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Titolo originale: After $12,000, There's Even Room to Park the Car – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini

WESTBURY, NewYork - Angela Aloi cominciava il giro della sua nuova casa familiare da sogno a Long Island nello stesso modo di tanti orgogliosi proprietari suburbani.

Guidava i visitatori tra le varie icone del benessere che ornano la casa in stile coloniale: il foyer su due piani, il bancone della cucina in granito e le finiture in acciaio inossidabile, il patio in pietra e legno di acero. Ma quando si arrivava al soggiorno – appena passato il grande schermo televisivo e il bar di marmo – faceva una rapida giravolta, usando il proprio corpo per nascondere la porta che va in garage, quasi fosse un lucchetto umano.

”Se potevo evitarlo, nessuno doveva vedere quel pasticcio” dice. “Era una discarica. Addobbi natalizi, biciclette, vestiti, attrezzature da boy scout, scatole e scatole di carabattole. E sei martelli, perché ogni volta che ce n’è bisogno uno dobbiamo comprarlo nuovo, visto che gli altri non si trovano. L’ho detto a mio marito: quel garage è il simbolo di una mente molto malata”.

Ma alla fine dello scorso anno la signora Aloi, il marito e i loro tre figli sono finalmente riusciti a conquistare quella discarica familiare, e a trasformarla nello status symbol all’ultima moda, il garage firmato.

La pattumiera casalinga è stata sostituita da pavimenti brillanti, fatti di piastrelle in plastica durevoli e facili da pulire,e un gruppo coordinato di contenitori di plastica antidisordine. L’insieme è così ordinato che ci stano anche il fuoristrada di famiglia, la dispensa, gli attrezzi per il giardino e il tosaerba, le cose per le attività sportive, altri attrezzi e addirittura uno spazio per il sollevamento pesi.

Sperando di evitare una valanga di battute sui rinnovi, gli Aloi non hanno detto ai vicini di aver speso 8.000 dollari per far fare il tutto a un professionista.

Ma potrebbero essere sorpresi, dalla diffusa comprensione: i proprietari di casa suburbani sono tanto pieni di ansia, sensi di colpa e impotenza per i propri garages straboccanti da aver speso un totale di 800 milioni di dollari in prodotti per l’organizzazione del garage lo scorso anno, il doppio rispetto al 2000, secondo una ricerca di mercato della Packaged Facts. Alleviare questo senso di colpa da garage può facilmente costare 12.000 dollari per volta.

La quantità di soldi spesi in rifacimento di garage dovrebbe aumentare del 10% l’anno nel prossimo decennio, facendone uno dei segmenti di mercato degli interventi di manutenzione edilizia in crescita più rapida.

La National Association of Professional Organizers calcola oltre 500 attività specializzate in questo campo, il doppio che nel 2000. Ma per chi vuole farsi da solo il lavoro, c’è un assortimento di nuovi sistemi e prodotti tale da far sembrare l’assicella coi chiodi per gli attrezzi del nonno assolutamente paleolitica.

”Negli anni ’80 ci sono stati i famosi garages della California” dice Bill West, autore di Your Garagenous Zone: Innovative Ideas for the Garage, uno della mezza dozzina di libri sull’argomento dei garages disordinati. “Oggi. È proprio lì dentro che succede tutto”.

In qualche modo, è strano che i prorpietari suburbani si stiano rivolgendo proprio ora al feng shui del garage. Secondo la National Association of Homebuilders, le dimensioni della casa media costruita negli Stati Uniti sono aumentate di oltre il 50% fra il 1970 e il 2004, anche se decrescevano quelle della famiglia media. Siti internet come eBay dovrebbero aiutare i proprietari a trasformare le proprie cianfrusaglie in contanti alimentando gli appetiti dei collezionisti di mezzo globo. Anche gli stessi garages sono cresciuti: l’83% delle nuove case costruite nel 2004 ne aveva 2 o 3, il doppio che nel 1970.

Ma la lievitazione del commercio online e l’alluvione di prodotti poco costosi di importazione ha reso sin troppo facile per gli acquisti occasionali ingorgare anche le McMansions. Così ora il paesaggio di innumerevoli lottizzazioni americane ora mostra una particolare anomalia: i garages da tre auto tanto pieni di carabattole, che le tre auto sono parcheggiate sul vialetto.

Nella casa della famiglia Costa a Shrewsbury, New Jersey, la decisione di spendere 12.000 dollari in un intervento sul garage verso la strada nasce contemporaneamente dall’esasperazione e dalla vergogna. Barbara Costa, il marito Vincent, e i tre figli, avevano ammucchiato tante cose che le macchine venivano strisciate frequentemente da bidoni della spazzatura o manubri delle biciclette. A peggiorare le cose, il garage del vicino era il ritratto dell’ordine.

”Ci si poteva mangiare sul pavimento, là” racconta la signora Costa. “È un fanatico di queste cose. Lo vediamo sempre pulire, o dire alla gente di raccogliere qualcosa. Ma quando si vede che magnifico garage ha, bisogna riconoscerglielo”.

I Costa hanno tentato di risolvere la cosa da sé in un primo tempo, affittando attrezzature di tipo industriale per gestire grandi quantità di cose scartabili. Ma nel giro di qualche mese, il garage era di nuovo un ammasso confuso.

Verso la fine dell’anno scorso, la situazione è diventata tanto al limite che i Costa hanno pensato ad una soluzione radicale, aggiungere una terza ala al loro garage per due auto. È allora che hanno visto il volantino pubblicitario di una ditta che organizzava garages, e hanno deciso che anche quel prezzo piuttosto caro era comunque più economico di una nuova costruzione.

”E speriamo che resti così – dice la signora – altrimenti dovrò andare a chiedere consulenza al mio vicino”.

non ci sono dati affidabili per stabilire quanti garages rinnovati siano stati in grado di contenere la marea inesorabile di nuovi oggetti nel lungo termine. Ma il sito web della National Association of Professional Organizers Web offre provocatoriamente qualche incoraggiamento, citando un sondaggio fatto dalla compagnia di mobili Ikea nel 2001, che inesplicabilmente afferma come il 31% degli intervistati abbia dichiarato di trarre più soddisfazione dalla pulizia del ripostiglio che non dal sesso.

Barry Izsak, presidente dell’associazione, afferma che anche se alcuni consumatori possono essere riluttanti a pagare per una consulenza professionale, costo fino a 200 dollari l’ora, raramente sente di reclami da parte dei proprietari di garages che si buttano nell’impresa.

Izsak dice che il problema centrale per i garages con questi problemi è la mancanza di un’idea chiara. Si tratta di uno dei pochi spazi usati da tutti, in famiglia, spesso il più grande della casa, ma è uno spazio privo di struttura il che lo trasforma in un pigliatutto. “La gente tiene tutte queste cianfrusaglie inutili, come cataste di National Geographic alte due metri mezze mangiate dai topi e colonizzate dagli scarafaggi” dice Izsak.

”È solo una stravaganza”.

Peter Walsh, psicologo che si è guadagnato la fama professionale di celebrity organizer come partecipante al programma televisivo via cavo “ Clean Sweep” per quattro stagioni, ha ampliato il proprio campo dalla cura dei sintomi del disordine allo studio delle sue cause.

”C’è un’orgia consumistica in questo paese” dice Walsh, che sta per pubblicare un libro dal titolo It's All Too Much (Free Press), sulla psicologia dell’ammucchiare cose. Walsh riconosce di essere una voce solitaria nell’auspicare una nuova epoca di ascetismo americano.

”È la società dell’Io-Extralarge” dice. “Quindi ci vorrà un po’ di tempo”.

Intanto, la comunità degli organizzatori professionisti può trovare conforto in persone come Cary Africk di Montclair, New Jersey, riordinatore recidivo. Qualche anno fa, ha incaricato una ditta locale, la In Order, di scavare nell’alluvione di carte del suo studio di ingegneria. Ha funzionato così bene che li ha richiamati l’anno dopo a bonificare l’ammuffito seminterrato. L’anno scorso, Africk li ha chiamati per farsi riportare il mucchio di cose che una volta stava nel suo garage.

Africk sostiene che, finché la società americana continuerà a inondare le persone con carte e oggetti, lui sarà disposto a pagare per tutto l’aiuto organizzativo che riesce a trovare.

”Credete che ci sia qualcuno, là fuori, che possa aiutarmi a trovare un senso in tutta la spazzatura di files del mio computer?” dice.

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Metropoli come Pechino e Amsterdam. Città come Salerno e Verona. Ovunque si trasforma il volto del tessuto urbano. E poter sfoggiare l'opera di un grande architetto è il nuovo status symbol.

Ci sono città che devono inventarsi un'altra vita. Altre che alla vita che già hanno ne devono aggiungere una nuova, sfarzosamente contemporanea. E altre ancora che in un palcoscenico di primedonne, occupato da Barcellona, Berlino, Londra e Amsterdam, devono sgomitare per ritagliarsi un quarto d'ora di celebrità. E la carta su cui puntare è l'architettura, che occupa i media. Gli Archistar, divenuti maître à penser, sono riusciti quasi a zittire gli stilisti e a dare la linea nella creatività contemporanea, grazie all'indiscutibile capacità simbolica degli edifici che disegnano e al sostegno di biennali, festival e mostre che vanno dal MoMa di New York al Museo Nazionale di Pechino. Una girandola di soliti noti: Renzo Piano, Santiago Calatrava, Domenique Perrault, Alvaro Siza, Massimiliano Fuksas, Norman Foster, David Chipperfield. Capaci di proiettare le città in quel circuito di infotainment che salda turismo e cultura. E fa entrare soldi nelle casse delle amministrazioni comunali.

In Italia, dopo anni di oscurantismo architettonico, a farsi belle sono molte città. Non solo le grandi come Roma, che cerca di replicare il successo dell'Auditorium di Renzo Piano con (quando vedranno la luce) il Maxxi di Zaha Hadid e il nuovo Macro di Odile Decq, mette in cantiere la Città dei Giovani di Rem Koolhaas e quella dello Sport di Calatrava, il nuovo Centro Congressi di Fuksas e la nuova Fiera di Tommaso Valle. O Milano, che scommette sul quartiere Santa Giulia firmato da Foster, la vecchia Ansaldo trasformata in polo culturale da Chipperfield e il completamento della nuova fiera di Fuksas con gli interventi di Perrault, Araassociati, Gino Valle e Cino Zucchi. Una bella addormentata come Firenze si risveglia all'idea della stazione per l'alta velocità disegnata da Foster, mentre un pool di giovani architetti, oltre a Gabetti e Isola, sta trasformando l'area di Novoli in una avveniristica zona residenziale e di servizi. Jean Nouvel è al lavoro in un'altra area ex Fiat, a viale Belfiore. Napoli, non contenta di aver dato una 'madre' (il Museo d'arte contemporanea di Alvaro Siza) al cuore antico della città, continua a incassare favori e polemiche con i progetti di Siza e Souto de Moura (risistemazione di piazza Municipio), di Domenique Perrault (stazione Garibaldi), la stazione della metropolitana affidata a Hanish Kapoor e quella per l'alta velocità a Zaha Hadid.

Dietro le grandi, tante piccole e medie città che non si sognano di diventare nuove Bilbao (modello ineguagliabile per l'ardimentosità del Guggenheim di Gehry e per il grintoso sostegno della città), ma si accontenterebbero di bissare il successo di Valencia, Graz e Basilea, benedette da seducenti architetture e promossse nello scenario mediatico. Attraversata da gran fermento architettonico è Trento, dove l'urbanista catalano Joan Busquets lavora per restituire il fiume alla città e ridurre il traffico privato, mentre Renzo Piano rifà l'area ex Michelin,Vittorio Gregotti quella nord e Mario Botta parte dell'Università. Operazione meno complessa di quella di Sesto San Giovanni, che rinascerà come città terziaria grazie alla matita di Piano, mentre a Bergamo Jean Nouvel allunga con un chilometro rosso fuoco il profilo dello stabilimento Brembo. A Verona il progetto di trasformazione dell'ex Arsenale in polo museale a firma di David Chipperfield soffre un po' di mancanza di fondi, ma va avanti. Reggio Emilia conta cinque interventi di Calatrava, tra cui il solito incapricciato ponte piazzato all'ingresso dell'autostrada che pare gridare: 'Guardatemi!'. A Maranello Fuksas trasforma in turbonuvola il Centro Ricerche Ferrari e chissà cosa farà del vecchio Museo Piaggio di Pontedera. Non che al Sud ci si giri i pollici: Salerno rilancia con la stazione marittima di Hadid e la cittadella della giustizia di Chipperfield, Benevento affida alla matita dell'italiana Carmen Andriani il suo secondo museo d'arte contemporanea, a Palermo Perrault disegna i ponti pedonali, a Nocera Inferiore aprirà un teatro firmato Souto de Moura.

Tutto per rimettersi in pari nella competizione internazionale, ritardi permettendo. Dando il proprio contributo al fenomeno del 'turismo del nuovo' (riferimento, ancora Bilbao), per cui a Roma non si va solo per vedere il Colosseo, ma anche l'Auditorium. Rispetto all'anno precedente, nel 2005 il Parco della musica di Renzo Piano conta il 22 per cento in più degli spettatori, un incremento del 72 per cento delle sponsorizzazioni e del 20 per cento degli incassi. "Numeri che lo collocano al primo posto in Europa e secondo nel mondo solo al Lincoln Center di New York", dice l'amministratore delegato Carlo Fuortes: "Bisognava dare un simbolo visibile della città che cambiava. Ma per avere più turisti (7 per cento in più all'anno) non bastava aprire un nuovo spazio, bisognava confezionare un'offerta capace di aggiungere all'immenso patrimonio storico che abbiamo un'attrattiva contemporanea".

Che l'architettura richiami pubblico e soldi l'hanno capito bene anche a Torino, che doveva reinventarsi nel dopo Fiat (12 milioni di metri quadrati l'area dismessa dalle fabbriche). Le Olimpiadi invernali sono state un prezioso investimento, ma il successo continua. "Oggi mentre organizziamo gruppi di turisti per mostrargli il palaIsozaki e l'Oval dello studio Zoppini, stiamo anche decidendo le loro nuove destinazioni: la creatura di Isozaki sarà il contenitore dei grandi eventi e spettacoli, l'Oval ospiterà le fiere. Ma solo nel 2011, quando sarà completato l'interramento del passante ferroviario, liberando una superficie che ospiterà la nuova Biblioteca di Mario Baldini, il grattacielo per la San Paolo progettato da Piano, forse la nuova sede della Regione di Fuksas e 11 grandi opere d'arte, l'operazione potrà dirsi conclusa", spiega Anna Martina, direttore della Comunicazione, Immagine e Olimpiadi di Torino.

Tutto bene, tranne un fatto. Che la presenza dei bei nomi dell'architettura fosse necessaria per dare una spallata, è fuor di dubbio. Insistere sempre e solo su questi, magari con concorsi a chiamata, pare poco coraggioso. Ma anche qui le cose si stanno muovendo e forse è per questo che la Biennale d'Architettura (a Venezia dal 10 settembre) per la prima volta nella sua storia ospiterà una mostra dedicata all'architettura contemporanea nazionale, 'Italia-y-2026, Invito a Verma'. A fronte di una generazione di architetti italiani, oggi sessantenni, pensionata anticipatamente, una nuova leva di professionisti è sul piede di guerra. Lo studio 5+ 1AA di Genova è riuscito ad aggiudicarsi il concorso per il nuovo Palacinema di Venezia, Marco Casamonti (40 anni) e lo studio Archea sono arrivati ex aequo con l'americano Michael Maltzan per l'area Bicocca di Pirelli Re. Pietro Carlo Pellegrini sta ridisegnando quella splendida città che è Lucca, mentre Luca Cuzzolin è al lavoro per il Design Center di San Donà del Piave. Lo studio Garofalo Miura progetta la Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Roma e Mario Cucinella la sede unica del Comune di Bologna.

Non basta. "Se tra vent'anni ci ritrovassimo con 20 nuovi Calatrava, Foster, Meier o Hadid, non staremmo poi tanto meglio di ora: il Rinascimento ci insegna che non è questa la strada. Tornare a investire nell'architettura dovrebbe portare a una qualità minima diffusa più alta", afferma Alfonso Femia, 39 anni, uno dei fondatori di 5+1AA, che vanta progetti dall'Italia (un Centro Espositivo ricavato dall'ex Palazzo del Ghiaccio di Milano, il Centro commerciale di Assago, un'area nella romana Città dello Sport) alla Cina (master plan di Guangzhou).. “Va bene chiamare le archistar, ma per farle lavorare insieme ai nostri ingegneri, politici, amministratori. Per creare un nuovo percorso culturale. Spesso non sono le grandi opere a correggere il maltrattato territorio italiano, ma le piccole e medie: le scuole, gli uffici, le case".

Ecco il cuore del problema. Quanto bisogno c'è di landmark? A che serve la 'Superarchitettura', come la chiamano gli olandesi? A mettere in mostra la città o a ridefinire il paesaggio attraverso segni meno vistosi ma più sostenibili? "Davanti a un'operazione come quella del ponte di Calatrava all'ingresso della mia città, mi chiedo quanto questo segno, pur bellissimo, possa riqualificarla", afferma Giovanni Catellani, assessore alla Cultura di Reggio Emilia: "Operazioni simili sono grandi occasioni di richiamo e di investimento per la committenza pubblica, ma se non agiscono nel tessuto della città, correggendone l'eccesso di sviluppo quantitativo - come è stato a Reggio Emilia - rischiano di essere simboli estranei. Che sul lungo periodo possono rivelarsi addirittura dannosi".

