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«A cosa servirà - in Parlamento e fuori di esso, nell'immediato e in prospettiva - il soggetto unitario e plurale che state costruendo a sinistra in tutta fretta?». E' questa la domanda centrale che Gabriele Polo ci pone nell'editoriale del manifesto di sabato scorso. Intendo rispondere chiaramente, perché quell'interrogativo coinvolge e inquieta una parte grande del nostro popolo. Polo chiede «risposte non scontate» né limitate all'«elenco dei sacri princìpi». Va bene, è giusto. A patto però di non considerare comunque banali e ovvie quelle risposte. Perché non lo sono affatto. Perché non è banale e ovvia la fase che stiamo attraversando. Siamo di fronte a un'operazione politica di portata e di ambizione gigantesche, iniziata ben prima della campagna elettorale ma che con la campagna elettorale ha subìto una drastica accelerazione.

Senza giri di parole, l'obiettivo è cancellare la sinistra dal quadro politico di questo paese, per rendere marginale il conflitto sociale, rimuovere ogni forma di protagonismo e partecipazione, far scomparire dall'orizzonte ogni idea di alternativa di società.

D'altronde, il quadro che tende a delinearsi dopo le elezioni è proprio quello di un governo di compatibilità confindustriali, per far valere gli interessi forti allorquando si faranno sentire la recessione americana, la crisi finanziaria e quella energetica. Non mi riferisco solo al classico governo di larghe intese, come in Germania, ma anche ad altre e inedite modalità, come peraltro si sta sperimentando in Francia con la commissione Attali. Tutte scelte che peseranno in maniera soverchiante sul lavoro e sulle condizioni di vita delle fasce più deboli della popolazione, accentuando precarietà e moderne forme di impoverimento. La possibilità di fronteggiare questa situazione ed evitare che a pagare i costi della crisi siano, come al solito, i più deboli dipende tutta dalla presenza di una forte e radicata sinistra politica. E' evidente che l'esperienza del governo Prodi, per lo scarto enorme tra le aspettative che aveva suscitato e le delusioni seguenti, rende tutto ciò molto più difficile. Non è un caso infatti che il Pd di Veltroni, dopo aver rappresentato con le altre forze centriste la principale resistenza all'attuazione del programma del governo e alle aspirazioni di rinnovamento del paese, eviti oggi qualsiasi serio bilancio di quella esperienza e proponga un programma stavolta, a differenza di quello boicottato in precedenza, del tutto adeguato alle richieste condizionanti di Confindustra e delle gerarchie ecclesiastiche

Se accetto e ritengo fondata la critica rispetto al ritardo con cui abbiamo avviato il processo unitario, nonostante lo sforzo da noi compiuto da tempo per contrastare resistenze e conservatorismi, credo che il tema vero sia quello di convenire unitariamente sulla necessità della costruzione di una sinistra non solo parlamentare ma politica in senso forte. Capace cioè di legare qui ed ora il mutamento concreto delle condizioni materiali individuali e collettive con un progetto complessivo di trasformazione della società. Esattamente il rovescio del modello americano, che tollera esperienza anche di radicalità sociale, incapaci, però, di incidere sulle scelte di fondo e sulla progettualità della politica. Dove è possibile, insomma, aprire solo canali di microcontrattazione parziale i cui esiti sono destinati, con il tempo a rivelarsi effimeri. A volte ho la sensazione che la sirena della contrattazione «all'americana», così come quella del ritrarsi in una dimensione del sociale incontaminata dalla politica, trovino entrambe ascolto anche sulle pagine del manifesto. E invece, pur tra limiti e contraddizioni, la sfida del nuovo soggetto unitario e plurale sta proprio nella capacità di coinvolgere a pieno titolo nella sua costruzione tutte le esperienze della Sinistra, dai movimenti alle esperienze comunitarie di nuovo legame sociale, dalle associazioni ai singoli compagni, dai luoghi della conflittualità sociale a quelli della lotta in difesa dei diritti civili, fino alle esperienze di ricerca politica e culturale che sono fiorite in questi anni al di fuori delle forze politiche organizzate.

