Ogni giorno in Iraq si allunga la lista delle vittime. Mentre scrivo questo articolo, la stampa tedesca ha annunciato l’assassinio di Fuad Ibrahim Mohammed, direttore dell’Istituto di Studi Tedeschi dell’Università di Baghdad, che negli ultimi due anni ha lavorato alla ricostruzione della biblioteca dell’Università, distrutta dai colpi dell’artiglieria durante l’ingresso in città degli americani, freddato mentre rientrava dal lavoro. Sono cose che non fanno più nemmeno notizia. Il costo in termini di vite umane della ricostruzione del patrimonio culturale iracheno è immenso e passa vergognosamente sotto silenzio dai media internazionali. È questa la premessa dalla quale devono partire i lettori che si avvicinano a The looting of the Iraq Museum, Baghdad, che racconta eventi ormai familiari, dando un’idea di quelle che saranno le conseguenze future. Con il museo ancora chiuso, questo volume ci accompagna in una visita immaginaria attraverso le sue sale e la storia della Mesopotamia. Le nostre guide sono un team di studiosi iracheni, italiani, americani e inglesi, la maggior parte dei quali lavorano in Iraq da decenni. Prendendo spunto da opere della collezione del museo, ci conducono dall’Età della Pietra ad Alessandro Magno, fermandosi qua e là per poter ammirare nel dettaglio i pezzi di maggior magnificenza. È una guida seria e puntuale di un museo che non possiamo visitare. Il percorso è talora interrotto da interessanti digressioni, supportate da superbo materiale fotografico, sui principali siti archeologici, islamici e ottomani, scritte da chi ha scavato personalmente in questi luoghi e può illustrarne al meglio l’importanza. Ma lo scopo principale di questo libro piacevole e di facile comprensione è la chiamata a un intervento concreto. La storia del saccheggio del museo è ormai tristemente nota. Non ci sono infatti dubbi e resta poco da aggiungere sulla perdita di migliaia di oggetti delle sue collezioni, specialmente sigilli. I danni consapevolmente inflitti dalle truppe americane e polacche al sito storico di Babilonia, scelto come base logistica, sono stati ampiamente pubblicizzati e condannati dalla comunità internazionale. Ma le fotografie aeree dei saccheggi che continuano a venir perpetrati in numerosi siti archeologici sconvolgeranno i lettori, così come il resoconto dei sistematici fallimenti da parte dell’esercito alleato di proteggerli, nonostante una specifica imposizione in questo senso da parte del diritto internazionale. Non potendo il Governo iracheno riuscire laddove fallisce la coalizione, la pratica del saccheggio è ormai diventata in molte aree una delle principali risorse economiche della popolazione. È realistico temere che questa distruzione continuerà ancora, per molti anni a venire, ed è probabile che la reale natura delle perdite non sarà mai quantificata. Una percentuale dei ricavi del libro verrà devoluta al Ministero iracheno per le Antichità e l’Eredità culturale. Ma tutti noi siamo tenuti a chiederci che cosa possiamo fare, perché la situazione è persino più grave di quella messa in evidenza nel libro. Focalizzando la sua attenzione sul Museo di Baghdad e sui principali siti del paese, non menziona le perdite delle biblioteche, la distruzione di gran parte degli archivi dell’Iraq ottomano o i danni subiti da città e villaggi che sono a tutt’oggi disabitati. Da quando si è insediato il nuovo Governo, il Museo ha aperto solo una mezza giornata: per una conferenza stampa sull’oro di Nimrud che, prudentemente nascosto dal personale del museo nei sotterranei della Banca Centrale, è miracolosamente sopravvissuto alla devastazione. E infatti è così, ma gli avori di questo tesoro sono stati seriamente compromessi quando il loro deposito improvvisato è stato allagato e sono ancora in attesa di restauro. Visti i danni subiti dalla rete elettrica, il museo è privo di illuminazione e aria condizionata, perciò il lavoro di conservazione è pressoché impossibile e l’inventario degli oggetti conservati nelle sale interrate è fuori discussione. In tali circostanze il museo non può fare praticamente nulla. Anche se il personale rischia ogni giorno la vita per recarsi al lavoro, una volta al museo non c’è nulla che possa fare. All’estero, i colleghi sono desiderosi di dare il loro contributo, e hanno già fatto qualcosa in passato, ma da quando gli stranieri sono diventati il bersaglio di rapimenti e attentati, è difficile immaginare che delle istituzioni permettano ai loro esperti di partire alla volta dell’Iraq. La collaborazione sui siti archeologici non è nemmeno presa in considerazione. Subito dopo l’invasione del paese, il Governo inglese si è impegnato a dare il suo contributo alla ricostruzione culturale dell’Iraq: sono stati organizzati corsi di formazione di specialisti iracheni in Inghilterra per migliorare le loro conoscenze in materia, e proprio adesso tre archeologi di Babilonia si trovano al British Museum, ma non è stato concertato nessun programma preciso di interventi. Quando questo articolo sarà pubblicato ci saranno nuovi governi sia a Londra che a Baghdad. Il nuovo Segretario di Stato per la Cultura inglese non dovrebbe lasciarsi sfuggire un’opportunità tanto preziosa. Il Governo inglese ha il dovere di dare il via a un piano di cooperazione, formazione e investimenti della durata di diversi anni, che deve partire da un programma di tirocinio dei colleghi iracheni in Inghilterra, preparando la situazione per il momento in cui ci sarà possibile offrire finalmente un aiuto concreto sul campo.
Non riesco a immaginare un compito più urgente di questo per il nuovo Segretario di Stato, né maggior buona volontà ed energia di quella dimostrata sull’argomento. Ma visto come stanno le cose, non succederà nulla se il Governo non farà la sua parte.
Per altri particolari sull'opera del British Museum a favore delle antichità dell'Iraq, si consulti il sito del Museo.
Una recensione al volume, qui citato, The looting of the Iraq Museum è apparsa sul Sunday Times (8 mag. 2005).
Titolo originale: Bird flu and 1918’s pandemic – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Ci sono sia implicazioni terrificanti che risvolti positivi nell’annuncio della scorsa settimana che i gruppi di ricerca hanno decifrato la sequenza genetica della devastante influenza del 1918 e hanno sintetizzato il letale germe in un laboratorio ad alta sicurezza. L’impresa rappresenta un tour de force scientifico che offrirà importanti notizie sui modi migliori di rispondere all’influenza aviaria che circola ora in Asia, e che ha ucciso un grosso numero di uccelli e circa 60 persone in quattro paesi.
Le due più recenti pandemie di influenza, nel 1957 e 1968, furono causate da virus umani che avevano raccolto alcuni componenti di quelli dell’influenza degli uccelli. Ora emerge che il molto più letale virus del 1918, che uccise da 20 a 100 milioni di persone, fu probabilmente di origine aviaria, passato poi direttamente agli esseri umani. La mutazione genetica che lo consentì sta già iniziando ad apparire nell’attuale malattia degli uccelli, nota come H5N1. Ciò offre all’influenza di oggi due vie per scatenare la devastazione fra gli umani. Può mescolare alcuni dei suoi geni con l’influenza umana, come i virus del 1957 e del 1968, oppure mutare sé stessa per divenire facilmente trasmissibile tra gli uomini, come il virus del 1918.
Sinora, il virus degli uccelli raramente è saltato dai volatili agli umani, e raramente si è spostato da una persona all’altra. Ma potrebbe seguire il medesimo percorso evolutivo del virus 1918. Due funzionari della sanità USA affermano che il virus H5N1 ha acquisiti cinque delle dieci sequenze genetiche legate alla trasmissione umano-umano del 1918.
Questo non significa necessariamente che la catastrofe sia imminente. Nessuno sa quante probabilità ci siano che si verifichino ulteriori mutazioni, o quanto tempo occorrerà. Il virus aviario è stato in circolazione per decenni senza per questo trasformarsi in un mostro.
Le nuove scoperte offrono promettenti sviluppi per gli operatori sanitari che devono prepararsi ad una possibile pandemia. Gli scienziati saranno in grado di monitorare l’evoluzione del virus aviario e portare immediatamente assistenza medica in qualunque area dove appaia che il virus sia più trasmissibile. Saranno anche in grado di sviluppare cure e vaccini mirati agli obiettivi genetici più importanti, consentendo così di curare o addirittura prevenire l’influenza in modo più efficace.
Nessuno sa se il virus aviario ora sotto i riflettori diventerà una minaccia più grave per gli esseri umani. Ma un giorno o l’altro potrebbe arrivare una potenziale pandemia. Le nuove scoperte potranno aiutare a contenerla.
Nota: il testo originale di questo articolo del New York Times è ripreso dal sito dello International Herald Tribune (f.b.)
Non sono molti, in Italia, gli storici che si siano occupati di ambiente. E che abbiano raccontato le vicende dei fiumi, delle colline, delle pianure e delle paludi. E di come gli uomini se ne siano serviti, spesso correttamente, spesso abusandone. Con la storia delle risorse naturali si cimenta da tempo Piero Bevilacqua, professore di Storia contemporanea all'Università "La Sapienza" di Roma, che prova a ricostruire il nostro passato non limitandosi alle dinamiche dell'economia o alla vita sociale e politica, ma attribuendo dignità di soggetto storico alle forze ambientali. Non è difficile intendere quanto questa indagine torni comoda per capire cosa accade nel nostro paese ogni volta che un acquazzone si abbatte più irruento del solito. L'ultimo lavoro di Bevilacqua è appena uscito, si intitola Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo: è un volume curato insieme a Gabriella Corona e raccoglie studi di giovani ricercatori sulla legislazione forestale nei secoli scorsi, sull'idea di territorio in età giolittiana, sulla storia della biodiversità, della pesca, delle bonifiche e dei sismi (Donzelli, pagg. 329, lire 45.000). Di qualche anno fa è Tra natura e storia (ora ripubblicato sempre da Donzelli, pagg. 224, lire 35.000).
Professor Bevilacqua, al Nord e al Centro si continua a morire travolti da un'alluvione. Ma si può cominciare questa intervista ricordando che esattamente vent'anni fa un terremoto distruggeva l'Irpinia e parte della Basilicata. Morirono tremila persone. Abbiamo riflettuto a sufficienza su quella tragedia?
"No. Ma bisogna distinguere. La storiografia, generalmente insensibile alle questioni ambientali, ha raggiunto livelli di eccellenza nell'indagine su questi eventi. L'Istituto nazionale di geofisica di Bologna ha pubblicato un Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1990 di straordinario rilievo. Con la storia dei terremoti si realizza l'antico detto della historia magistra vitae".
In che senso?
"La memoria è la nostra geologia: apprendiamo da uno studio di Emanuela Guidoboni che negli ultimi cinquecento anni in Italia ci sono stati centosettantaquattro terremoti distruttivi, in media uno ogni tre, quattro anni. In Sicilia e in Calabria, le regioni più disastrate, la media è rispettivamente di uno ogni 17 e 19 anni: almeno una generazione di persone che vivono lì affronta una ricostruzione sismica".
Sono dati terribili.
"Non sono finiti. Nel secolo che si è chiuso sono morte 200.000 persone. E il costo dei sismi accaduti negli ultimi trent'anni ammonta a 180.000 miliardi di lire".
Lei parlava di historia magistra vitae. Non sembra che la comunità nazionale tenga conto di questi studi. O no?
"Purtroppo non ne fa buon uso. Siamo affetti, classe dirigente e semplici cittadini, da un abbaglio tecnologico, che ci fa perdere di vista un dato storico: la fragilità del nostro territorio. Implicitamente ci sentiamo sicuri, non ci sembra possibile che un paese che ha raggiunto simili livelli di benessere soccomba di fronte a un evento naturale".
Da dove deriva questa mitologia?
"Il sapere medio è povero di competenze geografiche e naturalistiche. Un uomo colto dell'Ottocento le maneggiava invece con dimestichezza: prenda il caso di Giustino Fortunato. Poi è prevalsa una certa vulgata idealistica. Nelle scuole la geografia è stata messa ai margini. Oggi una persona di buona cultura stenterebbe a riconoscere cinque, sei alberi fra i più frequenti del nostro paesaggio".
Stiamo negando un passato di grandi conoscenze. E' questo che vuol dire?
"Esattamente. L'Italia ha inaugurato la scienza idraulica moderna. Nel Nord del paese esistevano due grandi emergenze: la pianura Padana e la laguna veneta. La pianura padana è fra i più intricati sistemi idrografici del mondo. Dal Medioevo in poi tante fonti storiche segnalano la questione. E per secoli è proseguito lo sforzo affinché si rendesse agibile quella pianura. Nell'Ottocento gli idraulici sostenevano che il Po fosse frutto del lavoro umano, un fiume costruito, tanto imponenti erano stati i lavori per condurre in un unico argine la quantità di bracci in cui il corso si disperdeva. Carlo Cattaneo definisce il Po "un immenso deposito di fatiche". Nel XVII secolo fu attuata una gigantesca opera idraulica, rimasta senza pari: venne dirottata la foce del fiume per evitare che scaricasse materiali nella laguna veneta".
E arriviamo a Venezia. In un suo saggio di alcuni anni fa, Venezia e le acque, lei sosteneva che la legittimazione a governare la città dipendeva dalle capacità idrauliche della sua classe dirigente, che doveva dimostrarsi in grado di salvaguardare la laguna dall'interramento...
"In quel libro cercavo di raccontare la storia mirabile di un successo tecnico. Una grande opera fu anche la deviazione del fiume Brenta che, come il Po, alterava l'equilibrio della laguna scaricandovi le sue scorie. E a quella seguirono altre iniziative in diverse regioni. Basti ricordare la colmata della Val di Chiana, o il canale Cavour, costruito nell'Ottocento". Come si è arrivati al dissesto e alla noncuranza di oggi? "In seguito a tanti processi. In primo luogo la riduzione delle superfici agricole. Ancora nel 1951 ventisette milioni di ettari erano coltivati. Oggi sono quindici".
Ma il minore sfruttamento della terra non arreca anche vantaggi?
"No, se al posto dell'agricoltura subentra un insediamento cementizio, che impermeabilizza il terreno. Inoltre le trasformazioni nei metodi di coltivazione, pur necessarie per ricavare più reddito, possono provocare effetti negativi sulla tenuta del territorio".
Mi faccia un esempio.
"E' necessaria una premessa. Gli idraulici dell'Ottocento avevano capito che la dorsale appenninica andava incontro allo scivolamento di materiali disgregati dalle vette verso valle, all'erosione delle rocce. Questi eventi provocavano un colmamento delle zone costiere. Nei secoli passati, secondo molte fonti, i problemi erano attutiti dai contratti di mezzadria che imponevano ai contadini di restare nei fondi e di controllare i movimenti della terra e delle acque. Si costruivano i muri di sostegno, e se si sfaldavano si riparavano. Si deviavano i fiumi, si bonificavano le colline, indirizzando l'acqua piovana, si riempivano i fossi, si addolcivano le pendenze con le colmate. Buona parte del profilo collinare toscano è il prodotto di questa manutenzione".
E ora, invece, cosa accade?
"Prevale il lavoro meccanico, che insieme a tanti vantaggi ha provocato anche danni. Un trattore per arare un terreno va in direzione della massima pendenza. Scende e poi risale, agevolando i fenomeni franosi. Troppo spesso i vigneti sono sistemati in verticale. Un tempo, invece, o si costruivano i terrazzamenti oppure si procedeva "giro poggio", come si diceva, tagliando orizzontalmente e dolcemente la collina".
Ma è impossibile arrestare il processo di meccanizzazione.
"D'accordo. Ma resta il fatto che, storicamente, una delle cause dei fenomeni franosi che angustiano le zone appenniniche o le Prealpi è lo spopolamento delle colline interne. E le frane si abbattono sulle pianure inverosimilmente intasate sia dalle abitazioni che dagli stabilimenti industriali. Per non parlare delle costruzioni abusive, tirate su nelle golene o sui greti dei fiumi. E' difficile far tornare i contadini sulle alture, ma allora inventiamoci altri sistemi per non abbandonarle".
A cosa pensa?
"Dieci anni fa la Comunità europea ha varato un programma che si chiama "set aside" e consiste nel disincentivare le coltivazioni - tenga conto che i magazzini europei sono pieni di eccedenze - e nel favorire sui pendii le colture biologiche o la forestazione. Nei secoli scorsi, in particolare al Sud, le alluvioni sono state frenate dai boschi. In Calabria, prima dell'Unità, si procedette a una bonifica dei corsi alti dei fiumi che, raccontano molte memorie, erano pescosissimi e adesso sono ridotti a discariche. E' possibile che non si riesca a formare botanici, biologi, geologi? Nelle amministrazioni statali preunitarie figuravano molte più competenze di quante, in proporzione, ce ne siano oggi".
Lei accennava ai difetti della storiografia contemporanea. Vogliamo chiudere la conversazione su questo?
"Da noi prevale una formazione umanistica e solo umanistica. La storia politica è indispensabile, ci mancherebbe. Ma è possibile che non ci si spinga mai a dialogare con altri saperi, come quelli geografici o agronomici? Quando mi occupo di queste ricerche i miei interlocutori sono i geologi e gli urbanisti. Il mio libro Tra natura e storia non è stato né recensito né segnalato su nessuna rivista storica specializzata. In Germania o in Francia la situazione è diversa. Eppure noi siamo un paese molto più vulnerabile: io credo che nella mitologia popolare la salvaguardia secolare di Venezia possa avere lo stesso rilievo degli Orazi e Curiazi".
Già ricordati nell'editoriale di Rossana Rossanda sul manifesto di domenica scorsa, il terremoto di Lisbona del 1755 e il dibattito che suscitò fra i filosofi dell'illuminismo tornano alla mente in una sorta di associazione spontanea con la tragedia del sud-est asiatico di oggi. E più che i due eventi, a suscitare l'associazione è il loro impatto sull'immaginario dei contemporanei, allora e oggi. A ricostruire quello di allora fa da guida un libro uscito qualche mese fa a cura di Andrea Tagliapetra, Sulla catastrofe. L'illuminismo e la filosofia del disastro (Bruno Mondadori), che raccoglie e commenta gli scritti di Voltaire, Rousseau e Kant sull'evento e traccia alcune piste di riflessione non banali per l'oggi. Scrive Tagliapietra che allora non fu tanto l'entità, pur immensa, della tragedia a fare del terremoto di Lisbona un evento del pensiero oltre che della storia: altri e più terribili cataclismi (il terremoto di Lima del 1746, 20.000 morti, quelli di Qili e Pechino di pochi anni prima, 200.000, quello dei Caraibi del 1693, 60.000, nonché quello dello Huaxian nel `500, 800.000) non lo erano diventati. Fu piuttosto l'effetto di vicinanza a colpire la nascente opinione pubblica europea, amplificato dalla contemporanea espansione del sistema della stampa. Lisbona, che contava all'epoca 275.000 abitanti e govenava un impero già provato dalle guerre coloniali con l'Olanda ma ancora esteso su tre continenti, era la porta dell'Europa sull'oceano e sul Nuovo Mondo, e il suo crollo, puntualmente descritto e comunicato da gazzette e volantini, colpì al cuore l'immaginario dell'espansione e l'ottimismo della conquista. «Il terremoto fu percepito come un evento che, mentre suscitava antichissimi interrogativi sul male, su Dio, sulla natura, la giustizia, il destino dell'uomo, poneva al contempo la cultura europea sulla soglia di qualcosa di nuovo. Sorgeva un mondo in cui si discuterà sempre meno di peccato e di colpa, e sempre più di catastrofe e di rischio, si smetterà di risalire ogni volta alle logiche apocalittiche del diluvio universale e si lasceranno parlare i sistemi descrittivi e gli apparati empirici della geologia e delle scienze della terra». Evento di passaggio: dai piani di Dio alla responsabilità degli uomini. Gli scritti di Voltaire, Rousseau e Kant documentano questo passaggio. La morte dell'ottimismo del migliore dei mondi possibili, decretata da Voltaire nel Poema scritto per l'occasione e nel Candido. La risposta di Rousseau, con il dito puntato sulle colpe dei mortali («la natura non aveva affatto riunito in quel luogo 20.000 case di sei o sette piani») e la speranza spostata dai disegni divini alle possibilità rivoluzionarie umane. L'analisi di Kant, minutamente condotta sulle cause fisiche e geologiche del disastro. Il mondo è nelle mani di chi lo abita: questo si dice, e si impone, la coscienza europea di fronte a una catastrofe che segna l'inizio della modernità. E tuttavia, e contraddittoriamente, nello stesso momento il fantasma della catastrofe si installa nel cuore della modernità stessa: la possibilità permanente del disastro diventa l'altra faccia, il lato d'ombra, l'inconscio persecutorio e minaccioso della responsabilità rivendicata e dichiarata. La modernità nasce in questa tensione fra l'imminenza della catastrofe e le strategie della sua prevenzione e del suo contenimento.
E si rinnova e si ripete in questa stessa tensione, viene da dire di fronte ai dibattiti di oggi sull'apocalisse naturale asiatica, o dell'altro ieri sull'apocalisse politica dell'11 settembre (che non a caso suscitò anch'essa più di un riferimento all'«evento filosofico» del terremoto di Lisbona). Con la differenza che mentre nella nascente opinione pubblica europea dio lasciava il posto alla responsabilità umana, oggi il movimento è piuttosto l'inverso, e sotto varie maschere dio viene invocato a copertura delle responsabilità umane. Un altro segno del processo di decostruzione all'indietro della modernità a cui la post-modernità ci fa assistere. O forse il segno che né le maschere di dio né il totem della responsabilità bastano a fare i conti con la dimensione imperscrutabile della storia che è fatta di caso, accidente, incidente.
