il decisionismo assuma la sua responsabilità e fronteggi i suoi rischi. Le rivolte delle periferie parigine come, in piccolo, la resistenza della Val Susa all´alta velocità, dicono che bisogna anche occuparsi del consenso. Ma il buon senso conta nella storia umana?

Titolo originale: Give these people an inch and they take a city – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Provate a camminare verso ovest sul lungomare di Brighton. Lasciate perdere l’orrore del centro congressi. Ignorate la triste carcassa del Molo Occidentale in rovina. Ignorate anche tutti i detriti di mezzo secolo di urbanistica fallimentare.

Al vecchio confine di Hove l’umore migliora. L’ordine regna nella solida Brunswick Terrace. Brunswick Square è un’ondata di stucchi travolgente, una delle piazze più nobili d’Inghiliterra. Adelaide Crescent è un crescendo di architetture e spazi verdi che supera qualunque altra cosa a Bath. Hove, sul mare, per usare le parole di Betjeman è una delle poche città inglesi che si possono tranquillamente chiamare “lei”. È bellissima.

Ora, alzate gli occhi verso ovest, ancora, e immaginatevi due grossi “Prescott” che vi colpiscono in faccia (un Prescott è una torre situata ovunque, che piaccia al vicepresidente del consiglio, come quelle da cinquanta piani che ha appena approvato a Vauxhall sul Tamigi). Le due torri di Hove, una di 25 piani, sono intese a coronamento di un piano da 250 milioni di sterline per il lungomare. Il leader del consiglio municipale di Brighton e Hove, Ken Bodfish, sostiene che le torri faranno di Hove “la città di questo secolo”. Presumo che sia questo, quello che vogliono i cittadini, anche se mi suona nuova.

E sin qui la cosa sarebbe ancora di interesse locale. Ma qui non si tratta di edifici normali. Il loro vero senso, sta nell’essere progettati da un architetto davvero ispirato, il canadese Frank Gehry. Avere un edificio di Gehry in qualunque località d’Inghilterra sarebbe un onore (abbiamo solo la sua piccola clinica Maggie’s Centre in Scozia). Ha anche chiesto la collaborazione dello scultore Antony Gormley. Riconosce anche un contributo dal suo “apprendista”, l’attore con la passione dell’architettura Brad Pitt. Da qui la battuta locale che chiama già gli edifici “i Pitt”.

Sarei disposto a dare molto per un progetto di Gehry. Avrei sacrificato la centrale elettrica sulla riva alla Tate Modern per il suo Guggenheim di Bilbao, che a dire il vero costa di meno. Sacrificherei certamente la desolazione cementizia della South Bank per la sua Disney Hall di Los Angeles. Il suo uso esotico delle forme, colori e materiali può essere entusiasmante, e grazie al cielo odia le grandi superfici a vetro. Di sicuro Brighton meritebbe un progetto di Gehry.

Questo, però, non vuol dire qualunque progetto di Gehry, messo in qualunque posto. Un edificio è arte, nel contesto più pubblico possibile. Un piccolo edificio si rivolge ad una strada. Una torre si rivolge a tutta la città. Ciascun cittadino ha diritto ad esprimere un punto di vista sulla sua realizzazione o meno, o dove debba essere costruita. La gran parte del lavoro di Gehry è costituita da un sofisticato intreccio di piani, spesso influenzato da tematiche marine. Possono essere ispiratori, divertenti, acuti, intelligenti.

Le torri di Hove sono solo sciocche. Sembrano fogli di carta appallottolati messi l’uno sull’altro, avvolti in un malsano involucro che riecheggia il World Trade Centre che implode. Gehry le descrive come evocanti “i movimenti di un vestito da dama edoardiana sul lungomare”, rafforzando la mia opinione secondo cui gli architetti, qualunque cosa facciano, non dovrebbero parlare.

Nella maggior parte dei lavori di Gehry ci sono logica e disciplina. Le torri di Hove sembrano non avere né l’una né l’altra. E anche così, le loro superfici sbucciate e i lineamenti caotici non interesserebbero tanto, se il complesso fosse poco sviluppato in altezza. Il vicino centro sportivo King Alfred, ben attaccato al suolo ha un aspetto attraente, e si deve fare. Le torri sono una faccenda diversa. Sono un grido, non un mormorio. Urlano su tutta Hove, impongono attenzione.

Abbiamo perso la sensibilità per regolamentare gli edifici urbani. La catastrofe degli interventi pronti a spuntare dappertutto a Londra è una tragica replica di quanto accadde negli anni ’60 e ‘70. Ogni veduta, per quanto solenne, sarà riempita da una punta di vetro, o una piramide, o una scheggia, cuneo, tubo. Lo skyline di Londra sembrerà il banale recinto da gioco di un bambino sparpagliato di giocatoli geometrici. Le torri non mostrano alcun rispetto per le immediate vicinanze, figuriamoci l’orizzonte. Sono pezzi architettonici da museo, che usano la città come vetrina e catalogo.

Questo museo un tempo era curato dall’urbanistica. Ma in Gran Bretagna l’urbanistica ha perso la sua tradizionale battaglia contro un potere asservito al denaro: in gran parte contro John Prescott e gli interessi della lobby edilizia. A Londra, l’epoca in cui i Very High Buildings (VHB) erano destinati a raccogliersi lontano dalle zone residenziali e storiche, è finita. Architetti e costruttori odiano i raggruppamenti, per la semplice ragione che gli altri VHB sono infernali da avere attorno. Ognuno vuole essere isolato, con la propria visibilità da lontano. Non sanno più tenere un rapporto con le strade, conversare coi quartieri. Sanno solo dare pugni in faccia. La progettazione di ambiente si risolve nel famigerato “stronzo in mezzo alla piazza”.

Bernard Levin auspicava che si sparasse a un architetto all’anno, pour encourager les autres. Non è leale. Gli architetti lavorano. Se affermano di fare arte, allora c’è qualcun altro che deve pagare. La colpa dei cattivi edifici è di chi avrebbe il compito di controllarli in nome del pubblico, approvando quelli buoni e respingendo quelli non buoni. È a loro, e a quelli a cui loro rispondono, che si dovrebbe sparare, quando si verifica un’offesa.

Una buona urbanistica è il segno sicuro di una comunità civile. Senza di essa, resterebbero pochi vecchi edifici nei centri delle città britanniche. L’intera zona centrale di Londra sarebbe il sogno del sindaco Bodfish, una “città di questo secolo”. Sappiamo esattamente che aspetto avrebbe avuto, perché è stata pensata negli anni dopo la seconda guerra mondiale da pianificatori come Abercrombie e Buchanan. Sarebbe stata una città di piastre di cemento e torri, una Stalingrado-sul-Tamigi. Date un dito a questa gente, e si prendono tutta la città.

Guardate cos’hanno fatto con Brasilia, Canberra, Cumbernauld e Milton Keynes.

Le vedute dal lungomare di Hove dovrebbero essere un monumento nazionale. È qui che negli anni ’20 del XIX secolo gli architetti Charles Busby, Amon Wilds e Decimus Burton volevano creare in riva al mare una versione ancora più splendente della contemporanea Regent’s Park di John Nash a Londra. Ci sono riusciti.

Niente dovrebbe intromettersi, in questo splendore. La vista da est verso il centro di Brighton è già stata profanata da tozzi appartamenti, le catapecchie di un centro congressi e divertimenti, un molo in rovina, che tutti farebbero vincere a Brighton qualunque premio “comune delle schifezze”. Ma i meravigliosi complessi di Kemptown e Hove restano intatti. Sono la gloria del sud Inghilterra.

Il genio di Gehry non si diminuisce dicendogli di diminuire la dimensione dei suoi progetti, per restare entro il campo visivo del sito. L’ha già fatto una volta. Se i capolavori di Busby, Wilds e Burton non pretendono di offendere la sua opera, perché dovrebbe farlo lui con le loro? La Tate non mette i lavori di Rothko nella stessa sala di quelli di Turner. E Prescott non mette le sue torri in Parliament Square o i suoi uffici amministrativi a Dovedale (non ancora).

Anche la mente più prosaica ha qualche residuo di DNA che riesce a distinguere il brutto o l’inadeguato dal bello. Sa capire la stupidità della massima secondo cui “la bellezza sta nell’occhio del padrone”. C’è una cosa che si chiama estetica pubblica, ed è il motivo per cui si fa tanto per salvare la grande arte. Eppure, ci importa tanto poco della forma d’arte più pubblica, la forma della città.

Le città moderne stanno diventando come zoo che contengono solo elefanti. Hove ha ancora uccelli del paradiso. Perché calpestarli?

Nota: il testo originale al sito del Guardian ; altri particolari e links sul progetto di Gehry, a questa pagina del sito Europaconcorsi (f.b.)

Supermarket e piccoli negozi alimentari, spesso messi in piedi da immigrati o a gestione familiare. Ma con orari flessibili che prevedono chiusure a tarda ora e attività anche nei fine settimana.

A dispetto delle statistiche, che evidenziano un’avanzata inarrestabile della grande distribuzione organizzata, i negozi di vicinato sono tornati di moda, soprattutto nelle città di mediograndi dimensioni. "Colpa" della congiuntura economica negativa, che spinge le famiglie a spendere solo piccole cifre ogni volta, oltre che di una popolazione sempre più anziana, con mobilità ridotta e quindi impossibilitata a raggiungere con una certa frequenza gli ipermercati situati in periferia.

Tra le città più interessate da questo fenomeno Bologna. Nel capoluogo emiliano sono sorti 140 negozi di vicinato, situati nelle periferie, soprattutto ai margini poco fuori il centro cittadino. Gestiti da immigrati indiani o nordafricani, ma non solo etnici: nella maggior parte si tratta di piccoli market alimentari con prodotti generalisti. «Un fenomeno — osserva Maurizio Gattiglia, amministratore di Sogegross, catena di alimentari presente a Genova e nella maggior parte dei centri del Nord e Centro Italia — che si spiega con la convergenza di ragioni congiunturali e strutturali. I consumatori si trovano a fare i conti con una contrazione della loro capacità di spesa rispetto a qualche anno fa e per questo sono diventati più prudenti nella spesa. Preferiscono affidarsi ai piccoli centri commerciali, dove spendono piccole cifre per volta». Una percezione più psicologica, che reale. Infatti, è un dato di fatto che i prezzi della grande distribuzione sono mediamente più bassi del piccolo commercio. «È così — prosegue Gattiglia — ma la congiuntura negativa spinge i consumatori a diffidare dei "consumi indotti" dagli ipermercati». A questo si aggiunge il mutamento della tipologia di consumatori. «La popolazione italiana anziana — prosegue — è in rapida crescita. Le persone avanti con gli anni hanno difficoltà a spostarsi, utilizzano l’automobile di rado e per questo preferiscono punti vendita sotto casa o situati a breve distanza dall’abitazione».

Dello stesso avviso Paolo Palomba, direttore marketing di Sigma: «Oltre all’innalzamento dell’età media pesa anche la maggiore incidenza di singoli e nuclei familiari di piccole dimensioni rispetto al passato. Così la grande spesa presso l’ipermercato diventa una necessità episodica».

