01 settembre 2007
«Fabbricciane, c’è troppa ambiguità»
PIOMBINO. Dopo l’inchiesta del Tirreno sulla situazione di abusivismo edilizio che si vive alle Fabbricciane, l’area di grande pregio paesaggistico nel Golfo di Baratti, interviene Legambiente, che lancia un grido d’allarme.
«La notizia non è che alle Fabbricciane stia prolificando l’abusivismo, - dice Marco Giovannelli, del direttivo di Legambiente della Val di Cornia - questo la sanno bene in Comune, ma che ad intervenire in quel villaggio sia stata la Guardia Forestale. Il Comune in passato, è stato capace di far demolire una lottizzazione come Riva Verde, ma oggi il responsabile del settore urbanistica dichiara di “non essere in grado di portare avanti una campagna sistematica di controlli serrati”. Un bell’incentivo ai comportamenti illegali di coloro che, dopo aver avuto il premio del condono edilizio statale, potrebbero ora beneficiare anche dell’inerzia del Comune di fronte a nuovi abusi».
Legambiente punta il dito contro la possibilità, ipotizzata dal Comune, di realizzare un sistema di fognature consortile. «Sia il presidente della Circoscrizione di Populonia, sia il responsabile dell’urbanistica, non escludono la possibilità che, consorziandosi, coloro che hanno ottenuto i condoni per “annessi agricoli” alle Fabbricciane possano realizzare fogne e servizi igienici. Come ben sanno questo significa anche acquedotti, elettrificazione e quindi urbanizzazione della zona. Le strade ci sono già. Così come tutti sanno, e dichiarano, che servizi igienici, fogne e acquedotto non servono per coltivare gli ortaggi ma per accogliere una quantità consistente di turisti nei mesi estivi, quindi per usare in modo abusivo gli annessi agricoli condonati, che tra l’altro non possono avere servizi igienici interni. Si stimano 70.000 presenze, ma probabilmente sono ancora maggiori».
«Di fronte a questa realtà - continua Legambiente - le strade sono due: o combattere l’abusivismo (ancora più esoso se compiuto da chi ha già beneficiato dei condoni) o rinunciare a far rispettare la legge e assecondare gli interessi di chi ha comprato lotti agricoli e annessi condonati per farci case turistiche. Il tutto in barba ai problemi ambientali.»
«Sono stati calcolati i consumi idrici e gli scarichi di un paese che potrebbe essere più grande di Riotorto? - si chiede Legambiente - Quale coerenza c’è con la crisi idrica di cui soffre la Val di Cornia? La giunta, al momento dell’approvazione del piano strutturale, aveva dichiarato di non voler premiare gli abusivi e di non voler urbanizzare le Fabbricciane. Alle parole degli amministratori però non seguono i fatti. La nostra posizione è semplice: che sia rispettata la legge e che il Comune torni a fare il proprio dovere con i controlli e le demolizioni delle costruzioni abusive, la rete fognaria, come le altre opere di urbanizzazione primaria non possono essere né pubbliche, ne private».
03 settembre 2007
«Fabbricciane, troppa tolleranza»
PIOMBINO. Dopo l’inchiesta del Tirreno sulla situazione di abusivismo edilizio alle Fabbricciane, l’area di grande pregio paesaggistico sul Golfo di Baratti, interviene la segreteria di Rifondazione Comunista di Piombino.
«Ci preoccupa l’inerzia e la tolleranza del Comune verso l’abusivismo edilizio e riteniamo grave che il settore urbanistica pronunci una specie di resa affermando che “il Comune non è in grado di portare avanti una campagna sistematica di controlli”. Questo equivale a dare un segnale di deregulation, ad incoraggiare nuovi casi di abusivismo sul territorio comunale».
«Ancora più preoccupante - continua Rc - è che si lasci intravedere la possibilità di una urbanizzazione delle Fabbricciane, magari cominciando dalle fognature e dal depuratore, prefigurando un nuovo paese all’interno del territorio comunale, per di più in una delle zone più belle, a due passi dal Parco archeologico di Baratti, peraltro il Presidente della Parchi tace.»
Rifondazione si rivolge dunque all’assessore all’urbanistica e al sindaco: «chiediamo loro di fare chiarezza su questa vicenda, che rappresenta da anni una vera emergenza urbanistica e ambientale. Finora tutto sembra avvenuto in barba ai problemi ambientali e paesaggistici, che solo a parole si dice di voler affrontare. In questo modo anche il nuovo piano strutturale, sbandierato dalla giunta comunale come un piano avanzato, diventa soltanto un libro di buone intenzioni, mentre la realtà è un’altra: ormai si è allentato in questa zona il tradizionale impegno pubblico per la tutela e per l’uso lungimirante del territorio».
«Il Comune - conclude Rifondazione comunista - deve dire chiaramente cosa intende fare e intervenire tempestivamente sugli abusi, senza abdicare dal ruolo di pianificazione e controllo del territorio che per legge gli compete. Riteniamo che debba essere esaminata la possibilità di estendere il territorio dei Parchi alla zona delle Fabbricciane in una grande operazione di conservazione del territorio quale fu attuata, con determinazione e competenza amministrativa, per la Sterpaia».
03 settembre 2007
«No alla lottizzazione a Fonte di Sotto»
CAMPIGLIA. Continua il dibattito sul progetto di residenza turistica alberghiera (Rta) nella zona di Fonte di Sotto, un’ipotesi su cui il paese stesso si è diviso. A intervenire è anche il direttivo di Italia Nostra di Firenze, che appoggia il “Comitato per Campiglia”, contrario alla costruzione. «Il piano di lottizzazione - dice l’associazione - è stato approvato in forma definitiva, il progetto delle opere di urbanizzazione è già stato presentato e, salvo errori, approvato. L’ultima possibilità è che l’amministrazione non rilasci il permesso di costruire per riaffrontare tutta la questione».
«I tempi sono quindi molto stretti per evitare una situazione di non ritorno», dice Mariarita Signorini, consigliere regionale di Italia Nostra e responsabile del settore energia.
L’associazione si schiera al fianco del “Comitato per Campiglia” che si è costituito in base alla convinzione che sia sbagliata la scelta di costruire una residenza turistica alberghiera nell’area che va dalla Fonte di Sotto, alla Madonna di Fucinaia e Temperino fino alla Rocca S. Silvestro e il Parco Archeominerario.
«Zone che finora si sono preservate - afferma la Signorini - grazie al grande impegno scientifico e civile di Riccardo Francovich. Siamo convinti che l’area debba essere tutelata mediante un rigoroso vincolo paesaggistico che impedisca alterazioni incontrollate, da quelle edilizie fino alle trasformazioni del paesaggio agrario, della maglia agraria e dell’assetto boschivo».
Italia Nostra si appella dunque all’amministrazione locale: «Quando giustamente il Comune ha lanciato l’idea “da Rocca a Rocca” (da Campiglia a San Silvestro) come ambito di tutela e valorizzazione delle risorse storiche e paesaggistiche - continua Italia Nostra -, lo ha fatto con la sicura percezione, meritoria e condivisibile, che si tratta un unicum che va salvaguardato al fine di non distruggere sia il rapporto tra le due Rocche, il centro storico medioevale e la campagna, che la testimonianza archeologica di un sistema insediativo fondato sulle attività minerarie, da quelle etrusche a quelle dell’Etruscan Mines, sia lo spazio delicatissimo, e miracolosamente intatto, della campagna: boschi radi di sughere, terrazzamenti coltivati a olivi, corsi d’acqua bordati da canneti. Il Comune non può adesso accettare che questi valori, intorno ai quali è fondata l’identità storica di Campiglia, e sui quali, tra l’altro, ha fatto investimenti rilevanti e operazioni culturali di grande qualità, vengano compromessi radicalmente con trasformazioni e aggiunte edilizie, di qualunque tipo, dimensione e qualità».
«Sconcerta il fatto che invece di promuovere un confronto su altre possibili e più opportune localizzazioni - conclude la Signorini -, nei giorni scorsi i Ds di Campiglia, abbiano affisso e distribuito un manifesto col quale si invita ad aderire alla raccolta di firme promossa da alcuni commercianti, che contiene la seguente premessa: “Ai campigliesi piace Campiglia e vogliono continuare a viverci, a coloro che vogliono bloccare l’evolversi del turismo, la risposta di chi vive il paese tutto l’anno”».
04 settembre 2007
Per Borgo Novo si muove Rutelli
di Manolo Morandini
CAMPIGLIA. Per “Borgo Novo” si è mosso anche il ministro dei beni culturali, Francesco Rutelli. Una discesa in campo per inquadrare la contestata residenza turistico alberghiera prevista alle porte del centro storico campigliese, a cui si oppone il comitato “Per Campiglia”, ma anche Italia Nostra e Alberto Asor Rosa, animatore della Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio. Oggi una delegazione di funzionari dell’ufficio urbanistica del Comune di Campiglia e della Sovrintendenza ai beni ambientali architettonici artistici e storici per le province di Pisa e Livorno è attesa a Roma, presso il dicastero di Rutelli. «Un incontro a carattere tecnico, a cui ho scelto di essere presente anch’io» conferma il sindaco Silvia Velo.
Al di là del buon gusto architettonico, a preoccupare il fronte del “no” è la tipologia di struttura ricettiva scelta, la residenza turistico alberghiera: camere, ma soprattutto bilocali e trilocali, con giardino, che vedono come il fumo negli occhi, memori di altre esperienze che hanno rivelato come la forma si presta a celare seconde case di fatto.
Ma in gioco ci sarebbe anche l’equilibrio tra città antica e campagna. Un totale di 10mila metri cubi per una capacità ricettiva di circa cento persone, sono i numeri della Rta che sorgerà su un pendio a cinquecento metri dalle mura del borgo, a margine della strada che sale da San Vincenzo. Titolare dell’intervento la Fonte di Sotto srl, l’azienda nata ad hoc nell’ottobre del 2006 con socio unico la Costruzioni Generali Roma spa, dell’immobiliarista Luca Olivetti.
«La collocazione della previsione urbanistica è stata scelta e sostenuta da illustri urbanisti, Italo Insolera e Carlo Melograni negli anni Ottanta e nel 1995 da Romano Viviani, che l’ha confermata nel piano regolatore generale approvato quell’anno - sostiene il sindaco Velo - Sono pareri che mi confortano e, del resto, rispetto ai termini in cui sono maturati, il territorio di Campiglia da allora non è cambiato. È una scelta che ho ereditato dalla precedente amministrazione, ma che mi sento di sostenere».
L’opera in fase di approvazione ha riscosso larghi consensi in consiglio comunale, unendo nel voto maggioranza e opposizione, con la motivazione di favorire e qualificare la vocazione di servizio del borgo, in cui operano attualmente solo due affittacamere. Per contrastare il comitato del “no” si sono attivati anche alcuni commercianti del centro storico, che raccolgono firme a sostegno della costruzione di “Borgo Novo” il cui iter urbanistico si è chiuso nel 2005, con la firma della convenzione tra proprietà e Comune di Campiglia. Già in corso, invece, l’istruttoria del progetto delle opere di urbanizzazione, con una previsione di apertura del cantiere a inizio del 2008. L’unico stop alla costruzione, in teoria, potrebbe piovere dall’alto, con un’azione del ministero per apporre il vincolo paesaggistico sull’area.
05 settembre 2007
«Il ministero non intende bloccare il progetto»
di Manolo Morandini
CAMPIGLIA. «Nessuna volontà di mettere il Comune in difficoltà, ma anzi un clima sereno e positivo». Questo il giudizio del sindaco di Campiglia, Silvia Velo, all’uscita dall’incontro al ministero dei Beni culturali di ieri mattina, convocato per esaminare l’affaire “Borgo Novo”. Una riunione a carattere tecnico che è durata circa un’ora, presente anche la Sovrintendenza ai Beni ambientali architettonici artistici e storici per le province di Pisa e Livorno, con l’obiettivo di inquadrare il progetto di Rta a cui si oppone il comitato “Per Campiglia”, ma anche Italia Nostra e Alberto Asor Rosa, animatore della Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio, tutti preoccupati che la forma celi seconde case di fatto e che l’intervento comprometta l’equilibrio tra città antica e campagna. Ma la discesa in campo del ministro Rutelli è da leggere nell’ambito della recente intesa con la Regione Toscana, sottoscritta per inserire il Codice del paesaggio nella pianificazione urbanistica toscana: una verifica di coerenza degli interventi urbanistici, che suscitano allarme, con i valori paesaggistici previsti dal Codice.
«Abbiamo fornito tutta la documentazione, a partire dalle norme del Piano regolatore in cui è inserita la prescrizione urbanistica. - afferma il sindaco Velo - Norme giudicate restrittive dai tecnici del ministero, che hanno esaminato anche il piano attuativo. Non ho colto nessuna intenzione di bloccare l’intervento, ma abbiamo invece concordato di collaborare nell’esame del progetto esecutivo della Rta, che presenterà la proprietà, al fine di determinare la miglior qualità architettonica possibile».
Un totale di 10mila metri cubi per una capacità ricettiva di circa cento persone sono i numeri della Rta. Camere, ma soprattutto bilocali e trilocali, sorgeranno su un pendio a cinquecento metri dalle mura del borgo per opera della Fonte di Sotto Srl, azienda con socio unico la Costruzioni Generali Roma Spa.
Brutte notizie s’intrecciano nella mitica Val di Cornia, teatro di esperienze positive dell’urbanistica italiana: a partire dal piano coordinato dei quattro comuni degli anni 80, dalla costituzione del Sistema di parchi della Val di Cornia, dalla demolizione delle costruzioni abusive nel bosco della Sterpaia, poi tramutato in parco.
Si lavora per trasferire a Piombino i fanghi inquinati asportati dall’Italsider di Bagnoli, aggravando localmente una situazione già grave per l'esistenza di milioni di metri cubi di rifiuti industriali che non si riescono a trattare. S'intensifica l’escavazione di rapina nella cava ai margini del parco di San Silvestro che ha già reso inagibile una parte dell' eccezionale patrimonio archeominerario, nel silenzio del Comune. Solo pochi mesi fa, con l'accoglimento di osservazioni al piano strutturale di Piombino, è stata reintrodotta la previsione di una strada stralciata trent'anni fa da un piano urbanistico che prevedeva la lottizzazione del promontorio di Populonia.
Sono di questi giorni due nuovi avvenimenti, entrambi da iscrivere nel “libro nero” delle amministrazioni locali. A Fabbricciane, nello splendido golfo di Baratti e a un passo da Populonia, dopo i condoni statali che hanno sanato una gigantesca lottizzazione abusiva di oltre 100 ettari, proseguono indisturbati gli abusi edilizi sotto lo sguardo indifferente del Comune di Piombino, che dichiara la sua impotenza. A Campiglia Marittima, a ridosso del centro storico, si attua oggi una lottizzazione, Borgo Novo in località Fonte di Sotto. Questa sembra legittima e risale a una previsione del lontano PRG del 1995 (e non, come invece afferma il sindaco, al piano redatto da Melograni). Le previsioni che solo oggi risultano sbagliate si possono correggere: anche se la convenzione con i lottizzatori è già stata stipulata, senza dover pagare nessun danno se non il rimborso delle opere legittimamente realizzate. Che stralciare previsioni urbanistiche sia possibile è del resto testimoniato dalla stessa esperienza dei comuni della Val di Cornia, dove precedenti amministrazioni cancellarono milioni di metri cubi.
Le associazioni e i comitati ambientalisti si sono decisamente schierati in entrambi i casi. A proposito di Campiglia si può osservare che forse le battaglie dei comitati sarebbero più efficaci se si promuovessero prima, quando i piani urbanistici non sono ancora formalizzati. Ma l’urbanistica e la pianificazione sono argomenti difficili, e così spesso (come a Monticchiello, come Borgo Novo) le decisioni politiche locali hanno messo radici troppo profonde per essere divelte con una spallata.
Ci sono voluti anni di roghi boschivi, c’è voluta un’ultima estate disastrosa con le superfici andate a fuoco aumentate del 330 per cento, e, finalmente, si è individuato il punto debole della (buona) legge del 2000: la mancata attuazione del catasto delle zone incendiate da parte dei Comuni, per gran parte inadempienti, specie al Sud. Il potere torna dunque, per decreto governativo, allo Stato tramite i prefetti per fare «questo benedetto catasto che altrimenti non si fa», ha spiegato il ministro dell’Interno, Giuliano Amato. Ci sarà qualche prefica del decentramento ad ogni costo che verserà lacrime o che protesterà.
Ma la democrazia vera è questa: se l'organismo elettivo locale o regionale o per trascuratezza o per pressioni di gruppi e di lobbies non dà corso ad una buona legge preventiva e repressiva, qualcuno ci deve pensare. In questo e in altri casi lo Stato. Walter Veltroni lo ha proposto anche, gli appalti edilizi al di sopra dei 100mila euro in Comuni particolarmente inquinati dalla malavita. Non è questione di filosofia politica. È questione di sano pragmatismo, di efficienza politico-amministrativa, di senso dell'interesse generale. Si tratta di togliere, applicando la legge, ai malintenzionati, a volte manovali della malavita impegnata nell'edilizia più speculativa, il cerino dalle mani, di rendere quel loro gesto del tutto inutile. Poi qualche psicolabile, qualche pastore retrogrado ci sarà sempre, e però il plotone degli incendiari (per favore, non chiamiamoli più piromani) si assottiglierà di molto non avendo più interesse a bruciare alcunché. Confidiamo che le prefetture faranno in breve tempo ciò che i Comuni non hanno fatto (in sette anni!) per contrastare il passo a quanti vogliono costruire sulle aree bruciate, oppure cambiarne la destinazione d'uso, cacciare o pascolare bestiame sulle medesime (e pure procurarsi lavori stagionali di rimboschimento). Ve n'è gran bisogno, visto che il numero dei roghi si è accresciuto del 70 per cento rispetto al 2006, soprattutto in regioni quali la Sicilia e la Calabria che da sole totalizzano buona parte degli incendi boschivi. Ma, nel contempo, occorre potenziare e razionalizzare il servizio di avvistamento, da terra e dal cielo. Torri di avvistamento ben collocate e visibili scoraggiano gli incendiari. Così come la flotta di piccoli aerei che, nei mesi caldi, la Francia fa alzare in volo quotidianamente - come ha spiegato sull'Unità, Roberto De Marco, già capo del Servizio sismico nazionale - in modo di individuare all'origine i primi focolai ed orientarvi rapidamente canadair, elicotteri e forze di terra. Non quando i roghi si sono già diffusi, potenziati dal vento.
C'è però un altro potere dello Stato, la magistratura, che deve fare la sua parte applicando con la giusta severità le norme esistenti, evitando il rilascio troppo facile degli arrestati e dando anche una adeguata pubblicità a processi e condanne. Ogni anno si arrestano 250-300 persone per reati connessi agli incendi: quante vengono poi processate e condannate? Quest'anno un patrimonio boschivo straordinario - magari all'interno di parchi nazionali come il Pollino o di parchi regionali di grande valore archeologico come quello romano di Veio - è stato incenerito dal fuoco assai spesso doloso. Questo è davvero un caso da "tolleranza zero", nell'interesse di tutti. Una collina a vegetazione spontanea, quando va a fuoco, impiega 9-10 anni a riprendersi. Inoltre quei terreni si «cuociono» e, alle prime piogge battenti, smottano facilmente, sommando danno a danno.
In conclusione: smettiamola di nutrirci di luoghi comuni su decentramento e accentramento. L'Italia delle Regioni esiste da quasi un quarantennio (la Regione Sicilia da sessant'anni ormai), purtroppo con esiti alterni, a volte desolatamente negativi. Si veda l'ambito paesaggistico per il quale alcune Regioni, vedi la Toscana, hanno sub-delegato alla tutela i Comuni. I quali hanno invece interesse, in tempi di tagli ai trasferimenti erariali, ad incassare quanto più possono dagli oneri concessorii e dall'Ici. Il Codice per il paesaggio dice che, entro il maggio 2008, le Regioni «possono» elaborare quei piani paesaggistici che già la bella legge Galasso prescriveva nell'ormai lontano 1985 lasciando tante e importanti Regioni indifferenti. Anche in questo caso, dobbiamo assistere alla cementificazione e asfaltatura integrale del Bel Paese per ridare allo Stato, cioè ai Ministeri dei Beni culturali e della Tutela dell'Ambiente poteri reali di intervento sostitutivo per piani rigorosi e prescrittivi? O vogliamo fare le anime belle del decentramento tanto democratico e chiudere gli occhi sul disastro paesaggistico in corso, dall'alta montagna alla costiera amalfitana, alle coste siciliane e calabresi?
L’Italia brucia ancora. L’Italia brucia sempre. Brucia coi governi di centrodestra e brucia coi governi di centrosinistra. Nazionali e regionali. Gli incendiari sono in qualche caso degli psicolabili, dei drogati, dei ragazzi in cerca di emozioni sensazionali, dei pastori a caccia di nuovi pascoli o (è successo più di una volta) dei forestali stagionali. I quali credono così di garantirsi alcuni anni di lavoro nel rimboschimento. Ma spesso questi killer dei boschi sono manovali di una criminalità che non si rassegna a non poter costruire quello che vuole nelle zone paesaggisticamente protette, nei pressi dei parchi, nazionali e regionali, o persino dentro gli stessi.
Non a caso la legge n.353 contro gli incendi, fortemente voluta dal governo di centrosinistra nel 2000, stabilisce questa serie di divieti: per dieci anni sulle aree percorse dal fuoco non si potrà - sempre che sia permesso dai vincoli di altro genere - costruire alcunché, non si potrà modificare la destinazione d'uso dei terreni, non si potrà cacciare e nemmeno pascolare, mentre per cinque anni non si potranno effettuare lavori di rimboschimento a meno che non li autorizzi espressamente il Ministero per la tutela dell'Ambiente. Evidentemente questi sono stati individuati come gli interessi corposi che più frequentemente armano la mano degli incendiari (a parte una piccola quota di roghi soltanto colposi). Per entrare in vigore, quelle sacrosante misure hanno però bisogno di uno strumento: il Catasto delle aree andate a fuoco. Senza il quale gli interventi di legge e quelli preventivi non sono possibili, o risultano difficili.
Ora, di fronte ai nuovi roghi omicidi di Sicilia, il ministro della Difesa, Arturo Parisi, reitera l'assicurazione, fatta, se non erro, già un mese fa per l'incendio criminale di Peschici nel Gargano, di inviare l'esercito, la marina e altri corpi. Tutto serve per un più attento controllo del territorio, ma, personalmente credo che due altre cose andrebbero fatte subito, senza perdere un minuto: 1) risolvere la crisi ormai annosa di un corpo straordinario come quello dei Vigili del Fuoco, i quali lamentano invece vuoti di organico assai gravi, una mancanza desolante di mezzi finanziari e tecnologici, oltre a remunerazioni inadeguate; 2) penalizzare da subito i Comuni e le Regioni che non si risolvono a realizzare il Catasto delle zone percorse dal fuoco, oppure affidare ai prefetti - come ha proposto il responsabile della Protezione civile, Guido Bertolaso, con l'assenso dello stesso Wwf Italia - quel compito strategico, purtroppo disatteso o trascurato. Non so se per ignoranza o connivenza.
Il centrodestra ha infatti attizzato, in queste ore, una polemica politica (diciamo così) anche sugli incendi, in effetti eccezionali, di questa estate 2007, accusando il governo Prodi di una certa sottovalutazione e inerzia. Per la verità, le Regioni, più minacciate dalle fiamme, nelle quali il Catasto delle zone incendiate è in vigore da anni e dove meglio si è contrastato il barbaro fenomeno dei roghi sono la Liguria (i cui Comuni si sono già dotati del Catasto per oltre l'85 per cento), la Toscana, la stessa Campania, sia pure di recente e però con l'apposizione di oltre 48.000 vincoli. Mentre appaiono tuttora in forte ritardo la Calabria, per anni governata dal centrodestra, e la Sicilia di questi ultimi terribili roghi, dove il centrodestra è al potere da decenni.
Nell'estate del 2006 queste due regioni hanno assommato circa un terzo di tutti gli incendi boschivi d'Italia, con le fiamme che sono dilagate per oltre il 60 per cento dei Comuni in Calabria e per oltre la metà in Sicilia dove le fiamme degli ultimi giorni sono divampate da Messina a Palermo lambendo e assediando centri importanti come Cefalù, con tre morti, per ora, e vari ustionati. Sono le stesse regioni dove in passato non si è voluto adottare alcun piano paesaggistico in forza della legge Galasso del 1985 e dove gli scempi hanno da tempo raggiunto la forma di un vero e proprio «suicidio» collettivo.
Perché l'Italia è il Paese degli incendi? Perché l'Italia è il Paese della speculazione edilizia più bieca e diffusa, con l'abusivismo tornato a galoppare dopo lo sciagurato condono berlusconiano e quindi con l'aspettativa di altre sanatorie di massa. Perché l'Italia è il Paese nel quale la legalità ha raggiunto, almeno nell'Europa sviluppata, il livello più basso di garanzia degli onesti, soprattutto in talune regioni purtroppo. Perché il patrimonio pubblico, collettivo, i beni di tutti gli Italiani vengono considerati, oggi come e più di ieri, beni disponibili per gli usi e gli abusi più privati e addirittura personali.
