Basterebbe fare una semplice operazione aritmetica - due più due uguale quattro, ad esempio - per fugare parecchi equivoci sulla caduta di Prodi e vedere l’Italia così come s’accampa davanti a chi sa vedere: nello stesso momento in cui il governo di centro sinistra è sfiduciato in una delle due Camere, l’opposizione che si prepara a tornare al potere fa quadrato attorno a personaggi del ceto politico o dell’amministrazione condannati dalla giustizia: attorno al governatore della Sicilia Cuffaro, condannato a 5 anni per favoreggiamento a mafiosi e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici; attorno a Contrada, condannato definitivamente a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa; attorno a chiunque chieda che il politico o l’alto funzionario dello Stato non sia, come ogni cittadino, imputabile quando infrange la legge. Cuffaro ieri si è dimesso ma Casini insiste ad accusare gli «sciacalli» che avrebbero screditato un’onesta persona.
Questa è l’evidenza matematica che abbiamo di fronte: nell’Italia che sta richiamando Berlusconi ai comandi non ci si fida di Prodi ma ci si fida di Cuffaro, di Contrada, di Dell’Utri, condannato in primo grado a 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e in secondo grado per estorsione aggravata. Non ci si fida di Prodi, ma si fa capire a Mastella che la magistratura, caso mai dovesse giungere a un giudizio negativo sul suo operato in Campania, non avrà l’autonomia per farlo. Quando si parla di tramonto del prodismo e di una scommessa invecchiata e morta conviene tenere a mente questa realtà, limpida e ben visibile. Quel che viene offerto oggi agli italiani non è un nuovo che caccerà il vecchio, non è la fine dello spadroneggiare dei partiti sulla cosa pubblica, come chiesto da tanti cittadini. I partiti tornano a essere decisivi, e sono loro a far quadrato attorno alla presunzione d’impunità che sostituendo la presunzione d’innocenza diverrà il marchio del rinnovamento promesso. Di questa restaurazione Berlusconi è principe, e tutto quel che ha detto nell’ultimo decennio sul teatrino della politica si copre di polvere e frana. Il teatrino è imperante, e quel che vediamo non è quel che appare. Prodi non è riuscito a imporre il nuovo, ma nuovo resta pur sempre quel che ha proposto e tentato. L’aura di novità abbandona Berlusconi e quel che propone è in realtà il vecchio.
Anzi è vecchissimo. Poco prima del voto al Senato, il capo dell’opposizione fece capire che se Prodi avesse ottenuto la fiducia in ambedue le Camere, lui si sarebbe appellato alle Piazze. Bossi ha rincarato la dose assicurando che quelle piazze avrebbero «trovato facilmente le armi», per una rivoluzione. Hanno detto queste cose nell’indifferenza generale: della destra, dei leader di sinistra, di stampa e televisione, delle Istituzioni della Repubblica. Anche questo non è davvero nuovo. Nella storia recente d’Europa c’è memoria viva di tempi simili, quando si pensava che le parole non pesassero e invece pesarono: la Repubblica di Weimar aveva queste caratteristiche, questa violenza linguistica, questi demagoghi. Due più due non ha fatto cinque nella storia passata e non farà cinque neppure in quella che si sta tessendo, opaca ma consequenziale, sotto il nostro sguardo.
La storia presente non è tuttavia fatale, così come non lo è il futuro. A differenza del passato, il futuro che fabbrichiamo oggi è aperto a soluzioni molteplici, è libero. Ed essendo libero consente domande che sono decisive e che dunque vale la pena porsi: sono veramente nuove le politiche proposte da chi affossando Prodi assicura una sorta di palingenesi o comunque un’alternativa migliore? C’è una sinistra, c’è una destra che hanno fatto i conti con l’esperienza di centro sinistra e che avendo fatto tali conti sanno discernere una categoria politica dall’altra, e distinguere quindi tra il ritorno al potere cui anelano e il piano di governo su cui pervicacemente tacciono?
Dicono che il nuovo consiste in modifiche profonde della Costituzione, che diano più poteri all’esecutivo e diminuiscano quello dei partiti. Dicono non senza ragione che il Presidente del consiglio è fallito perché i particolarismi potenti nella maggioranza hanno corroso la sua autorevolezza, il suo governare, il suo desiderio di risanare non solo l’economia ma l’etica pubblica. Ma le forze vincenti sono ben più vecchie dei vecchi impedimenti che hanno reso così difficile il compito di Prodi e che ce l’hanno mostrato negli ultimi venti mesi così solo, come Franca Rame ha scritto con cristallina sconsolatezza sulla Stampa del 25 gennaio: «Prodi, in quel suo governo, di fatto, si è trovato come un condannato agli arresti domiciliari con manco un cane che gli portasse le arance... non l’avete mai considerato? Andavano da lui solo a imporgli, a chiedere e a ricattare. Bella gente!». Questa bella gente gli ha impedito di fare quel che si era ripromesso: una legge sul conflitto d’interessi, una legge che sottraesse le televisioni al dominio dei politici. Questa bella gente ha chiuso e chiude gli occhi davanti alla triplice violazione della Costituzione di cui Berlusconi si è reso colpevole: delegittimazione non solo dell’iniziale voto alle legislative ma anche del voto delle Camere (il ricorso alle piazze in caso di fiducia del Senato vuol dire questo); controllo dei mezzi televisivi da parte di un candidato alla guida del Paese; corruzione dei senatori come appare dalle intercettazioni dei colloqui tra Berlusconi e Saccà, manager della Rai.
I partiti che hanno partecipato all’esperienza Prodi escono particolarmente malconci, perché più d’ogni altro si prestano all’equivoco, scambiando il vecchio per il nuovo. Cosa resta infatti del centro sinistra? Resta lui, Prodi, che si è battuto usando la forza durissima della sua testa («Sembra un ferro da stiro o il muso di un’escavatrice», scrisse Eugenio Scalfari) e che contro praticamente tutti ha deciso di contare i fedeli in Parlamento e dunque di far politica pubblica in pubblico, non nelle segrete dei partiti. Resta un’estrema sinistra, che ha fatto il tentativo di governare contro se stessa, contro il proprio istinto, che ha ripetutamente teso la corda ma sarà influenzata da un esperimento di gestione responsabile che non è stata lei a rompere.
Ma soprattutto resta il Partito democratico, che il nuovo pretende di costruirlo seppellendo l’Unione come fosse un logoro vestito di cui spogliarsi. Per la verità non si sa che partito sia, che programmi di governo abbia, che militanza vanti, che alleati cerchi. Anche in questo caso, è il potere ciò cui sembra aspirare e non il governare, e l’equivoco è esistito in fondo sin dalle primarie del 14 ottobre, che suscitarono l’adesione di più di tre milioni di cittadini ma a questi cittadini non chiarì, per l’occasione, né quale fosse il programma né quale fosse la politica di alleanze. Chiarì che Veltroni sarebbe stato il leader, creò innanzitutto una personalità, alla maniera berlusconiana. Il 19 gennaio, a Orvieto, Veltroni ha poi detto che il suo partito «correrà da solo alle prossime elezioni», e con questo ha di fatto screditato la scommessa di Prodi e dell’Ulivo (2 giorni prima dell’uscita di Mastella dalla maggioranza, 5 prima della caduta di Prodi). Per suggerire che cosa, anch’egli, che non sia il vecchio, e cioè un partito che si presenta alle urne e poi deciderà con chi e con quale programma governerà? In una lettera a Repubblica, il 2 settembre 2006, l’odierno segretario citò Tahar Ben Jelloun: «I nostri passi inventano il sentiero a mano a mano che si va avanti». Il libro da cui sono tratte queste parole è un romanzo, Creatura di sabbia. Ma la politica non è letteratura, e nel libro è scritto anche questo: «Nella vita bisognerebbe poter avere due facce... sarebbe bene averne almeno una di ricambio. Oppure, e questo sarebbe ancora meglio, non avere nessuna faccia, semplicemente... essere solo delle voci.. un po’ come i ciechi». Può darsi che Veltroni ce la faccia, ma grande è il rischio e strana la velleità di sconfitta che lo anima: lui avrà insegnato al partito democratico i vizi della prima repubblica, mentre Berlusconi continuerà a battersi con vaste alleanze tipiche del bipolarismo.
C’è un passaggio nel discorso di Prodi al Senato, che vale la pena rimeditare: «Sarebbe necessario innanzitutto rileggere la nostra Costituzione con lo spirito con cui i padri costituenti la scrissero. Non vi troveremmo, se la rileggessimo così, la debolezza dell’Esecutivo che paralizza chiunque sieda a Palazzo Chigi; non l’ammissibilità di voti di sfiducia individuali nei confronti di singoli ministri; né la prassi delle crisi extraparlamentari; né l’asservimento dell’informazione pubblica al potere politico». È un passaggio che nessuno a sinistra ha fatto proprio, e non stupisce oltre misura. I partiti riprendono il potere, e presentano tutto questo come Nuovo che avanza. Ma i partiti sono come gli Stati nazione: la loro forza sovrana è del tutto fittizia. Un partito che decide di correre da solo e poi di allearsi con chi vuole è un partito in costante metamorfosi coatta, non è sovrano, è più che mai prigioniero delle forze extraparlamentari (mezzi di comunicazione, istituti di sondaggio, potentati non eletti) che hanno voluto la fine di Prodi.
La parola «popolo delle primarie» non significa niente; se non significa nulla non ha poteri. È un’illusoria figura. Immagino che la stragrande maggioranza degli elettori di Veltroni lo sappia: la loro forza, i loro diritti-doveri, il loro peso, sono infinitamente più insignificanti del peso e dei diritti che nei vecchi tempi avevano gli iscritti, figura scomparsa nel vocabolario del Pd. Chi ha forza sono i poteri che perdurano nonostante il voto, sono le Piazze sempre di nuovo invocate, sono gli uomini con capacità di dominio sui telegiornali, e sono, non per ultimi, i politici decisi a riconquistare l’impunità che per un breve lasso di tempo hanno visto minacciata.
il manifesto
Suicidio politico
Gabriele Polo
Romano Prodi è caduto con la stessa ostinata sicurezza con cui aveva brindato in una triste festa notturna di piazza il 10 aprile di due anni fa. Fermo nel voler portare fino in fondo la propria sfida alle leggi della matematica e della politica. Si è presentato al senato sapendo che gli avrebbero sparato addosso e lui ha mostrato il petto lanciando ai suoi cecchini un avvertimento inascoltato: «Dopo di me il diluvio». Avversari vecchi e nuovi gli hanno concesso l'onore delle armi e della coerenza parlamentare. Poi hanno sparato.
Ma la sua ostinazione copre solo in piccola parte il lento ma inesorabile suicidio politico dell'Unione sfociato nella crisi di governo. A spiegarla non basta la debolezza numerica - frutto di una legge elettorale inguardabile - che in questi mesi ha trasformato il senato in una sorta di ring. Né l'eterogeneità della coalizione e nemmeno la vaghezza di un programma troppo generico e al tempo stesso corposo. Su queste radici sono cresciuti due problemi che hanno portato al collasso. In primo luogo il progressivo allontanamento dalle attese degli elettori - badando più agli equilibri interni e alle compatibilità di bilancio. Più che in parlamento Prodi è rimasto solo nel paese: coperto a sinistra dal sacrificio di chi veniva sempre indicato come il possibile «traditore», ha deluso le attese di quella parte dell'elettorato che più di ogni altra chiedeva una svolta dopo il quinquennio berlusconiano. Alla fine è caduto da destra, come era ampiamente prevedibile. In secondo luogo, a destabilizzare un quadro politico diventato la principale se non unica attenzione del premier, è arrivato il parto del Pd, determinando un dualismo di potere che non poteva durare. E così è stato proprio il «suo» partito a togliere il terreno sotto i piedi a Romano Prodi.
Tra le macerie che ora si cercherà di raccogliere in qualche modo per evitare le elezioni anticipate, emerge la sconfitta della sinistra che pagherà i costi più alti di una scommessa perduta: contrattare l'alternativa sociale sul tavolo di governo. Ma si profila anche il sordo rovello del Partito democratico, concepito per vivere al potere e oggi posto di fronte alla scelta tra un'opposizione che non sa più cosa voglia dire e cercare alla sua destra i partner di una futura alleanza. Un bel disastro: complimenti a tutti
la Repubblica
Così muore il centrosinistra
di Ezio Mauro
Nemmeno due anni dopo il voto che ha sconfitto Berlusconi e la sua destra, Romano Prodi deve lasciare Palazzo Chigi e uscire di scena, con il suo governo che si arrende infine al Senato dove Dini e Mastella gli votano contro, dopo una settimana d’agonia. È lo strano – e ingiusto – destino di un uomo politico che per due volte ha battuto Berlusconi, per due volte ha risanato i conti pubblici e per due volte ha dovuto interrompere a metà la sua avventura di governo per lo sfascio della maggioranza che lo aveva scelto come leader. Con Prodi, però, oggi non finisce soltanto una leadership e un governo, ma una cultura politica – il centrosinistra – che tra alti e bassi ha attraversato gli anni più importanti del nostro Paese, segnando la storia repubblicana.
Ciò che è finito davvero, infatti, è l’idea di un’ampia coalizione che raggruppi insieme tutto ciò che è alternativo alla destra, comunque assemblato, e dovunque porti la risultante. Prodi è morto politicamente proprio di questo. È morto a destra, per la vendetta di Mastella e gli interessi di Dini, ma per due anni ha sofferto a sinistra, per gli scarti di Diliberto, Giordano e Pecoraro, soprattutto sulla politica estera. Mentre faceva firmare ai leader alleati un programma faraonico e velleitario di 281 pagine e un impegno di lealtà perfettamente inutile per l’intera legislatura, Prodi coltivava in realtà un’ambizione culturale, prima ancora che politica: quella di tenere insieme le due sinistre italiane (la riformista e la radicale), obbligandole a coniugare giustizia e solidarietà insieme con modernità e innovazione, in un patto con i moderati antiberlusconiani. Quell’ambizione è saltata, o meglio si è tradotta talvolta in politica durante questi due anni, mai in una cultura di governo riconosciuta e riconoscibile.
I risultati positivi di un governo che ha rovesciato il proverbio, razzolando bene mentre continuava a predicare male, non sono riusciti a fare massa, a orientare un’opinione pubblica ostile per paura delle tasse, spaventata dalle risse interne alla maggioranza, disorientata dalla mancanza di un disegno comune capace di indicare una prospettiva, un paesaggio collettivo, una ragione pubblica per ritrovare il senso di comunità, muoversi insieme, condividere un percorso politico. Anche le cose migliori che il governo ha fatto, sono state spezzettate, spolpate e azzannate dal famelico gioco d’interdizione dei partiti, incapaci di far coalizione, di sentirsi maggioranza, di indicare un’Italia diversa dopo i cinque anni berlusconiani: ai cittadini, le politiche di centrosinistra sono arrivate ogni volta svalutate, incerte, contraddittorie e soprattutto depotenziate, come se la rissa interna – che è il risultato di una mancanza di cultura comune – avesse succhiato ogni linfa. Ancor più, avesse succhiato via il senso, il significato delle cose.
Fuori dal recinto tortuoso del governo, la destra non ha fatto molto per riconquistarsi il diritto di governare. Le sue contraddizioni sono tutte aperte, e la crisi della sinistra regala a Berlusconi una leadership interna che i suoi alleati ancora ieri contestavano. Ma la destra, questo è il paradosso al ribasso del 2008, è in qualche modo sintonica e addirittura interprete del sentimento italiano dominante, che è insieme di protesta e di esclusione, forse di secessione individuale dallo Stato, probabilmente di delusione repubblicana, certamente di solitudine civica. Nella grande disconnessione da ogni discorso pubblico, che è la cifra nazionale di questa fase, il nuovo populismo berlusconiano può trovare terreno propizio, perché salta tutte le mediazioni, dà agli individui l’impressione di essere cercati dalla politica e non per una rappresentanza, ma per una sintonia separata con la leadership, una vibrazione, un’adesione, ad uno ad uno. Intorno si è mossa e si muove la gerarchia cattolica, che ormai lascia un’impronta visibile non nel discorso pubblico dov’è la benvenuta, ma sul terreno politico, istituzionale e addirittura parlamentare, dove in una democrazia occidentale dovrebbe valere solo la legge dello Stato e la regola di maggioranza, che è la forma di decisione della democrazia. Un’impronta che sempre più, purtroppo, è quella di un Dio italiano fino ad oggi sconosciuto, che non si preoccupa di parlare all’intero Paese ma conta le sue pecore ad ogni occasione interpretando il confronto come prova di forza – dunque come atto politico –, le rinchiude nel recinto della precettistica e se deve marchiarle, lo fa sul fianco destro.
Un contesto nel quale poteva reggere soltanto una politica in grado di esprimere una cultura moderna, cosciente di sé, risolta, capace di nascere a sinistra e parlare all’intero Paese. Tutto questo è mancato, per ragioni evidenti. La vittoria mutilata del 2006 ha messo subito il governo sulla difensiva, preoccupato di munirsi all’interno, col risultato di una dilatazione abnorme di ministri e sottosegretari. Ma i partiti, mentre si munivano l’uno contro l’altro, si disconnettevano dal Paese. Nel loro mondo chiuso, hanno camminato a passo di veti, minacce e ricatti, indebolendo la figura dello stesso Presidente del Consiglio, costretto a mediare più che a indirizzare. Si sono sentite ogni giorno mille voci, a nome del governo. La voce del centrosinistra è mancata.
Oggi che Mastella ha firmato un contratto con il Cavaliere e Dini ha onorato la cambiale natalizia, risulta evidente che Prodi salta perché è saltato quell’equilibrio che univa i moderati alle due sinistre, e come tale poteva rappresentare la maggioranza dell’Italia contemporanea. Tuttavia, senza il trasformismo (non nuovo: sia Dini che Mastella sono ritornati infine a casa) Prodi non sarebbe caduto. Barcollando, il governo avrebbe ancora potuto andare avanti, e questa è la ragione che ha spinto il premier ad andare al Senato, per mettere in piena luce sia la doppia defezione da destra e verso destra, sia l’assurdità di una legge elettorale che dà allo stesso governo la vittoria alla Camera e la sconfitta al Senato.
Da qui partirà il presidente Napolitano con le consultazioni, nella sua ricerca di consolidare un equilibrio politico e istituzionale che ritrovi un baricentro al sistema e al Paese. Il Capo dello Stato dovrà dunque tentare, col suo buonsenso repubblicano, di correggere queste legge elettorale prima di riportare il Paese al voto. La strada è quella di un governo istituzionale guidato dal presidente del Senato Marini, formato da poche personalità scelte fuori dai partiti, sostenuto dalle forze di buona volontà per giungere al risultato che serve al Paese. Riformare la legge elettorale, e se fosse possibile, riformare anche Camera e Senato, cambiando i regolamenti, riducendo il numero dei parlamentari, correggendo il bicameralismo perfetto. Un governo non a termine, ma di scopo. Che può durare poco, se i partiti sono sinceri nell’impegno e responsabili nelle scelte, col Capo dello Stato garante del percorso e dell’approdo.
Berlusconi è contrario a questa soluzione perché vuole votare al più presto, con i rifiuti per strada a Napoli (altra prova tragica d’impotenza del centrosinistra, locale e nazionale), con piazza San Pietro ancora calda di bandiere papiste, con il volto di Prodi da esibire in campagna elettorale come un avversario già battuto, in più in grado di imbrigliare l’avversario vero, che è da oggi Walter Veltroni.
E qui si apre una partita decisiva, per il Paese che ha bisogno di governabilità, stabilità, di un rapporto sano e corretto tra cittadini, partiti e istituzioni, anche attraverso una legge elettorale che restituisca agli elettori il potere effettivo di scelta, e ristabilisca una relazione di mandato tra gli eletti e gli elettori. Ma la partita è decisiva anche per le sorti della sinistra, che col governo rischia di smarrire se stessa.
Le due sinistre potranno allearsi in futuro, ma oggi con ogni evidenza si separano. Rifondazione vuole riprendere la sua libertà di movimento e col movimento. I riformisti vogliono tentare la sfida del governo, provando a parlare all’intero Paese, attraverso il Partito Democratico che si presenterà da solo alle elezioni, contro Berlusconi. Questa soluzione è l’unica che ha una possibilità espansiva, dall’abisso in cui si trova oggi la sinistra italiana, dopo la sconfitta di Prodi. È una carta che va giocata, che può cambiare da sola il quadro politico, che rappresenta non solo una novità ma una innovazione: ma che nello stesso tempo può essere depotenziata fino alla rovina dalla capacità di conflitto intestino della sinistra italiana, se importerà dentro il Pd le risse di coalizione che hanno distrutto l’Unione e il governo Prodi. Già si vedono le avvisaglie: l’Unione contro la solitudine, l’alleanza contro il leaderismo e infine e soprattutto l’Ulivo contro il Pd, in una contrapposizione che sarebbe distruttiva.
Tocca a Prodi, che tutto il Paese oggi dovrebbe salutare come un galantuomo, comportarsi da leader anche nella sconfitta, aiutando il Pd che ha fondato a rendersi autonomo nelle sue strategie, e a compiere la sua strada e il suo destino. Tocca a Veltroni, in caso di ostacoli da parte dei vecchi potentati, strappare in avanti, rivolgendosi a chi lo ha votato, i cittadini delle primarie. Non c’è altra strada per chi deve prendere atto che il centrosinistra ha fallito, ma pensa che non è il Berlusconi III, quattordici anni dopo, la ricetta contro il declino dell’Italia.
l’Unità
Per futili motivi
di Furio Colombo
Prodi esce dall’Aula con la dignità con cui era entrato mentre un’opposizione volgare e fascistoide esulta come alla fine di una brutta partita. Ma vediamo la storia della giornata dall’inizio.
Alle tre del pomeriggio una folla disorientata attende intorno al Senato di sapere il destino di Prodi. Uno mi dice, senza animosità e senza amicizia: «Io non so chi vince o chi perde, oggi, ma in qualunque caso non vi accorgete che non contate niente? Quelli che contano intanto stanno svuotando le Borse, stanno cambiando i prezzi, raddoppiano il costo delle case. Sono loro che comandano. Sono loro che decidono. Voi, quando va bene, siete come le piante in un corridoio, degli ornamenti, e quando va male, come oggi, vi cambiano».
C’è un po’ di confusione, un po’ di tensione. È impossibile rispondergli. Come fai a dargli torto se illustri notisti politici e addirittura intere compagini editoriali sembrano non avere notato che i conti pubblici sono in ordine e non lo erano, che le entrate fiscali sono robuste, e non lo erano, che contratti come quello dei metalmeccanici che poteva spaccare il Paese, sono stati firmati?
È vero, conta poco la politica senza l’opinione pubblica e conta poco l’opinione pubblica senza la televisione e la stampa. E aiutano poco la televisione e la stampa se diventano, per comodità e per progetto, la casa del conflitto, il luogo di scontro dei politici trasformati in gladiatori invece che il crocevia in cui si incontrano i portatori di opinioni diverse e le spiegano in modo chiaro e senza condurre un continuo gioco al massacro.
Una ragione il mio interlocutore tra la folla intorno al Senato ce l’ha: una brutale tempesta economica, una sorta di si salvi chi può, imperversa nel mondo e sbatte contro le porte dell’edificio Italia.
L’edificio non è così debole, né così indifeso. O almeno, non lo era fino a ieri sera. Un governo, che a volte appare introverso e noioso, non ha mai smesso l’ingrato impegno intrapreso di mettere in ordine la casa dell’economia.