Un ritorno, quello del piccolo commercio, che tuttavia non trova riscontro nei dati statistici. Secondo le ultime rilevazioni di Unioncamere, tra luglio e settembre le vendite al dettaglio hanno registrato complessivamente una flessione pari allo 0,9% rispetto allo stesso trimestre del 2004. In particolare, sono state proprio le imprese commerciali di piccole dimensioni (cioè gli esercizi con meno di sei addetti) a registrare i cali maggiori (—2,2%). Una maggiore capacità di tenuta è stata, invece, evidenziata dagli esercizi di maggiori dimensioni (+1,4% nella grande distribuzione alimentare). "Nonostante questi dati — annota Carlo Mochi, direttore del Centro Studi di Confcommercio — è un dato di fatto che oggi sono sempre più i piccoli esercizi che aprono i battenti nelle aree ad alta densità abitativa. Negozi che intercettano una domanda che vede i consumatori interessati non solo ai prezzi, ma anche alla convenienza in termini logistici della spesa. Resta il fatto — prosegue — che per sopravvivere i negozi di prossimità devono accontentarsi margini di guadagno, ma anche adottare orari di apertura più rigidi del passato». Questo trend fa felici le organizzazioni dei consumatori, che da sempre si battono per il mantenimento dei negozi di quartiere a fianco dei grandi centri commerciali. «L’esperienza della Francia osserva Paolo Landi, presidente dell’Adiconsum insegna che la corsa sfrenata agli ipermercati non risponde alle caratteristiche della domanda, che è molto variegata. Non è un caso, dunque, che molte grandi catene transalpine oggi aprono molti più punti di medie dimensioni rispetto al passato». Per Landi «è sbagliato pensare che ipermercati e supermarket o mercatini rionali siano in competizione fra loro. Le famiglie hanno abitudini di spesa articolate: di solito si recano una volta a settimana nei grandi centri, dove trovano maggiori occasioni di risparmio, mentre per i piccoli acquisti preferiscono i negozi sotto casa».

In questo trend si inserisce anche il ritorno di interesse per i mercati rionali. «Un fenomeno di costume tutto italiano — aggiunge, invece, Carlo Mochi — ogni volta che un’amministrazione comunale decide la chiusura di un mercato scoppia il finimondo perché i cittadini trovano estremamente comodo questo modello di consumo».

Il rinnovato interesse per i negozi di prossimità trova riscontro nelle strategie delle aziende della grande distribuzione. Sia Sogegross che Sigma confermano il maggiore interesse per l’apertura dei classici supermarket, con una forte specializzazione sui prodotti tipici del luogo, rispetto alle grandi strutture. Il mutamento della domanda dei consumatori trova conferma anche nelle strategie di un’azienda specializzata nel mercato delle directory come Seat, che ha messo a punto una guida di copertura del territorio, InZona, riservato ai piccoli acquisti cittadini. Un’iniziativa nata in seguito a uno studio realizzato con la società di ricerca Aaster, da cui è emerso che il contesto sociale delle grandi città è cambiato negli ultimi anni. I piccoli esercizi vengono valutati non più solo in base alle politiche di prezzo che adottano, ma anche per la possibilità di socializzazione che sono in grado di offrire, cosa che manca negli ipermercati. Resta da vedere, infine, se queste nuove dinamiche del mercato avranno influssi sulle politiche di assunzioni delle aziende. «Al momento non riscontriamo grossi discostamenti rispetto al recente passato — annota Antonella Severino, della società di selezione Mcs — né tra i grandi, né tanto meno tra i piccoli. Se la tendenza proseguirà potrebbero però esservi dei mutamenti nei prossimi mesi».

Prodi lancia l'allarme «In Italia rischiamo tante piccole Parigi»

ROMA — Le fiamme che continuano a illuminare i sobborghi di Parigi si propagheranno in Italia? Per Romano Prodi è solo questione di tempo. «Abbiamo le peggiori periferie d'Europa. Non crediamo di essere così diversi da Parigi — ha detto il leader dell'Unione —. Se non facciamo interventi seri, sul piano sociale e con l'edilizia, avremo tante Parigi: ci sono condizioni di vita pessime e infelicità anche dove sono tutti italiani». Prodi proporrà al sindaco di Roma Walter Veltroni una riunione tra amministratori delle grandi città europee «per scambiare informazioni e aiuti riguardo a questi grandi problemi». L'opposizione non ha dubbi: si rischia la rivolta. Nel centrodestra convivono giudizi apocalittici sull'immigrazione irregolare e ottimismo. Il ministro delle Riforme Roberto Calderoli (Lega) ritiene che la guerriglia metropolitana arriverà anche in Italia e propone la linea dura: «Reprimiamo i comportamenti illeciti dei centri sociali, allontaniamo gli irregolari, destiniamo ad altro servizio le toghe colorate politicamente o ideologicamente». Invece il ministro del Welfare, Roberto Maroni, anche lui leghista, osservando quanto accade nella «civilissima» Parigi conclude: «Allora in Italia le condizioni non sono così disperate».

L'emergenza-banlieue infiamma le polemiche. Il deputato di An Enzo Fragalà attacca il leader dell'Unione e punta il dito sulle «miserabili dichiarazioni con le quali Romano Prodi cerca di instillare il seme dell'odio e della violenza nelle giovani generazioni italiane». Una nota di ottimismo viene invece dal direttore generale del Censis, Giuseppe Roma. «Italia e Francia sono contesti diversi. Intanto — spiega — in Italia non abbiamo raggiunto livelli così elevati nè per numero di abitanti nè per percentuale di immigrati. Luoghi come la banlieue parigina non esistono a Roma e neppure a Milano. L'unica dimensione comparabile potrebbe essere l'area napoletana, ma lì il fenomeno ha radici diverse ed è legato soprattutto alla criminalità organizzata».

«Guerriglieri? No, autolesionisti che bruciano le loro scuole»

PARIGI — Se non saranno le scuse di Sarkozy, saranno le sberle dei genitori a fermarli. O nient'altro. Tanto meno la polizia. I piromani notturni delle periferie di Parigi sono in trappola, bloccati in un vicolo cieco almeno quanto il loro grande nemico, il ministro degli Interni Nicolas Sarkozy: più si ostinano a dar fuoco alle polveri, più danno ragione a chi li condanna. Lo pensa e lo scrive Jean Michel Thénard, opinionista del quotidiano di sinistra Libération. «Le auto che incendiano ogni notte, sono le auto dei loro vicini. Le scuole che bruciano, sono le loro scuole. Gli autobus che attaccano, sono quelli che portano al lavoro i loro genitori e a scuola i loro fratelli. La donna disabile che hanno ustionato era anche lei una diseredata di periferia — riflette Thénard —. Prima o poi saranno i loro stessi familiari a imporre di farla finita con la guerriglia urbana».

Ma se non andrà così, la violenza che stringe d'assedio Parigi non farà altro che esasperare sempre più l'opinione pubblica e mettere in imbarazzo la sinistra, che ha sempre difeso gli immigrati.

«È vero, la sinistra ha sempre sostenuto le ragioni di chi è discriminato. Ma aveva cercato di prevenire la violenza con la sicurezza. È stato il governo di destra a smantellare la polizia di quartiere istituita dall'ex primo ministro Lionel Jospin. Gli agenti locali entravano in contatto con la popolazione dei quartieri più difficili, ci vivevano. Conoscevano le persone e si facevano conoscere. Sarkozy, nel 2002, ha stabilito che interpreta la sicurezza solo come repressione».

La via d'uscita?

«Una possibilità è che Sarkozy si scusi delle espressioni usate nei confronti di questi giovani, definiti una "feccia". Ma non sembra intenzionato a farlo, per il momento. La seconda è che siano gli adulti, i genitori a dire basta. E poi c'è un aspetto da non sottovalutare in questa rivolta: quello ludico».

Ludico?

«Certo. Questi ragazzi sono sulle prime pagine di tutti i giornali, ci sono le telecamere, arrivano giornalisti da tutto il mondo. La collera è soltanto uno degli elementi incendiari. Che non ci sia una strategia o una guida politica è dimostrato dai loro obiettivi. Devastano i loro stessi quartieri: se ragionassero politicamente, andrebbero a dar fuoco alle auto parcheggiate a Neully, dove vive il ministro degli Interni».

Ma a sinistra, la coscienza è davvero a posto? Nessuna responsabilità, nessun ripensamento?

«Sul piano della sicurezza direi di no. Sul piano politico invece sì. Il problema delle periferie ha almeno vent' anni e la sinistra ha governato per 15 degli ultimi 24 anni: in materia di integrazione, scuola, servizi sociali, occupazione avrebbe potuto fare di più».

Periferie francesi, la notte più violenta

PARIGI — Nemmeno elicotteri, fotocellule e tremila poliziotti fermano l'onda di violenza nelle periferie francesi. Ripetitiva e preordinata, la guerriglia è ricominciata sabato sera, sfiorando il centro di Parigi, con tre auto incendiate nella terza circoscrizione. Gruppi di giovani (sono stati fermati ragazzini di 10 e 12 anni, con bottiglie incendiarie) hanno assaltato scuole, asili, centri sociali, stazioni di polizia. Una furia cieca, che suscita la reazione della popolazione esasperata, rimette in circolo parole d'ordine xenofobe, destabilizza il governo francese e il suo uomo forte, il ministro dell'Interno Nicolas Sarkozy.

All'ombra di blocchi di cemento uguali, alti e grigi, le carcasse di auto bruciate fanno ormai parte del paesaggio: più di 300, nella decima notte di vandalismi, assalti a negozi e luoghi pubblici, aggressioni a tutto ciò che rappresenta la Francia bianca, dai pompieri agli agenti, dai sindaci agli operatori sociali spediti da queste parti, con una montagna di sussidi, a predicare integrazione nei valori della

République.

Parigi è davvero vicina e lontanissima. La «Nazionale 3» attraversa cittadine appiccicate alla metropoli. Una grande Brianza più povera, zeppa di fabbriche, autosaloni, supermercati, shopping center, depositi. Ma anche di asili nido, campi gioco, licei, ritrovi. Non c'è nulla di più falso dell' immagine di bidonville abitata da disperati. L'apartheid è territoriale. Si traduce nel senso di esclusione di una generazione nata e cresciuta in Francia. Si rafforza con i confini invisibili delle bande, della piccola criminalità, del sommerso che garantisce sopravvivenza e consumi. I proclami di Sarkozy sono stati benzina sul fuoco, hanno prodotto rivalsa e umiliazione generalizzata, attizzato micce in tante altre città della Francia, da Strasburgo a Marsiglia, da Rennes a Tolosa. Ieri sera persino sulla Costa Azzurra, da Cannes a Nizza.