Perché i venti Parchi Nazionali e le decine di Parchi Regionali e di oasi o aree protette vengono tuttora percepite da una parte della popolazione come una indebita intrusione pubblica in affari privati che si collegano all'edilizia, alla caccia, al pascolo o ad altro, ma soprattutto al cemento. E non invece come una enorme occasione per la salute fisica e mentale di tutti, per la conservazione delle biodiversità e pure per una economia alternativa di assoluto spicco basata sul turismo ambientale e culturale, sui prodotti del bosco e del sottobosco, sulle attività ecocompatibili, agricole, pastorali, artigianali, ecc. Ieri a Torre Guaceto, nel Brindisino, hanno finito di bruciare circa 100 ettari di macchia mediterranea della preziosa riserva del Wwf. «Un incendio sicuramente doloso», ha commentato il suo presidente, «Un puro atto di vandalismo. Qui infatti non si potrà mai costruire».
Molti anni fa il direttore che mi assumeva, Italo Pietra, strenuo difensore della montagna e dei boschi, mi disse: «Tu sei giovane e quindi ottimista. Ma credi a me: questo è un Paese di cretini. Esauritesi certe élites che ancora tirano e una certa saggezza contadina, verrà fuori il peggio...». Di fronte a questa ripresa di massa degli incendi, soprattutto nel Sud, e di fronte alla devastazione quasi generalizzata, a forza di villettopoli, fabbricopoli e simili, del nostro incomparabile paesaggio (che Goethe considerava opera «di artisti e quasi una seconda natura dell'Italia»), devo riconoscere che il suo pessimismo aveva molte ragioni di esistere: un Paese di cretini, barbari per giunta.
Alimuri, dove lo Stato risarcisce gli abusivi
di Ilaria Urbani
Risarcire chi ha commesso un abuso. E' giunta all'epilogo più inaspettato la vexata quaestio su uno degli ecomostri che deturpano da oltre quarant'anni la costa della Campania. Il bestione di cemento armato costruito abusivamente dal 1964 nella conca di Alimuri a Vico Equense sarà abbattuto, così come previsto dall'accordo sottoscritto il 19 luglio tra il ministero dei Beni culturali e la Regione Campania, entro la fine di ottobre, con un intervento economico da parte del dicastero guidato da Rutelli per 300 mila euro e altrettanti da parte dell'ente regionale campano. Il costo totale dell'abbattimento ammonta a un milione e 100 mila euro e al suo posto gli attuali proprietari otterrebbero anche un'ulteriore concessione per costruire un nuovo albergo e la gestione di un lido sulla costa.
Ma se l'ecomostro ha procurato danni ambientali e da più quasi mezzo secolo non ha trovato una completa realizzazione per quale motivo più del 50% dei costi saranno a carico dello Stato e gli attuali proprietari potranno continuare a costruire? Sulla vicenda ci vuole vedere chiaro la procura di Torre Annunziata, che ha aperto un'inchiesta «per verificare se sussistano ipotesi di reato». I maligni infatti sospettano che le agevolazioni concesse alla società Sa.An., proprietaria della struttura, sarebbero state concesse perché ai suoi vertici comparirebbe anche Anna Normale, imprenditrice e moglie di Andrea Cozzolino, assessore alle attività produttive della Regione Campania e tra i candidati alla guida del Pd campano. Gli inquirenti torresi spiegano di «non poter far finta di non vedere» e intanto il procuratore Diego Marmo attende una dettagliata informativa dai carabinieri. L'inchiesta sull'ecomostro in realtà era già stata aperta tempo fa dal pm Sergio Raimondi nell'ambito delle indagini sull'abbattimento di oltre centocinquanta opere abusive.
La nuova struttura che nascerà nella conca di Alimuri sarà autorizzata da un accordo tra esecutivo ed enti locali e non sarà abusiva come lo scheletro di cemento che per oltre 40 anni ha sovrastato la costa dell'area, Ma ambientalisti e sinistra radicale sono scesi già sul piede di guerra. In prima linea c'è il ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, che qualche settimana fa ha tuonato: «Non si può demolire un ecomostro in cambio di nuovo cemento». A fargli eco c' è Franco Cuomo, leader del circolo Vas (Verdi Ambiente Società), che ha così commentato la decisione del governo di «aiutare» i titolari della concessione per procedere all'abbattimento: «In nessun Paese del mondo lo Stato risarcisce chi ha commesso un abuso». Dal canto suo il senatore Tommaso Sodano di Rifondazione ha raccolto 33 firme, tra cui quelle di Russo Spena, Salvi, Villone,Menapace, per un'interpellanza parlamentare alla quale il governo dovrà rispondere entro settembre. «E' inconcepibile - ha commentato - l'offerta fatta ai proprietari dell'ecomostro di Alimuri di poter costruire un nuovo albergo in cambio dell'abbattimento del vecchio albergo abusivo. Le autorità pubbliche dovranno spiegare perché hanno deciso di cofinanziare l'abbattimento dei manufatto in questione e per quali motivi le stesse autorità provvederanno a compensare gli eventuali aumenti di costo dell'operazione di rimozione della struttura».Nell'interrogazione parlamentare il senatore del Prc chiama in causa direttamente ilministro Rutelli, al quale chiede di garantire che la nuova struttura non sorgerà in zone vincolate e non produrrà un impatto ambientale in zone di pregio dal punto di vista ambientale o agricolo, paragonabile a quello dell'enorme edificio abusivo. La storia dell'ecomostro di Alimuri, una baia incantevole tra Sorrento e Castellammare di Stabia, sembra interminabile. Tutto comincia nel 1964 quando viene rilasciata la licenza per costruire a ridosso della costa un albergo di cinque piani, autorizzazione rinnovata anche tre anni più tardi. Nel 1971 la Soprintendenza ordina la sospensione dei lavori e l'amministrazione comunale decide la demolizione della costruzione. Nel 1976 la Regione Campania annulla le licenze rilasciate dal Comune perché in contrasto con il Programma di fabbricazione, ma il Tar Campania nel 1979 e il Consiglio di Stato nel 1982 annullano gli atti adottati dalla Regione. La telenovela prosegue e nel 1986 i lavori sono sospesi dal Comune di Vico Equense perché si rende necessario il consolidamento del costone roccioso retrostante. L'edificio inizia a versare in condizioni degradate e diviene una vera e propria discarica. Col tempo aumenta la pericolosità, con l'inizio della caduta di massi dal costone e della corrosione a causa delmare. A questo si aggiungono un lento crollo del solaio e la staticità dell'edificio sempre più precaria con il passare degli anni. Già nel 1985 la Capitaneria di Porto di Castellammare di Stabia aveva iniziato a vietare il transito e la sosta di persone e imbarcazioni nella parte di mare antistanti la struttura, entro una fascia di 150 metri dal piede del costone. Passano due anni e vengono approvati il Piano paesistico della penisola sorrentina e il successivo Put (Piano di utilizzazione territoriale) che individua l'area di Alimuri come zona di tutela ambientale di primo grado, con divieto assoluto di edificare e trasformare il suolo. Sull'area vige anche un vincolo idrogeologico e l'Autorità di bacino del Sarno inserisce il costone roccioso retrostante alla struttura tra le zone ad alto rischio. A partire dal 2003 inizia la serie infinita di incontri presso la Regione Campania per avviare un'azione complessiva di riqualificazione dell'area che comprende il consolidamento del costone, la delocalizzazione della struttura e la demolizione del manufatto. Durante la primavera di quest'anno arriva la svolta con l'intervento del ministro Rutelli, che il 4 aprile annuncia una campagna contro gli ecomostri: tra le priorità viene indicato proprio lo scheletro di Alimuri. La demolizione porterà all'eliminazione di una struttura che ha un volume di 18mila metri cubi su un'area di 2mila mq, alta 16 metri per un numero totale di 5 piani, compreso il pianterreno. La messa in sicurezza del costone che si trova alle spalle della struttura prevede l'intervento su una superficie lunga 170 metri e alta 90. Unfantasma di cemento armato che per oltre quarant'anni ha contribuito a deturpare una delle coste più belle del nostro paese e la cui sorte ora dipende anche dal lavoro della magistratura. A partire dalla fine di agosto, quando il fascicolo aperto dalla procura di Torre Annunziata inizierà a riempirsi di dettagli e finalmente si farà chiarezza anche sulla competenza ad indagare, ultimo grande intoppo dell'interminabile vicenda Alimuri. «Noi abbiamo aperto un fascicolo sulla scorta degli articoli di stampa, ma nel caso in cui emergano ipotesi di reato - ha spiegato il procuratore Marmo - c'è da decidere ora chi debba occuparsene. Tutto dipende da dove è stato siglato l'accordo, se a Roma, alla Regione o al comune di Vico Equense. Indagheremo
In vaporetto. Con vista sul Mose
di Roberto Ferrucci
Non appena il cielo si rannuvola, da queste parti, tutto il litorale, inteso come bagnanti provenienti da ogni angolo d'Europa, sale su una motonave e si cala a Venezia. Gente in vacanza sulle spiagge di Jesolo, Cavallino, Eraclea e dintorni, raggiunge Punta Sabbioni, sale a bordo di motonavi dell'Actv e queste, ogni mezzora, scaricano sull'approdo di Riva degli Schiavoni centinaia e centinaia di tizie e tizi in bermuda e infradito (e immaginate tutto il diffondersi di, ovvi, è chiaro, ah e oh e uh con le h necessariamente strascicate). Per arrivare fin lì si sono goduti quarantacinque minuti di rilassante navigazione attraverso la laguna veneziana. A seconda dell'intensità della velatura nuvolosa, degli spiragli di sole che, qui e là, riescono a spuntarla, le loro pupille hanno potuto impregnarsi delle sfumature più inattese di verde, di blu, di giallo. Cromatismi cangianti che il paesaggio lagunare sa offrirti di secondo in secondo.
Ma i loro sguardi, per arrivare lontano, hanno dovuto dribblare ostacoli inattesi, gru, paranchi, argagni, chiatte, boe di segnalazione, ma forse nessuno di loro, di noi, possiede il completo glossario di tutti gli aggeggi che infestano questa zona d'acqua. Un paesaggio unico, ai cui colori naturali si è accostata da tre anni una deflagrazione di gialli, di rosa, di blu, di arancioni, di rossi nient'affatto naturali. Tutti i marchingegni necessari a mettere insieme quell'opera mastodontica (mostrodontica) che si chiama Mose e che dovrebbe, dovrà (e non farebbe, farà) salvare Venezia dalle acque alte. Tonnellate e tonnellate di cemento in profondità e in superficie. Sull' (in)utilità del Mose è già stato detto molto. Ma ogni volta che se ne parla, nell'immaginario prende forma qualcosa di astratto. E dato che, soprattutto in tv, se ne parla come qualcosa di magico, di miracoloso, astratto più magico mettono insieme qualcosa di ancor più inimmaginabile. Anche quando vogliono dirci della sua costosissima inutilità, il mostro, questo mostro, mostro diffuso, tentacolare, in gran parte invisibile, ce lo mostrano sempre dall'alto. Foto aeree dove vedi solo lo stato attuale dei lavori e devi allora fare uno sforzo di memoria, ammesso tu ne abbia viste altre, nel passato, di foto dall'alto della laguna veneziana, per ricordare com'era prima.
Servono dunque a poco, oggi, quelle foto. Non ti danno l'idea di ciò che sta avvenendo laggiù, sopra e sotto l'acqua della laguna. Fare altrimenti è semplice, basta fare come i turisti del litorale, prendere la motonave dell'Actv, sei euro di biglietto. Uno soltanto se siete possessori di Carta Venezia. Direzione Punta Sabbioni o Burano. Dalla motonave la puoi ammirare dall'alto, Venezia. E anche la striscia infinita del Lido. Poi, appena doppiata la punta dell'isola, con la torre di controllo biancorossa dell'aeroporto Nicelli, il panorama si apre e, al contempo, si deturpa. La linea dell'orizzonte è frastagliata da slanci geometrici che a noi, della generazione del Meccano, alla fine pure affascinano. Mano a mano che la motonave avanza, le piattaforme, a prua, prendono forma mentre qui, di lato, lungo la diga di San Nicolò, cantieri si manifestano per quello che sono, bulldozer gialli, gru color ruggine, tendoni bianchi, serbatoi grigi, sacchi di plastica verdi con dentro chissà che cosa, container privi di colore e montagne di sabbia e sassi e argagni ruggine, pure quelli.
Sono quei cumuli di massi, sassi e pietre, a inquietare di più, protetti dall'acqua da sgangherate paratie ferrose plissettate, dalle quali pendono vecchi pneumatici sfondati. Economici parabordi per le barche da dove sbarcano, quotidianamente, gli operai impegnati nell'opera. Di lato, a distanze varie, le piattaforme, ancorate al fondo, profonde. Una, due, forse tre sullo sfondo. Di varie dimensioni. Una chiatta, la G. Loris, blu, con a prua una gru bianca, le braccia rosse, è attraccata poco avanti. Quando la affianchiamo, inizio a scattare foto a raffica. A bordo, qualche tonnellata di massi. Il braccio della gru ha appeso una sorta di enorme tentacolo di metallo, di quelli che si aprono a tenaglia. Viene manovrato in modo da abbrancare il maggior numero possibile di pietroni, li solleva, si sposta di pochi gradi e splash, i pietroni finiscono in acqua, come facevamo da piccoli quando rovesciavamo nel secchiello, pieno di acqua, palate di sabbia. Ma era un gioco, il nostro. Guardo i pietroni finire in laguna e provo a immaginare di essere là sotto - ché, la sotto, qualcuno, qualcosa cui questi pietroni provocheranno danni irreversibili c'è - immagino di sentirmeli rotolare addosso, innaturali, invadenti, inutili, devastanti. Guardo, e i turisti a bordo fanno lo stesso, ma con una inclinazione degli occhi che capisci poco aderente al fatto. Non sanno o non capiscono. Lavori in corso, come in una qualunque via della loro città, si staranno dicendo. Guardo, e noto qualcosa che sarà conferma strada facendo. Guardo, faccio zoom e contro zoom, ma sopra e dentro a quei cosi non vedo anima viva. Si ha come l'impressione che questi mostri possano agire da soli, manovrati da un pensiero perverso che ha deciso che qui sì.
Qui nella laguna veneziana, era possibile sperimentare prima e mettere in atto poi uno scempio utile solo a chi lo fa, nel senso di milioni e milioni e milioni di euro. Non bastava Porto Marghera. Bisognava accerchiarla di bruttezza, Venezia. E via col Mose. Dighe mobili che verranno utilizzate, se mai lo verranno, una volta ogni due tre anni, quando cioè Venezia è vittima - ogni due tre anni, appunto - di maree superiori ai 130 cm. Sotto, dicono i progettisti stessi, il Mose è inutile.Ma brutto, devastante e costoso. Per questo era necessario costruirlo.
Più avanti passiamo accanto a un'altra chiatta quasi uguale alla precedente - è per questo che si chiama Zemello II, mi dico - alle prese con l'identica operazione, tenaglia, pietroni, splash. La motonave vira, si avvicina lenta verso Punta Sabbioni. E qui incrocia la piattaforma -ma forse si tratta di un pontone - più variopinto. Più luna park, messo su con i pezzi più colorati del nostro Meccano. Forse, in questo caso, i turisti guardano meglio. Chi potrebbe mai aspettarsela un'autogru, di quelle con i cingoli, colorata di rosa? Anche il container degli attrezzi ha la stessa tonalità di rosa. E rosa sono pure i cavi. Dietro, degli alti e sottili serbatoi, bianchi e rossi come le maglie dei gondolieri. Di fronte, un'autogru gemella però arancione. La motonave ci gira quasi attorno, la sfiora, e con lo zoom puoi entrarci dentro, al pontone. Ganci, pulegge, bombole, e un sacco di altre cose di cui non so il nome. Sembra tutto messo lì alla rinfusa, non fosse che, c'è da esserne certi, ogni ingranaggio funziona perfettamente, integrato e connesso al contesto. Sul lato della piattaforma, color verde, c'è scritto Cidonio in bianco e uno stemma, sfondo blu, con una stella e, in senso orario la sigla Pci. Che vada letta in successione diversa lo dice l'insegna, su uno dei bracci delle gru. Impresa Pietro Cidonio.
Più tardi, a casa, andrò sul sito della ditta e leggerò: «L'intervento prevede la realizzazione della diga in scogliera di perimetrazione di un'isola artificiale con quota di sommità +3,50m s.l.m.m. per tre dei quattro lati che la compongono e a +1,80m s.l.m.m. sul retrostante lato laguna e dei filtri sulle scarpate interne della stessa per l'idoneo contenimento del refluimento dei materiali di dragaggio delle zone di escavo limitrofe. In corrispondenza del lato interno dell'isola è prevista l'esecuzione di una banchina a gravità con massi di calcestruzzo sovrapposti necessaria all'operatività dei mezzi marittimi che verranno impiegati nel corso della realizzazione del Progetto Mose. Dragaggi: 69.800 mc, materiali lapidei: 250.000 ton, getti in cls per esecuzione massi artificiali di banchina: 1.780 mc».
Ecco cosa stanno facendo. Se ci avete capito qualcosa. Ma questa piattaforma con l'autogru rosa ha un suo perché, c'è poco da fare e quando, al ritorno, la motonave diretta a Venezia ci passerà ancora più vicino, scoprirò finalmente tracce di vita, là sopra. In un angolo, sotto una tettoia credo in lamiera, sono appese due paia di pantaloni, ad asciugare, rosa e bianchi. Appartengono ai manovratori dell'autogru rosa, c'è da scommetterci. Si lavora in tinta, da queste parti. Poi, appena virato l'angolo, la scenetta più inattesa. Accanto al container rosa, due signori in maniche di camicia osservano divertiti un terzo, alle prese, piegato sulle ginocchia, con una pentola scolapasta appoggiata sopra un piano metallico, verde, sul bordo dell'imbarcazione. Ride, il cuoco improvvisato e io mi immagino che loro, l'acqua, la facciano bollire lì, sopra a quel coso probabilmente incandescente. La motonave doppia il Lido. C'è molto altro da vedere e da raccontare di questo scempio.Mala gita ora spetta a voi. E adesso, mentre la motonave vira in Bacino San Marco, non sai più cosa ti stia provocando questa stretta al cuore, se lo scempio dietro le spalle, o quell'accenno di tramonto là davanti, sul cielo sopra Venezia.
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Il parco Nazionale della Maddalena deve morire. Lo ha decretato con un voto unanime (neanche un contrario, neanche un astenuto) il consiglio comunale della Maddalena, che ha votato in tre mesi due mozioni fotocopia - l'ultima pochi giorni fa - in cui si chiede l'abrogazione della legge che, nel 1994, ha istituito l'area naturalistica protetta. Per rafforzare la posizione dei consiglieri è partita una raccolta di firme - al momento ne sono state messe insieme oltre duemila, il 20 per cento degli elettori dell'arcipelago - per chiedere un referendum consultivo che stabilisca se la gente il parco lo vuole oppure no. Il Comune è retto da una maggioranza espressione di una lista civica in cui sono confluiti transfughi della sinistra e della destra; lista che, alle ultime elezioni, ha battuto sia la Casa delle libertà sia l'Unione. Ma contro il parco, in consiglio comunale, hanno votato tutti insieme, un blocco compatto. Tra gli esponenti referendari c'è Marco Poggi, leader locale del Partito dei comunisti italiani; e poi iscritti al «Circolo Fini» di Alleanza nazionale, sedicenti «Comitati per la legalità e la sicurezza», alcuni iscritti all'Udc nonché il gruppo di Forza La Maddalena.
«Colgo l'occasione - ha detto Poggi pochi giorni fa quando è stata data la notizia che la raccolta delle firma aveva superato quota duemila - per ringraziare tutti i maddalenini che, con il loro entusiasmo e la loro voglia di partecipazione, hanno firmato per il referendum, dimostrandosi determinanti per l'esito della nostra battaglia di libertà e di civiltà contro quell'inutile carrozzone chiamato Ente Parco».
Perché il parco deve morire? Perché la legge che lo ha istituito stabilisce che all'ente sotto tiro spetta decidere della destinazione dei beni demaniali (civili e militari) dismessi. E ora che gli americani dalla Maddalena vanno via, di beni dismessi da gestire ce n'è per centinaia di migliaia di metri cubi: l'arsenale della Marina, le caserme dell'ammiragliato, le fortificazioni nella parte alta dell'isola madre. Spetta al parco, secondo la legge votata dal parlamento, dire a chi dovranno andare questi beni e che cosa se ne dovrà fare. E questo, evidentemente, non sta bene a nessuno dei consiglieri comunali della Maddalena. Il conflitto tra il sindaco, Angelo Comiti, e il presidente del parco, Giuseppe Bonanno, sta tutto dentro questi confini. Chi avrà le chiavi delle strutture che i militari abbandonano controllerà i denari in arrivo da Stato e Regione. La riconversione delle caserme in hotel a cinque stelle è un business miliardario.
A far precipitare il conflitto è stata la decisione del governo di fare il G8 del 2009 alla Maddalena. Per il summit scorrerà un fiume di euro. Bonanno, nominato pochi mesi fa da Pecoraro Scanio - prova a resistere: «Continuo a non capire l'atteggiamento ambiguo del Comune. Da una parte firma protocolli di intesa con noi, dall'altra vota mozioni per abrogare il parco. Non mi interessano le piccole liti di palazzo, devo lavorare. Ho incontrato l'assessore regionale all'Ambiente Cicito Morittu per definire gli ultimi dettagli di uno stanziamento da oltre un milione di euro. Soldi che serviranno per ripulire i fondali. Verrà istituito anche un corpo di ranger: il loro compito sarà di controllare tutto il territorio, per terra e per mare. La Regione mi ha assicurato che entro la fine di agosto nominerà il suo membro all'interno del consiglio di amministrazione del parco. Solo il Comune resterà senza un suo rappresentante del cda. Una scelta che conferma la scarsa volontà di partecipare».
Replica Marco Poggi: «Troppi fallimenti nella gestione del parco. E' importante far sentire il peso della comunità all'interno dell'ente. Noi non vogliamo più scelte imposte da Roma. Il nodo delle dismissioni resta centrale, ma è solo un aspetto. Dobbiamo difendere anche l'autonomia del nostro territorio». Il tutto mentre ancora non è stato deciso niente sulla bonifica dell'arcipelago, dove decenni di presenza militare americana, con tanto di sommergibili atomici, ha creato serissimi problemi sanitari. Finora non è stata fatta alcuna indagine attendibile sul grado di inquinamento della Maddalena e della altre isole. Il G8 e la gestione dei beni dismessi cancellano ogni altra cosa.
Nota: su questo tema si vedano qui sia l'intervento di Sandro Roggio, che la risposta di Vezio De Lucia (f.b.)
L’intervento del ministro per i Beni e le Attività culturali, Francesco Rutelli, a favore di una autostrada «leggera» per la Maremma che eviti strade complanari, caselli invasivi, e altri pesanti danni al bellissimo territorio e paesaggio lungo l’Aurelia fra Toscana e Lazio va messo senza dubbio all’attivo di un anno e più di gestione in uno degli ambiti più delicati e strategici. Di fatto esso ridà al Ministero e alle sue Soprintendenze un’autorevolezza che, coi governi Berlusconi, era stata fortemente intaccata e che non sembrava potersi rianimare.
Questa è la linea strategica che si vorrebbe costantemente affermata: non dei semplici «no», ma proposte elaborate e competenti che, nel caso presente, possono consentire una viabilità più scorrevole e insieme più sicura, nel tratto fra Cecina e Grosseto (dove sono necessarie talune cautele archeologiche) e ancor più nel tratto Grosseto-Civitavecchia. Quest’ultimo, specie nei 13 km nel Comune di Capalbio e nei 9 km fra Tarquinia e Civitavecchia, tutti a due anguste corsie, risulta uno dei più pericolosi d’Italia, con morti e feriti gravi in ripetuti scontri frontali. La soluzione proposta dal MiBAC riprende, in sostanza, il progetto Anas (il solo progetto dettagliato messo in campo sinora) sul quale concordarono il 5 dicembre 2000 governo Amato, Regione Toscana ed enti locali. Salvo poi stracciare l’utile intesa il giorno dopo il successo di Silvio Berlusconi, noto sostenitore di mille e mille progetti di Grandi Opere senza capo né coda (e senza neppure finanziamenti). Dalla primavera del 2001 ad oggi è stato un susseguirsi di tracciati (tracciati, non progetti) faraonici - montano, collinare, costiero - con l’opposizione tenace delle Associazioni nazionali, dei Comitati locali e di alcuni sparuti Comuni che invece invocavano «Aurelia sicura subito», cioè adeguamento a quattro corsie del percorso attuale. Con le Soprintendenze che parevano ammutolite, braccio locale e regionale di un ministro (Urbani) inesistente.
Se si pensa ai morti, ai feriti gravi, ai traumatizzati a vita che,dal 2001 ad oggi, questo valzer a vuoto di tracciati ha seminato sull’Aurelia a due corsie, vengono i brividi. Sarebbe bastato un po’ di realismo, di saggezza, di buon senso amministrativo, oltre che di rispetto per un patrimonio paesaggistico e storico-artistico-archeologico che nella zona fra Vulci e Tarquinia è ancora degno di un Grand Tour e che nessun progetto (eccetto quello dell’Anas) ha affrontato in positivo. Ora bisognerà vigilare molto attentamente affinché questa proposta importante del MiBAC e del suo titolare non venga depotenziata e magari devitalizzata dai sostenitori accaniti delle soluzioni autostradali più pesanti e devastanti.