La tempesta che si sta scatenando nel mondo ci avrebbe trovato, almeno, con le porte sorvegliate. C’è differenza fra congiunture difficili e momenti di rischio totale. Il mio interlocutore fuori dal Senato, che ha fatto anche un elenco di nomi di coloro che, in Italia, decidono il nostro futuro invece dei politici, non sa che adesso stanno per avere le mani molto più libere. Le hanno avute per i cinque hanni in cui ha governato Berlusconi e si è ammassato di tutto, dall’immondizia (la crisi inizia proprio nel 2001) al debito, dallo sperpero delle risorse ai condoni fiscali (in modo da avere le entrate tributarie più basse della storia italiana). Ma niente è successo di cui si possa dire: ecco, comincia qualcosa di nuovo.
D’accordo, questo governo è quasi afasico, e in un’epoca in cui le comunicazioni contano al punto da essere continuamente alterate e taroccate, non è un problema da poco. E tuttavia, nonostante il buon lavoro di 20 mesi (vedi il Financial Times e il Wall Street Journal) il governo che ha chiuso il buco e incassato le tasse, sta cadendo.
Una volta entrato nell’aula del Senato mi accorgo, ascoltando, che cade - in un momento molto grave nel mondo - per futili motivi. Fate l'elenco di coloro che fanno mancare il voto al Governo di Prodi e avete una immagine più squallida del non dimenticato evento del 1998, non sto parlando di Calderoli e Castelli. Quella è gente che preannuncia la rivoluzione e fa sapere che sta cercando le armi. Continuiamo pure, per salvare l'immagine del Paese, a far finta di credere che siano compagnoni scherzosi invece di un serio pericolo per le questure. Ma questo è il loro livello e il loro mestiere: una politica che ha le impronte - già debitamente schedate - del deputato Borghezio.
Non sto parlando dei discorsi finto-dolenti e finto-decenti delle varie componenti della Casa delle Libertà che - gira gira - gravitano sempre, tutte, verso il vulcano spento di Berlusconi. Sto parlando dei futili motivi di Mastella che si vendica su Prodi per le presunte offese fatte alla moglie. Sto parlando dei Senatori di Mastella, che litigano a rischio infarto per l'onore della moglie di Mastella, come in un film di Germi.
Sto parlando di Lamberto Dini. Su quale palcoscenico recita? In quale dramma? Con quale ruolo? Per quale pubblico? Quando dice «noi» visto che il suo partito sono tre e uno non lo segue e l'altro non partecipa al voto, di quale «noi» sta parlando? Forse le sue ragioni non sono così futili, ma niente, tranne il no è trapelato del suo discorso, niente è trapelato che si possa eventualmente citare in una nota, carattere corsivo a piè di pagina, in un libro di storia.
Poi c'è lo scampanio della sinistra-sinistra. Impegna il suo prestigio, che non è da poco, nell'accusare come unico vero nemico il Partito democratico. Possibile che persone di grande, indiscutibile esperienza politica guardino il mondo dalla feritoia stretta di una rivalità occasionale, mentre qui cade un governo che sembra «fare poco per il lavoratori» ma - nel drammatico dopo - lascerà un rimarchevole vuoto e un pauroso sbandamento a destra, la destra economica che decide? In una cosa hanno ragione. In tanti - anche nella maggioranza che finisce adesso - hanno lamentato la palla al piede della sinistra, e preannunciato mille volte la caduta del governo per colpa e azione malevola della sinistra. E invece sono sfilati, a uno uno, tutti i «volenterosi» di destra della maggioranza che finisce.
E, a uno a uno, per futili motivi e per non sempre chiare ragioni private, hanno offerto, la loro mano ben tesa a Berlusconi, hanno bruscamente voltato le spalle a chi aveva dato loro uno spazio politico che - spiace per loro - non avranno mai più. Alla fine, nel brutto show, torna a farsi avanti, sia pure con esuberanza un po' consumata, il corpo di ballo della compagnia Berlusconi. Arriva fino al punto da stappare bottiglie in aula come in una festa un po’ volgare delle matricole ricordando sempre che, «prima di tutto viene il rispetto per le istituzioni».
È una replica triste e dobbiamo domandarci che cosa abbiamo fatto per meritarcela. Nota bene. Tutto ciò avviene esattamente come e quando aveva predetto Berlusconi. Bisogna riconoscere un po’ di ragione alla persona che mi ha fermato fuori dal Senato: il potere dei soldi fa miracoli.
colombo_f@posta.senato.it
Che cosa sta facendo precipitare la crisi di governo: la monnezza di Napoli, il caso Mastella, il riproporsi del conflitto fra politica e legalità, l'incidente della visita mancata del papa alla Sapienza col seguito al rialzo dell'Angelus in Piazza San Pietro domenica e del proclama di Bagnasco ieri, l'imprudente annuncio di Walter Veltroni sul Pd che correrà da solo nell'arena elettorale, i contorcimenti ripetuti di Lamberto Dini e compagni, la delusione diffusa per l'azione del governo Prodi, le fotografie impietose dello stato del paese firmate Censis, New York Times, Financial Times? Tutti questi fattori uno dopo l'altro e uno sull'altro, si dirà ed è vero. Ma c'è un massimo comun denominatore fra tutti, ed è il collasso della politica che si è palesato in una settimana di fuoco, fra il conflitto con la magistratura reinnescato dal caso Mastella da un lato e il conflitto con la Chiesa inscenato dall'ondata (e dal senso comune) teocon-teodem dall'altro. La politica collassa in questa doppia morsa. Sull'una e sull'altra, al di là delle apparenti ripetizioni di film già visti, c'è di che riflettere.
Sul versante del duello fra ceto politico e magistratura, che per quanto sembri l'ennesima replica di una soap in onda da quindici anni è arrivato, fra Ceppaloni e Montecitorio, a un livello di drammatizzazione mai visto in precedenza, nemmeno sotto la monarchia di Berlusconi. Mai s'era visto infatti un attacco di tale entità alla magistratura sferrato dal guardasigilli in persona (col plauso dell'aula); e mai la magistratura era apparsa insieme tanto necessaria quanto insufficiente a combattere una corruzione e un malcostume politico che travalicano ogni definizione di reato, e procedono piuttosto da un completo sfarinamento dell'etica pubblica e da un compiuto processo di privatizzazione della politica (l'opposto esatto della politicizzazione del personale predicata qualche decennio fa dal '68 e dal femminismo). Tutto molto simile, ma tutto molto diverso dagli anni Tangentopoli e Mani pulite: spente le speranze palingenetiche (erroneamente) attribuite allora alla «rivoluzione giudiziaria», smentito il tentativo di far accettare alla politica il dispositivo fisiologico del controllo di legalità, svanite le illusioni di rinascita (erroneamente) riposte in una «seconda Repubblica» mai nata, o nata non sul risanamento ma sulla rimozione (e la continuazione) dei guasti della prima.
Sul versante del conflitto con la Chiesa, duello in verità con un unico duellante, dato il pressoché unanime coro di scandalo levatosi a difesa del Pontefice in tutto il mondo politico (cosiddetto) laico. Qui la novità è più consistente, anche se ampiamemente annunciata dagli ultimi anni di iniziativa teocon sempre più aggressiva e lasciata prosperare senza impedimenti, senza antivirus e senza contrasti, fra attacchi all'aborto, alla procreazione assistita e alla ricerca sulle staminali, maledizioni della sessualità «deviante», invocazioni della Verità assoluta. Il salto degli ultimi giorni supera però largamente tutti questi annunci. Non si tratta più infatti di una Chiesa che va alla conquista dell'egemonia sull'etica pubblica presentandosi come unica riserva di senso in un mondo senza bussola. Si tratta di una Chiesa che scende direttamente in campo, con Ratzinger Ruini e Bagnasco, come soggetto dichiaratamente politico che dichiaratamente detta l'agenda politica mobilitando dall'alto le sue divisioni. A spese dell'autorità morale e spirituale che dovrebbe connotare la figura del Pontefice. Se Atene piange, infatti, Sparta non ride. Nella morsa che l'attanaglia la politica perde senso e autonomia, e la religione pure.
Col compiacimento di chi si sente un libero pensatore, Bruno Tabacci scandisce parole grosse, che pochi altri politici possono permettersi: «Confesso che le brutte vicende di questi giorni - i rifiuti campani, la vicenda Mastella, la condanna a Cuffaro - mi hanno messo in una condizione di grande prostrazione. Nella vicenda politica oramai c’è soltanto la violenza delle diverse bande in campo. Comincio a provare disgusto per quel che siamo diventati: l’etica pubblica si disperde, siamo diventati campioni del conflitto di interesse, che esalta il nostro personale contro quello generale». Allievo di Albertino Marcora, già presidente democristiano della Regione Lombardia negli anni della Prima Repubblica, indagato e assolto durante Tangentopoli, da anni Bruno Tabacci vive con indipendenza di giudizio la militanza nell’Udc e nel centrodestra.
Il leader del suo partito, Pier Ferdinando Casini, ha tirato un sospiro di sollievo perché il Governatore di Sicilia Totò Cuffaro non è mafioso e dunque può restare al suo posto dopo una condanna a 5 anni. Lei condivide?
«Non sono d’accordo con la sottovalutazione fatta da Casini. La mia solidarietà umana a Cuffaro è fuori discussione, ma nella mia coscienza emerge un dissenso politico per l’indifferenza con la quale si valutano le sentenze giudiziarie. Qui non stiamo parlando di un divieto di sosta».
Quale il messaggio che viene fuori dalla vicenda?
«Quello della furbizia. Non si può ridurre tutto ad uno scontro tra poteri, nel quale oltretutto non emerge un’autorevolezza della politica, capace di indicare la strada di un rinnovamento anche alla magistratura. Una politica che si erge invece a difesa della casta».
Si obietta, il processo è lungo, fatto di tre gradi...
«Non è la prima volta che si ragiona così. Anche qualche illustre banchiere si è mosso sulla linea dell’irrilevanza della condanna di primo grado. Non è un esempio».
Con questo atteggiamento minimalista, non si alimenta il qualunquismo?
«Esattamente. Così si fa crescere l’antipolitica, non ci si può assolvere da soli in un sistema democratico fondato sulla divisione dei poteri. D’altra parte il giustizialismo e la risposta della piazza all’ebbrezza del sangue e alla decapitazione delle classi dirigenti, lo conosciamo già. Solo una politica alta e credibile può spingere la magistratura a recuperare appieno il senso dello Stato».
Lo spaccato offerto dall’inchiesta Mastella non racconta una politica impicciona sino a diventare soffocante?
«Emerge un quadro nel quale è difficile distinguere tra reato e costume tra fatti penalmente rilevanti e abitudini consolidate. Si staglia la crisi di una politica arrogante che giustifica ogni corporazione e furbizia, il prevalere dell’accaparramento personale sull’etica pubblica. Non sono più le raccomandazioni di Remo Gaspari. La sanità non è per il malato, ma per chi vi opera: la politica vuole controllare la sanità per controllare i bisogni dei cittadini nella debolezza della loro salute e condizionarne le scelte».
Nel Mezzogiorno l’etica pubblica fatica da decenni, ma al Nord la politica è davvero così disinteressata?
«Anche al Nord accadono certe cose e nella stessa Lombardia non è che i Formigoni ci vadano leggeri».
Se lei distingue le fasi del processo, non se la sente di rimproverare il segretario del suo partito, Lorenzo Cesa, o il collega di partito Cosimo Mele che sono ancora «a monte»...
«Non ho lesinato le critiche quando, nel venir meno dell’etica pubblica, poi si giustifica tutto».
Mastella che si è dimesso è meglio di Cuffaro?
«Dopo il suo intervento alla Camera, ho stretto la mano a Mastella e gli ho detto: “Dai subito dimissioni irrevocabili”. Lui mi ha risposto: “Prodi sta...”. E io: “Se pensi di utilizzare l’interesse di Prodi a galleggiare, non arrivi a stasera”. Se pensava di restare, non lo ha fatto e ha dato il segno di come ci si deve comportare in questi casi».
ROMA - «Una palla di neve diventata valanga». Mentre gli ultimi fedeli lasciano piazza San Pietro, Marcello Cini affida a questa immagine l’incipit delle sue parole. A lanciare la "palla di neve" fu lui - professore emerito di Fisica della Sapienza - con la lettera di "indignazione" per la lectio magistralis affidata a Benedetto XVI. Era il 14 novembre. Alla sua protesta si unirono i 67 firmatari del secondo appello al rettore contro "l’incongruo invito".
Ha seguito l’Angelus?
«No, ma mi sembra inaudito il linciaggio che abbiamo subito. Io ho scritto una lettera al rettore in cui sostenevo con molta chiarezza che è inammissibile affidare a un pontefice l’inaugurazione di un anno accademico. Nessuno vuole imbavagliare il Papa, ma il contesto "inaugurazione dell’anno accademico" è incompatibile con l’intervento di un pontefice. È tanto difficile da capire? Io non credo. Mi sembra piuttosto che il sistema politico si sia comportato in maniera ipocrita».
È deluso per il mancato sostegno?
«Presidente della Repubblica, ministro dell’Università, presidente del Consiglio. Tutti ci hanno attaccati. Siamo stati definiti "intolleranti", "cretini", "cattivi maestri", "laici malati" per una lettera al nostro rettore che avevamo tutto il diritto di scrivere e che è stata travisata in modo ignobile. Oggi per tutti noi siamo "quelli che vogliono imbavagliare il Papa"».
Ma perché la palla di neve è diventata valanga?
«Per l’estrema instabilità del teatro politico italiano, che è tutto un annaspare frenetico e caotico. In un sistema complesso e instabile, gesti piccoli e isolati producono conseguenze imprevedibili e sproporzionate. È il famoso battito d’ali di una farfalla che provoca un uragano».
Avete ricevuto messaggi di solidarietà?
«Sì, dalle persone più impensate. È l’unica nostra consolazione. Certo, non siamo arrivati a 200mila simpatizzanti».
Avete in mente iniziative future?
«Io sono un professore in pensione, non ho in mente nulla. Però scriverò una lettera al ministro dell’università Mussi. Per tutta la vita sono stato un uomo di sinistra, e la sua presa di posizione mi ha molto deluso. I miei colleghi pensano a un’iniziativa che riprenda la questione, ma in maniera distesa e pacata. Un’iniziativa di dialogo, invece di accettare questa caccia alle streghe senza reagire».
È probabile che Camillo Ruini, che per molti anni ha presieduto la Conferenza episcopale italiana e ancora influenza la Chiesa nella sua qualità di vicario di Roma, gioirà di quello che oggi potrebbe accadere nella capitale: una moltitudine di cittadini romani e italiani, da lui incitata e inebriata, accorrerà sicuramente all’Angelus, in piazza San Pietro, per ascoltare il Papa e denunciare la persecuzione di cui sarebbe stato vittima. Persecuzione che lo avrebbe indotto a non pronunciare più nell’aula universitaria la prolusione che gli era stata - senza seria preparazione - affidata. Il brutto episodio finirà col trasformarsi in una giornata gloriosa per la Chiesa, questo il giudizio cui sembra esser giunto il cardinale, e il male ancora una volta si muterà provvidenzialmente in bene. Lui stesso s’è espresso in questo modo, venerdì alla televisione, ripetendo quanto già detto il 4 novembre a Aldo Cazzullo sul Corriere. La Chiesa (tali furono le sue parole) è attaccata quando vince: «Constato che quando l’impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa “perde”, tutto fila liscio».
Il rifiuto che numerosi scienziati e un gruppo di studenti hanno opposto al Pontefice, la ritirata strategica del Santo Padre: tutto questo non è, per una parte della gerarchia, un episodio increscioso, o come ha detto sull’Avvenire Souad Sbai, in nome dell’Islam italiano anti-integralista, un «giorno di tristezza».
Forse non è del tutto increscioso neppure per il Papa. Al giornalista Rai che l’interrogava, Ruini ha detto: «I rapporti tra Stato italiano e Chiesa possono migliorare, grazie a episodi come questo».
E ha sorriso sibillino, come si rallegrano quei militanti apocalittici che provocano tenebre e caos pensando che solo a queste condizioni rinasca la luce, che incitano a sfasciare (nel linguaggio brigatista si diceva «disarticolare») per generare palingenesi prerivoluzionarie.
La sovversione ha in genere queste proprietà, avverse al filar liscio dei rapporti. Non a caso il sorriso di Ruini si accentua sino a tingersi di scherno, quando respinge l’accusa d’ingerenza nell’agenda politica e chiede - provocatoriamente, accendendo sorrisi complici nel giornalista - se ci sia oggi «qualcuno in Italia, capace di dettare agende politiche». Esiste insomma un modo di raccontare l’episodio della Sapienza, che deforma ogni cosa. Si falsifica quel che accade, si comprime il tempo che viviamo schiacciandolo tutto sul presente e togliendogli ogni profondità. Ci si racconta la storia di una Chiesa perseguitata, prendendo in prestito il linguaggio dell’esperienza ebraica; si denuncia e si irride la stasi della politica. In questo Ruini ha comportamenti sovversivi che singolarmente lo apparentano alla figura di Berlusconi.
Ma è un sovversivo che miete successi, e sono questi ultimi che conviene analizzare. Non è un successo religioso, perché l’indebolirsi delle fedi non si argina riempiendo piazze. Non è neppure in questione la libertà della religione cattolica, perché in Italia essa è garantita e ha un’estensione enorme. Nessuno l’ostacola, tanto meno la censura: se la fede è debole, quando è debole, lo è per cause spirituali o pastorali e non per cause esterne, di potere politico. Solo in Italia questa realtà è obnubilata. È sottratta allo sguardo dei cittadini anche dai commentatori che dovrebbero sapere e che sanno, senza però sentirsi in dovere di aiutare i fedeli a emettere giudizi adulti perché informati.
Quel che molti commentatori o intellettuali nascondono è il divario tra simili realtà e il modo di raccontarle. Il rapporto mimetico del cattolicesimo italiano con l’ebraismo è un non senso, nelle democrazie. Fuori dall’Italia, in Francia o Germania, Spagna o Inghilterra, esiste certo una nuova consapevolezza dell’importanza delle religioni (le parole e le esperienze personali di Sarkozy e Blair lo testimoniano), ma i mutamenti avvengono in contesti radicalmente diversi: in nessuno di questi Paesi la Chiesa ha il peso, il tempo di parola che ha in Italia. Venerdì, su questo giornale, Giacomo Galeazzi ha spiegato bene lo spazio abnorme che le viene dato: da quando è Papa, Benedetto XVI ha avuto un tempo d’antenna superiore a quello del premier e del Capo dello Stato, e appena inferiore a quello di tutti i ministri messi insieme. Non solo: la Chiesa cattolica ha il 99,8% dello spazio dell’informazione religiosa, lasciando briciole a altre fedi. Il vittimismo è storia senza sostanza. La Chiesa italiana non è imbavagliata ma piuttosto sovraesposta. L’idea che esistano comportamenti etici su cui lo Stato non può autonomamente legiferare perché appartenenti alla legge naturale, dunque iscritti dalla mano creatrice di Dio nella stessa natura umana, dunque interpretabili e tutelabili solo dalla Chiesa, è idea diffusa. Chi contesta il diritto della Chiesa a imporre i suoi veti su famiglia, unioni di fatto, aborto, testamento biologico, ricerca biologica, è una minoranza.
È questa situazione che ha finito col generare rabbia gridata, e stupida perché perdente. Ma rabbia che comunque non nasce dal nulla. Ogni evento ha una storia, un tempo lungo in cui è iscritto ed è maturato: ha cause che dispiegano effetti, non è istante che fluttua nell’etere come piuma ed è infilabile in ogni tipo di racconto. Questa verità viene ignorata da parte della gerarchia, ma anche dal Pontefice nell’ultimo incidente italiano. È la verità di una Chiesa italiana che ancora non ha deciso che fare, dopo la perdita della Dc: se schierarsi con la destra o no, se far politica direttamente o privilegiare lo spirituale, il profetico-pastorale. È la verità di un Pontefice che sta mostrandosi incapace di sintesi, di delicatezza istituzionale. Di volta in volta Benedetto XVI aderisce a una corrente o all’altra della gerarchia, senza anticipare proprie soluzioni alte e meno italiane. Un giorno s’infiamma contro il «degrado» di Roma, e ventiquattr’ore dopo descrive una città accogliente e ben governata. Precipitosamente accetta di aprire l’anno accademico, poi rinuncia senza fugare il sospetto che la ritirata sia uno strumento - maneggiato da Ruini - per inasprire le tensioni anziché placarle. La sua opinione politica oscilla, diventa impreparazione, per forza vien chiamata inconsistente.
È un’impreparazione che non solo ignora la dimensione del tempo ma che induce i vertici del Vaticano a sprezzare i significati profondi della laicità, dell’autonomia della politica, dello Stato neutrale. È assurdo doverlo ricordare alla presenza di un cattolicesimo che ha dato all’Europa questa separazione: ma laicità non è pensiero debole, non è visione relativista del mondo, dell’etica. Il laico non è, contrariamente a quello che Marcello Pera ha scritto su questo giornale, «chi non crede o non riesce a credere». Non è neppure chi non riesce a «conferire senso alla vita», a «interpretare il male» perché dotato del lume della ragione e non anche della fede. Il laico è colui che tra Chiesa e Stato sente di dover erigere, come diceva Thomas Jefferson, un alto «muro di separazione»: per proteggere sia la sovranità legiferante del popolo, sia le religioni. Diceva Jefferson che i poteri legislativi del governo «riguardano le azioni, non le opinioni» (Lettera ai Battisti di Danbury, 1802), e di azioni devono ancor oggi occuparsi i governi. La laicità non è un’opinione ma un metodo, uno spazio dove le convinzioni più diverse - anche integraliste - possono incontrarsi senza violenza e senza impedire leggi attente al bene comune. L’autonomia della politica (il «muro» di Jefferson) non appartiene al non cristiano: appartiene a ciascuno. Non esiste una forza esterna allo Stato cui viene delegata la «competenza delle competenze», come la chiama lo storico Giovanni Miccoli, e che può decidere le materie su cui lo Stato può o non può legiferare.
Il muro di Jefferson in Italia è in permanenza fatiscente - anche se esiste nella sua Costituzione - e questo origina cronici disordini e l’alternarsi continuo di ingerenze e di contestazioni anti-papaline. Queste ultime son state definite malate, ma non meno malate son state le ingerenze degli ultimi anni: l’intera spirale necessita guarigione e correzione. Il chiaro muro divisorio non esisteva nemmeno nella Spagna di Franco, nel Portogallo di Salazar, e quella malattia ha prodotto la reazione di Zapatero e le sue misure di riordino e separazione laica.
In Italia siamo a un bivio simile, anche se con impressionante ritardo. È come se nella nostra Chiesa permanesse ancora il modello franchista spagnolo, come se il pensiero di cattolici come Rosmini e Maritain non avesse mai messo radice. Come se non ci fossero stati il Concilio Vaticano II e Paolo VI, difensore della laicità di Maritain contro gli integralisti del Vaticano. Come se fosse ancora vivo e forte il «partito romano» che per decenni, da dentro la Chiesa, cercò di suscitare uno Stato etico cristiano in Italia e mai si conciliò con papa Montini e la Dc autonoma di De Gasperi.
L’episodio della Sapienza non è caduto dal cielo, e non rendersene conto significa che una certa imprudentia politica sta divenendo la caratteristica del Pontefice. Dice ancora Pera che le vecchie regole laiche sono sorpassate, e forse lo pensa anche Benedetto XVI. Sono invece più che mai attuali, in un’Europa dove si è ormai insediato un Islam forte, in espansione. Senza Stato laico, che garantisca cattolici e non cattolici, atei e agnostici, avremmo in Europa guerre di religioni, intolleranze, pogrom. Avremmo catastrofi benefiche solo a chi non sa apprezzare quanto si stia bene, quando «tutto fila liscio».