L'effetto moltiplicatore di televisione, blog, cellulari è stato devastante. Estremisti e mestatori hanno trovato facile consenso. Un sindacato di poliziotti denuncia la presenza di islamisti radicali nei disordini, il che è possibile in quartieri da cui sono partiti anche volontari per l'Iraq. Al tramonto, si preparano bottiglie molotov. Le bande si spostano da un quartiere all'altro, decidono obiettivi da colpire. «Sarkozy ci considera tutti teppisti? Glielo abbiamo dimostrato. Adesso ci deve chiedere scusa». Ma la cenere è incandescente da tempo: la mente corre ad un episodio premonitore di tre anni fa, quando la nazionale di calcio, infarcita di campioni maghrebini, venne fischiata da migliaia di giovani che sostenevano la squadra avversaria, l'Algeria.

Clichy-sur-Bois è stato l'avvio della rivolta. Qui è deserto anche il McDonald's. E sembra un angolo di Occidente in un quartiere di donne velate, caffetani colorati e insegne arabe e africane.

Gruppetti di giovani — incappucciati nelle felpe abbondanti da rappeur — tirano dritto, con occhi bassi che tradiscono rancore e paura. Qui sono morti i due adolescenti che si erano rifugiati in una centrale elettrica per sfuggire alla polizia. E qui si è compiuto il misfatto che fa temere una deriva religiosa della protesta: tre lacrimogeni finiti dentro la moschea, mentre la gente pregava. «Incidente», secondo le versioni ufficiali, ma qui tutti credono il contrario. «Non c'era motivo di attaccarci. Questa è una comunità tranquilla. Ci sono piccoli delinquenti, come dappertutto. Sopravviviamo, come hanno fatto i nostri padri venuti dall' Algeria», spiega un giovane. Le cifre parlano per lui: la metà dei 28 mila abitanti ha meno di 25 anni, un quarto sono disoccupati. Ma qui il governo ha stanziato 330 milioni di euro per rinnovare 4.000 alloggi. «Adesso siamo tutti in collera, ma almeno si parla di noi. Cattivi e famosi, evviva».

I soli che sembrano in grado di calmare la rivolta sono gli adulti di questa generazione «no future». Genitori, insegnanti, operatori sociali, capi religiosi, sindaci che stanno dando la più dignitosa dimostrazione di civiltà alla Francia impaurita, ostile, preoccupata per la sua immagine. Anche i genitori delle vittime di Clichy hanno rivolto un appello di pace. A Epinay, una marcia silenziosa, per solidarietà con l'impiegato pestato a morte nelle notti scorse. Una marcia turbata da estremisti di destra, venuti qui a urlare «questa gente odia la Francia». A Aulnay, tremila sono sfilati dietro uno striscione «No alla violenza, si al dialogo». Ci sono anche coraggiosi come Mourad, operatore sociale maghrebino, che ha cercato di fermare una banda con bottiglie incendiarie. Lo hanno insultato e picchiato: «Mi senso umiliato. Il mio lavoro non conta più. Ma di chi è la colpa?».

Meigneux/Ansa

Alcune note firme dell´architettura italiana si sono lamentate per l´invasione nel nostro territorio di architetti stranieri: hanno ragione e hanno torto contemporaneamente. Hanno ragione quando sostengono che gli italiani sono altrettanto se non più bravi degli stranieri: la recente esposizione tenutasi al palazzo della Triennale dimostra che le nostre facoltà di architettura sono capaci di presentare progetti seri, approfonditi, encomiabili.

Merito di studenti impegnati e di docenti preparati. Perché ricorrere a professionisti d´oltralpe, o d´oltre mediterraneo, quando a casa nostra e per cose nostre siamo già eccellenti ed invidiabili?

I protestatari tuttavia hanno torto quando tacciono sul modo con cui vengono dati gli incarichi. La loro protesta è rivolta solamente contro la burocrazia degli organi ufficiali, accusati di frenare e deviare il decorso delle pratiche edilizie, ma non contro la colpevole reticenza degli enti, sia statali che locali, nel promuovere e bandire concorsi pubblici; e contro la deplorevole assenza di questi enti nell´indirizzare e controllare le gare private, quando queste sono di interesse collettivo. Oggi i concorsi pubblici sono evitati con cura; e non sembra che in futuro tornino ad essere adottati con regolarità.

Il più clamoroso intervento monumentale di questi ultimi anni, la ristrutturazione, o meglio il rifacimento quasi integrale, del teatro alla Scala di Milano è stato eseguito dal Comune di Milano senza bandire un concorso.

Peggio: l´intervento di ristrutturazione è stato manovrato in modo tale da sfuggire all´obbligo del concorso, mascherando surrettiziamente i costi di costruzione per evitare i limiti di spesa fissati dalle norme europee. Così facendo si è potuto far progettare l´opera in un primo tempo da un anonimo tecnico, scelto dell´ente scaligero; e in un secondo tempo a un architetto straniero, scelto dal sottosegretario ai Beni culturali. Anche il teatro degli Arcimboldi è stato progettato senza concorso. Battezzato frettolosamente con questo nome solo dopo aver percepito i pericoli che suscitava la iniziale denominazione di "Scala bis", il teatro è stato costruito con notevoli investimenti pubblici; avrebbe quindi dovuto obbligatoriamente sottostare ad un pubblico concorso di progetto, in osservanza alle norme europee. L´infrazione è stata severamente stigmatizzata dagli organi di tutela europea, avvertiti coraggiosamente dal presidente dell´Ordine degli architetti di Milano, Piero De Amicis. I concorsi di progettazione, per effetto di una recente legge capestro relativa agli appalti banditi da enti pubblici, sono condizionati da pesanti ed inique clausole: queste sbarrano la possibilità di accedere ai concorsi anzitutto ai giovani; e in seguito anche a chi non può vantare bilanci professionali stratosferici, o non ha avuto recenti incarichi di dimensione colossale.

Il torto di chi protesta contro gli architetti stranieri, e contro la loro calata da dominatori in Italia, sta proprio in questo: nel tacere la deplorevole prassi degli attuali concorsi di progettazione, nell´ignorare e non richiedere, per ragioni di interesse professionale, procedure più eque, più imparziali, più democratiche. Guerra internazionale di stelle: ma guerra che appunto si svolge in alto, sopra le nostre teste, e che quaggiù lascia i comuni mortali costretti ad arrangiarsi come possono.

Nota: sullo stesso tema, qui su Eddyburg l'articolo di Pierluigi Panza dal Corsera, e la lettera di Filippo Ciccone(f.b.)

"Coinvolgere le popolazioni nelle scelte": è la frase che echeggia dalla Val di Susa fino a Roma, ed è una frase terribile. Non perché sia sbagliata, anzi: "coinvolgere le popolazioni nelle scelte" è solo un modo per dire democrazia, niente di più, niente di meno. La frase è terribile perché, solo a udirla, ci si rende conto della sua totale inapplicabilità, e cioè dell´inapplicabilità della democrazia. I centri di potere economico e tecnocratico sono pochi e impenetrabili, e pianificano il futuro di tutti in superba autarchia: giuste o sbagliate che siano, le famose scelte strategiche arrivano alle "popolazioni" già confezionate e ultimative. E il contraccolpo inevitabile è quasi sempre la rivolta, e il rimedio proposto, quando è oramai tardi, è spesso demagogico e assemblearista, emotivo e insofferente, paralizzante. E´ come se fossero spariti, tra potere e "gente", gli ammortizzatori, i livelli intermedi, i luoghi di discussione e di analisi, dove far decantare i conflitti e costruire senso comune. Quel luogo sarebbe la politica, quel luogo erano i partiti politici quando esistevano e funzionavano. La politica-spettacolo, quella dei leader e dei proclami, del marketing e dei salotti televisivi, è una politica lazzarona: non fa più il suo lavoro, e il prezzo lo paghiamo tutti.

Ne ha parlato il presidente Soru l'altra sera a Ballarò: il valore degli immobili nelle pregiate coste sarde, è argomento finalmente ricorrente anche per via di recenti eccezionali compravendite. Un ricco russo avrebbe acquistato una casa in Costa Smeralda per la somma di 35 milioni di euro, ma la notizia è stata rubricata tra le bizzarrie mondane estive pure nel gran parlare di rendite immobiliari. Una somma notevole, se si pensa che qualche anno fa una casa dello stesso rango poteva essere ceduta per una decina di miliardi di lire, che sembrava, anche a quelli che di case qui ne possiedono sei o sette, un prezzo notevole. Allora per riflettere due conti, che dicono dell'abilità di chi per mestiere compra e rivende case in tempi brevi con vantaggi non comuni. Anche immaginando l'impiego di materiali preziosissimi, il costo di costruzione di un metro quadro finito di casa si può aggirare, esagerando, sui 2000-2500 euro. Ecco: la casa in questione, alcune centinaia di metri quadri, costerebbe, è costata per realizzarla, poco più di un milione di euro.

Il resto del valore - per arrivare a 35 milioni - è dato dalla speciale condizione del paesaggio che noi mettiamo a disposizione. Grande plusvalenza, pure con un lotto accessoriato, una supervista sul mare, dirimpettai molto ma molto altolocati. Per queste merci è così. E ogni giudizio pensando ai tanti senza casa o nel segno della parsimonia, è superfluo. E' così. Anche se sgomenta pensare che una decina di ettari di terra, poco distanti da qui, valgono molto poco e non si vendono neppure con l'aggiunta di un gregge di pecore lattifere.

Per stare alle questioni poste da Soru. È bene ripeterlo: queste ricchezze, prodotte con tanti guasti ai luoghi, non rendono nulla alle comunità locali. Spiccioli a qualche manutentore e spiccioli per l'Ici (le mance che si lasciano da queste parti sono più generose).

Anche questi investimenti stanno nel genere delle delocalizzazioni. Gli stessi che spostano le fabbriche dove il costo del lavoro è più conveniente e i capitali dove torna utile, realizzano case dove il mare non ha rivali.

Convenienza per convenienza, occorre uno sforzo di fantasia perché la finanza creativa non sia a senso unico e tassare adeguatamente questi ingenti patrimoni che devono tutto ai paesaggi che corrompono. Questo per l'esistente.

Poi, occorre dirlo chiaro per chi ritiene ancora di concedere questi privilegi, che una volta fatte le case resta comunque troppo poco alla Sardegna al di là del compiacimento della presenza di tanta bella gente da queste parti ( «ajò a vedere le ville dei ricchi a Porto Cervo»).

La cancellazione dei connotati di spiagge e scogliere procurano vantaggi a pochi che spesso non hanno idea di dove siano le case preziose che possiedono.

Queste concessioni a edificare non c'entrano nulla con l' uso (case che si abitano una settimana all'anno) e che sono appunto nel novero delle speculazioni. Al centro quei beni nel ciclo denaro-merce-denaro ( ne ha scritto Valentino Parlato) che il nuovo capitalismo italiano predilige.

Occorre intensificare l'impegno per tutelare i nostri interessi quelli delle giovani generazioni che vorranno mettere a frutto i nostri beni ambientali.

Attenzione. Perché nella riflessione che si è aperta su questi temi in Sardegna, qualcuno nel centrodestra porta l'argomento dell'incremento dei prezzi delle case esistenti nelle coste, dato dal vantaggio - uno scandalo per i liberisti - che verrebbe da una politica di contenimento delle trasformazioni dei litorali. Quindi: «più case al mare per tutti», come nel comizio di Albanese.