Le ricostruzioni sono appena iniziate. Le polemiche pure.

Titolo originale: Two Urban Makeovers of the Industrial Age – Scelto e tradotto per Eddyburg da Fabrizio Bottini

FRANCOFORTE, 15 agosto – Anche se le loro radici risalgono ad oltre mille anni fa, la Parigi e la Berlino di oggi in realtà sono nate tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando l’industrializzazione, l’urbanizzazione e il progresso tecnologico si sono sommati, a costruire vitali crogioli urbani al tempo stesso eleganti e dissoluti, irresistibilmente attraenti.

Gli urbanisti tedeschi e francesi cavalcarono quest’onda, conferendo alle proprie città un aspetto che oggi ci appare di profondità quasi incommensurabile. E per l’eterno vantaggio di chi non c’era, ad osservare questi incredibili cambiamenti, alcuni dei migliori artisti dell’epoca hanno documentato la trasformazione.

Monet, Pissarro e Toulouse-Lautrec, insieme a George Grosz, Ernst Ludwig Kirchner e Mies van der Rohe, hanno usato matite e pennelli per farsi stenografi di una nuova epoca urbana, registrando non solo le trasformazioni fisiche, ma anche l’atmosfera che le avvolgeva. La Schirn Kunsthalle di Francoforte, in “ La Conquista della Strada: da Monet a Grosz” fino al 3 settembre, ha raccolto le loro opere, insieme a mappe e progetti architettonici dell’epoca, a offrire il racconto di come due grandi metropoli europee abbiano rimodellato sé stesse.


Una carta di Parigi, con larghe strisce rosse sovrapposte alla caotica filigrana di strade su cui si costruiva la città spontanea, dà un’idea delle dimensioni di quanto il Barone Georges-Eugène Haussmann si accingeva a fare. La frattura si sostituiva definitivamente alla continuità, con vasti tratti del cuore medievale rasi al suolo negli anni ’60 per far spazio agli ampi viali che conferiscono a Parigi la sua caratteristica grandeur.

Una delle interpretazioni dei motivi di Haussmann indica il fatto che strade ampie avrebbero impedito ai rivoluzionari parigini di erigere le barricate, usate tanto spesso nei primi anni del XIX secolo, ma la vicenda in realtà è più complessa. Ebbero un ruolo importante anche igiene, ideali di riforma sociale, e ambizioni degli architetti, oltre a quelle di Haussmann.


Le carte dei trasporti pubblici danno l’idea del crescente bisogno di muovere persone dal luogo di residenza a quello di lavoro, e grazie a Maurice Delondre, possiamo dare un’occhiata all’interno di un “ omnibus”, vagone trainato da cavalli.

Un altro dipinto, del 1890, mostra come le città mettessero insieme molti tipi umani: l’altoborghese in cilindro nero legge un giornale, mentre una donna sta seduta con un cesto di fiori in grembo. Affacciata tristemente a una finestra, una povera culla un bambino, forse a ricordarci dove la nuova ricchezza industriale non è arrivata.

Monet ci porta alla stazione di Saint-Lazare a Parigi, rendendola a malapena visibile attraverso una foschia fumosa, usando semplicemente un segnale sullo sfondo del quadro a dire che il treno è arrivato. Pissarro mostra il Pont Neuf come luogo dove le persone importanti incedono, mentre quelle normali guardano.


Meno condizionata dalla presenza di una città antica, la metamorfosi di Berlino si concentra sullo sviluppo dei nuovi suburbi, ora assorbiti come semplici quartieri di periferia. L’architetto James Hobrecht – i cui progetti sono esposti anche con una eccellente traduzione in inglese – mirava a una abitazione più salubre, ma i desideri capitalistici di guadagno portarono ad alcuni dei più orribili quartieri proletari d’affitto che il mondo occidentale abbia mai visto.

L’Espressionismo, il movimento artistico nato in Germania all’inizio del XX secolo, appare come il veicolo perfetto per presentare lo squallore utilizzando la distorsione sulla tela, a creare effetti emotivi.

Il pittore Albert Birkle ci mostra la Leipziger Strasse, grande arteria est-ovest, come un vaso sanguigno dove scorre un’infinita corrente di corpi, tranne un uomo che, solo, guarda all’indietro, il volto inespressivo ma in qualche modo angosciato. In un quadro intitolato semplicemente “ La Strada” Grosz è trascinato nell’infinita iniquità della Berlino del 1915, e ritrae un incrocio dove si affollano osservatori, e presenta un uomo dal viso mostruoso e una prostituta dal vistosissimo vestito.

Urbanisti e architetti hanno avuto poi una seconda occasione a Berlino dopo il 1990, quando la riunificazione ha messo insieme la metà occidentale e quella orientale, immensamente cresciuta sotto il comunismo. La mostra non documenta questa trasformazione, ma offre uno sguardo su ciò che è andato perduto in alcuni luoghi.

Spittelmarkt oggi è una piazza abbastanza anonima a cavallo dell’ex Muro di Berlino, tagliata fuori dal traffico est-ovest che era la sua linfa vitale. Il pittore Paul Hoeniger ce la mostra nel 1912, vitale di pedoni, ciclisti e attività commerciale, in un modo che sicuramente colpirebbe gli occupatissimi berlinesi di oggi. Perché Spittelmarkt possa andare avanti, forse Berlino dovrebbe volgere lo sguardo all’indietro.

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Giorni infelici per le grandi opere. L'Eurotunnel anglofrancese è nei guai ancora una volta. Non può pagare gli interessi sui 9 miliardi di euro che deve e si pone al riparo della legge francese sui fallimenti. Il fatto è che una grande opera non può offrire profitti. Se li promette, si tratta di un imbroglio o di un calcolo sbagliato. D'altro canto, senza la prospettiva di un lauto guadagno nessuno si lascerebbe tentare da un manufatto, con lunghi tempi di realizzazione e profitti ancora più lontani, Le grandi opere vivono su un inganno, una finzione di copiosi dividendi e interessi, indispensabile perché il progetto decolli.

La finzione, per quanto riguarda l'Italia, verte inoltre sulla fattibilità dell'impresa. Una legge, detta Obiettivo, prevede o meglio imbastisce l'esistenza di centinaia di costruzioni, descritte con tono profetico alla lavagna della televisione, dal Grande Architetto. Vi è un impianto di spesa, una rete di general contractor e di project financing che mostrano una certa familiarità con le usanze internazionali. La legge supera al galoppo le remore ambientali e di politica locale, in vista, appunto, dell'Obiettivo. A conti fatti, gli unici quattrini veri sono pubblici e non basta la finanza creativa per muovere dell'altro.

Nel frattempo procede velocemente la politica della prime pietre. Una prima pietra non si nega a nessuno; a nessuno dei nostri, s'intende. Così vi sono pietre di partito, di sottopartito, con relativi convegni, pubblicazioni, benedizioni vescovili, meglio se alla presenza bene augurante del Grande Architetto. Una prima pietra è molto di più di un cantiere difficile e laborioso. Una prima pietra è speranza, una moneta che si spende subito. Dopo verranno gli aridi conteggi del Cipe e la poesia finirà.

Il Cipe ha pubblicato ieri il punto sulle Grandi opere. Si tratta di 19 titoli che a volte riguardano un oggetto solo, come il Ponte sullo Stretto, a volte l'intera Edilizia scolastica. Con la delibera 121 del dicembre 2001, agli albori del sistema, il costo totale era indicato in 126 miliardi. Nella successiva delibera del Cipe, 5 anni e un governo dopo, nel giugno 2006 (delibera 130) i costi crescevano a 173 miliardi, con un incremento di 46 miliardi. La disponibilità per le realizzazioni era molto minore, essendo pari a 58 miliardi. Ne mancavano dunque 115 per realizzarle tutte.

In altra parte del manifesto si può leggere una critica serrata a questo criterio delle infrastrutture, al loro assetto speculativo e spesso insensato, alla fortuna di non aver avuto soldi sufficienti. C'è continuità tra il Grande Architetto e l'Unione. Romano Prodi ha nominato un suo uomo che prima era stato liquidatore dell'Iri e poi capo in testa al Ponte sullo Stretto, presidente dell'Anas, cioè della struttura pubblica (?) che avrebbe il compito di fare le strade necessarie in Italia per poi badare ad esse.

Tra i progetti elencati, cinque riguardano la parte preponderante delle infrastrutture strategiche che piacciono a tutti: al vecchio potere e al nuovo. Si tratta dei «Corridoi plurimodali», quanto a dire alta velocità/alta capacità con annessi e connessi, con un costo previsto in 95 miliardi, contro 33 disponibili. Neppure l'alta velocità, amatissima a destra e al centro sinistra, sfugge alla regola ferrea: nessun passo più lungo della gamba. Possiamo di nuovo felicitarci per lo scampato pericolo; e poi consigliare che sarebbe opportuno finanziare in primo luogo la voce Schemi idrici, che con 4,6 miliardi necessari e 3 mancanti, è proprio assetata.

Ha attraversato gli incubi peggiori del Novecento ma, come urbanista, è riuscito a dare corpo ad alcuni tra i sogni migliori di quel secolo breve e violento. Giuseppe Campos Venuti, 80 anni domani. Partigiano a 17 anni. Un nome di battaglia, Bubi, che sembra uscire - è il caso di dire ante litteram - dalle pagine di Carlo Cassola. Reclutato dagli americani dell´Oss (Office of strategic services) e lanciato dietro le linee tedesche. Poi docente universitario, negli anni Sessanta amministratore chiamato a disegnare il volto attuale di Bologna, in particolare quello di periferie che - spiega - «non sono periferie». Presidente dell´Istituto nazionale di urbanistica, punto di riferimento per architetti di mezza Europa, a cominciare dagli spagnoli che, già sotto il franchismo, studiavano clandestinamente i suoi testi e pochi anni fa gli hanno dedicato un homenaje, un omaggio dal titolo «Urbanismo». E, ancora, insegnante a Berkeley, fatto non scontato per uno studioso iscritto al Pci, il padre di molti piani regolatori che la giunta Cofferati ha deciso di onorare il prossimo autunno con il conferimento di un premio, il Nettuno d´oro.

Campos parla come uno che ha affrontato i tornanti della vita senza mai fare imballare il motore. «Per il Novecento - dice - non parlerei di incubi. Io non sono uomo da incubi, userei piuttosto i termini "traversie" o "battaglie"». La sua ultima battaglia è quella per la riforma urbanistica, rimasta nei cassetti dei governi di centrosinistra. «È una riforma che non tratta più i privati come se avessero diritto ad avere gratis l´edificabilità. L´edificabiltà c´è dove decide il Comune, ma solo se in cambio viene data la metà dell´area gratis e il 20% dell´edificato in proprietà pubblica. Questa è una riforma praticabile: l´esproprio oggi significa solo regalare soldi alla speculazione»,

Cominciamo da un´altra battaglia. Quando Giuseppe Campos Venuti diventa il partigiano Bubi?

«Non lo ricordo come un passaggio traumatico. L´unico accadimento drammatico fu l´8 settembre 1943. Fui tra i pochi volontari che spararono contro i tedeschi a Porta San Paolo. A pochi metri da me morì Raffaele Persichetti, il mio referente dentro il Partito d´azione, prima medaglia d´oro della Resistenza. Per questo passai le linee, illudendomi di trovare l´esercito italiano. Questo, com´è noto, non c´era più e così finii nei servizi strategici americani. Bubi era semplicemente il mio nomignolo da bambino: diventò il mio nome di battaglia. A operazioni finite, con qualche sforzo, tornai ragazzo e mi iscrissi alla facoltà di Architettura».

A questo punto Bubi si trasforma nell´urbanista Campos?

«Il mio interesse per l´urbanistica nasce quando Aldo Natoli, in quegli anni capogruppo del Pci al Consiglio comunale di Roma, commissiona a un gruppo di giovanotti un´indagine da cui risulta che sette proprietari erano padroni di 27 milioni di metri quadrati intorno alla città. Fu così che scelsi l´urbanistica, ma scelsi soprattutto la battaglia contro la rendita, di cui sono stato in qualche misura il protagonista culturale e scientifico».

E arriviamo agli anni di Bologna, come assessore al fianco del sindaco Giuseppe Dozza.

«Ero candidato al Consiglio comunale di Roma quando arrivò dall´Emilia-Romagna la richiesta di un supporto specialistico. Allora a Bologna non c´era ancora un dipartimento di ingegneria e architettura e Alicata domandò a tre belle speranze, tra cui Aymonino, che divenne rettore a Venezia e Melograni, successivamente preside a Roma 3, di occuparcene».

Credo che non si possa parlare di quell´esperienza senza accennare a un altro passaggio importante, quello dal Partito d´azione al Pci.

«Fu un passaggio "freddo". A Napoli, nel sud dell´Italia occupata, il Partito d´azione e i socialisti, con l´atteggiamento giacobino tipico di quelle posizioni radicaleggianti, dicevano che, se il re non se ne fosse andato, non avrebbero partecipato alla guerra di liberazione. Quando arrivò Togliatti, spedito da Stalin, mi diede la linea più moderna possibile. Intanto bisognava cacciare fascisti e nazisti dall´Italia, con la monarchia ce la saremmo vista dopo. Nella sinistra italiana si cominciava già a parlare dei crimini di Stalin, ma scoprii nel Partito comunista italiano una potenzialità democratica. Direi che i fatti non mi hanno dato torto. A quell´epoca chiamarsi riformisti era pressoché vietato, ma io ero un urbanista e mi battevo per una cosa che si chiamava riforma urbanistica. Essere stato assessore di Bologna da questo punto di vista mi diede un ruolo nazionale»

Nasce Bologna come oggi la conosciamo, con periferie che, come qualcuno ha scritto, non sono state concepite come discariche sociali.

«Sono periferie che non sono periferie. Avevamo perso la battaglia per la riforma urbanistica nazionale, ma questo non ci impedì di applicarla come se fosse stata votata dal Parlamento. Espropriammo a prezzi di terreno agricolo, acquisimmo tutte le aree inedificate che c´erano ai margini del costruito, ma non in periferia. Il famoso Fossolo (una zona residenziale di Bologna ndr), di cui tutti parlano, è di tre chilometri più centrale del quartiere Due Madonne,l´ultimo quartiere fatto da Dozza nel ´57- ´58. I privati finivano ai margini del Comune, le case economiche popolari finivano nelle zone centrali. Questa operazione ci consentì di spostare all´esterno la Fiera e le attività terziarie, garantendo così la salvaguardia del centro storico ed evitando il rischio della cementificazione della collina».

Il riformismo di cui si parla oggi è lo stesso di ieri?

«Io non sono titolato a fare polemiche lessicali. Osservo però che oggi tutti i cambiamenti vengono chiamate riforme. Berlusconi ha fatto molte boiate chiamate riforme: quelle, in italiano corrente, sono controriforme. Le riforme sono le alternative alla forma cruenta del cambiamento. Non c´è una sola operazione del governo di destra che possa essere considerata riformista. Mentre quelle del centrosinistra lo sono state solo talvolta. Bersani è sicuramente riformista. I governi Prodi, D´Alema e Amato non fecero la riforma urbanistica per le contraddizioni che già allora emersero nel centrosinistra».

Sembra impossibile distinguere tra il Campos politico e l´urbanista.

«Certo. Studiando e facendo politica, ad esempio, ho appreso che rendere edificabili molte aree non ha mai comportato una riduzione dei prezzi, ma sempre tenere il prezzo massimo che i grossi proprietari determinano. La politica comincia quando dalla disciplina scientifica nasce una linea. La linea dell´esproprio generalizzato quando si pagavano prezzi agricoli era una linea riformista. Considero massimalisti quelli che oggi sostengono che i Comuni debbano pagare miliardi per acquisire aree: questo serve solo a remunerare la proprietà. Il meccanismo che proponiamo oggi come Istituto nazionale di urbanistica è cessione gratuita in cambio di edificazione».

Per andare da Termini a Trastevere, una volta si prendeva il taxi. Oggi lo si può fare in treno, in poco tempo.

Campos è stato consulente delle giunte Rutelli e Veltroni. «Era la soluzione che non sono riuscito imporre a Bologna, quella che io chiamo "la cura del ferro". Quando arrivai a Roma come consulente del Piano, questa fu la bandiera che Rutelli accettò di impugnare. Quasi mezzo secolo fa si diceva invece che l´automobile, allora mezzo per ricchi, doveva diventare un mezzo per tutti. Ora tornare indietro non è facile ma, come dimostra l´esperienza romana, non è nemmeno impossibile».

L'evoluzione dello scenario geopolitico mondiale negli ultimi vent'anni può essere efficacemente rappresentata dalle vicende di tre muri: quello poligonale di Berlino, quello frastagliato all'inverosimile di Israele e quello dritto della frontera tra Stati Uniti e Messico, mentre l'illusoria sensazione di apertura e libertà generata dalla caduta del muro di Berlino è andata definitivamente sepolta dalle macerie delle Twin Towers, come racconta Marco Belpoliti in Crolli.