Seguono, all'articolo di Valentino Parlato , quelli di Eugenio Scalfari, Quanti atei dooevoti nel giardino del Papa, e di Cesare Magris, Chi è laico chi è clericale
il manifesto
Al mercato del Papa
di Valentino Parlato
La giornata di oggi, con l'appello di Ruini ad andare tutti a piazza San Pietro a sostegno del Papa, ci dice - a mio parere - che mai come in questi giorni la politica è caduta in basso. Non siamo più alla pur criticata massima che il fine giustifica i mezzi: il fine è stato degradato a mezzo. Siamo anche a un degrado del pur criticato mercato, che non è più il regolatore del vecchio Smith, bensì anche lui sede e strumento di basse speculazioni.
La storia è quella del Papa che doveva andare all'università e dell'opposizione di una parte del corpo insegnante. Qui comincia la prima speculazione del «pastore tedesco», il quale capisce che avrà più pubblicità non andando. Una sorta di «gran rifiuto». E qui siamo già alla speculazione pura: non contano né la religiosità, né la laicità.
A questo punto il ben noto cardinal Ruini raddoppia: tutti all'Angelus di oggi, domenica, per dimostrare che il Papa è forte e vincerà. Contemporaneamente scatta l'animo speculativo di una parte della sinistra e del cosiddetto partito democratico: bisogna andare per essere con il Papa e acquisire i voti dei cattolici, anche di quelli papalini. E già si annunciano presenze di parlamentari calabresi del Pd e altri ancora: tutti con il Papa per guadagnare i voti dei papalini (siamo sempre in pieno mercato).
Fortunatamente Arturo Parisi e Rosy Bindi (che sono cattolici sul serio) si sono dichiarati contrari (almeno così sembra) alla presenza dei Pd in piazza San Pietro e contrari alla formazione di una componente cattolica del Partito democratico (la lezione è venuta da vecchi democristiani).
Il guaio, meglio il sintomo di una profonda debolezza ideale, è che i più impressionati dal rifiuto di Benedetto XVI sono quelli del Pd, in parte provenienti dallo scomparso Pci. Non c'è solo Livia Turco che va alla veglia di Giuliano Ferrara, ma anche Veltroni e Mussi che si sbracciano a dire che loro il Papa lo amano e lo rispettano e lo avrebbero voluto alla Sapienza.
Oggi vedremo come andrà lo spettacolo in piazza San Pietro. Sicuramente sarà un successo al quale avranno contribuito anche componenti del Pd. Ma un successo di chi e per quale obiettivo?
La risposta è triste: un successo del trasformismo e della conservazione. Un ulteriore degrado della politica, che non ha più finalità grandi, ma è mossa solo dagli interessi particolari (mi dispiace dirlo) dei soci della casta, sempre più separati dalla gente, che - di necessità - butta sul qualunquismo e dà spazio a Beppe Grillo e agli altri.
Ps. Da segnalare che, sempre oggi, domenica, a Milano, in piazza Duomo, ci sarà un maxischermo sul quale, alle ore 12, si potrà vedere e sentire il messaggio di Papa Benedetto XVI. Si tratta di una prima assoluta. Il gonfalone di Milano sarà portato in piazza San Pietro dal sindaco Letizia Moratti. Qualcosa di più?
La Repubblica
Quanti atei devoti nel giardino del papa
di Eugenio Scalfari
NON CI sarebbe, secondo me, alcun bisogno di tornar a scrivere sull’agitato rapporto tra laici e cattolici, tra laicità sana o malata, tra spazio pubblico e spazio privato.
Questi e altri temi strettamente connessi sono infatti della massima importanza per il rafforzamento delle regole di convivenza sociale in uno Stato democratico, ma si evolvono e maturano con il passo lento dei processi storici. È quindi, o almeno così sembra a me, inutile e forse dannoso dibattere quotidianamente temi che sono già chiari alla coscienza di molti anche se le risposte di una società complessa non sono univoche ma plurime.
Capisco la voglia di farle convergere, capisco anche il legittimo desiderio dei credenti e di chi li guida a spingere i non credenti verso le loro convinzioni di fede per guadagnar loro la salvezza, ma capisco meno la petulanza ripetitiva che talvolta accoppia lo slancio missionario con un’attività pedagogica fondata sulla ferma credenza di chi depositario della verità considera come inferiori intellettualmente e spiritualmente quanti dissentono dal suo zelo religioso o ne accettano alcuni principi ispiratori respingendone la precettistica che l’accompagna.
Il dibattito sulla presenza-assenza del Papa all’inaugurazione dell’anno accademico della Sapienza ha rinfocolato alcune differenze sui modi di pensare e sui comportamenti pratici che ne derivano.
Il Vicario di Roma, cardinal Camillo Ruini, ha lanciato da giorni l’appello ad un’adunata di massa all’"Angelus" di oggi in piazza San Pietro. L’adunata ha preso inevitabilmente la forma politica che è propria delle manifestazioni di massa, dove è più il numero che la qualità a determinare gli esiti di una politica "muscolare".
Così bisogna di nuovo affrontare quei temi, precisare il significato di gesti e di parole, capire, se possibile, il senso di ciò che accade. La storia dello Stato italiano è fortemente intrecciata con quella della Chiesa. In nessun altro Paese questo intreccio è stato tanto condizionante e la ragione è evidente: siamo il luogo ospitante del Capo della cattolicità. Siamo stati e siamo il "giardino del Papa", ci piaccia o no. Questa condizione ha determinato in larga misura la nostra storia sociale e nazionale. Nel positivo e nel negativo, nelle azioni degli uni e nelle reazioni degli altri. Le persone ragionevoli non dovrebbero mai dimenticare queste condizioni di partenza, ma spesso purtroppo accade il contrario.
* * *
Metto al primo posto del mio ragionare l’incidente della Sapienza. Su di esso si è già espresso il nostro direttore ed io concordo interamente con lui: una laicità malata ha suggerito ad un gruppo di docenti e di studenti comportamenti di contestazione in sé legittimi ma divenuti oggettivamente provocatori. Di qui la necessità di garantire la sicurezza dell’insigne ospite, di qui la possibilità di tumulto tra opposte fazioni, di qui infine il fondato timore che Benedetto XVI dovesse parlare nell’aula magna mentre sotto a quelle finestre i lacrimogeni e i manganelli avrebbero potuto esser necessari: spettacolo certamente insopportabile per il "Pastor Angelicus" che predica pace e carità.
La contestazione "stupida", tuttavia, non è nata dal nulla ed è l’effetto di varie cause, anch’esse ricordate nell’articolo di Ezio Mauro: l’invito incauto del Rettore nel giorno, nell’ora e nel luogo dell’inaugurazione dell’anno accademico. Non dovrebbe essere un evento mondano e mediatico bensì l’indicazione delle linee-guida culturali e dei problemi concreti della docenza e degli studenti.
Il Rettore, evidentemente, ha un altro concetto, voleva l’evento. E l’ha avuto col risultato di dividere l’Università, la società, la cultura, le forze politiche, in una fase estremamente delicata della nostra vita pubblica.
Un esito catastrofico da ogni punto di vista, di cui il Rettore dovrebbe esser consapevole e trarne le conseguenze per quanto lo riguarda. Ci saranno tra breve le elezioni del nuovo Rettore. Quello attuale vinse la precedente tornata per una manciata di voti. Questa volta si presenterà come quello che voleva che il Papa parlasse alla Sapienza e ne è stato impedito. Un "asset" elettorale di notevole effetto.
Mi auguro che il Rettore non se ne renda conto, ma in tal caso la sua intelligenza risulterebbe assai modesta. Se se ne rende conto, il sospetto di un invito con motivazioni elettoralistiche acquisterebbe fondatezza.
Per fugarlo non c’è che un rimedio: protestare la sua ingenuità e non presentarsi in gara. I guelfi e i ghibellini nacquero anche così.
* * *
La risposta della gerarchia, guidata ancora da Ruini, è stata l’adunata di stamattina. Mentre scrivo non so ancora quale sarà l’esito quantitativo ma prevedo una piazza gremita e un mare di folla fino al bordo del Tevere. È un evento da salutare con piena soddisfazione? È una «serena manifestazione di affetto e di preghiera» per testimoniare l’amore dei fedeli al Santo Padre? Certamente è una manifestazione più che legittima.
Certamente le presenze spontanee saranno robustamente rinforzate dalle presenze organizzate, treni e pullman sono stati ampiamente mobilitati senza risparmio di mezzi dal Vicario del Vicario. La motivazione è esplicita: dimostrare al Papa l’amore del suo gregge dopo l’offesa subita.
Se questa non è una motivazione politica domando al Vicario del Vicario che cosa è. Se questo non avrà come effetto di acuire la tensione degli animi, la lacerazione d’un tessuto già usurato e logoro, ne deduco che il Vicario è privo di intelligenza politica. Ma siccome sappiamo che invece ne è ampiamente provvisto, ne consegue che il Vicariato di Roma si prefigge di accrescere la tensione degli animi e di annunciare venuta l’ora di rilanciare il partito guelfo che ha sempre avuto in cuore.
La Segreteria di Stato vaticana è dello stesso avviso? La Chiesa è unanime in questo obiettivo?
* * *
Abbiamo celebrato giovedì scorso in Senato il senatore, lo storico, il fervido credente Pietro Scoppola, da poco scomparso, alla presenza di molti cattolici che hanno condiviso il suo pensiero e la sua fede e si propongono di continuare nell’impegno da lui auspicato.
Scoppola aveva scavato a fondo nella storia dei cattolici italiani e nell’atteggiamento di volta in volta assunto dalla gerarchia e dal magistero papale. Distingueva il popolo di Dio dalla gerarchia; sosteneva che la gerarchia è al servizio del popolo di Dio e non viceversa.
Mi ha fatto molto senso vedere, proprio alla vigilia del mancato intervento del Papa alla Sapienza, la messa celebrata da Benedetto XVI nella Sistina col vecchio rito liturgico rinverdito a testimoniare la curva ad U rispetto al Concilio Vaticano II: il Papa con la schiena rivolta ai fedeli e la messa celebrata in latino.
Qual è il senso di questa scelta regressiva se non quello di ribadire che il mistero della trasformazione del vino e del pane in sangue e carne di Gesù Cristo viene amministrato dal celebrante senza che i fedeli possano seguire con gli occhi e in una lingua sconosciuta ai più? Il senso è chiarissimo: l’intermediazione dei sacerdoti non può essere sorpassata da un rapporto diretto tra i fedeli e Dio. Il laicato cattolico è agli ordini della gerarchia e non viceversa. Lo spazio pubblico è fruito dalla gerarchia e – paradosso dei paradossi – dagli atei devoti che hanno come fine dichiarato quello di utilizzare politicamente la Chiesa.
* * *
Si continua a dire, da parte della gerarchia e degli atei devoti, che i laici-laici (come vengono chiamati i credenti veramente laici e i non credenti che praticano la laicità democratica) vogliono relegare la religione nello spazio privato delle coscienze.
Questa affermazione è falsa. Chi pratica la laicità democratica sostiene che tutte le opinioni dispongono legittimamente di uno spazio pubblico per esporre e sostenere i loro modi di pensare.
La libertà religiosa è una, e direi la più importante, da tutelare sia nel foro della coscienza che in quello pubblico. Non mi pare che difetti quello spazio, mi sembra anzi che la gerarchia lo utilizzi pienamente anche a scapito di altre religioni e massimamente di chi non crede e potrebbe in teoria reclamare uno spazio più confacente.
Ma noi non abbiamo obiettivi di proselitismo. Facciamo, come si dice, quel che riteniamo di dover fare, accada quel che può. Tra l’altro cerchiamo di amare il prossimo e riteniamo che la predicazione evangelica contenga grande ricchezza pastorale quando non venga stravolta in strumento di potere, il che è accaduto purtroppo per gran parte della storia del Cristianesimo da parte non del popolo di Dio ma della gerarchia che l’ha guidato con l’obiettivo del temporalismo e del neo-temporalismo.
La lettura della storia dei Papi insegna molte cose e, quella sì, andrebbe fatta nelle scuole pubbliche. Papa Wojtyla ha chiesto perdono per alcuni di quegli episodi, ma non poteva certo chiederlo per tutti: avrebbe certificato che per secoli e secoli la gerarchia si è messa sul terreno della politica, della guerra ed anche purtroppo della simonia piuttosto che praticare nello specifico il messaggio di pace e di povertà della predicazione evangelica.
* * *
Ci saranno modi e occasioni per riprendere questo discorso che tende a chiarire ciò che non sempre è chiaro.
Mi restano due osservazioni da fare. Giornali di antica tradizione laica sembrano aver perso la bussola e si schierano apertamente accanto agli atei devoti.
Di atei devoti la storia d’Italia è purtroppo gremita.
L’ultimo nella fase dell’Italia monarchica fu Benito Mussolini. In tempi di storia repubblicana gli atei devoti fanno ressa e la faranno anche oggi alle transenne di piazza San Pietro.
Questa prima osservazione mi conduce alla seconda.
L’onorevole Mastella nella sua conferenza stampa di Benevento, mentre gli grandinavano addosso pesanti provvedimenti giudiziari, ha fatto come prima affermazione quella relativa alla sua presenza oggi a piazza San Pietro.
Dopo averla fatta si è guardato fieramente intorno con sguardo lampeggiante e ha scandito: «Io sono con il Papa e andrò a testimoniarlo in piazza».
Ne ha pieno diritto. Personalmente mi auguro che i pretesi reati di Mastella, di sua moglie, del suo clan, si rivelino per una montatura. Ma il problema è sul comportamento politico e morale di Mastella, di sua moglie del suo clan.
Un comportamento clientelare e ricattatorio che non ha scuse di sorta, rappresenta una deviazione molto grave dalla democrazia. Non è assolutamente valida la giustificazione proveniente dal fatto che si tratta di un male diffuso.
Negli stessi giorni della "mastelleide" abbiamo assistito anche alla "cuffareide": il popolo non di Dio ma di Totò Cuffaro si è radunato in preghiera nelle chiese della Sicilia; il "governatore" ha pianto di gioia e si è fatto il segno della croce quando ha ascoltato la lettura della sentenza dalla quale è stato condannato a cinque anni di reclusione (che non farà) e all’interdizione dai pubblici uffici che non rispetterà.
Il capo del suo partito, Casini, e il capo della coalizione di centrodestra, Berlusconi, si sono immediatamente complimentati con lui.
Che cos’ha di cattolico il comportamento di Clemente Mastella e di Totò Cuffaro? Nulla. Anzi è il contrario dello spirito cristiano.
Fossi nei panni del Vicario del Vicario farei discretamente e con mitezza sapere a Mastella, a Cuffaro, a Berlusconi, a Casini, che i loro comportamenti sono a dir poco imbarazzanti per la Chiesa e forse farebbero bene a non presenziare manifestazioni di testimonianza cristiana. Ma se poi si venisse a sapere che anche Camillo Ruini è un ateo devoto? Del resto sarebbe l’ultimo in ordine di tempo di un’interminabile sfilata di papi, cardinali, vescovi, abati, che tradirono – devotamente – il messaggio celeste del Figlio dell’uomo, da essi rappresentato.
Corriere della sera
Chi e’ laico chi e’ clericale
di Claudio Magris
Quando, all’università, con alcuni amici studiavamo tedesco, lingua allora non molto diffusa, e alcuni compagni che l’ignoravano ci chiedevano di insegnar loro qualche dolce parolina romantica con cui attaccar bottone alle ragazze tedesche che venivano in Italia, noi suggerivamo loro un paio di termini tutt’altro che galanti e piuttosto irriferibili, con le immaginabili conseguenze sui loro approcci. Questa goliardata, stupidotta come tutte le goliardate, conteneva in sé il dramma della Torre di Babele: quando gli uomini parlano senza capirsi e credono di dire una cosa usando una parola che ne indica una opposta, nascono equivoci, talora drammatici sino alla violenza. Nel penoso autogol in cui si è risolta la gazzarra contro l’invito del Papa all’università di Roma, l’elemento più pacchiano è stato, per l’ennesima volta, l’uso scorretto, distorto e capovolto del termine «laico», che può giustificare un ennesimo, nel mio caso ripetitivo, tentativo di chiarirne il significato. Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l’opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.
La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l’attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura — anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.
Una visione religiosa può muovere l’animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie. Laico è chi conosce il rapporto ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l’articolo del codice penale che punisce l’omicidio. Laico — lo diceva Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani — è chi si appassiona ai propri «valori caldi» (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i «valori freddi» (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi. Un altro grande laico è stato Arturo Carlo Jemolo, maestro di diritto e libertà, cattolico fervente e religiosissimo, difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa e duro avversario dell’inaccettabile finanziamento pubblico alla scuola privata — cattolica, ebraica, islamica o domani magari razzista, se alcuni genitori pretenderanno di educare i loro figli in tale credo delirante.
Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l’autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall’idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.
I bacchettoni che si scandalizzano dei nudisti sono altrettanto poco laici quanto quei nudisti che, anziché spogliarsi legittimamente per il piacere di prendere il sole, lo fanno con l’enfatica presunzione di battersi contro la repressione, di sentirsi piccoli Galilei davanti all’Inquisizione, mai contenti finché qualche tonto prete non cominci a blaterare contro di loro.
Un laico avrebbe diritto di diffidare formalmente la cagnara svoltasi alla Sapienza dal fregiarsi dell’appellativo «laico». È lecito a ciascuno criticare il senato accademico, dire che poteva fare anche scelte migliori: invitare ad esempio il Dalai Lama o Jamaica Kincaid, la grande scrittrice nera di Antigua, ma è al senato, eletto secondo le regole accademiche, che spettava decidere; si possono criticare le sue scelte, come io criticavo le scelte inqualificabili del governo Berlusconi, ma senza pretendere di impedirgliele, visto che purtroppo era stato eletto secondo le regole della democrazia.
Si è detto, in un dibattito televisivo, che il Papa non doveva parlare in quanto la Chiesa si affida a un’altra procedura di percorso e di ricerca rispetto a quella della ricerca scientifica, di cui l’università è tempio. Ma non si trattava di istituire una cattedra di Paleontologia cattolica, ovviamente una scemenza perché la paleontologia non è né atea né cattolica o luterana, bensì di ascoltare un discorso, il quale — a seconda del suo livello intellettuale e culturale, che non si poteva giudicare prima di averlo letto o sentito — poteva arricchire di poco, di molto, di moltissimo o di nulla (come tanti discorsi tenuti all’inaugurazione di anni accademici) l’uditorio. Del resto, se si fosse invitato invece il Dalai Lama — contro il quale giustamente nessuno ha né avrebbe sollevato obiezioni, che è giustamente visto con simpatia e stima per le sue opere, alcune delle quali ho letto con grande profitto — anch’egli avrebbe tenuto un discorso ispirato a una logica diversa da quella della ricerca scientifica occidentale.
Ma anche a questo proposito il laico sente sorgere qualche dubbio. Così come il Vangelo non è il solo testo religioso dell’umanità, ma ci sono pure il Corano, il Dhammapada buddhista e la Bhagavadgita induista, anche la scienza ha metodologie diverse. C’è la fisica e c’è la letteratura, che è pure oggetto di scienza — Literaturwissenschaft , scienza della letteratura, dicono i tedeschi — e la cui indagine si affida ad altri metodi, non necessariamente meno rigorosi ma diversi; la razionalità che presiede all’interpretazione di una poesia di Leopardi è diversa da quella che regola la dimostrazione di un teorema matematico o l’analisi di un periodo o di un fenomeno storico. E all’università si studiano appunto fisica, letteratura, storia e così via. Anche alcuni grandi filosofi hanno insegnato all’università, proponendo la loro concezione filosofica pure a studenti di altre convinzioni; non per questo è stata loro tolta la parola.
Non è il cosa, è il come che fa la musica e anche la libertà e razionalità dell’insegnamento. Ognuno di noi, volente o nolente, anche e soprattutto quando insegna, propone una sua verità, una sua visione delle cose. Come ha scritto un genio laico quale Max Weber, tutto dipende da come presenta la sua verità: è un laico se sa farlo mettendosi in gioco, distinguendo ciò che deriva da dimostrazione o da esperienza verificabile da ciò che è invece solo illazione ancorché convincente, mettendo le carte in tavola, ossia dichiarando a priori le sue convinzioni, scientifiche e filosofiche, affinché gli altri sappiano che forse esse possono influenzare pure inconsciamente la sua ricerca, anche se egli onestamente fa di tutto per evitarlo. Mettere sul tavolo, con questo spirito, un’esperienza e una riflessione teologica può essere un grande arricchimento. Se, invece, si affermano arrogantemente verità date una volta per tutte, si è intolleranti totalitari, clericali.
Non conta se il discorso di Benedetto XVI letto alla Sapienza sia creativo e stimolante oppure rigidamente ingessato oppure — come accade in circostanze ufficiali e retoriche quali le inaugurazioni accademiche — dotto, beneducato e scialbo. So solo che — una volta deciso da chi ne aveva legittimamente la facoltà di invitarlo — un laico poteva anche preferire di andare quel giorno a spasso piuttosto che all’inaugurazione dell’anno accademico (come io ho fatto quasi sempre, ma non per contestare gli oratori), ma non di respingere il discorso prima di ascoltarlo.
Nei confronti di Benedetto XVI è scattato infatti un pregiudizio, assai poco scientifico. Si è detto che è inaccettabile l’opposizione della dottrina cattolica alle teorie di Darwin. Sto dalla parte di Darwin (le cui scoperte si pongono su un altro piano rispetto alla fede) e non di chi lo vorrebbe mettere al bando, come tentò un ministro del precedente governo, anche se la contrapposizione fra creazionismo e teoria della selezione non è più posta in termini rozzi e molte voci della Chiesa, in nome di una concezione del creazionismo più credibile e meno mitica, non sono più su quelle posizioni antidarwiniane. Ma Benedetto Croce criticò Darwin in modo molto più grossolano, rifiutando quella che gli pareva una riduzione dello studio dell’umanità alla zoologia e non essendo peraltro in grado, diversamente dalla Chiesa, di offrire una risposta alternativa alle domande sull’origine dell’uomo, pur sapendo che il Pitecantropo era diverso da suo zio filosofo Bertrando Spaventa. Anche alla matematica negava dignità di scienza, definendola «pseudoconcetto». Se l’invitato fosse stato Benedetto Croce, grande filosofo anche se più antiscientista di Benedetto XVI, si sarebbe fatto altrettanto baccano? Perché si fischia il Papa quando nega il matrimonio degli omosessuali e non si fischiano le ambasciate di quei Paesi arabi, filo- o anti-occidentali, in cui si decapitano gli omosessuali e si lapidano le donne incinte fuori dal matrimonio?
In quella trasmissione televisiva Pannella, oltre ad aver infelicemente accostato i professori protestatari della Sapienza ai professori che rifiutarono il giuramento fascista perdendo la cattedra, il posto e lo stipendio, ha fatto una giusta osservazione, denunciando ingerenze della Chiesa e la frequente supina sudditanza da parte dello Stato e degli organi di informazione nei loro riguardi. Se questo è vero, ed in parte è certo vero, è da laici adoperarsi per combattere quest’ingerenza, per dare alle altre confessioni religiose il pieno diritto all’espressione, per respingere ogni invadenza clericale, insomma per dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, principio laico che, come è noto, è proclamato nel Vangelo.