Non vedo altra via per tenere aperta la possibilità di trasformazione nel nostro paese e per restituire attualità all'idea di eguaglianza, mettendola in relazione dialettica con le trasformazioni subìte dai processi di produzione e con la valorizzazione della differenze introdotta dal femminismo e dal pensiero della differenza sessuale nei criteri classici del pensiero critico. Non vedo altra via per affrontare la scommessa costituita dalla necessità di coniugare, in forme adeguate ai tempi, l'eguaglianza con la libertà, intesa come liberazione dei soggetti dalle forme di alienazione, dall'eterodeterminazione dei bisogni, dal peso della tecnica e della scienza che colonizza i corpi, i sentimenti, gli affetti: il capitalismo che oggi occupa lo spazio della produzione e della riproduzione.

Se questa è la posta in gioco, care compagne e cari compagni del manifesto, la critica, anche aspra, è non solo benvenuta ma per noi necessaria. A patto però che quella critica e quella necessità di confronto non si traducano solo in una sorta di attesa vigile che esclude il coinvolgimento immediato e diretto nel processo di costruzione del soggetto unitario e plurale della Sinistra.

Il precipitare della crisi politica ci ha posto di fronte a enormi difficoltà ma ci ha anche offerto potenzialità altrettanto grandi. Possiamo, dal basso, cambiare il segno di questa fase politica e tenere aperta una prospettiva che in troppi vorrebbero definitivamente chiusa. Non potete tirarvene fuori.

Negli ultimi giorni l’agenda elettorale è cambiata. Sembrava che i temi riguardanti i diritti civili, le questioni «eticamente sensibili» dovessero rimanerne fuori, per una tacita intesa tra i grandi contendenti, timorosi di discussioni difficili che potevano rendere più polemici i confronti, e così provocare divisioni all’interno di Pd e Pdl. Le cose sono andate diversamente.

Perché qualche irriducibile non si rassegnava a questa rimozione e, soprattutto, perché una cronaca impietosa mostrava una realtà insensibile agli ammiccamenti tra i partiti, com’è avvenuto a Napoli quando una donna che aveva appena interrotto una difficile gravidanza si è trovata nelle mani della polizia. Da qui una fiammata di consapevolezza, con le donne che si riprendono la piazza e la parola; con categorie professionali abitualmente assai prudenti, come quella dei medici, che assumono posizioni nette; con l’arrivo nel Pd delle candidature «scandalose» dei radicali e di Umberto Veronesi.

Qualcuno dirà, ancora una volta, che le elezioni si vincono dando risposte precise ai bisogni materiali, che oggi sono quelli dell’economia, del fisco, del lavoro, della crescita dei prezzi, della sicurezza. In tempi tanto difficili, i diritti civili vecchi e nuovi appartengono ad un «secondo tempo» della politica, sono un lusso che ci si può permettere solo dopo aver risolto le questioni davvero urgenti. «Prima la pancia, poi vien la morale» – canta alla fine del secondo atto dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht «il re dei mendicanti», Mackie Messer. Ma può la politica vivere senza ideali, senza gettare il suo sguardo al di là delle contingenze, non per sfuggire ad esse, ma per coglierne il significato più profondo? «L’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che viene dalla bocca di Dio». Anche il non credente coglie in questo passo del Vangelo di Matteo un insegnamento che non può essere trascurato, e che consiste appunto nella necessità di trarre ispirazione da qualcosa che non consista solo nell’amministrazione del quotidiano.

Ma – si può ancora obiettare – tutti i sondaggi ci mostrano che temi come il testamento biologico o le unioni di fatto raccolgono un consenso modesto.

Ora, a parte la considerazione che i risultati dei sondaggi sono fortemente influenzati dal momento in cui sono effettuati e dal modo in cui sono strutturate le domande, l’esistenza di un gruppo di elettori sia pur limitato, ma che farà le sue scelte proprio in base al modo in cui i partiti si pronunceranno su quelle questioni, deve far riflettere quanti sottolineano che il risultato elettorale dipenderà probabilmente dall’orientamento di fasce ristrette dell’elettorato. E, se si vuole rimanere nella dimensione dei sondaggi, vale la pena di ricordare che, quand’era ministro della Salute, Umberto Veronesi aveva un gradimento altissimo, superiore a quello degli altri suoi colleghi di Governo.