Alla cappa della guerra fredda si è sostituita quella ben più claustrofobica della «guerra al terrorismo», che postulando un nemico indistinto ha legittimato la costruzione di «barriere di sicurezza» di dimensioni ciclopiche. Il muro israeliano, avviato nel 2002 da Sharon, una volta ultimato supererà gli ottocento chilometri di lunghezza, mentre il senato americano ha decretato quest'anno il prolungamento di mille chilometri (un terzo dell'intero confine) della recinzione esistente: cifre di fronte alle quali i centosei chilometri di fortificazione tedesca appaiono quasi ridicoli.

Le differenze non finiscono qui: laddove l'archetipo berlinese ricalcava scrupolosamente confini riconosciuti tra parti avverse, il tortuoso tracciato del muro di Sharon segue una logica di appropriazione e frammentazione del territorio palestinese in barba a qualunque trattato: dal canto suo, la barriera statunitense si frappone tra due nazioni amiche. L'esplicita equiparazione tra immigrati e terroristi messa in atto dalla militarizzazione della frontera (nel lanciare questa strategia con l'operazione Gatekeeper del 1994, Clinton dovette ricorrere alla più elitaria categoria dei narcotrafficanti) risulta però imbarazzante al punto che il New York Times ha promosso una sorta di concorso di idee tra una dozzina di architetti di fama per «mascherare il brutto problema» del muro creando «gradevolezza dove non può essercene». Molti degli interpellati, tra cui lo studio Diller&Scofidio, hanno sdegnosamente ricusato l'invito, ma altri coprendosi di ridicolo hanno avanzato proposte di ineffabile arguzia: James Corner ha proposto un rivestimento di pannelli solari, Eric Owen Moss un «paseo di luce» visibile dal satellite, Calvin Tsao la creazione di una striscia di cittadine industriali bipartisan, sempre illuminate di notte, mentre Enrique Norten ha pensato a una fitta rete infrastrutturale. L'idea più straordinaria è però venuta a Antoine Predock: smaterializzare il muro, rendendolo simile a un miraggio di rocce sospese, una vera delizia per le famiglie di chicanos assetati che se lo vedrebbero comparire di fronte dopo giorni di peregrinazioni nel deserto. Al di là di queste amenità, l'aspetto più inquietante del muro è che riproduce su grande scala lo steccato della villetta americana e il modello della gated community, del quartiere ricco recintato e sorvegliato da guardie e telecamere che infiniti architetti e urbanisti ripetono in ogni parte del mondo, da Dubai a Johannesburg a Milano.

Questi recinti «solidificati» fanno parte, secondo Mike Davis, di un unico, virtuale «Grande Muro del Capitale, che separa alcune dozzine di paesi ricchi dalla maggioranza povera», allo scopo di controllare militarmente l'immigrazione per mare e per terra. Le politiche della sicurezza ci stanno trasformando in una mostruosa gated community globale. Per ammirarne gli effetti con un congruo anticipo, basta recarsi a Gerusalemme, laboratorio a cielo aperto di quella che Philipp Misselwitz e Tim Reniets, curatori di City of Collision. Jerusalem and the Principles of Conflict Urbanism (Birkhäuser, 2006, 391 pp. Euro 41,50), chiamano «l'urbanistica del conflitto».

Il Muro della Separazione non è altro che il monumento più fotogenico del complesso sistema di barriere grandi e piccole, strade a scorrimento veloce, terre-di-nessuno, enclaves, accuratamente concepito in funzione della migliore segregazione spaziale tra popolazione araba e israeliana. In generale, l'offensiva israeliana consiste piuttosto che in un genocidio in uno spaziocidio: «In ogni conflitto, le forze belligeranti definiscono quale sia l'obbiettivo nemico e conformano ad esso la propria linea di azione. Nel conflitto israelo-palestinese, l'obiettivo israeliano è il luogo» - scrive Sari Hanafi, che analizza le pratiche di controllo e distruzione territoriale rigorosamente pianificate da Israele; mentre della colonizzazione delle alture parla Eyal Weyzman in Verticalità. The Politics of Israeli architecture, indicando come gli scopi siano il dominio sul paesaggio circostante, il razionamento di acqua ed energia, il rallentamento della circolazione dei palestinesi.

D'altronde, anche a una ragguardevole distanza dal Medio oriente, tanto i fatti di Parigi quanto le rivolte delle nostre «periferie» indicano come una stessa logica governi il modello di sviluppo urbano di Gerusalemme e quello irto di steccati delle villettopoli occidentali.

La notizia non è da poco. Due giorni or sono i conservatori britannici hanno riconosciuto di aver commesso un grave errore nel 1996 con la privatizzazione delle ferrovie. Sono pentiti. Lo ha dichiarato il ministro ombra dei trasporti del partito conservatore: «la decisione di separare le infrastrutture dalla società di gestione - ha detto - non è stata giusta». In effetti, come è largamente noto, la privatizzazione delle ferrovie è stato un disastro sociale, tecnico, organizzativo e finanziario, conclusosi con il fallimento della società privata Rail Track e la rinazionalizzazione delle reti. L'operazione, nel frattempo, è costata un paio di miliardi di euro al contribuente britannico. In un momento in cui in Italia il nuovo governo di centrosinistra ha lanciato una nuova ondata di liberalizzazioni/privatizzazioni nel settore dei servizi pubblici (e locali) con l'eccezione, da verificare nei prossimi mesi, dei servizi idrici, la notizia vale il suo peso.

Uno dei principi chiave adottati dal nuovo governo per giustificare e legittimare la nuova ondata sta precisamente nella asserita necessità di distinguere tra la proprietà del bene o delle infrastrutture che deve/ può restare pubblica e la gestione del bene e/o dei servizi connessi che può/deve essere privata.

Nessuno può escludere il rischio che l'Italia si trovi fra alcuni anni di fronte a diversi casi di «disastro da privatizzazione» nel settore dell'energia, dei trasporti, della salute, anche perché le possibilità di disastro stanno già facendo capolino qui e là, per ilmomento inmaniera episodica.

Penso a certi servizi nel campo della sanità ( per anziani, per esempio), all'alloggio popolare, alle linee di trasporti «secondarie».

Fondamentalismo miope

E' legittimo quindi domandare, ma perché si persiste nell'errore di separare proprietà e gestione di un servizio pubblico , quando questa separazione è dettata unicamente da un fondamentalismo miope derivato dalla teologia capitalista mercantile che fa della concorrenza tra imprese il criterio principe di scelta ottimale tra allocazioni alternative delle risorse, dei beni e dei servizi?

Fortunatamente, il nuovo governo ha accettato di fare eccezione per l'acqua, ma si tratta chiaramente di una eccezione. La regola è quella della separazione.

La separazione è un errore perché, specie nel caso dei servizi essenziali ed indispensabili alla vita ed al vivere insieme come l'aria, l'energia, la protezione del territorio, la salute, l'educazione, la conoscenza, la sicurezza civile, essa adotta il principio che il punto di partenza per costruire l'edifico dei servizi pubblici di un paese è l'esistenza di bisogni di «interesse generale» (perché comuni a tutti i membri di una comunità), ma a domanda individuale (quale è considerato il «consumo» di gas, di elettricità, di trasporto pubblico, di medicinali, di ricoveri in ospedale, di metri quadrati di casa…).

La pubblica utilità

A partire da questo punto, il ruolo dei poteri pubblici consiste principalmente nell'assumere la funzione detta di utilità pubblica ( nel gergo anglosassone le public utilities) per soddisfare i bisogni.

Il servizio «pubblico» (perché offerto a tutti) diventa lo strumento che consente di soddisfare le domande individuali dei bisogni grazie al meccanismo dei prezzi o tariffe sul mercato. Da qui la tesi dominante di considerare la quasi totalità dei servizi pubblici come dei «servizi di rilevanza economica» e quindi sottomessi alle regole dell'economia di mercato concorrenziale.

Il recentissimo Disegno di legge n. S 772 sui servizi pubblici locali parla dell'inevitabile necessità del «confronto competitivo» fra le imprese gestori dei servizi come se parlasse di una «legge costituzionale» inviolabile

Ora, il corretto punto di partenza per l'architettura dei servizi pubblici essenziali ed insostituibili alla vita ed al vivere insieme sono i diritti, umani e sociali, e non i bisogni. Diritto alla salute, diritto all'acqua, diritto alla conoscenza, diritto alla casa…. Da qui, la funzione pubblica deriva dalla responsabilità/dovere della comunità di creare le condizioni ed i mezzi necessari per garantire l'accesso ai beni e servizi relativi ai diritti.

Responsabile collettività

Questo è il senso profondo del «potere pubblico », cioè della legittimità derivata dalla responsabilità Pubblica nei confronti dei cittadini. Pertanto, il servizio è pubblico e di rilevanza «sociale» perché di esso è responsabile la collettività a tutti i livelli, dal locale al nazionale ed al mondiale, e su tutti i piani , da quello legislativo a quello finanziario ed economico.

Questa concezione spiega perché la proprietà del bene/infrastrutture e la sua/loro gestione sono per natura pubbliche e di titolarità di un unico e simile soggetto e quindi non possono essere separate. Partire dai bisogni a domanda individuale anziché dai diritti universali, collettivi, cambia radicalmente la concezione della società e le strategie e le scelte politiche, sociali e tecno- economiche.

Quanti saranno fra cinque anni «i pentiti» toccati dal morbo delle liberalizzazioni/ privatizzazioni? Non sarebbe meglio per tutti cambiare già ora, ed evitare di compiere l'errore? * presidente dell’acquedotto pugliese

Il 19 luglio del 1966, quarant’anni fa, l’Italia venne battuta uno a zero dalla Corea del Nord e fu eliminata dai mondiali di calcio. Una frana, titolarono i quotidiani sportivi. Lo stesso giorno un’altra frana avrebbe segnato in profondità l’Italia. Sconvolse Agrigento e solo per un accidente non provocò vittime, ma tanta paura e la diffusa impressione di quanto fragili fossero il territorio italiano e le basi su cui era fondata una crescita economica molto concentrata sul cemento. Nel novembre di quello stesso 1966 vennero le alluvioni di Firenze e di Venezia, e l’Italia, che pure aveva assistito alle tragedie del Polesine e del Vajont, iniziò ad abituarsi ai disastri che avevano solo in parte cause naturali.

La frana di Agrigento produsse uno choc. Ma anche effetti politici. Si discusse animatamente, vennero varate leggi che tendevano a regolare l’impetuosa espansione delle città. Fu una stagione di grandi fermenti, una delle più intense del Novecento sui temi del territorio e della sua tutela, e si produsse una specie di sussulto riformatore, al quale seguirono reazioni di segno opposto.

La frana venne giù nelle prime ore del mattino all’estremità occidentale di Agrigento. Già intorno alle sette si erano avvertiti i primi smottamenti. Chi si era appena alzato fece in tempo ad accorgersene, udì scricchiolii nelle pareti e vide aprirsi le crepe. Poi la fuga per le scale. Migliaia di persone uscirono in strada, portandosi dietro quanto erano riusciti ad afferrare. Nel giro di un’ora dalla rocca dove si ergeva la moderna Agrigento scivolarono verso valle migliaia di metri cubi di terra. Alcuni palazzi si accartocciarono. Un centinaio i feriti. Milleduecento famiglie senza casa, più di cinquemila persone che da lontano guardavano, come svegliati da un sogno, cosa restava della loro città cresciuta rosicchiando ogni centimetro disponibile su una collina che fino a qualche decennio prima ospitava un piccolo centro di origini medievali raccolto intorno alla cattedrale e ora era sfigurata da un ammasso di edifici di spropositata bruttezza.

Le immagini della città crollata scossero certezze, diedero forza a quanti - urbanisti, architetti, giornalisti come Antonio Cederna, che dieci anni prima aveva pubblicato I vandali in casa - sostenevano che il cemento in Italia stava espandendosi senza controlli, seguendo le direttrici imposte da proprietari fondiari e speculatori, che le città non avevano strumenti urbanistici, e quando ce li avevano li ignoravano e si sviluppavano sconsideratamente. La frana di Agrigento mise l’Italia di fronte a uno specchio che ne rimandava l’immagine deforme assunta da molte sue città - Napoli, Palermo, Roma. Un’immagine che ora emanava paura e insicurezza.

Chi protestava per lo scempio del territorio italiano trovò però una sponda. Nel governo di centrosinistra sedeva, sulla poltrona di ministro dei Lavori Pubblici, il socialista Giacomo Mancini, uomo potente, con una vasta ramificazione clientelare nella sua Calabria, eppure politico accorto, tenace riformista. Mancini affidò al direttore generale dell’Urbanistica, Michele Martuscelli, il compito di condurre un’inchiesta sulle cause della frana. Martuscelli proveniva dai ranghi dell’amministrazione. Era anche lui socialista, ma nella sua personalità prevaleva il profilo dell’alto burocrate che rispondeva solo al precetto della legge. Aveva un carattere difficile, scriveva in modo forbito, convinto che lo Stato preservasse la propria autorità anche con il rispetto di un certo decoro grammaticale, di una tornita liturgia sintattica.

Martuscelli, aiutato da Giovanni Astengo, consegnò l’8 ottobre la relazione definitiva, dopo appena due mesi di lavoro. Quel testo emana un’energia potente: «Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l’aspetto sociale, civile ed umano».

Martuscelli tracciava la storia del dissesto urbano di Agrigento. Era l’atto d’accusa contro un’intera classe dirigente locale. Fin dalla metà degli anni Cinquanta la rocca su cui sorgeva il nucleo storico della città era stata circondata da un anello di palazzi che si elevavano con altezze fuori dal comune. La città aveva 40 mila abitanti, ma un piano di fabbricazione prevedeva appartamenti per 160 mila persone. «Enorme era poi il fatto», esclamava Martuscelli, «che nessuno, in sede di approvazione, abbia eccepito sulla inclusione in zona intensiva dell’intero declivio franoso del versante settentrionale e occidentale». Su strade di 6 metri erano previsti edifici di 15 metri di altezza, e su strade di 12 metri potevano sorgere palazzi di 30 metri, «tali da peggiorare gravemente le condizioni di igiene e di soleggiamento dell’abitato esistente».

Il centro storico era stato chiuso da una barriera di mostruosi casermoni. Fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, si era costruito ad un ritmo di 2 mila, 3 mila vani l’anno e si arrivò a quasi 5 mila nel 1965. Molti osservatori erano restati stupefatti: Cesare Brandi scrisse documentate invettive sul Corriere della Sera. Ma nulla sembrava potesse fermare la mano dei costruttori. Era scomparso lo sfondo naturale della Valle dei Templi. Il sindaco Foti riuscì persino a ottenere la sospensione di una serie di vincoli imposti a tutela del patrimonio archeologico, criticando «l’assoluta mancanza di fantasia creativa e l’incapacità di concepire un programma che, fondendo e armonizzando il nuovo con l’antico, miri a rendere la Valle dei Templi più bella e attraente». Erano i palazzi di quindici piani che avrebbero, secondo il primo cittadino di Agrigento, valorizzato il tempio della Concordia.

«Gli operatori si sono preoccupati di costruire solo case», denunciava la relazione, «traendo il massimo sfruttamento delle aree, intaccando le falde della rupe singolarmente, con opere inadeguate di consolidamento, senza provvedere alla regolazione delle acque di superficie, oltre che degli scarichi delle acque luride, senza preoccuparsi di sistemare il terreno sconvolto dalle opere». La frana era stata la conseguenza dei lavori di intaglio della rupe, eseguiti proprio nella parte occidentale del monte, la più delicata.

La relazione si concludeva con un capitolo di proposte. Alcune riguardavano Agrigento, altre l’intero territorio nazionale, perché Agrigento era l’emblema del dissesto urbano in Italia. Martuscelli chiedeva che amministratori e costruttori della città siciliana rispondessero delle loro condotte (un processo si celebrò nel 1974, ma tutti gli imputati finirono assolti con formula piena). Chiedeva poi che il Parlamento votasse una nuova legge urbanistica, la cui emanazione «non dovrebbe essere ulteriormente rinviata».

L’allarme lanciato dall’estremo lembo siciliano spinse Mancini a far approvare, nell’estate del 1967, un disegno di legge che diventerà noto come "legge ponte". Il varo fu rapido, indotto anche dalle alluvioni di Firenze e Venezia. Giovanni Astengo, che collaborò all’inchiesta di Agrigento, scrisse che «alla radice di ognuno di essi (i dissesti, n. d. r.) sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatori. In entrambi i casi, la natura, irragionevolmente sfidata, ha scatenato d’improvviso le sue furie terribili ed ammonitrici. In entrambi i casi, alla radice è l’imprevidenza umana».