In un articolo pubblicato sul l’Unità del 2 agosto non ho lesinato critiche di fondo alla gestione della struttura ministeriale dei Beni culturali, al giro di poltrone nelle direzioni generali, al centro e nelle regioni, sottolineando tutti i limiti di una pratica che poco privilegia meriti e competenze. Al tempo stesso ho rilevato la buona politica dispiegata a livello internazionale dal vice-premier Rutelli per il recupero delle opere d’arte (soprattutto reperti archeologici di straordinario valore) passate dai nostri tombaroli e trafficanti direttamente a musei stranieri, americani in specie. Allo stesso modo Francesco Rutelli è risultato particolarmente attivo - a differenza di altri colleghi che pure col paesaggio hanno a che fare - per la deprecata lottizzazione di Monticchiello e per altre situazioni, come per la demolizione di taluni ecomostri che da anni, in piena area archeologica o al centro di panorami costieri straordinari, ferivano a morte quei patrimoni strepitosi.
La vicenda dell’autostrada della Maremma dice molte altre cose. Essa conferma che questa «buona politica» può diventare più stabile ad alcune condizioni di fondo. Anzitutto - come chiedono ben 21 associazioni le quali si battono per la tutela del Belpaese in una recentissima lettera al presidente Prodi e ai suoi ministri, Rutelli in testa - occorre «rendere generalizzato e inderogabile il ricorso alla valutazione di impatto ambientale» che rappresenta la sola grande ricetta preventiva per avere progetti seri e attuabili senza sconquassi. Poi bisogna restituire ruolo e autorità alle Soprintendenze territoriali di settore i cui poteri tempestivi di intervento sono stati svuotati a vantaggio di direzioni generali regionali che invece (se proprio le si vuole) devono essere soprattutto organismi di coordinamento e di raccordo istituzionale Stato-Regioni. La valutazione di impatto ambientale finalmente esperita dal MiBAC per l’autostrada della Maremma ha dato un risultato di saggezza sul quale occorre lavorare in positivo. Se la stessa linea fosse stata seguita per taluni insediamenti (anche per la centrale eolica di Scansano a poche centinaia di metri dal Castello di Montepò e sopra i vigneti del Morellino più pregiato), sarebbero stati evitati sconci e manomissioni. Preventivamente, ripeto. Analogamente con ben organizzate conferenze dei servizi in cui le Soprintendenze (debitamente potenziate, ecco il punto, in mezzi e personale tecnico) abbiano voce piena.
Il discorso si sposta, strategicamente, al livello - negli anni berlusconiani trascurato o svilito - della pianificazione paesaggistica. Nella lettera a Prodi (e a Rutelli) delle 21 Associazioni, dal Wwf a Italia Nostra, da Legambiente al Comitato per la Bellezza, alla Lipu e a tante altre, si chiede per l’appunto che il governo di centrosinistra combatta il «laissez faire» che invece sta emergendo in relazione all’attuazione del Codice per il paesaggio e ai nuovi piani regionali il cui varo è fissato per il maggio prossimo. Per cui «il piano paesaggistico risulta assorbito, e vanificato, dalla generale pianificazione territoriale (si veda l’esempio della convenzione siglata con la Regione Toscana)». Quest’ultima, pur tra voci autorevoli di aperto dissenso, si è data un Piano Territoriale di Indirizzo, un PIT, che è tanto ricco di parole e di buone intenzioni quanto poco prescrittivi per gli Enti locali.
Su questo punto i ministri per i Beni e le Attività culturali, Rutelli, e quello per la tutela dell’Ambiente, Pecoraro Scanio, devono dire una parola molto chiara. Siamo il solo Paese sviluppato che corra all’impazzata verso la cementificazione e l’asfaltatura dei pochi milioni di ettari di superficie ancora liberi da costruzioni e infrastrutture. Nell’ultimo mezzo secolo ci siamo mangiati così oltre 12 milioni di ettari, un’area a verde, a bosco, a pascolo, a coltivo grande come l’intera Italia del Nord. Con una accelerazione spaventosa nell’ultimo quindicennio. Dovunque ormai sorgono lottizzazioni, quartieri, ville, case, capannoni, centri commerciali e, nel contempo, viviamo una drammatica emergenza-casa, non ci sono alloggi in affitto, l’edilizia pubblica o agevolata boccheggia ai minimi storici. Tutto il contrario dell’Europa più civile dove da anni (in Gran Bretagna dal 1938... ) si combatte il consumo di territorio e di paesaggio con leggi ad hoc. È così in Germania come in Spagna. Se ne discute negli stessi immensi Stati Uniti dove lo «sprawl», lo spreco di suolo, è all’ordine del giorno. Nei Paese europei appena citati, e pure in Francia, Olanda, Svezia, l’affitto è sempre rimasto una pratica diffusa e civile, mentre gli investimenti nell’edilizia pubblica viaggiano al 20-25 per cento del totale. Contro il 4 per cento vergognoso dell’Italia. Dove tutto questo enorme stock di abitazioni in costruzioni è speculativo, di mercato, para-turistico (così poi si ammazza lo sviluppo alberghiero, con le seconde e terze case) o risulta addirittura abusivo. Coi Comuni che «lasciano fare» perché dall’edilizia, fra Ici e concessioni, vengono dei bei soldi e quindi la tutela del territorio e del paesaggio è meglio farla dormire nei cassetti, o negli archivi.
Invece, nel paesaggio, lo sappiamo, tutto si tiene. Esso - affermò un grande storico dell’arte come Giulio Carlo Argan al Senato quando vi si approvava la fondamentale legge Galasso sui piani paesaggistici - è il millenario, mirabile «palinsesto» in cui leggiamo la nostra storia. Anche la nostra storia peggiore, purtroppo. Facciano in modo i ministri Rutelli e Pecoraro Scanio che non si ripeta il sostanziale fallimento della appena citata legge Galasso di un ventennio addietro con tante Regioni inadempienti, che la nuova pianificazione paesaggistica sia tempestiva, dettagliata, prescrittiva, d’intesa con le Regioni, certo, ma anche vigilando affinché le tavole della legge non restino delle belle carte colorate. Quanto si è potuto, e voluto, fare per dare una degna soluzione al problema della viabilità fra Rosignano e Civitavecchia, lungo la gloriosa Aurelia, si può ripetere su scala nazionale e regionale. Se lo si vuole.
Qualcuno, a questo punto, forse ciancerà di anti-regionalismo, di neo-centralismo. Ma non dice nulla a costoro il fatto che tutto il mondo teatrale italiano, coi migliori attori, autori e registi, sia insorto contro il progetto di «regionalizzare» i teatri stabili e l’intera gestione dei finanziamenti alle attività teatrali?
Nel corso dell’Ottocento è successo spesso che città fortificate abbiano scoperto che la loro fisionomia, da sempre condizionata da attrezzature molto specializzate, poteva – chissà, forse – cambiare pure radicalmente. Con le perplessità sui modi di riusare (se sbarazzarsi) di strutture apparentemente inconvertibili ad altre funzioni.
Quelle comunità hanno vissuto con preoccupazione la fine dell’economia di guerra. E il mantenimento dello stato di fatto si è protratto a lungo, magari per la necessità di continuare a comunicare, simbolicamente, la capacità di resistenza della compagine edilizia nata e cresciuta sulle vecchie fortificazioni.
Ma molte di quelle opere, come insegna la storia dell’architettura, sono state comunque sacrificate alla crescita, spesso solo per scacciare i brutti ricordi evocati da figure inquietanti e anche molto degradate.
Anche in Sardegna le città munite sul mare si sono trovate a fare i conti con questa transizione. A considerare la possibilità di riusare bastioni e pezzi di fortezze, a pensare, con preoccupazione, come mettere a frutto le stanze lasciate libere dai soldati.
I processi di conversione di luoghi urbani dismessi sono sempre molto lenti. A La Maddalena, si fanno oggi i conti con la necessità di dare una destinazione a quanto resterà di queste basi militari. E c’è fretta: si guarda alla sorte dei lavoratori impiegati in quelle strutture. Si è detto che ciò che rimane nell’arcipelago di questi paradossali pericolosi trascorsi dovrà produrre vantaggi all’economia locale, dovrà servire per risarcire il maltolto, perché ha ragione chi dice che la storia di questa città senza quel vincolo sarebbe diversa.
Ciò che resta di impianti che hanno condizionato finora la vita di quel luogo dovrà servire alle attese della comunità. Si pensi a ciò che resta dell’arsenale della marina italiana: 15 ettari in un nodo di rilevante complessità e in grado di accogliere funzioni importanti, come in casi analoghi con esiti diversi (l’arsenale di Venezia, 40 ettari, ospita parte della Biennale; quello di Taranto, 60 ettari, ha un futuro incerto da anni).
Occorre la stessa tempestività che servirebbe, nei processi di deindustrializzazione che pongono problemi analoghi.
Ecco, il tema del riuso – una nozione presente nel progetto politico del governo regionale che prende forma nel piano paesaggistico – potrà consentire una sperimentazione importante in questo caso. Serve però prudenza, che non dovrà venire meno per i tempi stretti, e soprattutto servono molte risorse.
E’ bene che si sviluppi rapidamente un’attività di pianificazione che tenga insieme tutte le questioni aperte per evitare che si disperda il senso unitario di uno dei paesaggi più importanti del Mediterraneo. Non a caso il G8 si svolgerà qui (fa comodo la condizione insulare doppia e lo spettacolo splendido assicurato dal colore del mare eccetera.).
Il G8 complica le cose. Qualsiasi persona di buon senso pensa che gli incontri dei Grandi, da qualunque parte si svolgano, siano manifestazioni dissennate, esibizioni orride e anche ridicole, si direbbe, se non fosse che ne ricordiamo i risvolti tragici, i delitti commessi per farlo il G8 ultimo.
Se si riuscisse a impedirlo, come tante altre manifestazioni inutili di questo Mondo, ci sarebbe da fare festa.
Ma così non sarà. Il G8 si farà e porterà denari, molti denari, che potranno essere usati male o bene in un ambiente che ormai vive di turismo e poco altro.
Vivere solo di turismo non è una bella cosa. Possiamo immaginare e vogliamo immaginare altre prospettive per quest’isola, ma i tempi non saranno brevi e dobbiamo ammettere che il turismo sarà nei prossimi anni la speranza per i disoccupati che non decideranno di andarsene nel frattempo, si spera: perché La Maddalena senza i suoi abitanti non avrebbe senso.
Il progetto potrà essere quello di consegnare le chiavi dell’isola a Ligresti o ad altri imprenditori, o provare una buona volta a investire in un processo di sviluppo partecipato e sostenibile nel senso di rendere finalmente protagonista la comunità locale.
Se il movimento che si opporrà al G8 conserverà un po’ di energie, dovranno essere investite per provare a volgere a proprio vantaggio questo evento, quanto più è possibile. Ad esempio per chiedere la bonifica del luogo da agenti patogeni radioattivi di cui si parla da tempo con inammissibili incertezze. Di sicuro per evitare che saltino, sotto le pressioni dei tempi da rispettare, le regole che presiedono all’uso di un territorio che è ancora Parco nazionale (e credo che le forme di tutela dei parchi nazionali siano una garanzia). Neppure sono ammissibili improprie e ingorde trasformazioni di volumetrie specie se si tratta di beni culturali.
Noi nel frattempo, ancora noi, possiamo continuare a darci da fare per dimostrare che un mondo diverso è almeno auspicabile: per questo l’idea di avviare un dibattito che si concluda nei giorni dello svolgimento del G8, per temi, in diverse località della Sardegna, è una bella idea da mettere a punto nei prossimi mesi.
la Repubblica del 29 luglio 2007
Venezia, notte sul Canal Grande per scoprire il ponte di Calatrava
di Roberto Bianchin
VENEZIA - Nella notte, sul Canal Grande deserto, la folla muta sulle rive, il dinosauro di cinquanta metri avanza lentissimo, a luci basse, sull´acqua quieta. Non c´è un´onda, non un filo d´aria, solo un´afa che ti scioglie.
Nessuno parla, sembra un film di fantascienza. «Una scena di Blade Runner», dice Marco, un ragazzo biondo. «No, Fellini, la notte del Rex», lo corregge Luca, che si è portato da casa un seggiolino per gustarsi lo spettacolo dal campo della Salute. Ha lasciato per ore la città con il fiato sospeso la lunga notte di Calatrava. Con migliaia di persone sulle rive, in un´atmosfera surreale, a guardare, prima preoccupate e poi contente, il passaggio del grande convoglio che trasporta i primi due pezzi del ponte del celebre architetto che collegherà la stazione con piazzale Roma.
Trattengono il fiato le vecchiette in ciabatte di Riva del Carbon al momento del passaggio sotto il ponte di Rialto, il punto più delicato, dove le distanze sono minime, appena pochi centimetri dalle rive, solo un metro di altezza dalla sommità dell´arcata cinquecentesca. Ma tutto fila liscio. I 25 tecnici della "Fagioli", l´azienda specializzata in trasporti eccezionali che manovra il convoglio, sanno il fatto loro. Sono gli stessi che hanno fatto viaggiare il sommergibile Toti da Cremona a Milano e spostato montagne dall´Arabia al Texas. Le due spalle laterali del ponte, lunghe 15 metri, larghe 7 e pesanti 85 tonnellate, arrivano a destinazione alle 2.30 del mattino con maggiore facilità e tre ore di anticipo sul previsto, dopo un viaggio durato quattro ore e mezza, due e mezza delle quali in Canal Grande. La prima «spalla», dal lato di piazzale Roma, è stata montata ieri. La seconda, lato Stazione, oggi.
La notte del 7 agosto, il secondo tempo del film. Con lo stesso sistema verrà trasportata l´arcata centrale del ponte, lunga 64 metri. Un´impresa ancora più difficile. Ma per camminarci sopra, tra lavori di consolidamento e di abbellimento, come i gradini di marmo e le balaustre di vetro, bisognerà aspettare Capodanno. E poi ci vorranno cinque anni di controlli costanti con una serie di sofisticati strumenti elettronici. Il ponte, che non ha ancora un nome, resterà un «sorvegliato speciale», perché essendo una struttura «spingente», spiegano i tecnici, si dovrà verificare che le fondazioni su cui poggia, che sono il punto più delicato dell´opera, non subiscano «spostamenti significativi». È una telenovela che dura da 11 anni quella del quarto ponte sul Canal Grande. Anni di attese, di errori, calcoli sbagliati, liti giudiziarie, polemiche, baruffe, e di costi triplicati (quasi 11 milioni di euro), che hanno provocato un´inchiesta della Corte dei Conti.
Anche per questo c´erano molti timori per il pericoloso viaggio nella notte, con il Canal Grande chiuso dalle 23 alle 6, niente barche né gondole né vaporetti, i pontili sbarrati, la circolazione pedonale vietata sui ponti e anche su qualche riva e calle. La chiatta «Susanna», un bestione lungo 50 metri e largo 16, che trasporta le due «spalle» fa la sua apparizione a mezzanotte precisa, come da copione, alla punta della Salute, dove comincia a entrare, lentamente, in Canal Grande, favorita dalla bassa marea che proprio in quel momento inizia il suo ciclo, e agevola il passaggio sotto i tre ponti dell´Accademia, di Rialto e degli Scalzi. Tirata con una grossa fune dal «Santa Marta», un pontone di 36 metri, e spinta da dietro dal «Mantova», con altri due barconi di appoggio al fianco, lo «Sparviero» e la «Scomenzera», la gigantesca chiatta era partita alle 22 dal cantiere di Marghera dove hanno costruito il ponte, e alle 23 aveva attraversato il canale della Giudecca. Ma la parte più rischiosa è l´ultima, il percorso in Canal Grande, che l´enorme convoglio occupa quasi interamente nel senso della larghezza, sfiorando le rive, i pontili e le «bricole», i pali di legno ai quali si legano le barche. I veneziani, nell´attesa, discutono e si dividono. C´è chi approva, entusiasta, come Marta, studentessa di lingue («Finalmente un segno di modernità»). Chi è perplesso, come Vittorio Sgarbi («Le rampe sono molto vistose, l´impatto non sarà così innocuo»). E chi disapprova, come Piero, cameriere: «Un´opera inutile. Per andare dalla stazione a Piazzale Roma ci metto 3 minuti in vaporetto e 5 a piedi. A cosa serve il ponte?». Più duro Giorgio, gondoliere: «Soldi buttati. Potevano farci mille altre cose più utili».
Il convoglio è scortato da cento uomini tra vigili, agenti e pompieri. Il sindaco, Massimo Cacciari, lo segue su una barca della protezione civile. Il primo passaggio difficile è a mezzanotte e un quarto, sotto il ponte dell´Accademia, il secondo 15 minuti dopo, alla curva stretta di Palazzo Grassi, che Dario Borsetti, al timone dello «spintore» Mantova, esegue preciso, con un colpo di biliardo, facendo la barba all´enorme teschio di lattine che annuncia la mostra d´arte moderna. Ma il punto più pericoloso è il passaggio sotto il ponte di Rialto. «Il momento più impegnativo», confida Salvatore Vento, dirigente dei lavori pubblici. La chiatta, secondo i programmi, doveva arrivarci alle 2 e impiegarci due ore e mezza per passarci sotto. Arriva con un´ora di anticipo, e lo passa, senza intoppi, in mezz´ora.
Lenta, anche se non lentissima, e precisa. Quando la sua sagoma sbuca dall´altra parte, all´1.35, e deve curvare ancora per imboccare diritto il «Canalasso», parte il primo applauso dalla folla. La tensione si scioglie, sopra il ponte un gruppo di ragazzi si mette a ballare e a cantare l´inno di San Marco, «le glorie del nostro leon». Finire il viaggio poi è un gioco da ragazzi. Come montare la prima delle due «spalle». Il sindaco Cacciari è visibilmente soddisfatto. «È andato tutto nel migliore dei modi», si complimenta con gli operai. Ma la telenovela non è finita. Il viaggio di Calatrava sarà ancora lungo. E la prossima notte sarà un´altra notte col cuore in gola.
il manifesto, 29 luglio 2007
La lunga notte di Calatrava
di Roberto Ferrucci
Sono qui, dice in perfetto dialetto veneziano l'uomo al telefonino, probabilmente alla moglie. Sono bloccato da questo «cancaro» di ponte di Calatrava. Pochi metri più in là, a Piazzale Roma, una squadra di tecnici sta lentamente facendo combaciare il primo braccio del nuovo ponte sul Canal Grande. Buona parte dei veneziani sono come questo tizio. Detestano tutto quello che si cerca di fare in questa città, soprattutto se intralcia la loro tranquillità, i loro percorsi e, soprattutto, i loro affari. Per tutto questo, dunque, sono poi del tutto - e colpevolmente - indifferenti allo scempio del Mose. Perché non li intacca direttamente, distrugge solo la laguna, quello, non i loro immediati dintorni. Egoisti sfrenati, i veneziani. Incapaci anche solo di intuire l'evento comunque epocale che in questi giorni Venezia sta vivendo. Perché al di là di tutte le polemiche il ponte di Calatrava è un evento epocale. Per gran parte dei veneziani, invece, una rottura di balle. Non proprio per tutti, a dire il vero. Perché se stamattina, sabato, sono poche decine ad accompagnare di pupille il lento amplesso fra il braccio versante Piazzale Roma alla spalla che lo sorreggerà per sempre - un appropinquarsi lentissimo come un corteggiamento fatale - erano in migliaia, la notte prima, a essersi dati appuntamento lungo le rive del Canal Grande e sopra ai suoi altri tre ponti per veder passare Susanna, una chiatta lunga cinquanta metri e larga sedici, sulla quale sono state collocate le spalle del ponte, ottanta tonnellate l'una. La prima trasportata la notte fra venerdì e sabato, la seconda fra sabato e domenica. Il 7 e 8 agosto toccherà poi al corpo centrale. Sì, una Venezia curiosa e partecipe c'è ancora. Non c'è solo chi spreme i turisti ma anche chi fa resistenza perché questa città non imbocchi la deriva disneylandiana che sembra sempre più inevitabile. Allora immaginateveli, questi veneziani, darsi in parte, qualche centinaio, appuntamento alla Biennale Teatro, per vedere «L'ultima casa», spettacolo scritto da Tiziano Scarpa e portato in scena dalla compagnia Pantakin nell'ambito della rassegna Goldoni e il teatro nuovo. Risate e applausi per un'opera che racchiude in sé la tradizione e la genialità di uno scrittore, Scarpa, che ha fatto sua - lo sanno bene i suoi lettori - non soltanto la lezione goldoniana. Applausi, dunque, e dopo la terza chiamata in scena di attori, regista, Michele Casarin, e autore, tutti sul Ponte dell'Accademia, ché sono quasi le ventitré e tra poco il pezzo di ponte passerà qua sotto. Questo, di legno, è già quasi pieno di gente. Dell'altro, quello di Calatrava, si parla da anni. Ritardi su ritardi, intoppi su intoppi, imprecazioni su imprecazioni, e stanotte, finalmente, è la notte. L'atmosfera è quella che respiri nelle feste popolari (c'è stato il Redentore, qui, un paio di sabati fa). C'è quella complicità collettiva sempre più rara, ormai. I turisti si domandano stupiti che cosa stiano guardando tutte quelle persone appoggiate al parapetto, sguardo puntato, per ora, verso il nulla. Qualcuno sfoggia il suo più che improbabile inglese per spiegare che un nuovo bridge nascerà stanotte. Sembra vuoto, in effetti, il paesaggio davanti gli sguardi di chi è appoggiato al parapetto. E anche se qualcuno domanda quando iniziano i Foghi (d'artificio, quelli del Redentore), lo spettacolo stupefacente è il Canal Grande piatto, vagamente immobile, del tutto privo del moto ondoso perpetuo che da sempre frastaglia il suo stare instabile. Qualcuno la guarda incantato, la superficie dorata non più graffiata ma accarezzata di luci, tirarsi via compatta, liscia e nitida, da qua sotto fino alla Salute. Mai vista, prima. Ma la gente è concentrata sul fondo, l'imbocco del canale, Punta della Dogana. Da lì apparirà Susanna, la chiatta e il suo pezzo di ponte sopra. Intanto, i lampeggianti blu della polizia municipale sono il segnale di qualcosa di imminente. Ecco vedi, dice qualcuno, laggiù. Ma laggiù è una motonave in arrivo da Punta Sabbioni. C'è l'ansia per l'evento o forse l'urgenza di raggiungere finalmente il letto. Nemmeno qua sopra soffia un filo d'aria. Ci si fa vento con ciò che capita e le due ragazze col ventaglio sono le più circondate. Alle 23.53, eccolo, esclama qualcuno. All'improvviso appare il corteo, aperto da Francesca, la barca d'assistenza. Si chiama come me, sorride una ragazza qua vicino, orgogliosa di partecipare per interposto natante all'evento epocale. Dietro, la superchiatta, ma non c'è nessuna Susanna, nei dintorni, a rivendicarne l'omonimia. L'equipaggio di tecnici è schierato a prua, caschetti gialli, tute arancione, pettorine rosse. Sembrano i Village People, ride Francesca. Ma l'evento è in atto, con tutta la sua simbologia. La gente cerca di riconoscere il pezzo di ponte. Qualcuno dice che brutto colore, è rossonero. Ma non sarà quello il colore finale, credo. La velocità è al ralenty. Ognuno può godersi in tempi più che dilatati il passaggio di questo urbanistico «c'ero anch'io».
In coda, a chiusura del corteo, il tanto evocato sindaco Cacciari, camicia grigia, pantaloni beige, capelli e barba che sembrano farsi un baffo dell'afa atroce. «Abbiamo previsto l'imprevedibile», ha ripetuto in questi ultimi giorni. E cioè il passaggio sotto al Ponte di Rialto, manovra che richiederà un paio d'ore, roba da notte inoltrata e arrivo in Piazzale Roma alle cinque e trenta del mattino Chissà chi porterà cappuccino e brioche agli abilissimi piloti di quegli enormi cosi. I più vanno a letto. Speriamo di non sentire un botto, verso le due, dice qualcuno. Se viene giù lo faranno rifare a Calatrava pure quello, esclama un altro.
E invece eccolo qua, la mattina dopo. Penetrazione perfetta fra braccio e spalla poco dopo mezzogiorno, addirittura in anticipo sulle tabelle. Ponte di Rialto sempre lì, calpestato da migliaia di sandali e infradito. Stanotte si replica, settimana prossima pure. E a Ferragosto sandali e infradito non si negheranno nemmeno a quel «cancaro» di Ponte di Calatrava. Che sarà bellissimo, statene certi.
www.robertoferrucci.com
il manifesto, 29 luglio 2007
Cinque secoli di fallimenti E ora il «valenciano»
di Maurizio Giufrè
La storia, a volte, si ripete, come nel caso dell'architettura veneziana. Cinque secoli fa il progetto di Andrea Palladio per il ponte di Rialto fu abbandonato perché la «risoluzione ben ferma di non cangiar nulla allo stato attuale delle cose» - come scrisse Antoine Rondelet nel suo «Saggio storico sul ponte di Rialto in Venezia» del 1841 - risultasse la «principal causa» dell'abbandono di una così «splendida soluzione» riducendola, nel 1587, al solo disegno inciso per «I Quattro libri dell'architettura» dell'architetto vicentino. Fortuna migliore non l'ebbe neppure Tommaso Temanza che, ideati nel 1780, non vide mai realizzati i suoi tre ponti per la sistemazione della Riva degli Schiavoni. Analoga sorte ha riguardato, infine, anche il ponte in pietra degli ingegneri Torres e Briazza, sostituito dal 1933 da quello «provvisorio» dell'ingegnere Eugenio Miozzi.