I responsabili delle morti, delle malattie e dell’inquinamento del petrolchimico di Marghera ora hanno qualche nome e qualche faccia. La Corte d’appello di Venezia, infatti, ha ribaltato la sentenza del processo di primo grado che aveva assolto tutti gli imputati e ha condannato cinque di loro ad un anno e mezzo di reclusione per l'omicidio colposo dell’operaio Tullio Faggian, uno dei lavoratori morti per l’avvelenamento dal cloruro di vinile monomero (Cvm) emesso dall’impianto industriale veneto. I condannati sono Emilio Bartalini, Renato Calvi, Alberto Grandi, Piergiorgio Gatti, Giovanni D'Arminio Monforte. Condanne parziali certamente, ma che confermano la tesi accusatoria, ovvero che le numerose morti e malattie che hanno colpito i lavoratori di quell’azienda sono state provocate proprio dall’inefficienza dei controlli sulle emissioni e dalla scarsa attenzione dei dirigenti alla tutela della salute di chi ha lavorato una vita al Petrolchimico e lì quella vita l’ha pure persa.
Si gira così la buia pagina del 2 novembre 2001, quando i 28 imputati, tutti dirigenti o ex dirigenti di Montedison, Enimont e Enichem, furono assolti, lasciando senza colpevoli il disastro ambientale di Marghera. Finisce invece in prescrizione il reato di omessa collocazione di impianti di aspirazione dal 1974 al 1980. Prescrizione che comunque riconosce la fondatezza del reato. La Montedison è stata considerata responsabile civile delle morti per Cvm registrate tra il 1973 e il 1980. Ora dovrà risarcire con 50mila euro le famiglie e con 8mila euro i figli delle vittime, oltre a farsi carico di tutte le spese processuali.
«Purtroppo - ha commentato il pm di Venezia Felice Casson - la giustizia è arrivata troppo tardi. È un processo che si sarebbe dovuto fare vent'anni fa. Vent'anni fa avrebbero condannato tutti, come conferma la sentenza di oggi».
«Questa sentenza dimostra il reato di disastro ambientale» gli fa eco Legambiente «Viene dimostrata la relazione tra il modo di impostare e condurre l'impresa e le pesanti conseguenze sulla popolazione e i lavoratori, fornendo uno strumento in più per il futuro: una riconversione della logica industriale che garantisca il rispetto della salute dei lavoratori e dei cittadini, dell'ambiente e della legge».
Anche il prosindaco di Mestre, Gianfranco Bettin, ha voluto commentare la sentenza: «La giustizia ha battuto un colpo importante oggi nell'aula bunker di Mestre. Il Tribunale ha riconosciuto l'esistenza di reati, cioè di offese alla salute dei lavoratori e all'ambiente. Per alcuni reati, per la prima volta, ci sono delle condanne. Per altri – osserva Bettin - è intervenuta la prescrizione a riprova che la lentezza della giustizia è la miglior garanzia, anche in assenza di complicità, per i potenti. E a riprova che i tentativi in corso, in Parlamento, di abbreviare i termini di prescrizione dei reati sono un ulteriore servizio ai potenti e ai delinquenti».
Da parecchi anni il giro dell'Agosto è per me il giorno del rendiconto ecologico. Come sta la salute della Terra? Come andiamo con l'ambiente, con l'inquinamento atmosferico, con il clima, con l'esaurimento delle risorse? Va da sé che su tutto il fronte andiamo peggio. Va da sé perché non vogliamo né vedere né affrontare la realtà.
Sì, finalmente il protocollo di Kyoto è diventato operativo. Applaudo perché qualcosa è sempre meglio che nulla. Ma i rimedi di Kyoto sono largamente insufficienti. Eppure il Texano tossico, il presidente Bush, non solo continua a rifiutarli, ma si ingegna anche a sabotarli accordandosi con India, Cina e una manciata di altri Paesi su una cosiddetta «soluzione alternativa» (lo sviluppo di alte tecnologie pulite) che però non viene seriamente finanziata e che comunque non sarebbe alternativa ma complementare.
Sì, un'altra buona notizia è che la comunità scientifica è sempre più convinta e concorde nel denunziare la gravità della situazione e che, correlativamente, le voci dei lietopensanti che ci raccontano che tutto va bene sono sempre più fioche e sempre più contraddette da valanghe di dati, da valanghe di smentite.
Però, però. Tre anni fa i lietopensanti sono stati rassicurati dalle balordaggini di un certo Lomborg (sconfessato dai suoi stessi colleghi della «Commissione danese sulla disonestà scientifica»); e quest'anno fa già furore il romanzo Lo Stato di Paura di Crichton, la cui tesi è che il riscaldamento globale è l'invenzione di scienziati e giornalisti al servizio di interessi politici ed economici il cui proposito è di preservare «i vantaggi politici dell'Occidente e favorire il moderno imperialismo nei confronti dei Paesi in via di sviluppo». Questa è soltanto una tesi dogmatico-marxista rispolverata negli anni '70. Ma se un logoro vetero-marxismo viene rimesso a nuovo da un autore di thriller che sa vendere milioni di copie, allora «l'imbroglio anti-ecologico» riprende fiato.
Il guaio è che sul drammatico problema della «Terra che scoppia» (di sovrappopolazione) e che si autodistrugge, i media, gli strumenti di informazione di massa, non mobilitano l'opinione e non si impegnano più di tanto. Forse perché sono frenati da una colossale rete di interessi economici tutta progettata e proiettata nell'assurdo perseguimento di uno sviluppo illimitato, di una crescita infinita.
Comunque sia, il fatto dell'anno è che su questo cieco «sviluppismo» sta cadendo addosso una bella tegola. In questi giorni il costo del petrolio greggio si è avvicinato ai 70 dollari, e quindi al record massimo di un quarto di secolo fa di 80 dollari (costo ragguagliato a oggi) che produsse allora una grave crisi di stagflazione. Cosa succede? Il petrolio sta diventando scarso? Per il grande (ciarlatano) Lomborg non sarebbe possibile: lui ci assicura riserve per 5.000 anni. Ma anche i petrolieri ci rassicurano: abbiamo riserve per 50 anni (due zeri meno di Lomborg) e la stretta è colpa degli impianti di raffinazione. Ma a parte il fatto che 50 anni sono pochissimi, questa tranquillizzazione è un inganno. Nei prossimi venti anni la popolazione sarà ancora in aumento (quest'anno, saremo ancora 70-75 milioni in più), e si prevede che il fabbisogno energetico mondiale — con lo sviluppo dell'India e della Cina — crescerà del 50 per cento. Per questo rispetto siamo già allo stremo. Il campanello d'allarme è squillato dal 1980. E noi cosa abbiamo fatto e stiamo facendo? Ancora niente. Leggiamo e arricchiamo Crichton. Bravi, bravi.
Titolo originale: The tsunami, one year later – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
NEW YORK – Un anno fa, quando molti di noi stavano trascorrendo il periodo delle vacanze con le famiglie, la terra tremò per otto terribili minuti, scatenando un’onda gigantesca che colpì 12 paesi dell’Oceano Indiano.
Nelle successive 24 ore, morirono più di 230.000 persone, 2 milioni furono i profughi, e migliaia di bambini restarono orfani. Lo tsunami devastò quasi 8.000 chilometri di coste, distrusse 3.500 chilometri di strade, spazzò via 430.000 abitazioni e danneggiò o distrusse oltre 100.000 imbarcazioni da pesca.
Subito dopo tsunami, feci un viaggio con l’ex Presidente George H.W. Bush attraverso la regione, per verificare l’efficacia del contributo americano alle vittime.
Poco dopo, fui nominato Inviato Speciale delle Nazioni Unite per la Ricostruzione dopo lo Tsunami, e da allora ho lavorato sia alle Nazioni Unite che in Indonesia, Sri Lanka, India, Maldive Thailandia, a sovrintendere il coordinamento e aumentare il ritmo dei lavori di ricostruzione, e risolvere specifici problemi in alcuni paesi.
Recentemente sono stato ad Aceh, Indonesia, e a Trincomalee nello Sri Lanka nord-orientale, dove ho incontrato sopravissuti che avevano perso tutto: i loro cari, il lavoro, la casa e la comunità. Mi hanno ricordato il dolore che tanti continuano a sopportare.
A Trincomalee, ho incontrato un ragazzo che aveva salvato il fratellino più giovane, ma era perseguitato dal ricordo del fratello maggiore, scivolatogli tra le dita mentre l’onda da un miliardo di tonnellate distruggeva la casa. Il ragazzo non ha mai più rivisto il fratello maggiore.
In entrambi i paesi, sono restato colpito dalla determinazione dei sopravvissuti a ricostruire le proprie vite nonostante le perdite inimmaginabili che hanno subito e le condizioni spesso disperate in cui vivono.
Sono anche stato incoraggiato, dalle molte significative realizzazioni degli ultimi 12 mesi: sono state prevenute le epidemie; molti bambini sono tornati a scuola; decine di migliaia di sopravvissuti ora lavorano e guadagnano di nuovo; è fornita assistenza costante per l’alimentazione; è disponibile online un sistema comune di verifica finanziaria; si prevede che la prossima estate sarà attivo un sistema di allarme regionale per gli tsunami.
Ma c’è ancora molto da fare. Soltanto ad Aceh e nella vicina Nias, ci sono oltre 100.000 persone che vivono ancora in condizioni inaccettabili e con accessi minimi ad occasioni di impiego.
Anche se le agenzie di soccorso attuano progetti per le abitazioni permanenti, ci sono ancora bisogni urgenti di fornire rifugi temporaneo durevoli, migliorare i centri di vita transitori e assistere le famiglie che ospitano le vittime.
Lo tsunami presenta una sfida critica alla comunità internazionale: continueremo nei soccorsi anche quando l’attenzione del mondo si sarà rivolta ad altre crisi? Cosa succederà domani, il giorno dopo l’anniversario? E nelle settimane e mesi che ci aspettano? Questo impegno richiederà anni, e dobbiamo onorarlo.
Ora più che mai, sono convinto che la ricostruzione debba essere guidata dall’impegno a “rifare meglio”: migliori case, scuole, centri sanitari, città più sicure ed economie più solide.
Le politiche per la ripresa devono includere principi base di buon governo, come la consultazione delle comunità locali per i piani di ricostruzione, gli obiettivi, la trasparenza, la verificabilità.
Nel 2006, mi concentrerò su tre priorità per essere sicuro di rifare meglio (ogni nazione ha un sufficiente impegno finanziario tranne le Maldive, che hanno bisogno di altri 100 milioni di dollari).
Per prima cosa, dobbiamo essere sicuri che il nostro sforzo, unico per la buona disponibilità di risorse si rivolto alla popolazione più vulnerabile: i più poveri tra i poveri, donne, bambini, migranti, minoranze etniche.
Dal Global Consortium on Tsunami Recovery, abbiamo fatto pressioni sui governi per assicurare una diffusa consultazione con le popolazioni locali e promozione di una politica che metta al di sopra di tutto l’eguaglianza nell’assistenza; abbiamo concordato una definizione ampia di popolazioni “colpite dallo tsunami” – a comprendere profughi o persone interessate dai conflitti in luoghi come lo Sri Lanka o Aceh – e abbiamo incoraggiato i governi a mettere in atto sistemi di verifica per le spese di assistenza possibili da consultare online.
Secondo,dobbiamo assicurarci che si facciano continui progressi in termini di riduzione del rischio nel 2006. Un sistema rapido di allerta per l’Oceano Indiano è un avanzamento benvenuto, ma rappresenta solo una parte della risposta.
Meno di un mese dopo che lo tsunami aveva colpito, 168 paesi si sono riuniti in Giappone e hanno concordato lo Hyogo Framework for Action, che fissa alcuni obiettivi strategici, priorità e azioni concrete da parte dei governi per ridurre gli effetti degli eventi calamitosi entro i prossimi dieci anni.
Ne fanno parte campagne di educazione nazionale perché le popolazioni riconoscano rapidamente i segnali di disastro incombente, una migliore pianificazione di uso del suolo per evitare investimenti in zone pericolose, regole comuni per un’edilizia più resistente e il ripristino di alcuni essenziali elementi di prevenzione ambientali come le mangrovie.
Queste innovazioni richiedono politiche e impegni per le risorse, tutte cose ancora da fare.
Terzo, non possiamo ignorare l’importanza della riconciliazione politica, della pace e del buon governo per il successo della ricostruzione.
Ad Aceh, lo tsunami ha obbligato i leaders politici a riconoscere che i problemi che alimentavano il conflitto nel paese erano meno urgenti di quanto invece univa la popolazione.
L’accordo di pace ha molto migliorato le prospettive di ricostruzione in Indonesia. La riconciliazione in Sri Lanka avrà risultati simili. In tutta la regione, le riforme politiche saranno una componente critica di una ricostruzione sostenibile.
Naturalmente, quest’anno ci sono stati altri disastri naturali oltre allo tsunami, e i loro strascichi dolorosi dimostrano la necessità di un maggiore coordinamento internazionale e cooperazione.
Il recente terremoto in Pakistan è un duro promemoria del bisogno di sostenere la creazione di un Global Emergency Fund che offra aiuti umanitari alle popolazioni e governi colpiti con risorse sufficienti ad iniziare il lavoro di salvataggio delle vite entro 72 ore da qualunque crisi.
Lo tsunami e quanto è successo dopo dimostrano sia la fragilità della vita umana, sia la forza e generosità dello spirito umano quando si lavora insieme per ricominciare.
Un anno fa, milioni di persone comuni in tutto il globo concorsero negli aiuti immediati alle comunità devastate dallo tsunami.
Ora la sfida collettiva è quella di finire il lavoro, lasciando comunità più sicure, pacifiche, forti. Non saremo soddisfatti finché questo lavoro non sarà concluso.
L'anno prossimo, il Dpef, Documento di programmazione economica e finanziaria, potrebbe essere corredato da un indicatore del prodotto interno lordo o Pil, in salsa ambientalista. Gli è stata anche trovata una sigla, «Pila», equivalente, appunto a Pil, in senso ambientale. Non è la questione trascurabile, la nominalistica perdita di tempo che sembra a prima vista, tanto che ieri alla camera dei deputati è stata illustrata una proposta di legge depositata da alcuni parlamentari e controfirmata da 100 di loro. Il Pil ambientale ha una lunga strada da percorrere, ma nasce sotto buoni auspici.
I due promotori sono deputati della sinistra ds, Valerio Calzolaio, già sottosegretario all'ambiente nella passata legislatura e Fabio Mussi, attualmente vicepresidente della camera e allora capogruppo. I due deputati hanno scritto una lettera a Romano Prodi per informarlo dell'iniziativa e sottolinearne i punti salienti, impegnando fin d'ora l'eventuale futuro governo ad agire per la costruzione del Pila. Un passo di questa lettera, la critica al Pil felicemente regnante è molto significativo (tanto che lo riportiamo in corsivo):
«Il Pil non sottrae il deprezzamento del capitale prodotto, il Pil non considera l'impoverimento del capitale naturale, il Pil indica alla pari cose buone e cattive, servizi utili e inutili purché prodotti e venduti, il Pil misura insieme e allo stesso modo prodotti che hanno effetti opposti e prodotti che si distruggono vicendevolmente (gli autoveicoli e gli effetti degli incidenti stradali, le mine e lo sminamento), il Pil misura come voce attiva il consumo delle risorse (anche quelle, tante, finite o in via di esaurimento), il Pil include le armi, il Pil trascura ogni servizio o transazione gratuiti, il Pil include le spese "difensive" (le spese per sanare gli effetti dell'inquinamento ad esempio), il Pil non valuta danni ed effetti di lungo periodo, il Pil non dice se il prodotto serve bisogni che sono anche diritti (cibo, medicine, vestiti) per chi non ne ha abbastanza. Se si abbatte una foresta aumenta il Pil...».
E' presto per dire come Prodi accoglierà la letta aperta di Mussi e Calzolaio. Se dirà «sono d'accordo» sarà meglio sospettare di lui, perché nella lettera - come prova il lungo passo che abbiamo trascritto - viene messo in dubbio, attraverso il Pil, tutto il consolidato sistema di interessi e valori, tutto l'inno alla crescita indifferenziata che ogni giorno viene riproposta. La critica al berlusconismo finora non ha mirato tanto alle scelte, quanto ai tempi, ai modi e alle priorità.
I 100 deputati, tutti del centro sinistra e rappresentanti tutti i partiti, da Acquarone dell'Udeur a Folena di Rifondazione, hanno mostrato di ritenere maturo il tempo per aprire una discussione sul principio stesso della macro economia.
Li rappresentavano ieri in una conferenza stampa i due promotori, Calzolaio e Mussi che hanno brevemente spiegato - stretti fra un voto di fiducia e l'altro - la tecnica con la quale procedere.
Nel primo tempo il massimo risultato ottenibile sarebbe quello di affiancare (diciamo: tra parentesi) alle temute cifre, ai sofferti spostamenti del Pil, di uno «zero virgola...» in più o in meno, il dato del Pilacalcolato dall'Istat. Mettendo a disposizione un indice sintetico dei costi ambientali affrontati, si informa e si incuriosisce il pubblico. E lo si spinge a scegliere, facendo conoscere il prezzo reale della crescita in termini di inquinamento, sottrazione delle risorse naturali irripetibili, spreco di acqua e di energia non rinnovabile; e viceversa, i valori del risparmio e dell'introduzione di energie rinnovabili. Ben presto Pila si libererà dalla parentesi.
L'associazione Rete nuovo municipio, Arnm, è attiva sulle tematiche della democrazia partecipativa e delle nuove forme di cittadinanza. L'Arnm è riunita per tre giorni a Roma, con un fitto programma di incontri e gruppi di lavoro. Ieri pomeriggio erano previsti in contemporanea attività sette gruppi: a) curare il territorio: beni comuni, energia, rifiuti; b) governare il territorio: altra economia, distretti di economia solidale, decrescita; c) vivere il territorio: alloggio, mobilità, urbanistica, servizi; d) smilitarizzare il territorio: pace, basi militari, sicurezza, legalità; e) aprire il territorio: inclusione e differenza; e inoltre un forum sull'acqua e un altro, il settimo, internazionale delle città, per la partecipazione e l'inclusione sociale. La mattina è stata invece utilizzata in un confronto su norme e pratiche di partecipazione a scala regionale. Un titolo arido per un tema di grande portata: la partecipazione dal basso alla politica.
Innanzi tutto, si è chiesto Gigi Sullo, direttore di Carta, che coordinava il dibattito, una Regione è uno stato più piccolo che ripartisce le sue disponibilità tra gli enti locali al suo interno, oppure è meglio considerare i rapporti dal basso verso l'alto, con la Regione intesa come un consorzio di comuni di cui si fa interprete o come l'entità che raccoglie e comunque fa proprie le decisioni e le scelte dei cittadini e delle loro associazioni? Sussidiarietà? Federalismo? O che altro?
Il primo che risponde a Sullo è l'assessore della giunta toscana Agostino Fragai. Questi inizia distinguendo partecipazione e concertazione. La Regione è molto aperta alla concertazione e invita al tavolo istituzionale 18 categorie per concertare insieme. Ma la partecipazione è un'altra cosa: una forma di democrazia dal basso di qualità diversa, che sollecita il ruolo dei cittadini soprattutto sui beni comuni. Si tratta di sollecitarli, aiutarli nella loro azione partecipativa. La Regione ha cercato i modelli da applicare in giro per il mondo; ha sentito tutti e sta scolpendo una legge, poco alla volta («ormai è pronta al 90%»; e la proposta finale potrebbe arrivare in Consiglio il 5 dicembre. Lo stanziamento è già deliberato. Si tratta di un milione annuo per tre anni. E' prevista anche un'autorità indipendente, e la scelta è stata quella di una sola persona, nominata sulla base di un concorso «internazionale»; inoltre, come prova massima di democrazia partecipativa, la legge scade dopo 5 anni, nel senso che alla fine del quarto deve esssere confermata, se si vuole mantenerla in vita. E se non ha funzionato bene, la si butta senza difficoltà.
A Luigi Nieri, assessore nel Lazio, viene chiesto di parlare della Bufalotta, possibile o probabile espansione di Roma, dentro e più ancora fuori dai piani regolatori. Nieri assicura che i «palazzinari», caratteristica e vergogna (o vanto?) della capitale, questa volta non passeranno. Il piano regolatore non sarà modificato, nessuno aggiungerà varianti. Spiega però la debolezza dei comitati di cittadini nei confronti dei poteri forti e fa il caso del debito di dieci miliardi che la Regione ha trovato nei conti lasciati dall'amministrazione precedente. Parla dei padroni di cliniche e di palazzi che sono poi i creditori della Regione per vari miliardi di euro, approfittando di un meccanismo che ne fa fornitori, creditori e finanziatori allo stesso tempo, con introiti complessivi che andando oltre il 20%, sono da codice penale.