Titolo originale: Scaling Back New Orleans – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il portavoce Dennis Hastert ha imparato nel modo peggiore i pericoli che si corrono prendendo a calci una città quando è già a terra. Un quotidiano dell’Illinois riferisce che poco dopo l’uragano Katrina abbia detto come New Orleans “poteva essere spianata con le ruspe”, e gli oppositori l’hanno presto zittito con accuse di insensibilità e spietatezza.

L’uragano ha mostrato chiaramente come New Orleans ospiti infrastrutture di trasporto ed energetiche vitali per l’economia nazionale. È città ricca di storia, con un ambiente culturale vivace (e festoso) che tutta la nazione tiene in alta considerazione. Ed è la casa di quasi 500.000 persone legate alla propria comunità. Tutti questi, sono argomenti decisivi per stimolare una grande sforzo affinché la città si riprenda velocemente. La storia dimostra, tra l’altro, che le città hanno la forza di reagire dopo le crisi (pensiamo al grande incendio di Chicago più di un secolo fa).

Ma alcuni economisti iniziano a chiedersi se Mr. Hastert non abbia in qualche modo colto il segno, sull’essere cauti parlando della ricostruzione di New Orleans, per quanto rozzamente l’abbia espresso. Non sono solo gli svantaggi naturali della città (la cui gran parte sta sotto il livello del mare) a preoccupare gli studiosi. È anche il suo stato economico – povertà crescente, e un esodo di persone e imprese già prima che l’uragano colpisse – e la necessità di evitare nuovi incentivi che possano portare ad uno sviluppo non meno vulnerabile.

”Abbiamo degli obblighi nei confronti della popolazione, non dei luoghi” ha detto Edward Glaeser, professore di Harvard specializzato in economia urbana. “Calcolato quanto costerebbe pro-capite ricostruire New Orleans in tutta la sua gloria precedente, sarebbe molto meglio consegnare a parecchi dei residenti un assegno da 10.000 dollari e un biglietto d’autobus per Houston”.

Il paradosso del Buon Samaritano

Gli economisti si misurano da anni coi modi di affrontare le conseguenze dei disastri naturali. Gary Becker, economista premio Nobel che insegna all’Università di Chicago, dice che i decisori politici devono prendere in considerazione quello che lui chiama il “paradosso del Buon Samaritano”. L’istinto di chiunque dopo una calamità naturale è quello di soccorrere le vittime. “È difficile per un paese stare lì seduto a guardare gente in condizioni miserabili dopo un disastro”, dice. “Non è auspicabile”.

Ma gli aiuti, le promesse di ricostruzione, sono anche un incentivo perché le persone continuino a risiedere in località pericolose. Come Glaeser, anche Becker è favorevole agli aiuti. Ma anche a limitarne gli incentivi perversi. Becker sostiene che qualunque sforzo di ricostruzione dovrebbe essere gestito con mano amorosa ma ferma dal governo, ad esempio con rigidi vincoli urbanistici nelle aree a rischio di alluvione, e con altrettanto rigide norme sulle assicurazioni.

E non si tratta del solo premio Nobel che sostiene la cautela nella ricostruzione di New Orleans. “La migliore politica è quella di non consentire la ricostruzione di New Orleans nelle zone dove è possibile l’allagamento” dice Edward Prescott, ricercatore alla Federal Reserve Bank di Minneapolis, famoso per aver utilizzato gli investimenti nelle pianure alluvionate come esempi di politiche di breve termine che invece innescano incentivi di lungo periodo. Richard Posner, giurista conservatore che condivide un sito web con Becker, propone che la città diventi qualcosa come la Williamsburg coloniale: un sito turistico a sé senza una vera città.

Naturalmente, ci sono alte probabilità che la città venga comunque ricostruita. Oltre l’inerzia della decisione politica, i vari oppositori non possono non valutare le pressioni delle attività economiche al ritorno, dice Loren Scott, economista a Baton Rouge. Le imprese chimiche, i cantieri navali, le aziende energetiche, hanno enormi investimenti nell’area, privi di valore quando non operativi: “Torneranno molto velocemente” dice.

Ma le persone potrebbero non farlo. Secondo i calcoli del censimento, la popolazione di New Orleans è diminuita del 4%, pari a 21.000 unità, fra il 2000 e il 2004, agli attuali 462.000 abitanti. Fra le città più popolose della nazione, l’unica con un declino più pronunciato in quell’arco di tempo è stata Detroit. Circa il 24% delle famiglie di New Orleans vivono al di sotto del livello di povertà secondo il Census Bureau, contro il 9% a livello nazionale.

Fuga dalla Città

Molti se ne sono andati nei suburbi in cerca di scuole migliori. Anche alcuni grossi investitori se ne sono andati. ExxonMobil, Shell e ChevronTexaco, per esempio, hanno eliminato o spostato centinaia di posti di lavoro verso Houston negli ultimi anni, proseguendo un esodo dalla città che dura da vent’anni. Risultato: anche se il settore energetico sta attraversando una fase di boom, New Orleans non ne ha beneficiato gran che. Nel 2004, i livelli occupazionali nel settore privato in città erano ancora sotto a quelli del 1997.

Mr. Glaeser sostiene che ci sono problemi di lungo periodo dietro le difficoltà pre-Katrina. Negli anni ’40 del XIX secolo New Orleans era una delle tre città più popolose, insieme a New York e Philadelphia. A quei tempi, il trasporto via acqua era il modo dominante di spostare persone e merci, e l’economia era in gran parte agricola. I collegamenti col Sud e col Mississippi facevano di New Orleans un polo fondamentale e integrale del commercio. Secondo Glaeser, l’ascesa dei trasporti ferroviari e automobilistici, insieme all’industrializzazione del secolo successivo, hanno cambiato tutto questo e innescato il lungo, lento declino della città. Quelle che oggi crescono più rapidamente, nota, sono posti come Las Vegas o Atlanta, organizzate sullo sprawl suburbano e non circondate dall’acqua.

”New Orleans è un luogo che ha raggiunto il proprio massimo livello economico negli USA 160 anni fa” dice Glaeser. “Certo ora non offriva un grande futuro, alla maggioranza dei propri abitanti”.

C’è anche una questione di tempi. Solo due settimane dopo Katrina, città come Baton Rouge o Houston fremono di persone e imprese che tentano di continuare vita e lavoro. Quando il piano di ricostruzione per New Orleans sarà stato steso e attuato, probabilmente migliaia di persone si saranno già stabilite altrove. Come promemoria di quanto lungo – e dibattuto – possa diventare un processo di ricostruzione, resta ancora vuoto, quattro anni dopo l’attacco terroristico su New York dell’11 settembre, lo spazio che era il World Trade: una cicatrice di terreno inedificato.

I questi primi giorni di crisi, Washington non sembra orientata verso la circospezione. Lo stanziamento di 62 miliardi per soccorrere le vittime è solo il primo passo di una spesa che potrebbe raggiungere i 200 miliardi. Ma prima di impegnare questi miliardi a rimediare alla tragedia urbana, questi economisti sostengono che i decisori politici dovrebbero pensare meglio alla condizione in cui era New Orleans, ed essere ben certi di non ricacciarcela.

Nota: il testo originale ripreso dal sito Sito Real Estate Journal ; qui su Eddyburg, tra i molti articoli su New Orleans dopo l'uragano, dubbi sui modi di ricostruzione sono espressi ad esempio da Drake Bennet del Boston Globe (f.b.)

La lettera di Luigi Burla

Prendo spunto dalla recente proposta di legge di riforma urbanistica in discussione in Parlamento.

Mi viene in mente, in contrapposizione, il tentativo di riforma del ministro Fiorentino Sullo nel 1963.

Se la riforma fosse stata approvata avrebbe in un sol colpo eliminato la speculazione edilizia e tutta la corruzione politica a essa legata e avvicinato l'Italia alle nazioni più civili nel governo del territorio. Perché, la «rivoluzionaria» riforma Sullo è stata tanto osteggiata anche da esponenti del suo stesso partito, la Dc?

La risposta di Sergio Romano

Caro Burla, non credo che la riforma proposta da Sullo avrebbe eliminato «in un solo colpo» la speculazione edilizia e la corruzione. Ma l'episodio evocato nella sua lettera fu effettivamente un passaggio importante della storia repubblicana e merita di essere ricordato. Fiorentino Sullo fu per alcuni anni uno degli uomini politici più promettenti della Democrazia cristiana. Era nato nel 1921, aveva partecipato ai lavori dell'Assemblea costituente e apparteneva alla «corrente di base», vale a dire alla sinistra del suo partito. Fu ministro dei Trasporti nel 1960, dei Lavori pubblici nel 1962, della Pubblica istruzione nel 1968. Nel gennaio 1969, mentre dirigeva il ministero di Viale Trastevere, firmò una circolare con la quale veniva riconosciuto il diritto di assemblea degli studenti nelle scuole medie superiori e riformò gli esami di maturità. Negli anni Settanta non condivise la posizione del suo partito sul divorzio e passò ai socialdemocratici con cui si candidò alle elezioni del 1979. Ma ritornò alla Dc nel 1985 e morì nel 2000. Il progetto di riforma urbanistica risale a quella fase della politica italiana in cui Amintore Fanfani e Aldo Moro stavano spostando la Dc a sinistra e incontravano forti opposizioni nell'ala moderata del partito. Il momento cruciale fu la formazione del quarto governo Fanfani nel febbraio 1962. Per dare un segnale di fedeltà all'Alleanza atlantica e agli Stati Uniti, il presidente del Consiglio autorizzò l'installazione dei missili Polaris in Italia. Per ottenere l'appoggio esterno del partito socialista italiano, assunse una serie di impegni «progressisti»: la scuola media unica, l'obbligo scolastico a 14 anni, la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la istituzione di una commissione antimafia, una riforma urbanistica. Il compito di scrivere quest'ultima spettò per l'appunto a Fiorentino Sullo che si ispirò a certe misure adottate dal governo laburista di Clement Attlee in Gran Bretagna subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. I sindaci avrebbero avuto il diritto di espropriare i terreni destinati allo sviluppo delle loro città e avrebbero concesso ai privati la licenza di costruire dopo avere realizzato le opere di urbanizzazione. I primi malumori per il programma del governo Fanfani cominciarono a manifestarsi dopo la nazionalizzazione della energia elettrica soprattutto negli ambienti della Confindustria. Quando il presidente dell'associazione, Furio Cicogna, disse nella sua relazione annuale che alcune riforme del centrosinistra avevano scosso la fiducia degli imprenditori, la Dc capì che correva il rischio di perdere, nelle elezioni politiche previste per la fine di aprile del 1963, buona parte del voto moderato e corse ai ripari. Il 16 aprile il Popolo, quotidiano della Democrazia cristiana, pubblicò una nota della segreteria del partito che sconfessava, di fatto, il progetto di Fiorentino Sullo. Il fallimento della riforma ebbe certamente l'effetto di dare mano libera alle urbanizzazioni selvagge di cui soffrirono, da allora, quasi tutte le città italiane. Ma l'esproprio, nel momento in cui la Democrazia cristiana si apprestava a concludere un patto di governo con il partito socialista, suscitava la preoccupazione di molti cittadini che non erano necessariamente speculatori e palazzinari. Se la classe politica italiana avesse voluto impedire gli eccessi e i maneggi degli anni successivi avrebbe potuto farlo con altri mezzi giuridici e amministrativi, più rispettosi della proprietà privata.