Nasce forse da qui il risentimento di alcuni ambienti per le candidature dei radicali e di Veronesi, per il comunicato sui temi della nascita della Federazioni dei medici. Si chiede chiarezza, ma in realtà si è disturbati proprio dal fatto che quelle candidature sono chiarissime, comprensibili per i cittadini senza distorsioni tattiche. Disturbano perché rifiutano il monopolio dell’etica da parte di chicchessia, perché manifestano convinzioni forti, ma in nome del dialogo e del confronto, non della pretesa di schiacciare gli altri sotto il peso di «valori non negoziabili». E’ buona cosa per la democrazia quando tutte le opinioni possono stare in campo con eguale forza e dignità.

Alle considerazioni contenute nel comunicato della Federazione di medici dovrebbero essere riservati lo stesso rispetto e attenzione che ambienti e giornali cattolici dedicarono, qualche settimana fa, a quel che disse un gruppo di primari medici romani sulla necessità di rianimare i feti nei casi di aborti tardivi. Si è sostenuto, da parte dell’Avvenire, che quel testo non corrisponde al documento effettivamente votato. Chiarimenti a parte su questo aspetto, è bene ricordare che lo stesso giornale riconosce che nella Federazione sono ufficialmente emerse posizioni critiche sulla legge sulla procreazione assistite e di pieno sostegno alla legge sull’aborto ed alla pillola del giorno dopo. Come si diede piena legittimità alla privata presa di posizione dei primari romani, allo stesso modo si deve riconoscere rilevanza ad una posizione espressa nell’ambito della massima organizzazione dei medici, se non altro perché smentisce la tesi tante volte avanzata di un massiccio rifiuto dei medici delle nuove tecniche che la scienza mette a disposizione delle donne.

Arricchita l’agenda elettorale con gli ineludibili temi che riguardano la vita delle persone e i loro diritti, si tratta ora di vedere come questa novità sarà gestita politicamente. La salute si presenta giustamente come un tema centrale, che sollecita l’autocandidatura di Giuliano Ferrara ad occupare quel ministero e fa nascere il timore che, invece, il ministro possa essere proprio Umberto Veronesi. Al futuro ministro, quale che sia, conviene ricordare che, proprio in materia di salute, l’articolo 32 della Costituzione stabilisce che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E’, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato. Il governo del corpo e della vita appartiene all’autonomia della persona. Un principio non ispirato da una deriva individualistica, ma memore dell’orribile sperimentazione dei medici nazisti, processati proprio mentre si scriveva la nostra Costituzione. E da quella esperienza nacque il Codice di Norimberga, che subordina ogni intervento sul corpo al consenso dell’interessato.

Tornando al presente, si deve sperare che non si avvii una spirale «compensativa», un bilanciamento affidato a candidature cattoliche. Se così fosse, il Pd diverrebbe prigioniero di una schizofrenia paralizzante, la stessa che nella passata legislatura ha impedito ai disegni di legge sul testamento biologico e sulle unioni di fatto di arrivare in aula. E, poiché è tempo di programmi e di promesse e Veltroni ha parlato della immediata presentazione in Parlamento di una serie di proposte se vincerà il suo partito, si può chiedere un altro impegno. Qualora il Pd non raggiunga la maggioranza, presenti lo stesso le sue proposte e usi gli spazi e i tempi riservati alle opposizioni dai regolamenti parlamentari per chiederne la discussione e sollecitarne il voto.

Certo, in questo modo si corre il rischio della bocciatura. Ma sarebbe peggiore il silenzio, e il rifiuto di chiedere il consenso sociale, di promuovere in concreto la cultura dei diritti. Vi sono comportamenti «impolitici» che sono il miglior antidoto all’antipolitica.

«Ben che vada portiamo a casa la pelle». Partiamo da qui, da questa frase detta a mezza voce un po' dovunque, per affrontare l'incubo presente a molti ma esplicitato da pochi: la scomparsa della sinistra parlamentare italiana, o la sua riduzione a irrisoria consistenza (che poi è come sparire). Finire sotto l'8% aprirebbe la strada per un declino alla «francese» e a quel punto resterebbe solo il terreno extraparlamentare; superare quella soglia rappresenterebbe una «prova in vita», che senza risolvere il problema dell'assenza di un progetto di trasformazione, terrebbe aperta la possibilità di agire la lotta politica anche a livello istituzionale.