Sul rapporto tra comunità e poteri forti torna anche Alberto Magnaghi, presidente di Arnm. «Con il principio di sussidiarietà, applicato in Toscana, i piccoli comuni sono preda dei poteri forti». Serve una sovrintendenza nazionale per sostenere le cause del territorio, a partire dal paesaggio. Basta capannoni! «Il consumo di suolo deve essere azzerato». Questo articolo del Decalogo di Milano serve a dare forza a Comuni e Regioni contro la speculazione immobiliare. Occorre poi dotare i Comuni di maggiore potere finanziario per spostare il rapporto di forze; e la partecipazione serve proprio a questo. (g. ra.)
Il lavoro di casa, dentro le mura domestiche è un «tesoretto» che vale, sia pure sul piano virtuale, qualcosa come il 32,9% del Pil, cioè circa 433 mila milioni di euro. Cioè come le entrate tributarie di tutto il 2006. Sono le donne, ovviamente, a sobbarcarsene il peso maggiore perché di questo 32,9%, il 23,4% grava sulle loro spalle contro il 9,5% degli uomini.
Il lavoro di casa, dentro le mura domestiche. In pratica, tutte quelle ore passate a rammendare, pulire, stirare, accompagnare i bambini, accudire gli anziani, fare la spesa. Ecco, se fosse calcolato nella contabilità nazionale, si scoprirebbe che è il vero motore dell’economia italiana, la produzione-ombra che nessuno paga o vuole pagare e di fatto non considera. Comunque un «tesoretto», questo sì, che vale, sia pure sul piano virtuale, qualcosa come il 32,9% del Pil, cioè circa 433 mila milioni di euro, come una valanga di pluri-stangate, come migliaia di lotterie di Capodanno, come milioni di sms di solidarietà. Oppure, per avere un’idea ancora più concreta, come le entrate tributarie di tutto il 2006.
E sono le donne, neanche a dirlo, a sobbarcarsene il peso maggiore perché di questo 32,9%, il 23,4% grava sulle loro spalle contro il 9,5% degli uomini. Volendo convertire le percentuali in miliardi di euro «prodotti», sono rispettivamente 308 e 125. In più, l’ora-lavorata delle donne «vale» assai meno.
Sono calcoli che fanno una certa impressione, nel loro insieme. Ma soprattutto sono il risultato di un lavoro mai tentato prima su base scientifica, elaborato ora dagli economisti de Lavoce.info. Una bell’impegno perché bisognava anzitutto cercare di dare un «valore-orario» e dunque un «prezzo» a questo universo lavorativo così particolare, che è reale e virtuale insieme; che si sa quando comincia e mai quando finisce; che si sviluppa quotidianamente nelle case di ciascuno, senza pause né festività, volenti o nolenti.
Paola Monti, 28 anni, laurea alla Bocconi, un Master a Londra, economista della Fondazione Rodolfo Debenedetti, prova così ad inquadrarlo, a dargli un peso, una quantificazione e persino a confrontarlo con quel che avviene nel resto del mondo. Il metodo che sceglie è doppio. Anzitutto rielabora i dati Eurostat sulla cosiddetta «occupazione elementare». Quindi utilizza un’indagine sull’uso del tempo fatta dall’Istat nel biennio 2002-2003 che permette di stabilire quanti minuti una persona dedica a diverse attività di tipo domestico nell’arco di una giornata, in Italia e nel resto del mondo. Il tutto rielaborato con coefficienti e medie ponderate sulla base di un volume a cura di Tito Boeri, Michael C. Burda e Francis Kramarz (Working hours and job sharing in Eu and Usa, Oxford University Press-Fondazione Rodolfo Debenedetti) di prossima pubblicazione.
Ed ecco che i numeri fotografano una realtà complessa, raccolta in una «voce» tutta tecnica che si chiama household production, ovvero il tempo che si spende per produrre beni e servizi all’interno della casa e della famiglia, gli stessi che si potrebbero comprare sul mercato. Le pulizie, per esempio, sono parte di queste production perché chi non vuole farsele da solo, può sempre cercare aiuto all’esterno e dunque pagare il servizio. Ma anche la cucina o il baby-sitting, così come la spesa al supermarket o l’assistenza agli anziani. Ebbene, secondo una media ponderata, a questo tipo di occupazioni vengono dedicate 3,89 ore al giorno. Nella scomposizione per genere però viene fuori che 1,92 ore le svolgono gli uomini, 5,78 le donne. Ogni ora «costerebbe» 7,83 euro, che al maschile diventano 8,76 e al femminile solo 6,94.
Il confronto internazionale riserva subito delle novità. Questo salario medio orario di 7,83 euro, in Olanda diventa 9,86, in Francia 9,94, in Inghilterra 10,93, in Germania 11,12. Soltanto in Spagna, tra i pochissimi paesi che finora ha cercato di calcolare il valore intrinseco dell’economia cosiddetta domestica, pure asse portante del Pil nazionale, il lavoro di casa è più a buon mercato: appena 5,34 euro di media. Ovunque le donne «guadagnano» meno.
Se questi sono i dati di partenza, viene fuori che ogni anno il lavoro casalingo, assorbe qualcosa come 1.419 ore (si tratta sempre di una media ponderata). Ma nella suddivisione tra maschi e femmine, circa 700 sono svolte dagli uomini contro 2.110 dalle donne. Se questa occupazione fosse retribuita, come di tanto in tanto viene reclamato, avrebbe un valore medio ponderato di circa 10.473 euro per ciascuno dei 41 milioni di italiani in età tra i 20 e i 74 anni presi in considerazione nel biennio 2002-2003, cioè appunto 433 mila milioni di euro l’anno, pari al 32,9% del Pil. Sul totale della cifra annuale, la quota media maschile «varrebbe» circa 6 milioni di euro e quella femminile, meno «retribuita» ma superiore per numero di ore, avrebbe un valore medio di circa 14 milioni.
Adesso, pur con tutti i loro limiti, questi conteggi sono sufficienti per dare una idea della fatica che ogni giorno ciascuno compie dentro il perimetro di casa sua. Ma l’indagine cerca anche di dare un valore al cosiddetto iso-work, cioè alla somma del lavoro pagato sul mercato più la produzione domestica. Ebbene, dalla ricerca viene fuori che uomini e donne di mezzo mondo - dagli Usa alla Germania all’Olanda - dedicano lo stesso ammontare di minuti al lavoro remunerato e a quello domestico insieme, tranne in Italia. La differenza tra i due generi - ben 74,7 minuti in più a sfavore del femminile - costituisce la riprova, in chiave economica, che le donne spesso sommano il lavoro interno e quello esterno, diventando di fatto doppiolavoriste croniche. Ovviamente i numeri non sono in grado di spiegare se, dietro il fenomeno, c’è anche la voglia tipicamente femminile di tenere ogni cosa sotto controllo o se si tratta di una prevalenza per così dire subìta, o involontaria o semplicemente inevitabile.
Ma in casa, per fortuna, non c’è soltanto il lavoro cosiddetto «elementare» che tutti fanno, con più o meno allegria e rassegnazione. Gli esperti cercano anche di catalogare le attività più tipiche all’interno del «focolare». Per esempio, il family-care, cioè la cura che si richiede per mandare avanti la famiglia e la casa in generale, che è parte dell’household production: in Italia, assorbe 29,6 minuti al giorno, grosso modo come la Germania ma assai meno dei 34 dell’Olanda e dei 44,5 degli Usa. Poi c’è la voce shopping, che non significa andare per negozi a comprare vestiti o gioielli, ma è piuttosto la tipica spesa quotidiana di cibo e generi di prima necessità: ebbene, gli italiani sono assorbiti da questa attività per 43,3 minuti al giorno, gli americani per 51,4, i tedeschi per poco meno di un’ora, (57,4). Le donne «vincono» ovunque, dedicando in ciascun paese considerato il maggior numero di minuti per fare compere. Anche qui: è smania consumistica o lavoro aggiuntivo sulle spalle? I numeri non lo spiegano, ma il sospetto resta.
Casa dolce casa, allora? Di sicuro consola vedere che nella graduatoria delle diverse attività quotidiane incorniciate nel perimetro domestico ci sono anche l’ozio e il relax. Ecco allora spuntare la categoria del tempo libero - leisure, in gergo - che in Italia supera le 6 ore e mezzo, cioè esattamente 401.3 minuti al giorno, contro i 334,6 della Germania, i 337,5 degli Usa e i 397,7 dell’Olanda. Ma di nuovo gli uomini, in ciascuno dei paesi esaminati, sono quelli che si trastullano di più: 439,6 minuti contro 367, nel caso dell’Italia. In compenso, dormono di meno: su una media italiana giornaliera di circa 8,2 ore (497.9 minuti, per l’esattezza) il sonno maschile è pari a 496.7 minuti, quello femminile a 499. Dalla graduatoria globale si scopre anche che i più dormiglioni in assoluto sono gli olandesi, seguiti da tedeschi e americani con oltre 500 minuti al giorno.
Quando non si schiaccia un pisolino, c’è la tv. Ecco allora che davanti allo schermo (ma anche ascoltando la radio perché il capitolo è unico), gli italiani passano 101,1 minuti al giorno di media e per questo sono ultimi nella graduatoria. Ma - sorpresa? - 114.5 minuti sono appannaggio degli uomini, 89,1 delle donne.
La vita in casa, valutata in chiave economica. Un lavoro duro che, al dunque, se si volesse fare un paragone internazionale, potrebbe valere più del Pil del Belgio, il doppio di quello della Danimarca, quasi il triplo di quello dell’Irlanda. Ma non c’è ricerca scientifica che calcoli anche quanto vale la «regia» del lavoro domestico, il tempo che si spende per organizzare l’agenda del giorno, per economizzare le energie e i quattrini, per incastrare una cosa con l’altra, quando non sono dieci insieme, per «pensare». Un lavoro nel lavoro, insomma, di cui non c’è ancora - e chissà se mai ci sarà - traccia numerica.
Vautare il costo monetario virtuale del lavoro casalingo delle donne non è solo un esercizio di economia applicata: è la testimonianza “scientifica” di una gigantesca ingiustizia sociale. La nostra evoluta civiltà tollera e incoraggia l’asservimento di un intero genere a un ruolo che non può essere definito che subalterno, poiché è escluso dall’unica valutazione che – nella società di oggi – conta davvero: la valutazione economica. Un ruolo che, per di più, non è scelto, ma è assegnato per default .
Si discusse a lungo di questo negli anni (soprattutto i Sessanta) in cui le riforme non si riducevano ai paradigmi dell’attuale” riformismo”. In quegli anni si iniziava a “riformare” la struttura della società, cioè a cambiarne le regole di fondo. In quegli anni si comprese che, per “liberare” le donne dal lavoro casalingo, bisognava cambiare qualcosa nell’organizzazione della città. Questa doveva essere completata e arricchita da “servizi sociali” che si facessero carico di molte delle mansioni fino ad allora “casalinghe”.
Così nacque la richiesta di asili nido e di servizi sanitari distribuiti sul territorio, di spazi pubblici in misura e localizzazione adeguate: insomma, degli “standard urbanistici”. Così si tentò di sperimentare forme di organizzazione dell’abitare in cui altri servizi collettivi riducessero il peso della gestione domestica e integrassero l’alloggio con i servizi collettivi in una più evoluta concezione della “residenza”.
Queste posizioni raggiunsero alcuni primi obiettivi con la “legge ponte” del 1967 e il decreto sugli standard del 1968, e con le leggi per la casa del periodo immediatamente successivo.
Non mancano, sebbene siano pochi, i libri che raccontano quegli eventi e le ragioni delle sconfitte che seguirono. Queste intervennero quando la “controriforma” nel campo dell’organizzazione della città ebbe il sopravvento, e quando la politica si appiattì sull’economia data, rinunciando al suo ruolo di indicare un diverso progetto di società.
Sull'argomenti si veda su questo sito l' eddytoriale dell'8 marzo 2007, i materiali inseriti in proposito dal sito Tempi e spazi, la relazione di Giovanni Astengo al convegno dell'UDI del 1964.
Il Ministro Rutelli, attribuendo all'incultura dei geometri la responsabilità del degrado urbano, assolve il mondanamente pervasivo diffondersi di una immagine progettuale colta, veicolatasi in campo urbanistico-architettonico dall'ambito mass-mediatico, più affine al mondo della novità effimera della moda e del design che non ai fenomeni di lunga durata della conformazione urbana e assunta acriticamente da pubblici amministratori inclini (a destra e a sinistra) alla politica-spettacolo.
La Finanziaria 2008 stanzierà 550 milioni di Euro per edilizia residenziale pubblica; blando lenimento, dopo dieci anni di carenza, al disagio sociale nello scarto tra redditi medio-bassi e costi di affitto e vendita delle abitazioni; ma dove si attueranno gli investimenti se i comuni hanno pressoché esaurito la capacità insediativa dei piani per l'edilizia economico-popolare dei lontani anni Settanta, e si sono ben guardati, per Io più, dal reperirne di nuova nelle trasformazioni urbane sempre più diffusamente contrattate con le proprietà fondiarie?
Bisognerà, dunque, contrattare con esse quote edificatorie aggiuntive a quelle attese per garantirsi un'adeguata remunerazione della rendita fondiaria oppure dirottarle sull'edificazione delle aree a servizi pubblici previste nei piani regolatori e sinora inattuate (come, già un anno fa, indicava con spregiudicato pragmatismo ai proprietari di quelle aree una delibera del Comune di Milano, più o meno convintamene all'unanimità di maggioranza ed opposizione).
In ambo i casi, abbassando le dotazioni pubbliche programmate, la Vantazione Ambientale Strategica (VAS) disposta da una direttiva europea del 2003 per valutare la sostenibilità di lungo periodo delle attuazioni programmatico-pianificatorie si ridurrà ad un adempimento burocratico privo di efficacia reale.
Non a caso, nel loro intervento del 3 ottobre scorso, Del Monaco e Ottaviano ribadivano la necessità di un programma strategico di trasformazione economico-sociale alternativo quale orizzonte imprescindibile per la sinistra per non rendere il potere di indirizzo pubblico succube dei centri di interesse economico consolidati, esemplificato appunto nei piani regolatori concepiti sulle esigenze dei grandi gruppi immobiliari.
Nel 1967, dopo la lunga renitenza dei comuni a dare attuazione al compito pianiflcatorio-conformativo loro attribuito dalla Legge Urbanistica del 1942, e a seguito della clamorosa frana di Agrigento in cui si materializzarono simbolicamente le diseconomie della mancata pianificazione nello sviluppo urbano, la fase di più attivo riformismo del centro-sinistra originario tentò di dare alla valorizzazione fondiario-immobiliare un miglior e più stabile orizzonte anticongiunturale e di efficacia economico-sociale, a partire dalla cosiddetta Legge Ponte del 1967, in cui si obbligavano i Comuni a subordinare le trattative coi privati almeno alla redazione di un piano insediativo generale e ponendo a carico degli attuatoli immobiliari i costi urbanizzativi (poi via via erosi dall'accondiscendente inerzia di gran parte dei comuni ad adeguarli alla dinamica inflazionistica) giungendo con la Legge Bucalossi del 1977 a chiudere la prassi viziosa di finanziare le spese correnti dei comuni con gli oneri urbanizzativi e introducendo un contributo concessorio (circa il 4% del costo medio di costruzione) destinato al risanamento dei centri storici degradati e al contenimento del costo abitativo.
Un patrimonio di conquiste di un riformismo non imbelle, dispersosi dal 1977 in poi, in nome della rapidità attuativa e delle contingenti necessità economiche, in una serie di provvedimenti deregolatori (Accordi di Programma, Patti Territoriali, Contratti di quartiere, Programmi Integrati di Intervento), che - consentendo agli Enti locali il sempre più pervasivo ricorso alla sommatoria di interventi per lo più proposti direttamente dagli operatori privati in deroga a qualunque obiettivo generale di assetto sostenibile pubblicamente individuato e il ritorno al dirottamento di oneri urbanizzativi e contributo concessorio a sostegno di bilanci correnti sempre più zoppicanti - non solo ne svia l'effetto di investimento anticongiunturale a livello locale, ma condiziona le stesse priorità di pianificazione strategica.
Una condizione, nonostante le accampate pretese di inusitata flessibile innovatività, del tutto analoga a quella praticata dal dopoguerra al 1967.
All'indomani dell'insediamento del Governo Prodi, la rivista specialistica Edilizia e Territorio chiedeva: «nello 'spacchettamento" tra Infrastrutture e Trasporti, chi controllerà FS?» Arguta osservazione: ha senso discutere le priorità del Quadro Strategico Nazionale in Lombardia (ad esempio: Gronda ferroviaria Malpensa-Orio al Serio e collegamenti al progetto elvetico del San Gottardo) se il Comune di Milano da solo è in grado di concordare con FS la destinazione di 900 milioni di Euro di rendite fondiarie con un protocollo d'intesa che massimizza la rendita fondiaria degli scali ferroviari purché la si reinvesta nel Secondo Passante Ferroviario?
E gli investimenti per Expo' 2015 saranno decisi dal Tavolo per Milano o visti in ottica metropolitano-regionale?
Occorrerà una nuova frana di Agrigento (questa volta forse non edilizia ma territoriale, ambientale ed economica) perché il centro-sinistra si renda conto della strada su cui ci si è tornati a mettere?
Qualche giorno fa - l'otto novembre - si è celebrata la giornata mondiale dell'urbanistica. Da Canberra a Vancouver, da Buenos Aires a Shanghai, i documenti e i messaggi che in quella occasione si sono scambiati centri, laboratori e organizzazioni di urbanisti e pianificatori in tutto il mondo hanno sottolineato in modo pressoché unanime un punto: le prossime politiche urbane e territoriali devono assumere pienamente la gravità della questione ambientale e della crisi climatica, così che la disciplina urbanistica possa esprimere proposte analitiche e progettuali conseguenti.
Già da tempo il paradigma della sostenibilità appare, nelle dichiarazioni dei tecnici e dei decisori, il dato strutturante di tutto il settore, e tuttavia queste parole soltanto raramente si traducono in azioni. Lo dimostra, per esempio, l'attenzione suscitata da recenti dibattiti su temi già in declino, quali i «non luoghi», del cui calo ha fornito una interessante interpretazione Massimo Ilardi (in Tramonto dei non luoghi, Meltemi); oppure l'ancor più recente entusiasmo per i «superluoghi» (che in realtà dovrebbero chiamarsi correttamente «supernonluoghi»), megastrutture multifunzionali, la cui presenza domina e condiziona interi ambiti territoriali per le loro dimensioni e il loro impatto; o infine per i nuovi grattacieli, talora mascherati da tentativi, non di rado goffi, di innovazione ambientale («boschi verticali») o energetica (megacontenitori, sì, ma alimentati da sole e vento).
I cantori del gigantismo
Non sono solo i più attenti analisti del territorio, ma anche diversi architetti costruttivisti, quali Rem Koolhaas e Renzo Piano, a evidenziare la contraddittorietà e l'obsolescenza di queste posizioni. La bigness concentra quantità di interessi e capitali tali da prospettare una governance che ha tutti i mezzi per legittimare la propria autoreferenzialità: il peso economico e decisionale di simili operazioni rischia infatti di stravolgere le politiche urbanistiche e le stesse architetture (quelle che Koolhaas ha definito nei suoi scritti pubblicati in Italia per Quodlibet «Junkspace»). Tecnici e decisori sono ridotti al ruolo di cantori (chiamati cioè solo a «disegnare la retorica»), portavoce o facilitatori di operazioni la cui ampiezza suscita grandi quanto banali entusiasmi mediatici.
I problemi sorgono quando tali azioni, programmatiche o progettuali, si scontrano con una domanda sociale, estranea al sistema di governance che li sorregge, e che esprime anzi istanze spesso del tutto diverse, in conflitto con le dinamiche suscitate dai «supernonluoghi». D'altra parte, non solo le operazioni in sé, ma l'intero orientamento su cui esse si basano fa sì che vengano alimentate, e non corrette, le logiche che hanno portato all'attuale crisi ecologica.
I termini della questione ambientale - e in generale la gravità dei problemi prodotti dai modi di funzionamento del «villaggio globale», dalla povertà alle guerre, dagli squilibri al crollo delle relazioni sociali, al depauperamento delle risorse - richiedono una impostazione di fondo realmente innovativa, nonché svolte drastiche nei modi in cui nel prossimo futuro si dovranno strutturare molte discipline, e non soltanto quelle che hanno strettamente a che fare con società e territorio. La svolta dovrebbe insomma presentare caratteri di più profonda radicalità, investendo tutti i livelli della conoscenza. Del resto, proprio la presenza di una simile consapevolezza, che a mano a mano si è diffusa nei vari campi disciplinari di riferimento, ha probabilmente determinato il favore del filone «autosostenibile» o «territorialista» presso gli urbanisti (e non solo).
Avendo in mente come obiettivo la realizzazione di attività sociali sostenibili, che possano efficacemente invertire le deterritorializzazioni in atto, le nuove regole dovrebbero prendere avvio dallo «statuto dei luoghi», dalle relazioni tra valori e caratteri del patrimonio e dalla sua fruizione da parte degli «abitanti-produttori». Molte adesioni di studiosi, appartenenti all'area delle scienze ambientali, sono tuttavia state banalizzate, o addirittura vanificate, perché è stato sottovalutato il rigore con cui vanno individuate e trattate le tappe - vere pietre miliari - del programma territorialista, vale a dire appunto la concatenazione di valori, caratteri, regole e azioni. Le potenzialità di innovazione della proposta possono trovare, infatti, attuazione proprio all'interno di una rappresentazione «consistente» di questo apparato concettuale e nella sua applicazione.