La vicenda del ponte di Santiago Calatrava si inscrive in questa lunga serie di fallimenti che hanno la loro origine nelle complesse relazioni instaurate tra i poteri pubblici, sempre più autoreferenziali, e i processi che concorrono agli affidamenti degli incarichi sia dei progetti sia dell'esecuzione delle opere. Se si scorre, però, la cronaca dell'architettura dal dopoguerra ad oggi i fallimenti nel capoluogo lagunare sono stati di ben altra misura, al punto che quello del ponte in questione risulta di scarsa rilevanza. I progetti non realizzati del Masieri Memorial sul Canal Grande di Frank Lloyd Wright, dell'ospedale di Le Corbusier e del centro congressi per la Biennale di Louis Kahn sono gli emblematici esempi che nessuna architettura contemporanea in programma - dal Nuovo Palazzo del Cinema alla «Venice Gateway» di Frank Gehry - potrà mai risarcire.
Il ponte di Santiago Calatrava, asciutto ed essenziale, non ha nulla delle dissonanze della sua Shadow Machine che nel 1993 accompagnò la sua prima presenza in laguna: una copertura di dodici elementi di calcestruzzo armato che si muovevano lentamente come le costole di un immaginario organismo vertebrato. Dove mai è approdata la sua ricerca sul movimento delle strutture, l'elasticità e l'equilibrio dei materiali, cardini della ricerca espressiva dell'architetto valensiano, è difficile dirlo. Anche i suoi recenti ponti italiani nello snodo autostradale di Reggio Emilia risentono di questa riduzione espressiva, indice di un collaudato e ormai ripetitivo repertorio tecnologico e formale pronto all'uso in qualsiasi contesto.
All'inizio degli anni novanta i suoi ponti strallati, ad arco o a pilone componevano una casistica che assumeva un altissimo carattere distintivo nel paesaggio urbano. Quegli studi che coniugavano sapiente riflessione sulla tecnica dell'acciaio e ricerca estetica sembrano oggi essersi esauriti in soluzioni scontate, insistendo sui componenti hi-tech dal candido effetto tonale, e come per Palladio il «non cangiar nulla» dimostra a volte di essere fatale.
il manifesto, 29 luglio 2007
La città lagunare lancia un ponte verso il futuro
di Orsola Casagrande
Il primo pezzo del ponte della discordia è stato dunque messo in posa. Venezia avrà il suo quarto ponte sul Canal Grande, il quattrocentotrentunesimo complessivamente. Disegnato dall'architetto spagnolo Santiago Calatrava dopo undici anni di polemiche, «baruffe», gioie e dolori, il ponte sta per diventare finalmente realtà (non prima di ottobre). Il progetto, da profani, è davvero mozzafiato. Il ponte infatti sarà in acciaio, vetro e pietra d'Istria. I costi di realizzazione fanno per la verità altrettanto sobbalzare: oltre 10 milioni di euro contro i due previsti undici anni fa.
La polemica più decisa è stata quella delle associazioni delle persone diversamente abili. Infatti il progetto non prevedeva, e questo non ha fatto onore a Calatrava, l'accesso per chi deve muoversi in carrozzina. Alla fine si è risolto con una ovovia che trasporterà da una riva all'altra chi non può camminare.
Il nuovo ponte sarà il primo sul Canal Grande dopo più di un secolo dalla costruzione ad opera degli Austriaci dell'ultimo ponte che attraversa il canale principale di Venezia, il ponte degli Scalzi di fronte alla stazione di Santa Lucia. L'idea iniziale, della prima giunta Cacciari, era quella di collegare Piazzale Roma, luogo d'accesso intermodale di mezzi pubblici e privati su gomma e su acqua, alla ferrovia, che oggi è una ferrovia di testa e nel futuro sarà anche il punto d'arrivo di un nuovo servizio regionale di "metropolitana a cielo aperto". Attraverso una gara internazionale di appalto, indetta dalla giunta Cacciari e basata sulla selezione non di un'idea progettuale ma del curriculum del progettista. Una volta scelto e affidato il progetto a Calatrava, l'architetto spagnolo ha proceduto seguendo alcune direttive esplicite indicate dal comune di Venezia. Prima di tutto c'era l'indicazione di un ponte che fosse collegamento tra mezzi di trasporto diversi ma che si inserisse armonicamente nell'ambiente particolare di Venezia.
Lo scoglio più difficile si è rivelato, giustamente, quello dell'accessibilità che doveva essere per tutti. Così nel 2003, di fronte alle proteste, l'allora sindaco Costa e, con maggiore reticenza, Calatrava hanno invitato le associazioni a presentare idee di accessibilità che si potessero applicare al progetto originale. Sul tavolo dell'architetto sono arrivate sette proposte elaborate da una squadra di trenta progettisti.
Con la messa in posa ieri notte dei primi due conci laterali le polemiche possono dirsi concluse. «Un'operazione di indubbia complessità, ma anche di grande fascino», ha detto l'assessore comunale ai Lavori pubblici di Venezia, Mara Rumiz. Ora si attende il trasporto del concio centrale - lungo 60 metri e pesante 270 tonnellate - che avverrà nella notte tra il 7 e l'8 agosto e sarà posizionato l'11 e il 12 agosto. Mara Rumiz ha ricordato anche che la posa sul Canal Grande di una grande opera di architettura contemporanea è un preciso segnale per Venezia, a non guardare soltanto al suo glorioso passato, ma a calarsi nel contemporaneo, anzi a proporsi come città-modello del contemporaneo, proiettata al futuro.
Perché abbiamo messo a questa rassegna stampa il titolo “bella cazzata”?
Il primo termine perché probabilmente è un bell’oggetto . Non lo abbiamo ancora visto, ma persone che stimiamo dicono che lo è, e del resto gli ingegnosi oggetti di Calatrava sopo generalmente belli. Del resto, valuteremo l’adeguatezza dell'aggettivo quando l’oggetto apparirà in tutto il suo probabile splendore.
Il secondo termine perchè il ponte è un errore almeno per tre motivi:
(1) non ci sono ragioni nell’assetto della città e delle sue previste trasformazioni che lo giustifichino; il percorso tra piazzale Roma e stazione ferroviaria si abbrevierebbe al più per uno o due minuti;
(2) perché spendere oltre 10 milioni di euro per una struttura inutile è uno spreco incredibile quando mancano i soldi per l’abitazione sociale, per la bonifica delle zone inquinate nello stesso centro storico, quando languono i lavori per il risanemento dei canali ecc. ecc.);
(3) perché, soprattutto, è da rifiutare l’deologia che sta alla base delle giustificazioni del ponte: che a Venezia servano altri monumenti, anzicchè la messa in valore delle qualità che storia e natura hanno già prodotto nel suo assetto; che Venezia debba diventare omogenea (per valori, simboli, funzioni, modi di abitare e lavorare) a qualsiasi altra città contemporanea.
Con il programma di Governo del 2006, il "Piano generale dei trasporti" (PGT), varato dal precedente Governo di centro-sinistra nel 2001, tornava ad essere il punto di riferimento in materia di politica delle infrastrutture e dei trasporti, per i partiti dell’Unione (1). A leggere il recente Dpef, sembra che il riferimento ai criteri fissati dal PGT sia divenuto sempre più vago, mentre tra le moltissime carte prodotte recentemente dal Ministero delle Infrastrutture si può addirittura leggere che "a quasi cinque anni dalla sua emanazione, la Legge Obiettivo si conferma come una novità fondamentale nel quadro dello sviluppo civile e produttivo del Paese".
Scelte di lunga percorrenza e poca lungimiranza
In effetti, dal voluminoso "Allegato infrastrutture" al Dpef si evince che la scelta dei progetti prioritari per il paese rimane quella della famosa lavagna di Berlusconi alla trasmissione "Porta a porta" del 2001 e poi riflessa nella Legge Obiettivo: un elenco di "grandi opere", selezionate con criteri strettamente politici, e tutte orientate al traffico di lunga percorrenza. Non ha importanza che – come riconosceva il citato programma elettorale dell’Unione - il 70% degli spostamenti di tutto il territorio nazionale si sviluppi nelle aree urbane e metropolitane e che soprattutto questi spostamenti incidano assai più di quelli di lunga percorrenza su congestione, inquinamento, e costi per le imprese. Ma su questo punto (e non solo) va segnalata una stridente contraddizione tra l’Allegato infrastrutture e il capitolo V.11 ("Infrastrutture") del Dpef, da un lato, e il capitolo V.12 ("Mobilità") dall’altro. A conferma che la scissione del vecchio Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti in due ministeri separati (che hanno con ogni evidenza curato i due capitoli) non è stata una buona idea.
Dall’elenco di Berlusconi-Lunardi il Ministro Di Pietro si è limitato a rimuovere (sembra più posporre) il Ponte sullo Stretto di Messina, su cui, del resto, il programma elettorale era stato esplicito, ma che non è neanche tra le opere inutili più costose. E’ stato reintrodotta la linea AV Milano-Genova, che anche i vertici di F.S. hanno dichiarato più volte opera di scarsa utilità e costosissima. Coerentemente, è stato fatto invece un accurato censimento dei "desiderata" delle regioni, secondo una consolidata tradizione americana nota come "pork-barrel policy", che determina scelte molto inefficienti se riferita a finanziamenti da parte dello Stato centrale.
In buona sostanza, è stato fatto tutto ciò che esclude un serio confronto sulla priorità reale dei progetti, priorità che deve e può basarsi su analisi socioeconomiche e finanziarie omogenee, che includano anche i costi ambientali, e analizzino alternative tecniche adeguate, secondo la miglior prassi internazionale. A rigore, nel Dpef (soprattutto nel capitolo "Mobilità") c’è un richiamo alla necessità di analisi costi-benefici, ma sembra un’evidente foglia di fico, di cui si perde ogni traccia negli elenchi dell’Allegato infrastrutture (elenco che costituisce un modello noto come "shopping list").
Nel dibattito di questi ultimi mesi sono anche ritornati fantasmi, che sembravano già esorcizzati, come la "golden rule", invocata recentemente in più sedi dal Presidente della Commissione trasporti del parlamento europeo Paolo Costa. C’è da chiedersi, se la razionalità economica delle scelte è quella appena descritta, vigente l’attuale vincolo alla spesa, cosa potrebbe accadere in assenza di tale vincolo? Non è difficile immaginare che la spinta locale e settoriale a costruire le cose più fantasiose diverrebbe inarrestabile. Da notare è anche il fatto che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con delega al Cipe, Fabio Gobbo sia tornato a evocare la "finanza creativa" cara a Giulio Tremonti, nella forma di coinvolgimento di capitali privati, coinvolgimento che risulta in genere solo formale, nella misura in cui nella prassi dominante tali capitali risultano perfettamente garantiti dallo Stato per qualsiasi rischio.
In questo contesto appare particolarmente preoccupante la richiesta di finanziamenti europei fatta dall’Italia per moltissimi progetti della legge obiettivo: vi sono infatti 8 miliardi per ventisette paesi, e l’Italia ne chiede 700 milioni solo per l’AV Torino-Lione. Anche se arrivassero tutti, coprirebbero meno del 10% dei costi totali per la parte italiana del progetto. Ma purtroppo, anche se arrivassero cifre simboliche dall’Europa, ciò significherebbe l’impegno nazionale a coprire l’intero costo di ciascuna opera, ipotecando ingentissime risorse per gli anni a venire su opere molto onerose, di cui mai è stata verificata la priorità. Tale verifica non è stata fatta in modo comparato neppure per quanto riguarda la semplice redditività finanziaria dei progetti: e si noti che in presenza di risorse scarse, la redditività finanziaria è parametro essenziale anche per la redditività socioeconomica complessiva: a parità di quest’ultima infatti se si selezionano progetti a maggior ritorno finanziario se ne possono realizzare in maggior numero (2).
Tre aspetti da valutare
Quali sono le logiche "bipartisan" che sembrano emergere in questo delicato settore e che sono alla base della sostituibilità quasi perfetta tra l’Allegato infrastrutture di Di Pietro e quello che avrebbe potuto produrre Lunardi? Si possono qui fare alcune ipotesi.
La prima questione sembra essere l’informazione: i grandi progetti infrastrutturali sono stati da 5 anni oggetto di una sistematica campagna di supporto da parte degli interessi costituiti, che sono riusciti a rappresentare ogni forma di critica come manifestazione di contrarietà al progresso e alla modernizzazione del paese, tipica della sinistra estrema e dell’egoismo localistico. In realtà, sarebbe interessante effettuare qualche indagine sul livello di conoscenza tecnica dei problemi di trasporto dei supporters politici e industriali delle grandi opere. E ci stiamo lavorando…
· Un altro aspetto, più strutturale, riguarda il ruolo delle grandi opere civili: in questo settore moltissimi input devono necessariamente essere locali (in gergo: non è "foot loose") e perciò la concorrenza internazionale è storicamente poco presente. Questo fa sì che la spesa in opere civili sia praticamente l’unico modo attraverso il quale si possono erogare fondi rilevanti alle imprese nazionali senza incorrere nel divieto per aiuti di Stato.
· Un terzo punto, correlato con i due precedenti, è lo scandalo, subito dimenticato, dell’enorme crescita nel tempo dei costi della tipologia di opere più rilevanti, quelle dall’AV ferroviaria: così i costi per chilometro di linee ad alta velocità in Italia è stato (ed è previsto essere in futuro) oltre il triplo che in Francia o Spagna. Costi anomali, anche a parità di saggio di profitto, significa un flusso anomalo di risorse ai settori interessati, tramite F.S., che – a causa di tali extracosti - recentemente ha beneficiato di trasferimenti "cash" per 12 miliardi di euro. Queste risorse generano ovviamente una eccezionale capacità di pressione, politica e mediatica, perché tale flusso non si arresti.
(1) Per il bene dell’Italia. Programma di Governo 2006-2011, pp. 136-140.
(2) Bonnafous, A., Jensen, P. (2004), Ranking Transport Projects by their Socio-economic Value or Financial Interest Rate of Return? Paper presented at 10th WCTR, Istambul, July.2004, 11p. , e Ponti M. (2003), Welfare basis of evaluation, in Mackie P.J., Nellthorp J., Pearman A. D. (edited by, 2003), Transport projects, programmes, and policies: evaluation needs and capabilities, Ashgate Publishing Ltd, Aldershot (UK).
Linda Lanzillotta, ministro per gli Affari Regionali del governo Prodi, sta conducendo da tempo una battaglia di grande vigore contro quelle istruzioni che vengono dipinte come vere e proprie fonti di spreco: i comuni italiani. Questa solitaria battaglia è degna della miglior causa. Nemmeno Giovanna d’Arco lottò con tanto ardore contro l‘Inghilterra, tanto da meritare al ministro l’appellativo di Lancillotta, proprio per sottolineare le sue virtù guerriere senza macchia e senza paura.
Senza paura è certo vero. Senza macchia lo vedremo in seguito. Indaghiamo prima sull’oggetto di tanto furore. Come è noto a tutti, i comuni italiani sono stati sottoposti dal 1993 ad una cura dimagrante di proporzioni straordinarie. Ogni legge finanziaria ha decurtato i trasferimenti statali, impedito assunzioni e limitato la possibilità di contrarre mutui.
Gli effetti non sono tardati a manifestarsi. La rete di assistenza per la parte meno favorita della popolazione ha subito una progressiva attenuazione e molte cancellazioni: è stato pressoché azzerato il ruolo redistributivo dei comuni. E’ vero che al tempo dei primi tagli non mancavano vere e proprie forme patologiche di sprechi di risorse e livelli di indebitamento insostenibili. Come è vero che permangono ancora oggi sacche di privilegio ricavate dall’uso disinvolto delle leggi che hanno “liberalizzato” il mercato del lavoro pubblico. Sono molti infatti i portaborse del sottobosco politico cui vengono concessi contratti d’oro, ma di questo non si parla: è più indolore chiudere i doposcuola.
Il fatto strutturale è che in mancanza di trasferimenti adeguati, i comuni sono stati costretti ad alimentare la rendita fondiaria. I bilanci locali si basano prevalentemente sull’imposta sugli immobili (Ici) e sull’urbanistica contrattata che, in cambio di impressionanti aumenti di cubatura, permette di ottenere da rentier scaltri quanto privi di scrupoli modeste -ma importanti- risorse finanziarie. Insomma, oggi i comuni pagano i servizi pubblici con i mattoni della speculazione edilizia.
Uno risultato devastante, come si vede. Ma per Lancillotta non basta ancora. Il 31 maggio ha convocato i presidenti delle Regioni e gli enti locali per comunicare che era sua inflessibile intenzione tagliare ancora i bilanci degli enti locali. Le cronache dicono che la reazione di dei presenti è stata così veemente che sono addirittura sparite le cartelline stampa. La prode condottiera ha battuto in ritirata.
Forse perché qualcuno avrà argomentato sul fatto che la cavaliera sarà pure senza paura, ma nelle sue eroiche gesta si trova anche qualche non trascurabile macchia. Di latte. Agli albori della furiosa campagna “privato è bello” orchestrata dai poteri forti negli anni ’90, Linda Lanzilloltta era assessore al comune di Roma. Nel 1997 curò la vendita della Centrale del latte comunale alla Cirio di Sergio Cagnotti per la cifra di 110 miliardi di lire. I giornali liberisti gridarono al trionfo: un grande affare. Avrebbero potuto essere più cauti, perché dopo pochi mesi, nel febbraio 1998, la Cirio passò la proprietà della Centrale alla concorrente Parmalat di Callisto Tanzi per un importo valutato 200 miliardi. Il comune di Roma vendette la Centrale del latte alla metà del suo valore reale!
Il fatto che Cirio e Parmalat abbiano di lì a poco prodotto i più gravi scandali finanziari di quest’ultimo periodo, ci fornisce anche un eloquente chiave di lettura aggiuntiva: con i regali ricevuti da incauti amministratori pubblici, alcuni imprenditori si sono anche cimentati con profitto nel truffare tanti piccoli risparmiatori. In ogni altro paese, con precedenti di questo tipo sarebbe terminata qualsiasi carriera politica. Da noi, una classe politica senza credibilità che si è abilmente sottratta al giudizio dei fatti, continuerà a gettare i comuni nelle braccia delle speculazione immobiliare.
La Procura della Repubblica ha clamorosamente riaperto l'inchiesta sugli stagni-fantasmi di Olbia. Ha affidato al corpo forestale nuovi accertamenti su Mare e rocce, Pittulongu e Bados. Vuol capire com'è che sono scomparsi dalla cartografie.Sbianchettati, cancellati, eliminati dalle cartografie e soprattutto dal litorale di Pittulongu, Bados e Mare e Rocce. Gli stagni fantasma della costa olbiese sono di nuovo al centro di una inchiesta della Procura della Repubblica. Si può parlare di una clamorosa riapertura del fascicolo del sostituto Renato Perinu, la stessa indagine che aveva portato alla cancellazione del piano di risanamento di Pittulongu. Il pubblico ministero Ezio Castaldi ha disposto nuovi accertamenti, affidati al Corpo forestale. Il magistrato ha chiesto al personale della sezione di polizia giudiziaria della Procura di stabilire se corsi d'acqua e stagni retrodunali possano essere classificati come beni demaniali.
Se a questa domanda verrà data una risposta positiva, il caso Pittulongu verrà rimesso in pista, perchè la prescrizione non cancella i reati riguardanti il patrimonio dello Stato. Invece il fascicolo della prima indagine (ipotesi: abuso d'ufficio, falso) è¨ stato chiuso senza alcuna contestazione proprio perchè i reati sono stati dichiarati estinti per prescrizione. Insomma, la Procura ritorna alla carica su una vicenda che interessa da vicino, oltre al Comune di Olbia, anche quanti non vogliono arrendersi all'idea di dover rinunciare agli interessanti interventi urbanistici in zone di particolare pregio, sotto tutti i punti di vista. La polizia giudiziaria si è messa subito al lavoro, dopo l'input dell'attuale capo della Procura gallurese, gli investigatori faranno un percorso a ritroso nel tempo, verificando documenti, ma soprattutto rilievi aerofotogrammetrici che risalgono anche ai primi anni Cinquanta. Anzi il Corpo forestale sta cercando materiale particolarmente interessante raccolto da un geometra olbiese che qualche decennio fa mise insieme un voluminoso dossier su Pittulongu corredato di preziose fotografie. Rilievi che dimostrerebbero, senza possibilità di smentita, l'esistenza degli specchi d'acqua successivamente oggetto di interventi fuorilegge di riempimento, sino alla completa scomparsa. L'avvio degli accertamenti arriva in una fase particolarmente delicata della vicenda. Da mesi, infatti, il Comune di Olbia si oppone ai ricorsi presentati dalle società alle quali sono state negati le concessioni per interventi nel comprensorio di Pittulongu.
Il Tar, con alcuni importanti pronunciamenti ha accolto le richieste di chi ritiene priva di argomenti, almeno dal punto di vista amministrativo, l'interruzione degli iter concessori. Ora suona il campanello delle nuove verifiche avviate nei giorni scorsi dal Corpo forestale. E’ evidente che, in un quadro come questo, si è ben lontani da una definitiva risposta alle numerose domande riguardanti il passato e il futuro di Pittulongu.
Ma non basta, perché qualche giorno fa il Tribunale di Olbia ha anche assolto i rappresentanti della società proprietaria dei sette ettari affidati alla cooperativa Il Mattino, per la realizzazione di parcheggi e strutture di servizio destinati ai bagnanti. La srl Li. Do. di Pittulongu ha di nuovo, dopo un lungo periodo di sequestro, la disponibilità dell'area e anche in questo caso si attendono risposte dal Comune e dalla Regione.
Il Tg3 di oggi – domenica 8 luglio – ci informa che i nuovi ricchi russi pagano oltre 100mila euro per affittare per un mese una casa in Costa Smeralda. E che i sardi che vanno in vacanza sono il 10% in meno dell'anno precedente. Ognuno può mettere come crede le due notizie in relazione e integrare le considerazioni con un'altra notizia sull'Unione Sarda che racconta di una truffa di cui si parla da un po'.
Si spiega come si possano truccare le carte topografiche fino a cancellare, nel litorale di Olbia,i presupposti dei vincoli, in questo caso stagni in seguito abilmente interrati. Falsari postmoderni. Incredibile: più o meno come nel film di Totò e Peppino "La banda degli onesti".Cliché da diecimila lire, un po' di carta filigranata, un tipografo, un pittore e altri sgangherati personaggi s'improvvisano falsari. Li scoprono ovviamente. Questo nuovo imbroglio non è molto divertente, perchè temo che di carte truccate, che spostano confini dal mare, cancellano colline e fiumi e altra roba di particolare pregio, ce ne siano molte in giro, con le conseguenze che vediamo in giro. Truffe e truffatori non scoperti, temo. E temo, data la rozzezza del raggiro, che ci siano complici tra quelli incaricati di controllare. Il rischio ? Vale la pena di correrlo visti i valori. Ovviamente nessun tornaconto per il fiero popolo dei nuraghi che addirittura s'impoverisce e rinuncia alle vacanze (ma si potrà consolare andando a vedere cosa fanno i ricchi in Costa Smeralda). (Sandro Roggio)
La postilla è tratta dal sito del Centro Studi Urbani dell'Unbiversità di Sassari
Ci sono disastri annunciati che una denunzia tempestiva impedisce; e ci sono disastri annunciati che macinano inesorabilmente tutto il loro percorso. Nell´utilissimo catalogo degli orrori ambientali realizzati o progettati in Toscana proposto ieri da Francesco Erbani ne manca uno. Mi si permetta di aggiungerlo, anche perché il silenzio con cui lo si è finora coperto dà sostanza al pericolo. La coraggiosa azione di difesa del paesaggio toscano condotta da Repubblica e da Asor Rosa fa sperare se non in un ripensamento dei responsabili dei disastri almeno nell´efficacia della vergogna pubblica per chi finora ha proceduto copertamente. In questo caso non si tratta di cementificazione ma di una aggressione all´ambiente ancora più grave perché colpisce direttamente una risorsa primaria - l´acqua - e indirettamente cancella un paesaggio unico nel suo genere, ricco di specie naturali rarissime e legato alla storia delle popolazioni circostanti da tristi memorie civili. Se si realizza il progetto elaborato anni fa dalle amministrazioni locali sarà condannata alla scomparsa nientemeno che l´area umida naturale più vasta d´Italia, il Padule di Fucecchio.
L´attacco viene da lontano e nonostante tutti gli ostacoli che ha incontrato - negli abitanti, nei responsabili della salute pubblica, nelle società di valutazione dell´incidenza ambientale, e da ultimo finalmente nel Ministero dell´Ambiente - continua sordamente ad andare avanti, sotterraneo e micidiale come il tubo che ne costituisce l´idea base. Un´idea del tubo, o - come tutti ormai l´hanno ribattezzata - del Tubone.
Ecco i precedenti. Diversi anni fa fu presa la decisione di portare le acque della Valdera, della Valdelsa e della Valdinievole ai depuratori del comprensorio del cuoio del Basso Valdarno (Santa Croce, Ponte a Egola, Castelfranco).
Era un´operazione politicamente bi-partisan: il documento dell´«Accordo di programma» era sottoscritto dall´allora ministro dell´ambiente Altero Matteoli e da tutte le amministrazioni pubbliche toscane interessate, rigorosamente e tradizionalmente di centro-sinistra: Regione, province, comuni, enti, authority, aziende municipali e quant´altro. L´accordo intervenuto tra contraenti così eterogenei si intitolava al nobile fine della «tutela delle risorse idriche». Definizione singolare, o meglio grossolano occultamento della realtà.