La Sinistra-l'arcobaleno è arrivata a questo bivio nel peggiore dei modi: con un'unità tutta «di riporto» rispetto alla nascita del Partito democratico, massacrata da un'esperienza di governo foriera di pochissimi successi, nella fretta di costruire una compagine elettorale sotto gli equilibri dei partiti che la compongono (e che rischiano di esaurirla) e solo promettendo per un domani la costruzione di un vero e proprio soggetto politico. Mettendo insieme, con pessima alchimia, il peso di una concezione della politica parziale nel merito e totalizzante nel metodo (centralità quasi esclusiva delle sedi istituzionali, pretendendo di rappresentarvi il «tutto» di una società frammentata) con la leggerezza di messaggi testimoniali. Tradotto in termini elettoral-parlamentari, proporsi come opposizione senza le idee e le forze per praticarla. Così la domanda cui ci viene chiesto di rispondere diventa: «pensate o no che debba esistere una sinistra in Parlamento?». La risposta è fin troppo facile: «certo che sì», ma il punto è che quella è la domanda sbagliata. Perché corrisponde al «congelamento delle idee di fronte alla liquidazione della sinistra» di cui parlava ieri Marco Revelli in un'intervista su queste pagine; perché rivela una logica puramente testimoniale. Se fosse così, tanto valeva tenersi la falce e il martello: almeno sarebbe stata una testimonianza lineare.

La domanda vera - che giriamo ai dirigenti della Sinistra-l'arcobaleno - è un'altra. A chi - come chi scrive - vi voterà per stato di necessità, quale disegno proponete? A che cosa servirà - in Parlamento e fuori da esso, nell'immediato e in prospettiva - il soggetto «unitario e plurale» che state costruendo in tutta fretta? Non è una domanda retorica e sarebbe bene dare risposte non scontate, né risolvere il problema con l'elenco dei sacri princìpi (che diamo per acquisiti) o con un elenco di microprovvedimenti. E' una domanda che si fanno in molti e che pretenderebbe l'apertura di un confronto serrato, da non esaurire il 13 aprile. Avrebbe bisogno della ricostruzione di una comune alternativa da riempire di pratiche. Altrimenti il rischio - più che concreto - è che di fronte a una pura logica di sopravvivenza, le donne e gli uomini in carne e ossa - alle prese con i loro pressanti problemi - preferiscano la scelta «americana» del Partito democratico. Scegliendo un contenitore che non propone nessuna alternativa di sistema, ma che in una logica del tutto contrattualistica della politica promette soluzioni parziali a individui e gruppi, elargendo un po' di prebende e affermando l'antico e interclassista luogo comune della comunità nazionale ben governata. Alla fine è un imbroglio, ma potrebbe essere visto da molti come l'unica soluzione possibile. E, poi, le illusioni - se ben presentate - possono apparire un sogno. Per evitare tristi risvegli avremmo bisogno di tutt'altri sogni.

Oggi le campagne elettorali si organizzano, come ormai affermano tutti i manager del settore, o su “idee-guida” valoriali, come è il caso dei politicalpreachers statunitensi, o su issues che interessano direttamente la vita quotidiana dei cittadini.

Morte le ideologie, finite le grandi narrazioni storiche in cui si identificavano vasti gruppi di cittadini, cessata la protezione geopolitica che aveva fatto parlare Ronchey di un “fattore K”, la vendita delle scelte politiche è simile sempre di più alla campagna per la diffusione dei prodotti di largo consumo. Uso del “testimonial” (il leader politico, in questo caso) creazione di slogans forti e semplici, scarsa innovazione nella comunicazione, simbolizzazione di alcuni temi. Un partito politico si vende con le stesse tecniche del fustino di detersivo, che serve a tutti, è abbastanza anonimo, e comunque evoca messaggi rassicuranti e universali, niente affatto collegati alla funzione del detersivo, che è appunto quella di pulire. Inoltre, la comunicazione politica è, e deve essere, suadente e non creare associazioni negative o complesse, e deve parlare all’area pre-razionale dei sentimenti, delle pulsioni, delle abitudini.