Ma questa doverosa battaglia per la laicità dello Stato non autorizza l’intolleranza in altra sede, come è accaduto alla Sapienza; se il mio vicino fa schiamazzi notturni, posso denunciarlo, ma non ammaccargli per rivalsa l’automobile.
Una cosa, in tutta questa vicenda balorda, è preoccupante per chi teme la regressione politica del Paese, i rigurgiti clericali e il possibile ritorno del devastante governo precedente. È preoccupante vedere come persone e forze che si dicono e certo si sentono sinceramente democratiche e dovrebbero dunque razionalmente operare tenendo presente la gravità della situazione politica e il pericolo di una regressione, sembrano colte da una febbre autodistruttiva, da un’allegra irresponsabilità, da una spensierata vocazione a una disastrosa sconfitta.
L'immagine nell'articolo di Margris è: Masaccio, Pagamento del Tributo (1424-25 circa), Cappella Brancacci, Chiesa del Carmine, Firenze
«Quello che mi indigna un po', francamente, è questa pressoché unanime valanga che si sta rovesciando - oltre che su di me - sui firmatari dell'appello, sugli studenti che hanno reagito da studenti, in un unico blocco di violenti, intolleranti che hanno impedito al papa di venire alla Sapienza a parlare. Io rispondo per quanto mi riguarda, perché la mia è stata un'iniziativa personale - con una lettera scritta il 14 novembre su il manifesto - in cui mi rivolgevo al mio lettore.
E lo criticavo anche aspramente perché vedevo nell'invito a inaugurare l'anno accademico della Sapienza (di questo si trattava, anche se prima come lectio magistralis, poi camuffata all'italiana con un intervento nello stesso giorno, comunque)».
Il giorno dopo il «gran rifiuto», Marcello Cini è amareggiato. Ma non contrito. Contesta il modo in cui quasi tutti i media hanno costruito il mancato evento e le ragioni sue e dei firmatari della lettera al rettore della Sapienza. «La sostanza era l'invito al papa a inaugurare l'anno accademico. A questa proposta io ho reagito, e reagirei ancora oggi, per due ragioni. La prima è di tipo formale, ma essenziale. L'inaugurazione dell'anno accademico è un atto pubblico, forse il più importante, che riafferma la natura e la funzione dell'università come istituzione di crescita della conoscenza, di formazione della cultura al più alto livello, di uno stato laico, democratico, moderno, sui principi della Rivoluzione francese, dell'illuminismo e della modernità. Un atto importante - un rito se si vuole - che riafferma il modo in cui è organizzato questo processo di crescita e trasmissione della conoscenza alle giovani generazioni. Invitare al centro di questo rito laico un'autorità come il papa è di fatto una contraddizione in termini, non può che generare conflitto. Il papa è a capo di un'istituzione come la Chiesa cattolica, fondata su pricipi totalmente diversi - come il carattere gerarchico-autoritario, detentore di una verità assoluta proveniente direttamente da dio, quindi dalla trascendenza. Si fonda perciò su criteri di verità, metodologici e epistemologici, completamente diversi. È questo contesto che non si vuol capire. Ossia la coesistenza e il conflitto tra due istituzioni di natura diversa e fondate su principi in antitesi fra loro».
Un conflitto istituzionale che non implica affatto «censura», ma rispetto della diversità degli ambiti. «Ciò non vuol dire che il papa, come professor Ratzinger, non sia un professore universitario, un intellettuale fine, colto, ecc. Ma la confusione tra queste due figure che coesistono entro la stessa persona, ha permesso di generare - per esempio in occasione dell'invito a Ratisbona - un'interpretazione del suo discorso come una presa di posizione contro l'Islam, con tutte le polemiche che ne sono seguite».
Luogo e occasione, insomma, con parecchie riserve su come è stata realizzata l'idea della visita papale. «Non sarebbe successo nulla se il rettore e il Vaticano avessero semplicemente spostato la visita in un'altra data. Anche altri papi l'hanno fatto, esponendo il proprio punto di vista. Nei contenuti sarebbe stato poi approvato, obiettato, contestato, ecc».
Molte distinzioni «istituzionali» sembrano svanire nel dimenticatoio...
«Tutto questo si colloca in un contesto in cui questo papato - in particolare nel nostro paese - sta perseguendo una politica concreta tesa a sgretolare sempre di più la separazione tra Stato e Chiesa, tra repubblica italiana e clero. Questo ha creato una situazione in cui una presa di posizione legittima - un professore che si rivolge pubblicamente al proprio rettore - e fondata sulla separazione delle sfere di competenza, viene classificata, bollata e demonizzata come un'intolleranza da parte mia, dei miei colleghi e degli studenti. L'intolleranza quotidiana è quella che arriva alle telefonate del cardinal Bertone ai deputati italiani di stretta osservanza cattolica perché non votino certe leggi».
Sembra una scena da favola di Esopo (la volpe che accusa l'agnello)...
«Se questa reazione è un'intolleranza o un 'divieto di parlare', siamo a un tale stravolgimento della realtà dei fatti che, da un lato, non può che indignarmi; dall'altro - vedendo che tutta la sinistra e il centrosinistra si accoda a questa mistificazione - deprimermi profondamente. C'è un'incapacità di reagire a questo pensiero unico per cui il depositario dei valori è la religione e i laici non hanno valori. Per acquietare le coscienze e orientarsi sul senso della vita, sul lecito e il non lecito, su tutte queste cose l'unico riferimento ritorna a essere la religione. È colpa nostra».
Due giorni fa Joseph Ratzinger ha celebrato la messa nella cappella Sistina dando le spalle ai fedeli. Liturgia che il Vaticano II aveva sostituito con la celebrazione faccia a faccia perché non fosse un dialogo del sacerdote con dio, e i fedeli dietro, ma una celebrazione in comune. Ora si ritorna indietro. Da quando è papa ha riaperto ai lefebvriani, ha chiuso con il dialogo ecumenico all'interno stesso dell'area cristiana, ha negato nel non casuale lapsus culturale a Ratisbona, qualsiasi spiritualità all'islam, ha messo un alt all'avanzata di un sacerdozio femminile, ha ribadito l'obbligo del celibato per i sacerdoti, ha negato i sacramenti ai divorziati che si risposino, ha respinto nelle tenebre gli omosessuali, ha condannato non solo aborto e eutanasia, ma ogni forma di fecondazione assistita, ha interdetto la ricerca sugli embrioni, intervenendo ogni giorno direttamente o tramite i vescovi sulle politiche dello stato italiano. Tra un po' risaremo al Sillabo.
Sono scelte meditate, che significano un passo indietro rispetto al Concilio Vaticano II, che era stato un aprire le braccia all'intera comunità cristiana e oltre, a quel più vasto «popolo di dio» che era costituito, per il clero più illuminato, anche dai laici. Insomma, come Cristo la chiesa ridiscendeva fra la gente, e non saliva obbligatoriamente con lui sulla croce. Era stato Giovanni XXIII - un papa che non vantava grandi meriti teologici - a guardare con generosità alla crisi del cattolicesimo nel mondo moderno e a riaprirne i varchi. E ne venne un grande fervore, la crisi parve per breve tempo sciogliersi negli anni Sessanta. Ora si incancrenisce di nuovo basta leggere le preoccupate informazioni di Filippo Gentiloni sul posto che ha oggi la pratica del cattolicesimo fra gli italiani, e la crisi delle vocazioni che ne consegue.
E' con questo papa che l'intera sfera politica italiana, da destra a sinistra, a eccezione dei radicali, dialoga e compone, cedendo ogni giorno qualcosa di più. Già aveva cominciato Luigi Berlinguer a eludere il divieto costituzionale finanziando le scuole confessionali ma, se era una concessione, almeno non era il consenso a una perpetua interferenza. Che si è andata invece accentuando con Karol Woityla, dovunque le scelte politiche sfiorino il terreno della coscienza. Come se questa fosse dominio riservato alla religione, e perdipiù cattolica, e una coscienza laica non esistesse, o fosse di ordine inferiore.
Così ieri Giovanni Paolo II è stato invitato in quella sede eminentemente politica che è il Parlamento, cosa che ad Alcide de Gasperi non sarebbe mai venuta in mente e oggi Walter Veltroni trova che, Roma essendo sede del seggio pontificio, non è il caso di celebrarvi le unioni civili fra persone del medesimo sesso, e speriamo che non trovi maleducato continuare a celebrare quelle fra sessi diversi, ma maleducatamente civili. E l'università della capitale, dimentica che negli atenei nessuna autorità estranea, neppure i tedeschi occupanti aveva mai messo piede, invita Ratzinger - che ieri ha saggiamente rinunciato - a elargirle non so se parole o benedizioni, qualcuno sostenendo che sarebbe un sommo teologo l'autore delle due modeste encicliche su carità (o amore depurato da ogni eros) e speranza (nella salvezza), e d'un libro su Cristo che non ha fatto palpitare. Che la destra vaticana voglia la riconquista dello stato si capisce. Che questo le spalanchi le porte no. Inviterei Veltroni e la costituente del Pd a rileggere il dibattito del 1905 sulla separazione fra stato e chiesa. In essa Jaurès argomentava come essa costituisca la sola garanzia di libertà per l'uno e per l'altra. O in una democrazia postmoderna, postcomunista, riformista è più trend ispirarsi all'Opus Dei della signora Binetti?
Michele Serra
Rifiuti, ancora roghi e scontri. La Ue minaccia sanzioni
la Repubblica, 3 gennaio 2008
Una comunità che sprofonda e soffoca nei propri escrementi: difficile immaginare un’allegoria più devastante, quasi dantesca nella sua potenza punitiva. Le immagini infernali (e annose) di Napoli e parte della Campania che cercano una impossibile purificazione nel rogo delle cataste di rifiuti che intasano le strade ci riguardano non solo perché Napoli è Napoli, città del mondo affidata alla custodia italiana.
Ma perché quell’occlusione, pur essendo una catastrofe locale, incarna e ravviva una delle paure collettive più attuali e – ahimé – più motivate: quella di non essere più in grado, come consesso umano, di smaltire le nostre deiezioni. E di controllare, di governare la progressione geometrica dei consumi e delle scorie.
Naturalmente, al netto di questa sensazione (la sensazione, cioè, che le scorie di Napoli siano solo le più visibili, le più infette e ingombranti nel breve periodo), rimane lo scandalo, gigantesco, di un apparato politico, amministrativo, industriale e tecnico che proprio lì, e proprio ora, è stato totalmente sopraffatto dal fenomeno, e non è in grado di gestirlo. E l’immagine di autorità sopraffatte, a ben vedere, è perfino più paurosa del vecchio luogo comune – molto diffuso al Sud - delle autorità sopraffattrici: né la speculazione né eventuali arbitrii nelle decisioni hanno potuto sortire alcun effetto. Quando il risultato finale è l’impotenza, vuol dire che a lasciare il segno non è l’arroganza del potere, ma la sua debolezza, la sua latitanza. Ed è perfino peggio.
L’ultimo capitolo della labirintica vicenda dei rifiuti campani, fatta di continui passi falsi e frettolosi arretramenti, è la tentata riapertura di una discarica, quella di Pianura, chiusa dodici anni fa con la trionfale promessa di aprire proprio lì un campo da golf. Ma i green non si sono visti. Semmai si vedranno tornare, come un figliol prodigo non particolarmente atteso, i rifiuti, sotto la forma di quelle ecoballe che si accumulano a decine di migliaia, fino a formare non metaforiche catene montuose, nei siti che dovrebbero avviare i rifiuti ai due grandi inceneritori mai attivati.
A quanto si capisce (e non è facile orientarsi) il sistema di smaltimento della Regione Campania è infatti come un intestino chiuso, senza sbocco. Era stato impostato oltre dieci anni fa, dal governo regionale di centrodestra, sui termovalorizzatori di Acerra e di Santa Maria La Fossa, che avrebbero dovuto bruciare le famose ecoballe, a loro volta sbocco intermedio della raccolta differenziata.
A quanto pare nessuno di questi tre livelli (raccolta differenziata, trasformazione in ecoballe, incenerimento) è riuscito ad andare a regime. La raccolta differenziata a Napoli viaggia, secondo stime desolanti, attorno al dieci per cento del totale, e già qui è molto difficile stabilire se sia una mediocrissima pedagogia politica o il disastroso stato del senso civico diffuso a produrre i danni peggiori, le negligenze più gravi. Le ecoballe, che dovrebbero "preparare" i rifiuti allo smaltimento finale, evitando di destinare agli inceneritori anche i rifiuti tossici o riciclabili, pare siano del tutto inadeguate al loro scopo, spesso puri involti di tutto quello che finisce in discarica, indiscriminatamente. Quanto ai due termovalorizzatori, la storia è nota: ne esiste uno soltanto, quello di Acerra, ma ancora virtuale, non in grado di funzionare. E nel frattempo le ecoballe si accumulano a dismisura, intasando il livello intermedio. E i rifiuti rimangono nelle strade, intasando la vita delle persone.
Se il disastro fin qui descritto assomiglia alla realtà e alla verità, è ovvio che le colpe non possono essere limitate. Certamente il potere regionale, che si identifica da parecchi anni con il governatore Bassolino (che è stato anche, per lungo tratto, commissario straordinario per l’emergenza rifiuti), deve sobbarcarsi la percentuale più alta e inappellabile delle responsabilità. Ha ereditato dal centrodestra un’ipotesi di smaltimento, l’ha fatta propria, non è riuscita a portarla a compimento. Le municipalità locali, e questo salta all’occhio, non hanno neanche provato a farsi carico di ciò che non le riguardava. "Dove volete, ma non nel mio cortile" è stata la dilagante parola d’ordine in grado di animare ogni subbuglio, ogni preoccupazione per la salute locale ma anche ogni menefreghismo e ogni mini-localismo. "No alla discarica", e pazienza se la mia merda andrà a intasare le fognature degli altri. Basta che io non ne senta la puzza.
La camorra ha trasformato in industria l’inefficienza pubblica, si infila in ogni possibile pertugio lasciato incustodito dallo Stato, figurarsi in una voragine del genere. Ma viene da domandarsi se non sia, quello della mano malavitosa sui rifiuti, solamente uno scandalo collaterale rispetto all’incapacità di una regione popolosa, importante, depressa in alcune plaghe ma operosa, industrializzata e perfino tecnologica in altre sue parti, di mettere in piedi un sistema di smaltimento in grado di funzionare.
Perfino il dibattito sui modi (inceneritori sì o no, eccetera) è del tutto ozioso, lussuosamente ideologico, in una zona d’Italia che contempla le sue montagne di scorie senza riuscire a immaginare una maniera, virtuosa o viziosa che sia, di liberare il paesaggio. La regione italiana che esprime il leader dei Verdi, nonché ministro per l’Ambiente, non può fare altre ipotesi sul proprio futuro ambientale se non quella di turarsi il naso per sopravvivere.
Massimo Serafini
Una politica usa e getta
il manifesto, 5 gennaio 2008
Le nuove giornate di fuoco scatenate in Campania dall'eterna emergenza rifiuti sollecita una domanda: perché il rifiuto di inceneritori e discariche della popolazione campana è così radicale, «senza se e senza ma», infinitamente più duro che in altri posti, al punto da invocare la presenza dell'esercito? La risposta è semplice: da decenni la camorra seppellisce illegalmente, con profitti elevatissimi, nel territorio campano gran parte dei rifiuti tossici delle imprese del nord.
E in particolare di rifiuti tossici delle imprese lombarde e venete. Questa scomoda verità è da tempo nota, anche perché è tutta scritta in Gomorra, il bel libro di Saviano. Forse sarebbe il caso di mandare ai cancelli di quelle fabbriche esercito e polizia e non contro le popolazioni, in modo da far cessare questo traffico illegale che ha avvelenato gran parte della terre e delle acque della Campania, causando una diffusione di tumori e malattie di ogni tipo fra la popolazione che non ha pari in nessuna altra regione italiana.
Se non si parte da qui non si capisce nulla dell'emergenza rifiuti e della rabbia delle popolazioni. Soprattutto rende irricevibili i pelosissimi e continui richiami alla razionalità e l'invito di tanti a dire qualche sì, a cominciare dal presidente di Confindustria, che ha coperto le imprese responsabili di questi traffici mortali. Che cosa è stato fatto per stroncare questo traffico o per bonificare la terra intossicata ed avvelenata? Nulla, anzi dai cumuli ammassati lungo le strade non emana solo odore di marcio si sente forte la puzza dell' intreccio fra affari e politica su cui questa realtà ha potuto consolidarsi.
Grandi sono dunque le responsabilità dei decisori politici, soprattutto quelli di sinistra, che in questi anni sono stati latitanti. Forse più che di latitanza bisognerebbe parlare di colpa: di avere accettato la cultura della crescita infinita dei consumi e quindi dei rifiuti, così ben sintetizzata dalla pubblicità dei rasoi Gillette «la comodità dell'usa e getta» con cui ogni sera veniamo martellati ed educati al dogma dell'eterna crescita economica. Ma la colpa più grande è quella di aver pensato che il problema fosse possibile risolverlo con i commissari e con l'intervento straordinario, escludendo la popolazione e i suoi sindaci. Una scelta assurda e miope, imposta con innumerevoli decreti di proroga che hanno attraversato sempre uguali la prima e la seconda repubblica. Una decisione con cui di fatto si è tolta ogni possibilità all'unica politica che permette di gestire i rifiuti quella che chiede prima di pensare se seppellirli o incenerirli di organizzare le tre R: ridurne la quantità, raccoglierli in modo differenziato e riciclarli. Poi si penserà a ciò che resta.
Queste politiche non partono per ordine di un commissario né per decreto, ma solo se si organizzano le donne e gli uomini e li si convince offrendo loro partecipazione, conoscenza, una cultura critica del consumismo, nuovi stili di vita, tutte cose che solo un intervento ordinario e quotidiano, gestito da decisori, come i sindaci, vicini alla gente, può garantire.
E l'emergenza? Nessuno la nega, ma paradossalmente solo commissariando i commissari la si può affrontare. Soprattutto dando qualche segnale alla popolazione di un cambio di passo: far capire a chi ha fallito ed è responsabile di questo disastro che esiste la nobile arte delle dimissioni e soprattutto presentando piani di bonifica e di organizzazione delle tre R. Solo così anche misure straordinarie ed impiantistiche saranno capite e accettate e non imposte.
Roberto Saviano
Ecco tutti i colpevoli della peste di Napoli
la Repubblica, 5 gennaio 2008
È UN territorio che non esce dalla notte. E che non troverà soluzione. Quello che sta accadendo è grave, perché divengono straordinari i diritti più semplici: avere una strada accessibile, respirare aria non marcia, vivere con speranze di vita nella media di un paese europeo. Vivere senza dovere avere l’ossessione di emigrare o di arruolarsi. E’una notte cupa quella che cala su queste terre, perché morire divorati dal cancro diviene qualcosa che somiglia ad un destino condiviso e inevitabile come il nascere e il morire, perché chi amministra continua a parlare di cultura e democrazia elettorale, comete più vane delle discussioni bizantine e chi è all’opposizione sembra divorato dal terrore di non partecipare agli affari piuttosto che interessato a modificarne i meccanismi.
Si muore di una peste silenziosa che ti nasce in corpo dove vivi e ti porta a finire nei reparti oncologici di mezza Italia. Gli ultimi dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media nazionale. La rivista medica The Lancet Oncology già nel settembre 2004 parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche e le donne sono le più colpite. Val la pena ricordare che il dato nelle zone più a rischio del nord Italia è un aumento del 14%. Ma forse queste vicende avvengono in un altro paese. Perché chi governa e chi è all’opposizione, chi racconta e chi discute, vive in un altro paese. Perché se vivessero nello stesso paese sarebbe impensabile accorgersi di tutto questo solo quando le strade sono colme di rifiuti. Forse accadeva in un altro paese che il presidente della Commissione Affari Generali della Regione Campania fosse proprietario di un’impresa - l’Ecocampania - che raccoglieva rifiuti in ogni angolo della regione e oltre, e non avesse il certificato antimafia. Eppure non avviene in un altro paese che i rifiuti sono un enorme business. Ci guadagnano tutti: è una risorsa per le imprese, per la politica, per i clan, una risorsa pagata maciullando i corpi e avvelenando le terre. Guadagnano le imprese di raccolta: oggi le imprese di raccolta rifiuti campane sono tra le migliori in Italia e addirittura capaci di entrare in relazione con i più importanti gruppi di raccolta rifiuti del mondo. Le imprese di rifiuti napoletane infatti sono le uniche italiane a far parte della EMAS, francese, un Sistema di Gestione Ambientale, con lo scopo di prevenire e ridurre gli impatti ambientali legati alle attività che si esercitano sul territorio. Se si va in Liguria o in Piemonte numerosissime attività che vengono gestite da società campane operano secondo tutti i criteri normativi e nel miglior modo possibile. A nord si pulisce, si raccoglie, si è in equilibrio con l’ambiente, a sud si sotterra, si lercia, si brucia. Guadagna la politica perché come dimostra l’inchiesta dei Pm Milita e Cantone, dell’antimafia di Napoli sui fratelli Orsi (imprenditori passati dal centrodestra al centrosinistra) in questo momento il meccanismo criminogeno attraverso cui si fondono tre poteri: politico imprenditoriale e camorristico - è il sistema dei consorzi. Il Consorzio privato-pubblico rappresenta il sistema ideale per aggirare tutti i meccanismi di controllo. Nella pratica è servito a creare situazioni di monopolio sulla scelta di imprenditori spesso erano vicino alla camorra. Gli imprenditori hanno ritenuto che la società pubblica avesse diritto a fare la raccolta rifiuti in tutti i comuni della realtà consorziale, di diritto. Questo ha avuto come effetto pratico di avere situazioni di monopolio e di guadagno enorme che in passato non esistevano. Nel caso dell’inchiesta di Milite e Cantone accadde che il Consorzio acquistò per una cifra enorme e gonfiata (circa nove milioni di euro) attraverso fatturazioni false la società di raccolta ECO4. I privati tennero per se gli utili e scaricarono sul Consorzio le perdite. La politica ha tratto dal sistema dei consorzi 13.000 voti e 9 milioni di euro all’anno, mentre il fatturato dei clan è stato di 6 miliardi di euro in due anni.