Il nocciolo del progetto, la sua parte più distruttiva e insieme quella che stava più a cuore ai proponenti era quella relativa alla Valdinievole. L´idea era quella di incanalarne le acque in una tubatura sotterranea lunga parecchi chilometri e portarle fino ai depuratori della ricca e inquinatissima area del cuoio: questo - si disse - per ridurre la quantità di acqua che attualmente si emunge dal sottosuolo allo scopo puramente meccanico di diluire le sostanze che la lavorazione del pellame porta ai depuratori. Con una enorme spesa pubblica si garantiva così un sostanzioso risparmio nelle spese della gestione (privata) dei suddetti depuratori: i quali intanto, liberati da ogni vincolo di osservanza delle tabelle di legge grazie alla semplice firma di quell´accordo, hanno potuto da allora macinare ogni genere di porcheria. L´altro vantaggio era per i sindaci della Valdinievole i quali, deportando le loro acque sporche, potevano cessare di preoccuparsi per le responsabilità di una depurazione in loco inesistente o deficitaria. L´operazione aveva un costo che non veniva detto: semplicemente la cancellazione dell´area umida del Padule di Fucecchio, la più vasta area umida d´Italia sopravvissuta nonostante il crescente inquinamento dei corsi d´acqua della Valdinievole che la alimentano. Operazione dissennata, presa a cuor leggero: chi si preoccupa se viene cancellata l´unica area dove sopravvivono varietà rarissime di flora, dove sono tornate a nidificare le cicogne, dove la popolazione si riunisce annualmente nel ricordo di una spaventosa strage nazista che lasciò tra i prati e le acque del Padule i corpi di 178 vittime tra uomini, donne e bambini? Ma dissennata e rovinosa anche per le conseguenze prevedibili: una grande massa d´acqua convogliata ai depuratori e immessa nel corso dell´Arno - dopo trattamenti che la rendono non più recuperabile - con la conseguente minaccia gravante sul percorso terminale del fiume fittamente urbanizzato.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti; anche sotto i ponti e nelle valli del Padule. L´accordo di programma non si è realizzato. Non ancora. Proteste pubbliche, resistenze di assessori «verdi», pareri negativi di agenzie di valutazione, perfino una decisione del vigente Ministero dell´Ambiente che ha imposto la costruzione di un grande depuratore in loco per le acque della Valdinievole. Eppure nemmeno la volontà di un Ministero fa legge: si racconta che di recente sindaci e amministratori locali si siano rivolti al ministro Chiti (molto influente nella zona) minacciando una rivolta se il Tubone non si farà. Ci si chiede perché. Non dovrebbero essere proprio loro a rispettare il dovere costituzionale di tutelare l´ambiente e il paesaggio? che cosa è successo nelle amministrazioni comunali toscane, storicamente le cellule originarie della democrazia italiana?
Alberto Asor Rosa
Questa Italia di cemento
Dunque siamo tutti d’accordo. Ad un recente, e utile, Convegno di Legambiente sul paesaggio italiano (di cui ha dato notizia su queste colonne Francesco Erbani), Lorenzo Bellicini, direttore del Cresme, ha illustrato, con dovizia di cifre e di grafici, lo stupefacente incremento edilizio in Italia nello scorso decennio (53 metri cubi per ogni cittadino di questa Repubblica!). Nessuno ha opposto le «immarcescibili e irrinunciabili ragioni dello sviluppo» (con le quali politici e amministratori ci hanno sfondato le orecchie anche in un recente passato) a questo quadro impietoso. Anzi. A parte, ovviamente, gli organizzatori del Convegno, che proprio questo risultato, penso, si proponevano di ottenere, e Salvatore Settis, che ha presieduto nei mesi scorsi la Commissione ministeriale incaricata di stendere il nuovo Codice del paesaggio (dal quale molto ci aspettiamo) ed ha avuto parole durissime contro inadempienze, furbizie e falsità degli amministratori, sia periferici sia centrali, tutti gli altri, - sindaci, assessori, uomini di governo, - si sono puntualmente allineati. Parole dure sono venute anche dal Ministro dei Beni culturali, Francesco Rutelli, il quale ha la battuta buona e ha coniato per il decennio passato l’eloquente definizione di «alluvione cementizia».
Bene, anzi, benissimo. Non avremmo mai creduto di riuscire a passare così facilmente, dopo le durezze dei mesi passati, dalla «fase uno», - quella della discussione, - alla «fase due», - quella dei fatti. Qualche dubbio retrospettivo tuttavia ci ha assalito, ascoltando tali criticissime diagnosi e considerazioni. Nel decennio passato abbiamo avuto governi di centrosinistra e governi di centrodestra, e amministrazioni locali di centrodestra e di centrosinistra. Abbiamo cercato di capire se nelle fasi del governo di centrosinistra la poderosa curva ascensionale dello sviluppo edilizio si fosse arrestata o almeno attenuata e se nei territori localmente governati dal centrosinistra tale sviluppo fosse stato meno intenso che altrove. Siamo arrivati alla conclusione che, almeno da questo punto di vista, le differenze nel colore degli schieramenti politici hanno contato quasi nulla (vero è che su altri punti del programma di governo si potrebbe dire la stessa cosa, ma intanto concentriamoci su questo).
Insomma: non c’è nulla che sia stato bipartisan in Italia quanto l’ «alluvione cementizia». Venute meno le grandi distinzioni ideologiche, come da più parti si lamenta soprattutto da coloro che più hanno contribuito a cancellarle, il ceto politico italiano, centrale o locale, ha ritrovato una sua inedita unità identitaria e d’intenti, abbracciando un’unica, corposa ideologia di nuovo stampo: quella del mattone.
Se dunque, da parte di un nucleo consistente e significativo del ceto politico di centrosinistra, ci si spiega ora che si vuole abbandonare l’ideologia del mattone, che si vuole uscire dalla pratica bipartisan dell’«alluvione cementizia», vorremmo vedere più chiaramente come questo possa accadere e con quali strumenti. Farò, il più possibile schematicamente, tre riflessioni.
1. Esiste un pregresso, gigantesco, che teoricamente dovrebbe rappresentare la coda estrema (e ultima nelle parole dei neoconvertiti), della fase precedente, quella dell’«alluvione cementizia». Cosa ne facciamo? Comincia a esser noto che in Toscana, ad esempio, una miriade di comitati per la difesa del territorio si sono federati per dare maggiore rilievo a ciascuna delle loro richieste e un diverso e più ampio orizzonte politico e culturale all’insieme di esse. Le decine e decine di decisioni abnormi e sbagliate di amministrazioni comunali e provinciali, e della stessa amministrazione regionale, che essi denunciano, - dovranno rimanere in atto come la pesante e irragionevole eredità del passato, destinata a sporcare e distruggere almeno per ancora un decennio il territorio di questa Regione?
Faccio un solo esempio, ma particolarmente clamoroso: il cosiddetto «corridoio tirrenico», - ovvero sia l’affiancamento ad una via nazionale a quattro corsie, l’Aurelia, emendabile e migliorabile, di una vera e propria autostrada, il cui effetto sarà lo sventramento di tutta la costa fra Civitavecchia e Livorno, rappresenta un perdurante e contraddittorio oltraggio al paesaggio, un vero e proprio insulto al buonsenso e insieme l’accondiscendente e politicistico ossequio a quegli interessi (sovente poco chiari) che stanno dietro avventure di questo genere. Se il governo regionale e, ancor più, quello nazionale non capiscono questo, vuol dire che siamo ancora, non ai fatti, ma alle chiacchiere. Bisogna che sia chiaro che la partita non è chiusa, checché qualcuno ne pensi.
Di esempi del genere in Toscana, - da Fiesole a Capalbio, dalla Versilia alla martoriata periferia senese alla Val d’Arbia alla Val d’Orcia, se ne possono fare a decine. Se si fa sul serio, bisogna accettare di ricontrattare anche gli «scempi» già decisi.
2. La novità è che a questo stato di cose la risposta è ormai molecolare: e cioè viene da mille parti e assume mille forme. Suggerirei ai politici ben intenzionati di prestare attenzione a questa fenomenologia. La crisi della politica non è, prevalentemente, il suo aspetto corruttivo e corruttibile (che, certo, conta). La crisi della politica è, fondamentalmente e strutturalmente, la perdita di fiducia dei cittadini nell’operato dei politici, nazionali, periferici, locali e localissimi.
La nascita di una miriade di comitati per la difesa del territorio e dell’ambiente fa parte di questa fenomenologia. Non prevede il rifiuto del sistema democratico-rappresentativo, che, anzi, cerchiamo nei limiti delle nostre forze di proteggere dai danni prodotti dal ceto politico più strettamente professionistico, che abitualmente lo frequenta e innerva. Prevede bensì il ritiro della delega, che invece politici e amministratori vorrebbero esercitare illimitatamente e arrogantemente.
Ecco perché «il fai da te», il non aspettare un deus ex machina qualsiasi, persino il guardare all’inizio solo dentro il proprio ristretto orizzonte, fanno parte geneticamente di questo nuovo tipo d’esperienza democratica. C’è anche, secondo me e l’ho già detto, un che di sanamente «privatistico» in questo modo di ragionare e di agire: se il pubblico non funziona e qualche volta fa schifo, mi batto io per i miei beni, per vivere meglio, per avere una visuale più bella, per dare ai miei figli l’orizzonte garantito di una vivibilità condivisa.
3. Se però i «fai da te», la difesa dell’«angolo sotto casa», la protezione della città e del territorio in cui si è vissuti fin da bambini o in cui si è scelto di vivere a preferenza di cento altri possibili, si accostano, si associano e si riconoscono simili, allora qualcosa di nuovo può forse ancora accadere.
L’«alluvione cementizia» ha invaso la penisola intera. A qualcuno viene in mente di trivellare in Val di Noto; a qualcun altro di costruire un orribile villaggio turistico in Val d’Orcia. Però a qualcuno viene in mente di organizzare la risposta popolare in Val di Noto; a qualcun altro viene in mente di farlo in Val d’Orcia. Il fenomeno non può più essere considerato o residuale (secondo alcuni) o intellettualoide-elitario (secondo altri). I nomi coinvolti - Zanzotto, l’appena scomparso Meneghello, Camilleri e, perché no, Clooney, - dovrebbero sconsigliare chiunque di resistere alla tentazione di sbarazzarsene, facendo spallucce.
Invece di enfatizzare la portata organizzativa e potenziamento elettoralistico di un tale schieramento, - errore commesso tante volte in passato, - bisogna valorizzarne il senso culturale e ideale, la forza di persuasione contenuta in quelle tante battaglie. Insomma: molto semplicemente: ci sono italiani, per i quali alcuni beni comuni fondamentali (la «forma del paese», le sue eredità culturali, la sua, diciamolo pure - tradizione identitaria), non sono né contrattabili né commerciabili.
Se questi italiani sono molti, se diventano ancora di più, il fenomeno da regionale diviene nazionale. Questo è, mi pare, il punto in cui siamo.
Francesco Erbani
Come si devasta e come si difende la regione Toscana
Erano settantacinque in marzo, quando a Firenze fu varato il coordinamento presieduto da Alberto Asor Rosa. Ora, a pochi giorni dall’assemblea che si terrà sabato sempre nel capoluogo toscano, i comitati sorti a tutela di un paesaggio o di un centro storico minacciati sono diventati più di cento. E altri potrebbero aggiungersene, mentre proseguono i contatti con i comitati di altre regioni - il Veneto, la Liguria o l’Umbria.
Finora il coordinamento ha provveduto a censire i comitati e le locali sezioni delle associazioni nazionali, da Italia Nostra al Wwf e a Legambiente. Ed ha messo insieme un poderoso dossier con tutti i conflitti ambientali che si manifestano nella regione Toscana, diventata la punta di questo esperimento di partecipazione popolare. Il dossier è formato di tante schede.
Ogni gruppo ha elaborato una brevissima descrizione di sé, della propria storia, del perché e quando è stato formato, di quanti sono i suoi componenti. E ha poi descritto le vertenze in corso.
Ne viene fuori una mappa di tutte le manomissioni del territorio, delle insensatezze urbanistiche in una regione fra le più ricche di valori paesaggistici e per questo fra le più appetite da chi investe nel mattone. Secondo i dati Istat citati dal Comitato per la bellezza, presieduto da Vittorio Emiliani, dal 1999 al 2003 la Toscana ha perso 169 mila ettari di territorio a causa del cemento per case, stabilimenti industriali e infrastrutture, con un’erosione del 10,2 per cento della sua superficie, un’erosione superiore alla media italiana (9,5 per cento) e persino a quella di regioni come il Lazio che, pur comprendendo Roma dove l’edificazione galoppa, si ferma al 9,2.
La mappa delle cementificazioni contestate comprende tutte le province toscane. In quella di Siena spiccano le lottizzazioni a San Severo, a Le Vigne e a Bagnaia; l’ampliamento dell’aeroporto di Ampugnano e della cava di Malintoppo a San Quirico d’Orcia.
L’intera Val d’Orcia è minacciata da insediamenti di seconde case (oltre Monticchiello, Contignano, Campiglia e Montalcino) e di grandi alberghi (Bagno Vignoni, Montalcino e Pienza). Sotto accusa un’area industriale a Monteriggioni e un’altra che potrebbe sorgere a Gaiole in Chianti, dove molte proteste suscitano anche le enormi cave di Montegrossi. Molte anche le tensioni a Siena, dove Italia Nostra si oppone al parcheggio interrato di via Garibaldi e alla costruzione di una bretella tangenziale davanti alla Basilica dell’Osservanza.
Tantissimi i conflitti a Firenze, dove i comitati hanno dato vita da tempo a un coordinamento che alle ultime elezioni comunali ha sostenuto un proprio candidato, Ornella De Zordo, il cui 12 per cento ha costretto il sindaco uscente, il diessino Leonardo Domenici, ad andare al ballottaggio con un esponente del centrodestra. Fra le ultime iniziative dei comitati fiorentini un voluminoso Studio di Impatto Ambientale, elaborato da docenti dell’università, contro il tunnel che dovrebbe consentire ai treni ad alta velocità di attraversare il sottosuolo di Firenze.
A Pistoia è accaduta una vicenda analoga a quella di Firenze. Alle recenti elezioni comunali i comitati hanno appoggiato il verde Giovanni Capecchi, che ha collezionato un buon 13 per cento, costringendo anche qui il sindaco Renzo Berti a vedersela nel ballottaggio con il candidato del centrodestra, battuto poi di misura. Il conflitto più duro fra i comitati e l’amministrazione si è verificato sulla costruzione di un ospedale in un’area giudicata non idonea perché, fra le altre cose, depressa rispetto ai corsi d’acqua e a rischio di esondazione.
A Prato un comitato lotta contro un parcheggio da novecento posti sotto Piazza Mercatale. A Pisa è attivissima un’associazione contro la costruzione di un porto turistico e un villaggio da 170 mila metri cubi a Boccadarno, ai bordi del parco di Migliarino, San Rossore e Massaciuccoli. Nella Val di Magra, fra Toscana e Liguria, ci si batte contro il «Progetto Marinella», un enorme insediamento turistico. Fittissimo il contenzioso a Lucca, dove Italia Nostra fronteggia l’edificazione nel parco di Villa storica a Coselli, le costruzioni a Capannori, la trasformazione di serre in appartamenti a San Macario. La speculazione edilizia, denuncia un comitato, incombe su Impruneta, mentre a San Casciano uno stabilimento della Laika minaccia il fondovalle della Pesa.
Pericoli gravano a Bagno a Ripoli e a Fiesole. A Fucecchio, infine, un comitato protesta contro l’imponente edificio che sostituirà il teatro Pacini, nella piazza dedicata a un illustre figlio di questo paese toscano, Indro Montanelli.
Ci rivolgiamo al ministro delle infrastrutture, perché per noi Antonio Di Pietro resta l'uomo di «mani pulite», simbolo di una stagione che si caricò per tanti della speranza di comportamenti limpidi della pubblica amministrazione, della politica e chiedergli se, per qualche mese, può provare a rifare «mani pulite» nelle infrastrutture.
Prendiamo due esempi emblematici - il Mose e il corridoio Tirrenico - per osservare che le motivazioni addotte dal ministro non ci sembra che dovrebbero bastare per guardare dentro queste due «opache» vicende. Dice infatti Di Pietro per il Mose: «Io non sono un tecnico ed i tecnici del ministero (ma non solo) hanno fatto la loro scelta che io devo rispettare». Quanto all'autostrada che dovrebbe scorrere accanto alla Via Aurelia: «Per l'adozione di scelte che soddisfino l'interesse generale, nel rispetto della sicurezza e della salvaguardia ambientale, di questo si fa carico la Regione, formalmente competente». Queste serene risposte non ci paiono sufficienti.
Il Mose: che valutazione dà il ministro dei tecnici e dei rapporti predisposti per le sedi istituzionali attorno al «Modello predittivo dell'andamento della morfodinamica dei fondali in conseguenza dell'apertura e chiusura delle paratie mobili»? Cioè uno studio di importanza fondamentale per la sicurezza di Venezia, che non è stato mai effettuato, perché - fu detto - non c'erano le competenze appropriate nella commissione del Consiglio superiore dei LL.PP. che esaminò il progetto? Si comprenderà che lo studio è cruciale, perché valuta il rischio che l'opera possa risultare addirittura controproducente. Ne prende atto il governo Amato quando, il 15/3/2001, il ministro Nesi porta il Mose in consiglio dei ministri per passare al progetto esecutivo e il governo di allora, contrariamente a quanto si legge nella relazione predisposta per Di Pietro nel consiglio dei ministri il 10/11/2006, all'unanimità decide che bisognava procedere ad una fase di «approfondimento progettuale», in particolare sulla morfodinamica. Lo studio non è stato ancora effettuato e tuttavia, all'interrogazione dei parlamentari Bonelli e Zanella (22/3/2007), si risponde (a firma del ministro) che «gli ulteriori approfondimenti richiesti dal consiglio dei ministri del 15/3/2001 sono stati puntualmente programmati e svolti». Ma fonti del ministero fanno sapere che «la problematica della morfodinamica è stata affrontata per quanto riguarda gli effetti di tale fenomeno sulla progettazione delle paratie mobili, ma su questa complessa fenomenologia sono in corso studi scientifici, sulla base di programmi di ricerca internazionali finanziati dall'Unesco». Così il cantiere va avanti, e sempre in concessione al Consorzio Venezia Nuova, passato indenne attraverso la critica di mozioni parlamentari e di procedure di infrazione comunitarie: quando si dice i «poteri forti»! Così forti da aver messo in non cale le fondatissime critiche a tutti gli elementi deboli del progetto avanzate dai tecnici, dal comune, Cacciari in testa. Di fronte a questi fatti, la sicurezza di Venezia non richiede una robusta verifica?
L'autostrada. Da anni c'è chi vagheggia di stendere, a fianco dell'Aurelia altre sei corsie: non è sufficiente portare tutta l'Aurelia alla dimensione superstrada. Lo vuole l'Ue, bisogna dividere il traffico pesante da quello leggero, si farà nel rispetto del paesaggio, e non costerà soldi pubblici perché la concessionaria Sat lo farà ricorrendo al Project financing. Queste sono alcune delle motivazioni avanzate dalla regione Toscana, sostenitrice dell'autostrada. Ma il governo Amato sceglierà invece di inserire nel piano generale dei trasporti del marzo 2001 il potenziamento dell'Aurelia. Caduto Amato, lo zelo regionale spiana la strada a Lunardi nel rilancio dell'autostrada ed ora Di Pietro annuncia che il 4 luglio «per rispettare la volontà regionale» ci sarà l'accordo tra stato, regione e Sat.
Alla direzione generale trasporti della Ue, rispondono: «La rete stradale Ten (Trans Europe Network) - nella cui cartina è indicata la S.S.Aurelia - è composta di autostrade e di strade di elevato standard, esistenti, nuove o da adeguare e gli interventi possibili comprendono l'adeguamento di strade di elevato standard. Se le autorità italiane, per promuovere la costruzione di una nuova autostrada parallela alla S.S. esistente, si fondano sugli orientamenti Ten, ne fanno una lettura errata. I cofinanziamenti comunitari destinati alla rete stradale Ten non sono in alcun caso vincolati dalla necessità di realizzare un'infrastruttura autostradale a pedaggio». Va anzi osservato che il Consiglio europeo di Göteborg ha posto il riequilibrio fra i modi di trasporto al centro della strategia di sviluppo sostenibile: si tratta di trasferire verso modi alternativi una percentuale di merci pari al previsto tasso di crescita dei trasporti internazionali su strada; i cofinanziamenti comunitari dovranno essere riveduti e corretti per dare la priorità alla ferrovia e al trasporto marittimo e fluviale, in un quadro organico nel quale i trasporti stradali dovrebbero prevedere distanze di utenza più brevi.
Quanto al costo, è la stessa Sat a quantificare in quasi 2 miliardi di euro il maggior costo della realizzazione dell'autostrada rispetto all'ampliamento dell'Aurelia e la via del project financing è praticabile, per l'insufficiente volume di traffico, solo a condizione di forzarne le regole: garanzia di mezzo secolo per la durata della concessione, pedaggi abnormi, annualmente rivedibili.
C'è da chiedersi se vi sia solo danno ambientale o qualcosa non torni anche dal punto di vista dell'etica pubblica. Vuole Di Pietro andare a vedere coi suoi occhi a nome di tutti noi? E' un fatto che la legge finanziaria del '98 destinò qualche centinaio di miliardi alla Sat, a titolo di indennizzo per il parere negativo sul progetto di autostrada dato dal ministro dell'ambiente Giorgio Ruffolo nel '92. E' il sottosegretario dei LL.PP. Antonio Bargone a gestire la vicenda il quale, in modo assai poco british, è divenuto poi consulente della regione e ora presidente della Sat. Non siamo quei populisti che vedono dietro ogni opera pubblica il tintinnare di «mani pulite», ma chiediamo al ministro: vuol dirci, quali sono i veri motivi a favore di un'opera enormemente più costosa e che scempia quel paesaggio? E sappiamo che il ministro non ci ripeterà le fumisterie della regione, ma forse vorrà capire un po' meglio, anche lui, tutta la vicenda. Altrimenti, da chi dovremmo aspettarcelo?
Molto ci sarebbe da aggiungere, sulle illegittimità del MoSE, a quanto accennano Mattioli e Scalia. Rinviamo all’amplissima documentazione raccolta nella cartella dedicata appunto al Mostro della Laguna di Venezia. Spendere montagne di soldi per opere inutili e dannose non sembra all’attuale governo (come a quelli che lo hanno preceduto) cosa indecente. Dire dei NO è diventato il peggiore degli errori, a prescindere dai contenuti e dalle ragioni. Da alcuni passaggio del discorso di Veltroni sembra che il nuovo partito che forse guiderà voglia essere l’alfiere di questa linea.
«È difficile accettare che un paesaggio unico che americani e giapponesi difenderebbero come un tesoro prezioso, venga rovinato per sempre. Il nostro territorio è l’unica vera fonte di ricchezza e va tutelato».
Non è il solito grillo parlante ambientalista, o paesaggista, ad esprimersi così, bensì uno dei maggiori imprenditori del settore trainante della nostra agricoltura, quello dei vini di alta qualità. Le parole, amare, sono infatti di Jacopo Biondi Santi. Le ha dedicate al paesaggio collinare di Scansano in Maremma, patria del Morellino.
Il bersaglio: un parco eolico piazzato proprio sopra la rocca di Scansano, a poco più di un Km dai vigneti, occupando oltre 5 Kmq di territorio e paesaggio. Senza alcuna valutazione di impatto ambientale regionale. Senza alcuna partecipazione della Soprintendenza competente alla conferenza dei servizi (essa ne venne esonerata dalla Provincia di Grosseto). Senza alcuna - aggiungiamo noi - valutazione di impatto socio-economico: è più utile alla Toscana e alla Maremma produrre un po’ di energia eolica, o non è più utile (a tutti) puntare sul risparmio energetico e difendere il «tesoro prezioso» del paesaggio italiano, toscano, maremmano che tanti miliardi di euro porta, e porterà, nelle nostre casse? Produttori illuminati e moderni come Jacopo Biondi Santi hanno capito benissimo che i loro vini di pregio vanno tanto più forte sui mercati internazionali ricchi quanto più possono fruire, alle spalle, di quell’inimitabile paesaggio che gli stranieri amano e apprezzano più di noi, imbarbariti dall’inseguimento di false modernità e da una incultura di base sempre più allarmante.
Ora il TAR della Toscana ha dato ragione all’imprenditore vinicolo toscano e a Italia Nostra, assistiti dall’avvocato Gianluigi Ceruti, e torto alla Regione Toscana e alla Provincia di Grosseto (e a Legambiente che la sosteneva), responsabili del pastrocchio, bloccando il parco eolico inaugurato, incautamente, una decina di giorni fa. Una decisione a posteriori che si poteva, che si doveva evitare con la misura preventiva di una VIA regionale e di una Conferenza dei servizi adeguate. Le motivazioni del TAR? Le pale del vento, così vicine, provocano inquinamento acustico, non rispettano le specie animali protette, danneggiano un ecosistema molto delicato. L’indice accusatorio del TAR è puntato contro la Giunta regionale toscana che a suo tempo decise che il parco eolico di Scansano non aveva bisogno di una Valutazione di impatto regionale. Eppure - dice la sentenza - «nell’area circostante il parco eolico sono localizzati 3 Siti di importanza comunitaria» per aspetti naturalistici «e 4 Siti di importanza regionale» ricchi di avifauna piuttosto rara.