Quel genio di Séguéla, che ha avuto l’unico torto di far incontrare Sarkozy e Carla Bruni, ha fatto vincere Mitterrand con lo slogan “la forza tranquilla”, ancora insuperato nella comunicazione politica. Non implica una attività da parte dello spettatore-elettore che deve sempre rimanere passivo, come invece il “we can” di Obama, ma ti sottopone il messaggio di un lento e piacevole abbandono a un padre buono, forte e autorevole. Poi, come diceva lo spin doctor di Tony Blair, “noi possiamo fare tutto, ma non possiamo creare il carisma”.

Nel caso della campagna elettorale italiana, abbiamo leaders che comunicano insieme troppi concetti (e spesso abborracciati, si vede che non sono statisti) oppure veicolano un eccesso di messaggi consolatori e edulcorati, che senza l’effetto carismatico “bambolizzano” come dicono gli spin doctors, l’elettore ma non lo fidelizzano. Compreranno subito un fustino di detersivo, ma non è detto che sia quello che produci tu. La sequenza di botte e risposte sulle issues, poi, depotenzia il messaggio e le rende poco credibili.

Il problema è che, nel marketing politico attuale, non si vende più un prodotto (la riforma universitaria, l’aumento delle pensioni, gli asili-nido) ma la certezza della capacità di risolvere i problemi. La moneta è comandata a Francoforte, e non da noi, i flussi di capitale arrivano da ben altre linee che non da Montecitorio, la divisione internazionale del lavoro si discute nei think tanks internazionali, che poi la inducono sui governi. Quindi, nessuno può più fare promesse, ma solo vendere l’aura magica della potenza e della credibilità di risolvere imprevisti problemi futuri.

«Non riconosceremo l’indipendenza del Kosovo unilateralmente dichiarata, perché contraria al diritto internazionale». Così ha detto in apertura della riunione Ue - dando con la sua autorevolezza voce a una linea già enunciata da molti governi europei - ilministro degli esteri spagnolo, Moratinos. Che ha anche aggiunto, conferendo particolare drammaticità alla sua denuncia, che accettare questa secessione dalla Serbia equivale all’invasione dell’Iraq .

L’unità dell’Ue si è dunque ampiamente spezzata, al punto che l’Unione va in ordine sparso e non vale più l’argomento secondo il quale non ci sarebbero stati spazi per una posizione italiana diversa da quella che rischia invece di prevalere a Bruxelles: un’accettazione del fatto compiuto, che appare tanto più grave se si considera che così, oltretutto, si opera anche contro il Consiglio di Sicurezza e la risoluzione 1244 votata a suo tempo dall’Onu.

Una doppia violazione, dunque, che per l’Italia appare anche più grave: innanzitutto perché nei mesi passati Romaaveva stabilito un dialogo con la Serbia che, nella pur difficilissima situazione, sembrava dare frutti positivi, tanto è vero che Belgrado aveva già accettato di concedere alla regione ribelle un’autonomia larghissima, tale da conferire alle autorità locali più del 90% delle funzioni statali. Bruciare così bruscamente questo rapporto produrrà inevitabili risentimenti, l’affossamento di ogni ipotesi di soluzione negoziale, la fatale ripresa di egemonia delle forze serbe più nazionaliste, a tutto danno di quelle democratiche che oggi governano. In secondo luogo è particolarmente grave per noi perché è il nostro paese che sarà capofila di una spedizione di polizia affidata a regole quanto mai confuse e destinata a imporre, in spregio ai principi del diritto internazionale, la volontà del gruppo kosovaro di Thaqi, e degli Stati Uniti che l’hanno spalleggiato.

L’affermazione di Moratinos è sacrosanta: l’inviolabilità delle frontiere è uno dei cardini dell’ordine postbellico che va salvaguardata, anche se oramai da tempo le indipendenze unilateralmente annunciate e realizzate solo quando di convenienza occidentale sono diventate la prassi. Proprio l’uso arbitrario nell’attuazione delle decisioni dell’Onu sta minando ogni fiducia nella possibilità di un assetto democratico delmondo e producendo barbarie. Cosa potrà accadere ora nel Kosovo è facile da immaginare. Basti pensare a quanto è già accaduto in questi nove anni: 300.000 profughi serbi, 2.000 uccisioni, monasteri incendiati. Nessuno vuole fare il computo dei morti dell’una e dell’altra parte.Ma va ben detto che con i bombardamenti Nato sulla Jugoslavia si sono fatti altri morti e si è solo ritardata la vittoria degli oppositori di Milosevic. E che ora si apre la strada all’acutizzazione di una serie senza fine di conflitti, bruciando ogni possibilità di trovare soluzioni negoziate per dare a ogni popolo i diritti che gli spettano, mache non necessariamente coincidono con la moltiplicazione di stati che sta sbriciolando la mappa del mondo garantendo solo un’indipendenza fittizia. Perché manovrata dall’una o dall’altra grande potenza; e, complessivamente, dai poteri forti e incontrollati del mercato globale.