Un paradigma che mal si concilia, se non confligge apertamente, con l'orientamento territorialista è naturalmente quello neoliberista, che tuttora permea molta disciplina economica e territoriale: il concetto di competitività è infatti estraneo (e forse invalidante) rispetto alla possibilità di un utilizzo coerente del mainframe della razionalità autosostenibile. Non va sottovalutata - anzi va considerata in tutta la sua portata - l'assenza di categorie economiche da questo ambito fondamentale di rappresentazione: ne derivano possibili concetti di sostenibilità economica, «da azioni indirette, non economiche»; maggiormente rapportabili, infatti, alle nuove domande di qualificazione territoriale e paesaggistica, piuttosto che alle semplici istanze sociali.
Tentativi disperati
Siamo distanti anche da Keynes, dunque, e figuriamoci dalle politiche territoriali basate sull'offerta di trasformazioni, quali oggi vengono proposte da tanto quadro istituzionale. Va considerato invece il dissolversi, «fino alla liquefazione», di comunità sociali, che possono ricostituirsi - in particolari condizioni e contesti - proprio tra quelle soggettività, talmente capaci o fortunate da «impigliarsi» negli intrecci di valori verticali (si pensi per esempio all'evoluzione del concetto di rizoma in Millepiani). Questo attribuisce maggiore valenza alle componenti più «naturali», ecologico-paesaggistiche, del patrimonio territoriale e restringe, invece, la gamma delle possibili fruizioni sociali: in questo senso lo «Statuto dei Luoghi» quasi coincide con le tassonomie del paesaggio.
Le nuove valenze, attribuibili al paesaggio, sono correlabili alle metamorfosi semantiche che segnano anche altri concetti, per esempio le relazioni tra «città», «sviluppo» o «progresso», che hanno marcato l'intera modernità. Nella postfazione alla nuova edizione dei Vandali in casa di Antonio Cederna (Laterza, pp. 279, euro 18), Francesco Erbani ripropone una simile rassegna di progetti, ma sottolinea che il tentativo degli urbanisti di giungere a una razionalizzazione pianificatoria di qualcosa che sfuggiva loro continuamente di mano - la città - risulta chiaramente disperato. Infatti, le figure che incombono sulla città contemporanea sono la sprawltown occidentale e la megalopoli terzo/quartomondista, due immagini ormai a forte connotazione negativa. Questo dovrebbe indurre molta prudenza «negli entusiasmi progettuali», il cui abuso diventa evidentemente strumentale alla prosecuzione delle dinamiche in atto.
La ricerca Itaten, diretta nel 1996 da Alberto Clementi, Giuseppe De Matteis e Piercarlo Palermo, è stata certamente una delle elaborazioni recenti più importanti sull'urbanizzazione in Italia. Le immagini satellitari di quello studio, ancora una dozzina di anni fa, lasciavano intatta l'ipotesi che il progetto potesse ristrutturare e risostanziare il territorio. Già qualche anno dopo, allorché Arturo Lanzani ha condotto la ricognizione presentata in Paesaggi italiani (Meltemi 2003), tale opzione si era di molto ridotta.
Nelle applicazioni attuali (come risulta dai rapporti «Itater 2020»), gli stessi spazi che si riteneva di poter reinterpretare in termini di sviluppo locale, ancora giocando sul ridisegno di scenario, risultano rozzamente ingombri, drammaticamente degradati. E analoga traiettoria prospetta l'iniziale feeling positivo di Koolhaas per il Junkspace, che adesso fa posto a uno sguardo preoccupato e a una attitudine progettuale minimale.
Oggi la diffusione insediativa americana assomiglia alla città diffusa europea: ambedue hanno cancellato o banalizzato molti valori e risorse del patrimonio ambientale. Sprawltown è dovunque nell'occidente «avanzato». Contemporaneamente nel sud del mondo, da Lagos a Città del Messico, da Shanghai a San Paolo, imperversa Megalopoli, con i suoi slum, le sue miserie, le sue emergenze, i suoi rifugiati e sfollati.
Simboli in decadenza
Qualche anno fa Michele Sernini, studioso appassionato e rigoroso, aveva proposto un titolo forse inconsapevolmente predittivo per uno dei suoi ultimi studi: la città nel dominare il territorio si è disfatta ( La città disfatta, Franco Angeli 1988). E disfacendosi, ha perso la sua identità di simbolo del progresso moderno, come hanno aggiunto altri autori. Dunque le teorie vanno riviste, secondo il lascito di Pierre George. Oggi osserviamo la città consapevoli che il senso di progresso e modernità, evocato da questo termine, si è dissolto.
Forse paesaggio è un nuovo concetto che può «educare alla speranza», anche di un progresso più consono alle istanze contemporanee degli abitanti (non si usa volutamente la parola sviluppo). Allora la «città della Piana», la «metropoli dello Stretto», la «media città toscana», la «megacittà padana», in cui ancora Itaten, dodici anni fa, e Lanzani, qualche tempo dopo, riscontravano un senso di libertà («perché vai a stare nella tua casetta a Dalmine, arrivi quando vuoi e ti sposti con la macchina») come orizzonti positivi, sono tramontate. Lo stesso Lanzani, di recente, ha espresso un'opinione abbastanza diversa.
Di certo più radicali sono i pareri di alcuni sociologi e antropologi che studiano la Padania e si spingono fino a correlare la distruzione dei valori del paesaggio e del territorio e la produzione di ricchezza - comunque in contrazione - da multiabuso, sociale, fiscale e ambientale, alla produzione di violenza intramoenia, anche nell'ambito delle famiglie. La perdita di senso dei luoghi e degli spazi corrisponderebbe e favorirebbe il vuoto e la generazione di mostri nella vita di ognuno.
Il delitto di Perugia è destinato a lasciare una traccia profonda sull´opinione pubblica. È divenuto e resterà argomento di prima pagina, per i giornali, le tivù, i blog. Per i dialoghi di vita quotidiana. Perché riguarda dei giovani, studenti universitari, provenienti da diversi paesi. Perché è avvenuto a Perugia. Interessa molti, tutti. Perché quasi in ogni famiglia c´è un figlio (spesso "unico") o una figlia (unica) che, finite le scuole dell´obbligo, proseguono gli studi. Vanno all´Università. E, sempre di più, si "allontanano" da casa. Si recano in un´altra città.
Dove risiedono, per alcuni anni, per alcuni giorni della settimana, per alcuni mesi l´anno. Per un periodo, spesso, si recano all´estero, dove proseguono gli studi, utilizzando il "programma Erasmus". Per la maggior parte dei giovani l´esperienza universitaria costituisce un passo - non l´ultimo - verso l´età adulta (in una società che non vorrebbe invecchiare). Perugia, sotto questo profilo, è una città speciale. Attraente, per i giovani e le loro famiglie. Perché è di taglia medio-piccola. Bellissima. Tanta storia, arte e cultura, comunicate dal paesaggio urbano. È, dunque, una città piccola, ma con una università qualificata e cosmopolita. Ai genitori suggerisce un ambiente di studio e di vita "sicuro". Agli studenti: una permanenza interessante e divertente. Per questo, episodi drammatici e violenti, come la morte della giovane Meredith, se avvengono a Perugia sorprendono particolarmente. Anche se possono avvenire e, infatti, avvengono dovunque.
Tuttavia, Perugia soffre di una sindrome da "spaesamento", comune a molti altri centri urbani in cui è cresciuta, da qualche tempo, la presenza universitaria. D´altronde, le "città universitarie" di taglia piccola e minuscola sono numerose, in Italia. Soprattutto nel Centro. Nella zona intorno a Perugia. Penso, anzitutto, alla "mia" Urbino: 14.000 abitanti e circa 18.000 studenti, compresi molti stranieri. E poi: Camerino, Macerata. Sull´altro versante: Cassino, Siena. Per limitarci alle università "storiche". Però, negli ultimi anni, si sono moltiplicate. In Italia, attualmente, si contano 94 Università (una quindicina sorte nell´ultimo biennio) e circa 130 Istituti di Alta formazione artistica e musicale. Senza contare le numerose sedi locali. D´altronde, quasi tutti i giovani, dopo le superiori, tentano di conseguire la laurea. Tre anni più, spesso, altri due. Perlopiù lontano da casa. Quasi un rito di passaggio alla conquista dell´autonomia. Come, un tempo, per gli uomini, il servizio militare. Per cui, insieme alle Università, si sono sviluppate vere e proprie "zone" per studenti. Quartieri giovanili. Città nelle città. Anzi, talora la stessa città è confluita nell´Università. Come Perugia. Dove i residenti si sono trasferiti in periferia, dopo aver "ceduto" (o meglio "affittato") il centro storico agli studenti. Così, sono sorte città quasi totalmente abitate da studenti universitari. Dove il commercio, l´economia, l´edilizia, ruotano completamente intorno a loro. Per non parlare dei locali (fast food, pizzerie, birrerie, pub). A Urbino, quando vedi passare uno della mia età, non hai dubbi: o è un turista (ma allora è sbracato e armato di guida) oppure è un docente. Non c´è alternativa. Una città nella città, dicevamo. Però non è esatto. Perché la città, per essere tale, deve avere una popolazione con solidi legami sociali e locali. Radicata e proiettata nel contesto. Una città, per essere tale, deve essere abitata da una popolazione la cui vita è orientata da istituzioni, regole, autorità. Nelle città universitarie ciò non avviene. Gli studenti sono "popolazione" di passaggio. Non hanno radici locali. Né la prospettiva di restarvi per la vita. Pagano affitti alti per un appartamento condiviso con altri studenti. Non lo possono percepire come "casa propria". Case, strade, piazze: per questi giovani di vent´anni, "lontani da casa", sono uno "scenario". Dove trascorrono il tempo, dopo lo studio. E si divertono senza responsabilità. Per contro, gli abitanti "veri" beneficiano di questa situazione, perché la "città degli studenti" è un luogo di consumo remunerativo. Da sfruttare al massimo. Ma, al tempo stesso, ne soffrono. Perché la vita diviene, inevitabilmente, poco sicura. E, al tempo stesso, cara. Mentre si diffondono commerci e traffici illeciti. E crescono il "rumore". La confusione. Il giorno e soprattutto le notti. Che tendono a diventare sempre più "bianche". Sempre più lunghe. Le relazioni fra studenti e residenti, per questo, risultano difficili. Delineano due mondi distinti.
D´altronde, il municipio si occupa, soprattutto, della vita e della sicurezza dei "suoi" residenti. Che, perlopiù, abitano in periferia; all´esterno della "città universitaria". Quindi, le istituzioni intervengono solo di fronte a "eccessi" davvero "eccessivi" (visto che l´eccesso, dove non esistono limiti, diventa norma). Il problema maggiore diventa non di "polizia", ma di "pulizia". Visto lo stato miserevole in cui restano strade e piazze, dopo alcune "feste", particolarmente riuscite. Le autorità di Ateneo, da parte loro, si occupano di quel che avviene dentro alle aule e alle mura dell´università, durante gli orari di svolgimento delle attività accademiche. Università e istituzioni procedono, perlopiù, senza incrociarsi. Così, gli studenti appaiono quasi apolidi, privi di cittadinanza. L´idea del "campus" americano, spesso evocata, qui non regge. Perché negli Usa il campus è direttamente governato dall´Ateneo. Uno spazio pensato e organizzato per gli studenti. In funzione della loro formazione, della loro vita e della loro sicurezza. Nelle "città universitarie", invece, i giovani sono affidati, principalmente, alla regolazione dei consumi e del mercato. Non funziona, per loro, neppure il vincolo sociale e comunitario. Perché non sono una società e neppure una comunità. Ma una umanità immersa in relazioni, in larga parte, transitorie. Fitte ma senza impegno. Pensiamo ai personaggi principali della tragica vicenda di Perugia. La vittima: Meredith, una giovane inglese. Le persone coinvolte: Amanda, giovane statunitense; il suo ragazzo, Raffaele, pugliese; infine, Patrick, il musicista congolese. Insomma: un mondo sperduto nel contesto locale. Un glocalismo senza radici, senza legami sociali e comunitari, come ha osservato Francesco Ramella. Un retroterra che, certamente, non può venir considerato la "causa" di episodi tragici, come questo. Ma li rende possibili, spiegabili. Così come, più che altrove, alimenta i casi di depressione. Che, talora, sfociano nel suicidio. I giovani. Lontani dalla famiglia, dalle istituzioni, dalle regole. In un ambiente dove le occasioni di "evasione" sono diffuse; dove i "limiti" si perdono. Sono più vulnerabili. Esposti a momenti di depressione. Solitudine. D´altronde, sono studenti. Debbono rispettare scadenze, "compiti", esami. Perché, va precisato, l´impegno loro richiesto dall´Università è rilevante. Ma la distanza fra l´Università e la vita nella "città universitaria" diviene, talora, una frattura. E può generare fallimenti molto dolorosi. Perché minano l´autostima dei giovani. E il loro rapporto con i genitori. Che investono molto sui loro "figli unici", dal punto di vista finanziario e del progetto familiare.
Queste "città universitarie": non sono città. I quartieri studenteschi delle medie e grandi città. Non sono quartieri. Sono "zone senza sovranità". Senza autorità. Senza comunità. Un po´ centro commerciale, un po´ villaggio turistico, un po´ "pub diffuso". Verrebbe da evocare quelli che Marc Augé definisce i "non-luoghi". Ma ci sembra improprio. Perché questi "luoghi" hanno un´identità e radici storiche profonde. Solo che i "nuovi" residenti ne sono estranei. Peraltro, si tratta di ambiti dove le persone intrattengono relazioni fitte. Ma, perlopiù, temporanee, poco impegnative. Meglio, allora, parlare di "luoghi apparenti", popolati da una "gioventù apolide". "Città artificiali" in cui cresce una generazione di "non-cittadini".
ASSISI - Basta con «l’Italia dei geometri». Basta con lo sviluppo senza una «regia». Se la cementificazione in Italia avanza non è solo colpa dell’aumento del valore degli immobili e della necessità dei comuni di fare cassa, ma anche il risultato di errori commessi nel passato. Della mancanza di una progettazione di lungo respiro. Dal convegno di Assisi organizzato dal Fai, il Fondo per l’ambiente italiano, "Sos ambiente: aggiornarsi per intervenire", il ministro per i Beni e le attività culturali Francesco Rutelli ha puntato il dito contro «la fragilità della pianificazione e la scarsa qualità della progettazione affidata in passato a geometri piuttosto che ad architetti e urbanisti». Fattori che hanno portato a uno sviluppo anarchico del paesaggio, come nel caso delle centinaia di villette a schiera della Sardegna. E Rutelli ha promesso il «pugno di ferro» contro chi danneggia il territorio. La qualità del paesaggio deve essere un valore, «comprometterla è la più grave minaccia al nostro patrimonio e alle nostre attività culturali», ha detto il ministro.
Ma al convegno, che ha riunito le delegazioni del Fai di tutta Italia per fare un quadro delle politiche in atto e degli strumenti disponibili, il ministro ha anche dovuto accogliere l’appello allo Stato a essere presente negli interventi di tutela che viene da regioni ed enti locali. Come quello fatto da Luca Rinaldi, soprintendente per i Beni architettonici e per il paesaggio di Brescia, Cremona e Mantova, che dice: «Non ci si può più fidare della pianificazione urbanistica regionale. Soprattutto nelle regioni che sono a forte speculazione edilizia, come la Lombardia, tocca allo Stato intervenire per proteggere il paesaggio». Questo è stato chiesto per l’Abbazia benedettina di Maguzzano, in provincia di Brescia, che sorge su un centinaio di ettati di terreno e rappresenta uno dei pochi luoghi incontaminati sulle rive del Garda. Lo scorso anno nella stessa zona era stata bloccata la costruzione di ville di lusso intorno al Castello a Moniga del Garda.
Per proteggere il paesaggio si deve «stimolare l’uso della consapevolezza e tornare al fascino delle regole», ha suggerito nel suo intervento Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente del Fai. Esempio positivo è quello della Sardegna che dal settembre 2006 ha un piano paesaggistico e che ha aumentato il trasferimento di fondi agli enti locali del 43% «per contenere la speculazione sugli introiti dell’Ici e degli oneri di urbanizzazione», dice l’assessore regionale Gian Valerio Sanna.
Eppure i problemi non sono solo causati dall’economia del mattone, perché se questa fa crescere il cemento anche altri fattori continuano a «deturpare» il nostro paese. Nelle aree urbanizzate - racconta Costanza Pratesi, responsabile dell’Ufficio studi del Fai - assistiamo alla crescita di «nebulose di edificazione diffusa», per cui le città si irradiano nelle campagne senza un disegno, ma in quelle meno urbanizzate sale il numero dei capannoni a uso industriale. Nel 2005 in Italia ne sono stati costruiti 7044, 826 solo in Veneto. E ancora lo sfregio delle coste e l’abusivismo edilizio «che continua a essere una piaga». Precisa Fulco Pratesi, fondatore del Wwf: «Delle 331mila abitazioni costruite in Italia nel 2006, 30mila erano abusive».
Da molto tempo abbiamo iniziato su queste pagine a criticare la rinuncia dello Stato a esercitare le sue responsabilità nelle questioni per le quali esiste una competenza nazionale indivisibile. Le modifiche costituzionali del 2001 e la sudditanza culturale alle posizioni di Bossi che l’intero centro-sinistra ha espresso nella sua interpretazione della sussidiarietà sono state al centro delle nostre critiche. Basta scorrere gli eddytoriali (ad esempio, tra i più recenti, il n. 97 e il n. 91), o il termine sussidiarietà nel Glossario, o gli articoli e i saggi di Luigi Scano.
Apprezziamo molto, e condividiamo, le posizioni espresse al convegno del FAI a proposito della critica alla delega incondizionata alle regioni, e il riconoscimento del buon lavoro della Regione Sardegna (sui due versanti: l’esercizio della tutela mediante la pianificazione del paesaggio, e il sostegno ai comuni che vogliono sopravvivere senza essere costretti dalla finanza statale a cementificare il loro territorio).
Vogliamo osservare però che non è sufficiente che “dal basso” degli operatori sul territorio e delle associazioni culturali e ambientalistiche si rivendichi l’esercizio dell’autorità dello Stato. Occorre anche che chi decide (gli uomini della politica, come l’on. Rutelli) si adoperi per attrezzare lo Stato a esercitarle: attrezzarlo culturalmente (cominciando a criticare le posizioni “sviluppiste”), politicamente (smettendo di rincorrere oogni aspirazione separatista di ogni nicchia di voti), e tecnicamente (cominciando a dotare del minimo di competenze valide le strutture del potere pubblico). Finchè questo non sarà fatto, apparirà come una mera elusione ed evasione il prendersela con i geometri e auspicare che su di loro prevalgano gli architetti (o magari, con un volo pindarico, gli urbanisti).
MILANO - Il "bel riguardo", quel "bello sguardo" che si apriva ai Visconti prima e agli ufficiali napoleonici quattro secoli dopo dal castello di Bereguardo, ora rischia di dissolversi per sempre. Il comune pavese ha bisogno di liquidità. Il maniero visconteo deve difendersi ora dalle infiltrazioni, le scuole non bastano più ad accogliere gli alunni che arrivano anche dai paesi vicini e il sindaco, Maurizio Tornielli, guarda oltre l´orizzonte, a nord, dove s´indovina la grande città, Milano. «Dista 30 chilometri di autostrada. Siamo a dieci minuti dalla fermata metro di Famagosta. A un milanese conviene vendere l´appartamento in città e comprare la villetta qui: arriverà prima al lavoro e gli avanzeranno anche un po´ di soldi da investire». Tornielli ha la sua spiegazione del perché i Comuni privilegino l´espansione residenziale: «I trasferimenti dallo Stato si assottigliano. E si ventila anche la diminuzione dell´Ici. Dove prenderemo i soldi? I piccoli comuni che necessitano di opere pubbliche non hanno alternativa se non l´aumento indiscriminato delle cementificazioni».
Sebbene nel 2007 ci sia stata un´inversione di tendenza - i trasferimenti sono aumentati del 4,2 per cento - i timori di Tornielli non sono infondati. Uno studio dell´Anci avverte che «la principale fonte di entrata tributaria dei comuni è l´Ici». In quelli con meno di mille anime arriva al 57 per cento. Rispettare il patto di stabilità è più duro per un paesino, dice Secondo Amalfitano, presidente dei comuni "under 5000" dell´Anci: «Lo scuolabus per pochi bambini costa molto di più, in proporzione, che nelle città». A spingere verso l´opzione cemento, suggerisce l´urbanista del Politecnico di Milano Paolo Pileri, è stata la decisione di «liberalizzare», tre anni fa, la destinazione dei soldi incassati dai Comuni per le nuove urbanizzazioni: «Prima potevano essere usati solo in minima parte per le spese correnti, ora non più. E la tentazione di ricorrere all´espansione edilizia per realizzare asili è forte».