Postilla

L’ex ambasciatore, nell’ultima parte della risposta, accredita la tesi che Sullo volesse espropriare “molti cittadini”. La tesi che la proposta dell’esproprio generalizzato significasse l’esproprio delle case non trova alcun riscontro nella proposta di legge. Fu propalata dalla stampa (primo fra tutti il Tempo ), e non sufficientemente contrastata. In effetti, Sullo proponeva ciò che veniva da decenni praticato nell’Europa progredite: la preliminare espropriazione delle aree inedificate, fuori dal perimetro urbano, là dove il PRG aveva deciso di espandere la città costruendo nuovi quartieri. Era una norma, tra l’altro, già in parte presente nella legge urbanistica del 1942 che, all’articolo 18, prevedeva la possibilità dei comuni di espropriare le aree d’espansione. La proposta Sullo trasformava questa possibilità nella regola generale di espansione della città. Non venivano perciò “colpiti” i proprietari di case, ma solo quelli di aree agricole o lasciate incolte “in attesa di edificazione”, ed erano “colpite” con un congruo indennizzo commisurato al valore reale dell’area e alla sua redditività. L’indennizzo non riconosceva la capacità edificatoria dell’area, ma questa dipende da una decisione pubblica, quindi non si capisce perchè il vantaggio debba spettare al proprietario dell’area in aggiunta al valore reale. "Rispettare la proprietà privata", come ammonisce Sergio Romano, significa forse consentirle di approfittare delle decisioni pubbliche senza impiegare nè lavoro nè rischio nè imprenditorialità? I liberali e i liberisti non la pensavano così, signor ambasciatore!

Purtroppo in Italia si era costituito in quegli anni (come ha accuratamente analizzato Valentino Parlato in un suo famoso saggio del 1970) il “blocco edilizio”: un blocco sociale, molto composito, che aggregava attorno agli interessi della speculazione tutti gli interessi proprietari, grandi e piccoli e piccolissimi. Questo blocco allora vinse, grazie a una profonda campagna di disinformazione debolmente contrastata. Non è stato dissolto negli anni successivi, si è trasformato e rafforzato grazie alla "distrazione" della politica e della cultura, sta vincendo di nuovo, con la legge Lupi, alla grande, approfondendo ulteriormente il distacco tra l’Italia e il resto d’Europa

Fiorentino Sullo raccontò la vicenda della legge in un libro oggi introvabile, Lo scandalo urbanistico, Vallecchi 1964. Uno stralcio è qui

Val di Susa è una valle stretta. E anche molto bella, o almeno di questo sono convinti gli abitanti, che amano molto le loro montagne, intorno. Ora questa bellezza e questo bene comune sono messi a rischio dalla costruzione di una nuova linea ferroviaria, cui proprio ieri si sarebbe dovuto dare inizio, piantando i primi pali. E contro queste prime attività concrete di recinzione, per l’appunto una prima sottrazione di territorio, simbolo di tutto il resto che dovrebbe seguire, c’erano i sindaci della Val di Susa a manifestare, insieme alla popolazione, contro la Tav, la linea ad alta velocità-capacità, tra Torino e Lione.

Le ragioni degli abitanti della Valle sono vere e sono profondamente radicate in quindici anni di lotta. Rifiutano la linea Tav e il modello di sviluppo connesso che consiste nell’occupazione del territorio da parte del Corridoio 5 e la sostanziale estromissione di tutti loro. E ancora; è previsto un cantiere lungo dodici o quindici anni, molto costoso, e utile soltanto per arricchire gli impresari e i costruttori. Oltre tutto, la strada ferrata c’è già e potrebbe essere aggiornata per soddisfare le nuove esigenze di trasporto; invece la si lascia deperire, spostando tutto il traffico su gomma, lungo un’autostrada che insiste anch’essa nella valle e comporta un passaggio di migliaia di camion ogni giorno. Una eventuale nuova via ferroviaria avrebbe un periodo di costruzione effettiva di una dozzina di anni, nel corso dei quali il traffico e il disordine aumenterebbero ancora di molto, proprio per le esigenze dei cantieri, senza portare alla valle – stretta come prima, fragile come prima – alcun vantaggio.

Ma non è tutto. Il monte Ambin, sotto cui dovrebbe passere il tracciato, è notoriamente ricco di amianto. Il minerale, scavato in grande quantità, darebbe luogo a molte polveri e le polveri avrebbero buon gioco nel disperdersi lungo tutta la valle e anche più in là, molto più in là. C’è poi un’altra ricchezza nelle viscere della montagna: l’uranio. E anche questo verrebbe portato alla luce, con la sua bassa intensità radioattiva. Poi c’è l’acqua. O meglio c’era perché gli scavi precedenti, per l’autostrada, per la centrale elettrica dell’Aem, hanno intaccato le falde, creando un vero lago sotterraneo che poi è stato riassorbito; ma ormai il sistema di raccolta delle acque, ricchezza della terra, era irrimediabilmente sconvolto.

La montagna, la valle, il suolo, l’acqua, lo spazio stesso nel territorio, sono tutti beni comuni. Tutti li devono rispettare. Non sono in particolare degli abitanti della valle, ma essi ne sono i custodi e per ora hanno svolto bene il loro compito, anche se hanno subìto molti attacchi. Ora c’è questa forza contro di loro, travestita da progresso, ma in realtà capace solo di fare buchi costosi, buchi osceni nella montagna, buchi lunghi 50 chilometri; e si serve della menzogna quando dice di avere ottenuto l’autorizzazione del Cipe che invece non c’è ancora, come non c’è la delibera della Corte dei conti per la spesa distruttiva. Si dirà che i sindaci e gli abitanti della valle sono contro il progresso: non credeteci. Sono gli altri che vogliono solo giocare ai trenini; e farseli anche pagare – e da noi – molto cari.

Nota: al sito di Legambiente Val di Susa una cronaca illustrata delle manifestazioni popolari contro l'Alta Velocità del 31 ottobre 2005, e altre informazioni sul progetto; per il problema generale dei collegamenti Torino-Lione si vedano anche gli interventi di vari Autori sul sito LaVoce (f.b.)

Titolo originale: Among the Ruins, Something to Build On – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

NEW ORLEANS – È difficile immaginare che una città abbia mai avuto un aspetto del genere. Se si prendesse una città del mondo famosa per i suoi canali – diciamo Amsterdam, o Venezia in Italia – e la si scuotesse violentemente girandola di lato, in modo tale da allagare metà dei quartieri, e lasciare l’altra metà a marcire e puzzare nel sole di fine estate, ecco, così si potrebbe cominciare ad avvicinarsi a quello che l’uragano Katrina e la successiva inondazione hanno fatto a New Orleans e ai suoi begli edifici scrostati e poliglotti.

Nascosta sotto lo strato di acque putride che copre ancora più di mezza città, c’è una quantità di danni che non potrà essere valutata per settimane, forse mesi. Ma sembra chiaro che la gran parte, se non tutta la città a nord e a est del centro dovrà essere rasa al suolo.

Ancora giovedì, nella zona di Lakeview, c’erano intere schiere di isolati fatti di case suburbane in stile ranch, costruite soprattutto dagli anni ’40 in poi, dentro a un paio di metri d’acqua. Intanto le parti asciutte della città – l’intero Quartiere Francese e Faubourg Marigny, insieme al Garden District, Uptown e gran parte dell’area terziaria centrale – non hanno subito molto più di qualche albero o linea elettrica abbattuti.

Nel Quartiere Francese, Jackson Square e i decantati edifici ad appartamenti Pontalba sono in buono stato, sorvegliati da militari svogliati che stanno seduti all’ombra sui gradini della Cattedrale di St. Louis. Solo un sinistro senso di vuoto impedisce ad alcuni isolati sulla Bourbon Street di apparire totalmente normali. Lungo St. Charles Avenue, sul lato occidentale, gli edifici rustici universitari delle Tulane e Loyola, o le grandi case private, mostrano a malapena qualche graffio.

Lo stato di queste zone in gran parte non danneggiate, e che contengono quasi tutti gli elementi più famosi caratterizzanti New Orleans e le attrazioni turistiche, fanno propendere per l’ottimismo riguardo al futuro della città. Sono i mattoni su cui edificare la sua possibili rinascita, e sembrano sorprendentemente solidi.

Ma questa è una città il cui fascino, come posto da visitare e per vivere, ha sempre avuto più a che fare con un complesso e diffuso tessuto di quartieri residenziali, che con poche icone architettoniche. Tennessee Williams sottolineava proprio queste qualità nelle indicazioni teatrali per Un Tram chiamato Desiderio: la parte di città attorno alla Elysian Fields Avenue, scriveva, “è povera, ma a differenza dei quartieri del genere in altre città americane possiede un fascino dissoluto”.

E in verità, profonde divisioni razziali e di classe a parte, New Orleans è uno dei pochi posti d’America che dimostra la sua età, nel senso migliore del termine.

Anche se molto vulnerabile alle calamità, quasi tutti i quartieri sono riusciti nel tempo a evitare tutti i progetti di rinnovo urbano o crassamente commerciali di cui altrove si è pagato il prezzo. Ciò si deve in parte all’intrattabile povertà di qui, che ha reso grandi parti di New Orleans poco attraenti per i grandi costruttori nazionali, e in parte a un movimento di conservazione di lunga data.

Katrina, in altre parole, è riuscita a fare a questa città quello che non sarebbe riuscito a una palla da demolizione.

E se esiste un obiettivo per cui architetti e urbanisti americani si sono battuti negli ultimi decenni, è il tentativo di creare dalle macerie edifici legati alla storia urbana, senza per questo apparire banali o sdolcinati. Una volta seppelliti i morti e con la città in ripresa – non dimentichiamo che sta di fronte a quello che probabilmente è il più grosso problema di ripulitura da veleni della storia americana – questo sarà l’obiettivo per New Orleans.

Di solito, vagabondare attorno e guardare gli edifici è esperienza completamente visuale. Ma farsi una breve passeggiata architettonica qui, questa settimana, significava avere tutti i cinque sensi all’erta, spesso letteralmente aggrediti.

C’erano i suoni degli elicotteri, delle imbarcazioni, dei cani randagi nell’aria. Gli antifurto delle auto e dei sistemi di sicurezza degli edifici suonavano incessantemente. Gli aeratori su una moderna torre a uffici su Lafayette Square rombavano come un 747. L’acqua ferma puzzava di fogna, o peggio; avvicinandosi, bisognava badare a dove si mettevano i piedi, a qualunque cosa si toccasse. Quando gli edifici prendevano fuoco – e accadeva spesso all’inizio della settimana – la prima sensazione dell’incendio era un sapore acido sulla lingua.

Solo verso il margine sud-occidentale della città, vicino a Audubon Park, c’era una sensazione di calma. La stupefacente assenza di qualunque danno, lì, non era ovviamente un caso: le famiglie che ci hanno costruito le case più ricche della zona erano pienamente consapevoli della differenza fra terre alte e terre basse, a New Orleans.