Ma guadagnano cifre immense anche i proprietari delle discariche come dimostra il caso di Cipriano Chianese, un avvocato imprenditore di un paesino, Parete, il suo feudo. Aveva gestito per anni la Setri, società specializzata nel trasporto di rifiuti speciali dall’estero: da ogni parte d’Europa trasferiva rifiuti a Giugliano-Villaricca, trasporti irregolari senza aver mai avuto l’autorizzazione dalla Regione. Aveva però l’unica autorizzazione necessaria, quella della camorra. Accusato dai pm antimafia Raffaele Marino, Alessandro Milita e Giuseppe Narducci di concorso esterno in associazione camorristica ed estorsione aggravata e continuata, è l’unico destinatario della misura cautelare firmata dal gip di Napoli. Al centro dell’inchiesta la gestione delle cave X e Z, discariche abusive di località Scafarea, a Giugliano, di proprietà della Resit ed acquisite dal Commissariato di governo durante l’emergenza rifiuti del 2003. Chianese - secondo le accuse - è uno di quegli imprenditori in grado di sfruttare l’emergenza e quindi riuscì con l’attività di smaltimento della sua Resit a fatturare al Commissariato straordinario un importo di oltre 35 milioni di euro, per il solo periodo compreso tra il 2001 e il 2003. Gli impianti utilizzati da Chianese avrebbero dovuto essere chiusi e bonificati. Invece sono divenute miniere in tempo di emergenza. Grazie all’amicizia con alcuni esponenti del clan dei Casalesi, hanno raccontato i collaboratori di giustizia, Chianese aveva acquistato a prezzi stracciati terreni e fabbricati di valore, aveva ottenuto l’appoggio elettorale nelle politiche del 1994 (candidato nelle liste di Forza Italia, non fu eletto) e il nulla osta allo smaltimento dei rifiuti sul territorio del clan. La Procura ha posto sotto sequestro preventivo i beni riconducibili all’avvocato-imprenditore di Parete: complessi turistici e discoteche a Formia e Gaeta oltre che di numerosi appartamenti tra Napoli e Caserta. L’emergenza di allora, la città colma di rifiuti, i cassonetti traboccanti, le proteste, i politici sotto elezione hanno trovato nella Resit con sede in località Tre Ponti, al confine tra Parete e Giugliano, la loro soluzione. Sullo smaltimento dei rifiuti in Campania ci guadagnano le imprese del nord-est. Come ha dimostrato l’operazione Houdini del 2004, il costo di mercato per smaltire correttamente i rifiuti tossici imponeva prezzi che andavano dai 21 centesimi a 62 centesimi al chilo. I clan fornivano lo stesso servizio a 9 o 10 centesimi al chilo. I clan di camorra sono riusciti a garantire che 800 tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, proprietà di un’azienda chimica, fossero trattate al prezzo di 25 centesimi al chilo, trasporto compreso. Un risparmio dell’80% sui prezzi ordinari. Se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati diverrebbero una montagna di 14.600 metri con una base di tre ettari, sarebbe la più grande montagna esistente ma sulla terra. Persino alla Moby Prince, il traghetto che prese fuoco e che nessuno voleva smaltire, i clan non hanno detto di no. Secondo Legambiente è stata smaltita nelle discariche del casertano, sezionata e lasciata marcire in campagne e discariche. In questo paese bisognerebbe far conoscere Biùtiful cauntri (scritto alla napoletana) un documentario di Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio e Peppe Ruggiero: vedere il veleno che da ogni angolo d’Italia è stato intombati a sud massacrando pecore e bufale e facendo uscire puzza di acido dal cuore delle pesche e delle mele annurche. Ma forse è in un altro paese che si conoscono i volti di chi ha avvelenato questa terra. E’in un altro paese che i nomi dei responsabili si conoscono eppure ciò non basta a renderli colpevoli. E’in un altro paese che la maggiore forza economica è il crimine organizzato eppure l’ossessione dell’informazione resta la politica che riempie il dibattito quotidiano di intenzioni polemiche, mentre i clan che distruggono e costruiscono il paese lo fanno senza che ci sia un reale contrasto da parte dell’informazione, troppo episodica, troppo distratta sui meccanismi. Non è affatto la camorra ad aver innescato quest’emergenza. La camorra non ha piacere in creare emergenze, la camorra non ne ha bisogno, i suoi interessi e guadagni sui rifiuti come su tutto il resto li fa sempre, li fa comunque, col sole e con la pioggia, con l’emergenza e con l’apparente normalità, quando segue meglio i propri interessi e nessuno si interessa del suo territorio, quando il resto del paese gli affida i propri veleni per un costo imbattibile e crede di potersene lavare le mani e dormire sonni tranquilli. Quando si getta qualcosa nell’immondizia, lì nel secchio sotto il lavandino in cucina, o si chiude il sacchetto nero bisogna pensare che non si trasformerà in concime, in compost, in materia fetosa che ingozzerà topi e gabbiani ma si trasformerà direttamente in azioni societarie, capitali, squadre di calcio, palazzi, flussi finanziari, imprese, voti. E dall’emergenza non si vuole e non si po’ uscire perché è uno dei momenti in cui si guadagna di più. L’emergenza non è mai creata direttamente dai clan, ma il problema è che la politica degli ultimi anni non è riuscita a chiudere il ciclo dei rifiuti. Le discariche si esauriscono. Si è finto di non capire che fino a quando sarebbe finito tutto in discarica non si poteva non arrivare ad una situazione di saturazione. In discarica dovrebbe andare pochissimo, invece quando tutto viene smaltito lì, la discarica si intasa. Ciò che rende tragico tutto questo è che non sono questi i giorni ad essere compromessi, non sono le strade che oggi solo colpite delle "sacchette" di spazzatura a subire danno. Sono le nuove generazioni ad essere danneggiate. Il futuro stesso è compromesso. Chi nasce neanche potrà più tentare di cambiare quello che chi li ha preceduti non è riuscito a fermare e a mutare. L’80 per cento delle malformazioni fetali in più rispetto alla media nazionale avvengono in queste terre martoriare. Varrebbe la pena ricordare la lezione di Beowulf, l’eroe epico che strappa le braccia all’Orco che appestava la Danimarca: "il nemico più scaltro non è colui che ti porta via tutto, ma colui che lentamente ti abitua a non avere più nulla". Proprio così, abituarsi a non avere il diritto di vivere nella propria terra, di capire quello che sta accadendo, di decidere di se stessi. Abituarsi a non avere più nulla.
Non è serio ridurre la questione della legge elettorale alla solita rissa fra notabili. Quali che siano i limiti della democrazia rappresentativa, considerare il problema come inesistente è una frivolezza che non ci possiamo permettere.
Il sistema elettorale «alla francese», al quale inclina Walter Veltroni, è il peggiore nei dintorni. Un presidenzialismo secco, vera e propria monarchia, senza neanche un'adeguata informazione degli elettori: Nicolas Sarkozy, scelto dal suo partito nel giro di due sedute a 2007 già avanzato, era presidente della Repubblica quattro mesi dopo. Peggio che negli Usa.
Nel sistema statunitense come in quello francese l'obiettivo è ridurre più che si può la complessità delle espressioni politiche in una società complessa. Cosa che negli Usa è, molto parzialmente, corretta da una divisione dei poteri, in Francia assai meno. E non penso a quella elementare divisione che dovrebbe darsi fra presidenza, governo e parlamento; già era poca cosa dopo la costituzione di De Gaulle del 1958, adesso sarà ancora meno, dato che secondo la commissione nominata da Sarkozy se finora toccava al presidente e al governo decidere la linea della Repubblica, d'ora in poi questo toccherà soltanto al presidente.
Ogni sistema presidenziale sembra fatto per dare voce, dovunque, alle spinte meno riflettute, più manipolate, delle popolazioni relative: vota un re! Fidati di lui! Il buon popolo americano ha votato in massa per la rielezione di George W. Bush perché aveva fatto e continuava a fare la guerra. Il buon popolo francese ha votato, anch'esso in massa, Nicolas Sarkozy, perché si proclamava un fautore dell'ordine e dello slogan «arricchitevi» in salsa parigina. Adesso i cittadini degli Stati uniti sono pentiti di avere votato Bush e i sondaggi francesi danno Sarkozy in vistoso calo, a meno di sei mesi di distanza dall'averlo messo in trono.
C'è da riflettere sullo spessore di un sistema democratico, da esportare fin con la guerra, nel quale si vota a vanvera, pagando poi prezzi altissimi. Eppure Bush s'è presentato per quel che era, Sarkozy non ha mentito sulle sue intenzioni: voleva mettere ordine, ha aumentato la polizia e sta riducendo poteri e mezzi della magistratura, voleva difendere la «francesità» e intende sbattere fuori 25.000 immigrati all'anno, e obliga a chi vuole riunirsi alla famiglia a sottoporsi alla prova del dna.
Voleva far «lavorare di più per guadagnare di più» e sta facendo fuori quel che restava delle 35 ore e ha già fatto passare gli straordinari senza contributi sociali. Aveva annunciato la discontinuità, e ha elogiato i benefici del colonialismo e riportato la Francia in linea con la politica estera del Pentagono. Di passaggio, si è aumentato l'indennità presidenziale del 140%. Di queste vicende a Veltroni evidentemente non cale.
Il presidenzialismo piace a chi è persuaso, come il «Sindaco d'Italia» e a colui che era il suo maggior avversario fino a poco tempo fa, che al governo è meglio essere soli, senza l'intralcio di opposizioni in grado di contare qualcosa. E senza avere fra i piedi una piccola minoranza di sinistra alternativa. Il richiamo al sistema francese è eloquente: esso si propone di distruggere tutti i contendenti salvo due. E già dire due è molto, perché negli Usa come in Francia, è difficile che il secondo arrivato resti visibile: chi si ricorda più di Kerry? E che cosa conta più Segolène Royal, che alle presidenziali aveva raccolto il 47 per cento di voti? Non che il proporzionale "alla spagnola" sia molto meglio, ma almeno non azzera del tutto. In verità, ha ragione Sartori, un qualsiasi democratico dovrebbe arretrare ululando davanti a qualsiasi premio di maggioranza. Resta la necessità per chi non è uno dei due grandi partiti ammessi dal bipolarismo, di esistere. Anche sul piano istituzionale. Perché fuori di esso si danno gruppi di opinione, movimenti, isole di soldiarietà, oppure la rivolta. Almeno su questo le sinistre a sinistra del Pd si dovrebbero accordare e non solo in separata sede. C'è una battaglia da dare in un paese scombussolato. Che da noi oggi la Costituzione sia considerata uno straccio conteso fra quattro poveracci è un po' penoso.
Quando quest’orgia di emozioni sul "Vesuvio buono" sarà assorbita resterà un’opera di architettura di uno straordinario architetto italiano. Ricordo l’incredulità dei contadini nella sezione del Pci, io inviato dal Partito, quando si resero conto di avere perduto le proprie terre di pianura e irrigue, capaci di tre raccolti l’anno. Territori di alta produttività agraria furono così inseriti nell’"Area di sviluppo industriale" di Nola su un progetto urbanistico redatto da tecnici, commessi di scelte irresponsabili. Insisto: erano zone pianeggianti e irrigue.
Si documentò l’enorme perdita di suolo produttivo per esigenze industriali sproporzionate, con una scelta priva di serie premesse economiche e sociali. In seguito la crisi industriale e l’accaparramento di superfici a prezzi contratti verificano in maniera indiscutibile l’irresponsabilità di consentire al Cis di Nola, organismo commerciale, di realizzare il proprio insediamento.
È opportuno rileggere il procedimento 10862/B/95 e l’affidamento, quale incidente probatorio, da parte del giudice per le indagini preliminari di una perizia sulla legittimità dell’intervento Cis eseguito. Questo studio contesta fermamente la conformità agli strumenti urbanistici vigenti delle concessioni edilizie, tra l’altro di enormi dimensioni, giustificate dall’interpretazione vaga e inconsistente di "insigni giuristi" napoletani; documenta l’irritualità di attrezzature destinate ad attività commerciali - è la definita funzione del Cis - in quanto il Piano Asi vincola in maniera univoca il territorio investito per interventi industriali, unica finalità. Quindi la destinazione commerciale era esclusa. In sede penale viene derubricato il delitto relativo al 416 bis nell’articolo 378 cp e viene dichiarato il non luogo a procedere dati i tempi di prescrizione raggiunti. Il Pg si appella, la Corte di Assise conferma la sentenza.
E l’illegittimità di quanto concesso in superfici e volumi resta, non essendoci purtroppo "prescrizioni" su di essi. È necessario un grande sforzo ad avere fiducia nella pianificazione urbanistica e nei diritti naturali dei contadini irrigui. Si esce da tale vicenda, oggi conclusa con l’avvitamento nell’ambiente del Bacino dei Regi Lagni del "Vesuvio buono" tanto caro alla collettività irriflessiva con la verifica ancora di una sconfitta, la mancata protezione e sviluppo coerenti del territorio da parte delle autorità preposte al rispetto di tutte le preesistenze, dei valori irrinunciabili della politica economica. È grave. Resta un’opera di architettura, ma in un luogo offeso dall’arroganza di organismi amministrativi locali i quali utilizzano indifferentemente l’ambiente per suggellare, in acqua, il potere di una classe dirigente.
Poste in gioco In un sistema ispirato a prassi neo-patromoniali di accaparramento, vincere o perdere le elezioni può significare moltissimo in termini non solo di governo ma di arricchimento personale
Un tempo in Kenya non c'erano né urne né schede elettorali. Nei giorni comandati gli elettori si recavano ai seggi senza matita perché il voto non si esprimeva votando ma mettendosi in fila dietro alle insegne del proprio candidato. Il massimo di trasparenza con il minimo di libertà di scelta. Il sistema della «coda» (queuing nel linguaggio giornalistico in uso allora nel paese) fu impiegato per selezionare i candidati fra quelli proposti dal solo partito legale ancora vent'anni fa, nel 1988, e non mancarono le polemiche.
Tutte le elezioni successive, peraltro, anche quelle che si sono svolte dopo l'introduzione del multipartitismo, hanno originato controversie e faide, comprese quelle del dicembre 1997, l'ultima volta di Daniel arap Moi. Mwai Kibaki si era presentato come principale antagonista di Moi, già in disgrazia presso i suoi tradizionali sostenitori (gli organismi internazionali e i donatori occidentali stavano pensando a una successione che togliesse almeno le ragnatele), conquistando il 30 per cento dei voti. Le proteste di piazza provocarono una decina di morti. Niente a confronto della tragedia nazionale seguita alle elezioni del 27 dicembre scorso, che rischia di fare a pezzi anche un paese relativamente stabile, e dotato di una solida ragion di stato, come il Kenya.
In compenso, la prima vittoria di Kibaki, osannato nel 2002 e oggi vituperato e sotto accusa, fu un verdetto accettato senza discutere perché Kibaki si era smarcato dal regime in carica dopo essere stato al governo per due decenni e aveva acquisito rispetto, consensi e popolarità capeggiando l'opposizione nella fase conclusiva del più ventennale «regno» autoritario di Moi.
I due alleati divenuti rivali
È stata la logica dello scontro elettorale che ha via via aumentato il divario fra i due principali pretendenti alla corona nella fatale consultazione del 2007. Nel 2002, pur appartenendo a formazioni politiche diverse, Mwai Kikabi e Raila Odinga erano quasi alleati. Raila Odinga è figlio di Oginga Odinga, militante di grande spicco nella lotta per l'indipendenza e vice-presidente con Jomo Kenyatta alla presidenza nei primi anni dopo l'indipendenza, che si dissociò dal «padre della patria» quando il suo governo imboccò la deriva dell'iperconservazione e della corruzione istituzionalizzata.
Un tema di contrasto era la considerazione da dare ai Mau Mau nella memoria e nella prassi dello stato. Oginga Odinga si impossessò dei miti che Kenyatta riteneva di dover lasciar cadere per quieto vivere (sia verso i potentati interni che verso quelli esterni) e si trovò automaticamente collocato a sinistra. Così facendo assecondava, oltre alle sue ambizioni, le aspettative frustrate dei luo, il suo gruppo etnico, nei riguardi dell'egemonismo rapace dei kikuyu, l'etnia di Kenyatta ma anche dei capi e della base negli anni Cinquanta del movimento Mau Mau (ufficialmente «esercito per la libertà e la terra»).
L'evoluzione compiuta da Raila Odinga è molto simile a quella del padre. Anche il non più giovanissimo Raila, dovendosi distinguere dal moderatismo imperante, si è trovato a indossare i panni del paladino dei poveri. È facile però predicare contro i mali del liberismo estremo e la corruzione quando si parla dall'opposizione.
Tutti contro i kikuyu
In un sistema ispirato alle pratiche di accaparramento proprie del neo-patrimonialismo, vincere o perdere le elezioni può significare moltissimo in termini non solo di governo ma di arricchimento personale e al limite di sopravvivenza di un'intera sezione della società.
In caso di risultato equilibrato del voto, le irregolarità nello svolgimento delle elezioni o nello scrutinio - che sono fisiologiche in una situazione di arretratezza ma che possono essere patologiche quando il potere non è disposto ad accettare le regole della successione (come stando alle molte testimonianze è probabilmente avvenuto nel duello fra Mwai Kibaki e Raila Odinga) - sono sfruttate come ultima chance. La «rivolta» è un altro modo d'essere di una democrazia malata e violenta e difficilmente rende giustizia ai deboli.
Ci sono precedenti comunque di esiti elettorali sconfessati e persino rovesciati ex post in alcuni paesi africani e anche in Europa. Spesso la contestazione o la sanatoria dipende dai protettori rispettivi a livello internazionale. Le stesse procedure degli «osservatori», un misto di paternalismo e impotenza, finiscono, magari involontariamente, per esasperare gli animi.
Prima o poi i conflitti in Africa assumono un connotato etnico. Anche in Kenya la miccia etnica, sincera o pretestuosa poco importa, ha scatenato il caos, riproponendo il solito schema dei kikuyu contro i luo o di tutti contro i kikuyu. Nessuno naturalmente vuole restaurare l'ordine tribale, ma l'appartenenza a una comunità etnica è il movente più immediato di mobilitazione politica. A ben vedere, le poste sono le stesse di ogni confronto politico: l'esercizio del potere, l'accesso alle risorse e, tema importantissimo in questo caso, la terra.
Tutelare il turismo internazionale.
La terra sta divenendo in Kenya, come quasi ovunque in Africa, un bene scarso. Per di più, le vicende storiche legate prima all'insediamento degli inglesi e poi alle peripezie della decolonizzazione hanno alterato gli insediamenti tradizionali suscitando risentimenti contro gli intrusi. L'enfasi sull'etnicismo è un'ammissione di parzialità anche di chi pretenderebbe di difendere la giustizia offesa. Dopo tutto, in Africa - per le condizionalità del mercato o dell'aiuto (e in Kenya c'è anche la necessità di tutelare il turismo internazionale, massima risorsa del paese) - le decisioni sfuggono in gran parte alla politica locale.
Il messaggio di fine d'anno del Presidente della Repubblica è, da tempo, un rituale confortante. E questo vale anche per il discorso di Giorgio Napolitano, il primo presidente della Repubblica che si è formato nel Pci. Questa volta, però, il messaggio presidenziale era stato anticipato dal 41º Rapporto del Censis, che insisteva sulla poltiglia italiana, soprattutto politica e istituzionale. Giorgio Napolitano ignora il Censis, quasi a dire che de minimis non vale occuparsene.
Certo il discorso del Presidente mette al primo posto gli operai uccisi alla Thissen. È assolutamente positivo, anche se sarebbe stato difficile tacerne. Tuttavia, visto che siamo ai 60 anni della Costituzione sarebbe stato utile che avesse citato un passo dell'art. 36 della Costituzione che recita: «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alle libertà, alla dignità umana». Dove la sicurezza viene prima della dignità e della libertà. E così anche a proposito del salario. L'art. 36 della Costituzione dice che «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa». Sottolineo «libera e dignitosa».
Queste cose il Presidente avrebbe dovuto dire e sottolineare, mentre non era (a mio avviso) affatto necessario citare gli Usa come «il nostro maggiore e storico alleato» e neppure il «sincero augurio» a Benedetto XVI.
Il punto è, torno al Rapporto del Censis, che sarebbe autolesionista ignorare che il nostro paese è messo male e peggio ancora sta il suo mondo politico del quale il Presidente sottolinea che «Vi sto parlando poco». Certo il Presidente della Repubblica ha ragione di non voler entrare nelle dispute della «casta», tuttavia una sua critica allo stato di cose esistente sarebbe stata molto utile. Viene quasi nostalgia delle intemerate di Sandro Pertini.
Per concludere e dichiarandomi largamente d'accordo con la diagnosi del Censis, sarebbe stato più utile a noi italiani un messaggio un po' più preoccupato e meno confortante. Siamo, soprattutto nel campo della politica istituzionale, nella «poltiglia». Ignorare - pur con tutte le migliori intenzioni - questa verità non aiuta, anzi aggrava il male.
La democrazia è malata, e non solo in Italia e, pertanto, bisogna avere il coraggio e l'onestà intellettuale di dichiararlo. L'Italia - ci dice Napolitano - deve esigere di più da se stessa, ma proprio perché non stiamo messi bene. E questo dobbiamo avere il coraggio di dichiararlo. Anche nel messaggio di fine d'anno del Presidente della Repubblica.
È da troppo tempo che ci confortiamo con il «nostro patrimonio storico-artistico e culturale». Bisognerebbe parlare di più «di quel che accade nella sfera della politica e delle istituzioni», anche tenendo a mente quel che ci ha detto il Censis.
Si può ammazzare un poeta e cantastorie? La storia ci ha più volte detto di sì. Talvolta l’autore è stato la bestialità di un potere dittatoriale, talaltra la causalità, anch’essa bestiale, impersonata da ragazzi di strada. Siamo sempre più assuefatti alla violenza omicida e questa ‘abitudine’, dopo un battito di inquietudine, ci ha reso indifferenti di fronte all’orrore della morte procurata, a meno che essa non colpisca persone a noi vicine. All’indomani del fatto quasi sempre siamo già dimentichi, nonostante la ragione ci suggerisca che non ci sono giustificazioni (neppure le più gravi e tanto meno quelle presunte) per accettare un atto così estremo.
Hanno ammazzato Peppino Marotto, un poeta le cui uniche armi erano i dolci suoni delle sue poesie e la coscienza civile che metteva al servizio della comunità di Orgosolo. Difficilmente potremo dimenticare questa violenza, e chi oggi appare indifferente non sa di essere più povero e più solo di ieri.
Non ho mai conosciuto Peppino Marotto, ma il suo nome e la sua attività intellettuale mi erano familiari, e seppure a distanza facevano parte del mio background. Non avrò più occasione di conoscerlo, qualcuno lo ha ammazzato in pieno giorno e in una strada centrale del paese.
Ho letto in modo partecipe gli articoli a lui dedicati e ascoltato con attenzione i commenti di chi conosce certamente molto più di me l’humus culturale di Orgosolo e la lunga vita operosa di Marotto. Mi hanno colpito le dure parole di Giovanna Marini, secondo cui il paese che uccide i suoi poeti è senza speranza, ed anche quelle di Paolo Pillonca, secondo cui se una spiegazione c’è, va cercata nelle tenebre del passato; così come ho ascoltato quelle affrante di Giacomo Mameli che della comunità orgolese in molti suoi articoli ha esposto la grande capacità di cogliere i nuovi percorsi di sviluppo sociale ed economico. Ma anch’egli sembra aspettarsi che la causa di questo omicidio vada cercata nei profondi labirinti del rancore tramandato per decenni.
Sono di nascita barbaricina e mi capita di riflettere sul rancore che sembra connotare pezzi della popolazione sarda, e ciò perché nei racconti di qualche famigliare continuo a cogliere un’atavica incapacità di distaccarsi emotivamente da un torto subito (o presunto tale), anche quando il torto non lo riguardava direttamente, ma era vissuto di riflesso attraverso qualche antico componente della famiglia. Ed ogni volta mi sono chiesta a che serve accanirsi con se stessi in questo modo . Perché accade questo nella maggior parte dei casi. Ricordare del passato prevalentemente il male che si crede di aver ricevuto, significa imputare ad altri la responsabilità della propria più o meno grande infelicità.
Ma la mia reiterata riflessione non ha valenza scientifica, è solo un vissuto personale che non si può estendere ad un’intera comunità. Recentemente ho avuto modo di studiare le dinamiche degli omicidi in Sardegna, pratica violenta ancora troppo diffusa , in modo particolare in una delimitata area dell’Isola centro-orientale. Omicidi che si caratterizzano per lo più per il fatto che si tratta di atti individuali, che avvengono in ambienti comuni a vittima ed autore, che vengono compiuti da persone con un basso livello di istruzione, in gran parte per ragioni futili e solo in minima parte per ragioni economiche. Pratica che comunque non è connessa a forme di malessere sociale così come si è sostenuto in passato, e che neppure può essere spiegata come un modo residuale e primordiale di soluzione dei conflitti, in assenza di altri meccanismi di conciliazione e mediazione. Insomma, provo una certa resistenza ad acquisire come spiegazione la vendetta per risolvere un conflitto, seppure tardiva, come viene ipotizzato da alcuni nel caso dell’omicidio di Marotto.