Centinaia di paesi rischiano di venire inghiottiti dalle città, che estendono ormai le loro lingue di cemento anche in altre regioni. «I milanesi vanno a vivere nel Piacentino o nel Novarese», avverte Mario Breglia dell´osservatorio "Scenari immobiliari". Tra il 2001 e il 2005, calcola il Cresme, centro di ricerche per l´edilizia, l´esodo dalle aree metropolitane è stato inarrestabile. Napoli è scesa sotto il milione di abitanti, l´hinterland ha toccato quota 2,1 milioni. L´entroterra romano si è arricchito di 130mila abitanti, arrivando a 1.280mila. A Milano la Provincia tenta di ridurre il consumo di suolo - che Legambiente vuol ridurre per legge - ormai a livelli stratosferici: in alcuni comuni sfiora il 100 per cento. Quelli che conservano ancora un po´ di campagna, come Pozzuolo Martesana o Rosate, rischiano di diventare periferia. I comuni di pianura satelliti delle città registrano un boom demografico. San Giorgio al Piano, nel Bolognese, ha acquistato dal 2005 mille abitanti, arrivando a 7700. E tra Ici e oneri nelle casse sono entrate 2,2 milioni di euro. Ora, però, avverte il sindaco Valerio Gualandi, «la gente si spinge verso il Ferrarese: cerca case ancora meno care». Negli ultimi dieci anni in Italia, calcola il Cresme, si sono prodotti 3 miliardi di metri cubi di cemento. E altro ne arriverà nelle isole Tremiti, dove vivono 60 famiglie e gli ambientalisti contestano 70 nuove case popolari. «Ma è il nostro primo piano regolatore - replica il sindaco Giuseppe Calabrese - e il nostro bilancio è di 800mila euro: la metà se ne va per smaltire i rifiuti».
A Parma l’amministrazione di centrodestra insiste, tenace, per stravolgere l’antica zona, centralissima, della Ghiara che sta fra la mole farnesiana della Pilotta e il fiume Parma. Luogo di mercato all’aperto, di fiere, di tornei equestri e di commerci minuti, di socializzazione popolare fin dal 1180, e poi, in modo stabile, dal 1827 con le Beccherie realizzate per la illuminata Maria Luigia d’Austria dal bravo architetto Nicola Bertoli (purtroppo distrutte, improvvidamente, nel 1929). Prima il sindaco Ubaldi, poi il suo successore, e quasi discendente di tanta stirpe, Pietro Vignali si sono applicati a un maxi-progetto cementizio che prevede lo sfondamento di un terzo della piazza.
Il motivo? Ricavare un primo piano scoperto nell’interrato e altri due piani sottoterra per magazzini e garage. Una tettoia molto evidente dovrebbe poi alzarsi oltre il parapetto del Lungoparma. In un primo tempo si pensava anche di passare sotto i resti del ponte romano della Ghiara “valorizzando” ben bene anche quel manufatto. Poi, in un soprassalto di pudore, ci si è rinunciato. Essendo il tutto in project financing, è chiaro che, al di là dei 25 milioni di euro dell’appalto, comunque succulenti, bisogna comunque dare all’operazione, tutta privata, un rendimento, un profitto piuttosto sostenuto.
L’amministrazione di centrodestra si è mossa con molta sbrigatività sloggiando subito i banchi di vendita tradizionalmente presenti e gli ambulanti e dando vita ad uno strano pre-contratto di assegnazione senza avere ancora acquisito alcun parere da parte delle due Soprintendenze competenti. E qui è cascato l’asino. Nel senso che la pratica di Ubaldi-Vignali è finita dove doveva finire - Parma è un valore planetario e il suo centro antico è sempre più ammirato - cioè all’esame dei Comitati di settore del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Quello per i Beni storico-artistici ha pensato bene di inviare nella capitale dei Farnese un suo “scout” di valore come il professor Carlo Bertelli, noto storico dell’arte, già soprintendente a Brera. Il quale è tornato portando con sé una ricca documentazione, anche fotografica. Per dire un no secco al maxi-progetto in project financing e sì, invece, ad una riqualificazione “leggera” di quest’area: con «un flessibile moderno mercato mobile», scrive Bertelli, «dove gli esercenti abbiano garantiti i luoghi dove caricare e scaricare, i magazzini e le rimesse delle auto», con una «occupazione temporanea, e non definitiva, dello spazio aperto». Come si è fatto, con criteri aggiornati, in altre piazze di mercato tradizionalissime, per esempio a Campo de’ Fiori al centro di Roma. “Andare in Ghiara”, era un’espressione tipica nella parlata dei popolani di Oltretorrente che si recavano, al di là del ponte, nel cuore della Parma dei palazzi nobili, ma pure dei mercati, ancor oggi estesi, il mercoledì e il sabato, dalla Stazione ferroviaria a piazza Verdi, «fino a congiungersi (cito sempre il professor Bertelli) con il mercato stabile». Ma «l’area di Piazza della Ghiara», nota lo studioso, «si distingue per il suo carattere radicato di centro del commercio al minuto».
Già, ma i due sindaci di centrodestra si sono forse preoccupati, prima di lanciarsi nella discutibile impresa, di interpellare i cittadini e soprattutto i più diretti interessati, cioè i commercianti della Ghiara parmigiana? Neanche per idea. Hanno pensato loro per tutti. Allora la meritoria associazione cittadina Monumenta, presieduta dall’avvocato Arrigo Allegri, ha fatto, nell’estate scorsa, quello che il Comune - forse distratto, chissà - non aveva pensato di fare, ha cioè distribuito un limpido questionario in oltre 150 copie per verificare su quello opinioni e opzioni. E qui l’asino è cascato un’altra volta. Nel senso che appena sette dei commercianti fissi della piazza interessata hanno detto di approvare il maxi-progetto della Giunta di centrodestra. Mentre il 93 per cento l’ha sonoramente bocciato. Risultato analogo fra gli ambulanti del mercato bisettimanale: su 43 interpellati, appena due i favorevoli, 18 i contrari e, in questo caso, un po’ più le schede bianche (23). Ma, insomma, bocciatura secca su tutta la linea.
A questo punto però l’amministrazione si era già lanciata nella demolizione dei box, nel pre-contratto milionario (senza aggiudicazione e col rischio di dover sborsare 1.050.000 euro, soldi di tutti, a quel punto), nel mandare allo sbaraglio, cioè via dalla Ghiara, boxisti e ambulanti. E quindi non le restava che prendersela fieramente con le Soprintendenze parmigiane, col Ministero (e quindi con la “solita Roma”), colpevoli di ritardare un così illuminato e “gradito” progetto, scagliando anatemi contro l’associazione «Monumenta», giocando persino la carta di un “diffida”, condita da gratuiti insulti ai membri del Consiglio Superiore. La colpa non è di chi ha forzato tempi e procedure, ma di chi vuol vederci chiaro in un progetto pesante che interessa una zona storicamente strategica del centro storico di Parma. Possibile che prima Ubaldi e poi Vignali ignorassero che esistono normative rigorose intonate all’articolo 9 della Costituzione e quindi procedure per la tutela che portano i progetti fino ai Comitati di settore del Consiglio Superiore dei Beni Culturali? Non le ignoravano. Tant’è che nello strano bando di gara è stata inserita la clausola in base alla quale l’aggiudicazione avrebbe avuto luogo compatibilmente col benestare delle Soprintendenze. Può darsi però che si illudessero che i tempi fossero ancora quelli “dolci” del ministro Giuliano Urbani di Forza Italia, il quale “epurò” di forza lo stesso Consiglio Superiore e poi, di fatto, lo tenne chiuso per anni. Ma con Rutelli quell’organismo, composto da competenti di vaglia, c’è ed è stato riportato in onore. Sul mega-pasticcio della Ghiara di Parma non sono possibili ambigue mediazioni. La questione va risolta al più presto nel senso previsto, con rigore e con chiarezza, dai Comitati di settore: con un investimento assai più modesto e più rapido, dotare di infrastrutture e servizi leggeri piazza della Ghiara, come chiedono commercianti e ambulanti e restituirla agli stessi.
«Pensare a parcheggi sotterranei nelle vostre città storiche», ha sentenziato di recente sir Richard Rogers, gran consulente di Tony Blair, «è una pura idiozia. Noi, a Londra, negli ultimi quarant’anni non abbiamo creato, neppure un parcheggio sotterraneo». I londinesi vanno a piedi, in bus, in metrò e in bicicletta. A Parma, si sa, la bicicletta va ancora, alla grande, ben più che a Londra.
Sono ormai decenni che architetti e urbanisti non riescono a parlare d'altro che di luoghi del movimento e luoghi del commercio. Di tanto in tanto emerge timidamente un rigurgito di interesse per l'abitare, il monumento, le carceri, lo spazio del lavoro, ma nel giro di pochissimo tempo ogni discorso viene ricondotto ai fatidici outlet, centri commerciali, stazioni e aeroporti, i contenitori per eccellenza degli stili di vita contemporanei. Sostenitori e denigratori si muovono costantemente dentro lo stesso quadro logico: alcuni dicono che questi luoghi sono prodotto ed espressione del postmoderno, sono gli elementi che disfano materialmente e concettualmente la città compatta; altri sostengono che consumano suolo, sono privi di qualità architettonica, sono il frutto della deregulation urbanistica. In sostanza, è vero che questi luoghi modellano e alimentano il predominio del suburbano sull'urbano.
Ai primi, lontani apprezzamenti di Robert Venturi, Charles Moore o Rayner Banham, intenti a demolire pezzo per pezzo il dogma modernista, si sono sovrapposti nel tempo infiniti commenti, chiose, provocazioni, polemiche. Alla fine del XX secolo le definizioni più autorevoli del problema, se così lo si vuole intendere, hanno coinciso con i celeberrimi «non luoghi» di Marc Augé e con il junkspace di Rem Koolhaas. In entrambi i casi l'entusiasmo veniva fortemente ridimensionato a favore di una cupa descrizione dello stato di fatto, e tuttavia la forza dell'argomentazione derivava ancora dall'attacco nei confronti dell'utopia novecentesca, dall'evidenza di una realtà che è lì, davanti agli occhi di tutti, e che è inutile nascondersi.
Il catalogo della mostra bolognese La civiltà dei superluoghi (a cura di Matteo Agnoletto, Alessandro Delpiano, Marco Guerzoni, Damiani 2007) si situa esattamente sul filo di questa tradizione: con un nuovo nome, connotato in maniera positiva dal prefisso «super», si sancisce per l'ennesima volta il successo (soprattutto in termini numerici) di questi luoghi del contemporaneo, e si ribadisce la necessità di inglobarli nelle politiche cittadine.
Non a caso, nel corso del dibattito che ha affiancato la mostra, Vittorio Gregotti ha parlato di «estetica della constatazione»: senza troppe circonlocuzioni, schierandosi a favore della città finita, del vivere associato, del piano regolatore, ha lanciato un energico appello contro questa condanna alla passività. Incredulo rispetto al lunghissimo trascinarsi della animosità rivolta (ormai senza costrutto) contro l'autoritarismo e le contraddizioni della Carta di Atene o delle linee rette di Le Corbusier e Mies van Der Rohe, poco più che ricordi sbiaditi nella pratica odierna, Gregotti si è chiesto come sia possibile insistere ancora su quel disimpegno che è stato prima teorizzato in nome del cinismo edonista anni '80, poi rivendicato in forma di denuncia contro i fantasmi del politically correct. Un discorso di chiarezza esemplare, quasi impossibile da respingere.
La resa dell'architettura all'esistente
A parte i pochi fanatici che ancora provano il brivido della trasgressione entrando in un Mac Donald o al Serravalle Outlet, la matrice vessatoria, repressiva, coattiva di questi spazi e del genere di vita che inducono è evidente a chiunque abbia un minimo di buon senso. Centinaia di film, saggi, romanzi di Ballard e della quasi totalità degli scrittori americani sotto i quarant'anni raccontano in tutte le possibili varianti gli effetti collaterali di questi territori postmoderni. Eppure, nelle argomentazioni di Gregotti è contenuta anche la chiave del fallimento in pectore di una chiamata alle armi: quello che sembra definitivamente impossibile accettare è che la soluzione provenga dall'architettura. Un ritorno alla qualità del progetto, a larga come a piccola scala, per quanto auspicabile non ha la minima possibilità di influire su un processo di matrice economica, sociale e politica che consiste nella appropriazione dello spazio pubblico, inteso nel senso più ampio, come effetto del macrosistema della rendita immobiliare.
L'equazione tra spazi commerciali (che in definitiva comprendono sempre di più anche tutte le stazioni, gli interscambi, e i luoghi del trasporto) e sistemi non pianificati è una contraddizione in termini. Il real estate pianifica in maniera molto più rigida e pervasiva di quanto qualsiasi sistema pubblico si sia mai sognato di fare, e il fenomeno non è certo limitato alle aree periferiche delle metropoli.
«È strano come si parli ancora di successo della città diffusa come sistema di villette unifamiliari e grandi scatoloni commerciali, quando almeno in Italia le statistiche ne mostrano il declino già da qualche anno - diceva Stefano Boeri, anche lui presente al dibattito. Molto più sensato sarebbe preoccuparsi di un fenomeno prettamente urbano, che per fortuna non ha ancora preso molto piede da noi, come le catene commerciali, fondate su un sistema di monitoraggio - ai limiti della violazione della privacy - delle abitudini dei consumatori e sulla installazione di negozi superstandardizzati in pieno centro, calibrati al centimetro sui profitti calcolati a monte. È il dispositivo che ha plasmato praticamente tutti i centri urbani nordeuropei e nordamericani».
La forza monumentale del tessuto storico delle nostre città non è, ormai appare chiaro, un vaccino contro questo genere di politiche, ma anzi contiene in sé la polpetta avvelenata che spalanca tutte le porte: il turismo. La soluzione è altrove.
Forse non è dato trovare, nella storia della cultura italiana, una figura così profondamente divisa come quella di Emilio Sereni. Da una parte il dirigente politico, il combattente non privo, talora, di durezze dottrinarie. Dall’altra lo studioso d’alto rango, l’indagatore infaticabile, dotato di immensa e ineguagliabile erudizione, lo storico che ha lasciato studi fondamentali alla cultura italiana. Quelle due personalità hanno dato vita a due mondi diversi e talora lontanissimi, ancorché tenuti insieme da un filo tenace. Difficilmente oggi il lettore poco informato sulla biografia di Sereni, potrebbe indovinare dei nessi tra opere come Comunità rurali nell’Italia antica (1945) o Città e campagne nell’Italia preromana (1966) oppure ancora La circolazione etnica e culturale nella steppa eurasiatica. Le tecniche e la nomenclatura del cavallo (1967), e il dirigente del Partito comunista. Ma la comune matrice marxista, dello studioso e del militante, si articolava in spazi e territori diversi, così che le durezze dottrinarie potevano stemperarsi nello storico di mondi vasti e lontani, mentre continuavano a ispirare l’azione politica del dirigente.
Una cospicua messe di ricerche di storia antica – dispersa in tanti saggi talora incompiuti – mostrano un Sereni capace di padroneggiare una molteplicità stupefacente di fonti. E in questo «gran spaziare nei territori costituitivi della storia dell’umanità» - come ha scritto Renato Zangheri - lo studioso è andato disegnando i frammenti di una vasta e mai compiuta storia universale dell´agricoltura, lasciando agli studiosi repertori fecondi di fonti e di interpretazioni.
Si farebbe tuttavia torto a Sereni e alla sua dottrina, se si volesse interpretare il suo marxismo come un ostacolo a una moderna e profonda comprensione della storia. Benché appesantito qua e là da forzature è al suo marxismo che dobbiamo quella che è la prima grande storia delle campagne italiane. Il capitalismo nelle campagne (1947), in effetti, costituisce una geniale interpretazione dei "caratteri originali" del capitalismo italiano. Quel testo coglieva a mio avviso un carattere costitutivo della storia italiana, destinato condizionare la futura evoluzione del nostro Paese: il peso spropositato della rendita fondiaria sull´impresa agricola e soprattutto sul lavoro contadino. Quell’elemento originario pesa ancora oggi nella cultura nazionale sotto la forma dell’indifferenza diffusa degli italiani nei confronti dell´ambiente e dei suoi problemi. I proprietari terrieri, redditieri abitanti in città, non hanno mai guardato alla natura, cioè alla campagna, se non a un luogo da cui cavare beni e danaro. Mentre le varie generazioni di contadini, una volta inurbate, hanno guardato al loro passato agricolo, come una vicenda di feroce sfruttamento e miseria, da cancellare nel cemento della città.
Il marxismo non ha impedito a Sereni di comporre la Storia del paesaggio agrario italiano (1961). Grazie a quella ricostruzione si può dire che per la prima volta le campagne italiane hanno perduto la loro indeterminatezza di luogo neutro della produzione agricola per assumere le forme del paesaggio, un ambito dotato di linguaggi e di singolari valori estetici. Il giardino mediterraneo, la piantata padana, l’alberata tosco-umbro-marchigiana, sono diventati quadri peculiari del territorio agrario. Un paesaggio, quello italiano, segnato da una infinita varietà di forme, degradanti, tra innumerevoli habitat, dalle valli alpine sino terre subtropicali della Sicilia. Sereni ha ricostruito questa "seconda natura" - come Goethe definiva la strutturazione del territorio operata dai romani - in modo singolare, privilegiando le fonti iconografiche. Come in un raffinato divertissement egli ha voluto rappresentare le forme artistiche delle nostre campagne – frutto del genio anonimo dei contadini – attraverso le testimonianze dei grandi pittori italiani. Quasi a voler sottolineare la sacralità storica del nostro paesaggio, immenso patrimonio di un’arte irripetibile che oggi è in mano ad eredi dissipatori e vandalici.
UDINE. «Solo illazioni sulla Regione Friuli Venezia Giulia». Sdegno e irritazione sono palpabili. All’indomani della pubblicazione delle intercettazioni nell’ambito dell’inchiesta sulla tangentopoli lignanese, dalla giunta regionale del Friuli replicano gli assessori citati nelle conversazioni «ascoltate» dagli inquirenti. Il vicepresidente Gianfranco Moretton e l’assessore alle attività produttive Enrico Bertossi in testa.
Non ci stanno e denunciano la completa estraneità alla vicenda, ripetendo di non avere mai conosciuto né incontrato i quattro intercettati. Vale a dire l’avvocato Massimo Carlin, agli arresti domiciliari, il direttore tecnico del Comune di Lignano, Andrea Mariotti, tuttora in carcere. Così come l’avvocato Fulvio Lorigiola e Sandro Fasulo, collaboratore della Stefanel. «Apprendo dalla stampa odierna di essere citato, assieme ad altri assessori regionali, in un colloquio registrato tra indagati per fatti a me assolutamente estranei», ha detto ieri mattina l’assessore regionale alle Attività produttive Enrico Bertossi. «Preciso - ha continuato - che non ho mai incontrato, mai conosciuto e mai sentito parlare di questi signori. Non conosco nemmeno il progetto oggetto dell’inchiesta. Altrettanto vale per i miei uffici. Il mondo è pieno di millantatori e faccendieri, che da me non vengono mai né ricevuti né ascoltati. Per il resto possiamo solo rimetterci alla correttezza e alla responsabilità di chi consegna ai giornali i testi delle intercettazioni e a quella dei giornali che li pubblicano. Naturalmente provvederò a immediate querele nei confronti di chi illecitamente utilizza il mio nome per fini a me totalmente estranei», ha tagliato corto l’assessore.
Dello stesso tenore sono anche le poche parole rilasciate dal vicepresidente della Giunta regionale Gianfranco Moretton: «Non conosco queste persone, non le ho mai incontrate, nè conosco il progetto di cui si parla. Ho dato incarico al mio avvocato di adire alle vie legali se ci sono gli estremi».
L’obiettivo del gruppo erano dunque gli assessori chiave della Regione. Forse per millantare amicizie, o per convincere qualcuno che servivano spinte per portare a compimento l’operazione Stefania, la trasformazione dell’area di 88 ettari di proprietà della Stefanel, alle porte di Lignano, in area edificabile; e l’ampliamento del campo da golf. I «signori» ai quali fa riferimento l’assessore Bertossi sono i protagonisti della registrazione fatta dagli inquirenti nello studio dell’avvocato di Portogruaro Massimo Carlin, ex consulente del Comune di Lignano, finito agli arresti domiciliari per la bufera delle presunte tangenti; con lui in ufficio ci sono pure il collega di foro Fulvio Lorigiola e i consulenti della Stefanel Sandro Fasulo e Rino Guzzo. Venerdì, nella riunione della Giunta regionale, un altro assessore, Lodovico Sonego, responsabile di infrastrutture e viabilità, pure tirato in ballo in questi giorni, ha spiegato di aver ricevuto nel suo ufficio Fasulo prima delle vacanze estive. Sonego ha precisato di averlo ricevuto come fa sempre, e cioè con le porte aperte. Ha ascoltato la richieste - «l’ospite ha esordito dicendo che il suo mandante desidera ampliare il campo da golf che già possiede in adiacenza all’area, ma che il programma è impedito da una previsione urbanistica che prescrive una strada che starebbe nel mezzo» -, in particolare la volontà di sottoscrivere un accordo di programma urbanistico con la Regione «finalizzato allo spostamento del tracciato della strada». Ma seppur concordando sull’ampliamento del golf, l’assessore ha spiegato che modifiche urbanistiche del genere competono al Comune, e ha negato l’accordo di programma, «perchè la Regione ha l’abitudine di non fare mai intese di tale natura su proposta di privati», ma esclusivamente «su iniziativa di soggetti pubblici».