Su Chestnut Street nel Garden District, su una delle finestre del secondo piano in una casa dall’aspetto particolarmente solido col tetto a abbaini, era inchiodato un pezzo di compensato con scritto: No Way, Ivan. A quanto pare non solo la casa, ma anche l’asse di compensato erano usciti intatti dall’uragano dell’anno scorso, Ivan.

Sono gli edifici più nuovi ad aver subito il peggio dalle frustate di vento di Katrinae dalla successiva alluvione. Il Superdome traballava già prima che migliaia di sfollati si piazzassero lì. Decine di finestre all’ultimo piano dell’albergo Hyatt sono state spazzate via. Lungo la Interstate 10 a ovest della città, almeno una delle nuove torri con pareti a specchio aveva avuto strappate via dalla tempesta intere parti delle facciate.

La maggior parte dei più noti edifici di New Orleans del XX secolo, però, non ha subito danni significativi. Si tratta ad esempio dei due palazzi per uffici di Gordon Bunshaft dello studio Skidmore, Owings & Merrill, o della Piazza d’Italia di Charles Moore del 1978, uno spazio postmoderno il cui colori vivaci e stile impertinente la fanno sembrare a casa, qui.

L’idea della scorsa settimana del portavoce della Camera J. Dennis Hastert (dell’Illinois) secondo cui “non ha senso” usare fondi federali per ricostruire la città sul sito attuale può non essere stata ben ponderata riguardo ai tempi, ma non è completamente illogica. New Orleans continua ad affondare, un po’ di più ogni anno, il che significa che proteggerla dagli uragani futuri può richiedere non solo argini più solidi, ma sollevare l’intera città.

Ma sarebbe peggio che macabro, lasciare semplicemente vuoti i quartieri più colpiti, o addirittura restituirli per sempre al fondo del lago. Una delle possibilità che si stanno discutendo è di realizzare un enorme parco – magari estendendo City Park lungo il lago a est e ovest per la maggior parte dell’area che ora è sommersa- sostenendo contemporaneamente il trasferimento degli abitanti altrove, in città o nella regione (ci sarà anche bisogno, certamente, di un monumento commemorativo).

La promessa di sostanziosi aiuti federali e privati fa già sognare architetti e urbanisti, su cosa potrebbe diventare, questo parco: oltre che ad altri interventi sulla città e i trasporti già contemplati.

Queste fantasticherie hanno un precedente nella storia di New Orleans: fu il denaro federale – per essere esatti, quello della Works Progress Administration durante il New Deal – a sostenere la realizzazione di gran parte di City Park. E lo stesso vale per i primi sforzi di restauro nel Quartiere Francese. E fu quando l’interesse di Washington per la città declinò, che i progetti infrastrutturali, come quelli per gli argini, restarono disastrosamente abbandonati.

Nota: il testo originale al sito del Los Angeles Times ; su temi analoghi di carattere storico, tradotto qui su Eddyburg si veda almeno l'articolo di Gary Strauss da USA Today sul "genius loci" di New Orleans (f.b.)

C’è la Matera dei Sassi e c’è la Matera nuova. Questa si espande in larghezza, ma soprattutto in altezza, accatastando pezzi su pezzi in modo sconclusionato, consumando terreno e aria, sfidando i dislivelli e imponendosi a chi arriva da fuori, dalla statale che attraversa i campi di ulivi e di quercioli della Murgia, con uno spettacolo vertiginoso. E contro un paravento di cemento va a sbattere lo sguardo di chi aveva letto che Matera era diversa da molte città del Mezzogiorno, divorate dalla speculazione. Qui aveva lavorato Adriano Olivetti. Poi, muovendosi nella sua scia, alcuni architetti hanno studiato come risanare i Sassi e come cucire le due parti della città, quella moderna e quella antica, con le caverne trogloditiche e le case costruite con il tufo cavato dalla roccia calcarenitica - senza che la prima tracimasse nella seconda e senza che questa si ritirasse in una riserva, diventando un museo a cielo aperto.

Molte speranze sono nate allora e poi si sono esaurite. Ora la città nuova cresce senza regole e sui Sassi incombono alcune vistose manipolazioni. La denuncia vibra dalle pagine di un numero speciale della rivista Basilicata, un periodico che ha cinquant’anni di vita e padri illustri (lo stesso Olivetti, gli azionisti, Guido Dorso, Carlo Levi, Tommaso Fiore, Manlio Rossi-Doria), ma che ora esce con cadenza irregolare. E diretto da Leonardo Sacco, ottantadue anni spesi quasi tutti studiando, lavorando in case editrici, inventando giornali e facendo opposizione ai fascisti, ai democristiani di Emilio Colombo e ora a un centrosinistra che nella regione supera il sessanta per cento, a Matera il settanta.

La prima tappa nei Sassi minacciati è lungo i suoi bordi, dove un tempo sorgeva un mulino che negli anni Cinquanta venne ampliato con una torre. Serviva più spazio, si disse, servivano posti di lavoro. Il proprietario era il sindaco di Matera e anche se i Sassi ne uscivano deturpati, in quegli anni pochi si preoccupavano dell’integrità di quelle costruzioni che anzi venivano abbandonate perché, si diceva, erano indegne come abitazioni. Passarono i decenni e un giorno il mulino chiuse. Era l’occasione per demolire la torre e ripristinare l’integrità paesaggistica. E infatti nei primi anni Novanta i redattori di una variante al piano regolatore avevano previsto di buttarla giù. Ma una commissione regionale ai beni ambientali sancì che quella torre aveva «carattere storico», venendo così incontro ai desideri della nuova proprietà che al posto del mulino voleva farci appartamenti e altre residenze. La torre la stanno ultimando in queste settimane, l’edificio è ancora avvolto dalle impalcature, e con la sua mole e le finestre a strapiombo continuerà a opprimere i Sassi.

I Sassi occupano un’area di trenta ettari. Si distendono lungo il fianco di una rupe che scende verso il torrente Gravina. A sinistra è il Sasso Barisano, che guarda verso Bari, a destra il Caveoso. Non sono solo caverne. La costruzione dei Sassi iniziò alla fine del Cinquecento, quando sempre più numerose le case presero a disporsi come un collare intorno alla Chiesa Madre, costruita nel 1270. E un paesaggio aspro, un anfiteatro che sembra uscire dal ventre della terra. Pier Paolo Pasolini lo scelse per girarvi il Vangelo secondo Matteo, Mel Gibson per ambientarvi La Passione. Per secoli ha custodito la vita, il lavoro, i culti dei materani. Una strada sinuosa lo attraversa, tocca il limite basso del Gravina e poi torna a inerpicarsi. Dopo una curva sbuca davanti alla chiesa cinquecentesca di Sant’Agostino. Nel convento che è annesso ha sede la Soprintendenza ai beni architettonici e ambientali e proprio davanti agli uffici c’era un grande giardino con alcuni filari di cipressi secolari. C’era: al suo posto ci sono grandi buche e montagne di terra rimossa e tutto intorno corre la recinzione di un cantiere. Cos’è successo lo spiega Raffaele Giura Longo, storico dell’età moderna all’Università di Bari, per tre legislature prima deputato e poi senatore come indipendente nel Pci: «La Soprintendenza, alla quale spetta la tutela dei Sassi, ha pensato bene di costruirsi un parcheggio per non so quanti posti, senza neanche consultare il Comune. Ha avviato i lavori, ma per fortuna siamo riusciti a bloccarli e il cantiere è rimasto così, abbandonato. Però i cipressi non ci sono più».

Giura Longo fa parte con Sacco del gruppo che pubblica Basilicata, viene da una storica famiglia materana. Dal terrazzo di casa sua mi mostra una torretta sorta sul tetto di un edificio proprio lì davanti. «E alta quattro metri», insiste Giura Longo, «l’ha costruita il figlio del presidente del Tribunale di Matera per rivestire l’impianto di un ascensore. Noi abbiamo fatto un esposto e il Comune ha fermato i lavori. Il proprietario ha pagato una multa e i lavori sono ripresi». Ci infiliamo nelle strade che portano al Duomo. Da una loggia Giura Longo indica un cantiere sulla sommità di un palazzo seicentesco, il Palazzo Venusio. E una struttura con delle aperture ad archi. «Guardi lì, quella sopraelevazione non c’era, ora è quasi completa. Il proprietario del palazzo è il fratello di Guido Viceconte, Forza Italia, sottosegretario al ministero delle Infrastrutture. Si dice che voglia farne un albergo e un centro congressi».

La percezione dei Sassi non è stravolta da queste costruzioni. Ma in un contesto così delicato ogni piccola trasformazione produce effetti a catena, sono ferite che inducono un senso di impunità. I Sassi sono tutelati da una legge del 1986 che affida il loro risanamento al Comune. Ma la storia moderna dei Sassi è più lunga, inizia nel dopoguerra ed è densa di progetti e di illusioni. E’ un laboratorio in cui si fondono discipline antiche come l’archeologia e modernissime come l’urbanistica, che in quegli anni andava rifondandosi, o come la sociologia urbana appena approdata da oltreoceano in un Mezzogiorno di grandi fermenti. L’Italia scoprì i Sassi dalla descrizione che ne fece Carlo Levi e venne a sapere che quasi ventimila persone abitavano quelle case, ammassandosi spesso insieme alle bestie in tuguri senza luce. Su mille bambini nati, si calcolò, ne morivano 436. Vennero alimentate pulsioni opposte: quella regressiva di un ritorno a condizioni di esistenza premoderne e quella semplificatoria, contratta nello slogan: svuotiamo i Sassi.

La via più impegnativa la percorse Olivetti che nel 1951 istituì una commissione di studi di cui fecero parte gli urbanisti Federico Gorio e Ludovico Quaroni e che era ispirata dal sociologo americano Frederick Friedmann (dal 1948 l’imprenditore di Ivrea era presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica e Quaroni era il suo vice). L’indagine accertò che solo una parte del patrimonio edilizio dei Sassi era irrecuperabile, mentre la maggioranza delle case, quasi duemilacinquecento, aveva bisogno solo di interventi di recupero per essere restituita a chi l’abitava, perché solo abitandoli i Sassi sarebbero sopravvissuti. Contemporaneamente bisognava costruire moderni quartieri popolari.

Seguendo queste linee fu approvato un ambizioso piano regolatore redatto da Luigi Piccinato, figura illustre dell’urbanistica di quegli anni. Ma già dal 1952, quando venne varata la prima legge per Matera, i Sassi cominciavano a essere abbandonati. Furono allestiti quartieri-modello, almeno sulla carta, come La Martella, un borgo rurale progettato da Quaroni che avrebbe dovuto conservare un legame stretto con la campagna e che invece appassì, riducendosi al rango di periferia disagiata. Nel frattempo i Sassi, ormai vuoti, erano diventati un ferro vecchio, un muto documento etnologico.