Ora, io non sono pregiudizialmente contrario alle «pale» eoliche. Ma ascolto anche scienziati come Carlo Rubbia il quale attesta che l’Italia deve puntare assai più sul solare e su altre fonti rinnovabili perché, fra l’altro, decisamente meno ventosa della Spagna o della Danimarca. Da noi, inoltre, non ci sono le zone desertiche della penisola iberica e il paesaggio - naturale, storico e agrario - è un patrimonio «anche» economico di straordinario e crescente valore. Quindi, produrre una quota modesta di energia eolica ha «costi» in realtà elevatissimi in termini di paesaggio e di attività ad esso connesse, come il turismo, in specie quello culturale, come l’agriturismo, come l’agricoltura tipica di qualità. Questa analisi costi/benefici viene fatta man mano che si installano impianti eolici nelle zone collinari e montane dell’Appennino? Purtroppo no. Si allettano Comuni poveri di risorse. Gli si danno un po’ di euro, e magari si compromette per chissà quanto tempo un paesaggio intatto che sarà, sempre più, una formidabile attrattiva. Penso, ad esempio, ai 2 milioni di visitatori annui del Parco Nazionale d’Abruzzo. Disgraziatamente sono in pericolo persino ambienti paesaggistici di eccezionale valore (anche turistico, ripeto) quali la piana di Saepinum, la stupenda città romana vicino a Campobasso scoperta e valorizzata anni or sono da Adriano La Regina. Visitarla è una delle emozioni della vita.
Allora, no all’eolico? Sì invece e però caso per caso, dopo una attenta Valutazione di impatto ambientale, coi limiti oggettivi sottolineati da Carlo Rubbia. Non si tratta di scegliere fra un ambientalismo «ragionevole» (o arrendevole?) e un ambientalismo "fondamentalista". Si tratta di essere seri, attenti, informati, competenti nel valutare cosa conviene di più fare in questo delicato e, nonostante tutto, splendido Paese. In relazione alla sua storia, alle sue vocazioni territoriali, alle attività agricole, turistiche, artigianali, fonti infinite, queste sì, di introiti, al di là del valore culturale e sociale "in sé" rappresentato dal benessere delle popolazioni locali.
E’ ancora viva l’eco delle polemiche suscitate dallo scrittore Andrea Camilleri contro le trivellazioni petrolifere nella zona straordinaria di Noto. E, subito dopo, la denuncia dell’agenzia Dire su analoghe concessioni rilasciate, "distrattamente", in Toscana, proprio nel cuore del Chianti. Fra pentimenti e ripiegamenti, e fra le proteste che, guarda caso, vedono spesso in prima fila i produttori agricoli, in particolare (anche per Saepinum) la Coldiretti oggi attenta a questi valori, all’intreccio fra prodotti tipici e paesaggio tipico. Un potente valore aggiunto sui mercati.
I Comitati costituitisi in Toscana su casi a volte clamorosi di scempi e di manomissioni con conseguenze "anche" giudiziarie (Campi Bisenzio, Monticchiello, Casole d’Elsa, ecc.) assommano ormai ad un centinaio. In una regione meno devastata, sicuramente, del Veneto, sovente irriconoscibile, di Parise, di Piovene, di Meneghello, del poeta Andrea Zanzotto impegnato a difendere strenuamente gli ultimi lembi di paesaggio trevigiano. O meno devastata della derelitta e suicida Campania invasa dalle discariche e dalle cave, legali e illegali, che certamente - va detto con forza - sono un flagello molto più grande di alcuni ben collocati e ben studiati termovalorizzatori, per esempio. Sintomo, quei Comitati, di un profondo disagio sociale, di una sempre più debole rappresentatività delle amministrazioni locali, in Comuni che hanno avuto dalla Regione la delega a controllare se stessi (sono loro a concedere lucrose autorizzazioni edilizie e sempre loro a tutelare il paesaggio…) e che con la nuova legge comunale possono far passare quasi tutto dalla Giunta e non più dai Consigli, dalle assemblee elettive. Perché stupirsi poi se i cittadini vanno a votare meno di prima e si allontanano dalla politica, anche da quella locale?
La sentenza del TAR della Toscana che boccia l’impianto eolico di Scansano andrebbe pubblicata integralmente. Farebbe capire meglio quanta disattenzione, sbrigatività, trasandatezza sottoculturale circondino, e assedino, ormai quel paesaggio che pure la Costituzione repubblicana volle tutelare, all’articolo 9, in modo forte e democratico, assieme al patrimonio storico e artistico, facendone, giustamente, un tutt’uno.
Anni fa, leggere Mike Davis e le sue "ecologie della paura" delle metropoli statunitensi era un'esperienza lisergica. Tra le righe del sociologo-camionista che ha studiato le periferie e gli slum di mezzo mondo, si trovavano le utopie negative di George Orwell e Jack London, la fantascienza paranoica e inquietante di James Ballard e Phili K. Dick.
Sgranavamo gli occhi, perché sapevamo che non si trattava di fiction: era tutto vero. I confini immateriali e le barriere di cemento armato, le guardie private e l'urbanistica del controllo che Mike Davis ci faceva scoprire ricostruendo i Piani regolatori della tolleranza zero, raccontavano l'evolversi della società statunitense, l'esplodere delle fobie di una società che andava impoverendosi ma preferiva prendersela con i più deboli invece che puntare il dito verso l'alto. Pensavamo che vivere in Europa, il continente del welfare state e delle garanzie sociali, fosse ancora una fortuna.
Adesso scopriamo che il tema della sicurezza, in tempi di insicurezza sociale e crisi della politica, è il tratto distintivo dello stile flessibile e ambiguo della governance. Per paradosso, come ha fatto notare qualche giorno fa Massimo Ilardi, anche chi governa deve "fare società", costruire un blocco sociale per garantirsi il consenso, deve "stabilire gerarchie, poteri ed esclusioni".
Per questo i sindaci gridano all'emergenza. Ovviamente lo fanno quelli di destra, in fondo è il loro mestiere. Non è stata forse Letizia Moratti, con la sua marcia per la sicurezza del 26 marzo scorso, a sollevare per prima il problema? Ma sbraitano anche quelli di sinistra. La lista è lunga. Walter Veltroni, il leader in pectore del Partito democratico organizza i "villaggi della solidarietà", cioè i campi rom fuori dal Raccordo anulare a Roma. Il sindaco di Bologna Sergio Cofferati intima ai centri sociali di non vendere bibite perché "non hanno l'autorizzazione". Qualcuno dei suoi collaboratori dovrebbe spiegargli che è la stessa scusa che usava negli anni cinquanta il ministro democristiano Mario "Manganello-facile" Scelba, per sgomberare le case del popolo. Lo stesso Cofferati beneficia di una pagina intera del secondo quotidiano nazionale per affermare genericamente che "c'è un clima di consenso" attorno al terrorismo ri-nascente, e il vice-direttore di quel quotidiano non ha il buonsenso di chiedere "Mi scusi, signor sindaco, può spiegarci a chi si riferisce, precisamente?". Così, il delirio di onnipotenza di un manipolo di rivoluzionari da operetta diventa la scusa per lanciare anatemi generici e ingiustificati a chi disturba il manovratore alla luce del sole. Il sindaco di Padova, Flavio Zanonato, dopo aver costruito un muro e dei check-point attorno a un isolato "a rischio", ha deciso che il problema principale della città che amministra sono le prostitute. Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, ha affermato a chiare lettere che è ora di "ammettere che chi si droga compie un reato", gettando nel panico parte del parlamento italiano e magari le migliaia di coltivatori di cannabis, di sicuro non impensierendo la mafia e i narcotrafficanti.
Il governo asseconda questa paura, questo clima immotivato e alimentato ad arte dai mass-media, come ha riconosciuto lo stesso capo della polizia Gianni De Gennaro nella voluminosa relazione sulla sicurezza che ha consegnato al parlamento qualche mese fa. Il ministro dell'interno Giuliano Amato decide di conferire poteri straordinari ai prefetti, crea "forze d'intervento speciale" per controllare le strade delle nostre città, come se fossero davvero in balia di mostri urbani assetati di sangue, ambulanti che spacciano portafogli di cartone o ragazzini dalla bomboletta facile. Sono i Patti per la sicurezza, di cui ci occupiamo nel numero di Carta in edicola da sabato 26 maggio.
Viene voglia di dire, per una volta dando ragione a De Gennaro, che non c'è nessuna "emergenza". I reati sono stabili e la stragrande maggioranza dei migranti presenti sul sacro suolo italico lavorano in silenzio, contribuendo al Pil, e vivono la loro vita normalmente, nonostante le paghe da fame e i soldi da mandare a casa. Giornali e televisioni stanno giocando col fuoco. Lo fanno per pigrizia mentale, assuefazione allo scalpore e sottomissione alle esigenze della politica in crisi di legittimità, che in questi casi sembra il pugile suonato che mena fendenti a casaccio per mostrare di avere ancora il polso della situazione. Grande è la confusione sotto il cielo, insomma. E questa volta, al contrario di quanto afferma la vecchia massima rivoluzionaria, la situazione non pare eccellente.
MONZA - Ha fondato dal nulla il maggior partito italiano, ha fatto per due volte il presidente del Consiglio, possiede nell’anima e nei beni un gran pezzo d’Italia, è uno degli uomini più ricchi dell’orbe terracqueo, invoca ad ogni pie’ sospinto la cacciata di Romano Prodi da Palazzo Chigi, magari per tornarci lui. Ma il vero piccolo-grande sogno nel cassetto di Silvio Berlusconi è custodito a Monza nel capoluogo della nuova Provincia della Brianza. E’ qui, tra il Lambro e il Lambretto, che, nella sua perfezione, si dovrà chiudere la triade che farà impallidire il ricordo stesso del re dei Longobardi Autari e della di lui sposa Teodolinda.
In principio, fu Milano 2 in quel di Segrate, il quartiere a immagine e somiglianza di un pezzo d’Olanda che il giovane Berlusconi, allora ciuffo nero sulla fronte e giacche doppiopetto marrone, vendeva sulla carta alle amiche di mamma Rosa («Qui c’è la loggia, qui il garage») e alla media borghesia spaventata delle prime facce da «negher» che circolavano in città; poi venne Milano 3 per la borghesia appena un po’ più piccola, rassicurata dai vigilantes armati, dal laghetto coi cigni, dagli attici ceduti in comodato ai primi presentatori del Biscione e alle nonne delle odierne veline.
Sono passati un po’ di anni, proficuamente impegnati nella televisione e nel governo del paese, e adesso finalmente si spalancano destini luminosi per Milano 4, il gioiello prossimo venturo della Provincia di Monza e della Brianza. Se solo domenica prossima i monzesi chiamati ad eleggere il nuovo sindaco ricacceranno indietro i «rossi» che per cinque anni - la prima volta dai tempi di Teodolinda, salvo uno sbaglio di sette mesi negli anni Settanta - hanno «inquinato» la città con il sindaco Michele Faglia, per mettere al suo posto il leghista della prima ora Marco Maria Mariani, padano assai ben disposto ad oscurare le glorie longobarde in favore di quelle berlusconiane.
La perla di Milano 4, che non facendo giustizia alla raffinatezza dei progetti berlusconiani è denominata «Cascinazza», è a bagnomaria da un sacco di tempo, ma negli ultimi due anni Paolo Berlusconi, fratello del leader e titolare delle imprese ansiose di intraprendere la grande opera di cementificazione, ha fatto un lavoro sopraffino con il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni e con il suo assessore leghista Davide Boni, tanto che una legge, la «12-2005», articolo 25, comma 2, ha preso il nome di «berluschina» o di «monzina», stabilendo che solo due comuni nel mondo, Monza e Campione d’Italia, oltreconfine, non possono procedere con varianti al piano regolatore.
Una legge ad Berlusconem? Sappiamo che il tema delle leggi ad personam purtroppo annoia gli italiani, soprattutto tutti quelli che le leggi ad hoc vorrebbero farsele, ma la vicenda è talmente grottesca da sembrare un soggetto dell’assurdo di Feydeau: porte che si aprono, porte che si chiudono, porte che sbattono. Perciò cercheremo di raccontarvela in pillole.
Atto primo: Berlusconi (Silvio) compra un’area alla periferia est della città di Monza, 723.467 metri quadri, grande quasi come il parco reale. Sulla proprietà, detta «Cascinazza», che arriva fino a Brugherio e che era della famiglia Ramazzotti, quella dell’amaro, vuole costruire, sulla base di una convenzione del 1962, epoca democristiana ben precedente a «Mani Pulite», quasi 400 mila metri cubi, circa 60 palazzi per contenere una popolazione di alcune decine di migliaia di persone, un’altra Milano 2 o Milano 3, realizzazioni per le quali in epoca craxiana Berlusconi riuscì persino a far modificare le rotte degli aerei diretti all’aeroporto di Linate.
Tra alterne vicende, negli ultimi anni Novanta, con le amministrazioni di destra, il progetto «Cascinazza» viene salvato più volte con doppi salti mortali, nonostante il piano regolatore firmato Leonardo Benevolo. Atto secondo: il sindaco «rosso» Faglia e il suo assessore all’Urbanistica, l’architetto Alfredo Viganò, incidenti della storia in una città moderata e di destra come Monza, varano il nuovo piano regolatore generale, che prevede l’inserimento della «Cascinazza» nel Parco del Medio Lambro. «Cascinazza» così è blindata, non si costruisce più. Atto terzo: Paolo Berlusconi fa una pioggia di ricorsi legali, perde, ma Formigoni gli dà una mano con la «berluschina», altrimenti detta la «monzina», che blocca le varianti. Faglia e Viganò sono messi all’angolo.
Ma la storia non finisce qui, dal momento che il Lambro, con il suo socio Lambretto, sono un po’ birichini, secondo l’aggettivo che l’ex premier usa per se stesso, spesso esondano e la «Cascinazza» finisce sott’acqua. Tanto che il Pai, Piano di assetto idrogeologico, delimita l’area della «Cascinazza» come zona di assoluta inedificabilità. Che volete che sia. Il problema si può risolvere, basta fare un Canale scolmatore, un by-pass dalla settecentesca Villa Mirabello, più o meno delle dimensioni del Canale Villoresi, che attraversi la città di Monza, con ponti, ponticelli, svincoli e sovrappassi. E passa la paura.
Berlusconi (Silvio) nel 2004 siede a Palazzo Chigi e quando si prendono decisioni che riguardano gli interessi suoi e della sua famiglia, correttamente va a chiudersi nel salottino vicino a prendere il tè con Gianni Letta. Dev’essere stato allora, durante il tè, che il governo, a sua insaputa, ha favorito la progettazione del mega-canale scolmatore, anzi forse neanche glielo ha detto Berlusconi (Paolo), suo fratello. Costo iniziale dell’opera, già moltiplicato causa «aggiornamento costi», 168.294.491 euro, 300 miliardi di ex lire, o giù di lì.
Alfredo Viganò, architetto, assessore uscente della giunta di centrosinistra, mentre c’è lì a piazza Roma Walter Veltroni a spendersi per il sindaco Faglia, sostenendo che le città hanno un’anima, come diceva l’antico sindaco democristiano di Firenze Giorgio La Pira, ghigna amaro: «Pensavo che il Ponte di Messina fosse in Sicilia, ora so invece che comincia qui da noi in Brianza. E’ un lungo, infinito ponte che arriva da qui a unire Scilla e Cariddi. Con i soldi del canale scolmatore si restaurerebbe la Villa Reale e si farebbe la metropolitana. Perché hanno pagato l’assurdo studio di fattibilità? Ovviamente per ridurre la fascia di inedificabilità lungo il fiume e permettere di costruire alla "Cascinazza". Per gli interessi di chi? Faccia lei». Quali flussi, oltre a quello dell’acqua del Lambro, sono corsi? Viganò non lo dice, il sindaco Faglia meno che meno. Ma al comitato elettorale dello sfidante leghista chi comanda? Il boss è Fabio Saldini, responsabile delle politiche urbanistiche di Forza Italia e soprattutto coautore del piano di lottizzazione della «Cascinazza», per conto di Berlusconi (Paolo).
Berlusconi (Silvio) è venuto qui a piazza Trento e Trieste un sacco di volte prima del malore dell’Aquila. Il fratello (Paolo) deve avergli detto che, tutto sommato, è meglio che non venga, meglio Gianfranco Fini con le sue banalità sulla sicurezza da garantire contro immigrati e puttane, perché una delle ultime volte che era qui l’ex premier si è alienato in un colpo tutti gli elettori gay, con una delle solite battute: «A me Marco Mariani piace anche perché ha come secondo nome Maria, il che dimostra che ha un intuito femminile, simile a quello delle signore. Ma i gay sono tutti dall’altra parte». «Magari», gli ha risposto Franco Grillini. Mentre quella signora monzese che si è presentata sfidando le body-guard come «Maria» e che ha avuto come risposta «Vergine?» ha deciso che, facendosi violenza, voterà il candidato «rosso».
Marco Maria Mariani, medico, è un leghista atipico, che Umberto Bossi nel 2003 ha sospeso dal partito per otto mesi, come fosse uno scolaretto. Da giovane insegnava catechismo in parrocchia e ha fatto già il sindaco di Monza per un breve periodo tra il 1995 e il 1997, quando la Lega considerava Berlusconi (Silvio) un «bandito» e la speculazione di «Cascinazza» una vergogna. Ma il bello è come Mariani arrivò alla poltrona. Un capitolo gustoso della commedia monzese e di tutta la nuova, grande provincia brianzola, che comincia a insediarsi con i suoi palazzi, i suoi impiegati, i suoi poteri, che già costano una sessantina di milioni di euro. In breve, è sindaco Aldo Moltifiori, un leghista che si dichiarava ex vice di Achille Occhetto alla Federazione Giovanile Comunista. Moltifiori aveva il vizietto del vigile, cioè si metteva sotto il palazzo comunale con la sua auto rossa e multava personalmente tutti quelli che posteggiavano in divieto.
Un giorno è lì a fare la sua ronda, quando si ferma una macchina che parcheggia in divieto e lui scatta a multare i reprobi. Ma sono due carabinieri in borghese e in servizio, che lo denunciano per abuso d’ufficio. Condanna a 40 giorni, convertiti in tre milioni di multa e decadenza dalla carica. Destituito dal prefetto. Così arriva nella poltrona di sindaco Marco Maria, leghista tutto «cassoeula», quello che ora sfida l’architetto di buona famiglia e di centrosinistra.
Berlusconi, Fini, Bossi, quando arrivano qui all’ombra dell’Arengario parlano soprattutto della sicurezza, ma mai un accenno alla «Cascinazza», la perla della provincia di Monza e della Brianza, di cui, per la verità, nessuno conosce bene gli originari confini. L’Adda e il Seveso a Est e a Ovest e l’intero triangolo Lariano? Boh. Allarga oggi, allarga domani, nessuno sa più bene cos’è questa brianzolità. Ma tanti deputatini, tanti uffici, tanti soldi, tanto potere, piacciono a tutti. Fatta la grande provincia, domenica si decide se la famiglia Berlusconi (Silvio e Paolo) brinderà a champagne con Bossi per Milano 4, o se per la «Cascinazza» dovrà ingurgitare l’amaro Ramazzotti servito dal sindaco di centrosinistra Michele Faglia.
Sull'affare Cascinazza si veda e altri documenti nella cartella Padania
«La strada Fiorentina-Ghiaccioni non serve assolutamente alla viabilità ma apre il pascolo alle edificazioni sulle colline». Il severo giudizio non viene da un signore qualunque ma dall’architetto Vezio De Lucia, quello stesso urbanista di fama internazionale che ha firmato il piano strutturale dei tre comuni della Val di Cornia. De Lucia fu scelto sulla base del suo indiscutibile prestigio professionale. Autore di un centinaio di saggi sull’urbanistica, insegna alle Università di Roma e Palermo. Ha firmato diversi piani urbanistici di alcune delle più importanti città italiane, tra cui quello del comprensorio di Venezia. Ma soprattutto ha vissuto, come assessore all’urbanistica di Napoli, il processo di riconversione di Bagnoli dopo le dismissioni dello stabilimento siderurgico.
A Piombino ha fatto un lavoro che nel luglio dell’anno scorso, al momento dell’adozione del piano, non solo raccolse l’apprezzamento della maggioranza, ma anche quello di Rifondazione e Verdi. Tuttavia il rapporto tra il progettista e i tre Comuni (Piombino, Campiglia e San Vincenzo) s’interruppe bruscamente subito il primo voto in consiglio comunale.
Perché, chiediamo all’architetto De Lucia, questa improvvisa separazione?
«Formalmente scadeva l’incarico con l’adozione, non c’è stata nessun’interruzione forzata. L’eventuale proseguimento del lavoro poteva avvenire con un nuovo incarico, anche per procedere al riallineamento dei piani di San Vincenzo e Sassetta con quello degli altri Comuni. Questa seconda fase non c’è stata. È chiaro che nella sostanza affioravano però problemi. Il clima non era di intesa assoluta come in queste circostanze è indispensabile. Alla fine era stato un po’ complicato intendersi sulle scelte».
Durante il suo lavoro ha ricevuto pressioni?
«Nella fase iniziale tutto sembrava andar bene, con un’intesa che definirei totale. Naturalmente il piano adottato lo condivido fino in fondo. Però nell’ultima fase c’erano state discussioni che rendevano problematico, per quanto mi riguarda, continuare. L’urbanistica non si può fare in un clima di conflittualità, ci deve essere piena intesa tra chi opera e i politici. C’è sembrato opportuno, di comune accordo, sospendere il rapporto».
E quali sono stati gli elementi di maggior contrasto?
«Uno riguardava sicuramente la portualità, sia turistica che commerciale. Soprattutto l’eventuale utilizzazione dell’area palustre a Sud della fabbrica per l’espansione del porto commerciale, in una zona di circa 70 ettari rimasta miracolosamente intatta e sopravvissuta alle bonifiche. Mi sembrava una previsione eccessiva, anche rispetto alle reali esigenze di espansione del porto. Poi la portualità turistica, che per fortuna mi pare sia stata ridimesionata, ma che in quel momento era eccessiva».
E sulla Fiorentina-Ghiaccioni come è andata la discussione?
«Io ero assolutamente contrario. La strada non serve assolutamente ai fini della viabilità. Il compromesso trovato era quello di prenderla in esame dopo aver realizzato, non semplicemente progettato, i due tracciati della 398, quello che attraversa la fabbrica e quello più urbano per congiungere il Gagno col centro urbano. Solo allora, se ci fossero stati ancora problemi sul traffico si sarebbe preso in considerazione la Fiorentina-Ghiaccioni».
Sa che è stata accolta un’osservazione di partiti della maggioranza che elimina questa subordinazione della Fiorentina-Ghiaccioni alla 398?
«Lo ho appreso dalla stampa, perché quelle osservazioni e le controdeduzione non le conosco, nessuno me le ha mai fatte vedere».
Ma è normale che l’urbanista che ha progettato il piano non segua le osservazioni e cessi il suo lavoro tra l’adozione e la sua approvazione definitiva?
«Certo in linea generale è un’eccezione. Se avessero chiesto il mio parere sulle osservazioni lo avrei dato senza la pretesa di ricevere per questo un incarico».
Torniamo alla Fiorentina-Ghiaccioni. Se la strada non serve alla viabilità, a che serve allora?
«Secondo me apre i pascoli all’edificazione e a questo punto tutto può succedere. Insieme all’eliminazione del confine urbano, si stanno ponendo le premesse per scelte che contraddicono decenni di rigore urbanistico, soprattutto sul territorio collinare, che caratterizza la tradizione del territorio di Piombino e della Val di Cornia. In questo quadro credo sia legittimo preoccuparsi. E anche parecchio. Del resto la stessa Regione Toscana ha assunto normative per la tutela delle colline. Se si scardina questo, crolla uno dei punti fondamentali del sistema. Lei ricorderà la storia urbanistica di territorio. Tutto iniziò negli anni Settanta, quando il ministero dei Lavori pubblici e poi il Comune respinsero il tentativo di edificare un milione e mezzo di metri cubi sul promontorio. Quella divenne una specie di linea del Piave».
Sì però una strada non significa esattamente che ci si debba costruire intorno. Attraverserà una zona naturale protetta (Ampil) e ci sono molti vincoli da superare.
«Guardi, tutto si può mettere in discussione. Posso dirle che abbiamo un’esperienza in materia, c’è sempre una ragione in queste cose. Se ci fosse una reale esigenza di accessibilità alla città, potremo anche essere d’accordo, ma siccome non c’è...».
Ma c’è chi si domanda dove mettere la previsione di 1.200 nuovi alloggi previsti dal piano strutturale e che sostiene che, in fondo, meglio costruirli in una zona panoramica che vicino ai fumi della fabbrica.
«Ripeto, non conosco in modo preciso le osservazioni, ma se le cose stanno così mi sembra che tutto diventi più trasparente. Beninteso, tutto è assolutamente legittimo. L’indirizzo assunto nel piano strutturale nella fase di adozione era quello di non edificare sulle colline. Poi certo si può cambiare idea. L’hanno cambiata, benissimo, basta dirlo. Le previsioni di nuove costruzioni, non poche per la verità a Piombino, sono fatte per un lungo periodo. Una soglia da usare, come prevede la stessa Regione sulla base di almeno tre regolamenti urbanistici. Spero che non si realizzino in blocco le previsioni in attuazione del primo regolamento urbanistico, altrimenti si va verso un’accelerazione del suolo che sarebbe difficile da sostenere».