VENEZIA. Tangenti a Nordest, obiettivo Regione nell’operazione Stefania. Nel mirino dei due «principi del foro» Fulvio Lorigiola e Massimo Carlin e dei consulenti della Stefanel Sandro Fasulo e Rino Guzzo c’è anche la Giunta regionale del Friuli Venezia Giulia. «...io in Regione avevo attivato tutti e poi arrivo e scopro che manca questa», dice Fasulo riferendosi del mancato invio della delibera comunale di Lignano riguardante l’intervento dell’operazione Stefania.
La circostanza è la «riunione strategica» avvenuta nello studio dell’avvocato Massimo Carlin in agosto. E’ la riunione che serve a pianificare la strategia per accelerare e far approvare, prima della Pasqua del 2008, il progetto relativo all’area della società Stefania a Lignano.
Attivare la Regione. I quattro parlano liberamente, non sanno di essere intercettati dai carabinieri. Dice Fasulo riferendosi a Carlin e Lorigiola: «...non è che vi metto sul banco degli imputati, sia chiaro, siccome avevamo attivato tutti i canali possibili ed immaginabili in Regione, a partire dal Presidente della Regione, voglio dire... e mi scoccia arrivare lì e scoprire...». Alle rimostranze di Fasulo, l’avvocato Carlin risponde mostrando di condividere che la situazione deve essere rissolta al più presto. Precisa l’avvocato: «Lei ha ragione, anche perchè devo dire che la particolare attenzione e condivisione che ha questa giunta..., su questo intervento, è da cavalcare e cavalcare alla grande». A sostegno di quanto afferma il collega interviene Lorigiola che osserva: «Anche perchè in politica il vento qualche volta cambia e quindi bisogna aprofittare di questo...bisogna prevedere...». Ed ecco allora che Carlin fa il quadro su cui loro sono convinti di contare in Regione. «.... però il fatto che in fin dei conti Sonego (Lodovico Sonego, assessore regionale alla Pianificazione Territoriale ndr), è assessore dei Ds, non è mica assessore dell’Udc, voglio dire, e quindi uno si tira giù a Roma... qua invece c’è Moretton (Gianfranco Moretton, vice presidente della Regione della Margherita ndr), che dà una mano, c’è coso... quello che diventerà, che tenterà di diventare ma diventerà sindaco di Udine... come si chiama... l’ex presidente della camera di commercio... che è assessore regionale adesso, che dà una mano, perchè ha bisogno degli appoggi per diventare sindaco di Udine...». Il riferimento è al trasversale Enrico Bertossi. Intanto ieri l’assessore regionale del Friuli Lodovico Sonego ha confermato di aver incontrato Sandro Fasulo che gli ha spiegato l’intervento della Stefanel a Lignano. Ma se per l’ampliamento del campo da golf la linea della Regione era favorevole, per quanto concerne la realizzazione di un albergo e di seconde case per un volume di duecentomila metri cubi sarebbe stato un intervento che politicamente non sarebbe mai passato.
Il riconoscimento alla persona giusta. E’ sempre Carlin a parlare: «Il ruolo che sta svolgendo, che può svolgere e che svolgerà la persona che sappiamo, sappiamo, è un ruolo non dico decisivo, perchè nessuno è decisivo, ma estremamente importante per voi, per noi, per tutti dentro l’operazione!». Per questo ci vuole un riconoscimento per la persona che non è difficile individuare in Andrea Mariotti, il tecnico del comune di Lignano arrestato mentre incassa 10mila euro da Carlin. «...perchè la vicenda della strada si era un po’ imbambolata e poi lui l’ha incanalata, allora adesso... già all’epoca ma in questi ultimi tempi in maniera più insistente, mi dice... io riterrei che, senza grandi pretese, insomma, un riconoscimento personale vorrei averlo», continua Carlin che aggiunge: «...non amo parlare col portafoglio altrui... rispetto all’entità della partita è un’indicazione contenuta....». A quel punto s’inserisce Fasulo che è convinto che Mariotti sia già stato pagato: «Come avevo un po’ accennato anche a te Fulvio ieri... che io ero convintissimo e questo in realtà è testimoniato voglio dire anche da voi, che determinati interventi fatti andavano anche a beneficio di questo signore».
L’imbarazzo di parlare della mazzetta. «Personalmente devo dire che non... non mi sembra che abbiamo mai detto né con lei né con altri una cosa del genere...», spiega Carlin. Gli fa eco Lorigiola: «... diciamo che questo è stato un argomento sempre toccato, passatemi il termine, di striscio». Perchè stando a Carlin: «E’ sempre delicato parlarne e imbarazzante».
Poi Lorigiola spiega di aver mandato una mail a Guzzo, Nel quale precisa i compensi per sé e per Carlin: 250mila euro a testa. Che Guzzo crede siano comprensivi di tutti gli interventi. Mail data da Guzzo anche a Tito Berna. Sentito dagli inquirenti Berna, ad della Stefanel, avrebbe confermato di essre stato a conoscenza del pagamento di mazzette. E chissà se anche Giuseppe Stefanel ha confermato questo.
Quella volta di Caorle. Vecchi amici Carlin, Lorigiola e Guzzo. Infatti lavorarono insieme anni addietro in occasione dei «comparti centrali». Parla sempre Carlin: «... mi facesti un ragionamento... partendo da Caorle, dai comparti centrali... dove il signor Guzzo era tra i protagonisti... e mi dicesti... c’erano delle cose là... erano altri anni, c’era anche una divisa diversa... e portato alla divisa di adesso, agli anni di adesso le tue... potrebbero arrivare a due e cinquanta...».
In questa occasione che Carlin riconosce a Lorigiola il copyright del «rito padovano» introdotto anche nel Veneziano. Era il 1997 e secondo Carlin Lorigiola doveva chiedere di più proprio per il copyright. Durante la chiaccherata Carlin afferma di aver creduto che i «politici» del Comune fossero controllati dalla società. Nella discussione che nasce sull’operato di Mariotti, Fasulo sostiene che ha il «braccino corto», che rallenta il lavoro. Tutti convengono che è «burocratizzato».
Accelerare perchè dopo «se magna». Fasulo ha la necessità di velocizzare l’operazione. Tutta la documentazione deve essere pronta prima della Pasqua 2008. Bisogna prendere l’esempio dell’intervento per la realizzazione, tre anni fa, di una piscina e di un palasport, sempre a Lignano, in occasione di Eiof, i giochi europei della gioventù. A questo punto interviene Guzzo che dice: «perchè lei abbia dei step... sarebbe opportuno che avvocato allora...dieci adesso e il resto all’obiettivo». E Carlin aggiunge: «alla fine si fa...la fine è la delibera della Giunta regionale che approva l’accordo di programma». E Fasullo chiosa: «Dividiamo il pollo». Al che l’avvocato Lorigiola compiaciuto commenta: «E dopo se magna!».
Città antica, passeggiata nel futuro
Katia Ghilli, Il Tirreno, ed. Piombino-l’Elba, 29 settembre 2007
Un’anima moderna per la “città antica”, dove al posto degli ex licei, costruiti alla metà del secolo scorso, nascerà una residenza turistico-alberghiera con una concezione architettonica di ultima generazione e di respiro europeo. Al posto delle ex officine Ipsia ci sarà una biblioteca dove girare liberamente tra gli scaffali, prendere un libro usando la tesserina magnetica, oppure guardarsi un film, mentre tutt’intorno si respira il profumo della saggezza. Anche qui antico e moderno si fondono: le mura leonardiane saranno quelle di una parte della biblioteca, verrà valorizzato il vecchio chiostro cinquecentesco, ci sarà un grande giardino pensile che collegherà il centro storico con via Leonardo da Vinci.
Sono questi i tratti essenziali del programma d’intervento dal titolo “Città antica” che è stato presentato giovedì scorso all’interno della sala conferenze di via Cavour. «Per questo restyling - spiega l’assessore all’urbanistica Luciano Francardi - abbiamo pensato d’inserire il nuovo nell’antico, come altre realtà hanno già fatto, ad esempio Parigi, con la piramide di cristallo vicino al Louvre. Vogliamo che questi luoghi tornino a vivere, a essere una sorta di agorà, dove ritrovarsi e discutere».
Nella sala della biblioteca, affollata di gente, cala il buio ed appaiono immagini e planimetrie di come sarà la nuova biblioteca alle ex officine Ipsia e di come verranno trasformati la piazzetta dei Grani e gli ex-licei. La platea ascolta con attenzione l’architetto Salvatore Re dello studio di architettura “Leonardo” di Pisa, incaricato della progettazione. Ed in particolare misura ogni parola usata per spiegare come diventerà la piazza con i tre piani interrati di parcheggio (che “inghiottirà” le auto solo da un lato per limitare al massimo rumori e traffico), dove nasceranno nuove piccole aree per il commercio al dettaglio.
Quando in sala tornano le luci riprende il dibattito: alcuni rappresentanti del comitato del centro storico contestano l’idea di fondo del progetto, non piace la concezione moderna del grande albergo che sovrasta la piazzetta, dei nuovi negozi con vista mare, della possibilità di doversi comprare i parcheggi per avere un posto auto. C’è chi fa notare che il Comune dovrebbe invece farsi promotore, tramite le banche, di un progetto di ristrutturazione del centro storico, a carico dei singoli privati, attraverso prestiti a tassi agevolati.
Comune e progettista respingono le accuse, ricordano che in questo spicchio di centro storico c’è ben poco di antico e di pregiato, a parte il cuore delle ex officine Ipsia. Viene anche ricordato che il piano integrato d’intervento è uno strumento urbanistico dove i privati si mettono in rapporto con il privato per realizzare progetti di grande interesse pubblico. Martedì prossimo il progetto approda in consiglio comunale per l’adozione.
«Piazza dei Grani, quel progetto non ci piace»
Il Tirreno, ed. Piombino-l’Elba, 1° ottobre 2007
All’associazione “Dentro le mura”, costituita dagli abitanti del centro storico, il restyling di piazza dei Grani così come è stato presentato venerdì scorso dagli assessori Francardi e Dell’Omodarme, proprio non piace. Critiche oggettive al progetto, ma anche ai modi e ai tempi della presentazione, pochi giorni prima del suo approdo in consiglio comunale, che lo discuterà appunto domani.
«Sono stati noncuranti dell’opinione dei cittadini che vivono nell’area di ristrutturazione - dice l’associazione - Alle contestazioni dei cittadini che spiegavano i loro dubbi e chiedevano quindi ulteriori spiegazioni gli assessori hanno risposto con leggerezza sostenendo che quello è il progetto e così verrà fatto».
E Il progetto? «Il cittadino - dice “Dentro le mura” - ha il diritto di sapere costa sta accadendo, ha il diritto di capire e di chiedere modifiche. E noi che viviamo qui dobbiamo solo accettare le decisioni prese dai vertici? Dov’è il secondo progetto da poter confrontare? Forse costa? Ma questo crediamo non sia un problema per l’amministrazione comunale da quello che abbiamo visto, un progetto così esoso ed esasperato poteva essere ben sostituito da un paio di progetti molto più umani e vivibili anche per noi e non solo per chi deve venire, legati a storie antiche e al ritorno di quella realtà che con passione possiamo ricostruire».
Per l’associazione «i cittadini non sono degli sciocchi creduloni, anzi capiscono tutto e sono sempre pronti a collaborare. Facciamo comunque i complimenti all’architetto per il fantasioso e creativo progetto della futura biblioteca, vista da noi armonica con la nostra città e ai suoi abitanti e così potrebbe essere in tema tutto il resto».
«Non riusciamo a capire - psoegue l’associazione - perché ci presentano progetti quando tutto è stato ormai deciso. L’indignazione è alta, per noi è come se qualcuno fosse entrato in casa nostra e avesse spostato tutte le nostre cose senza chiederci il permesso. Purtroppo è sempre più spiacevole constatare che il cittadino sempre più deluso, riprovi ogni volta a collaborare con l’amministrazione comunale per poi rendersi conto che non c’è concertazione».
Così “dentro le mura” chiede alla giunta «di rimandare l’adozione del progetto perché tutto ciò è poco democratico e palesemente troppo già deciso», e di riprendere «il dialogo con i cittadini, che ne hanno tutto il diritto. E se rispettate i vostri elettori dovreste concederlo».
L’associazione “Dentro le mura” fa sapere infine di essere già al lavoro sul progetto e sulle schede tecniche, annunciando anche di valutare l’ipotesi «di coinvolgere i comitati di Asor Rosa” che di recente sono intervenuti sulla realizzazione di una Residenza turistica nella zona di Fonte di sotto, a Campiglia.
Progetto Città antica nella bufera
Il Tirreno, ed. Piombino-l’Elba, 2 ottobre 2007
«Cittadini esclusi dalle scelte e progetti già decisi, procedure poco chiare». L’impressione emersa dall’incontro pubblico del Comune sulla “Città antica” anche secondo il Forum della democrazia. «Un titolo - si aggiunge nel documento - smentito dal progetto presentato dall’assessore Francardi e dall’architetto Re a proposito della ristrutturazione del complesso biblioteca-liceo-piazza dei Grani, che propone costruzioni moderne a carattere commerciale e residenziale con soluzioni architettoniche contrastanti con il valore storico del sito, riducendo la vivibilità di un luogo molto importane per i piombinesi». Al Forum «non sembra qualificante per l’immagine di Piombino costruire un residence nel suo centro storico, demolendo gli edifici esistenti per ricostruire appartamenti e attività commerciali, mentre si dovrebbe tutelare un luogo come piazza dei Grani, che rappresenta un collegamento storico e ideale tra la città e il suo mare».
«Sembra urgente evidenziare - si puntualizza - che il piano di recupero “città antica” pone, ancora una volta, un problema di democrazia. Non si può presentare un progetto secco, senza alternative, e appena quattro giorni dopo adottarlo in consiglio. Perché questa fretta? Qual è il ruolo del privato? È stato chiesto il parare della Soprintendenza? Sarebbe stato più normale coinvolgere i cittadini nell’elaborazione, anziché chiamarli a cose fatte. La partecipazione dovrebbe essere un metodo utilizzato da amministrazioni democratiche, invece si ha paura della partecipazione, come se essa fosse una complicazione o rischiasse di mettere in crisi interessi e decisioni già prese».
«Di fronte alle critiche emerse nell’incontro e alla contrarietà degli abitanti del centro storico - si conclude - invitiamo il sindaco e la giunta a sospendere l’adozione del progetto, a mettere il piano a disposizione dei cittadini e ad aprire una discussione sul futuro di questa importante parte della città».
Oscar Mancini. Una moratoria per il Dal Molin, L’Unità, 28 settembre 2007
«Nessuna deroga alla lotta fatta solo con le armi dell'amore e della non violenza».
Lo scrivono ventun autorevoli parroci vicentini contro il Dal Molin.
“E' gelo tra il sindaco e la curia” titola la notizia il più diffuso quotidiano cittadino. Vicenza.
Ancora Vicenza: che fastidio! Con tutti i problemi che ha questo governo ci mancava la ripresa del movimento contro la costruzione della nuova base americana.
E' bastato un vuoto di notizie di qualche mese per rimuovere il tema dall'agenda politica. Eppure, piaccia o no, è fin troppo facile prevedere che non passerà molto tempo prima che i riflettori tornino a riaccendersi sulla città del Palladio.
Il grande appuntamento è fissato per il 15 dicembre. Per quella data il movimento “NO DAL MOLIN” ha indetto una manifestazione europea.
Come risponderà la politica? AN e Lega non hanno dubbi: “La manifestazione deve essere fermata” hanno intimato al Ministro Amato, pena assistere impotenti alla calata dei “Lanzichenecchi da tutta Europa”.
Un rigurgito autoritario di chi spera negli incidenti per poi criminalizzare tutto il movimento.
Un movimento composito, eterogeneo, trasversale, percorso al suo interno da una dialettica tutt'altro che trascurabile. Ma nei momenti cruciali, le varie anime del movimento hanno sempre saputo mettere l'accento sul suo carattere unitario, plurale, pacifico.
Molti l'hanno definito “movimento comunitario” che riassume ed interpreta una domanda di partecipazione insoddisfatta.
Una relazione frustante con la politica e lo stato, per dirla con Ilvo Diamanti. Fra lo stato centrale e la periferia, ci spiegano i federalisti. Ma soprattutto, io penso, rispecchia le difficoltà del centro-sinistra di capire e di farsi capire.
Nessun membro del governo, dopo oltre un anno e mezzo di lotte, ha mai sentito il dovere di incontrare le rappresentanze dei cittadini, di aprire un canale di comunicazione.
In questo contesto, appare ancor più meritevole la scelta compiuta da una folta delegazione dei parlamentari europei e nazionali della “sinistra italiana” di mantenere aperto il dialogo con la città.
L'incontro promosso nei giorni scorsi dai gruppi parlamentari della Sinistra Democratica, dei Verdi, di Rifondazione e dei Comunisti italiani è stato una proficua occasione di dialogo con tutte le anime del movimento.
Un confronto non sempre facile, soprattutto con l'ala più radicale del movimento, ma indispensabile per mantenere aperto un canale di comunicazione con la rappresentanza politica e istituzionale.
Quanto mai necessario alla vigilia della marcia Perugia Assisi sulla quale è calato quest'anno un silenzio assordante: “Forse il movimento della pace è invisibile?” si chiede furente Flavio Lotti. Noi a quella marcia ci saremo per ricordare che la base militare di Vicenza, rischia di diventare una delle più grandi basi operative del Mediterraneo, destinata ad ospitare aerei e truppe in partenza per ogni fronte di guerra in Medio Oriente.
Che la nuova base comporta ricadute ambientali, sociali e urbanistiche gravi per la città e pone seri problemi di vivibilità per la cittadinanza, che si è schierata apertamente contro la decisione.
Che la base di Vicenza è un importante e inquietante aspetto di una progressiva escalation militare in Europa. I recenti dibattiti sull'installazione dello “scudo missilistico” in Repubblica Ceca e Polonia hanno aperto una riflessione più ampia sulla natura democratica dei processi decisionali delle strategie di politica estera e di difesa europea nel sistema di alleanze con la NATO e gli Stati Uniti d'America.
É in atto una pericolosa corsa agli armamenti, una preoccupante inversione rispetto al percorso di smilitarizzazione dei territori europei, condivisa e decisa insieme alle comunità locali.
Non è dunque con una strategia di “riduzione del danno” che il governo potrà dialogare con Vicenza. Il commissario Paolo Costa se ne faccia una ragione.
Una via d'uscita ragionevole ci sarebbe: una moratoria.
Magari accompagnata dalla riduzione delle spese militari nella finanziaria 2008, più che giustificata, considerati gli aumenti della finanziaria precedente. Sarebbe un buon viatico per un governo in preoccupante caduta di consenso. Una moratoria potrebbe restituire un poco di fiducia nelle istituzioni.
Si consideri che la maggioranza dei vicentini ha disertato le urne alle recenti elezioni provinciali. Una moratoria almeno fino alle prossime elezioni comunali è più che giustificata.
Il vicepresidente del Consiglio Rutelli, qualche settimana fa, ha giustificato lo sciagurato “editto di Bucarest” con il via libera del Consiglio Comunale di Vicenza. Quel Consiglio Comunale è delegittimato. Lo riconosce lo stesso sindaco quando afferma che la maggioranza dei vicentini è contraria alla base.
Manca meno di un anno alle elezioni. Il governo ne potrebbe uscire senza perdere la faccia.
Vicenza e l'Italia custodiscono una grande ricchezza d'impegno diretto per la pace e la democrazia che non può essere ignorata per presunte superiori ragioni di stato.
Al contrario, sono convinto che quell'enorme capitale umano, costituito dai cittadini che si battono per la pace, quelle indomite energie che da una piccola città di provincia si sono sprigionate riscuotendo simpatia in Italia, in Europa e finanche negli USA, potrebbero aiutare la politica estera del nostro paese e renderla più forte di quanto non sia.
Peppe Sini,Una storia semplice, Supplemento “Coi piedi per terra” n. 33 del notiziario “La nonviolenza e’ in cammino”. 1 ottobre 2007
So che è inelegante, ma devo chiedere al cortese lettore e alla gentile lettrice non solo di voler dedicare la loro attenzione a quanto di seguito si narra, ma di voler arrivare fino in fondo, e di trarre da quanto qui esposto le conclusioni che ne discendono.
Poiché qui si allineano dei fatti, e si demanda alla chiara intelligenza e alla volontà buona di chi legge di trarne le conseguenze logiche e pratiche.
Un comitato, alcuni nomi
Esiste un “Comitato per l’aeroporto di Viterbo”. Ne è presidente l’avvocato Giovanni Bartoletti, ne è vicepresidente il signor Stefano Caporossi, ne è segretario il signor Maurizio Pinna. Questo comitato ha un sito internet ( www.aeroportoviterbo.it) che presenta molti materiali propagandistici.