Soltanto nel 1977 l’attenzione sui Sassi si concretizzò in un concorso internazionale che aveva lo scopo di arrestarne il degrado. Ma il concorso ebbe un esito paradossale. Prevalse, ma senza che venisse proclamato vincitore (l’amministrazione comunale volle continuare a mantenersi le mani libere), il gruppo guidato dall’urbanista Tommaso Giura Longo, fratello di Raffaele, che insieme a Luigi Acito, Carlo Melograni, Lorenzo Rota e altri, misero a punto un progetto di risanamento in linea con gli studi olivettiani: i Sassi dovevano tornare a vivere e ospitare abitazioni restaurate e servizi per circa quattromila persone.

Qualche progetto fu avviato, ad opera del pubblico e di privati. Molti manifestarono interesse a tornare nei Sassi. Ma mancò un piano sistematico. Il Comune aveva più a cuore l’espansione della Matera moderna che non la cucitura dei nuovi insediamenti con l’anima rupestre della città.

A quasi trent’anni dal progetto Giura Longo molte abitazioni sono restaurate e in esse vivono duemilacinquecento persone, molte attività di pregio vi si sono insediate, gallerie d’arte, centri culturali, la sede dell’Ente Parco della Murgia. Ma tantissimi, troppi, sono gli edifici trasformati in alberghi o in bed and breakfast (si calcolano circa ottocento posti letto, anche se molte ristrutturazioni sono state realizzate correttamente). Tantissimi sono i ristoranti, i pub, le pizzerie, che producono uno straniante effetto luna-park, tantissime le macchine, tanti i materani che si improvvisano imprenditori e che ottengono licenze per impiantare nei Sassi attività molto effimere. «Alle regole di una corretta urbanistica», spiega Tommaso Giura Longo, «si preferisce un’urbanistica "creativa", dando credito a interventi singoli e disaggregati, che favoriscono il profitto privato e scartano invece le iniziative unitarie, dirette dalla mano pubblica».

Ma i Sassi deperiscono anche perché su di essi incombe la Matera moderna, quella che in questi anni sta divorando tutto lo spazio disponibile. Dopo quello di Piccinato, un nuovo piano regolatore è stato avviato, ma ancora non se ne vede la fine. Nel frattempo il Comune e i costruttori hanno contrattato in questi anni interventi imponenti, come il Centro direzionale o la cosiddetta Zona 33, una smisurata foresta di grattacieli che sperimentano gli stili più disparati e i materiali più fantasiosi. Le vicende edilizie hanno conosciuto anche tribolazioni giudiziarie. Nell’aprile scorso è finito agli arresti domiciliari (poi revocati) il dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune, l’architetto Francesco Gravina, accusato di peculato, abuso d’ufficio e falso ideologico nella gestione dei Pisu (Progetti integrati di sviluppo urbano), una trentina di interventi finanziati con 32 milioni di euro. E un mese fa si è dimesso l’architetto Mimmo Fascella assunto al Comune neanche un anno prima per rimettere ordine dopo lo scandalo dei Pisu: se n’è andato sbattendo la porta e contestando le scelte urbanistiche dell’amministrazione.

La Matera «nuova» cresce sfiorando altezze da capogiro e sfoggiando architetture pretenziose. In alcune zone lo scarto provoca un sapore acido. Come in quel lembo di città che sfila verso la campagna, dove un esercito di palazzoni con i vetri a specchio sovrasta un piccolo, ordinato quartiere di edilizia popolare. Li divide una strada che qualcuno, ingenuamente, ha voluto intitolar

Marina Lecis, minuta, iperattiva, occhi brillanti sotto una cascata di riccioli rossicci, sarda trapiantata in Cadore, corrispondente da Cortina d'Ampezzo per il Corriere delle Alpi, scopre, il giorno di ferragosto di quest'anno, che circa un mese prima, il 21 luglio era stato pubblicato su Repubblica e Gazzettino un avviso che annunciava la procedura di partecipazione alla valutazione d'impatto ambientale di un'opera di cui nessuno, fino a quel momento, aveva segnalato l'esistenza. Un'opera che avrebbe stravolto l'Ampezzano e l'intero territorio di Cortina: una circonvallazione di 11,328 km, chiamata «Ss 51 di Alemagna-Variante all'abitato di Cortina d'Ampezzo».

Tutti i no della Soprintendenza

La mattina del 16 agosto si precipita in Comune dove però non riesce a farsi consegnare il progetto. Si appella al capogruppo della minoranza in Comune, Francesco De Menego, ma anch'egli non ne sa nulla. Decide allora di agire in proprio e si precipita a Venezia presso la Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso, dove, oltre a prendere visione della documentazione e della sintesi non tecnica della valutazione d'impatto percepisce che la Soprintendenza sta per redigere un parere tutt'altro che favorevole all'opera. Il parere avrà la data del 23 agosto. Marina Lecis ne scrive, verificando poi sul territorio gli impatti segnalati dalle osservazione della Soprintendenza che ha scritto, nudo e crudo: «Per quanto riguarda l'impatto paesaggistico della variante proposta, si rileva che questo risulta eccessivo e tale da comportare l'alterazione dei tratti caratteristici della località protetta che sono la ragione stessa per la quale l'intero territorio comunale di Cortina d'Ampezzo è stato sottoposto a vincolo, ai sensi della normativa di tutela ambientale attualmente vigente».

La Soprintendenza segnalava problemi per la galleria Zuel (impatto su frane attive, falde e biotopi), impatti paesistici del viadotto-bretella di collegamento tra lo svincolo di Cortina Sud e l'Albergo Miramonti, l'irrimediabile alterazione di una delle poche aree naturali cortinesi con lo svincolo di Cortina Sud, la compromissione della sinistra orografica e ripariale del fiume Boite con la bretella di collegamento tra Cortina Sud e la statale 48 per il passo Falzarego, la compromissione della frazione di Alverà. Lecis si reca ad Alverà per capire se la popolazione ne sa qualcosa e si rende conto che nessuno sa dell'opera.

Nel frattempo, i suoi articoli allarmano la giunta forzista di Cortina che aveva cercato di occultare il progetto. Il sindaco avvocato Giacomno Giacobbi e l'ex sindaco, ora assessore, Paolo Franceschi immediatamente invitano consiglieri comunali e stampa a una seduta di presentazione del progetto Anas. Un'ufficializzazione che non sarebbe mai avvenuta senza il lavoro della Lecis.

Nel corso dell'incontro, gli amministratori non prestano attenzione ai problemi ambientali. Si dichiarano in perfetta sintonia con il ministro Lunardi, attivo frequentatore di Cortina. Una sola idea hanno per la testa: i soldi, quei 441 milioni di euro per la realizzazione dell'opera che vanno subito reperiti nei fondi europei, collocando il progetto nell'ambito del «Corridoio 5» e nulla importa se, nella realtà, la realizzazione di quest'opera rappresenterebbe il completo sconvolgimento della valle e la negazione di alcuni fondamentali principi di metodo e analisi cui la valutazione d'impatto ambientale dovrebbe attenersi.

Il tracciato non tiene assolutamente conto dei concetti base della legge 97/1994 (Nuove disposizioni per le zone montane), i quali ribadiscono come lo sviluppo della montagna debba avvenire tramite tutela-valorizzazione delle qualità ambientali e delle potenzialità endogene dell'habitat montano e prescinde da una delle fondamentali leggi regionali del Veneto, la 11/2004 (Norme per il governo del territorio), la quale prevede il non avvio di interventi progettuali impattanti in assenza di una valutazione strategica dei piani, sulla base della Direttiva 2001/42 Ce del 27 giugno 2001. Me lo ricorda l'arch. Marco Stevanin dello Studio Terra di San Donà di Piave. Lo stesso presidente della Provincia di Belluno, Sergio Reolon, a capo di una giunta di centro-sinistra mi ribadisce che questo genere di infrastrutture dovrebbe essere pianificato sulla base di un piano strategico che, per ora, manca e che la Provincia dovrebbe varare entro 6 mesi.

Marco Stevanin, con l'avvocato Luigi Ceruti, si è posto completamente al servizio dei cittadini di Cortina insorti contro un tale scempio, grazie all'impegno ed al coordinamento di un pensionato, ex fondista, Sergio Maioni, la cui placida serenità nel porsi in posizione antagonista al potere forzitaliota e la cui costante dedizione alla salvaguardia e alla tutela del territorio, lo renderebbero degno di sfidare gli attuali, compromessi amministratori, per la carica di sindaco, nel 2007.

L'analisi ecosistemica

Maioni ha imparato molto dalla frequentazione di Lecis, Stevanin e Ceruti. Sa che il territorio interessato dall'infrastruttura, nel suo delicato equilibrio tra ambiente naturale ed ambiente antropico, disegnato dalle «Regole», non può essere esaminato e valutato prescindendo dai principi stessi della Landscape Ecology, ovvero da un'analisi ecosistemica delle relazioni dinamiche che esistono tra le fondamentali componenti naturali, aree cotonali, aree sorce-sink e l'insieme della rete ecologica. Sa che quest'inutile infrastruttura lineare, in un ambito segnato dal delicato equilibrio uomo-natura, interromperà fondamentali connessioni ecologiche, distruggerà habitat e biotopi.

Mi ricorda che il progetto non tiene conto dei numerosi impatti già esistente in valle, come il campo da golf di 18 buche di Fraina-Noulù, in comune di Cortina e della centrale idroelettrica del Rio Falzarego-Ponte di Landries. «Certo - dice - a nessuno degli amministratori di Cortina importa degli impatti cumulativi. Vedono solo la possibilità di meglio collegarsi con il corridoio europeo numero 5, sul tracciato Lisbona-Kiev, per accogliere le nuove, possibili clientele invernali ed estive dell'est».

C'è anche dell'altro. Il progetto, in sé non considera alcuno scenario alternativo, quale il ripristino della linea ferroviaria Calalzo di Cadore-Cortina d'Ampezzo-Dobbiaco o il progetto della viabilità presentato dalla minoranza in consiglio comunale, un'ipotesi di modesto impatto ambientale, teso a migliorare la circolazione nell'Ampezzano.

L'amministrazione forzista di Cortina dovrebbe ricordarsi, nel suo accecato sostenere l'infrastruttura e nel suo negarsi a qualsiasi confronto con i cittadini, del fatto che le opere più impattanti del progetto, la galleria Piè Rosà, la galleria Meleres, lo svincolo Cortina Sud, le gallerie Riva e Zuel, sono localizzate nei margini cotonali di sistemi ambientali dalla forte criticità, identificati, dal Piano regolatore generale, quali aree di interesse naturalistico: la zona umida di Noulù, il lago Marzo ed il bosco in località Fraina, la zona umida del Pisandro di Fiames, il biotopo lungo le sponde del fiume Boite.

Anche le opere di cantiere non debbono essere sottovalutate in un ambito come quello Ampezzano. Come reagirà il turismo ad almeno 6 anni di cantieri e a un feroce andirivieni di un totale di 160.000 camion che sposteranno non meno di un milione e mezzo di metri cubi di smarino? Che ne sarà della frazione di Alverà e delle residenze prossime all'imbocco della galleria sud del Piè Rosà, irreversibilmente segnate da queste opere? Cortina perderà anche il percorso storico della passeggiata Convento a Campo di Sopra, trasformata in strada di collegamento del cantiere.