La "legge ponte" è considerata un baluardo del riformismo praticato dal centrosinistra di quegli anni. Esemplare non solo nel campo dell’urbanistica, ma per altri settori della vita pubblica, in virtù dei molti elementi di programmazione e di pianificazione che intendeva introdurre nel sistema. La "legge ponte" limitava le possibilità di edificazione nei comuni che non si erano dotati di strumenti urbanistici (il 90 per cento, allora, dei comuni italiani) e cercava di incentivare la formazione dei piani. Per i comuni inadempienti era previsto l’intervento sostitutivo degli organi dello Stato. Un’altra delle innovazioni riguardava i cosiddetti standard urbanistici, cioè le quantità minime di spazio che ogni piano doveva riservare all’uso pubblico, stabilendo che ciascun cittadino aveva diritto a un minimo di 18 metri quadrati di spazio (per asili nido, scuole, attrezzature culturali, assistenziali, amministrative, religiose, sociali, sanitarie, parcheggi pubblici, verde, gioco e sport). Gli standard sono tuttora vigenti. Secondo molti urbanisti andrebbero aggiornati, ma restano una conquista decisiva. Sono invece un inutile orpello per la legge che, nella scorsa legislatura, avrebbe dovuto riformare tutta la materia urbanistica, e per la quale gli standard vengono relegati a semplici optional (ma questa legge non è stata approvata).

Come tante altre intraprese di riforma anche la "legge ponte" rimase in parte uno slancio nel nulla. Durante il dibattito parlamentare fu approvato un emendamento dei liberali che fece slittare di un anno la sua entrata in vigore: e così dal 1° settembre 1967 al 31 agosto 1968 l’Italia fu invasa da licenze edilizie, talvolta, in prossimità della scadenza della moratoria, istruite, esaminate, approvate e firmate in un solo giorno (un’indagine del Ministero dei lavori pubblici stabilì che in quei dodici mesi vennero rilasciate concessioni per 8 milioni e mezzo di vani, quasi il triplo della media annuale).

Un altro effetto produsse la frana: il decreto, firmato dai ministri Gui e Mancini, che istituiva un’area vincolata di milleduecento ettari intorno ai templi di Agrigento. Non fu un’invenzione repentina, un atto d’imperio draconiano. Da anni, la Soprintendenza e il Ministero tentavano di apporre vincoli che almeno evitassero ai templi l’onta di finire soffocati dal cemento. L’area è stata più volte sfregiata dalle costruzioni abusive ed è diventata un’ossessione per quanti ad Agrigento - sindaci, parlamentari, forze politiche - li hanno sempre concepiti come un freno allo sviluppo della città verso il mare. Lo stesso sogno coltivato negli anni Cinquanta e che rimase sepolto sotto la frana del 19 luglio.

Le grandi città come Londra, New York e Tokyo dominano la nostra immaginazione. Sono i luoghi che la gente ancora associa con la ricchezza, la fama e il futuro. Sono il centro dell’economia e della politica nazionale. Gli ultimi cinquant’anni sono stati il loro regno. Il numero delle città con più di 10 milioni di abitanti è salito in questo arco di tempo da due a venti, con l’ingresso di nomi ormai famosi come Rio, Città del Messico e Mumbai. Ma con tutto il rispetto per i tanti romanzieri di fantascienza che hanno prefigurato un futuro sempre di più dominato da colossali centri urbani, la loro epoca è finita. Il tasso di crescita della popolazione delle megalopoli negli ultimi cinque anni si è più che dimezzato rispetto all’8 per cento e oltre degli anni 80, e nei prossimi venticinque anni si prevede che rimarrà stabile. Gli anni a venire saranno gli anni del trionfo di una dimensione urbana più piccola e di gran lunga più umile: la Seconda Città.

Nel giro di un anno o giù di lì, per la prima volta nella storia dell’umanità, saranno più numerosi quelli che vivono nelle città che quelli che vivono nelle campagne: il XXI secolo sarà un secolo urbano. Ma il nocciolo duro si sta rimpicciolendo. Già oggi la metà degli abitanti delle città del mondo vivono in metropoli con meno di mezzo milione di residenti. Sono le Seconde Città - le grandi città dormitorio dell’hinterland, i centri di snodo regionali, le città di villeggiatura, i capoluoghi di provincia - a essere in pieno boom. Tra il 2000 e il 2015, le città più piccole (quelle con meno di 500.000 persone) cresceranno del 23 per cento, mentre quelle con una popolazione tra il milione e i cinque milioni di abitanti cresceranno del 27 per cento. Questo trend è il risultato di scosse sismiche di grande portata, come la bolla speculativa globale del mercato immobiliare, i crescenti flussi migratori internazionali, l’abbassamento dei costi dei trasporti, le nuove tecnologie e il fatto che la generazione del baby-boom sta raggiungendo l’età della pensione.

L’ascesa delle Seconde Città risalta in modo clamoroso dalla nostra top ten, che comprende le città col tasso di crescita più alto in ognuna delle 10 maggiori economie mondiali. In questa lista, basata sulle ultime (e non ancora pubblicate) previsioni di crescita elaborate dalle Nazioni Unite per tutte le città con più di 750.000 abitanti, figurano solo due grandi capitali - Mosca e Londra - che continuano a crescere più delle rivali più piccole, per ragioni nazionali specifiche. Tutte le altre sono aspiranti pesi medi come Tolosa, Monaco di Baviera e Las Vegas, o centri sconosciuti come Florianópolis (Brasile), Ghaziabad (India), Goyang (Corea del Sud) e Fukuoka (Giappone), che probabilmente non rimarranno sconosciuti a lungo.

Delle 150 città di questa categoria a più alto ritmo di crescita, la maggior parte, 55, si trovano in Cina, seguita da Indonesia e India. Nel mondo industrializzato, le metropoli statunitensi crescono a un ritmo molto maggiore di quelle europee e giapponesi. Per un certo verso, l’esplosione delle Seconde Città è una conseguenza naturale (anche se inattesa) del precedente boom delle megalopoli. Negli anni 90, le megalopoli sono esplose parallelamente all’esplosione della globalizzazione economica, in particolare nelle aree metropolitane con presenza di industrie high-tech o "knowledge-based", come la finanza (basti vedere la rinascita di New York e Londra e l’esplosione di Shanghai o Hong Kong). Così i prezzi degli immobili nelle città più ambite del mondo schizzano alle stelle. Il risultato è stata la creazione di quelle che il demografo William Frey, della Brookings Institution di Washington, definisce gated regions (aree riservate), quei posti, cioè - come sono New York, Londra, Tokyo - in cui sia la città che gran parte dei suoi sobborghi sono diventati inaccessibili economicamente tranne che per i super ricchi.

(Copyright Newsweek-La Repubblica, traduzione di Fabio Galimberti)

ROMA • «Approvare presto, nella stessa sessione parlamentare, la nuova legge per il governo del territorio e la legge per l'architettura: sarebbe un grande messaggio al Paese». È la mission annunciata dal vicepremier e ministro per i Beni culturali, Francesco Rutelli, al 3° forum di "Edilizia e Territorio". «Una proposta che presenterò in tempi strettissimi alla maggioranza parlamentare: ne ho già parlato con il ministro Di Pietro», ha aggiunto il vicepremier, ricordando che la normativa nazionale in materia di urbanistica attende da sessantaquattro anni di essere svecchiata.

Uno dei punti cardine della legge sulla qualità architettonica che, come ha ricordato Rutelli, è in giacenza da due legislature, è il rilancio del concorso di progettazione, che il ministro ha definito «una grande opportunità». Con un appunto ai concorsi fatti da privati: «È positivo che li facciano, poi però devono affidare anche la progettazione, senza optare per progettisti in house».

E proprio per rilanciare i concorsi di architettura nel Mezzogiorno Pio Baldi, direttore del Darc, ha annunciato un'iniziativa che metterà sul piatto 800mi-la euro l’anno per i prossimi tre anni nelle regioni del Sud. «Il progetto — ha annunciato Baldi — partirà a ottobre e usufruirà di finanziamenti messi a disposizione del Cipe per le regioni Obiettivo 1».

Il vicepremier (che ha anche la delega al Turismo) si è soffermato sulla proposta lanciata due giorni fa insieme con le Regioni del Comitato Nazionale Turismo: una revisione generale della segnaletica turistica «che punti alla valorizzazione del territorio». Proprio nella mancata trasformazione della ricchezza connessa ai valori immobiliari in vettore di trasformazione di qualità, Rutelli ha individuato la falla del sistema. Il ministro ha infatti citato come estremamente attuali le teorie degli anni '60 sul fallimento dello Stato industriale e delle procedure di modernizzazione produttive nel loro rapporto con la qualità del territorio: «Sottovalutazione dell'esperienza estetica, mancanza di pianificazione e di programmazione come correttivo al mercato; è passato mezzo secolo è la sfida è identica».

Secondo il ministro dei Beni culturali è invece necessario rilanciare «la qualità della trasformazione, fattore decisivo per la competitivita». Parafrasando un brano di Salvatore Settis (chiamato a guidare il Consiglio Superiore dei Beni culturali) Rutelli ha infatti ricordato quanto «la forza del modello Italia sia tutta nella presenza diffusa, capillare di un patrimonio solo in piccola parte conservato nei musei e che incontriamo, invece, nelle strade».

Il vicepremier si è poi soffermato sull'importanza del dibattito («quello che è venuto meno nel nostro Paese è la presenza di grandi intellettuali che portino l'attenzione degli italiani sul nostro degrado ambientale») e sul ruolo cardine, ma un po' sbiadito, dell'architettura «arte principe della cultura italiana, che deve recuperare il suo ruolo leader nel confronto». Da qui la mission che il ministro dei Beni culturali riconosce al maxxi, museo nazionale delle arti del XXI secolo, in costruzione a Roma: «È una delle cose più importanti che l'Italia attende e vorremmo che diventasse una centrale di riflessione sulla contemporaneità».

Postilla

Non è il ministro delle Infrastrutture, né quello dell’Ambiente e della difesa del territorio a parlare della nuova legge per il governo del territorio. E neppure un gruppo parlamentare della sinistra. È il ministero per i Beni e le attività culturale. Rutelli, coerentemente con il suo ruolo, non parla di urbanistica: parla di architettura, che con il governo del territorio c’entra abbastanza poco. Ma ne parla correttamente. Riprende il tema già proposto da Melandri e caro a Pio Baldi: il miglioramento della qualità estetica delle costruzioni incentivando lo strumento dei concorsi di progettazione.

Ma il ministro sembra avvertire ciò che sfugge ai più. Che il miglioramento della qualità estetica edelle città non si otiene se l’architettura non è accompagnata (o preceduta) dall’urbanistica: come diceva Antonio Cederna, non c’è buona architettura senza buona urbanistica. Infatti Rutelli esprimel’auspicio che vengano approvate insieme “la nuova legge per il governo del territorio e la legge per l'architettura”. Speriamo. Il 28 giugno numerosi parlamentari hanno promesso di partecipare alla presentazione della proposta di legge urbanistica di eddyburg : magari sarà un nuovo inizio.



Nel Consiglio regionale della Lombardia della settimana scorsa è andato in scena il secondo atto di uno spettacolo definito “indecente” dalla minoranza di centrosinistra. Erano in discussione le modifiche alla legge n. 12 del 2005 sul governo del territorio, una legge molto importante, che permette ai comuni di sostituire i talvolta vecchi e complessi piani regolatori con nuovi strumenti di controllo e governo del territorio. Dopo la prima seduta sull’argomento il centrodestra ha di nuovo affrontato l’ostruzionismo dell’opposizione per approvare un provvedimento di modifica della legge apparentemente innocuo, ma che tra le sue pieghe nasconde almeno tre fatti politici raccapriccianti.

Il primo avrà come effetto immediato e concreto il via libera ad una ondata di speculazione edilizia sulle aree verdi e protette di Monza: si parla di quasi 1 milione e 800mila metri cubi. La società che chiede la lottizzazione del terreno di pregio, quello della Cascinazza, fa capo a Paolo Berlusconi; le mosse della maggioranza formigoniana dunque anticipano e vanificano l’imminente approvazione del nuovo piano del governo del territorio da parte del Consiglio Comunale di Monza, che avrebbe bloccato lo scempio.

Il secondo interviene invece sulla normativa che regola i mutamenti di destinazione d’uso degli immobili, imponendo d’ora in poi l’obbligo del permesso di costruire per il solo caso di un mutamento finalizzato a luogo di culto. Qualora la norma fosse approvata si dovrà per legge ottenere il permesso di costruire rilasciato dalle amministrazioni comunali. In altri termini, se si volesse trasformare un capannone in una bisca, non ci sarebbero problemi, ma se per caso si volesse trasformarlo in un posto dove andare a pregare si dovrà chiedere l’autorizzazione del sindaco!

In realtà la norma si riferisce a tutte le religioni, ma pare piuttosto evidente che a subire le maggiori penalizzazioni sarebbero quelli che non dispongono ancora di una consolidata e riconosciuta rete di luoghi di preghiera, ad esempio le persone di fede islamica. Inoltre qualsiasi sindaco che negasse il permesso di apertura di un luogo religioso violerebbe uno degli articoli fondamentali della nostra costituzione: la libertà di culto. Libertà che è fondante anche per le politiche di integrazione che paiono non interessare alla Giunta di centro destra.

Il terzo fatto riguarda uno dei paradossi di questa legge che si appresta a ridisegnare l’assetto territoriale di importanti aree, come Malpensa e la Valtellina, ma anche la zona dell’aeroporto di Montichiari o la zona di Melzo. Il nonsenso legislativo di questa modifica è che viene riservata alla Giunta la redazione dei Piani d’Area, lasciando al Consiglio la sola fase finale di approvazione. Tutto ciò senza che la Regione abbia predisposto il Piano Territoriale Regionale. I piani d’Area infatti dovrebbero essere coerenti con un piano regionale che ancora non c’è. In questo modo la Giunta ha sostanzialmente mano libera su queste aree, chiamando poi il Consiglio regionale ad una mera ratifica.

L’opposizione di centrosinistra ha presentato 868 emendamenti per modificare il progetto di legge, ricordando di avere sempre cercato il dialogo con la maggioranza su un tema tanto importante, pensando che fosse importante anche arrivare ad un testo unico e condiviso. Marco Cipriano, vicepresidente diessino del Consiglio regionale, ricorda che “durante la scorsa legislatura in commissione territorio, c’è stata una improvvisa accelerazione, e la legge è stata approvata gli ultimi giorni con una maggioranza esigua, segno di una non completa condivisione neanche nel centrodestra, che ha utilizzato questo testo per una strumentalizzazione in vista delle elezioni regionali dello scorso anno”.

Al testo di legge approvato avrebbero dovuto seguire, nei sei mesi successivi, i criteri di attuazione della legge, grazie ai quali i comuni avrebbero potuto emanare i piani per il governo del territorio. Più di un anno è passato da allora e mancano ancora i regolamenti previsti. Il risultato è che non c’è una politica di governo del territorio condivisa, né la volontà di risolvere i veri nodi del governo del territorio nella regione.

“Gli effetti concreti” – aggiunge Cipriano – “intanto si manifestano: si è dovuto intervenire a correggere la norma sui sottotetti da un lato, dall’altro la regione Lombardia è oggetto di una continua pressione abitativa. Una regione estremamente urbanizzata la nostra soprattutto in certi centri più grandi dove il problema “casa” è una drammatica emergenza con l’esplosione delle rendite fondiarie, i prezzi degli immobili (per l’acquisto e per l’affitto) alle stelle”.

Una situazione che in ambienti del centrosinistra non si esita a definire come “un’alleanza tra furbetti del mattone e intolleranti religiosi, che riproduce il più classico dei malcontenti politici: lo scambio di favori”. Protagonisti Forza Italia e la Lega Nord, marginali le presenze di An e Udc, tutti a sostegno dell’Assessore leghista Boni.

In sostanza, dicono nel centrosinistra, Forza Italia intasca l’affare a Monza, mentre la Lega si porta a casa uno strumento in più per le sue campagne elettorali. Un centro-destra, quello lombardo, che sin dalla sua vittoria elettorale di un anno e mezzo fa mostra mille contraddizioni e un Presidente della Regione impegnato da due mesi a parlare di se stesso e di stravaganti referendum personali.

In questi giorni la più antica associazione italiana per la tutela, «Italia Nostra», fondata mezzo secolo fa, procede al rinnovo dei propri organi direttivi. Stanno arrivando agli iscritti, assieme al Bollettino, le schede per votare a mezzo posta e il bilancio consuntivo del 2005 che è stato poi il motivo principale per una rottura interna traumatica, con le dimissioni della presidente Desideria Pasolini dall'Onda, della segretaria generale Gaia Pallottino e di alcuni importanti consiglieri (Gianfranco Amendola, Vezio De Lucia. Arturo Osio e altri) e la susseguente elezione di Carlo Ripa di Meana alla presidenza.

Quest'ultimo e quanti l'hanno sostenuto ha infatti attaccato soprattutto sul bilancio la dirigenza in carica, accusandola, sullo stesso Bollettino dell'Associazione, di «dissesto», di «inerzia o incompetenza», di aver prodotto nelle finanze associative un «buco» di 1 milione e 50 mila euro. Tutto ciò, con un linguaggio insolito per l'associazione, in un atto ufficiale come il Bollettino del giugno-luglio 2005.I dimissionari hanno replicato che l'indebitamento non era a quei livelli,che bisognava distinguere bene fra debiti a lungo, a medio e a breve termine, che c'erano cospicui crediti da esigere e che comunque si poteva avviare il risanamento consolidando il debito (quello reale) tutto a lungo termine, con un mutuo per continuare. Carlo Ripa di Meana e i consiglieri che lo sostenevano hanno invece optato per la vendita immediata della villa che Maria Luisa Astaldi aveva lasciato in eredità a «Italia Nostra» auspicando che essa divenisse la sede centrale dell'Associazione. Come è stata per oltre vent'anni. Villa Astaldi, nonostante obiezioni e proteste, è stata così ceduta all'antiquaria romana Ida Benucci per una cifra vicina ai 13 milioni di euro. Altre proteste: ma perché vendere un bene di questo valore per sanare un debito, nel peggiore dei casi, tredici volte inferiore ?