Il coraggio di cambiare ha reso nei secoli le città italiane le più belle del mondo. La paura del futuro rischia ora di ucciderle, di ridurle a musei invivibili e avvelenati dal traffico. A lanciare l’allarme non è soltanto Renzo Piano, ma i fatti. Le capitali del pianeta, Londra e New York, Parigi e Barcellona, Berlino, Praga e Sydney, si lanciano nell´inaugurazione di grandi opere nei centri urbani. In Italia la contemporaneità suscita immediato sospetto e aperta ribellione. E’ probabilmente, come sostiene Piano, la paura del futuro tipica di una società vecchia come la nostra. In qualche caso il sospetto non sarà infondato. Ma da qui a «non poter spostare una panchina nei centri storici senza provocare la nascita di venti comitati», come dice il presidente dell´associazione dei comuni Lorenzo Domenici, ne corre.

Oltre le ragioni concrete e specifiche, si coglie una paura soltanto nostra. I verdi italiani salgono sulle barricate contro le nuove linee ferroviarie, benedette invece dagli ambientalisti tedeschi, francesi, spagnoli. A Bordeaux e a Nantes si festeggia in piazza il ripristino delle tramvie, considerate a Firenze e a Perugia uno «sfregio ambientale».

Il dato più paradossale è che a scatenare le proteste non sono quasi mai le grandi speculazioni in periferia, l’anonima colata di cemento che ha ripreso a inghiottire pezzi interi di Paese. Ma piuttosto il progetto di qualità. Ravello insorge alla notizia dell’auditorium progettato dal centenario Oscar Niemayer, un mito del Novecento. Firenze s’interroga da anni sulla pensilina degli Uffizi del grande Isozaki, definita un «orrore» da Vittorio Sgarbi, nientemeno. Mentre naturalmente nella periferia, da Novoli in poi, l’intramontabile Salvatore Ligresti progetta vagonate di metri cubi nel silenzio quasi generale.

La guerra alla torre della banca Intesa-Sanpaolo, disegnata da Renzo Piano, muove da una cartolina-manifesto. All’immagine più nota di Torino, dominata dalla Mole, viene affiancata la sagoma bruna di un grattacielo alto come una delle Torri Gemelle. Il fotomontaggio è un falso, secondo l´architetto, che ha esibito subito il progetto vero, dove la torre risulta trasparente, alta la metà e lontana due chilometri e mezzo dalla Mole. Ma intanto, che senso ha fermare il futuro nel segno di una cartolina? Lo chiediamo a Renzo Piano, rintracciato a New York alla vigilia dell’inaugurazione della nuova sede del New York Times, il primo grattacielo della città dopo l’11 settembre.

«Ho l’impressione sempre più spesso, quando torno in Italia, che siamo diventati un paese prigioniero delle paure. E la prima è quella del futuro. Declinata in varie forme. Fanno paura la società multietnica, i cambiamenti sociali, le scoperte scientifiche, sempre rappresentate come pericoli, la contemporaneità in generale. Si fa strada, perfino fra i giovani, la nostalgia di un passato molto idealizzato. Si combina una memoria corta e una speranza breve, e il risultato è l´immobilità. Il passato sarà un buon rifugio, ma il futuro è l’unico posto dove possiamo andare».

Nel comitato torinese colpisce però la presenza di nomi illustri e certo non conservatori, come l’ex sindaco Diego Novelli, il primo a disegnare la città post industriale, ai tempi del Lingotto.