Infine il problema clou, il vero problema. La geologa Maria Luisa Perissinotto della Società Terra ed il professor Rinaldo Genevois dell'Università di Padova, sottolineano la gravità delle problematiche geologiche dell'area. Genevois da 8 anni si occupa delle colate detritiche dell'area di Cortina. Ne ha censite ben 329. Le gallerie si inseriranno in questi corpi di frana. La testimonianza di Genevois che ha al suo attivo 35 anni di docenza in geologia applicata presso una prestigiosa università come Padova, non sembra interessare gli amministratori. Lui non sapeva nulla di questo progetto e sconsolato mi dice: «La soluzione, come presentata, non è buona».

1400-1600 tir al giorno

La giunta di Cortina resta indifferente, anche al fatto che se, dopo la realizzazione dell'opera, anche solo il 20% del traffico del Brennero prendesse la via della Val Punteria e della Valle del Boite, nell'Ampezzano si riverserebbe un traffico di transito di 1.400-1.600 tir/giorno. Forza Italia non ascolta neppure il commissario all'urbanistica della minoranza in consiglio, Stefano Verocai, il quale ricorda come il Consiglio comunale abbia deliberato la creazione di un gruppo di lavoro ad hoc che discutesse sulla realizzazione non di una tangenziale, ma di una strada di scorrimento. Per Verocai il progetto Anas è figlio di un input preciso della giunta: la realizzazione del parcheggio scambiatore in area Convento. Verocai confessa, anche per smentire il sindaco, che non si dispone di dati specifici sul traffico in entrata e uscita da Cortina e che una viabilità più adeguata per la valle del Boite non è certo quella disegnata dal progetto Anas.

Forse sarebbe utile che l'amministrazione di Cortina fosse meno spocchiosa, che si confrontasse con la gente, (non lo ha fatto nel corso dell'incontro voluto dai cittadini e patrocinato dalla Università Iuav di Venezia, presso il PalaVolkswagen, sabato 26 novembre,) e che si acculturasse un pochino, magari leggendo il bel libro Managing Mountain Protected Areas: Challanges and Responsures for the 21st Century, curato da David Harmon e Grame Worboys per l'Editrice Andromeda, dove sono raccolti gli atti del Convegno promosso a Durban nel 2003 dalla Uicn. I testi che il volume raccoglie rappresentano quanto di più avanzato sia stato prodotto nell'ultimo decennio dagli operatori tecnico-scientifici e dalla gestione del territorio sul tema della tutela del territorio montano, temi e problemi affrontati oggi dai cittadini di Cortina a fronte di un'opera infrastrutturale distruttiva dell'ambiente montano.

Titolo originale: New homes plan thrown into chaos – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

I progetti per costruire milioni di abitazioni in tutto il Regno Unito sono stati messi in dubbio dopo le osservazioni fortemente critiche di due importanti organismi governativi.

La notizia colpisce al cuore i piani del Labour per risolvere la crisi abitativa della Gran Bretagna costruendo case su ampie distese di campagna, e sarà fonte di grave imbarazzo per il governo.

Si devono realizzare oltre 4 milioni di nuove case in tutto il paese. Uno dei progetti nella regione orientale dell’Inghilterra – che riguarda 500.000 abitazioni – è considerato l’esempio simbolo.

Ma la Countryside Agency e English Nature in un rapporto reso pubblico questa settimana mettono in guardia sul fatto che questo piano mette “ seriamente a rischio” “ paesaggi e habitat di rilevanza nazionale”.

Se attuato il piano causerebbe “ danni significativi” degradando i caratteri del paesaggio inglese, frammentando gli habitat naturali, inducendo prelievi d’acqua con impatti insostenibili sull’ambiente.

Il rapporto è un grave colpo alla credibilità delle promesse governative di mettere a disposizione case a prezzi accessibili.

Le due agenzie complessivamente condannano il Sustainable Communities Plan del Labour, e altre politiche nazionali su cui si basano le strategie di sviluppo regionale. L’approccio governativo è “ contrario al concetto di sostenibilità”, affermano.

”Sembra [il governo] poco serio riguardo allo sviluppo sostenibile e alla tutela dell’ambiente, perché a quanto pare ritiene di poter fare progetti e poi attuarne dei pezzi. Le conseguenze sono un probabile degrado della qualità ambientale e di quella della vita nella regione” dice Henry Oliver della Campaign to Protect Rural England.

Ma l’Ufficio di Vicepresidenza del Consiglio difende la sua politica. “La pressione per nuove abitazioni non è determinata dal governo, ma da una popolazione in crescita e invecchiata, da più persone che abitano da sole” sostiene un portavoce. “Negli ultimi trent’anni abbiamo visto un incremento del 30% nel numero dei nuclei familiari, contro una caduta del 50% delle abitazioni realizzate. Questo non è sviluppo sostenibile”.

Il rapporto sarà allegato alla documentazione ufficiale della riunione sui piani per l’est Inghilterra, prevista dalla regional spatial strategy (RSS), che si inaugura martedì. Il progetto, il principale e il primo ad essere sottoposto a vaglio ufficiale completo, propone quasi mezzo milione di nuove abitazioni, impianti produttivi e spazi per attività terziarie, oltre a 67 piani stradali.

A livello nazionale i progetti del governo sono stati criticati per aver sovrastimato le dimensioni dell’intervento necessario, concentrando troppe costruzioni nelle già affollate zone del sud-est inglese, e per non aver insistito sufficientemente su rigidi standard ambientali, come la progettazione a basso consumo energetico.

Lo Environmental Audit Committee – dominato dal Labour – ha anche ricordato che gli impatti ambientali “meritano un’attenzione molto maggiore”.

In quest’ultimo rapporto le due agenzia, che presto si fonderanno, riconoscono “ la necessità di prevedere e localizzare costruzioni” e lodano anche alcuni aspetti di una strategia “ raccomandabile e che deve essere sostenuta”. Ma affermano anche che “ non c’è alcuna traccia” della verifica che questi progetti non possano danneggiare “ elementi ambientali di base”, e che la valutazione indipendente di sostenibilità li aveva giudicati di “ danno significativo” per paesaggi, habitat naturali e acque.

Il rapporto continua: “ Raggiungere un equilibrio implica uno scambio fra due obiettivi concorrenti, dove è necessario accettare il fatto che una perdita dal punto di vista di una componente sia necessaria per avere vantaggi un un’altra”. E aggiunge: “ Secondo gli obiettivi di crescita proposti l’effetto finale del RSS potrebbe NON [enfatizzazione degli Autori ] garantire un futuro sostenibile per la regione. Questo risultato sarebbe contrario agli obiettivi istituzionali del sistema di pianificazione ... In più le presenti agenzie ritengono che alcune delle basi del progetto non diano sufficiente conto delle questioni ambientali e di qualità della vita, e di conseguenza definiscano un contesto inadeguato su cui basare le strategie”.

Il rapporto chiede invece che le regioni valutino quanta crescita sia sopportabile dal proprio ambiente, e poi prevedano misure per la mitigazione degli impatti “ giustificati”.

”Non stiamo dicendo che non vogliamo edificazione” dice Graham Smith, responsabile di area per English Nature. “Si deve adeguare il ritmo di realizzazione, per non sacrificare un obiettivo sull’altare di un altro”.

Il gruppo di verifica indipendente, nominato dal governo, riferirà al Vicepresidente del Consiglio, che si prevede renderà pubbliche le eventuali modifiche nel rapporto finale atteso per il 2007.

Nota: il testo originale al sito del Guardian/Observer (f.b.)

Titolo originale: EL PORTAL: Laredo envisions huge retail project – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

LAREDO – il Rio Grande separa due città, una con aspettative economiche e l’altra che porta il peso dei cartelli della droga, violenti e armati. Il destino dell’una potrebbe plasmare il futuro dell’altra.

Laredo, negli Stati Uniti, progetta di realizzare un progetto commerciale da 85 milioni di dollari, con al un mall, che dovrebbe attirare clienti messicani, principalmente da Monterrey, città industriale a due ore di distanza con la più grossa percentuale di milionari del Messico.

Nuevo Laredo rappresenta la faccia messicana di questo “portale”, con 120 morti quest’anno e una quarantina di rapimenti in tempi recenti, attribuibili ai cartelli della droga.

La violenza ha devastato l’attività turistica di Nuevo Laredo.

I tentativi della città di contrastare il crimine devono avere successo, perché anche sul versante messicano del confine si realizzino i benefici economici del mall, chiamato El Portal, dice Octavio Almanza, direttore della promozione turistica a Nuevo Laredo.

“La gente qui in Messico è attratta dai centri commerciali degli Stati Uniti, perché offrono prezzi più bassi” continua Almanza.

”Stiamo facendo piccoli passi in avanti per quanto riguarda il problema della violenza, così che i clienti possano sentirsi sicuri nell’attraversare il confine a Nuevo Laredo”.

Gli investitori del Mall non hanno comunicato i marchi dei negozi con cui sono in trattative.

Comunque, gli operatori commerciali nei pressi del futuro complesso credono che sia necessario attirare grossi nomi per creare il tipo di flussi e benefici economici sperati.

Alcuni consiglieri comunali osservano però che colpisce la priorità conferita al progetto El Portal quando appena oltre confine c’è tanta violenza incontrollata.

”Speriamo che sia di vantaggio alla città, ma forse dovremmo fare qualcosa a proposito della violenza, e solo dopo iniziare a parlare di sviluppo economico” dice Joe Guerra, ex consigliere di Laredo.

Mike Garza, direttore dei servizi allo United Independent School District di Laredo, suggerisce altri modi di investimento per le risorse della città.

”Le infrastrutture mi sembrano un elemento critico. E per la violenza, c’è bisogno di più polizia per proteggerci” dice Garza.

Ma certo gli investitori non ci metterebbero milioni, se la zona non fosse sicura per i clienti, dice Allan Davidov, investitore in questo progetto e socio della Morgan Stern Realty di Beverly Hills, California.

Il piano El Portal è un investimento misto pubblico-privato rivolto ai 9 milioni di pedoni e 17 milioni di veicoli che annualmente attraversano questo punto del confine.

Il potenziale, sostengono gli interessati, comprende la rivitalizzazione del centro città, un nuovo gettito fiscale per le casse municipali, e il rafforzamento delle relazioni col Messico per lo sviluppo economico della fascia di confine.

Le costruzioni, per quanto riguarda la parte della città, sono già iniziate, e si stima una spesa di 25 milioni di dollari, che saranno pagati da emissioni garantite dai pedaggi di attraversamento del ponte. La Horizon Group Properties di Chicago, proprietaria di 10 complessi commerciali in tutto il paese, rappresenta in con la consociata Morgan Stern Realty la parte privata del progetto.

Una volta completato, il complesso commerciale metterà a disposizione circa 40.000 metri quadrati, a 50 negozi.

Nota: il testo originale ripreso dalla Associated Press, al sito Houston Chronicle ; un altro caso di "funzione anomala" dei centri commerciali riportato su Eddyburg, era quello sudafricano di Soweto (f.b.)

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