Niente da fare, la vendita è stata ugualmente realizzata nei mesi scorsi e i nuovi proprietari stanno già entrando a Villa Astaldi, mentre «Italia Nostra» - che ha deciso di riversare il proprio archivio all'Archivio Centrale dello Stato - nelle scorse settimane era ancora alla ricerca di una nuova sede. Forse provvisoriamente in un appartamento della stessa antiquaria compratrice in zona Ludovisi e domani in uno stabile vicino a Villa Torlonia.Ma la notizia più inquietante viene dall'ultimo bilancio consuntivo - quello del 2005 - approvato dal Consiglio e pervenuto ai soci col Bollettino. Esso dice che il risultato di gestione per il 2005 è pari a 109.802 euro. I revisori dei conti scrivono che esso è inferiore a quello del 2004. Allora non c'è il «buco» clamoroso, non c'è quel rovinoso «dissesto» imputato agli amministratori dimissionari? Pare proprio di no. Nel bilancio le immobilizzazioni in terreni e fabbricati (Villa Astaldi sostanzialmente) sono iscritte per 4.392.395 euro, contro i quasi 13 milioni di euro fruttati dalla vendita. C'è inoltre un attivo circolante pari a 688.910 euro, con un incremento del 320 per cento rispetto al 2004.

Notizia pure allarmante, se vera: al consulente finanziario che ha sempre redatto con cura i bilanci di «Italia Nostra» (compreso l'ultimo) non è stato rinnovato il contratto di consulenza, appena dopo l'approvazione del consuntivo 2005. Strano comportamento.

Come quello in base al quale si è avallato, senza battere ciglio, che il neo-segretario generale Giuseppe Giliberti, uno degli autori del «ribaltone» anti-Pallottino dei mesi scorsi, sia quasi subito andato a lavorare all'associazione «Greenpeace», lasciando scoperto quel delicato incarico a «Italia Nostra». In compenso uno dei revisori dei conti appena citati è suo fratello Roberto.In questa situazione i soci di «Italia Nostra» stanno votando per il nuovo Consiglio Direttivo Nazionale. Si contrappongono due liste: una di sostenitori dell'attuale presidente Ripa di Meana, in cui sostengono gli esponenti delle sezioni di Roma e di Milano, e un'altra di oppositori formata da elementi, per lo più nuovi, che provengono dal lavoro delle sezioni, sul territorio. A favore di questa seconda lista si sono espressi con un appello «per ridare voce e autorevolezza» all'Associazione, Desideria Pasolini dall'Onda, Gianfranco Amendola, Marisa Dalai, Vezio De Lucia, Adriano La Regina, Paolo Leon, Giorgio Nebbia, Antonio Paolucci, Arturo Osio, Luigi e Silvia Squarzina, Piero Bevilacqua, Bernardo Rossi Doria e molti altri. Allarmati dal silenzio che - a parte la campagna contro la diffusione delle pale eoliche - sta caratterizzando questa stagione di «Italia Nostra», fino ad un anno fa sempre presente e in prima fila nella denuncia e nella proposta sulla attiva tutela del nostro patrimonio artistico e paesistico. Una sua crisi sarebbe gravissima, per il Paese.

Un mostro di 318 articoli e centinaia di pagine è ap­prodato nel Consiglio dei ministri. E potrebbe stravolgere larga parte della legislazione am­bientale italiana. In pochi minuti Berlusconi e sodali hanno messo la firma e il testo ha iniziato a far danni istituzionali. Ora devono avere il parere (non vincolante) della conferenza unificata con Regioni e Comuni; sì sono inven­tati un termine di venti giorni (immotivato e irricevibile). Poi devono avere il parere a maggio­ranza di centrodestra delle com­missioni parlamentari; deputati e senatori non emendano né vota­no le singole norme, sono vinco­lati ad un'opinione in soli 30 giorni. Poi un nuovo Consiglio dei ministri potrebbe emanare il decreto definitivo, diciamo a me­tà gennaio. Speriamo che non ac­cada, che non si arrivi. Ho cercato di seguire la vicenda passo passo, dedicandovi la ru­brica una decina di volte in questi quattro anni. Berlusconi e Mat­teoli avevano chiesto nel 2001 una delega a riscrivere tutto, ot­tenendola all'inizio del 2005, do­po aver scelto l'inattività, nell'at­tesa. Sono stati autorizzati a pre­disporre schemi di riordino di sette materie con l'ausilio di una commissione nominata discre­zionalmente dal ministro. La commissione è stata costretta a lavorare poco e male, amici del ministero lo hanno fatto al suo posto. Hanno preparato cinque schemi con decine di allegati, con discutibili abbinamenti e un clamoroso immotivato vuoto che riguarda le aree protette. Il Parla­mento, mentre attendeva senza notizie, ha chiesto di esaminarli uno per volta, una volta arrivati. Allora li hanno cuciti insieme, così, per ragioni di opportunismo politico. Potremmo trovarci con un'unica legge di centinaia di articoli che, però, non è un testo unico (ad esempio, restano fuori energia, rumore, parchi), non è un rior­dino (nelle materie affrontate restano in vigore altri testi), non è un coordinamento (mancano definizioni univoche e ordinate, si copiano norme già in vigore, vi sono innumerevoli disposizioni di dettaglio), non è un'integrazione coerente (qui si centralizza là si decentra, qui si liberalizza là si statalizza, ovunque si rinvia ad ulteriori attuazioni governative), non è un impegno di organi­che politiche concrete (ovvia­mente mancano disposizioni fi­nanziarie). In breve, sarebbe una controriforma in contrasto con l'Europa, capace solo di aggiungere confusione, lasciare nell'in­certezza per anni ogni privato e ogni amministrazione, incremen­tare conflitti amministrativi e giudiziari. Giunte e parlamentari non sono in grado di bloccarla; intanto possono denunciare il ri­schio e condizionare il percorso. Innanzitutto Regioni e Comuni: non ci sono le condizioni minime per un esame serio di un "mo­stro" che espropria competenze e travolge centinaia di leggi, enti, controlli regionali. È utile pre­sentare una piattaforma-appello di richieste al governo sul calen­dario e nel merito della delega, non limitandosi al parere negati­vo. Lo stesso Parlamento dovreb­be essere investito degli evidenti elementi di incostituzionalità: la delega è stata approvata non nel merito ma con la richiesta di fi­ducia; lo schema di decreto unico viene esaminato durante la ses­sione finanziaria, in pochi giorni utili, su un testo che non rispetta i principi della delega stessa. Le presidenze delle assemblee par­lamentari non hanno nulla da di­chiarare? Come può essere al più presto coinvolta la Corte costitu­zionale? I parlamentari della maggioranza (come tutti a fine mandato) possono anteporre un qualche senso dello Stato o, al­meno, suggerire un percorso le­gislativo che coinvolga formal­mente i parlamentari della mag­gioranza e dell'opposizione nella prossima legislatura? Possibile che si debba solo "salvarsi" con i due anni di verifica previsti dalla stessa legge delega, accettando un lungo periodo di indetermina­tezza di norme e politiche? E gli stessi vertici dell'Unione colgo­no la gravità della situazione? Verrà promossa una manifesta­zione a metà dicembre contro le nere cronache ambientali del go­verno Berlusconi, per lo sviluppo sostenibile?

Ore decisive per il decreto che vuole stravolgere tutta la legislazione ambientale italiana. Oggi le commissioni parlamentari potrebbero votare il parere. E le scelte di oggi condizioneranno il futuro del Belpaese

Sono ore decisive per l'ecomostro normativo, il decreto che vuole stravolgere tutta la legislazione ambientale italiana. Oggi le commissioni parlamentari potrebbero votare il parere. Che ambiente farà in Italia nella prossima legislatura lo si sta decidendo ora, all'insaputa dei più. Le scelte di oggi condizioneranno l'ambiente italiano, ecosistemi e inquinamenti, norme e fatti, politiche e cronache per i successivi due anni. Almeno.

Il ministro contro l'ambiente vuole assolutamente «emanare» il decreto- mostro di 6 parti, 318 articoli e 45 allegati (confusi e illeggibili, con tabelle, appendici, sezioni, numeri arabi, romani, lettere alfabetiche) che «semplifica» la legislazione italiana, provocando un terremoto giuridico, incertezza e paralisi. Il 15 dicembre 2004 ha ricevuto una delega con voto di fiducia alla Camera dopo precedenti voti di fiducia anche al Senato (estorti alla sua stessa maggioranza, senza consenso di merito).

Un anno fa ha nominato discrezionalmente una commissione quasi tutta compiacente, pagandola molto e riunendola poco, chiedendo improvvisamente il 5 ottobre di esprimersi su cinque schemi apparsi la settimana prima che non avevano mai visto né discusso (elaborati da «altri», suoi amici), via posta elettronica, dopo averli esaminati congiuntamente per poche ore e individualmente per pochi giorni, tralasciando senza motivazione una proposta sulle aree protette.

Un unico testo che «fonde» i cinque schemi è stato approvato dal consiglio dei ministri il 25 novembre ed è giunto alle Camere il 6 dicembre, senza il previsto parere della conferenza unificata. I compiacenti presidenti lo hanno assegnato alle commissioni facendo scattare il termine dei 30 giorni. L'esame è continuato durante questa settimana. I relatori di maggioranza (uno alla Camera, quattro al Senato ovvero uno per partito del centrodestra) parlano apertamente di errori, refusi, perplessità, riserve, violazioni della disciplina comunitaria, giustificati rischi di contenziosi e ricorsi. Le schede predisposte dai servizi studi legislativi citano impietosamente contraddizioni, sovrapposizioni, vuoti.

Tutti i soggetti interessati hanno espresso critiche e contrarietà, basta leggere i verbali delle audizioni argomentate e documentate. Le regioni (tutte, anche quelle poche del centrodestra) hanno indicato vari profili di incostituzionalità. Province e comuni hanno elencato tutte le invasioni di campo nei confronti delle loro competenze, entrando nel merito con osservazioni critiche puntuali su decine di articoli. E trecento scienziati si sono rivolti al presidente Ciampi per impedire lo scempio. Il ministro contro l'ambiente ha bollato i poveri contestatori come «immobilisti reazionari», dichiarando di voler andare comunque avanti. Non avendo attuato, promosso, realizzato una sola politica ambientale vuole poter dire in campagna elettorale che, però, ha cambiato tutte le leggi...!

Dunque, forse, il decreto arriverà. Deputati e senatori della maggioranza in scadenza daranno un lungo parere pieno di condizioni e emendamenti... ma favorevole? I ministri competenti e incompetenti chiederanno qualche giorno in più per ricevere almeno un parere della conferenza unificata, lo avranno negativo... e approveranno in consiglio il testo definitivo? Deputati e senatori si rivedranno a fine febbraio per un ultimo scontato parere anche se le correzioni non saranno state apportate? Il capo dello stato riceverà un testo enorme e confuso, con ricorsi alla corte in itinere, appelli contrari di esperti, giudizi pessimi di tutte le forze sociali... ma non potrà far nulla?È uno scenario probabile.

Dopo cinque anni di condoni e licenze ad inquinare avremo la «precarizzazione» di tutta la normativa, un lungo periodo di incertezza costituzionale, conflitti istituzionali, vuoto amministrativo, confusione diffusa. Ne usciremo. Entro due anni nuovo parlamento e nuovo governo, sulla base della stessa delega, possono rimettere ordine.

L’Europa interverrà subito, la Commissione e la Corte di Giustizia segnaleranno tutti i già annunciati contrasti con le direttive comunitarie. Dovrà pronunciarsi la Corte Costituzionale. Vi saranno una miriade di ricorsi alla giustizia amministrativa, giudiziaria, penale. Un terremoto dal quale usciremo prima o poi. Dico un paio di anni, spero meno. Chi può, nell'attuale maggioranza, soprattutto chi ha incarichi nelle istituzioni costituzionali, rifletta bene.

Forse un altro scenario è ancora possibile: un atto parlamentare che proroghi i termini della delega, che consenta ai nuovi eletti di approfondire seriamente l'articolato, di meditare critiche e proposte, di giungere a testi concertati e condivisi, che lasci al nuovo governo un compito di sintesi unitaria e di transizione studiata.

Non è certo uno scenario ideale. La destra avrà comunque garantito che si parta da un approccio scadente e pericoloso. Almeno avremo evitato che il «mostro» diventi norma e avremo il tempo di coinvolgere esperti e competenti, interessi e principi, regioni e comuni in un'opera di rilancio dello sviluppo sostenibile e di riconversione (ecologica) delle leggi ambientali.

NELLA furia iconoclasta che ispira il centrodestra in materia ambientale, la maggioranza ha deciso di sferrare l’ultimo assalto a ciò che resta del nostro patrimonio paesaggistico, un patrimonio che appartiene a tutti e quindi anche a quelli che votano per l’opposizione, reiterando i fasti e i nefasti del Malpaese con l’aggravante della recidiva. All’origine di quest’offensiva, non c’è solo una diversità di cultura, di sensibilità o - se vogliamo usare una parola ancor più impegnativa - di civiltà

C’è evidentemente una precisa volontà devastatrice, un piano, un progetto per lo smantellamento definitivo del sistema di tutele, di controlli e di garanzie, allo scopo di procedere in modo più libero e spedito sulla strada della speculazione, dell’affarismo e quindi del dissesto.

Con la frettolosa conversione in legge del decreto presentato dal ministro Matteoli, un ministro dell’Ambiente che ha goduto finora di generose ed eccessive benevolenze da parte di vecchi e nuovi ecologisti, la maggioranza non ha semplicemente modificato i criteri e le procedure per la composizione delle Commissioni per la valutazione di impatto ambientale (VIA). Ma, per usare un facile calembour, ha dato praticamente il via alla devastazione programmata e autorizzata del territorio nazionale.

E per conseguire un tale risultato, irridendo ancora una volta l’autorità della Consulta come già sulla questione televisiva o sulla giustizia, s’è nascosta dietro il paravento della sentenza con cui la Corte costituzionale aveva deliberato che la Commissione speciale per le opere strategiche fosse integrata anche dai rappresentanti delle Regioni.

Fatto sta che, per realizzare questa prescrizione, il governo ha stabilito inopinatamente di ridurre il numero dei tecnici chiamati a comporla, compromettendone ulteriormente la funzionalità: già oggi la Commissione speciale è tanto oberata di progetti, in virtù dei discutibili meccanismi innescati dalla Legge Obiettivo, che è costretta a ricorrere a esperti e consulenti esterni. Contemporaneamente, per prendere - come si dice - due piccioni con una fava, sono stati modificati in maniera del tutto ingiustificata i requisiti per i membri della Commissione ordinaria, a cui spetta fra l’altro valutare i progetti di dismissione delle centrali nucleari, pregiudicandone così l’autonomia operativa.

Tutto questo accade per di più all’indomani di un appello pubblico, lanciato dal Fondo per l’Ambiente italiano e sottoscritto da personalità di varia estrazione, in difesa del patrimonio paesaggistico. Ma il grido d’allarme, a quanto pare, è rimasto inascoltato.

Un emendamento introdotto in extremis alla legge delega sull’ambiente prevede infatti la depenalizzazione completa per qualunque reato commesso ai danni del paesaggio. Più che un condono o un’amnistia, è un colossale colpo di spugna che legittima retroattivamente anche gli abusi totali, cioè "i lavori compiuti in assenza o difformità delle autorizzazioni", comprendendo le violazioni sull’aumento delle superfici o dei volumi consentiti.

É come abrogare delitti gravi quali il furto, la rapina o l’omicidio. E nel nostro caso, sono delitti commessi contro l’intera collettività.

Se si pensa poi che le due leggi fondamentali sulla tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio risalgono entrambe al 1939, viene da commentare che almeno in questa materia il Cavaliere (Berlusconi) batte il Cavaliere (Mussolini); il regime (televisivo) sconfigge il regime (fascista); l’Italia in divisa azzurra supera perfino l’Italia in camicia nera. In piena dittatura politica, ben prima che arrivasse il decreto Galasso nel 1984 a fissare nuovi vincoli paesaggistici, 65 anni fa il duce s’era preoccupato di sancire un criterio puramente estetico per impedire la modifica delle bellezze naturali, la manomissione del panorama, insomma lo scempio del Belpaese. E sappiamo bene purtroppo che cosa è accaduto durante la Prima Repubblica, con tutti i guasti e i danni prodotti da un abusivismo sistematico, dal lassismo amministrativo e giudiziario, dalla prassi devastante delle sanatorie e dei condoni edilizi.

Adesso, sotto la dittatura mediatica, il saccheggio può riprendere e continuare, anzi viene legalizzato, autorizzato dal Parlamento o meglio dalla maggioranza che sostiene il governo. Diventa - e ripugna qui usare un’espressione del genere - "cultura di governo", presunta e falsa modernizzazione, semplificazione dei controlli e snellimento delle procedure, deregulation selvaggia.