«Per una volta Novelli è stato mal informato. Ha scritto che la torre è alta sessanta metri più della Mole e costa un miliardo. In realtà supera la Mole di soli dieci metri e costa 248 milioni. Ma non è questo il punto. Stimo Novelli e non voglio sottovalutare il disagio che rappresenta. Al contrario, le critiche intelligenti sono preziose. Un palazzo non è un quadro o un romanzo, ma qualcosa destinato a condizionare la vita delle persone, lo vogliano o no. Più voci si ascoltano meglio è. Ma allora Novelli, che conosce Torino meglio di chiunque altro, mi aiuti a fare un progetto migliore per i torinesi. A chi e a che cosa serve una guerra ideologica dove il fatto concreto non conta, si può manipolare a piacimento in nome di una giusta causa?»

Si può anche vedere così, la Torino industriale rifiuta d’inchinarsi allo strapotere della finanza, delle banche, materializzato in un simbolo di dominio come un grattacielo.

«E’ un’altra critica motivata. Ma anche qui, non facciamoci condizionare dai simboli. Le torri sono per natura simboli di potere, d’accordo. Ma costruire in verticale ha dei vantaggi. Qui per esempio, il vantaggio è di poter creare un grande parco per i torinesi. Il San Paolo ha molto terreno, io potrei sdraiare la torre in orizzontale. E i verdi, per assurdo, sarebbero contenti di far sparire un parco».

Non è la prima volta che si trova a giocare il ruolo del mancato profeta in patria. Basta confrontare la stampa americana di questi giorni con le durissime polemiche italiane sul Lingotto di Torino, l’Acquario di Genova, l’Auditorium di Roma.

«Belli o brutti, non spetta a me dirlo, sono luoghi di socialità e di scambio che hanno preso il posto del nulla. Basta contare le presenze. Comincio a pensare che quello che non si perdona in Italia è l’essere contemporanei. Ed è triste per un paese che ha insegnato al mondo il coraggio in architettura».

Per secoli nelle città italiane ai contemporanei è stato permesso non soltanto di costruire ex novo e sovrapporre stili, ma di mettere mano ai monumenti-simbolo. Stern aveva vent’anni quando fu chiamato a "migliorare" il Colosseo, e dopo di lui venne Valadier. Leon Battista Alberti ha rimodellato e stravolto il tempio malatestiano di Rimini. Lo stesso Antonelli riuscì a completare la "follia" della Mole, all’epoca considerata dai torinesi una mostruosità.

«Tutto questo è molto chiaro all’estero. Mi chiamano perché sono italiano, vengo da questa storia. Il problema è che la nostra storia è più conosciuta a Sydney o a Londra. All’estero l’Italia è considerata ancora un laboratorio, noi ci vediamo come un museo. Si parla tanto di modernizzazione, ma è retorica. La modernità è soltanto la parodia del futuro. Siamo il paese dei veti incrociati. Prendiamo la politica. In tutte le democrazie un’opposizione che gioca al massacro e vive soltanto per demolire perde consensi, qui li moltiplica»

E’ una logica da curve ultras, per rimanere all’attualità di questi giorni, dove trionfa lo scontro frontale, lo sventolar di bandiere contrapposte?

«Ma sì, s’è perso il gusto della discussione. Una discussione vera che non consista, diceva Norberto Bobbio, nell’arte retorica di persuadere, di vincere sull’altro. E’ un regresso civile che ormai si vede nel corpo fisico del Paese. Le nostre città sono belle perché hanno mescolato sempre gli stili, sono state oggetto di continue trasformazioni, specchio di milioni di vite vissute. Ora rischiano di modellarsi sullo scontro per bande, dove alla fine trionfa soltanto la difesa dello status quo»

E’ ancora una volta il futuro il grande assente dalla scena?

«Il mio lavoro mi costringe a pensarci in continuazione. Perché se un architetto sbaglia un progetto oggi, glielo ricorderanno per tutta la vita».

Mentre nei media o in politica una cantonata si dimentica nel giro di qualche giorno.

«Sì, ma quando un’intera società assume tempi televisivi, sono guai seri. Più di tutto preoccupa questa difesa di un passato che peraltro non si conosce. Come se il futuro fosse soltanto gravido di minacce. E’ nella natura umana, certo. Penso alle ultime pagine del Grande Gatsby, all’immagine della vita come di una barca destinata a remare sempre contro la corrente e la voglia di lasciarsi portare indietro. Peccato che tornare indietro non si possa. Si può soltanto andare nel futuro. Prima o poi, presto o tardi. A volte, con molto sforzo, troppo tardi».