Le diverse spiegazioni che conducono al passato mal si conciliano con un’immagine di Orgosolo che in questi ultimi tempi ha saputo esprimere intelligenze, sapienza del fare e civicità, paese che recentemente ha saputo sostenere le ragioni del suo sviluppo, confermate dal fatto che è uno dei pochi comuni dell’interno che non ha subito il devastante processo di spopolamento.
Saranno gli inquirenti ad indagare, nella speranza che sappiano tessere la ragnatela per intrappolare celermente l’omicida. Di questa persona mi ha colpito il senso di sicurezza con cui ha agito in pieno giorno, come se si sentisse immune dal pericolo tra i muri del suo paese, come ha detto Giacomo Mameli a Rai 1; spero soltanto che quei muri abbiano acquistato voce e orecchie, così come i suoi abitanti hanno saputo conquistarsi intelligenza e sapienza.
Confesso che non avrei immaginato di ricevere tanti messaggi, di essere oggetto di tanti commenti "postati" sui blog, dopo le Mappe e le Bussole dedicate, nelle scorse settimane, ai giovani, agli studenti e alle città universitarie. Invece, continuano a giungere. Quasi tutti polemici nei miei confronti. A volte (soprattutto nei blog) acidi.
Gli studenti Erasmus dell'Università di Torino ne hanno fatto oggetto di una esercitazione: lettura dei miei testi e successivo commento. Puntualmente critico. Naturalmente, tante reazioni sono segno di interesse. Per questo, le ho lette con soddisfazione. Tutte. Anche quelle "politicamente scorrette" (non poche). Magari mi hanno irritato un poco, all'inizio. Ma solo all'inizio.
Tutta questa attenzione, però, mi ha sorpreso. In particolare, mi hanno spiazzato le critiche rivolte (in larga misura) ad aspetti che, nei miei testi, stanno sullo sfondo; occupano un posto minore. Ancor più le contestazioni a valutazioni ricavate dai miei articoli, ma che non mi appartengono. E sono di segno opposto rispetto a ciò che intendevo sostenere. Evidentemente, il messaggio lanciato sui media, spesso, viene recepito e interpretato in modo molto lontano dalle intenzioni originarie. Per colpa di chi "comunica", soprattutto. (Mia, in questo caso). Ma anche perché viene percepito e decifrato in base ad aspettative specifiche. Così, per quanto io abbia dedicato due distinti e successivi articoli alle medesime questioni, alcuni contenuti hanno suscitato, in molti lettori, opinioni in netto contrasto con quanto intendevo esprimere.
1. Il riferimento al delitto di Perugia, che ha sollevato tanta morbosa attenzione. Per me era solo uno spunto. L'occasione per entrare nella realtà delle città e della "socialità" universitaria. Molti lettori, invece, l'hanno considerato la chiave di lettura dei miei testi. Ritenuti, per questo, un esercizio di voyeurismo perbenista. Ispirato - viziato - dall'intento di stigmatizzare l'intera categoria degli "studenti fuori sede", come si trattasse di una popolazione dedita a pratiche dissolute e goderecce.
2. Da qui la seconda "accusa": generalizzare episodi isolati ed eccezionali all'intera realtà studentesca (peggio: giovanile). Un problema denunciato soprattutto dagli studenti stranieri dell'Erasmus; che svolgono una parte degli studi universitari in atenei di altri Paesi.
3. Dietro a queste "critiche" c'è l'irritazione suscitata da alcuni passaggi dei miei articoli. In particolare, aver definito gli studenti delle città universitarie "non-cittadini" che vivono in "non-città" (echeggiando un concetto di Marc Augé, molto noto: i "non-luoghi"). Quasi degli "apolidi", insomma.
Tornare un'altra volta sullo stesso luogo, nelle stesse città, sullo stesso argomento, a questo punto, può risultare noioso e ridondante. Ma è proprio ciò che, in effetti, sto facendo. D'altronde, può essere utile chiarire alcuni concetti, evidentemente equivoci, viste le reazioni. Assumendomi il rischio - a questo punto calcolato - di sollevare nuovi dubbi, senza risolvere quelli emersi.
Tuttavia, mi pare importante precisare, soprattutto, perché io abbia parlato - consapevolmente - degli studenti come "non-cittadini" che popolano "non-città".
Le "città", per definizione, sono luoghi abitati da "cittadini". Cioè: persone "residenti", titolari di diritti e di doveri. In modo attivo. In quanto sono soggetti alle leggi, pagano le tasse. Partecipano alla formazione del governo locale scegliendo, con il voto, gli amministratori; oppure attraverso l'associazionismo di rappresentanza sociale ed economica (quello studentesco opera solo dentro all'università).
Gli studenti "fuori sede" hanno il domicilio nelle città in cui studiano, ma non vi risiedono. (Gli studenti Erasmus, poi, risiedono in altri Paesi). Certo, sono soggetti alle medesime regole e alle medesime leggi dei residenti, ma non hanno rappresentanza né poteri. Per questo sono "non-cittadini". La "città" in cui risiedono è quella dove vive la loro famiglia. Sono "irresponsabili": perché non sono chiamati a "rispondere" di ciò che riguarda la loro vita. Il loro luogo di vita. Mentre, parallelamente, le autorità locali non si sentono "responsabili" verso di loro. Perché gli studenti non votano.
Tuttavia, nelle città universitarie gli studenti costituiscono una componente rilevante, talora dominante. Non solo dal punto di vista demografico, ma anche economico. Sono una fonte di reddito, per chi affitta stanze e camere, per il commercio e l'artigianato locale. Ma sono anche un fattore di spesa: perché è l'amministrazione locale che gestisce servizi e infrastrutture. Bisogna tener conto, ancora, che gli stili di vita della popolazione dei residenti e degli studenti, per alcuni versi, contrastano. Per cui si assiste, non di rado, a conflitti fra i due mondi sociali. Gli studenti e i residenti: vivono separati. Vicini e al tempo stesso lontani. Le scelte delle amministrazioni locali, tuttavia, sono condizionate dai sentimenti e dalle reazioni dei residenti che li hanno eletti, da cui dipende la loro legittimazione, la loro futura rielezione. Per questa ragione ho parlato di non-città. Per indicare quei contesti abitati perlopiù da non-residenti. In questo caso, dagli studenti. Che sono non-cittadini, perché estranei ai diritti-doveri della rappresentanza. (Non) città che si riducono a contenitori per attività di consumo. E riducono la popolazione (studentesca) in consumatori.
In contesti di questo tipo, d'altronde, si indeboliscono i legami sociali e la presenza dell'autorità. Certo, la realtà giovanile è densa di reti interpersonali, di rapporti di amicizia. Però, per ragioni generazionali, comprensibili, è riluttante ai vincoli e ai controlli. Anzi: per definizione, li contraddice e li contesta. E' ambiente espressivo, emotivo, ricreativo. Inoltre, gli studenti stringono legami (anche affettivi) con l'ambiente locale talora saldi. Ma perlopiù sono di passaggio. Ho usato, per questi motivi, la formula "comunità artificiale".
Le città universitarie, per le stesse ragioni, costituiscono un caso esemplare della condizione dei giovani. Che vengono parcheggiati dagli adulti in luoghi separati, dove vivono fra loro. Una zona (relativamente) franca da regole e autorità. Dove agiscono con limitate responsabilità, pochi poteri e, in fondo, diritti.
Non si tratta di un invito a tenerli di più in famiglia, insieme ai genitori. Al contrario: penso che i giovani debbano uscire di casa presto. Non solo per studiare. Ma per lavorare e per vivere. Non solo da studenti. Ma da cittadini. Oggi, invece, sette su dieci, a ventinove anni, risiedono ancora con i genitori. Perché non hanno ancora un lavoro stabile, una casa propria (costerebbe troppo). Inoltre (come ha osservato Guido Maggioni), è finito il tempo in cui la famiglia, per educare i figli, usava "mezzi autoritari e coercitivi".
Quando (fino agli anni Sessanta) ci si sposava "anche" per fuggire da casa, per liberarsi all'autorità autoritaria dei genitori. Per vivere la propria vita. Per diventare cittadini. Oggi, non ce n'è più bisogno. I giovani possono sperimentare la loro autonomia (relativa) presto. Fin dall'adolescenza si allontanano dalla famiglia, per studiare le lingue, fare corsi di perfezionamento, stages. L'Erasmus. Sono più liberi. Ma al tempo stesso più dipendenti. Figli insicuri di genitori insicuri. I giovani. Condannati a una lunga transizione verso una maturità che non arriva. Purtroppo per loro. E per noi.
Vedi su eddyburg l’articolo di Diamanti: Quando gli studenti si prendono la città
La legge sulla partecipazione della regione Toscana
Una nota per eddyburg
Le tappe della costruzione della legge sulla partecipazione della Regione toscana approvata dal Consiglio regionale il 20 dicembre 2007, cui la Rete del Nuovo Municipio ha attivamente partecipato, esemplificano una pratica di buongoverno che si incentra sul rapporto mantenutosi costante fra il metodo partecipativo di costruzione e la formulazione progressiva dei contenuti della legge
Il metodo
Va premesso che l’idea di applicare la democrazia partecipativa al livello regionale e in particolare all’attività legislativa presenta non poche difficoltà. La sede primaria della democrazia partecipativa resta il municipio, il quartiere, il luogo dove è possibile realizzare relazioni sociali di prossimità e la costruzione diretta di esperienze comunitarie. Tuttavia l’orizzonte del “federalismo municipale solidale” come prospettato ad esempio dalla Rete del Nuovo Municipio, richiede la realizzazione integrale del principio di sussidiarietà per affrontare i problemi alla loro giusta scala di risoluzione, in forme non gerarchiche. Se si vuole attribuire ai processi partecipativi il ruolo di strumento di intervento della cittadinanza attiva sulla costruzione del proprio futuro, è chiaro che tematiche come la qualità dell’ambiente di vita, la produzione, il consumo, la qualità dell’alimentazione, la mobilità, il paesaggio, le strategie di sviluppo, ecc. richiedono una forte interscalarità degli attori interessati e delle istituzioni coinvolte, dai comuni ai circondari, alle province alla regione.
Il percorso ha visto tappe diverse per modalità, temi e per livelli territoriali “di prossimità”: dalla prima assemblea di lancio del percorso del 13 gennaio 2006 [1], a numerosi incontri a livello comunale[2], a workshop rivolti a soggetti sociali di varia composizione[3], ad un grande convegno internazionale[4]; alla formazione di un gruppo di lavoro multidisciplinare che, raccogliendo i risultati dei workshop, degli incontri comunali, delle assemblee regionali della Rete del Nuovo Municipio, ha proceduto alla stesura di un primo documento per la legge[5]; al Town Meeting di Carrara[6] che ha visto la presenza di circa 600 partecipanti e la nomina di 48 delegati di tavolo; al sito internet della Regione e quello della Rete del Nuovo Municipio che hanno costantemente pubblicizzato tutto il processo partecipativo; al seminario interattivo fra assessorato e i rappresentanti di tavolo del Town Meeting per discutere il documento preliminare della giunta[7]. In parallelo al percorso è anche nato un coordinamento fra regioni sul tema della partecipazione nelle attività legislative[8]
la costruzione della legge regionale è stata dunque un banco di prova della possibilità di realizzare percorsi partecipativi interscalari, anche se nei passaggi di scala territoriale tende a d affievolirsi il rapporto diretto con i cittadini e ad affermarsi il rapporto con rappresentanze più o meno istituzionali. L’interscalarità dei processi partecipativi consentirebbe una effettiva modellazione degli organi superiori di governo come espressione delle comunità locali in una strategia di federalismo municipale solidale.
Il percorso è stato anche la ricerca del ruolo che può giocare una legge regionale nell'incentivare, promuovere, diffondere processi e istituti partecipativi a livello locale e garantirne il funzionamento senza ovviamente ledere i principi di autonomia del municipio come luogo primario della partecipazione e tenendo conto della distinzione necessaria fra azioni istituzionali (top down) e azioni che nascono dal sociale (bottom up).
I contenuti
Il testo della Giunta ha recepito in gran parte gli esiti complessi del processo partecipativo, che sintetizzo nei seguenti punti:
- dar corpo e piena attuazione allo Statuto regionale in merito alla partecipazione dei cittadini alle scelte di governo affermando il principio del metodo partecipativo come “forma ordinaria di governo in tutti i settori e in tutti i livelli amministrativi”;
- realizzare nei processi partecipativi la massima inclusività soprattutto dei soggetti più deboli e privi di rappresentanza;
- promuovere forme di autoorganizzazione e di autogoverno della società civile;
Per quanto riguarda la partecipazione su scala locale la legge prevede:
- la promozione e la diffusione dei processi partecipativi locali, incentivando le “buone pratiche” e progetti specifici di attivazione di processi partecipativi promossi da enti locali, cittadini, associazioni;
- la definizione dei principi che garantiscono requisiti essenziali del processo partecipativo: inclusività, trasparenza e pari opportunità di accesso alle informazioni, condivisione preliminare delle regole della discussione e del confronto, definizione dei tempi del dibattito pubblico;
- sostegno delle iniziative autonome della società civile e delle sue forme associative.
Per quanto riguarda le procedure partecipative per le politiche regionali la legge prevede, oltre alla generalizzazione e sistematizzazione delle procedure partecipative già presenti in molti settori:
- l’attivazione di procedure straordinarie di dibattito pubblico regionale su opere di particolare inpatto socioterritoriale;
- la sperimentazione dei processi partecipativi in settori di competenza regionale di particolare importanza quali le grandi scelte in materia di gestione e di governo del territorio, di politica ambientale, sanitaria, sui servizi pubblici locali, ecc.
La messa in campo di una pluralità di soggetti che restituisce diritto di parola a ampi interessi sociali modifica l’orizzonte e i contenuti delle strategie, spostando le forme di governance dal modello toscano storico della concertazione (fra livelli istituzionali) e programmazione negoziale (fra rappresentanze di interessi, con i suoi risvolti consociativi), alla democrazia partecipativa. Questo passaggio è destinato ad influire, ad esempio, sulle strategie di governo del territorio. Se è vero che siamo di fronte ad una crescente divaricazione fra scelte di crescita economica legate ai processi competitivi delle forze economiche sul mercato globale e benessere dei cittadini (come si evince dai conflitti crescenti, anche in Toscana sulle grandi opere), è evidente che l’introduzione nel dibattito pubblico degli interessi sociali allargati relativi ai beni comuni, il territorio l’ambiente e il paesaggio in primis, è destinato a mettere a nudo questa forbice e a modificare l’agenda politica e gli obiettivi strategici rispetto a quelli portati avanti da attori (poteri finanziari, immobiliari, commerciali e industriali, ecc) che vedono gli abitanti come degli intrusi nelle decisioni di uso e governo del territorio.
D’altra parte il fatto che la legge assuma la democrazia partecipativa come forma ordinaria di governo rappresenta un passaggio strategico fondamentale per almeno due ragioni:
a)impone una radicale trasformazione nel funzionamento dell’amministrazione locale oggi abituata ad agire per politiche di settore che rispondono a specifici interessi del settore stesso e non fanno riferimento ad una domanda aggregata espressa attraverso un dibattito pubblico, rispetto alla quale valutare le singole politiche di settore. La attivazione della partecipazione come forma ordinaria di governo dovrebbe avere come prima conseguenza la riorganizzazione intersettoriale del sistema decisionale;
b) favorisce il passaggio dell’azione partecipativa da questioni puntuali, solitamente determinate dagli effetti di scelte generali già compiute sulla qualità della vita degli abitanti, a questioni più generali del futuro di una città, di un territorio, di una regione, delle sue scelte ambientali, produttive, di consumo, ecc; consentendo ad esempio di affrontare in forme nuove il rapporto fra città e mondo rurale (qualità alimentare, energia, acque, paesaggio, reti corte di produzione e consumo, ecc); uscendo dunque da una visione “quartieristica” della partecipazione per affrontare i temi dell’autogoverno della comunità locale.
Infine il principio di sussidiarietà: l’applicazione radicale della Regione Toscana di questo principio ad esempio nella legge 1/2005 sul governo del territorio suscita, soprattutto in molti urbanisti, ma anche in alcune forze politiche e ambienti culturali, forti perplessità. Si verificano cosi spinte per ripristinare organi di controllo sovraordinati, verso un neocentralismo regionale. Le motivazioni ruotano intorno al concetto della debolezza dei comuni a fronte dei poteri forti (interessi della rendita immobiliare in primis) a decidere autonomamente, e alla connivenza oggettiva dei comuni stessi con gli interessi economici e speculativi, determinata dalla debolezza crescente della finanza locale e al ricatto su ICI e oneri di urbanizzazione.
Naturalmente questi problemi esistono, ed è quotidiana la verifica della devastazione patrimoniale che produce sul territorio toscano.
La legge sulla partecipazione può essere tuttavia un forte deterrente per una risoluzione in avanti del problema, senza ritorni al neocentralismo.
Infatti una applicazione integrale e radicale del principio di sussidiarietà, quale quella attivata dalla Regione Toscana, ha senso solo se il Comune è effettivaespressione della comunità e degli obiettivi di interesse collettivo che scaturiscono dalla cittadinanza attiva e non di pochi interessi forti di natura privatistica. Solo con processi partecipativi ampi e strutturati è possibile che il Comune esprima una reale capacità di autogoverno che, nell’attivare politiche che rispondano agli interessi relativi al benessere degli abitanti, consente autentici livelli sussidiali con gli altri livelli di governo del territorio.
La legge 1/2005sul governo del territorio costituisce dunque un banco di prova immediato degli effetti potenziali della legge sulla partecipazione: attivando infatti quanto già delineato nell’articolo 5 della legge (statuto del territorio) sulla democrazia partecipativa, e rafforzato con le modifiche introdotte dalla legge sulla partecipazione, è possibile attivare un percorso che, dalla individuazione condivisa delle risorse essenziali in campo ambientale, territoriale e paesistico, alla definizione delle invarianti strutturali e alle regole statutarie per la loro conservazione e valorizzazione, si sviluppi un dibattito pubblico che porti alla stesura dello statuto del territorio come strumento socialmente condiviso, a carattere “costituzionale”.
Questo percorso (accompagnato da altre forme di organizzazione della finanza locale) consentirebbe maggiore autonomia dell’ente locale e una reale espressione della società locale nel difendere e valorizzare il proprio territorio come risorsa per modelli di sviluppo autosostenibili.
Opportunità e rischi di una normativa sulla partecipazione
L’articolato di legge è l’esito di un complesso processo interattivo: esso non appartiene a qualcuno in particolare, e ciascuno vi ritrova qualche elemento della propria visione del mondo, e anche cose che non si condividono, parzialmente o interamente. Anche per la Rete del Nuovo Municipio è così. Il nostro giudizio finale è che la legge offre opportunità che non esistevano, che essa può attivare politiche e progetti innovativi, incoraggiare e rafforzare le azioni spontanee della popolazione.
Tuttavia il destino di una legge resta alla fine legato alla dialettica politica e sociale, alla capacità degli abitanti di piegare quella legge ai propri bisogni e alle proprie aspettative: l’attuazione della legge potrà avere il carattere sperimentale che dichiara (dopo 4 anni dovrà essere sottoposta a verifica), se i movimenti, i comitati e le organizzazioni sociali di base, sempre più attivi in Toscana, avranno la volontà di “mettere alla prova” la legge, ad esempio chiedendo di aprire procedimenti di dibattito pubblico sui temi più scottanti della grandi opere, verificando l’effettiva apertura di processi partecipativi nei piani strutturali, controllando gli esiti dei processi e proponendo, al termine della sperimentazione, le modifiche e i miglioramenti necessari.
(21 dicembre 2007)
[1] L' assemblea ha visto la partecipazione di circa trecento persone (amministratori e funzionari pubblici, associazioni e altre realtà del terzo settore, università, cittadini, etc.). Dall'assemblea del 13 gennaio a Firenze sono emersi molti elementi di riflessione interessanti rispetto al percorso di costruzione della legge, che hanno permesso di costruire un quadro delle potenzialità e problematicità che occorre affrontare quando si parla di partecipazione, a partire dalle riflessioni sull'idea di fare una legge regionale e sulla situazione in cui ci si trova ad operare, dal racconto di alcune esperienze di partecipazione in atto sul territorio toscano e dalle prime dichiarazioni di disponibilità a collaborare al processo di costruzione della legge.
[2] Il lavoro di discussione e di ascolto per la costruzione della legge è continuato nei mesi successivi con l'organizzazione di assemblee locali (Piombino, Marina di Bibbona, Montespertoli, Prato, Livorno, Pistoia, Rosignano, Grosseto, Pisa, Viareggio, Lucca) e con un'attività di inchiesta consistente in interviste ad attori privilegiati e schede descrittive delle esperienze di partecipazione in Toscana.
[3]I primi workshop territoriali (settembre 2006), che si sono tenuti nell'area metropolitana di Firenze-Prato-Pistoia e Circondario Empolese-Valdelsa e nell'area costiera livornese-maremmana (Follonica), avevano l'obiettivo di fornire indicazioni utili alla costruzione della guida alla discussione del Town Meeting, mentre il terzo workshop, che è svolto ad Arezzo (ottobre 2006), ha avuto lo scopo di approfondire la riflessione sui temi chiave emersi finora dal percorso partecipato di costruzione della legge. Per facilitare la discussione nei workshop, i contenuti emersi nel corso degli incontri sono stati sintetizzati in quattro tematiche principali: cultura della partecipazione;partecipazione e potere politico; partecipazione e macchina amministrativa; partecipazione, inclusione, autopromozione sociale.
[4]Il 19 maggio 2006 la Regione Toscana, con la collaborazione del prof. Luigi Bobbio, ha organizzato il Convegno Internazionale "Le vie della partecipazione" con l'obiettivo di mettere a confronto esperienze e metodi di partecipazione di vari paesi del mondo.
[5] il testo “Contributo alla stesura di una legge regionale sulla partecipazione”, novembre 2006, si trova sul sito della Rete wwww.nuovomunicipio.org
[6]Il Town Meeting si è svolto il 18 novembre 2006 in occasione della fiera annuale delle pubbliche amministrazioni (Dire&Fare, Marina di Carrara, 15-18 novembre 2006).. L’electronic TM, organizzato dalla Regione Toscana e da “Avventura Urbana” di Torino è stato sperimentato per la prima volta in Italia a Torino con più di mille persone. E’ uno strumento di democrazia deliberativa con voto elettronico, articolato in tavoli di discussione, e un tavolo di regia che in tempo reale sintetizza le opzioni dei diversi tavoli e le mette in votazione. Ha riunito cittadini estratti a sorte, amministratori pubblici locali, persone attive nei comitati, nelle associazioni e nel volontariato.
A conclusione dei lavori sono stati eletti dei rappresentanti di tavolo (48) con il mandato di continuare a seguire il percorso di costruzione dell’elaborato di legge.
[7]Nelseminario dell’8 febbraio 2007 a Firenze la bozza del documento preliminare preparata dall’Assessorato di Fragai è stata discussa e integrata dai delegati eletti al TM e dai componenti del gruppo di lavoro della Rete del Nuovo Municipio.