Evidentemente, per rinnegare lo Stato di diritto, nell’era della televisione e di Internet non è più necessario abolire le libertà personali, quella d’opinione e di critica. E neppure, l’opposizione parlamentare. Basta cancellare il paesaggio.

Prima: il Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001 in vigore il 30.6.2003) nella versione originaria ammetteva una ricostruzione fedele "di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente".

Dopo: la circolare 7.8.2003 n.4174 del Ministro delle infrastrutture, G.U. 25.11.2003, ma già il D.L. 301/2002, ampliano in maniera larghissima e persino ridicola il senso di demolizione e ricostruzione. Restano solo i vincoli della volumetria e della sagoma: dunque si possono modificare l'area di sedime, le caratteristiche dei materiali e, incredibile chiarimento della circolare, aumentare le superfici utili "con il conseguente incremento del carico urbanistico". Siamo su un piano quasi filosofico: la possibilità dell'aumento "deve ritenersi insita nella natura di tale intervento". Inoltre, poiché manca il riferimento all'area di sedime, la circolare afferma comicamente che ciò non vuol significare possibilità di ricostruire l'edificio in un altro luogo (grazie tante!!), ma ammissibilità di "modifiche di collocazione rispetto alla precedente area di sedime" se esse rientrino nelle cosiddette variazioni non essenziali (la cui aleatorietà nelle leggi regionali ben conosciamo). Dimenticavo il sapido finalino: la demolizione/ricostruzione può essere applicata anche alle costruzioni abusive che abbiano ottenuto la concessione in sanatoria.

Insomma, un liberismo smaccato che darà un'ennesima mazzata alla buona urbanistica e alla buona architettura. Da quest'ultimo punto di vista vedi bene, tra l'altro, che l'aumento delle superficie significa, per esempio, inserire nel dato volume abbastanza alto un maggior numero di solette, come si è visto più volte realizzare in palazzi (per esempio milanesi) una volta abitati trasformati in banche e uffici di grande aziende, o, da ultimo, in favoleggianti atelier dei principi della moda. E come si potrà procedere da parte del professionista e dell'impresa? Non, come prima e giustamente, mediante la concessione edilizia, ma semplicemente e carinamente attraverso la Dia (Denuncia di inizio attività): vale a dire: continua la cuccagna per impresari e (spiace dirlo) per tanti, troppi architetti. Del resto, a proposito di questi ultimi, come nel caso dei sottotetti sul quale sono già intervenuto sul sito e in "la Repubblica", colpisce (ma non sorprende, dati i tempi, e anche la memoria di mezzosecolari malefatte che li hanno coinvolti) il maggioritario loro silenzio, il sostanziale disimpegno degli ordini professionali e dell'università con rare eccezioni, il disinteresse delle riviste. Ti ho già scritto che "Il giornale dell'architettura", forse l'unica a dedicare un articolo al tema, lo fa in maniera tanto distaccata, meramente informativa (lì ho ricavato le notizie), senza alcuna pesante deplorazione né alcun commento almeno dubitoso, da renderti pressoché definitiva la certezza che mai risorgerà una lotta, una forte opposizione da parte del nostro mondo culturale e professionale verso i poteri che governano la distruzione pianificata e a loro "conveniente" del paese.

In un Paese dove l’emergenza istituzionale sta diventando la regola, il problema del patrimonio culturale rischia di apparire un tema "minore", buono al più per qualche scaramuccia di confine fra opposti schieramenti, e non, come invece è, una questione essenziale per la "tenuta" del Paese. Perciò preoccupa l’assalto all’articolo 9, «il più originale della nostra Costituzione» come ha detto Ciampi: il nesso fra i suoi due commi lega fortemente tutela, ricerca e fruizione, e verrebbe snaturato dall’aggiunta (che si può ben fare altrove) della protezione degli animali, propugnata tuttavia da parlamentari di destra e di sinistra.

Continua intanto l’intensa attività legislativa promossa dal ministro Urbani. Non mancano "mosse" positive, come il disegno di legge sulla qualità architettonica (peraltro già calpestato da un selvaggio condono edilizio) o il decreto legislativo che adatta la legge Merloni agli immobili di valore culturale. Più importanti (e più controversi) i due interventi di sistema, il nuovo Codice dei beni culturali e il riassetto del Ministero. I punti più deboli del Codice, frutti di soluzioni compromissorie, sono la sovrapposizione di competenze fra Stato e regioni (peraltro sancita dall’infausta riforma del Titolo V della Costituzione) e l’interpolazione del silenzio-assenso nell’art. 12 del Codice, scritto all’inizio con opposte intenzioni.

Nella sezione sul paesaggio, che modifica la legge Galasso del 1985, ottima è la definizione del paesaggio come prodotto di interrelazioni fra natura e cultura, secondo la formulazione della Convenzione europea; ma sarebbe stato meglio seguirla anche nella prescrizione di una "forte lungimiranza" per la pianificazione paesaggistica. Positivo l’obbligo di piani paesaggistici regionali con riqualificazioni e recuperi, buona la definizione del piano paesaggistico, cogente per i comuni, che aumenta aree e immobili da tutelare. Molto positivo il divieto di autorizzazioni in sanatoria dopo la realizzazione, anche parziale, degli interventi: si dovrebbero così bloccare scellerati tentativi di depenalizzare gli abusi, come quello tentato pochi mesi fa, e poi ritirato.

L’innovazione più rilevante è che le Soprintendenze perdono il potere di annullare "a valle" le autorizzazioni edilizie delle amministrazioni locali, e acquistano la possibilità di partecipare, "a monte", alla redazione dei piani paesaggistici. Buona idea, se non fosse che la collaborazione delle Soprintendenze (preposte, secondo la Costituzione, alla tutela del paesaggio) viene lasciata alla buona volontà delle Regioni, che col Ministero «possono» (e non «devono») stipulare «accordi per l’elaborazione dei piani paesaggistici». Anche il parere di merito delle Soprintendenze sui singoli progetti, a richiesta di regioni o enti locali, per quanto reso «entro il termine perentorio di 60 giorni», non sembra avere valore vincolante, e non è nemmeno richiesto per modificare il colore delle facciate, con conseguenze temibili.

Quanto alla gestione dei beni culturali pubblici, il Codice eredita le ambiguità della normativa precedente. La gestione "indiretta" (di privati o fondazioni) è considerata equivalente a quella "diretta" delle amministrazioni pubbliche. Musei e monumenti possono essere "conferiti in uso" alla fondazione che li gestisce, purché la partecipazione dell’amministrazione pubblica sia prevalente. Peccato che questo principio sia stato già violato nello statuto della fondazione del Museo Egizio di Torino, secondo cui lo Stato, proprietario del Museo, lo "conferisce in uso" alla Fondazione, ma si auto-mette in minoranza nel Consiglio di amministrazione, composto di nove membri, dei quali uno solo (il soprintendente regionale del Piemonte) appartiene al Ministero, cinque sono di nomina politica (due dal ministro, uno ciascuno da Regione, Provincia e Comune) e tre sono designati dalle due fondazioni bancarie interessate. Il Consiglio nomina il direttore, a cui non è richiesta alcuna competenza egittologica; anche nel comitato scientifico, peraltro senza alcun potere, solo un membro su sette dev’essere egittologo.

È una piena abdicazione dello Stato al proprio ruolo, peraltro già scritta a tutte lettere nella legge Veltroni di riforma del ministero, secondo cui il Ministero «può partecipare al patrimonio delle fondazioni con il conferimento in uso di beni culturali». La riduzione dei musei a merce di scambio con gli agognati finanziamenti privati, a quel che pare, non è né di destra né di sinistra. Questo modello di Fondazione, che inglobando il Museo è di fatto sovraordinata all’amministrazione pubblica, non può funzionare e non funzionerà. Peccato, perché le Fondazioni museali potrebbero essere efficaci se organizzate in parallelo alle soprintendenze, senza subordinare gli esperti a chi competenza non ha (a Torino, gli egittologi a chi non ha mai visto un geroglifico). Miopi preoccupazioni localistiche hanno inquinato l’intera partita: a sei anni dalla legge Veltroni, non una Fondazione è operante, e dai privati arrivano molte promesse ma nemmeno un centesimo.

Ma i danni di questa concezione mercificata dei musei non si fermano qui: legata alla prospettiva delle fondazioni è infatti l’istituzione dei poli museali, decisa dal governo di centro-sinistra e attuata da Urbani. I poli istituiti a Roma, Firenze, Napoli e Venezia, per la prima volta nella storia e in contraddizione coi principi di tutela, hanno "scorporato" i musei dal territorio, considerandoli come entità a parte. Questo vuol dire per esempio che le grandi raccolte fidecommissarie di Roma, tutte di identica origine e storia, sono ora di competenza di soprintendenze diverse: ricadono nel "polo museale" se sono passate in proprietà pubblica (Borghese), sotto altra soprintendenza se sono ancora private (Colonna, Doria Pamphilj).

Si spezza così il nesso vitale fra la città, coi suoi palazzi e chiese, e i musei, che dall’identico tessuto di committenze e collezioni trassero origine e alimento. Nata dall’ossessione del modello americano coi suoi musei staccati dal territorio (ma nelle chiese di New York non c’è Giotto, non c’è Tiziano, non c’è Caravaggio), questa ferita al modello italiano di tutela ha una sola spiegazione: staccare i musei dalle soprintendenze territoriali per privatizzarli affidandoli a fondazioni come quella in gestazione per l’Egizio.

Urbani, sembra, sta ripensando l’intera materia nel contesto della riforma del ministero. L’unica soluzione decente sarebbe di reintegrare i quattro "poli" nel loro humus, creando altrettante soprintendenze urbane (città e musei). Pessima idea sarebbe invece trasferire i poli museali ai soprintendenti regionali, che spesso mancano delle competenze necessarie per gestirli. Più grave ancora sarebbe la ventilata abolizione delle due più importanti soprintendenze archeologiche del nostro Paese, anzi del mondo, quella di Roma e quella di Pompei. Di esse va invece garantita la massima autonomia gestionale, nonché l’alta professionalità e competenza specifica del Soprintendente-archeologo che le dirige.

Disastroso, infine, sarebbe intendere le Soprintendenze territoriali come uffici tecnici, emanazione periferica di quelle regionali, e ancor peggio affidare queste ultime a funzionari o manager di nomina politica e con scarse o nulle competenze specifiche. Su questo e su altri punti, la riforma del Ministero, che fa sistema con il Codice, ne svelerà presto spirito e intenzioni. Con un processo graduale, che potrebbe partire dalle Soprintendenze urbane di Roma, Venezia, Napoli e Firenze e dalle archeologiche di Roma e Pompei, tutte le Soprintendenze dovrebbero essere concepite come enti di ricerca e di tutela, dotati di ampia autonomia scientifica, amministrativa e contabile e gestiti in prima persona dal Soprintendente. Se lo Stato non vuole dichiarare la propria disfatta, c’è una sola strada possibile, ed è questa.

L’ Assemblea nazionale francese sta discutendo da qualche giorno la “carta dell'ambiente”, presentata in aula dal ministro della giustizia e dalla relatrice dell'Ump. La maggioranza del gruppo Ps chiede maggiore coerenza fra parole e fatti, giudicando comunque positivo l'inserimento nella Costituzione. Anche in Italia ci sono novità. Mentre il Senato il centrodestra ha consumato a colpi di maggioranza lo stravolgimento della Costituzione e del principio di separazione dei poteri, alla Camera è pronto per l'aula un testo che integra l'articolo 9 della carta fondamentale.

Il termine “ambiente” è assente dalla Costituzione entrata in vigore 56 anni fa. Oggi è, tuttavia, unanime il riconoscimento che l'ambiente già costituisce nel nostro ordinamento un “valore costituzionale”. Varie successive sentenze della Corte Costituzionale hanno riconosciuto il bene ambientale come valore primario, assoluto e unitario, non suscettibile di essere subordinato ad altri interessi, un bene fondamentale garantito e protetto, da salvaguardare nella sua interezza. Da due anni è entrata in Costituzione anche la parola “ambiente”. Nel nuovo titolo quinto della parte seconda, riorganizzando la ripartizione di competenze fra stato e regioni, si assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la “tutela dell'ambiente e dell'ecosistema”.

Un testo di modifica costituzionale dell'articolo 9 era già stato approvato dal Senato a settembre e costituiva un inutile peggioramento, perfettamente funzionale alle pessime politiche ordinarie del governo Berlusconi in materia ambientale: il centrodestra si è concentrato su politiche territoriali anti-ambientali (infrastrutture, mobilità, edilizia), sull'occupazione delle istituzioni e dei poteri ambientali, sullo smantellamento di ogni politica attiva (in omaggio ad una concezione burocratica e centralista del “governare”). In questo quadro, vale la pena toccare la Costituzione solo se la forma migliora e la sostanza consente di tutelare e valorizzare meglio l'ambiente.

Ora la commissione Affari Costituzionali della Camera ha definito un nuovo (migliore) testo, accogliendo larga parte delle proposte contenute in una proposta avanzata da vari parlamentari del centrosinistra: la Repubblica “tutela l'ambiente e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni; protegge le biodiversità e promuove il rispetto degli animali”. Si potrebbe già discutere in aula a luglio, rimandando poi la proposta al Senato.

I due commi si aggiungono all'attuale articolo 9 della Costituzione; non ne intaccano la forma e la sostanza, rivelatesi importanti per salvaguardare paesaggio e cultura del nostro paese; costituiscono in pratica un articolo successivo che completa principi e valori richiamati nella prima parte della carta fondamentale.

Le formulazioni sono abbastanza sobrie, secche, essenziali; sono stati discussi, prima inseriti poi tolti, incisi e formule più analitici. Sono state accantonate disposizioni che rischiavano di complicare l'articolo con concetti ambigui, impropri in quella parte della Costituzione. Non si inseriscono nuovi verbi che non facciano già parte del lessico costituzionale italiano; non si contraddicono definizioni di altri articoli o parti (il plurale “ecosistemi” non pregiudica il singolare “ecosistema” dell'articolo 117); future generazioni e biodiversità (coerentemente al plurale) fanno già parte di convenzioni internazionali e disposizioni europee di rango superiore.

La novità è il rispetto degli animali. È una citazione che sta facendo molto discutere, che ha portato Alleanza Nazionale a votare contro in commissione, che ha visto commenti contrastanti, che può indurre a conflitti interpretavi e attuativi. Apprezzo la maturazione di una giusta nuova esigenza, con una formale garanzia non equivocabile. Sottolineo il verbo che la regge: promuove! Insisto sulla opportuna valenza anche culturale del richiamare il “vivente non umano”.

La mancata novità è lo sviluppo sostenibile, che vede forti perplessità sia in Forza Italia che in Rifondazione Comunista, sbagliate a mio avviso, tanto più che l'inciso sull'interesse (anche?) delle future generazioni esprime lo stesso concetto in modo meno rigoroso e formale. Sintetizzando (non me ne vogliano), Forza Italia ha paura della sostenibilità (comunque un vincolo all'economia), Rifondazione dello sviluppo (comunque dannoso all'ecologia), entrambi colgono il lato di una contraddizione del concreto sviluppo dell'ultimo paio di secoli. Regole ONU e EU possono consentirci di tentare un passo “diverso” verso l'inevitabile futuro (che non coincide con il progresso).

In commissione affari costituzionali abbiamo avanzato l'idea di predisporre una vera e propria legge costituzionale in materia di diritto dell'ambiente, che citi tutti i principi della legislazione ordinaria, che sovraordini il coordinamento delle varie materie in testi unici (acqua, aria, suolo, mare, ecc.), che arricchisca la prassi normativa costituzionale italiana sulla scia di altri paesi (come la Francia) pur nella consapevolezza che i casi di rinvio sono oggi rarissimi (ad esempio nell'articolo 137). Sarebbe auspicabile un pronunciamento preliminare dei gruppi parlamentari su questa idea: se si prevede un rinvio (con norma esplicita o atto d'indirizzo) forse si può “asciugare” ulteriormente il testo; se non si prevede, alcune carenze andrebbero corrette, come il diritto all'acqua. Bisognerà anche verificare l'atteggiamento del governo, oggi ambiguo, diviso fra il brutto testo approvato al Senato e astratte dichiarazioni di neutralità. Il peggiore è stato ancora una volta Matteoli che ha parlato di testo “stravolto” dalla Camera, contestando (lui, ministro dell'ambiente!) che si parli in Costituzione di biodiversità e animali. Incredibile, ma vero!

Nelle ultime ore della campagna elettorale il governo Berlusconi sta firmando di tutto, distribuendo milioni di euro a pioggia. Lunedì scorso il sottosegretario Gianni Letta ha firmato con Impregilo il contratto da 3,9 milioni di euro per la progettazione definitiva ed esecutiva nonché per la realizzazione del tanto discusso (e avversato) Ponte sullo Stretto. Il progetto definitivo dovrà essere esaminato dal Cipe e però, se respinto, bisognerà pagare sonori rimborsi per le spese sin qui sostenute dal consorzio. Se poi i lavori dovessero iniziare formalmente, la penale scatterebbe a ben 300 milioni di euro. Poiché il programma dell’Unione non prevede fra le opere strategiche il Ponte, correttezza voleva che, per questa firma, Palazzo Chigi attendesse il risultato del 9-10 aprile. Siamo di fronte ad una evidentissima forzatura. Che non è isolata.