Giovanni Bartoletti è un dirigente locale di Alleanza Nazionale. Stefano Caporossi è presidente della V circoscrizione di Viterbo, di Alleanza Nazionale. Maurizio Pinna è consigliere della V circoscrizione, di Alleanza Nazionale.
Un’impresa, alcuni nomi
Esiste - o è esistita - con sede legale a Roma una società denominata “Mediterranea Skyward Aviation”. Nel sito tuttora visitabile ( www.mswa.it) nella home page essa si presenta così: “Mediterranea s.r.l. è una società di servizi aeronautici che svolge attività di intermediazione...”. E più innanzi: “La società svolge anche attività di lavoro aereo, aerotaxi, voli sanitari e fornisce servizi di consulenza prevenzione incidenti ed assistenza legale, investigativa e peritale aeronautica per il tramite di uno studio associato ad essa collegata...”.
Nel medesimo sito, alla pagina web “Chi siamo” si legge “Siamo un team di operatori aeronautici che si è costituito in società per fornire servizi di avanzata specializzazione in particolare nei campi dell’organizzazione, della regolamentazione, della formazione professionale, della sicurezza del volo e del diritto aereo, avvalendosi di collaboratori esterni di larga esperienza nazionale ed internazionale. Alla Società fa capo un Amministratore Unico”. Segue l’organigramma: “Amministratore Unico Dott. Bruno Barra; Pilota Av. Commerc. Dott. Emilio Gentile; Pilota Av. Gen. Stefano Caporossi; Avvocato Giovanni Bartoletti; Revisore dei conti Massimo Liberati; Pilota Istruttore Av. Commerc. Roberto Niutta”.
Il dottor Bruno Barra ha ricoperto incarichi direttivi e di responsabilità sia presso unità periferiche che presso organi centrali della Difesa ed ha partecipato alla fase riorganizzativa dei servizi di Assistenza al Volo in Italia (1979-’82) presso il Commissariato per l’Assistenza al Volo del Ministero dei Trasporti dove ha ricoperto l’incarico di responsabile dell’Ufficio ispezioni ed inchieste; è stato assessore alla Provincia di Viterbo di Alleanza Nazionale, nonchè presidente dell’Ater (ex-Iacp) di Viterbo in quota Alleanza Nazionale. A lungo dirigente di Alleanza Nazionale, nell’ottobre 2006 è passato da Alleanza Nazionale a Forza Italia. Da fonti di stampa (“Il messaggero” del 10 ottobre 2006) si apprende che non sarebbe più amministratore unico della Mediterranea srl. Bartoletti è lo stesso Bartoletti di cui sopra.
Caporossi è lo stesso Caporossi di cui sopra.
Un’associazione, e il suo presidente
Esiste a Viterbo, come in tante città d’Italia, un Aeroclub di appassionati del volo. Ne è presidente da anni Stefano Caporossi. Lo stesso Caporossi.
La finanziaria di Berlusconi e un senatore viterbese
Nella Finanziaria 2005 dal governo Berlusconi, attraverso l’emendamento di un senatore viterbese, Michele Bonatesta, di Alleanza Nazionale, vengono previsti oltre tre milioni di euro per l’aeroporto di Viterbo.
Due delibere della giunta comunale: la prima...
In data primo dicembre 2005 il Comune di Viterbo con delibera di Giunta n. 743 avente a oggetto: “Realizzazione degli interventi infrastrutturali per il completamento dell’apertura al traffico civile dell’aeroporto militare di Viterbo - impegno alla subconcessione di aree e manufatti in favore della Mediterranea Skyward Aviation srl” (presenti oltre al sindaco Giancarlo Gabbianelli - di Alleanza Nazionale - tutti gli assessori, tranne Marco Maria Bracaglia - che rappresenta il Comune nella società pubblica Savit spa, costituita da Comune, Provincia e Camera di Commercio di Viterbo per gestire l’aeroporto), dopo aver premesso che “sono da tempo state avviate le attività preliminari finalizzate alla ristrutturazione dell’aeroporto militare di Viterbo al fine di consentirne l’apertura al traffico civile; che conseguentemente e con riferimento a quanto previsto dall’art. 1 commi 28 e 29 della Legge 30.12.2004 n. 311 (legge finanziaria 2005) relativamente ad interventi diretti a promuovere lo sviluppo sociale ed economico del territorio, con decreto 18.3.2005 del Ministero dell’Economia e delle Finanze il Comune di Viterbo è stato individuato come beneficiario di un contributo statale finalizzato alla realizzazione delle opere necessarie per consentire l’apertura al traffico civile dell’aeroporto militare;”... “rilevato altresì che sull’aeroporto di Viterbo, stante l’esiguità del sedime disponibile, le uniche aree adatte per la realizzazione delle opere finanziate ricadono in maggior parte su quelle già pre-assegnate - a seguito dell’istanza in tal senso presentata il 16.10.2003 - dall’Enac alla società Mediterranea Skyward Aviation s.r.l. di Roma al fine di avere una base operativa sulla piazza di Viterbo;”... decide infine di “assumere, pertanto, l’impegno a concedere alla Mediterranea Skyward Aviation s.r.l. di Roma in subconcessione, a valore nominale da definirsi a tempo debito, le stesse aree precedentemente richieste dalla società in concessione all’Enac, unitamente - non appena eseguiti - ai manufatti che ivi insisteranno in tutto o in parte”. Sottolineiamo: “unitamente - non appena eseguiti - ai manufatti”.
... e la seconda
Subito dopo, con delibera di giunta n. 744, sempre del primo dicembre 2005, avente a oggetto “Realizzazione degli interventi infrastrutturali per il completamento dell’apertura al traffico civile dell’aeroporto militare di Viterbo - impegno alla subconcessione di superfici in favore dell’Aero Club di Viterbo”, la Giunta Comunale di Viterbo (sempre tutti i medesimi presenti, con l’assenza di Bracaglia), fatte analoghe premesse e “rilevato altresì che sull’aeroporto di Viterbo, stante l’esiguità del sedime disponibile, le uniche aree adatte per la realizzazione delle opere finanziate ricadono in parte su quelle già concesse all’Aero Club di Viterbo e destinate ad uffici e sede”, delibera infine di “assumere, pertanto, l’impegno a concedere all’Aero Club di Viterbo in subconcessione, sulla base di un valore nominale da definirsi in seguito, le stesse superfici di uffici...”.
Il sindaco, la sua coalizione e un po’ di storia
Il sindaco Giancarlo Gabbianelli è stato per molti anni principale dirigente viterbese del Msi, ed a lungo ha svolto il ruolo di consigliere d’opposizione in Consiglio comunale; governa ora da anni la città con una coalizione che comprende, oltre ad Alleanza Nazionale, Forza Italia e l’Udc: dell’Udc attualmente è magna pars in Consiglio comunale quel Rodolfo Gigli detto Nando già sindaco di Viterbo, presidente della Regione, poi anche parlamentare, che è stato per decenni il vertice operativo del sistema di potere andreottiano a Viterbo (mentre Rodolfo Gigli attualmente è nel centrodestra, il fratello Ugo - direttore dello Iacp, ora Ater, di Viterbo - è stato negli ultimi anni e fino a tempi recenti assessore alla Provincia nella coalizione di centrosinistra, e il ventennale delfino di Gigli nella Dc e anch’egli già sindaco di Viterbo Giuseppe Fioroni è attualmente Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Prodi; sulle vicende del sistema di potere andreottiano nel viterbese e sulla penetrazione mafiosa a Viterbo nei decenni del potere andreottiano si vedano varie pubblicazioni di chi scrive queste righe e riassuntivamente almeno Modello di sviluppo, sistema di potere, penetrazione mafiosa, Viterbo 1989; Il caso Gigli-Icem, Viterbo 1991; Regime della corruzione e penetrazione dei poteri criminali nell’Alto Lazio, Viterbo 1993; Sistema di potere andreottiano e penetrazione dei poteri criminali a Viterbo. Dieci note bibliografico-documentarie, Viterbo 1995).
Dieci mesi dopo
Passano dieci mesi dalle due delibere. E ne devono essere successe di cose. In Alleanza Nazionale viterbese continua una lotta interna senza esclusione di colpi che si prolunga da molti anni. Barra passa fragorosamente da Alleanza Nazionale a Forza Italia.
Il 2 ottobre 2006 su precedente richiesta dei gruppi consiliari di opposizione si riunisce in Comune la seconda commissione consiliare permanente per ascoltare i vertici della Savit. Dopo l’incontro i gruppi consiliari di opposizione (tutto il centrosinistra) diffondono un comunicato, pubblicato sul sito informativo locale “Tusciaweb” il 4 ottobre 2006, in cui tra l’altro si afferma che “la giunta Gabbianelli - con un atteggiamento politico unilaterale - di fatto ha espropriato la Savit di un ruolo effettivo” e si chiede “che senso ha avviare una procedura amministrativa unilaterale, tortuosa e discutibile, di impiego delle risorse pubbliche disponibili (tre milioni di euro ex Finanziaria 2005) su aree in sub-concessione di terzi privati al di fuori di una programmazione coerente con gli impegni societari e parasociali sottoscritti in ambito Savit?”.
Già, che senso ha? Se i consiglieri comunali d’opposizione si sforzano un po’, forse ci arrivano.
Sul quotidiano “Il messaggero” dell’8 ottobre 2006 compare una dichiarazione di Michele Bonatesta, non più senatore dopo le elezioni dell’aprile 2006, ed in guerra aperta con il sindaco Gabbianelli; nell’articolo siglato Re. Vi. si riferisce che “Dopo aver tuonato in lungo e in largo nei giorni scorsi, ieri Bonatesta ha investito gli assessori Antonio Fracassini (Lavori pubblici) e Marco Maria Bracaglia (Bilancio) al grido: ‘Dimettetevì. E il motivo è presto detto: quella delibera del dicembre 2005 con la quale Palazzo dei Priori subconcede alla società Mediterranea Skyward Aviation aree e manufatti dello scalo, che è, a suo dire, il presupposto amministrativo per dirottare sulla società di Stefano Caporossi i tre milioni di euro, inseriti nella Finanziaria 2005 proprio grazie a un emendamento presentato... dall’ex parlamentare”. E la dichiarazione di Bonatesta si conclude con le seguenti parole: “Noi non abbiamo nulla - conclude Bonatesta - contro la Mediterranea: i privati perseguono i loro legittimi interessi alla ricerca del massimo profitto, anche se a volte non possono coincidere con quelli della collettività. Il problema sorge quando sono gli amministratori a non apparire in grado di garantire gli interessi altrettanto legittimi del proprio territorio e dei propri amministrati”. Che detto dal senatore che fece inserire nella Legge Finanziaria quei tre milioni e passa di euro è davvero una esternazione alquanto interessante. E c’è di più.
Intermezzo: come si scrivono le leggi finanziarie
Replicando a Bonatesta sul “Messaggero” del 10 ottobre 2006 quel Barra di cui sopra (e che nell’articolo che ospita la sua replica viene definito “già amministratore unico della Mediterranea”) rivela che dell’emendamento Bonatesta - quello che stanziava oltre tre milioni di euro per l’ampliamento dell’aeroporto di Viterbo - “avevo curato il dispositivo tecnico”. Non c’è bisogno di tradurre in lingua corrente.
Il sindaco rivendica
Ci si aspetterebbe che il sindaco di Viterbo respingesse con sdegno l’esplicita accusa di aver di fatto esautorato la società pubblica Savit (di cui il Comune è socio al 33% insieme a Provincia e Camera di Commercio che detengono anch’esse un pari numero di quote ciascuna), e di averlo fatto a vantaggio di una società privata di cui sono magna pars esponenti del suo stesso partito.
E invece il sindaco di Viterbo in una intervista apparsa sul quotidiano “Il messaggero” del 31 ottobre 2006 alla soave domanda del giornalista: “Ma quella di far gestire i fondi a una società vicina ad An, e non alla Savit, è una mossa autoreferenziale”, risponde serafico: “È l’unica società che ha un sedime vicino all’aeroporto”. Più chiaro di così.
E subito aggiunge: “Ma nessun timore: sia per la gestione che per l’ultimazione verranno effettuate gare d’appalto europee. E già sono arrivate le prime richieste. Anche perchè, lo ripeto: Viterbo diventerà a breve un aeroporto per voli low cost”. Si noti: “per la gestione” e “per l’ultimazione”. E si noti ancora: “sono arrivate le prime richieste”. Nei giorni successivi seguono flebili commenti di altre figure istituzionali, la riunione pacificatrice che non si nega a nessuno, e nessuno più fiata.
L’amministratore imprenditore
In un intervento apparso l’11 dicembre 2006 sul sito d’informazione locale “Tusciaweb” Stefano Caporossi dapprima premette che “parlo da amministratore e nella qualità di imprenditore”, e poi prosegue “Sono presidente dell’Aeroclub da quattro anni; frequento l’aeroporto quotidianamente in quanto sono il responsabile di una scuola di volo per il rilascio delle licenze commerciali per piloti di linea... La pista di oltre 1500 metri è stata ultimata e può essere aperta all’aviazione generale per consentire l’atterraggio dei velivoli civili...”; poi elenca varie opere da realizzare e gli ingentissimi finanziamenti necessari “per conferire allo scalo aeroportuale la completa capacità operativa senza alcuna limitazione”, successivamente “annuncia la possibilità di ufficializzare la nascita della società Mediterranea Air Service...”, e trionfalmente conclude: “Il mio impegno... sarà quello di collegare inizialmente Viterbo con alcune regioni italiane ed europee...”.
La morale della storia
La realizzazione a Viterbo di un mega-aeroporto per i voli low cost del turismo “mordi e fuggi” per Roma provocherebbe gravissimi danni all’ambiente, alla salute delle persone, a rilevanti beni storico-culturali, sociali, economici.
Eppure certi propagandisti pro aeroporto, certi imprenditori pro aeroporto, certi pubblici amministratori e dirigenti politici pro aeroporto, sostengono che non c’è motivo di preoccupazione, che tutto va bene. Ed insistono perchè l’opera si realizzi al più presto, perchè si attinga al pubblico erario per ingenti finanziamenti.
Forse attraverso le brevi, fredde notizie che abbiamo allineato sopra (che ovviamente sono una minima parte della documentazione disponibile e di pubblico dominio) si capisce anche perchè.
[Peppe Sini, già consigliere comunale e provinciale, è stato tra gli anni ‘70 e ‘90 uno dei principali animatori del movimento che si opponeva alle servitù energetiche e militari nell’Alto Lazio, e il principale animatore del movimento che si oppose al devastante progetto autostradale della cosiddetta “Supercassia”; nel 1979 ha fondato il Comitato democratico contro l’emarginazione che ha condotto rilevanti campagne di solidarietà; nel 1987 ha coordinato per l’Italia la campagna di solidarietà con Nelson Mandela allora detenuto nelle prigioni del regime razzista sudafricano; nel 1999 ha ideato, promosso e realizzato l’esperienza delle “mongolfiere della pace” con cui ostacolare i decolli dei bombardieri che dalla base di Aviano recavano strage in Jugoslavia; nel 2001 è stato l’animatore dell’iniziativa che - dopo la tragedia di Genova - ha portato alla presentazione in parlamento di una proposta di legge per la formazione delle forze dell’ordine alla nonviolenza; è stato dagli anni ‘80 il principale animatore dell’attività di denuncia e opposizione alla penetrazione dei poteri criminali nell’Alto Lazio; dal 2000 cura il notiziario telematico quotidiano “La nonviolenza è in cammino”]
Alberto d’Argenio, “Stop agli aerei che inquinano”
L’Ue riduce le emissioni di gas serra. Ma è scontro con Usa e Cina, La Repubblica, 1 ottobre 2007
BRUXELLES - Nuova puntata dello scontro sul cambiamento climatico tra Europa e Stati Uniti. Questa volta a scatenare la battaglia è stato il taglio delle emissioni dell’aviazione civile: gli Usa, spalleggiati da Australia e Cina, hanno guidato l’ammutinamento del resto del mondo contro la proposta Ue di applicare tetti vincolanti alle emissioni di Co2 nel settore aereo, provocando un muro contro muro che nei prossimi anni sfocerà in guerra aperta.
Il Vecchio continente, infatti, entro il 2012 metterà le compagnie aree extracomunitarie di fronte ad un bivio: o accetteranno la lotta al cambiamento climatico o non potranno più volare sui nostri cieli. Una posizione che Bruxelles ritiene giustificata dall’atteggiamento dell’amministrazione Bush, che anche nei negoziati sull’era successiva al Protocollo di Kyoto rifiuta l’adozione di target vincolanti nel taglio delle emissioni.
Lo scontro sui cieli è andato in onda a Montreal, dove nelle ultime due settimane le delegazioni provenienti da tutto il globo hanno partecipato all’assemblea dell’Organizzazione internazionale per l’aviazione civile (Icao). Da un lato erano schierati i governi dell’Ue, appoggiati dagli altri 15 paesi della Conferenza europea dell’aviazione, tra cui Svizzera, Norvegia e Islanda, dall’altro il fronte anti-ambientalista, guidato da Usa, Australia, Cina e Arabia Saudita. Al centro dei negoziati c’era la strategia europea per applicare agli aerei di linea uno schema di emissioni come quello previsto da Kyoto, un tetto ai gas inquinanti da imporre alle compagnie Ue a partire dal 2011 e dall’anno successivo a quelle del resto del mondo che operano in Europa. La misura si inserisce nella strategia dell’Unione contro il surriscaldamento del pianeta (e i cataclismi che ne deriveranno), il cui obiettivo è quello di contenere l’innalzamento delle temperature entro i 2 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale. E il settore aereo è chiamato a fare la sua parte, visto che già oggi contribuisce al 3% delle emissioni nocive, una percentuale destinata a lievitare con l’aumento del traffico aereo, che raddoppierà entro il 2020.
«Siamo delusi dal risultato delle trattative e pensiamo che l’Icao abbia abdicato alla sua leadership nella lotta al cambiamento climatico, un fatto che ci preoccupa molto», ha commentato il portoghese Luis Fonseca de Almeida, rappresentate dell’Unione nei negoziati di Montreal. In effetti nella risoluzione finale adottata nella città canadese dei target obbligatori al taglio delle emissioni si parla solo come «possibile aspirazione». Ma non finisce qui: il testo, secondo alcuni osservatori adottato grazie alla «manipolazione» dei falchi sulle altre delegazioni, indica che l’Europa potrà imporre i tetti alle emissioni solo in presenza di accordi bilaterali con i paesi delle compagnie aeree.
Insomma, una bocciatura a tutto tondo che Bruxelles e i suoi alleati, quanto mai compattati dalla testardaggine degli interlocutori, hanno rifiutato con una riserva formale. Tradotto in parole povere: nel 2012 l’Europa imporrà unilateralmente il taglio delle emissioni anche alle compagnie straniere, che dovranno adeguarsi se vorranno continuare volare sui nostri cieli. Chi non sarà d’accordo, è la convinzione dei legali della Commissione Ue, non avrà alcuna possibilità di vincere un eventuale ricorso in tribunale.
Intanto a Bruxelles già nei prossimi mesi ci si preparerà allo scontro, con il testo del piano sull’aviazione che andrà all’esame dell’Europarlamento e dei governi con l’obiettivo di essere approvato nel 2008. E anche se la sua applicazione potrebbe costare alle tasche dei passeggeri fino a 40 euro a biglietto (cifra massima per le tratte più lunghe), non ci si aspetta un calo dei passeggeri o un danno rilevante al turismo continentale.
La piazza riprende il suo rango. È una specie di rivincita sui centri commerciali e sui borghi finto-antichi degli outlet, un riscatto dopo decenni in cui nessuno più le progettava, riducendole a quel che restava di spazio nelle città dopo aver innalzato edifici e tracciato strade. Un lavoro di ricerca durato tre anni, condotto da cinque università (lo Iuav di Venezia, il Politecnico di Barcellona, l'Università Jagellona di Cracovia, l'Aristotele di Salonicco e la Maison des Sciences de l'Homme di Parigi) con il sostegno della Comunità europea, sfocia ora in una mostra e in un convegno che si aprono oggi a Venezia, al Chiostro dei Tolentini, e che rilanciano la piazza come luogo principe della città pubblica, luogo avvolgente e ospitale, trascurato da quella parte dell'urbanistica del secondo Novecento che disegnava - e spesso continua a disegnare - l'espansione dei quartieri a misura della speculazione edilizia.
Il convegno, intitolato «Piazze d'Europa, piazze per l'Europa», si conclude con l'approvazione di una Carta delle piazze europee, un prontuario delle buone pratiche di conservazione e di progettazione (i restauri, le relazioni con il resto della città, gli usi compatibili, ma anche l'illuminazione, l'acqua, la pavimentazione, l'accessibilità, i materiali, il cablaggio, la vegetazione, il soleggiamento). Inoltre è stata elaborata una lista di sessanta piazze europee - dalla Finlandia alla Russia, dalla Gran Bretagna alla Polonia, all'Ungheria e alla Romania, dall'Italia alla Francia, alla Spagna e alla Grecia - rappresentative di buona concezione architettonica e urbanistica, ma soprattutto identificate come luogo di convivenza, di socialità e di creatività. E come simbolo di una città il cui senso è offerto dalla qualità degli spazi pubblici non mortificati dall'essere ritenuti terra di nessuno, oltre che dalla bellezza degli edifici.