Messina Gli elementi per la più classica delle tangentopoli siciliane ci sono tutti: un collaboratore di giustizia, la speculazione edilizia sulle colline e un apparato politico-amministrativo compiacente. Così Messina ha «riscoperto» l'illegalità con l'inchiesta Oro Grigio condotta dagli agenti della Mobile dei pubblici ministeri Giuseppe Farinella e Angelo Cavallo: 9 su 14 indagati, le persone finite in carcere per le tangenti intascate e offerte per ottenere la variante urbanistica che ha portato alla realizzazione del complesso abitativo «Green Park» sul torrente Trapani di Messina.
In carcere nomi di spicco della politica e non. Umberto Bonanno, già ex presidente del consiglio comunale nato «politicamente» con il garofano e fedelissimo dell'ex viceministro nel governo Berlusconi, Nanni Ricevuto, entrambi oggi in Forza Italia. Giuseppe Fortino, l'avvocato che avrebbe avuto il «compito di individuare le operazioni immobiliari di rilevante valore da compiersi nella città», mediando con politici e funzionari pubblici incaricati a vario titolo di «condizionare» gli iter amministrativi. Antonino Ponzio, funzionario addetto alle politiche del territorio del comune di Messina, Antonio Gierotto, funzionario amministrativo della facoltà di scienze della formazione all'Università di Messina. Questi sarebbero stati al vertice del «gruppo di potere» che organizzava consulenze tecniche e legali, compravendite di immobili, individuava i gruppi imprenditoriali che avrebbero dovuto realizzare le lottizzazioni immobiliari. Nell'operazione Oro Grigio, inoltre, sono finiti in manette anche gli imprenditori Giovanni e Salvatore Arlotta, rappresentanti della Ar.Ge.Mo srl, società che sta curando insieme alla Samm Costruzioni srl la realizzazione del complesso abitativo «Green Park». Di quest'ultima società fanno parte gli altri tre arrestati, a cui sono stati concessi i domiciliari, Santi e Giovanni Magazzù e Antonino Smedile.
Il gip Mariangela Nastasi non ha concesso la custodia cautelare per tre funzionari regionali dell'assessorato al Territorio e Ambiente (Rosa Anna Liggio, Giuseppe Giacalone - già presidente del comitato regionale per l'Urbanistica all'epoca dell'esame del Prg di Messina - e Cesare Antonino Capitti). I tre sarebbero stati l'altro terminale nella pubblica amministrazione regionale incaricati di accelerare i tempi di approvazione dei progetti autorizzativi. Tra gli indagati ci sono anche altri due funzionari comunali di Messina, Manlio Minutoli, direttore del dipartimento politiche del territorio del Municipio, che ha ammesso di aver ricevuto pressioni sia da Bonanno che da Fortino, e Raffaele Cucinotta, direttore della sezione Prg di Palazzo Zanca. A svelare i retroscena dell'«affaire Green Park», che prevedeva una tangente complessiva di un milione e 550 mila euro da spartire tra i vari protagonisti e la cessione di vari appartamenti in fase di costruzione, con la sottoscrizione dei relativi contratti preliminari, è stato Antonino Giuliano, il «pentito alfa», un imprenditore edile vittima degli usurai che dal dicembre del 2004 collabora con la giustizia ed ha contribuito significativamente all'inchiesta madre della Procura della Repubblica sul piano regolatore generale della città. L'indagine madre da cui discende lo stralcio dell'operazione Oro grigio, che già nello scorso mese di settembre aveva prodotto una lista di indagati che contava almeno una settantina di personalità anche illustri. Fra cui lo stesso sindaco di Messina, esponente della Margherita Francantonio Genovese, scivolato nell'inchiesta per un presunto interessamento nella ricerca di voti in una tornata elettorale in cui non figurava neppure come candidato. O lo stesso governatore della Regione, Totò Cuffaro di cui il «pentito alfa» avrebbe parlato in quanto «interessato» insieme all'imprenditore della sanità Michele Aiello negli affari per la realizzazione di cliniche mediche nella zona nord della città. Aspetti dell'inchiesta che, come ha assicurato il procuratore capo di Messina Luigi Croce, non solo non hanno nulla a che fare con l'operazione Oro grigio ma che in alcuni casi (come per Cuffaro) sarebbero anche in una fase conclusiva senza rilievi penali.
Il falso mito della disciplina urbanistica
di Carlo Lottieri
C’è qualcosa di sorprendente nell'ultimo saggio di Stefano Moroni, La città del liberalismo attivo, visto che si tratta di un volume sull'urbanistica che sposa una prospettiva liberale. Un dato caratteristico del nostro tempo, infatti, è il permanere in ambito urbanistico del mito del «piano», miseramente fallito in economia e anche nelle altre scienze sociali. Mentre oggi farebbe sorridere proporre piani di produzione quinquennali come quelli della Russia di Lenin o di Stalin, in larga parte dell'Occidente continuiamo a subire piani territoriali o paesaggistici comunque destinati a definire la gestione dei suoli: come se nulla fosse successo nell'ultimo secolo e come se il crollo delle società costruite dall'alto non avesse avuto luogo.
La forza della ricerca di Moroni muove dal suo voler essere un urbanista consapevole della complessità delle interazioni sociali. E non a caso nella sua riflessione egli riserva tanta attenzione a un economista come Friedrich von Hayek e a un filosofo del diritto come Bruno Leoni: entrambi assai netti nel rilevare che la vita produttiva e le relazioni sociali hanno certo bisogno di regole, ma che esse non devono essere il prodotto di una decisione calata dall'alto. Perché questo è l'argomento cruciale di chi, da liberale, si sforza di persuadere il proprio interlocutore della necessità di abbandonare le pretese totalitarie di quanti vogliono «governare la città» dimenticando che essa è veramente tale - lo spazio delle libertà e degli scambi - solo se non è governata da un sovrano o da un tecnocrate. Moroni non propone di abolire i piani regolatori, importando dagli Usa la cultura di quelle città americane (Houston è la più nota, ma ve ne sono molte altre) che non hanno mai accettato la logica della «zonizzazione». Eppure egli riformula la pianificazione delimitandone rigidamente i confini e, in sostanza, affermando che essa può servire «solo per realizzare qualcosa di particolare (servizi o infrastrutture) in un ambito o settore circoscritto, creando obblighi per l'amministrazione stessa piuttosto che per i cittadini». Essa dovrebbe quindi rinunciare alla pretesa di operare come una gabbia «nei confronti delle attività private, focalizzando la propria attenzione soprattutto sulla disciplina delle azioni pubbliche».
Tale riflessione nasce dalla frequentazione degli autori della cosiddetta «scuola austriaca» (da Menger a von Mises, a von Hayek) e dalla convinzione che la rappresentazione del mercato che ancora oggi prevale - quella neoclassica, basata sulla nozione di concorrenza «pura e perfetta» - sia assai deficitaria, soprattutto perché ignora il carattere dinamico (mai prevedibile e per nulla meccanicistico) delle relazioni che hanno luogo nei processi di adattamento spontaneo e interazione volontaria.
In un noto saggio degli anni '40, von Hayek rilevò che la dispersione delle conoscenze, a partire da quelle più «fattuali», è tale da rendere assai spericolato il progetto di una gestione centralizzata della vita economica. È interessante rilevare che oggi Moroni ci dice che esattamente la stessa cosa vale di fronte alle questioni urbanistiche.
Stefano Moroni, La città del liberalismo attivo (CittàStudiEdizioni, pagg. 208, euro 16).
«Liberiamo la città dai piani regolatori»
di Domizia Carafoli
Quello della pianificazione urbana è uno dei dogmi ereditati dal '900. Intaccabile. La metropoli moderna va pianificata, dall'alto, in una concezione che vede predominante la funzione pubblica, preposta a incanalare tutte le forze attive e le componenti economiche della società verso una meta predefinita e astratta che configura la «città ideale». Il risultato è sotto gli occhi: le metropoli pianificate, lungi dall'essere ideali sono in realtà organismi ipertrofici e disomogenei, comprendono sacche di povertà ed emarginazione, sono farraginose e faticose. Oltre che brutte. Ma la maggior parte degli urbanisti insiste-, o la pianificazione o il caos.
E se provassimo a scegliere il caos? Stefano Moroni, urbanista e docente al Politecnico di Milano e all'Università di Pavia, butta lì la sua provocazione in un libretto smilzo ma esplosivo nel contenuto, La città del liberalismo attivo: «Attenti a pianificare - dice l'insegnante di Etica e Territorio - siamo già in difficoltà a pianificare le nostre vite, figuriamoci se riusciamo a pianificare una città...».
Ma viviamo già nel disordine edilizio, con i risultati che tutti conosciamo. Se aboliamo anche le regole...
«Non ho detto di abolire le regole. Mi esprimo contro un sistema di norme per guidare i comportamenti e le attività dei cittadini in una direzione predeterminata. I piani regolatori tradizionali nascono immaginando uno stato finale sulla base di previsioni: aumento o diminuzione del numero di abitanti, sviluppo di determinate attività economi-che e così via. Ma poi la realtà urbana evolve in tutt'altro modo. Ecco perché i piani regolatori nascono vecchi e necessitano di continue varianti, generando confusione e incertezza. L'Italia è piena di piani regolatori e di relative varianti, in una ressa di norme illeggibili dai cittadini, ma leggibilissime dagli "specialisti", vedi gli speculatori. Aggiungo che i molti tentativi recenti di rendere la pianificazione più flessibile non migliorano affatto la situazione, anzi aumentano la discrezionalità del potere pubblico e gli spazi speculativi. Non si tratta di innovare il piano, ma di metterlo definitivamente in discussione».
La sua città, secondo il titolo del libro, è quella «del liberalismo attivo». Che cosa significa?
«È un'evoluzione del liberalismo classico che, come noto, pone l'individuo al centro come un fine in sé, senza attribuire alcun valore intrinseco a gruppi, collettivi, comunità. In questa prospettiva solo gli individui contano e ogni individuo conta. Fra gli elementi costitutivi del liberalismo attivo, uno, fondamentale, è la ripresa della più netta distinzione tra la sfera del giusto e la sfera del bene. Diciamo che la sfera del giusto riguarda le regole di base universali, imposte dalle istituzioni, dallo Stato; la sfera del bene riguarda invece le insindacabili concezioni individuali relative a cosa sia una vita buona o desiderabile. Ciò che devono fare le istituzioni è garantire, attraverso le regole di base, le più ampie libertà individuali, perché ciascuno possa scegliere o. perseguire la concezione della vita buona che preferisce senza ledere pari diritti altrui. Il pluralismo delle concezioni del bene è provvidenziale per la società e la città».
Però le regole ci vogliono... «Certo, e chiare. Una delle basi del liberalismo attivo è l'ideale della rule of law che potremmo tradurre con l'espressione "supremazia del diritto" e che implica l'imparzialità più rigorosa delle norme nei confronti dei destina-tari e la certezza complessiva del sistema giuridico. Questo vale anche per la città. Poche regole, le più astratte e generali possibile, che stabiliscano soprattutto che cosa non si deve fare, affinchè non siano lesi i diritti di alcuno. Il resto sia lasciato alla libera iniziativa dei cittadini e alla benefica, provvidenziale azione del mercato. Non il mercato falsato che conosciamo, ma realmente concorrenziale».
Sì, ma vorrei tornare alla speculazione edilizia. Se non interviene la mano pubblica a stabilire dove e come costruire, dove non farlo, forse non avremmo nemmeno un giardinetto. A questo servono i piani regolatori.
«Le periferie più brutte sono figlie dei più bei piani regolatori. Non è detto che i piani d'uso del suolo, tradizionali o rinnovati, siano l'unica forma di regolazione dello sviluppo di una città. Non è detto che una maggiore libertà e concorrenza non potrebbe migliorare la città, una volta stabilite le già menzionate e inderogabili regole di base. Sa perché da noi leggi e regole non sono rispettate? Perché sono troppe, poco chiare e cambiano in continuazione. Il rispetto per il diritto è diminuito per il modo in cui i soggetti pubblici se ne sono serviti, ossia come strumento sempre modificabile al servizio della maggioranza del momento».
Una proposta concreta? «Un'ipotesi che potrebbe meritare attenzione è quella dell'indice unico di edificabilità».
Sarebbe?
«I piani regolatori tradizionalmente differenziano gli indici da area ad area e indicano appunto dove e come costruire o non costruire, e quanto. Ne consegue, tra l'altro, che molti cercano di influire sulle istituzioni pubbliche per ottenere un indice più alto; premono perché i loro terreni ottengano un trattamento privilegiato, si avvalgono della politica. Se invece si attribuisce un indice unico a tutti e si consente di scambiare liberamente le quote edificatorie - ossia di acquistare e vendere tali quote sul mercato - verrebbe a cadere uno dei motivi di corruzione, da cui nasce la speculazione edilizia. Inoltre l'edificazione si sposterebbe - stanti le regole di base da rispettare - ove di volta in volta più richiesta. Ovviamente l'applicazione concreta dell'indice unico richiederebbe vari correttivi e adeguamenti, ma il punto importante è se si è pronti ad accogliere l'idea dell'uguale trattamento di tutti i cittadini e a rinunciare all'assurda convinzione che qualcuno sia in grado di stabilire a priori, dove, come e quanto si debba costruire».
Ma se il pubblico collabora col privato, non si potrebbe avere una città migliore?
«Ritengo la commistione tra pubblico e privato uno dei mali del nostro tempo. Le amministrazioni svolgano il loro compito che è quello di garantire ai cittadini uguali condizioni di base. E basta. Il pubblico, cioè, badi alle regole e il privato lavori, costruisca, guadagni, se e quando ne è capace, senza chiedere continuamente al pubblico interventi di sostegno. In quest'ottica, se certe iniziative private - ad esempio certe trasformazioni urbane - sono possibili solo con la compartecipazione del pubblico, allora significa che non sono affatto richieste, altrimenti si sosterrebbero da sole».
Resta il fatto che, a parte qualche città medio-piccola o città del nord Europa, i grandi agglomerati urbani appaiono tutti infelici, sia dal punto di vista estetico, sia da quello della vivibilità. La città è in crisi.
«La città resta comunque il luogo dove la maggior parte delle persone vuole vivere e forse riusciremmo a renderla migliore se smettessimo di considerarla un insieme di edifici, strade e attrezzature da coordinare diligentemente tramite un disegno unitario che solo il pubblico dovrebbe essere in grado di concepire e garantire. La città è invece, prima di tutto, un insieme variegato e dinamico di individui, ossia di aspirazioni, competenze, iniziative, diritti, proprietà. È una realtà socio-economica viva, in continuo e imprevedibile mutamento. Le possiamo imporre una cornice giuridica, non una forma urbanistica. Una città desiderabile è quella formata da un insieme di persone con le più diverse concezioni di vita buona e con le più diverse idee su come liberamente ottenerle. L'unica cosa su cui possiamo cercare la convergenza collettiva è un "codice urbano", un elenco di regole di base che definiscano un'idea di giusta convivenza e stabiliscano solo la disciplina dell'uso dei mezzi, senza pretendere di stabilire anche i fini. Regole a cui eventualmente aggiungere pochi strumenti di "pianificazione di servizio" che vincolino la stessa amministrazione nella realizzazione di ben definite infrastrutture. Detto in una battuta: se proprio l'amministrazione vuole pianificare, pianifichi le proprie attività, non quelle dei cittadini».
Il commissario Montalbano contro i texani. Il rude e intraprendente poliziotto, partorito dalla fantasia dello scrittore Andrea Camilleri, alla scoperta dell´oro nero e dei traffici più o meno leciti che si svolgono nella terra in cui sono ambientate le riprese televisive delle sue gesta, riproposte da un tour operator locale in un itinerario di cinque giorni. Dalla fantasia alla realtà, servirebbe proprio un paladino come lui per fermare la dissennata ricerca del petrolio che minaccia di sconvolgere la Sicilia sud-orientale, l´equilibrio naturale del suo territorio, la sua vocazione turistica e culturale.
Le trivelle, fortunatamente, ancora non si vedono. Ma per grazia ricevuta i capolavori del Barocco si possono vedere e ammirare in tutto il Val di Noto - al maschile, da vallo - più o meno come furono costruiti, o meglio ricostruiti, dopo il terremoto del 1693. Sono lì da tre secoli, incastonati come gioielli in un´area pari a un terzo di tutta l´isola, distribuiti dalle prodighe mani dell´arte e della storia in un arco di otto Comuni: da Catania a Noto, Ragusa, Caltagirone, Militello, Modica, Scicli e Palazzolo Acreide. Un tesoro unico al mondo, irripetibile e inestimabile, dichiarato dall'Unesco patrimonio mondiale dell´umanità.
Oggi i palazzi e i monumenti del tardo Barocco siciliano non tremano per i movimenti della terra, ma per la minaccia delle ricerche petrolifere sottoterra che la società americana "Panther Eureka" è stata autorizzata a effettuare dalla Regione. O per l´esattezza, dall´ex assessore all´Industria, Marina Noè, in aperto conflitto con i suoi interessi imprenditoriali nei cantieri navali di Augusta, il porto del Petrolchimico. E il pericolo incombe nonostante che successivamente la stessa Giunta regionale, presieduta dal discusso governatore Totò Cuffaro, abbia deciso il 20 maggio 2005 di sospendere il rilascio dei permessi, su proposta dell´ex assessore ai Beni culturali, Fabio Granata, esponente di quella "nuova destra" che cresce sotto le insegne di Alleanza nazionale. Impugnata davanti al Tar, la delibera è stata poi annullata per un paradosso giudiziario, perché non recava la firma dell´assessore che aveva rilasciato "motu proprio" i permessi.
Eppure, il documento della Giunta regionale non lascia dubbi di sorta. Si parla, testualmente, di «straordinaria rilevanza del patrimonio ambientale, paesaggistico e monumentale» e per contro di «alto rischio che i progetti di prospezione, ricerca e sfruttamento degli idrocarburi possano arrecare danni irreversibili». La delibera ricorda inoltre che l´Unesco, per concedere il suo riconoscimento, ha chiesto come condizione imprescindibile un «piano di gestione» che vincoli il territorio e il suo sviluppo a «un uso compatibile e sostenibile». E infine, viene sancito esplicitamente che tutto ciò non è compatibile con lo «sfruttamento di eventuali giacimenti di idrocarburi liquidi e gassosi».
Respinti con voto segreto da un inedito asse trasversale Forza Italia-Ds i due articoli con cui Granata tendeva in extremis a vietare le trivellazioni petrolifere, durante un rimpasto della Giunta lo scomodo ex assessore ai Beni culturali venne trasferito - "promoveatur ut amoveatur", come si dice in linguaggio curiale - al Turismo e qui reso praticamente inoffensivo. Poi, pur avendo raccolto circa novemila preferenze alle ultime regionali, una maligna compilazione delle liste lo ha privato a sorpresa della rielezione. E così, Gianfranco Fini gli ha affidato la responsabilità del settore culturale di Alleanza nazionale, chiamandolo a Roma, dove si divide con l´incarico di vice-sindaco di Siracusa, la città di Archimede e del Teatro Greco.
Il fatto è che questa "guerra di Noto", per dire la contrapposizione fra chi vuol difendere le antiche ricchezze del Barocco in superficie e chi vuole cercarne invece altre nel sottosuolo, scaturisce da un´infausta legge regionale approvata nel 2000, sotto la presidenza di Angelo Capodicasa, oggi viceministro delle Infrastrutture, deputato dell´Ulivo. Fu quel provvedimento a liberalizzare le trivellazioni gas - petrolifere in nome della «pubblica utilità», aprendo la strada all´assalto del territorio in spregio alla normativa ambientale, nazionale e comunitaria. Tant´è che a luglio il ministro dell´Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, ha dovuto inviare un altolà all´attuale presidente della Regione siciliana per ricordargli che, in base alla "Direttiva Habitat", è lo Stato a rispondere di eventuali violazioni. E il 12 marzo scorso il Wwf ha chiesto ufficialmente al ministro la revoca delle autorizzazioni, perché prive di Valutazione di impatto ambientale e Valutazione di incidenza.
Al colmo del paradosso, come ricorda sconfortato l´ex assessore regionale Granata, c´è il dato che - tra il 2001 e il 2006 - l´Unione europea ha investito 380 milioni di euro in quest´area, per promuoverne la valorizzazione turistica e culturale. Un mare di soldi che ora rischia di essere inquinato dal petrolio, ammesso poi che si trovi veramente. Nel frattempo, il danno economico e d´immagine sarebbe comunque gravissimo: le trivelle e i pozzi di petrolio respingerebbero un flusso turistico in ripresa, invertirebbero una tendenza in atto e condannerebbero definitivamente questa parte della Sicilia a un destino estraneo alla sua storia e alla sua tradizione.
Poi - avverte il presidente del circolo locale di Legambiente, Nuccio Tiberi - c´è anche il problema dell´assetto idrogeologico. «Le perforazioni del terreno minacciano di inquinare le falde freatiche. E senz´acqua, i contadini abbandonerebbero presto le campagne, aumenterebbero i rischi di incendio e il degrado sarebbe inevitabile». Per quanto apocalittica possa apparire, non è certamente una prospettiva da trascurare.
È per tutte queste ragioni che, sabato 17 marzo, duemila persone sono scese in piazza armate di striscioni, bandiere, palloncini e tamburi, nel tentativo di mobilitare l´opinione pubblica locale contro l´invasione dei texani. Si chiama "No-Triv", per assonanza con il fronte "No-Tav" della Val di Susa, si chiama il comitato popolare guidato dal battagliero Vincenzo Moscuzza. Ma forse, come ha auspicato durante la manifestazione il vescovo di Noto, monsignor Giuseppe Malandrino, sarebbe meglio ribattezzarlo "Pro-Svil", cioè a favore dello sviluppo. O meglio ancora, "Sì-Cult", a favore della cultura, dell´ambiente e del turismo.
«A volte - confida Corrado Valvo, sindaco di Noto per Alleanza nazionale - abbiamo la sensazione di fare i donchisciotte. Ma questa non è una battaglia politica, va al di là degli schieramenti. È nell´interesse di tutta la popolazione». E perciò ha concesso uno spazio per un banchetto del comitato "No-Triv" nell´ingresso del Municipio, lo storico palazzo Ducezio, proprio di fronte alla maestosa Cattedrale che sta per essere riaperta al pubblico dopo un lungo restauro.
Certo, l´opposizione popolare è importante e può avere i suoi effetti. Ma evidentemente non basta per fermare l´avanzata delle trivelle: anche perché qui si tratta di un caso che travalica l´ambito locale, un caso d´interesse nazionale o addirittura internazionale, se è vero che la Sicilia è la regione con la più alta concentrazione di siti inseriti nella World Heritage List dell´Unesco, il più grande giacimento culturale dell´intero pianeta.
«A questo punto - sollecita Granata - spetta alle Sovrintendenze di Siracusa e di Ragusa intervenire per porre un vincolo paesaggistico». Poi, la partita passerà nelle mani del nuovo assessore ai Beni culturali, Nicola Leanza, esponente del movimento autonomista. E se la Sicilia non riesce a rivendicare e a salvaguardare la propria autonomia su questo fronte, non si vede proprio su quale altro potrà più difenderla.
Sul fronte del paesaggio, di continuo aggredito da cemento & asfalto, ci sono notizie buone e meno buone. A Mantova, dove il sindaco ds Fiorenza Brioni, è riuscita con grande fermezza e capacità amministrativa a cancellare una sciagurata lottizzazione da 200 villette, più due torri condominiali, in riva ai laghi virgiliani, la direzione regionale lombarda dei Beni culturali è intervenuta efficacemente: il direttore regionale Carla Di Francesco, affiancata dal soprintendente di settore, Luca Rinaldi, ha infatti proposto un vincolo generale sui laghi a loro futura tutela. Provvedimento che salva uno dei paesaggi “storici” più strepitosi: la zona preservata infatti è in faccia al Castello di San Giorgio e rappresenta la porta di ingresso della splendida città dei Gonzaga da est, cioè da Ferrara. Un ingresso che, vi assicuro, vale da solo un viaggio.
C’è voluta tuttavia una grande determinazione da parte del sindaco Fiorenza Brioni, venuta apposta al convegno di Monticchiello del 28 ottobre scorso a denunciare le minacce che stava subendo e la necessità di fare di quell’alt a “villettopoli” sui laghi virgiliani una questione nazionale. Operazione nella quale ha messo passione, competenza e amore («La bellezza del paesaggio è un bene di cui devono poter godere, un diritto quotidiano di cittadinanza», ha esultato il sindaco anti-cemento alla notizia del vincolo). L’ingegneria idraulica che ha così conformato il paesaggio e l’ambiente mantovano risale al 1190 e si è conservata nei secoli, malgrado gli insediamenti industriali degli anni del “boom” e l’interramento del quarto lago. La misura ora studiata e proposta dalle Soprintendenze e dalla loro direzione regionale va nella giusta direzione, grazie ad un sindaco (raro ormai) che non considera il passato una ingombrante anticaglia, né cemento&asfalto «la modernità con cui convivere», inesorabilmente. Essa realizza in pieno - alla fine di «un processo di governo virtuoso» (sono ancora parole del sindaco) - il dettato dell’articolo 9 della Costituzione: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». La Repubblica, cioè Stato, Regioni, Province e Comuni, armonicamente cooperanti, e non i soli Comuni o le sole Regioni come vorrebbe qualche governatore e qualche suo assessore (neppure leghista peraltro). Con un preciso, ineludibile ruolo tecnico-scientifico, quindi, delle Soprintendenze, come ha riaffermato, di recente, il ministro Rutelli. Non possono essere i Comuni ad avere «l’ultima parola» in proposito di edilizia e paesaggio. Anche perché dal “boom” edilizio, tutto speculativo, essi traggono nell’immediato fondi più che cospicui. Non sono quindi per niente neutrali rispetto alla domanda inesausta dei costruttori, che sta divorando l’Italia e che ci è costata in mezzo secolo la cementificazione e l’asfaltatura di una dozzina di milioni di ettari di suoli liberi, una superficie enorme, grande come tutta l’Italia del Nord. Una follia che nessuno riesce ad arrestare e che vicino a Mantova ha, per esempio, ricoperto di cemento le colline del Garda, un tempo stupende. Cemento tutto legale, in teoria, tirato su nell’ambito dei piani regolatori (e loro varianti, naturalmente).