[8]L'iniziativa, in continuità con l'idea nata in occasione della terza assemblea nazionale, promossa dalla Rete del Nuovo Municipio, degli enti locali/territoriali che sperimentano pratiche partecipative, Bari, 5 Novembre 2005), segna l'inizio di un lavoro comune tra le regioni impegnate in processi partecipativi nei rispettivi territori. Al primo incontro fiorentino (14 febbraio 2006) hanno partecipato rappresentanti delle regioni Abruzzo, Lazio, Puglia, Toscana e della Rete del Nuovo Municipio.Alla seconda riunione (18 maggio 2006) si sono aggiunte, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Umbria, Veneto e un rappresentante del Dipartimento Funzione Pubblica del Governo.
E' di casa in Toscana il modello partecipativo
da il manifesto del 22 dicembre 2007
La costruzione della legge sulla partecipazione della regione Toscana approvata il 20 dicembre 2007 esemplifica una pratica di buongoverno fondata sul rapporto costante fra il metodo partecipativo attivato e la formulazione progressiva dei suoi contenuti.
Il metodo
Il percorso, avviato dalla regione con la Rete del Nuovo Municipio, ha visto molte tappe: dalla prima assemblea del gennaio 2006, a numerose assemblee promosse dai comuni, a workshop rivolti a soggetti sociali articolati, a un convegno internazionale di confronto di esperienze; a un primo documento programmatico rappresentativo dei processi partecipativi; ai siti internet della regione e della Rete; al Town Meeting di Carrara di circa 600 partecipanti con 48 delegati di tavolo; al seminario fra l'assessorato e i delegati di tavolo. In parallelo al percorso è anche nato un coordinamento fra sette regioni sulla partecipazione nelle attività legislative.
La costruzione della legge è stata dunque un banco di prova della possibilità di realizzare percorsi partecipativi interscalari incentivando, promuovendo, diffondendo processi e istituti partecipativi dal livello municipale a quello regionale. Questa interscalarità apre la prospettiva politica che gli organi superiori di governo diventino espressione delle comunità locali in una strategia di federalismo municipale solidale e di applicazione integrale del principio di sussidiarietà facendo interagire azioni istituzionali (top down) e azioni che nascono dal sociale (bottom up).
I contenuti
Il testo della legge ha recepito in gran parte gli obiettivi emersi dal processo partecipativo:
- attivare la democrazia partecipativa come «forma ordinaria di governo in tutti i settori e in tutti i livelli amministrativi»;
- realizzare nei processi partecipativi la massima inclusività dei soggetti più deboli;
- promuovere forme di autorganizzazione e di autogoverno della società civile;
- attivare procedure straordinarie di dibattito pubblico regionale su opere di particolare impatto socioterritoriale;
- sperimentare i processi partecipativi in settori di particolare importanza quali le grandi scelte in materia di gestione e di governo del territorio, di politica ambientale, sanitaria, sui servizi pubblici locali, ecc.
La messa in campo di una pluralità di soggetti che restituisce diritto di parola a ampi interessi sociali modifica l'orizzonte e i contenuti delle strategie, affiancando la democrazia partecipativa alle forme di governance del modello toscano della programmazione negoziale, con i suoi risvolti consociativi. Questo passaggio è destinato a influire, ad esempio, sulle strategie di governo del territorio: l'introduzione nel dibattito pubblico degli interessi sociali relativi ai beni comuni, in primis il territorio, l'ambiente e il paesaggio, è destinata a modificare l'agenda politica rispetto agli interessi di attori (poteri finanziari, immobiliari, commerciali e industriali, ecc) che considerano gli abitanti come degli intrusi nelle decisioni di uso e governo del territorio; e ad attivare un percorso che, porti alla stesura socialmente condivisa dello statuto del territorio come atto «costituzionale» di una comunità locale.
La legge sulla partecipazione può costituire inoltre un forte deterrente per una risoluzione in avanti del problema della sussidiarietà, senza ritorni al neocentralismo regionale.
Infatti un'applicazione integrale e radicale del principio di sussidiarietà, quale quella attivata dalla regione Toscana, ha senso solo se il comune è effettiva espressione della comunità e degli obiettivi di interesse collettivo che scaturiscono dalla cittadinanza attiva. Solo con processi partecipativi ampi e strutturati è possibile che il comune esprima una reale capacità di autogoverno del proprio territorio come risorsa per modelli di sviluppo autosostenibili, a garanzia di autentici livelli sussidiari con gli altri livelli di governo del territorio.
L'attuazione della legge avrà il carattere sperimentale che dichiara (quattro anni di sperimentazione) se le espressioni della cittadinanza attiva, in forte crescita in Toscana, avranno la volontà di «metterla alla prova», ad esempio chiedendo di aprire procedimenti di dibattito pubblico sui temi più scottanti della grandi opere, verificando l'effettiva apertura di processi partecipativi nei piani strutturali, controllando gli esiti dei processi e proponendo, al termine della sperimentazione, modifiche migliorative o l'abrogazione della legge.
Sembrano lontani i tempi in cui Aldo Natoli e Carlo Melograni tuonavano, dai banchi del Campidoglio, contro la febbrile speculazione edilizia che ha distorto lo sviluppo urbanistico di Roma nella seconda metà del Novecento. Dopo cinquant'anni, quelli che allora erano definiti (con snobismo) «palazzinari» sono diventati imprenditori modello della città, promotori di occupazione e testimoni di modernità. Perfino di stile.
Lo scaltro Scarpellini, per primo, ha chiamato il celebre Manuel Salgado per progettare il «suo» quartiere della Romanina ed ora i costruttori mettono in fila le archistar internazionali per riempire di funzioni lo spazio che presto sarà lasciato libero, sulla via Cristoforo Colombo, dai capannoni dell'ex Fiera di Roma. Gehry, Foster, Nouvel, Fuksas, De Portzamparc, perfino Eisenman: architetti purosangue in gara per far vincere ai rispettivi committenti un mega-appaltone di 800 milioni che ricorda quell'altro di 600 per la manutenzione delle strade.
Ma non bisogna farsi accecare dalle stelle dell'architettura, che più che artisti ispirati dal nuovo paesaggio socio-culturale romano sono freddi fabbricatori appassionati al proprio business. È l'odore dell' arrosto ad averli richiamati sulla Colombo, sono le fantasmagoriche parcelle promesse dai costruttori, che a loro volta puntano su colossali guadagni, a muovere le inclite matite.
Il ricorso al talento delle archistar garantisce che la montagna di metri cubi che sorgerà sulla Colombo sarà di ottima qualità architettonica, chiunque possa essere il vincitore della corsa all'ex Fiera. È un enorme passo avanti rispetto a quando i costruttori pretendevano di fare business senza neppure tener conto dell'estetica, risparmiando in più sull'onorario dei progettisti. Ma si tratta di una autentica svolta culturale e professionale, di un costoso adeguarsi alle necessità del mercato immobiliare, o addirittura del sintomo di una nevrosi? Per essere chiari: di quel freudiano contrappasso che induce l'uomo a rimuovere le male intenzioni con ripetute dichiarazioni di buoni sentimenti? Il nuovo «mattone col pennacchio» è probabilmente un po' di tutto questo.
Non so se conoscete la Baia di Sistiana, ad un passo da Trieste. Se non l’avete ancora ammirata nella sua miracolosa integra bellezza, andateci: c’è un progetto di «valorizzazione» della Regione che incombe su di essa. Per contro, in Sardegna, altra Regione autonoma, il governatore Soru, dopo il decreto salva coste, ha varato i piani paesaggistici, il Tar gli ha dato quasi integralmente ragione, ma il centrodestra (e non solo) lo attacca a testa bassa e si sta attrezzando per un bel referendum popolare che bocci a furor di cemento quei piani illuminati. Si va facendo sempre più strada l’idea populistica che il paesaggio non appartiene all’intera Nazione (articolo 9 della Costituzione), ma delle popolazioni locali. E che lo Stato, le Soprintendenze sono dei meri consulenti tecnici.
Non c’è pace per il paesaggio italiano che pure - assieme alle città d’arte ricomprese in esso in un unico palinsesto - rappresenta la superstite risorsa primaria per il nostro turismo di qualità (le spiagge ce le siamo ampiamente giocate, Sardegna parzialmente esclusa, e le montagne ce le stiamo giocando). L’ultima legge finanziaria garantisce, purtroppo, la continuazione dell’invasione edilizia in atto da alcuni anni permettendo ai Comuni di finanziare ancora la spesa corrente con gli oneri di urbanizzazione. L’articolo 24 comma 5 del disegno di legge - come ha ben spiegato Il Sole 24 Ore di martedì 11 dicembre - «torna all’impostazione prevista lo scorso anno (il 50 % degli introiti può finanziare la spesa corrente dei Comuni e un ulteriore 25% può essere destinato alla manutenzione ordinaria del patrimonio comunale)». Anzi, questo regime, lasciatemelo dire, sciagurato viene consentito per tutto il prossimo triennio, cioè fino al 2010.
Quindi, per tre anni ancora non c’è speranza di salvezza per il già intaccato paesaggio italiano. A questo punto la commissione Settis per la revisione del Codice per il paesaggio servirà a poco quando avrà concluso (ma quando?) i lavori. E non a molto serviranno i piani paesaggistici regionali previsti per il maggio 2008 (sempre che essi non si limitino a dare buoni consigli). È vero che, grazie all’iniziativa del verde Angelo Bonelli raccolta da Rutelli, entrerà in finanziaria un fondo triennale di 15 milioni l’anno per abbattere gli ecomostri in siti come Monticchiello e, in genere, per mitigare l’impatto paesaggistico dell’edilizia più invasiva. Ma non era meglio prevenire riducendo la quota degli oneri di urbanizzazione spendibili in forma corrente anziché metterci poi una toppa, un rammendo, una mascheratura? La risposta mi pare ovvia.
Quanto ricaveranno i Comuni da quella norma? Secondo il quotidiano economico della Confindustria, «con questo intervento le spese correnti trovano un finanziamento aggiuntivo per circa 800 milioni di euro». Ciò significa che, per non trasferire ai Comuni questa cifra (o una parte di essa) per la spesa corrente, il governo, lo Stato autorizzano gli Enti locali a continuare a «fare cassa» con l’edilizia e quindi con l’ulteriore avanzata della Bruttezza nel nostro paesaggio.
Saggiamente, nel 1977, la legge n.10 firmata dall’allora ministro dei Lavori Pubblici, il repubblicano Pietro Bucalossi, stabilì che i Comuni potessero utilizzare gli introiti provenienti dall’edilizia soltanto per spese di investimento. Malauguratamente la legge finanziaria del 2001 (secondo governo Berlusconi, notate bene) travolse l’articolo 12 della Bucalossi permettendo che i Comuni potessero con quegli introiti turare invece le falle del bilancio ordinario. Prende avvio da lì il meccanismo infernale, inarrestabile, che ha concorso a devastare l’Italia più bella e integra. Tanto più laddove, come in Toscana, i Comuni sono stati sub-delegati dalla Regione alla tutela del paesaggio, preferendole, come si vede anche a occhio nudo, l’edilizia.
Gli appelli contro lo scempio del Belpaese arrivano, quotidianamente, da tutta Italia. A Casole d’Elsa (Siena) è emerso uno dei casi più gravi e imbarazzanti. Qui, difatti, la magistratura è giù intervenuta a bloccare il cantiere di una lottizzazione orrenda e sospetta. Ma si è venuto a sapere che il Piano comunale d’Intervento adottato il 30 novembre 2001 «continua ad essere approvato per stralci sino al 27 maggio 2007», ben diciassette stralci, pubblicati sul B.U.R.T della Regione. Come spiega una lettera della locale sezione di Italia Nostra, che non ha avuto concrete risposte ufficiali ai propri interrogativi sulle numerose concessioni e costruzioni in essere nel cuore della splendida Val d’Elsa.
Anche dall’Umbria vengono acuti segnali di allarme. Lanciati nell’ancora recente convegno promosso a Trevi dall’etruscologo Mario Torelli a difesa di quel colle decorato, da secoli, di splendidi e produttivi uliveti. Nell’alto Lazio, nella Tuscia, a Sutri per esempio, si avverte forte la pressione speculativa di Roma, praticamente inarrestabile. A Bologna è in pericolo, qui per una lottizzazione avallata dal Tar e dal Consiglio di Stato, l’integrità della collina coraggiosamente vincolata (ben 2.500 ettari) ai tempi di Dozza e Fanti. Sull’Adriatico, dal litorale inesorabilmente cementificato, dove le dune sono quasi tutte sparite, costruzioni di ogni genere stanno ormai risalendo le vallate. Per esempio nelle Marche seminando, nel massimo disordine, capannoni, ville e villette in un paesaggio che ancora pochi anni fa si presentava integro. A Colli del Tronto (Ascoli Piceno) si è tenuto pochi giorni fa un affollato, appassionato convegno organizzato da Sd, con la presenza di numerosi comitati, e aperto dall’intenso saluto del pittore Tullio Pericoli che qui è nato e che qui è tornato, d’estate, a lavorare, a dipingere paesaggi.
«Non rubateci il nostro futuro. Aiutateci a salvare ciò che di bello è ancora salvabile», è intitolato l’appello lanciato, anche da personalità fuori dalla politica come l’ex procuratore della Cassazione, Galli Zucconi Fonseca, a Regione, Province e Comuni marchigiani. I cui recenti piani regolatori prevedono invece «forti espansioni residenziali e produttive» (nonostante la crescita lentissima della popolazione), con «un danno gravissimo e irreversibile alla bellezza» delle Marche, flagellate da alluvioni disastrose alla prima pioggia prolungata e battente. Situazione denunciata dal presidente della Provincia ascolana, Massimo Rossi e dal docente universitario Piergiorgio Bellagamba autore di un lucido volume sul paesaggio violentato, con foto che parlano da sole.
Giorni fa mi è capitato in un dibattito televisivo di sentire affermare, spontaneamente, dal rappresentante del Collegio Nazionale dei Geometri, Pavoncelli, che anche questo organismo «è allarmato da un eccessivo consumo di suolo» (e quindi di paesaggio), troppo intenso per il nostro delicato Paese, il più intenso d’Europa. Le associazioni agricole, in specie la Coldiretti, denunciano la sottrazione ormai insostenibile dei terreni migliori a favore del cemento e dell’asfalto. Al convegno di Colli del Tronto il giovane assessore provinciale di Biella, Davide Bazzini, è venuto a dare una sofferta testimonianza: «La stoffa migliore del mondo viene prodotta in un territorio che fa schifo». È un ragionamento analogo a quello che fanno i produttori toscani dei grandi vini: capiscono di venderli meglio all’estero se il loro mirabile paesaggio rimane bello, se non imbruttisce. Come purtroppo sta accadendo.
Date queste premesse, cosa ci aspettavamo dal governo Prodi? Almeno una prima riduzione, in legge finanziaria, della percentuale di proventi edilizi utilizzabile per spese correnti. Non la conferma della quota di un anno fa e, soprattutto, non la proiezione di quell’incentivo a cementificare sino al 2010. Su questi temi strategici si misura tuttora, eccome, la differenza concreta fra destra e sinistra.
Sullìargomento si veda anche l'eddytoriale n. 109
Il mestiere dell’ambientalista comporta errori, come ogni mestiere. Il fatto è che ambientalisti si dovrebbe essere per il solo fatto che siamo al mondo e non per professione perché la professione, alle volte, riduce tutto ad un’abitudine.
E così accade che Greenpeace, che ha salvato balene innocenti, ha subìto l’affondamento di sue navi, arresti e soprusi, ha salvato con coraggio luoghi dall’orrore delle radiazioni nucleari, accade, dicevamo, che anche Greenpeace prenda un granchio nonostante il blasone e trenta anni di dedizione alla causa.
Gli avventurosi volontari della libera associazione, sbarcati in città, sostengono che, siccome la Sardegna ha la fortuna di essere battuta incessantemente dal vento, allora con un po’ di centrali eoliche e con l’utilizzazione del solo 3% del territorio dell’Isola noi potremmo soddisfare il 50% del nostro fabbisogno energetico, che significherebbe ottenere dalle pale eoliche più di sette milioni di chilowattore l’anno. Nientemeno.
Beh, ci trattano come le balene da salvare.
Ma anche le balene meno avvedute sanno che si può ricavare dall’energia eolica una piccola percentuale di energia rispetto a quanta ne consumiamo e che non potremmo mai ottenere sette milioni di chilowattore neppure se trasformassimo l’intera Isola in un immenso ventilatore. E sanno che la monocultura del vento, da sola, risolve poco. Insomma, ci hanno rifilato una panzana, una frottola.
Nessuno può ragionevolmente essere contro l’eolico, il fotovoltaico e tutte le altre fonti di energia pulita. Però servono norme, un piano, e ce li siamo dati. Non servono pale eoliche che sfigurano il Limbàra e i luoghi più belli dell’Isola, né un fotovoltaico infestante privo di regole. Così, senza dimenticare i meriti e le medaglie di Greenpeace, si possono suggerire agli scalatori animosi altri palazzi e altri obiettivi. Ricordiamo al responsabile del blitz e del goliardico striscione di Greenpeace come si sia formata da queste parti (anche grazie alle loro azioni) un’opinione pubblica che ha espresso un pensiero compiuto sul paesaggio, sui problemi dell’energia, sul consumo dei suoli, sul turismo distruttivo che infetta l’isola per tre mesi l’anno, sul problema dello smaltimento dei rifiuti e quello delle emissioni. Quanto al problema del carbone, anche le balene sanno che dalla combustione del carbone si ottiene, appunto, anidride carbonica, ne discutono e hanno capito che un obiettivo assennato è quello di abbandonare, quando si potrà, una fonte di energia “sporca” con i minori traumi sociali possibili. Greenpeace ha dato un contributo alla discussione sul carbone (il “carbone pulito” è un’utopia) ma ha generato una dannosa confusione e diffuso informazioni sgangherate sull’eolico e sul piano per l’energia isolani proprio mentre un’intera comunità ne discute e si da regole. Esiste solo nella fantasia del suo portavoce un lotta tra carbone ed energia pulita. E’ un modo malizioso e fasullo di presentare la realtà.
Ci auguriamo che Greenpeace continui la sua muscolosa attività e che non faccia mai dell’ambientalismo un mestiere. Siamo certi che qualche sacco di carbone recapitato in segno di rimprovero, come accade per l’epifania, non faccia male a nessuno. Anzi, moltiplica le riflessioni e, quindi, è benefico. Però, anche di questo siamo certi, la Befana si informa con cura sui nostri peccati, prima di consegnarci il temuto carbone.
Riprende la collaborazione di Giorgio Todde a La nuova Sardegna e a eddyburg. Qui trovate una informazione sull'evento cui il corsivo di Todde si riferisce, che è stato ampiamente raccoontato dai giornali sardi ma nn dalla stampa nazionale
MILANO - Meno televisioni e più mattone. Meno blitz in Borsa (salvo per casi “sensibili” come quello di Mediobanca) e più investimenti senza troppi rischi. Dopo aver rimescolato le carte della politica italiana creando dal nulla il “Popolo della Libertà”, Silvio Berlusconi prepara un lifting radicale anche per la sua Fininvest.
Il primo segnale è arrivato dalle casseforti cui fa capo il controllo del Biscione che con una raffica di assemblee straordinarie nelle ultime settimane hanno rivisto lo statuto in modo da allargare il loro business al settore immobiliare. Il secondo tassello di questa svolta strategica potrebbe essere piazzato in tempi molto brevi: la holding di via Paleocapa, secondo indiscrezioni attendibili, sarebbe a un passo dall’acquisto da Pirelli Re di Villa Somaglia – detta il “Gernetto” – a Lesmo (due passi da Arcore), un edificio settecentesco decorato dal Canova e circondato da un parco secolare di 35 ettari. Il prezzo sarà di circa 35 milioni – nemmeno troppo, meno di quanto costi Ronaldinho – e la tenuta brianzola dovrebbe finire sotto il cappello della Fininvest sviluppi immobiliari, società nata sulle ceneri di Cinema 5 e destinata ad assumere un ruolo sempre più rilevante nell’impero del Cavaliere.
Il ritorno al mattone dell’ex-premier non è un semplice Amarcord degli anni ruggenti di Milano 2 e dell’Edilnord. La decisione sarebbe frutto di un’approfondita revisione strategica della cassaforte di famiglia, avviata nei mesi scorsi dopo l’ingresso nel capitale – accanto a Marina e Piersilvio – dei tre figli di Veronica Lario. Obiettivo: gestire il patrimonio di Arcore per il futuro in un modo più conservativo, evitando – com’è successo quest’anno – di vedere andare in fumo 1,5 miliardi dei beni di casa per il tracollo dei titoli Mediaset, Mediolanum e Mondadori a Piazza Affari.
Villa Gernetto è la prima pietra di questa svolta decisa assieme agli storici consulenti finanziari di famiglia. Il futuro del Biscione – per risparmiare le coronarie e il portafoglio dei soci non impegnati nella gestione operativa – si dovrebbe concentrare su investimenti lontani dai capricci di politica e Borsa, soprattutto all’estero e nel settore immobiliare. Non più nel campo della costruzioni come in passato, ma comprando «edifici di prestigio da mettere a rendita» come recitano gli obiettivi della Fininvest Servizi immobiliari che ha debuttato qualche mese fa rilevando il palazzo di Via Negri a Milano, sede de “Il Giornale Nuovo”, per puntellare i conti traballanti del fratello dell’ex premier.
La tenuta di Lesmo è stata utilizzata fino ad oggi come centro formazione Unicredit ed è da tempo nel mirino del Cavaliere. Le prime avance sono state fatte proprio ad Alessandro Profumo qualche anno fa, quando la villa era parte integrante del patrimonio di Piazza Cordusio. Ma il numero uno della banca aveva respinto le proposte di Berlusconi. Poi tutti gli immobili dell’istituto milanese sono passati alla Pirelli Re e l’ex premier – visti i buoni rapporti con la Bicocca cui ha già girato Edilnord – è tornato all’assalto. Questa volta, pare, con successo.
Per la Fininvest non sarà troppo difficile «mettere a rendita» il nuovo gioiello brianzolo: a pagarle l’affitto, salvo sorprese dell’ultima ora, sarà l’erigenda “Università del pensiero liberale”, vecchio pallino accademico di Berlusconi che vorrebbe portare in cattedra sulle rive del Lambro, nelle “Frattocchie” del centro-destra, docenti del calibro di Tony Blair, Josè Maria Aznar, Vladimir Putin e Bill Clinton. Le ville di famiglia (Macherio, Arcore e Certosa) sembrano invece destinate – almeno per ora – a rimanere fuori dalla Fininvest, sotto il cappello di quella Dolcedrago controllata direttamente dall’ex-premier (99%) e da Marina e Piersilvio (0,5% a testa).
Il carburante della nuova vita del Biscione sarà il “tesoretto” di via Paleocapa, la ricca liquidità – un miliardo di euro circa – raccolta con il collocamento del 14% di Mediaset tre anni fa e parcheggiata finora in investimenti a breve termine. Una forza di fuoco che potrebbe facilmente raddoppiare visto che via Paleocapa può sopportare senza alcuna difficoltà fino a un miliardo di debiti.
Qualche decina di milioni, a dire il vero, se n’è già andata nel raddoppio al 2% della quota in Mediobanca, partecipazione strategica che garantisce a Berlusconi una poltrona nel salotto in cui si decidono i destini di alcuni degli snodi cruciali della finanza italiana come Generali, Telecom ed Rcs. Il resto – salvo occasioni irripetibili – verrà utilizzato per consolidare con investimenti “sicuri” e meno volatili di Piazza Affari il patrimonio (11 miliardi di dollari secondo Forbes) di Arcore. A garanzia degli interessi di tutta la famiglia.