Il governo ha partorito di corsa, in vista del voto, un altro Codice, stavolta sugli appalti.Esso piace molto ai costruttori, mentre viene giudicato assai negativamente dalle Regioni e dalle associazioni ambientaliste. Si ripete dunque lo schema della legge delega ambientale fermata dal presidente Ciampi per alcune richieste di “chiarimento”, di forma e di merito, legate soprattutto al rapporto Stato-Regioni? È probabile. Certo, il governo della “devolution”, tanto strombazzata da Bossi, continua a comportarsi nel modo più autoritariamente centralista saltando a piè pari le competenze delle Regioni, in queste materia decisamente rilevanti. Come ha puntualmente rilevato il Consiglio di Stato, un altro organismo di controllo decisamente “fastidioso” per Berlusconi.

Questo Codice degli appalti cancella praticamente le garanzie della legge Merloni approvata, non a caso, subito dopo Tangentopoli ed è tutto all’insegna della flessibilità, della eliminazione di paletti di garanzia. Oltre a risultare, in taluni punti, piuttosto confuso. Comunque corrisponde alle migliori aspettative degli immobiliaristi fra i quali, del resto, il presidente del Consiglio è nato e cresciuto come imprenditore. La Merloni poteva venire modificata sulla base dell’esperienza, ma così viene azzerata.

Il governo di centrodestra, nei giorni scorsi, ha presentato con alcuni anni di ritardo quel «Rapporto sullo stato dell’ambiente», ricco, fra l’altro, di dati fermi al 2001 per i quali il ministro Matteoli non ha alcun merito. Dal centrosinistra e dalle associazioni sono venute puntuali e pungenti contestazioni fattuali: fondi per l’ambiente tagliati del 27 per cento, zero euro per la lotta allo smog, emissioni inquinanti aumentate del 12 per cento rispetto al '90 (con le centrali a carbone galopperanno), condoni per 40 milioni di mc abusivi, fonti energetiche rinnovabili ferme al 5 per cento, ecc.

Queste e altre contestazioni sono documentate in un ampio volume del Wwf Italia, curato da Gaetano Benedetto, «Politica e ambiente: bilancio della legislatura 2001-2006», Edizioni Ambiente, pag.382.

Autentico “manuale” dei regressi di ogni sorta patiti in questi cinque anni dal prezioso ambiente italiano per il quale, dagli anni ‘80 in qua, robusti passi avanti erano stati invece compiuti.

Cominciamo dalle Grandi Opere tanto vantate e rimaste, per fortuna dell’Italia, in buona parte sulla carta: «in alcuni casi mancavano le analisi che avrebbero dovuto costituire il presupposto stesso dei progetti preliminari», scrive Benedetto nell’introduzione. La strategia di governo non ha poi tenuto conto di dati economici di base: per esempio che il 75 per cento del traffico autostradale è locale, si limita ad un massimo di 100 chilometri, per cui c’è bisogno semmai di potenziare le strade, essendovi già in Italia 22,8 chilometri di rete autostradale ogni 100 chilometri di rete stradale (media europea molto più bassa: 13,2 chilometri). Tanto meno ha tenuto conto del fatto che ferrovie elettrificate e a doppio binario coprono da noi il 34 per cento della rete, contro il 43 per cento di quella tedesca e quasi il 45 di quella francese. Col Sud e coi pendolari trattati peggio di qualche decennio fa.

Ma veniamo allo strategico protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di gas serra. Il governo Berlusconi è in netto ritardo e, col decreto “sblocca-centrali” del ministro Marzano, ha semplificato le procedure per decine di nuove centrali elettriche che produrranno 12.000 megawatt (le tanto ricordate importazioni si fermano a 6.000 megawatt), con un forte incremento delle emissioni inquinanti. Bisognerebbe puntare maggiormente sulle fonti rinnovabili (eolico, biomasse, solare e fotovoltaico, ecc.) di cui il programma del centrodestra sull’energia praticamente non parla e su di una rinnovata politica di risparmio energetico. Qui Benedetto produce un dato clamoroso: «intervenendo sull’efficienza (cioè sul sistema di utilizzo dell’elettricità, dalle industrie agli elettrodomestici di casa) si potrebbe recuperare il 47 per cento dei consumi energetici, oltre 10.000 megawatt». Basterebbero incentivi mirati in tale direzione per un risparmio gigantesco di emissioni.

Veniamo ai parchi. Matteoli dice di aver aumentato l’estensione delle aree protette. Operazioni compiute per lo più dalle Regioni, avendo il suo ministero seminato di gestioni commissariali, e di presidenti col solo titolo di merito della tessera di An, i Parchi Nazionali di mezza Italia ed affermato più volte il principio-guida secondo il quale essi devono venire “sfruttati” economicamente, magari anche a fini venatorii. «La conservazione della natura sembra quasi un corollario del lavoro e non la “mission” degli enti parco», scrive il segretario generale aggiunto del Wwf Italia. Non che non ci debbano essere ricadute anche economiche, ma la salvaguardia del patrimonio forestale, naturalistico, delle mille e mille biodiversità della flora e della fauna devono precedere ogni pur corretto “business”.

La Corte costituzionale ha definito con grande chiarezza l’ambiente «elemento determinante della qualità della vita», «valore primario ed assoluto», «bene unitario che va salvaguardato nella sua interezza», «non suscettibile di essere subordinato ad altri interessi». Ripercorrendo la cronaca di questo nero quinquennio, la vicenda dei condoni, della vendita delle spiagge demaniali, dell’abbassamento dei livelli di guardia per i rifiuti e per l'inquinamento, si ha la percezione angosciante che questi concetti-cardine della Costituzione formale e materiale siano stati considerati dal governo parole al vento, anzi precetti ostili e molesti.

Lo scandalo silenzio-assenso; ecco come si distrugge un Paese

Un nuovo intervento su l’Unità (del 10 marzo 2005) contro un provvedimento gravissimo. Che la sinistra comprenda gli erori che ha fatto e le direzioni di lavoro che ha incoraggiato quando è stata al governo?

Con la Super DIA, cioè con la Dichiarazione Inizio Attività molto estesa e col meccanismo del silenzio/assenso in caso di mancata o tardiva risposta degli organi tecnici di controllo e di tutela entro 30 giorni, il governo Berlusconi finirà per intaccare le fondamenta di parti essenziali dello Stato. «Possiamo prenderlo sul serio?», si era chiesto un grande esperto, un ex ministro, Sabino Cassese, sul Corriere della Sera. «Se dovessimo prenderlo sul serio, lo Stato avrebbe chiuso i battenti».

In effetti è in questione il valore stesso della legalità. Ora ne sembrano esclusi beni e paesaggi vincolati. Ma per tutti gli altri la svolta (nel buio) sarà davvero epocale. Non bastavano, e avanzavano, i vari condoni, le varie sanatorie?

«La primissima bozza del provvedimento» prevedeva - l'ha confermato ieri alla Camera il ministro Urbani - l'estensione della «semplificazione», col silenzio/assenso incorporato, al settore, delicatissimo, dei beni culturali e ambientali. Lo stesso ministro, riconoscendo che il vincolo è «perfettamente conforme alla migliore tradizione liberale di questo Paese», ha escluso, sulla base dei dati ricevuti dagli uffici, che la cura Berlusconi-Baccini possa estendersi al patrimonio culturale e al paesaggio. «Queste sono le considerazioni che ribadirò al prossimo consiglio dei ministri». Parole tranquillizzanti. Bisognerà vedere in quale conto verranno tenute al tavolo del governo. Anche ai vari condoni Urbani disse di no. Senza essere, malauguratamente, ascoltato.

Che cosa verrà approvato. Del provvedimento di "semplificazione" sono girate almeno tre versioni. Dovrebbe trattarsi di un decreto-legge, quindi subito esecutivo, senza tanti dibattiti preventivi, inserito nelle misure sull'incremento della competitività.

Quando verrà approvato. C'è chi dice al prossimo consiglio dei ministri, ma non è certo. Allora quando? Quando le forze di governo troveranno una non facile intesa politica. Se si tratterà di disegno di legge, i tempi, ovviamente, si allungheranno.

Carta di riserva. In ogni caso, il governo ha presentato una carta di riserva: alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, da metà novembre, è in discussione un emendamento di «semplificazione» che prevede forme di autocertificazione in tutti i campi, escludendo difesa, pubblica sicurezza, salute, immigrazione, giustizia Fino a ieri vi erano inclusi pure i beni culturali e ambientali vincolati. Con 30 giorni per dire un sì o un no. Altrimenti il silenzio-assenso, cioè mano libera alle speculazioni e alle manomissioni più disastrose. Anche sui lavori del Senato bisogna quindi vigilare molto attentamente. Come chiede, allarmato, il senatore Sauro Turroni.

Beni culturali. Esclusa, stando ad Urbani, l'estensione della Super DIA ad immobili e ambienti vincolati, rimangono taluni dubbi. L'articolo 5 - secondo la lettura fatta da «Patrimonio SOS» che ha promosso con Italia Nostra, Wwf, FAI, ecc. un vibrante appello di protesta - conferisce al Commissario straordinario preposto a progetti strategici poteri altrettanto straordinari, senza alcun bisogno di convocare Conferenze di servizi con le Soprintendenze. Mano libera quindi, totalmente? In un altro articolo, il controllo doganale viene «semplificato» anche per i beni culturali. Misura gravissima: il traffico clandestino di opere d'arte e soprattutto di preziosi reperti archeologici in partenza dall'Italia è fiorentissimo, anche se sono ormai tanti i recuperi operati da Carabinieri e Finanza. Allentando però le maglie, «tombaroli» e mercanti ne trarranno vantaggi. Verrà cancellato o rimarrà?

Cosa succede al Ministero. La presa di distanza, piuttosto netta stavolta, di Giuliano Urbani dallo smantellamento dei vincoli su beni culturali e ambientali (la prima legge sul paesaggio reca la firma del massimo filosofo liberale del '900, Benedetto Croce) ha suscitato echi positivi. Si attende però il consiglio dei ministri.

Un j’accuse. Ieri è stato tuttavia reso pubblico un autentico j'accuse contenuto nella lettera inviata a Urbani da Libero Rossi, segretario della Cgil Funzione pubblica-Beni culturali. In essa si sottolineano autentici «buchi neri» come: a) la mutilazione del Nuovo Codice «dei suoi contenuti più interessanti e più rigorosi» attraverso la condonabilità degli abusi paesaggistici; b) il «salto nel buio» della riforma del Ministero, con Direzioni regionali istituite con personale rastrellato da Soprintendenze di settore già carenti di tecnici e quindi ulteriormente indebolite nel loro ruolo fin qui essenziale sul territorio; c) una politica molto sbilanciata a favore dell'imprenditoria privata, «finalizzata a togliere all'Istituzione Pubblica il proprio ruolo centrale nel sistema della tutela e conservazione»; d) la riduzione drastica degli investimenti programmati dal Ministero, vicina al 70 per cento nel settore dei beni architettonici e paesistici (il più minacciato); e) in quattro anni, nessun aumento né aggiornamento della (scarsa) dotazione di mezzi («un qualsiasi ufficio comunale di un piccolo paese è più dotato di mezzi di una grande Soprintendenza»)... Probabilmente il Bel Paese - quello già protetto da vincoli - scamperà allo smantellamento dei controlli pubblici preventivi. Ma, come si vede, la tutela si è già tanto indebolita dal 2001 ad oggi. Come non era mai successo. Una svolta negativa epocale.

22.03.2004

Urbani non ne dice una giusta

di Vittorio Emiliani

Il ministro dei Beni Culturali, Giuliano Urbani, è stato ospite sabato sera della bella, utile e spiritosa trasmissione di Fabio Fazio Chetempochefa. Doveva spiegare novità e pregi della legislazione promossa dal suo governo per il patrimonio storico e artistico e e per il paesaggio della Nazione, tutelati dalla Repubblica, secondo l’articolo 9 della Costituzione.

Per prima cosa ha detto che in basi alle leggi precedenti i beni culturali demaniali, pubblici, ecc. potevano essere venduti, infatti gli elenchi ora predisposti dall Agenzia del Demanio sono stati redatti in base ad un Regolamento del 2000.

Non è vero.

È vero invece che in base alle leggi Bottai del 1939 recepite nel Testo Unico del 1999 i beni immobili pubblici (perché di questi soprattutto si tratta) erano inalienabili in quanto tali. Infatti molti di essi, anche importanti, non vennero neppure sottoposti a vincolo perché non ve ne era bisogno essendo incedibili (fatte salve rare eccezioni). Poi, nelle votazioni alla Camera per la Finanziaria 2000, la Lega Nord infilò un emendamento che ribaltava questo principio: tutti i beni diventavano dunque alienabili, salvo eccezioni. L’ intero Polo (si presume anche Forza Italia e magari pure l’ on. Urbani) votarono quello sciagurato emendamento e, ahinoi, pure una parte dell’Ulivo. L’emendamento passò. Ma la Finanziaria doveva essere ancora vagliata dal Senato e le associazioni di tutela, il gruppo dei Verdi e altri sollecitarono l’allora ministro Melandri a rimediare a quella enorme falla. Il Senato votò un ordine del giorno che impegnava il governo a varare un Regolamento che ripristinasse il principio fondamentale (tutti i beni culturali pubblici sono inalienabili salvo eccezioni autorizzate dalla Soprintendenze) e normasse le eccezioni. Una commissione lavorò mesi. Produsse un testo approvato da tutti, compresi i Comuni e le Province divenuto il Regolamento n.283 emanato con decreto presidenziale Ciampi il 7 settembre 2000.

Cardine di esso: la predisposizione di elenchi da parte degli Enti pubblici proprietari di quei beni e il loro invio alle Soprintendenze Regionali le quali avrebbero operato entro 24 mesi le opportune integrazioni inserendoli nell’elenco previsto. Le richieste di affitto, di cessione in uso a privati, dovevano essere accompagnate da un piano di utilizzo dettagliato. Se il piano non fosse poi stato realizzato in modo adeguato, la Soprintendenza poteva revocare la cessione in uso.

Sabato sera Giuliano Urbani, dopo aver definito sciocchezze i due principi ricordatigli da Fabio Fazio (inalienabilità generale con eccezioni; alienabilità generale con eccezioni) ha vantato la superiorità del suo Codice sulle leggi precedenti. Senonché gli è scappato detto: «Prima si pensava di vendere. Oggi si vuole vendere». E ha calcato su quel si vuole. È Tremonti che vuole, per fare cassa. Altrimenti perché avrebbe creato la Patrimonio SpA, perché non tenersi stretto il Regolamento Melandri? Appunto perché si vuole vendere.

Allora, quali beni sono classificati inalienabili dal Codice e quali lo erano per le tanto spregiate leggi precedenti? Vediamo un po’. Secondo il Regolamento n.283, inalienabili erano: 1) i beni riconosciuti con legge monumenti nazionali; 2) i beni di interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere; 3) i beni di interesse archeologico; 4) i beni che documentano l’identità e la storia delle istituzioni pubbliche, collettive, ecclesiastiche , cioè sedi o ex sedi di Municipalità, di Vescovadi, di Accademie, ecc.

Cosa resta nel tanto decantato (dal ministro) Codice Urbani? Restano i beni archeologici e gli immobili riconosciuti come monumenti nazionali. Sparisce però completamente il punto 2 e diventa molto vago il punto 4. Quindi c’è un palese indebolimento.

Ma Urbani ha aggiunto: stavolta gli elenchi li facciamo noi. Una mezza verità poiché li sta facendo l’Agenzia del Demanio e li invia al Ministero. Non ci sono più di mezzo gli Enti pubblici. C’è l’Agenzia del Demanio che vuole vendere e che dà un prezzo pure all’isola di Giannutri o alla Villa di Tiberio.

Vi è di più e di peggio: il ministro Urbani ha consentito che nel suo Codice venisse introdotto il congegno tremontiano del silenzio/assenso. Se le Soprintendenze non rispondono alla richiesta dell’Agenzia del Demanio nel termine di 120 giorni (che poi si riducono in realtà a 30), dando motivato parere, il loro silenzio equivale ad un si venda. Secondo il ministro, è un lavoretto da poco per le Soprintendenze. Secondo il soprintendente regionale delle Marche, Francesco Scoppola, uno dei più preparati, il nostro lavoro, soltanto per i beni demaniali, si moltiplicherà per sette. Poi c’è il condono edilizio voluto da Tremonti (al quale Urbani si è blandamente opposto). Un condono, ha ammesso, non è una bella cosa, ma col solito scatto d’orgoglio ha sottolineato: per la prima volta abbiamo escluso le aree protette. Altra mezza verità. E stata l’opposizione a costringerveli. Silenzio tombale di Urbani invece su di un altro punto-chiave del condono: per la prima volta vengono sanati anche abusi commessi in parte su suoli demaniali. Mai accaduto. Un altro varco aperto nella tutela. A quando condoni totali sul demanio marittimo, fluviale, ecc.?