La selezione dell'elenco è stata laboriosa, spiega Franco Mancuso, professore di Urbanistica a Venezia e, insieme a Luciana Miotto, coordinatore della ricerca, e ha lasciato fuori decine e decine di piazze meritevoli. La qualità monumentale o storico-artistica non è stata il criterio prevalente: non c'è piazza san Marco a Venezia, dove all'inestimabile bellezza corrisponde un uso turistico debordante, e figura invece piazza Erminio Ferretto di Mestre, fino a qualche tempo fa solcata dalle macchine che avevano sfigurato i suoi caratteri e ora risistemata, pedonalizzata e riconquistata come luogo di comizi e di concerti, ma prima di tutto come spazio accogliente, carico di senso civico e che ospita funzioni diverse, dal passeggio al mercato.
Il convegno è interdisciplinare, partecipano urbanisti come Mancuso o lo spagnolo Manuel Ribas, e storici come Bronislaw Geremek e Maurice Aymard, oltre a Fernando Caruso, che ha curato i rapporti con la Commissione Europea.
Da qualche anno, insiste Mancuso, le città del Vecchio continente riscoprono la piazza. Il fenomeno è sociale prima ancora che urbanistico e, a suo avviso, prende le mosse dalla Spagna del post-franchismo, Ma perché le piazze erano cadute in disuso? I motivi sono diversi: «Il piano urbanistico aveva perso la funzione del disegno complessivo e i progettisti avevano escluso la piazza dai loro interessi. Si erano assunti criteri quantitativi nell'espansione delle città, invece di preoccuparsi della qualità dello spazio». Questo è avvenuto in Italia, aggiunge Mancuso, ma non solo. «Nei grands ensembles in Francia, come nei nostri quartieri popolari, le nuove centralità erano gli edifici pubblici, le scuole, le chiese, molto meno le piazze, che per gli abitanti restavano quelle della città storica». Persino nella civilissima Amsterdam «si allestivano parchi bellissimi, giardini di vicinato, spazi per il gioco, strutture sanitarie efficienti, ottime piste ciclabili, ma niente piazze».
Se questo è successo nella capitale olandese, paradigma della corretta urbanistica, figuriamoci che cosa è potuto accadere negli inospitali insediamenti speculativi di Roma, Milano, Napoli, Palermo o Bari. Laddove si aprivano, le piazze apparivano come banali spazi vuoti, sprecati, oppure come l'effetto di esigenze commerciali ed erano separate dalle città da parcheggi, strade anulari e sovrappassi. Nulla di paragonabile alle vere piazze, che si sono costruite in Italia, ma anche in altri paesi europei, dal Trecento ai primi decenni del Novecento, dove si annodavano i tanti tessuti di una città: luoghi dotati di funzioni civili, come piazza del Campo a Siena o della Signoria a Firenze, politiche - tutte quelle su cui s'affaccia un Palazzo Comunale - ma anche religiose - le piazze del Duomo - e commerciali - le piazze Mercato o delle Erbe. Luoghi regolari o di forme strane, che interrompono il denso reticolo delle strade, facilmente accessibili, sulla sommità di un'altura o a valle di un pendio, con edifici monumentali o con opere d'arte, ma non necessariamente. Dall'età dei Comuni a quella delle Signorie, fino ai fasti barocchi e alla razionalità borghese otto-novecentesca, le piazze sono il fulcro o i fulcri della città. Cambia il modo in cui vengono adoperate, ma la caratteristica prima resta il multiuso.
«Le piazze delle città italiane, salvo poche eccezioni, restano quelle che la storia ha lasciato in eredità», aggiunge Mancuso. Ed è prevalentemente su queste che si sta lavorando cercando di renderle pedonali, per esempio - una condizione assolutamente indispensabile, dice l'urbanista. O rivedendo la pavimentazione, ammodernando i sottoservizi, usando materiali appropriati, riscoprendo l'acqua. Gli interventi che Mancuso suggerisce sono i più discreti possibili, orientati prevalentemente a sottrarre elementi poco congrui. Ma nella grande maggioranza dei casi l'unico precetto è: conservazione e restauro. Gli esempi di correttezza, segnalati da Mancuso, sono place Bahadourian a Lione, o le celeberrime place Vendôme a Parigi, plaza Mayor di Madrid, Staromestske Namesti a Praga, ma anche la piccola piazza della Libertà a Baia Mare, in Romania. Venendo all'Italia, ecco piazza Cavour a Vercelli, piazza Unità d'Italia a Trieste, piazza Santo Stefano a Bologna, piazza del Plebiscito a Napoli, svuotata dalle auto che la intasavano (e che ora qualcuno immagina di far tornare). Accanto a queste figurano piazza Roma a Carbonia, città di fondazione, costruita negli anni Trenta intorno alle miniere, piazza Vittorio Veneto a Galliate, provincia di Novara, o piazza Alicia a Salemi, nella valle del Belice, distrutta dal terremoto nel 1968 e che ora ingloba anche il rudere della Chiesa Madre, diventata la quinta scenica di un nuovo e al tempo stesso antico spazio aperto.
In Europa le piazze sono diventate un simbolo della riscossa democratica: oltre Madrid o Barcellona, Nowa Huta e Cracovia in Polonia, piazza della Repubblica a Belgrado. In questa rinascita le piazze sono lo sfondo non neutrale di molte iniziative. Per esempio incrociano l'effervescenza culturale dei Festival, come, in Italia, quello di letteratura a Mantova, di filosofia a Modena o di economia a Trento. Ma nel tempo sono diventate anche contenitori di arte contemporanea, sia con le installazioni temporanee, come in piazza del Plebiscito a Napoli, sia con opere fisse. «Ma l´importante è che l'arte non sia invasiva», segnala Mancuso, «come invece la statua realizzata da Costantino Nivola a Nuoro, oppure, più recentemente, la scultura, pur bellissima, di Mimmo Paladino che occupa tutta la piazza di Vinci: quella piazza è diventata essa stessa un'opera d´arte, ma ha perso la sua identità primordiale. Non è più il luogo della libertà dei comportamenti».
«Paesaggio ferito». Non solo un'inchiesta giornalistica per mostrare gli scempi che stanno trasformando un ambiente unico come quello di Como e del suo lago, ma anche interventi e riflessioni di personaggi che amano questa terra. Cominciamo con l'articolo dell'avvocato AntonioSpallino, già illustre sindaco di Como.
«Da quando, a tuo giudizio, si è manifestata una sensibilità nei confronti del paesaggio?». Scritta nel questionario consegnato il 29 agosto scorso ai docenti, ai giuristi, ai magistrati, agli operatori di mezza Europa partecipanti alla quarta edizione dell'Università d'eté - colloqui di Arosio sul Paesaggio, svoltasi a Erba, la domanda sembrava illividire dinnanzi alla documentazione raccolta dalla giornalista de La Provincia Sara Bracchetti e dal fotografo su molteplici iniziative edilizie visibilmente lesive del patrimonio paesistico delle sponde del nostro lago. L'iniziativa del direttore del quotidiano (Giorgio Gandola, Il ballo del mattone sul lago, del 26 agosto 2007) ha infatti portato allo scoperto il tessuto nervoso del fenomeno. Sembra di essere ritornati agli anni Cinquanta quando l'impetuosità della ricostruzione del Paese aveva contagiato anche l'area della rendita edilizia. Allora, in un contesto privo di pianificazione territoriale o solcato da sedicenti piani urbanistici, si poteva costruire per il triplo, il quadruplo, il decuplo delle esigenze ragionevolmente prevedibili nell'arco di un decennio. Questa è la Storia scritta, per esempio, da Leonardo Borgese nel volume L'Italia rovinata dagli italiani [...] 1946-70.
Oggi, quali sono le cause delle nuove inciviltà? Come affrontarle in sede locale? E qual è l'atteggiamento dei legislatori? Il tema è ovviamente di natura giuridica-normativa. Ma, forse meno ovviamente, esso è ancor prima culturale ed etico. Scorrendo la documentazione informativa e fotografica raccolta con efficace rigore ci si sente disputati tra stupefazione, amarezza, indignazione. La prima riflessione va ai piani regolatori urbanistici, generali e attuativi. Se, come è da presumere sino a prova contraria, le strutture fotografate e commentate sono "conformi" alle norme locali, i piani che le hanno permesse sono stati votati da amministratori consapevoli, cioè prevedendo gli effetti che essi avrebbero potuto produrre sull'ambiente circostante? Ciascun osservatore può porsi da sé le domande, inquietanti. Quei piani sono figliastri di amministratori pubblici locali subornati dalla ideologia dei "padroni in casa nostra"? O mal consigliati da tecnici sensibili più alla suggestione del ruolo di demiurgo che al dovere di servire la collettività attuale e in divenire? O, altrimenti, vittime dell'arrendevolezza al sapore del fare un piacere al prossimo? La responsabilità di coloro, quei piani, li hanno varati è enorme, anche perché irreparabile. Quei piani mettono a rischio anche «la memoria del futuro» (Stille) in una società nella quale la manifestazione di certa globalizzazione cancella le identità locali.
Perciò, non appena constatati i guasti derivati dalla (anche soltanto parziale) attuazione dei piani, o soppesati i guasti prevedibili, si sarebbe dovuto avviare con immediatezza la revisione dello strumento pianificatorio, per riprendere il governo sociale culturale del territorio, comprensivo del paesaggio. Non risulta che ciò sia avvenuto; e non ci si può giustificare a posteriori adducendo il fatto che la nuova legge urbanistica regionale n.12 del 2005 prevede che i Comuni sostituiscano i Pru con i nuovi strumenti in essa prescritti. In questo campo il dovere di agire tocca anzitutto ai sindaci, in quanto massimi esponenti della comunità di base.
Non si pretende dall'assessore comunale all'urbanistica o dal sindaco di essere urbanisti. Quella dell'urbanistica è materia interdisciplinare, che implica cognizioni di pianificazione territoriale e di architettura, di sociologia e di modellistica ambientale. Ciò che si pretende dall'amministratore pubblico è quel «primato del cuore, cioè della coscienza etica individuale» pronta a percepire e a difendere il bene comune, trascendendo i condizionamenti materiali e sociali, a prendere le distanze della situazione in cui è inserita, per interrogarsi sempre di nuovo sul senso del proprio agire. È questo il duro nucleo dell'esercizio del dovere-potere amministrativo.
Se non è sufficientemente forte la capacità di «conservare la memoria delle radici da cui proveniamo»; di «recuperare e sviluppare un atteggiamento contemplativo che renda sensibili agli appelli provenienti dalla realtà» naturale ed umana; di «conciliare potere e giustizia», allora è facile smarrire il senso della posizione umana, morale, spirituale, dell'amministratore: in altri termini, l'etica del lavoro pubblico. «Nessun paragrafo» di legge,«nessuna autorità può essere d'aiuto, se l'uomo non sente che la res publica, il bene comune di una esistenza umana libera e dignitosa è affidato nelle sue mani. Da qui nasce la fedeltà alle cose [...]». «Poter governare significa, dunque [...], ritrovare sempre quella misura così minacciata su cui dovrà poggiare [...] il benessere di tutti» (Guardini R. - il teologo tedesco che ha scritto anche Lettere dal Lago di Como - Il potere, 1951, commentato da Martini C.M., Responsabilità degli amministratori e Esiste un'etica del lavoro pubblico? pubblicati in “Verso la città”, 1984.
L'URBANISTICA: DALLA REGIONE AI COMUNI
La legislazione urbanistica, di stampo populistico o, ottimisticamente, ingenuo, emanata dalla Regione Lombardia a partire dalla prima metà degli anni Ottanta, ha rassegnato, progressivamente, tutti o quasi i poteri ai Comuni all'insegna della «semplificazione, economicità ed efficacia». Ciò non ha aiutato certi amministratori a resistere alle pressioni o alle ambizioni locali. Nel nostro paese, purtroppo, più il livello decisionale è prossimo o contiguo agli interessi economici di taluni privati, più è alto il rischio di smarrire le finalità dell'esercizio del potere-dovere urbanistico. A quanti facevano presente il rischio di veder ripetere i disastri degli anni cinquanta, veniva replicato assiomaticamente che i Comuni «erano cresciuti» in senso di responsabilità e in cultura urbanistica. Gli spettacoli fotografati e censiti da questo giornale provano il contrario, nel caso dei Comuni esaminati lungo le sponde lacuali. La ricerca annunciata sulle "conurbazioni" della Bassa, darà, verosimilmente, analogo esito. È vero che nella pratica quotidiana si è stabilito un diffuso appiattimento della sensibilità, se non, addirittura, una strisciante ostilità (penso, per esempio, a certe voghe del mal vestire tra i giovani) verso l'idea di stile che a ciascuna epoca si forma. Ma è altrettanto vero che proprio la regione Lombardia, nell'esemplare Progetto di Piano Territoriale Paesistico Regionale del 1990 elaborato da tecnici e da studiosi di primo piano - quel progetto, peraltro, non fu mai approvato in sede politica - aveva sottolineato che «l'esigenza di tutelare la fruizione visiva del bene e del paesaggio è fondamentale in quanto, grazie ad essa, il cittadino sente o trova quei riferimenti che lo legano al territorio [?]» . «La pianificazione mira essenzialmente a tutelare questi scenari ed i loro elementi costitutivi in quanto riferimenti dell'identità lombarda, della sua stessa immagine estetica» (Regione Lombardia, Progetto di Ptpr, all. 2, Indirizzi normativi).
Nel luglio del 1996 la Giunta regionale aveva confermato questi principî su proposta dell'assessorato all'Urbanistica. Alla luce di queste premesse appare ancor più sconcertante il fatto che, neppure un anno dopo, la stessa Regione abbia sguarnito i Comuni dei presidi istituzionali sovraordinati - leggasi: le Soprintendenze - che garantivano, per competenza storica, l'oggettiva tutela del paesaggio. Ed è risultato impertinente - verrebbe fatto di dire «Senti chi parla...» mutuando il titolo di un recente volume sulle incoerenze di tanti «protagonisti» della nostra vita politica - l'inflazionato appello al principio di sussidiarietà recitato nel preambolo della legge regionale n. 18 del 1997, intitolata «Riordino delle competenze [?] in materia di tutela dei beni ambientali [?]. Subdeleghe agli enti locali».
Nella interpretazione filosofica e giuridica esso esprime il concetto per cui una autorità centrale avrebbe una funzione meramente di supporto nei campi in cui le autorità locali siano in grado di svolgere da sé certi compiti. L'esperienza di un decennio - il caso di Blevio è paradigmatico, nonostante l'espediente di giustificare il disastro dal compendio con una giustificazione «agronomica» (sic) - ha posto in luce meridiana il fallimento, quantomeno nei casi noti, della scelta politica di sostituire alle Soprintendenze i cosiddetti «esperti locali» con il conseguente potere di sbarazzersene se avessero espresso «pareri» non graditi, e di attribuire al Sindaco ogni potere in materia paesistica.
LA TUTELA DEL PAESAGGIO: EUROPA E ITALIA
Nel frattempo, il Consiglio d'Europa ha adottato la Convenzione Europea per il Paesaggio, e l'ha «aperta alle firme» degli Stati. L'Italia l'ha fatta propria nel maggio del 2006. Nell'esprimere parere favorevole, le competenti commissioni della nostra Camera dei Deputati, hanno sottolineato l'importanza della «più larga accezione del termine "paesaggio"» [...] «definito come parte di territorio, così come è percepito dalle popolazioni» [?] quale componente fondamentale dell'identità europea e del suo patrimonio naturale e culturale [?] nonché come parte integrante della vita delle popolazioni ed elemento imprescindibile della loro stessa qualità di vita». Contestualmente, essi hanno rimarcato che «la previsione dell'impegno dei paesi ad accrescere la sensibilizzazione dei diversi attori sociali rispetto ai valori paesaggistici, anche promuovendo la formazione di specialisti del settore, nonché programmi interdisciplinari di formazione e appositi insegnamenti volti all'educazione di valori del paesaggio e una approfondita conoscenza delle sue caratteristiche, in ambito scolastico e universitario». [...] «La promozione delle politiche paesistiche», concludeva il relatore, «è rafforzata anche dalla introduzione di un meccanismo premiale per le autorità locali e regionali e le organizzazioni non governative che si siano distinte nella messa in campo di misure esemplari e durevoli volte alla tutela e all'organizzazione dei paesaggi».
IL LEGISLATORE LOMBARDO: IL GRANDE ASSENTE
Attese tutte queste circostanze, dunque, come si giustifica l'indifferenza del legislatore lombardo per quanto sta accadendo? Altre riflessioni dovrebbero farsi sullo stato della legislazione nazionale, cominciando, a mio avviso, alla legge comunale e provinciale. In nome di un efficientismo che non necessariamente equivale ad efficienza il legislatore ha svalorizzato la possibilità di concorso effettivo di tutti i consiglieri alla formazione di alcune scelte pianificatorie e ha iperpotenziato le funzioni dei sindaci e degli assessori. I rischi che ne scaturiscono sono concreti là dove non governino sensibilità, autocritica e ricerca del sapere da condividere con l'intero consiglio. Lo spazio disponibile non consente di andare oltre.
LA CITTÀ E I SUOI VALORI
«La storia appartiene [...] a colui che sa conservare e venerare [...] le condizioni in cui è nato per coloro che verranno dopo di lui, e in questo modo serve la vita. Un'anima simile, più che proprietaria sarà proprietà del patrimonio degli avi» (Nietzsche, Considerazioni sulla storia). Esiste un profilo etico, della lettura della città così come del paese, che sovente ci sfugge e che l'affermazione di Nietzsche invece richiama. La città è più di uno scambio di beni. La città «vivente», la città «armoniosa» di Peguy (Marcel, Premier dialogue de la cité harmonieuse) è quella che sa «mettere in comune le persone intorno alle sue radici - la memoria collettiva nelle pietre e nella natura - e intorno alla forma del suo futuro - il progetto partecipato -. Non è soltanto un fatto estetico, è un fatto sociale quello che istituisce il legame comunitario capace di costruire nei cittadini il «senso di appartenenza» a quel luogo. Altrimenti, anche abitando in quel sito, ci si sente soli ed estranei. La città, così intesa, è lo spazio e il tempo che sono necessari allo sviluppo delle persone secondo alcuni valori. La bellezza è tra di essi. Non la bellezza come spettacolo osservato passivamente ma la bellezza come una delle funzioni per convivere.
«Consumare» la città è contemplarla attivamente, è dedicarsi ad essa, entrare in dialogo con essa, ascoltare cosa ti dice. Nel vissuto quotidiano, non potrebbe spiegarsi altrimenti il sentimento di fierezza che provano coloro i quali la vivono con quell'atteggiamento quando ne sentono gli elogi, e il sentimento di amarezza che patiscono quando ne ascoltano i biasimi. L'uomo che non si mette al servizio di questa convivenza, che non condivide questa storia, non può scoprire il prossimo, e quindi sé stesso e la città e la sua anima. L'ideologia dello sviluppo quantitativo - produrre di più per consumare di più, secondo una legge di preteso «progresso illimitato» della quale stiamo patendo i costi, ad esempio con i mutamenti climatici, la liquefazione dei ghiacciai, la desertificazione di vaste aree - non permette di comprendere la totalità del senso della vita, e quindi l'anima della città nel tempo. «Vivere in dialogo con la città»: questo fa della città un bene pubblico, indipendentemente dalla proprietà dei singoli edifici dei privati (J.Comblin, Théologie de la ville, 1970).
Invertiamo i termini impiegati da Nietzsche: siamo consapevoli di essere gli «antenati» dei nostri discendenti ? E, come tali, di essere i «legatari» non i proprietari delle bellezze culturali e naturali che, senza titolo, abbiamo ricevuto in dote? E di avere quindi il dovere morale di trasmetterle ai nostri figli, quelle ricchezze, possibilmente accresciute? Ce lo ricordava oltre seicento anni fa Santa Caterina da Siena, oggi Patrona d'Italia e d'Europa, nell'esortazione inviata a quindici «Signori Difensori del Comune» (Lettera 121). E incalza: «Vogliate che la margarita» (la perla) «della giustizia sempre riluca nei petti vostri, levandosi da ogni amor proprio, attendendo al bene universale della vostra città, e non propriamente al bene particolare di voi medesimi. "Perocchè, colui che ragguarda solamente a sé, non osserva la giustizia, anco, la trapassa, e commette molte ingiustizie [ ? ]». «Questi tali, dunque, non son buoni né atti a governare altrui, perché non governano loro». Nella concezione spirituale della santa, la città terrena non è un possesso di chi l'amministra. Essa è una «città prestata». «Colui che signoreggia sé, la possederà come "cosa prestata" e non come cosa sua. Guarderà la prestanza della signorìa che gli è data con reverenza di colui che gliela diè [?] Or con un [?] vero timore voglio che la possediate [?] come cosa prestata. (Lettera 372). «Adunque, per verune signoríe che abbiamo in questo mondo, ci possiamo reputare signori. Non so che signorìa possa essere quella che mi può essere tolta, e non sta nella mia libertà» (Lettera 28). Il monito varrà almeno per il futuro?
L’articolo è stato segnalato dalla redazione del sito PatrimonioSOS, che si ringrazia