La giustizia sociale si realizza con il trasporto pubblico. Si può aggiungere che si realizza anche con il trasporto pubblico. Ma la nettezza con la quale Richard Burdett esprime il suo convincimento supera le sfumature. Architetto, consulente del sindaco di Londra Ken Livingstone (che per il suo radicalismo chiamano Ken "il rosso"), Burdett studia da tempo quanto la struttura fisica di una città produca benessere sociale o, al contrario, esclusione. Da Berlino a Johannesburg. Da Città del Messico alla sua Londra. Sua fino a un certo punto, perché Burdett ha vissuto per vent’anni a Roma, sulla via Cassia (il padre era il corrispondente della Cbs), e ora si muove con agio su una scala che comprende Parigi, Bogotà, Kinshasa e Mumbai. La città occidentale ancora sufficientemente definita nella sua forma e le sterminate conurbazioni africane o asiatiche. In questi giorni Burdett, che insegna alla London School of Economics, è a Roma per un convegno (vedi il box in questa stessa pagina), dove propone i dati che continuamente acquisisce, come direttore del progetto Urban Age, su che cosa stanno diventando le città nel mondo.
Cominciamo da Londra.
«Londra sta crescendo, a differenza delle altre grandi città europee: 750 mila persone arriveranno entro il 2015».
Perché dice "arriveranno"?
«Perché la gran parte dei nuovi londinesi verranno da fuori, in particolare dall’Europa dell’est. Si prevedono almeno 400 mila nuovi posti di lavoro. D’altronde Londra ha superato Tokyo e New York per il giro degli affari che si realizzano e per gli investimenti soprattutto di russi e arabi».
E la città come si prepara ad accogliere i nuovi venuti?
«Livingstone ha deciso che tutto lo sviluppo edilizio si svolga all’interno degli attuali confini della città - la cosiddetta Green Belt - senza consumare un centimetro quadrato del verde che la circonda. Si edificherà solo sui terreni abbandonati - ex aree industriali, vecchi scali ferroviari, depositi di gas o elettrici. E solo dove già esiste un sistema di trasporto pubblico. Londra ricostruisce se stessa».
È un fenomeno urbanistico e sociale insieme.
«Nascono quartieri che dovrebbero sfruttare la vera forza della città, la forza della reciprocità, come la chiama il sociologo Richard Sennett, quella che sconfigge "l’estraniamento e il rancore". La città è nata mescolando funzioni diverse - la casa, il lavoro, la cultura, il divertimento. Ogni quartiere deve riprodurre questi intrecci. Tenga poi conto che almeno metà di tutti i nuovi insediamenti deve essere accessibile alle fasce economicamente più deboli, da chi ha pochissimi mezzi fino a chi sta già un po’ meglio, ma certo non può permettersi i prezzi del libero mercato. I quartieri evitano di diventare ghetti se ospitano persone di ceti diversi».
Apro una parentesi. Fra la città che cresce disperdendosi sul territorio e la città compatta, che invece tiene ben presenti i suoi confini, lei predilige questo secondo modello?
«Non c’è dubbio. La prima è la città dell’auto privata. Occorre ricordare che le grandi città del mondo contribuiscono per il 75 per cento alle emissioni di anidride carbonica?».
Forse sì.
«E allora facciamolo. Ma la città compatta non ha solo minori effetti sul riscaldamento globale. È molto meno costosa, perché i trasporti pubblici e tanti altri servizi non sono costretti a rincorrere i brandelli di quartieri sparsi nel territorio».
Torniamo a Londra. Si vedono già gli effetti di quella che gli urbanisti chiamano la ridensificazione?
«L’uso delle macchine è diminuito del 20 per cento dal 2001. E nello stesso periodo è raddoppiato quello dei mezzi pubblici su strada. Il 99,8 per cento di chi lavora nella City - gente ricca, forse straricca - usa o la metropolitana o l’autobus. I parcheggi sono stati banditi dal centro...».
... e invece parcheggi si progettano e si costruiscono nei centri storici di Milano e di Roma...
«A Londra si prevedono parcheggi in centro solo per i disabili. Ma accade lo stesso a Tokyo, dove quasi l’80 per cento degli abitanti usa stabilmente la metropolitana. I soldi che l’amministrazione londinese incassa dal biglietto d’ingresso delle auto nel centro - fra i 2 e i 300 milioni di euro l’anno - sono destinati a migliorare il trasporto pubblico e tutti i servizi che si realizzano nei nuovi quartieri - ospedali, biblioteche, scuole».
La tendenza che prevale nel mondo, però, è lo sprawl urbano, la città diffusa. Sia nel mondo occidentale, tanto più in Africa o in Sudamerica dove l’urbanesimo è quello degli slums, delle baraccopoli.
«Città del Messico esemplifica al meglio la tensione tra ordine spaziale e ordine sociale. La sua sterminata espansione, con il 60 per cento dei 20 milioni di abitanti che vivono in baracche e case abusive, rivela disparità economiche enormi, ma che sono rese più acute dal dominio delle auto in una città in cui la benzina costa meno dell’acqua minerale».
E come si fronteggia questo fenomeno?
«Purtroppo si continua a investire in autostrade a due livelli anziché nel trasporto pubblico. Queste scelte stanno deteriorando ulteriormente la città, aumentando i tempi di tutti gli spostamenti e spingendo i poveri ai margini più remoti di una metropoli che sembra non avere limiti».
E i più ricchi?
«Cercano protezione nelle comunità blindate e protette da grate o nei nuovi ghetti verticali di Santa Fè, grattacieli scintillanti che dominano la città di casupole. Non è difficile capire che solo aumentando la popolazione che vive nei quartieri centrali si può ovviare alle gravi carenze strutturali - trasporti pubblici insufficienti, l’acqua potabile che scarseggia, terreno franoso e mancanza di spazi aperti. Ma l’assenza di qualunque controllo sull’edificazione fuori dei confini legali della città vanifica ogni tentativo di pianificazione».
I centri storici si svuotano di residenti anche in Italia.
«È grave che ciò accada. Gli effetti negativi si propagano in tutta la città. Un caso estremo, però, è quello di Johannesburg, dove il quartiere di Hillbrow, che era la sede delle principali istituzioni finanziarie fino al 1994, nello spazio di pochi anni è diventato una zona inaccessibile, sia ai neri che ai bianchi. Il paesaggio è inquietante, di sera si vedono solo le luci tremolanti di cucine improvvisate: indicano la presenza di una nuova sottoclasse urbana priva di diritti. Gli edifici, anche quelli di recente costruzione, restano vuoti o vengono chiusi con assi di legno. Questa regione diventerà una delle più popolose dell’Africa, malgrado gli effetti dell’Aids e una speranza media di vita di 52 anni. Ma se lo spazio e i trasporti pubblici non riescono a sviluppare il loro potenziale democratico, diventando luogo di integrazione e di tolleranza, si creerà un sistema che celebra la diversità e non l’inclusione».
Lei sovrintende alle trasformazioni di Londra in vista delle Olimpiadi del 2012. Cosa state progettando?
«Abbiamo scelto una delle zone industriali dismesse della città, Lower Lea Valley, dove non si investiva da sessant’anni, con pochissimi abitanti, ma con una buona rete di trasporti. Lì costruiremo impianti sportivi che per il 90 per cento smonteremo dopo le gare».
E cosa fate? Una specie di città temporanea?
«In parte sì. Ma intanto allestiremo servizi e infrastrutture che serviranno quando le Olimpiadi saranno finite. Il cuore dell’area sarà una grande stazione ferroviaria. Londra deve continuare a vivere dopo il 2012».
Titolo originale: Bird flu and 1918’s pandemic – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Ci sono sia implicazioni terrificanti che risvolti positivi nell’annuncio della scorsa settimana che i gruppi di ricerca hanno decifrato la sequenza genetica della devastante influenza del 1918 e hanno sintetizzato il letale germe in un laboratorio ad alta sicurezza. L’impresa rappresenta un tour de force scientifico che offrirà importanti notizie sui modi migliori di rispondere all’influenza aviaria che circola ora in Asia, e che ha ucciso un grosso numero di uccelli e circa 60 persone in quattro paesi.
Le due più recenti pandemie di influenza, nel 1957 e 1968, furono causate da virus umani che avevano raccolto alcuni componenti di quelli dell’influenza degli uccelli. Ora emerge che il molto più letale virus del 1918, che uccise da 20 a 100 milioni di persone, fu probabilmente di origine aviaria, passato poi direttamente agli esseri umani. La mutazione genetica che lo consentì sta già iniziando ad apparire nell’attuale malattia degli uccelli, nota come H5N1. Ciò offre all’influenza di oggi due vie per scatenare la devastazione fra gli umani. Può mescolare alcuni dei suoi geni con l’influenza umana, come i virus del 1957 e del 1968, oppure mutare sé stessa per divenire facilmente trasmissibile tra gli uomini, come il virus del 1918.
Sinora, il virus degli uccelli raramente è saltato dai volatili agli umani, e raramente si è spostato da una persona all’altra. Ma potrebbe seguire il medesimo percorso evolutivo del virus 1918. Due funzionari della sanità USA affermano che il virus H5N1 ha acquisiti cinque delle dieci sequenze genetiche legate alla trasmissione umano-umano del 1918.
Questo non significa necessariamente che la catastrofe sia imminente. Nessuno sa quante probabilità ci siano che si verifichino ulteriori mutazioni, o quanto tempo occorrerà. Il virus aviario è stato in circolazione per decenni senza per questo trasformarsi in un mostro.
Le nuove scoperte offrono promettenti sviluppi per gli operatori sanitari che devono prepararsi ad una possibile pandemia. Gli scienziati saranno in grado di monitorare l’evoluzione del virus aviario e portare immediatamente assistenza medica in qualunque area dove appaia che il virus sia più trasmissibile. Saranno anche in grado di sviluppare cure e vaccini mirati agli obiettivi genetici più importanti, consentendo così di curare o addirittura prevenire l’influenza in modo più efficace.
Nessuno sa se il virus aviario ora sotto i riflettori diventerà una minaccia più grave per gli esseri umani. Ma un giorno o l’altro potrebbe arrivare una potenziale pandemia. Le nuove scoperte potranno aiutare a contenerla.
Nota: il testo originale di questo articolo del New York Times è ripreso dal sito dello International Herald Tribune (f.b.)
Alors qu'un projet de loi contesté veut réformer leur statut, ces espaces protégés s'interrogent sur leur devenir. Et Marseille sur l'opportunité de choisir ce type de structure pour sauvegarder ses calanques
Du côté du Vieux- Port, à Marseille, on vous le dit sur tous les tons: «Ici, on s'escagasse.» En clair, on se remue, on s'active, voire on se prend la tête. Objet de toutes les cogitations: le devenir des Calanques, entre la Pointe-Rouge et la baie de Cassis. Linéaire côtier de 38 kilomètres à couper le souffle, le site est un chef-d'œuvre de la nature. En péril. Comme le seraient, sur un autre registre, dit-on, et bien au-delà de la Canebière, nos sept parcs nationaux . Sept merveilles qui devraient devenir huit avec les Calanques si l'on suivait le souhait de certains Marseillais. Sept parcs pris dans la tourmente du projet de loi réformant leur statut.
Adopté en Conseil des ministres le 25 mai, le texte est jugé alarmant par nombre d'associations environnementalistes. Derrière le désengagement de l'Etat au profit des collectivités territoriales, elles subodorent un mauvais coup. «On affaiblit l'exigence de protection des sites, on l'organise même», observe Jean-David Abel, ancien conseiller de Dominique Voynet au ministère de l'Environnement.
Parcs en rade. Après la Vanoise, Port-Cros, les Pyrénées, dans les années 1960, les Cévennes, le massif des Ecrins, le Mercantour et la Guadeloupe, de 1970 à 1989, les Calanques seront-elles le huitième parc national de l'Hexagone, le premier du genre péri-urbain? Ou bien celui des Hauts de l'île de la Réunion (100 000 hectares, soit le tiers de l'île) lui soufflera-t-il la place? En dépit d'annonces réitérées, aucun parc national n'a vu le jour depuis seize ans. Et l'on ne compte plus les reports, voire les abandons - en Ariège, aux îles Chausey, en Corse. Sans parler du projet avorté d' «Espace Mont-Blanc».
Mer d'Iroise, Corse, Guyane, les projets annoncés au début des années 1990 attendent toujours ou se hâtent lentement. «Vidé de sa substance, le Parc national marin d'Iroise n'est plus aujourd'hui qu'un projet a minima», s'agacent les défenseurs de la cause. «Pourvu que les Marseillais ne connaissent pas nos dérives!» dit-on du côté du Conquet.
Montée en puissance d'intérêts particuliers, dérives liées aux dérogations accordées en matière d'urbanisme pour retaper bergeries, granges et cabanes de montagne, toutes résidences econdaires en puissance, les édiles aux pouvoirs renforcés sont soupçonnés d'être vulnérables aux pressions diverses. «Ne voulant fâcher personne, ils seront tentés d'adapter la réglementation pour que les contraintes de protection pèsent moins sur le développement de leurs territoires, dit-on au Syndicat national de l'environnement (SNE). Surtout s'ils président les parcs et ont une voix prépondérante dans le choix du directeur».
«Dans ce débat, le jeu des amendements parlementaires sera décisif. Avec le risque évident, sous la pression de députés préoccupés de leurs intérêts, de dénaturer, voire de démanteler les sites», renchérit André Etchelecou, président du comité scientifique du parc des Pyrénées. Procès d'intention? L'intéressé a toujours en tête les dix années d'affrontements autour de cette piste pour tracteurs qu'on voulait aménager, en vallée d'Aspe, à proximité des vallons d'Annès et de Bonaris, refuges du lagopède et du grand tétras. Ou cette station de ski de fond du col du Somport, annulée par le tribunal administratif mais pourtant équipée.
«Dire que les établissements qui gèrent les parcs sont d'abord la caisse de résonance d'intérêts particuliers est exagéré», conteste Joël Giraud, député apparenté PS des Hautes-Alpes, administrateur du parc des Ecrins. Question de perception sans doute - et de contexte local. «Ici, tous les élus ne sont pas intéressés par un fonctionnement optimal du parc, lâche un garde-moniteur du Mercantour. Ils le vivent comme un empêcheur d'équiper en rond.» Et puis il y a les précédents. «Les retouches successives apportées à la loi Montagne ou à celle sur le développement des territoires ruraux laissent des traces», commente la Fédération Rhône-Alpes de protection de la nature (Frapna). Comme les récentes décisions concernant l'ours ou le loup. Rendez-vous donc dans quelques mois au Parlement.
Successeur de Serge Lepeltier au ministère de l'Ecologie et du Développement durable, Nelly Olin a inscrit le texte en procédure d'urgence, pour discussion à l'automne. Dans l'intervalle, elle entreprend aujourd'hui de renouer avec les associations les fils d'un dialogue interrompu. Inquiètes du manque de lisibilité d'un projet ayant donné lieu à sept moutures successives, elles aussi «s'escagassent» contre un possible dévoiement de pratiques jusque-là vertueuses. Et ce, alors même que chacun reconnaît leur réussite en matière de sauvegarde de la biodiversité et que Lepeltier lui-même évoquait à leur sujet «des cathédrales des temps modernes».
«Mais de quel édifice parlera-t-on si l'on démultiplie les situations d'exception au cœur ou en périphérie des parcs? s'interroge Jean-David Abel. Si la création d'un comité économique et social accentue la pression des intérêts locaux?» Pour Serge Urbano, vice-président de France nature environnement (FNE): «Trop de points fondamentaux restent flous, trop d'inconnues sont renvoyées à des décrets d'application. A la pointe dans le système de notation de l'Union internationale pour la conservation de la nature (UICN), la France risque de régresser.» Au ministère, où l'on affirme vouloir à la fois renforcer les protections et élargir le réseau des parcs, la remarque agace.
Alors, menacés, ces espaces emblématiques, dans la Vanoise et ailleurs, du renouveau des bouquetins, de l'aigle royal ou du gypaète barbu? En danger, ces sites exceptionnels, plébiscités, des Cévennes à Port-Cros, arpentés chaque année par plus de 7 millions de visiteurs? Après quarante-cinq ans de pratique, une réflexion n'est sans doute pas inutile, d'autant qu'avec la décentralisation le contexte politique local a changé. C'était déjà le leitmotiv du rapport remis, il y a deux ans, par le député du Var Jean-Pierre Giran à Jean-Pierre Raffarin. Le parlementaire y préconisait notamment une plus grande implication des élus locaux dans les instances du parc. Le temps où leur création pouvait être imposée d'en haut, au grand dam des édiles du cru, est définitivement révolu. Finie l'époque du plan-Neige, des stations intégrées, lorsque le parc de la Vanoise s'opposait violemment à l'extension de la station de Val-Thorens et celui du Mercantour à la création de deux stations de sports d'hiver. Des combats qui ont laissé des traces.
«Aux Ecrins, nous avons tricoté le parc pour le rapprocher des populations, pour qu'elles se l'approprient. Cela n'exclut pas les divergences, mais on les traite autour de la table», souligne Christian Pichoud, président de ce parc depuis cinq ans. Reste que la nouvelle donne laisse planer incertitudes et craintes de voir ressurgir de vieux projets comme, en Vanoise, la liaison Val-Cenis-Termignon ou celle entre Val d'Isère et Bonneval. Vu leur fréquentation, leur environnement immédiat - cette zone périphérique dotée, demain, d'un plan d'aménagement auquel les communes pourront ou non souscrire - et leurs moyens (le budget de la Vanoise égale celui de l'office de tourisme de Val-d'Isère), les parcs ont l'habitude de vivre sous pression. Le risque est de voir ces tensions s'amplifier. Jusqu'à faire tomber des digues de protection qui ont fait leurs preuves?
A Marseille, on parle d'opportunité. Aux portes de l'agglomération phocéenne, les 5 500 hectares des Calanques - la moitié de la ville de Paris - en imposent. Au même titre que le cirque de Gavarnie dans les Pyrénées, la quarantaine de glaciers des Ecrins ou la vallée des Merveilles, dans le Mercantour. Massif calcaire, escarpé et buriné, aux reliefs vertigineux, le monument est incontournable et Guy Teissier, député UMP et maire de secteur à Marseille, voudrait l'inscrire définitivement dans le scénario des «parcs de deuxième génération» que prépare la réforme législative. Pour ses falaises, coiffées de pins, aux abrupts plongeant dans les abysses de la grande bleue. Pour ses plateaux, entrecoupés de vallons secs et encaissés, de crêtes, de criques et d'aiguilles. Pour ses 900 espèces végétales (soit le cinquième de l'inventaire français) ou son aigle de Bonelli, protégé, comme le martinet pâle. Pour son domaine marin ou sa grotte Cosquer, témoin du paléolithique supérieur - lorsque le niveau de la mer était 130 mètres plus bas qu'aujourd'hui.
Grandiose. Mais fragile. Un fabuleux jardin public que chacun, au nom des usages, s'approprie plus ou moins, qu'il soit «cabanonier», chasseur «à l'avant», friand de petit gibier, ou passionné d'escalade et de passages en tyrolienne. Moyennant quoi, sédentaires ou touristes venus par la terre, plaisanciers, plongeurs ou pêcheurs, arrivés par la mer, ils sont plus d'un million à arpenter chaque année le site.
Un espace en alerte rouge
Surfréquentation? «Depuis cinq ans, TGV et 35 heures aidant, elle s'est accentuée», juge Madeleine Barbier, secrétaire générale de l'Union calanques littoral (UCL). Saturation des mouillages, l'été, à Port-Miou et ailleurs, débarquements problématiques à En-Vau, mauvaise qualité des eaux de baignade, en juillet-août, embouteillages au col de Sormiou, le long d'une des routes du feu, stationnements pris d'assaut à la Gardiole et Callelongue: l'espace est en alerte rouge.
Rouge comme ces feux qui, épisodiquement, ravagent le massif (3 600 hectares brûlés en 1990). Rouge, aussi, comme les boues issues du traitement de la bauxite de Gardanne, immergées au large par 330 mètres de fond.
Cinq ans de concertation
Rouge, enfin, de la colère de ceux qui voient le rivage des criques «mousser» sous l'effet des effluents rejetés, avec les eaux usées de l'agglomération, par l'émissaire de Cortiou. «On a éliminé les macro-déchets, mais on se dépêtre mal des détergents», observe Renée Dubout, de l'UCL. Engagée depuis 1992 dans la protection du site, l'association ne laisse rien passer. De l'aménagement par l'Office national des forêts, sous couvert d'entretien, du chemin d'En-Vau - une soixantaine de pins abattus - à l'utilisation à des fins touristiques de la grotte de Capélan, en passant par ce débarcadère bétonné récemment découvert entre Sugiton et Pierres-Tombées. Détérioration des herbiers à posidonies, des tombants de gorgones, diminution des oiseaux nicheurs, décharges sauvages, braconnage sous-marin... le constat des scientifiques, sans appel, confirme tous ces grignotages, ces petits arrangements, facilités par l'absence d'un gestionnaire unique au pouvoir affirmé.
Si tout le monde s'accorde pour reconnaître que ce patrimoine est menacé (surtout par «les autres»), la manière de le préserver en respectant les habitudes de chacun est loin de faire l'objet d'un consensus. Proposée par le Comité de défense des sites naturels (Cosina), l'idée d'une réserve naturelle, strictement contrôlée, où prévaudraient les interdits, ne convainc guère. «Ce serait tout mettre sous cloche. Impossible aux portes de Marseille de “sanctuariser” un tel espace», fait valoir Jean-Louis Millo, le directeur du Groupement d'intérêt public (GIP) mis en place en 1999 pour concilier les points de vue et préfigurer un parc national. Après cinq ans de concertation, l'entité présidée par Guy Teissier affirme avoir fédéré les bonnes volontés autour de l'idée. «Une conversion tardive, observe François Labande, ancien président de l'association Mountain Wilderness, administrateur du parc des Ecrins. Si beaucoup se décident aujourd'hui pour cette formule de parc national, c'est faute de mieux plus que par conviction».
L'appellation ne fait pas, pour autant, l'unanimité. Une pétition contre circule. «La publicité autour du label Parc national nous attirerait encore plus de monde», résume Janine Pastré, gérante de la SCI Marine-Sormiou (128 cabanons répartis sur 14 hectares). Le mieux, en somme, engendrerait le pire. Mais Teissier n'en démord pas. «On peut adapter ici ce qui marche à Port-Cros ou aux Ecrins», fait valoir son entourage. CQFD: la structure parc national serait donc le seul recours. Surtout si elle est mise au goût du jour par le toilettage législatif annoncé - et décrié. Du coup, les militants «pro» parc de toujours se montrent plus circonspects et attendent de connaître les tenants et aboutissants du projet de loi. Le Gip annonce pour septembre un document d'intention, sorte d'état des lieux que l'ensemble des collectivités concernées devraient parapher. Il faudra ensuite définir un projet de territoire et réaliser une enquête publique. La «bataille des Calanques» ne fait que commencer.
D'autant que, discrète, la mairie de Marseille, qui contrôle 90% du territoire des Calanques, n'a pas encore révélé ses intentions. Cabanonier à ses heures, du côté de Sormiou, son premier magistrat, Jean-Claude Gaudin, n'a sûrement pas l'intention de se laisser déposséder.
Post-scriptum
La rumeur voudrait qu'un projet d'inscription du site des Calanques au patrimoine mondial de l'Unesco soit à l'étude. Sera-t-il écologiquement compatible avec le dossier piloté par Guy Teissier?