In questi giorni dunque Mantova splende di luce viva in un panorama nazionale per lo più grigio o buio. Ha ragione il suo preveggente sindaco a rivolgere un ringraziamento e una riconoscenza “senza confini” agli organismi della tutela dove si lavora in condizioni pressoché disperate: 13-14 tecnici appena nelle due Soprintendenze lombarde ai Beni architettonici per 30-35.000 progetti di trasformazione nelle sole zone già vincolate, vale a dire 2.500 pratiche a testa all’anno, e quindi una dozzina per ogni giornata lavorativa. Una lotta disperata contro lobby potenti e protette. Anche perché se il Pil, negli anni del berlusconismo, non ha avuto un segno negativo, lo si deve, nella sostanza, all’edilizia. La quale, ripeto, è quasi tutta di mercato e di speculazione, con le giovani coppie indotte, dalla mancanza di affitti abbordabili (e anche dai tassi di interesse ridotti), a svenarsi per comprare casa ed ora non più in grado di pagare le rate dei mutui. Con le grandi città dove è scoppiata - nonostante le mille e mille gru alzate - una vera e propria emergenza-alloggi. Si parla di oltre 800mila immigrati senza casa o con un tetto assolutamente precario, e poi ci si lamenta delle loro difficoltà ad integrarsi...
Una buona notizia è, in tanto dramma sociale, la crescente consapevolezza che stiamo saccheggiando definitivamente la risorsa primaria (di tutti, e anche del turismo più duraturo) del paesaggio a vantaggio di una minoranza di cementificatori e che, malgrado questo “boom” di cantieri, quella delle abitazioni sta ridiventando una questione nazionale. Una buona, anche se tardiva, notizia è pure il sequestro dei cantieri di Monticchiello (Pienza) da parte della magistratura per alcune difformità rispetto alle concessioni. La lottizzazione è lì, ischeletrita, più brutta che mai rispetto al delizioso borgo murato. Si poteva evitarla? Certamente sì, se Regione e Comune avessero pensato, alla maniera del sindaco di Mantova, che non c’è nulla che equivalga un “governo virtuoso” del paesaggio e del territorio. E se la Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici di Siena non avesse chiuso entrambi gli occhi - come ha fatto per l'orrendo e per lo più vuoto mega-parcheggio sotto le mura medioevali di Capalbio - davanti a quella scadente progettazione. Basta una lottizzazione così a sfregiare tutto un panorama o una intera valle. Come sta accadendo, per esempio, a Casole d’Elsa o a Magliano in Toscana.
Non so se sia una buona notizia, ma in Toscana i comitati locali che denunciano scempi già realizzati, in arrivo o soltanto minacciati sono ormai 75 e quasi tutti pongono problemi assai gravi. L’assessore regionale all’urbanistica Riccardo Conti - che lanciò un anno fa una sua campagna non proprio fortunata «per la buona urbanistica» - ha parlato di questi sconci come di altrettanti «episodi sgradevoli». Sgradevoli, forse, è un po’ poco. Episodi, anche meno, visto che si è superata la settantina di casi e spesso si tratta di lottizzazioni per centinaia di alloggi, seconde e terze case per lo più. O di massicci interventi - in atto da anni disgraziatamente - nel cuore delle piazze storiche, come quella che sorge sul foro etrusco e poi romano di Fiesole. Del resto, ha aggiunto, è il prezzo che si paga “alla modernità”. Ne siamo proprio consolati e confortati.
Anche a Milano associazioni e comitati si sono mobilitati per difendere dalla distruzione l’ultimo lembo dei Navigli dove l’amministrazione di centrodestra, ieri Albertini, oggi Moratti, progetta di creare, sotto la Darsena, un vastissimo parcheggio in modo da continuare a convogliare sul centro della città la massa del traffico automobilistico. Una scelta ancora una volta distruttiva, da ogni punto di vista. Milano - anche qui la direttrice regionale Carla Di Francesco ascolti, almeno lei, la voce dei comitati e degli intellettuali - non può perdere un altro pezzo essenziale dell’identità (poca) che le è rimasta.
Qui una cava. Lì un parcheggio. Lì una strada. E poi, appena fuori dei suoi confini, una lottizzazione. Sono molte le nubi addensate sui Parchi della Val di Cornia, un sistema di sei parchi gestiti da un’unica società nell’alta Maremma toscana, trecentosessanta chilometri quadrati di testimonianze archeologiche, musei, sopravvivenze minerarie e poi boschi e dune sabbiose che scorrono fra le colline e il mare, di fronte all’Elba. Ma a render le nubi più minacciose ecco che si avvicina l’uscita di scena del presidente dei parchi, Massimo Zucconi, architetto di Piombino, che guida la struttura da quando essa è nata, nel 1993. Negli ultimi anni Zucconi ha denunciato le scelte di alcuni Comuni, che pure furono gli artefici dei parchi e tuttora ne sono gli azionisti al novanta per cento.
La Val di Cornia ha sperimentato una formula unica in Italia: è gestita da una società mista, pubblico e privato, che dà lavoro a settanta persone alimentando un’industria turistica che accumula profitti e offre un’alternativa alla crisi della siderurgia abbattutasi negli anni Ottanta. Infine, altro dato unico, nel 2006 la società ha raggiunto il pareggio di bilancio, con un fatturato di 2 milioni di euro. Però, nonostante questo rosario di successi, Zucconi andrà via. Lo stabilisce una norma, approvata dai Comuni nel 2004, che limita a tre i mandati per i presidenti di questo tipo di aziende. Ma c’è chi vi scorge l’ombra della rimozione.
Zucconi critica una caduta d’attenzione sui temi della tutela. O, meglio, il tentativo di far convivere la tutela con interessi tanto pressanti quanto poco compatibili con un parco. Il Comune di Piombino, per esempio, vuole ampliare il parcheggio per la spiaggia della Sterpaia. Ma il parcheggio ampliato, spiega l’architetto, significa tanti più bagnanti e tanti più bagnanti mettono in pericolo il sistema dunale e la sua vegetazione. Sono stati investiti finora 25 milioni di euro, ma i Comuni con una mano spendono tantissimo per il parco, con l’altra - succede a Campiglia marittima - consentono che prosegua e anzi si intensifichi l’attività di una cava che incombe sui luoghi protetti. Nel 2006 ci sono stati due incidenti gravi: è esplosa una mina che ha proiettato pietre in aree nelle quali passeggiavano i turisti. Poco dopo un camion che trasportava un carico di mille quintali è uscito di strada ed è precipitato dentro il parco, provocando la morte del guidatore. La cava dovrebbe chiudere nel 2018, ma intanto sono state chiuse alcune parti del parco per motivi di sicurezza. Il sindaco di Campiglia, Silvia Velo, deputata ds, assicura che «la cava è a termine e che fino ad allora parco e cava possono convivere». Per Zucconi, invece, «il fronte della cava da decenni si sta ampliando». In un primo tempo la cava serviva solo lo stabilimento siderurgico di Piombino. Da qualche anno, però, i materiali possono essere anche venduti all’esterno. Il presidente della società privata che gestisce la cava è l’ex sindaco diessino di Campiglia. Un altro progetto preoccupa Zucconi, quello di una strada che transiterebbe dietro il promontorio di Piombino in un’area boscata e protetta. Una strada in quella posizione scatena, teme Zucconi, la crescita dei valori fondiari e quindi appetiti edificatori.
«Per Zucconi non si tratta di rimozione», replica Silvia Velo, «abbiamo deciso che quel tipo di incarichi deve avere un limite: vale per lui, ma anche per altri». E aggiunge che Campiglia, Piombino e Suvereto hanno appena adottato un piano regolatore comune «che rafforza il sistema dei parchi». «Voglio tranquillizzare tutti», insiste Gianni Anselmi, primo cittadino di Piombino, «non sono arrivati dei barbari che vogliono chiudere la Società dei Parchi. Ma non possiamo accettare il messaggio che si vuol far passare, cioè che tutto il bene sia nella Parchi e tutto il male nei Comuni». Ma le preoccupazioni di Zucconi sono condivise da Legambiente, Wwf e Italia Nostra e da alcuni dei progettisti del parco, come il geologo Giuseppe Tanelli e Riccardo Francovich, l’archeologo morto due settimane fa precipitando in un burrone vicino a Fiesole. La sua morte ha suscitato una fortissima emozione. Francovich è stato il promotore del parco archeo-minerario di San Silvestro minacciato dalla cava. Nel 1984 portò alla luce un villaggio medievale, la Rocca di San Silvestro, abitato da minatori e fonditori. Le sue ricerche hanno poi individuato una rete di pozzi scavati fin dall’età etrusca e dai quali veniva estratto un prezioso minerale. La scoperta indusse il comune di Campiglia a prendere una decisione coraggiosa: venne annullata la concessione di numerose cave e fu acquisita un’area di 250 ettari da destinare a parco.
Arrivarono finanziamenti europei. Ma il punto di svolta fu un altro. Negli anni precedenti Piombino e San Vincenzo avevano scelto di tutelare i loro territori, cancellando previsioni edificatorie imponenti. A Piombino saltarono due milioni di metri cubi nel bosco della Sterpaia. E quando sorsero duemila villette abusive, il sindaco, Paolo Benesperi e Zucconi, allora dirigente comunale, le fecero demolire. A San Vincenzo vennero cassati edifici per trecentomila metri cubi lungo la costa, consentendo la nascita del Parco di Rimigliano, progettato da Italo Insolera e Luigi Gazzola. Nel frattempo Carlo Melograni realizzò un piano regolatore comune per Piombino, Campiglia, San Vincenzo e Suvereto.
Erano anni di violenta aggressione contro le coste italiane. Ma in questo lembo di Maremma si scelse la tutela di un patrimonio naturale come occasione alternativa alla siderurgia in crisi. Nel ‘93 nacque la Società Parchi Val di Cornia: molti albergatori, ristoratori, gestori di stabilimenti sono diventati azionisti del parco e sono sorte nuove attività (circa una trentina, con un fatturato di 4 milioni di euro). Nel 2006 ottantacinquemila persone hanno visitato i parchi, il museo archeologico, il sito di Populonia (che in questi giorni ha ingrandito il suo territorio: qui ha scavato a lungo Francovich).
Ma negli anni sono cresciute le tensioni fra Zucconi e i Comuni. Un altro fronte polemico si è aperto a Rimigliano, nella tenuta di settecento ettari di proprietà privata non gestita dalla Società Parchi, ma confinante con il suo territorio. Qui fino al 1998 era previsto un albergo di cinquantamila metri cubi. Poi il progetto fallì. Ma il Comune ritiene comunque sia nel diritto della proprietà di costruire qualcosa: al posto dell’hotel potrebbero sorgere residenze sparse. E questo nonostante un parere contrario della Soprintendenza. «Il guaio dell’Italia di oggi è che quando una previsione edificatoria è in un piano regolatore nessuno riesce più a eliminarla, anche se la si ritiene sbagliata», lamenta Zucconi. «Una previsione non è una concessione edilizia, quello sì che è un diritto acquisito. Appena qualche decennio fa in questa parte della Toscana sono state stralciate fior di lottizzazioni. Ma ormai anche qui l’interesse immobiliare è enorme, i valori sono cresciuti a dismisura. E le resistenze si sono affievolite».
Sui Parchi della Val di Cornia vedi questa nota e i file collegati. Sul desiderio dei comuni di "liberarsi" di Zucconi vedi questo appello. E sui “diritti acquisiti" leggi questo documento.
A UN CERTO punto mi assale l´angoscia dell´infortunio, e non mi mollerà più. Paura di finire schiacciato sotto un blocco di tavole di ferro, quelle imbracate da una corda consunta che dal cortile vedo piombare giù dal settimo piano del ponteggio, e se perdi l´attimo, o ti distrai, o se una di quelle lastre che devi afferrare prima che tocchino terra si ribella alla morsa del moschettone, rimani sotto. Il terrore di venire travolto da una betoniera. Stritolato da un cavo d´acciaio. Che le braccia cedano, o semplicemente di scivolare dall´impalcatura dove mi fanno arrampicare anche se sono nuovo del mestiere.
Anche se calzo dei banali scarponi da montagna. Niente a che vedere con quelli antinfortunio, obbligatori. Non indosso nemmeno il casco. Un caporale, un calabrese duro e silenzioso, mi dice di tenerlo a portata di mano: «Magari arriva qualche ispettore, ma stai tranquillo, non ti guarda nemmeno». Lascio riposare il guscio in cima a una pila di assi di legno. Dovrò caricarle su un camion, assieme a quintali di altro materiale.
Da buon manovale bado solo a lavorare, a guadagnarmi, in nero, i miei 3 o 4 euro l´ora. Per dieci ore fanno 30-40 euro. Pagamento dopo 50 giorni. La prima settimana di prova, spesso, è gratis. Inizi in cantiere alle sette dal mattino, finisci, sfatto, alle cinque, sei del pomeriggio. Un massacro. Niente documenti, sicurezza zero. Alla fine del mese devi pure pagare la mazzetta: 300 euro al caporale che ti ha dato lavoro. Per mantenere il posto. A Milano, in una settimana da operaio abusivo, caporali e capomastri conoscono a malapena il mio nome. In un caso solo perché me lo chiede un collega marocchino. Sulla trentina, magro, sdentato, quasi sempre alterato dall´alcol. Amil è uno dei pochi che in sette giorni si prenderà il disturbo di farmi coraggio. «Non è il massimo, ma è sempre meglio che rubare o spacciare», biascica in un italiano incerto mentre a bordo di un furgone raggiungiamo un cantiere alla periferia di Novara. Ne ho conosciuti tanti come Amil. Schiavi. Con loro ho condiviso e subìto il ricatto dei caporali. Gente spietata che nei cantieri della Lombardia spreme migliaia di braccia. In barba a ogni regola e a ogni diritto.
A Milano e provincia, dei 120 mila operai edili (il 42,3 per cento sono immigrati stranieri, nel 2000 erano solo il 7,1), 60 mila sono in nero: la metà. Tutti gestiti dai caporali. È manodopera fantasma, soprattutto straniera e clandestina. Ricattabile. Chi non è in regola col permesso di soggiorno, si deve accontentare. Fa cose da bestia, che gli italiani rifiutano. Sono albanesi, egiziani, marocchini, romeni, tunisini. E sudamericani. Italiani pochi: stanno quasi sempre in cima alla piramide. Impresari. O, appunto, mercanti di braccia. Ti reclutano all´alba e ti scaricano nei cantieri dove rischi la vita per pochi spiccioli, e se ti fai male ti lasciano lì in strada. Mai visto, mai conosciuto. Nemmeno al pronto soccorso puoi andare. Altrimenti metti nei guai chi ti ha assunto. E perdi il posto. «Tra il manovale e il caporale c´è un rapporto esclusivo. Tu devi parlare solo con lui, non fare domande sul dove e il come e per conto di quale impresa dovrai lavorare - spiega Marco Di Girolamo, della Fillea, il sindacato edile della Cgil - a fine mese gli devi dare la mazzetta, da 200 a 300 euro. La consegna del denaro avviene a cielo aperto. Oppure, in base all´accordo tra ditte e caporalato, il pizzo è trattenuto alla fonte: fai 250 ore, e te ne pagano solo 200».
Il mercato degli uomini inizia quando il sole sta ancora sotto la linea dell´orizzonte. Alle 5 del mattino siamo già tutti qui, in piazzale Lotto. Schiavi e padroni. Chi cerca lavoro nero, e chi lo offre. I primi sciamano sul prato, aspettano seduti sulle panchine, sotto le pensiline degli autobus. I volti stropicciati dal sonno, zainetti e sporte di plastica con dentro il rancio: pane egiziano, formaggi cremosi da spalmare, riso, kebab in scatola, bibite dolciastre, molto gassate, birra, bocconi di carne speziata. Gli scarponi induriti dalla calce, i camicioni larghi di lana, gli invisibili dell´edilizia attendono l´arrivo dei caporali. Piazzale Lotto è uno dei luoghi dove tutte le mattine all´alba si svolge la contrattazione per una giornata di lavoro in cantiere. Le altre filiali sono piazzale Corvetto, piazzale Maciacchini, piazzale Loreto, le fermate della metropolitana di Bisceglie, Famagosta, Inganni. La stazione Centrale, quella di Sesto Marelli. Per essere qui alle 5 centinaia di uomini scendono dal letto anche due ore prima. Sono giovani immigrati che l´inedia spinge a elemosinare un lavoro massacrante. Il contratto nazionale di categoria prevede 173 ore al mese, 8 ore al giorno per 5 giorni settimanali. I caporali te ne fanno fare in media 250, sabato compreso. Tutelato da niente e da nessuno.
Inserirsi nella filiera del caporalato non è difficile: bastano una modesta prova di recitazione, un paio di scarponi, jeans sdruciti, giubbotto e un cappellino con visiera. Ecco i primi gruppetti intorno all´edicola di piazzale Lotto. «Cerco lavoro, a chi posso chiedere?» Mi dirottano prima su un egiziano, poi su un marocchino, un albanese, infine un ucraino. Italiani, a quest´ora, neanche l´ombra. Arrivano più tardi, al volante di mezzi di ogni tipo. Utilitarie, station wagon, pick-up, monovolume. Vecchi e nuovi furgoni. L´unico sveglio è l´autista. «Fino a un mese fa facevo il magazziniere, poi la ditta ha chiuso. Chi è il capo?": mi faccio coraggio fendendo un cerchio umano a due passi dalla fermata della 91. «Intanto vai da quello là con il giaccone nero». È un calabrese, sulla quarantina. Viene da Buccinasco. Lancia Ypsilon sporca di fango. «Da dove vieni?». «Bergamo. Però vivo qui, a Bonola». «Che cosa fai?» «Magazziniere, qualche trasloco, ma adesso sono fermo». «Edilizia, mai?» «Mai». «Oggi ti va bene, ho uno malato che è rimasto a casa. Però ti dico subito... Lavorare duro senza fare storie, la paga è di 3,50 euro all´ora, finiamo alle cinque, e se succede qualcosa, affari tuoi». Il contratto si chiude con una pacca sulle spalle.
Un´ora dopo siamo a Monza. Lo scheletro ponteggiato di una palazzina. Salvatore ci scarica lì. Sta incollato al telefonino. Controlla. «Un lavoratore regolare per l´impresa ha un costo di 22 euro l´ora. La metà rimane tra l´impresa appaltatrice e quella subappaltante. La parte restante la intasca il caporale - spiega ancora Di Girolamo - La quantità di evasione fiscale contributiva ammonta a 6 miliardi di euro all´anno». Una bella fetta di Finanziaria.
Nel cantiere monzese ci sono nove operai: cinque noi (due soli in regola), quattro di un´altra squadra. Mentre all´ultimo piano un giovanissimo muratore albanese getta il calcestruzzo nelle casseforme e un collega marocchino lo assesta con un pestello, io ne trasporto dell´altro. Prima con una carriola, poi in secchi stracolmi, facendo acrobazie tra i correnti del ponteggio. Un piano è sprovvisto di parapiedi. Mancano anche le "mantovane", le barriere anti caduta sassi. Una pioggerella sottile ha reso scivolose le pedane d´acciaio e il rischio di cadere nel vuoto è altissimo. «Veloce! Veloce!», grida il caposquadra. Esige il minimo (per lui) rendimento. Che a me sembra l´impossibile. Alle 17, esausto, chiedo a Salvatore se per favore può anticiparmi la paga giornaliera. Lui temporeggia. Si capisce che la richiesta è inusuale. Eppure sono solo 35 euro, per dieci ore di lavoro. «Soldi? Fra 50 giorni - mi gela - nell´edilizia funziona così, bellooo!».
In Italia il settore edile dà lavoro a 1 milione e 200 mila operai. 600 mila sono regolari o mezzi regolari (in "grigio": su 250 ore mensili solo 80 vengono messe in busta paga); gli altri 600 mila sono in nero. Provo rabbia. Lo sfruttamento lo senti prima nella mente, poi nei muscoli. Vorresti scappare. Prima di scivolare da un´impalcatura e spaccarti la testa. Secondo le stime ufficiali Inail nel 2006 nei cantieri italiani sono morti 258 operai (la Lombardia conserva il triste primato con 46 vittime), il 35 per cento in più rispetto al 2005. Gli infortuni sono stati 98 mila. Ma il sommerso è enorme. I manovali clandestini, i "fantasmi", si fanno quasi sempre male in silenzio. Persino quando perdono la vita.
Ogni giorno della settimana, con il caporale prendo appuntamento per il giorno dopo. E puntualmente lo disattendo. Ricevo telefonate da altri a cui ho lasciato un numero di cellulare. «Allora ci vediamo domani alle 6 a Famagosta». «Porta guanti e tenaglia, alle 6.15 in piazzale Loreto». Lavoro ce n´è. Il secondo e il terzo giorno sono sotto un egiziano. Ponteggi. Cantiere tra Milano e Pavia. Freddo cane. Un collega tunisino, Aziz, è appena guarito dopo un ferita alla testa. «Mi hanno detto che se andavo in ospedale non dovevo farmi più vedere». Arriviamo in autobus in corso Lodi. Ci aspetta la monovolume del capo. Rashid, un marcantonio del Cairo. «Ti dò 3 euro, 4 se sei svelto.... « è la prima cosa che dice. Fino a qualche anno fa il caporalato edile era appannaggio esclusivo degli italiani. Oggi è diverso. Egiziani, albanesi, romeni stanno riproducendo tale e quale il meccanismo dello sfruttamento. Da schiavi sono diventati padroni. Godono tutti di una sostanziale impunità. In Italia lo schiavismo sui cantieri non è (ancora) reato. Il 16 novembre scorso il Consiglio dei ministri ha presentato un disegno di legge, che ora dovrà essere discusso da Camera e Senato, che introduce il reato di caporalato.
A giudicare dall´esito delle due giornate di cottimo a Rashid credo di non essergli sembrato troppo svelto. Non mi paga, se voglio continuare, lo farà, pure lui, tra cinquanta giorni. Eppure la mia parte l´ho fatta. Tre piani di ponteggio smontati. Tra cavalletti, tavole, botole, correnti di ogni foggia e dimensione, sono in tre, lassù, in cima all´edificio. Sgobbano come muli. Mi fanno scivolare giù la roba con corde e carrucole. A ritmo incessante. Il tempo di sganciare il materiale dall´imbracatura, impilarlo sul camion, e altro carico precipita dai piani alti. «Così non va», mi rimprovera il capo squadra, anche lui egiziano. Sa che sono un novizio. «Vai su, sgancia quei correnti e passali a lui». 17 anni, boliviano, le guance segnate dalla prima peluria. Niente casco, niente guanti. A quest´ora dovrebbe essere a scuola, invece è qui a giocarsi la vita per 40 euro. Non fiata, esegue. A mezzogiorno consumiamo un pranzo frugale dentro una baracca di lamiere. Riscaldata, per fortuna, da una stufa elettrica. Una bottiglia d´acqua passa di bocca in bocca. Poi ognuno addenta il suo rancio. «Un mese fa - racconta Aziz - mi è caduto un corrente del ponteggio sulla testa, sono sceso dal ponteggio tutto insanguinato. Ha visto anche la gente del palazzo. Adesso sto bene», sorride.
Mezz´ora e siamo di nuovo con la schiena piegata sulle passatoie di ferro. Sono le quattro del pomeriggio, ho già la mente all´alba del giorno dopo. Altro sfruttatore, altro viaggio, altro sudore, altri soldi che non vedrò mai. Altri clandestini che si spaccano le braccia per ingrossare il conto corrente dei caporali e delle imprese lombarde che vogliono tutto, e subito. Calpesterò fango a Lissone, a Novara, infine in quella valle Seriana nella bergamasca dove un tempo l´edilizia era considerata un´eccellenza. Tutto sarà uguale al primo giorno di lavoro. Anzi peggio. L´edilizia, oggi, è diventata terra di predoni e di oppressi ridotti in cattività. A volte lasciati morire in silenzio. Come scrive Andrea Camilleri ne "La Vampa d´agosto". «... è caduto dall´impalcatura del terzo piano... Alla fine del lavoro non si è visto, perciò hanno pensato che se n´era già andato via. Ce ne siamo accorti il lunedì, quando il cantiere ha ripreso il lavoro... Forse, pinsò Montalbano, abbisognerebbe fari un gran monumento, come il Vittoriano a Roma dedicato al Milite Ignoto, in memoria dei lavoratori clandestini ignorati morti sul lavoro per un tozzo di pane».