E i Musei, diverranno privati? Urbani ha svicolato così: la proprietà dei Musei rimarrà pubblica. La proprietà, certo. Ma l’intera gestione diventerà privata. A cominciare dal Museo Egizio di Torino. Infine, una delle materie più roventi: i piani paesistici, la legge Galasso, i poteri di bocciatura delle Soprintendenze per i progetti deturpanti. Tutte le Regioni che lo vorranno, ha spiegato testualmente Urbani, potranno assumere piani paesistici che faranno aggio sui piani urbanistici. Prima, succedeva di più e di meglio: con la legge Galasso dell’85, le Regioni erano obbligate ad adottare piani paesistici cogenti e se non lo facevano, il Ministero con le sue Soprintendenze si sostituiva a loro. Come è infatti avvenuto in Campania e Calabria, come stava avvenendo, finché ci fu la Melandri al Collegio Romano, in Puglia e nella stessa Lombardia.

Dal 1° maggio, col Codice, il potere di bocciare un mostro paesaggistico non ci sarà più. Le Soprintendenze saranno chiamate a dare un semplice parere, preventivo e consultivo, sull’autorizzazione comunale. Poi saranno disarmate. Giustificazione di Urbani: tanto, quelle bocciature le cancellava sistematicamente il Tar.

Non è vero: su 3.000 bocciature di media all’anno, quelle importanti rimanevano tali. Irrevocabilmente. In certe regioni rimanevano tutte valide.

I costruttori più disinvolti e rapaci staranno brindando. Difatti il progetto di legge urbanistica di cui è relatore l’on. Lupi (FI) promette di peggiorare il Codice Urbani e pare che stia incontrando consensi pure fra deputati dell’opposizione. Si gradiscono smentite.

All'attacco sistematico verso l'insieme delle conquiste sociali e dei diritti portato dalla maggioranza in nome di un liberismo selvaggio non poteva mancare l'aggressione al pilastro su cui si è retto finora il governo delle città. La legislazione consolidata era infatti basata sulla prevalenza degli interessi pubblici su quelli privati: un concetto scontato dal tempo degli Stati liberali che deve però apparire al governo in carica come un'intollerabile provocazione.

Nell'ultimo scorcio del 2003 la competente Commissione della Camera dei deputati ha iniziato a discutere la riforma del governo del territorio che nella precedente legislatura non era stata portata a conclusione dai governi ulivisti. C'è da rimpiangere l'equilibrata proposta allora redatta di fronte al testo di maggioranza steso dall'on. Lupi. Questi, negli anni Ottanta, aveva svolto l'importante ruolo di assessore all'urbanistica del Comune di Milano: proprio in quegli anni "da bere" prende corpo la nuova urbanistica milanese che si basa, come noto, sulla contrattazione tra proprietà fondiaria e l'organo esecutivo comunale. Il metodo dell'urbanistica, la partecipazione dei cittadini, la faticosa ricerca degli interessi collettivi è un inutile impaccio da cancellare senza scrupoli.

Da una tale esperienza non poteva nascere nulla di buono, ovviamente. Vediamo alcune "perle" della citata proposta di legge. All'articolo 3 viene introdotto il concetto di "soggetti interessati": nell'attribuire alle amministrazioni pubbliche la responsabilità della pianificazione, si dice però che questa funzione deve essere svolta "sentiti i soggetti interessati" e ai quali - si noti bene - " va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione al procedimento di formazione degli atti". Non si tratta come potrebbe apparire dell'universalità dei cittadini, e cioè di coloro che vivono le contraddizioni e le disfunzioni urbane. Niente affatto, nella relazione di accompagnamento si specifica infatti che si sta parlando "dell'operatore privato" equiparato alla pubblica amministrazione nei doveri verso "il cittadino e la persona". E' dunque l'impresa privata insieme al potere democratico ad assumere il ruolo di attore delle trasformazioni urbane! Un'aberrazione che rappresenta una devastante innovazione nella prassi legislativa del paese.

Di fronte a questa involuzione del concetto stesso di democrazia una parte dello schieramento progressista sta cercando di costruire un argine e ha formulato varie proposte alternative nella stessa Commissione parlamentare. Del resto, di fronte all'apparire di questa nuova filosofia nel governo della città di Milano, la sinistra ebbe la forza di contrapporre un modello alternativo, basato sulla prevalenza dell'interesse pubblico e sul metodo dell'urbanistica. Si affermò in particolare che l'urbanistica contrattata era una regalo alla rendita speculativa fondiaria mentre penalizzava il mondo delle imprese edilizie. Una precisa scelta di campo a favore della proprietà parassitaria che non trova riscontro negli altri paesi europei.

Il grave rischio che si sta correndo in questo frangente è che una parte dello schieramento ulivista si è associato a tale devastante proposta: nel mese di dicembre, infatti, l'on. Lupi ha presentato un testo coordinato con quello presentato da un deputato della Margherita, l'on. Mantini. Ma l'apparentemente inarrestabile cupio dissolvi di una parte del pensiero progressista non finisce qui. Tutto l'Istituto nazionale di Urbanistica, come un sol uomo, ha affermato a più riprese che il testo proposto da Forza Italia è una buona base per poter approvare celermente la nuova legge. Il suo presidente onorario, Giuseppe Campos Venuti, peraltro, oltre a ribadire l'attenzione verso quel testo, ha paradossalmente speso molte argomentazioni nel denigrare e tentare di demolire la proposta dei Ds dell'on. Sandri. In verità sfugge come la sinistra possa accettare una discussione che parte sulla restrizione dei diritti di tutti i cittadini. Più in generale, peraltro, non si comprende come si possa discutere con una maggioranza di governo che ha approvato il terzo condono edilizio e sta svendendo il patrimonio storico e artistico del paese.

La vicenda della nuova legge sul governo del territorio, dunque, rientra nel più generale attacco verso le conquiste del mondo del lavoro, nella volontà sistematica di smantellare lo stato sociale - dalla scuola alla sanità - che garantivano quanto meno la possibilità di accesso ai servizi. E la ripresa della discussione a gennaio del 2004 rappresenta una questione centrale su cui si può ricostruire un profilo dello schieramento progressista.

Gli «energumeni del cemento armato»: Vezio De Lucia rispolvera l’espressione che Antonio Cederna usava nelle sue prime battaglie per il Bel Paese, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, per definire coloro i cui interessi, sostiene, stanno di nuovo trionfando in questo 2005. Classe 1938, «da sempre», sono le sue parole, impegnato con Italia Nostra, De Lucia - l’«urbanista militante», definiamolo così, direttore generale dell’Urbanistica del ministero dei Lavori pubblici fin quando, essendo troppo scomodo, non fu destituito dal ministro dc Giovanni Prandini, poi storico assessore a Napoli con la prima giunta Bassolino, autore di una messe di saggi che, si è soliti dire, hanno spiegato l’urbanistica a chi urbanista non era - dalla Sala dello Stenditoio del complesso del San Michele lancia un appello. L’associazione celebra con un convegno il primo mezzo secolo di vita e qui circola questo documento contro la legge di riforma del territorio che, in esame all’VIII Commissione della Camera, è prossima ad andare in aula. Un appello che Italia Nostra sottopone alle firme dei cittadini. Ma i cui interlocutori politici sono da un lato i sindaci (i primi, spiega De Lucia, a essere spossessati dei loro poteri in materia urbanistica, se la legge passa); dall’altro però i partiti e la stampa di opposizione, colpevoli - giudica - di un interesse tiepido o nullo nei confronti della materia. La domanda sottesa è: per ignoranza o sostanziale concordia, su questo tema, col centrodestra? In vista delle elezioni, perora l’appello, i partiti dovrebbero chiarire come la pensano e cosa fanno «su un argomento così rilevante per il futuro del paese, le condizioni di vita dei suoi abitanti, la sorte stessa della democrazia».

De Lucia, il cinquantenario di Italia Nostra cade in un anno particolarmente sciagurato, quanto alle tematiche che l’associazione ha a cuore: il 2004 ha visto il ciclone Urbani sui beni culturali, il condono edilizio e il decreto delegato per la tutela ambientale; il 2005 nasce con la rimozione di Adriano La Regina dalla soprintendenza archeologica di Roma. Per vederla più rosea, diciamo «lunga vita a Italia Nostra»: di associazioni, come la vostra, che si battono per la tutela, ce n’è più che mai bisogno. La riforma del governo del territorio in esame a Montecitorio aggrava o migliora la situazione?

«Si va di male in peggio. La “legge Lupi” così viene chiamata perché l’estensore ne è Maurizio Lupi, deputato di Forza Italia, già assessore all’urbanistica al Comune di Milano e inventore di quello che io chiamo “rito ambrosiano”, ovvero l’urbanistica contrattata. Un’urbanistica che non vede più l’esclusiva competenza, in materia di decisioni, del potere pubblico, ma dove il pubblico contratta con gli interessi immobiliari».

E nel capoluogo lombardo il «rito ambrosiano» ha già prodotto danni?

«Milano è una città dove il rapporto classico tra piano regolatore e attività edilizia privata si è capovolto: sono i progetti edilizi, una volta approvati, a dettare il piano regolatore».Esportato su scala nazionale il «modello Lupi» dunque, è la sua tesi, produrrà sconquassi: quali?

«Vado in ordine di gravità. Primo: la legge cancella gli standard urbanistici. Cioè quei vincoli che sono stati conquistati grazie alle grandi battaglie degli anni Sessanta per migliori condizioni di vita sul territorio. Il decreto del 1968 garantiva una sorta di “diritto alla città”, espresso sotto forma di superfici minime assicurate a ogni cittadino italiano per ciò che concerneva i servizi essenziali».

A quanti metri quadri di servizi abbiamo diritto in quanto cittadini? Quanti ne stiamo per perdere?

«Nove metri quadrati di verde pubblico di quartiere e quindici metri quadrati su scala territoriale, due metri quadrati e mezzo di parcheggio, poi l’istruzione e altre attrezzature».

E invece, lo scenario futuro che cosa prefigura?

«Siamo al secondo punto: le scelte in materia di uso del territorio non saranno più di esclusiva competenza del potere pubblico, ma deriveranno da “accordi negoziali con i soggetti interessati”. E gli “interessati” non sono la totalità dei cittadini, ma i portatori di interessi economici».I palazzinari?

«Sì, i palazzinari. Terzo punto: la tutela dei beni culturali e del paesaggio viene scorporata dalla disciplina urbanistica, non fa più parte della materia. E allora ricordiamo che alcuni dei grandi risultati ottenuti, anche da Italia Nostra, per esempio a Roma la tutela di duemila ettari dell’Appia Antica, già lottizzata ma restituita a esclusivo uso pubblico col piano regolatore del 1965; la salvezza delle colline di Firenze, Bologna, Bergamo, Napoli; il grande parco, milleduecento ettari, delle Mura di Ferrara: a Roma anche Tormarancia, lottizzata e salvata, invece, col suo valore archeologico e paesaggistico: sono realtà che, con questo nuovo regime, non ci sarebbero».

Ma la trattativa coi palazzinari, in sede di piano regolatore, non è un compromesso necessario? Questa legge non ha il merito di rendere trasparente quello che finora avveniva sottobanco?

«Io dico che le pagine più belle dell’urbanistica del dopoguerra sono state scritte con assoluta limpidezza. Gli esempi fatti prima senza quella limpidezza non ci sarebbero. Mentre da domani saremo “costretti” a contrattare con la proprietà fondiaria».

Un altro urbanista, Paolo Berdini, in un articolo su Aprile di gennaio sostiene che le radici di ciò che avviene oggi - il trionfo di una visione neoliberista che, scrive, rende «le città puro fattore di mercato lasciato al libero arbitrio della rendita fondiaria e immobiliare» - sono in epoche più lontane. A inizio anni Novanta. Ad allora va fatto risalire l’inizio di un processo che abbatte quello che possiamo chiamare il Welfare urbanistico. E che interessa i cittadini in modo primario: un processo che ha fatto lievitare in modo astronomico i costi delle case nelle aeree metropolitane; che, per questo motivo, ha portato tra il ‘91 e il 2001 un milione di italiani ad abbandonare le città; mentre l’imprenditoria immobiliare guadagnava da pazzi, se - questo è l’esempio che Berdini porta - a fine 2004 una cordata di immobiliaristi guidati da Francesco Paolo Caltagirone sono riusciti ad acquistare la Banca Nazionale del Lavoro, uno dei maggiori istituti di credito. E se, aggiungiamo noi, oggi tra gli investitori più dinamici nel mondo dei media, dei giornali, ci sono proprio loro, i «palazzinari».

De Lucia concorda con quest’analisi del suo collega Berdini?

«Certo. Se la proprietà immobiliare si sottrae al rischio dell’autonoma determinazione del potere pubblico cosa succede? Che si valorizza in modo vertiginoso».

La legge urbanistica nazionale ha più di sessant'anni e, pur essendo un'ottima legge, ne dimostra molti di più: le città sono molto cambiate negli ultimi decenni, e cambiati sono i contenuti e i modi delle loro trasformazioni. Un parlamentare della maggioranza, Maurizio Lupi, e un parlamentare dell'opposizione, Pierluigi Mantini, firmatari di due diversi progetti di nuova legge urbanistica, stanno cercando di costruire un testo unificato da sottoporre al dibattito delle camere. L'impresa ha suscitato perplessità e diffidenze: nel clima politico attuale ciò è più che comprensibile, ma la maggior parte delle riserve espresse derivano probabilmente da idee sbagliate sui compiti dell'urbanistica.

Con urbanistica si intendono ormai le cose più diverse, dall'arte di progettare e costruire le città, ai problemi della difesa ambientale o delle sostenìbilità, mentre l'urbanistica regolata dalle leggi è un'attività più specifica di quanto generalmente si immagini.

L'urbanistica è un'attività rivolta, con la forza della legge, alla definizione delle modalità d'uso del suolo e della mobilità. Nella pratica questo vuol dire che il compito dell'urbanistica è quello di controllare e ridurre i possibili effetti negativi prodotti dalle trasformazioni urbane di qualunque tipo.

A causa delle caratteristiche del suolo, una risorsa scarsa e non riproducibile , per svolgere il suo compito 1'urbanistìca non può intervenire dopo che le trasformazioni sono avvenute, sarebbe troppo tardi. L'urbanistica deve anticipare le trasformazioni ed è così costretta a costruire essa stessa il mercato urbano, un'operazione che svolge soprattutto attraverso l'assegnazione dei diritti di edificazione, espressi negli indici di edificabilità, oggetto principale di contesa quando si discutono le scelte di un piano regolatore.

La costruzione del mercato urbano ha conseguenze significative sui diritti dei cittadini. L'importanza politica delle scelte dell'urbanistica deriva dal fatto che quelle scelte determinano le condizioni del dove e come abitano, lavorano, fanno la spesa, si divertono, e di quanto tempo sono costretti a consumare per spostarsi da un posto all'altro. Un noto giurista ha definito il piano regolatore una «costituzione impermanente»: il piano regolatore è una costituzione proprio perché definisce non solo i diritti di proprietà, ma soprattutto i diritti di cittadinanza; è una costituzione impermanente

a differenza della Carta costituzionale destinata a sfidare il tempo , perché la città si trasforma e il piano regolatore si modifica per disegnare e controllare le trasformazioni urbane. Dire che attraverso la costruzione e il controllo del mercato urbano l'urbanistica disegna i nostri diritti di cittadinanza non significa negare l'importanza di altri compiti come quello della costruzione di una città bella, oltre che giusta. Una città bella può essere un diritto di ogni cittadino, ma sarebbe difficile considerarla l'attributo di maggior rilievo, anche perché in un mondo come il nostro è molto difficile stabilire uno standard condiviso di bellezza urbana, mentre è meno difficile trovare un accordo su quello che dovrebbe essere lo spazio minimo necessario per abitare, o il tempo massimo che si è costretti a passare in automobile o in metropolitana per recarsi al lavoro o a scuola.

Ricordare che l'urbanistica attraverso il controllo spaziale esercita una forma molto importante di controllo sociale significa dire che l'urbanistica disegna i diritti di cittadinanza e che è questo il suo compito principale.

Si tratta di un compito costituzionale che non può essere eluso, e che pertanto deve stare al cuore dei principi definiti dalla legge urbanistica nazionale; i principi che devono garantire un'uniformità di trattamento dei diritti pur nel rispetto delle differenze regionali.

Nel quadro dei principi fissati dalla legge nazionale, le leggi urbanistiche regionali regoleranno le attività amministrative e tecniche attraverso cui l'urbanistica costruisce nei diversi contesti locali il mercato urbano e definisce i diritti di cittadinanza.

Se questi, e non altri, sono i compiti dell'urbanistica, è necessario che il progetto di nuova legge urbanistica nazionale sia il risultato di un accordo su un testo unificato, perché riguarda principi e regole che debbono durare nel tempo, indipendentemente dal variare delle maggioranze parlamentari. Pertanto, perplessità e diffidenze nei confronti dell'iniziativa di Lupi e Mantini sono ingiustificate, e se l'approdo parlamentare non dovesse essere possibile, il loro tentativo rimarrà comunque un contributo culturale e politico molto utile alla redazione di una nuova legge urbanistica nazionale e alla crescita del nostro costume democratico.

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