Postilla

L’articolo di Curzio Maltese è esemplare nel tentativo di connotare l’attuale dibattito sulle nostre città come riproposizione in chiave architettonica della querelle des anciens e des modernes, in cui, ovviamente, i modernes sono portatori di valori positivi e progressisti, mentre gli anciens, misoneisti attardati, fautori della paura e dello status quo.

Oltre ad essere diversificate al loro interno, le posizioni di chi si oppone a taluni interventi architettonici nelle nostre città non si appiattiscono certo in un acritico accanimento preconcetto contro tutto ciò che non odora di antico. Ma la nostra ottica, lo ribadiamo ancora una volta, è di sistema: quali sono le nostre città. Così l’introduzione di un elemento, peraltro spesso non insignificante dal punto di vista oggettivamente “quantitativo”, non è né indifferente né semplicemente collegato alle intrinseche qualità formali, che intrinseche non sono mai perché ogni testo si adatta e adatta il contesto (urbanistico e sociale) nel quale vive e dal quale è spesso destinato a subire “mutazioni” anche radicali (nell’uso, nell’impatto, nella funzionalità) e del tutto impreviste in fase progettuale. Questo non significa “non fare”, ma operare con consapevolezza e strumenti (non solo tecnici) non solo moderni, ma davvero innovativi, rispetto ad una generica, provincialissima e pertanto questa sì, attardata, pulsione verso l’icona architettonica come simbolo, esteriore e posticcio, di adeguamento al contemporaneo.

Non ci riguarda evidentemente, l’accusa di accanimento sulle singole costruzioni di archistars a scapito dell’attenzione a quanto succede nelle nostre periferie e nei territori periurbani o rurali. Basta uno sguardo anche superficiale a qualsiasi pagina di eddyburg per verificare che la sua azione di denuncia civile e politica è sistemica e sistematica sull’insieme delle speculazioni che da qualche anno a questa parte investono il nostro territorio: proprio perché ci rendiamo conto sempre più che la lottizzazione estensiva e i singoli interventi architettonici, possono avere lo stesso carattere di invasività e di distorsione della qualità urbana e sono quindi, nel loro complesso, manifestazioni di quella strategia di attacco al territorio che la sua rinnovata centralità dal punto di vista economico, ha scatenato. I rimandi che trovate in calce sono una esemplificazione ridottissima di una documentazione ormai amplissima e stratificata di casi proposti, diversificata per aree geografiche, per “tipologie” progettuali, per modalità di intervento.

A volte, a noi della redazione, prende una sorta di sconforto per non riuscire a dare conto di tutto ciò che accade e il senso dell’emergenza ci sovrasta quotidianamente. Se anche da giornalisti non ignari della complessità della partita politica e sociale in atto e architetti di grande livello culturale l’unica risposta è la riproposizione, con toni caricaturali e violentemente distorsivi, dell’intera panoplia dei luoghi comuni sui conservatori a prescindere, il gioco diventa davvero durissimo da giocare.

A chiosa finale del panorama di banalità esemplificative inanellato nel testo (da Ravello al tempio malatestiano) ricordiamo che l’Auditorium di Piano a Roma fu fortemente caldeggiato da uno dei più accaniti e polemici difensori dell’intangibilità dei nostri centri storici qual era Antonio Cederna. (m.p.g.)

Sui grattacieli di Torino e Milano, in eddyburg:

Ettore Boffano e Vittorio Gregotti,

Oreste Pivetta,

Eddyburg per carta, n.36 e n.39

Primo: modernizzare l’Italia.

Pensare ad un’Italia moderna significa scegliere come priorità le infrastrutture e la qualità ambientale.

Il Paese ha bisogno di infrastrutture e servizi che oggi sono ostacolati più da incapacità di decisione che da carenza di risorse finanziarie.

Noi riformeremo la normativa di valutazione ambientale delle opere, con l'eliminazione dei tre passaggi attuali e la concentrazione in un’unica procedura di autorizzazione, da concludere in tre mesi. La priorità va data agli impianti per produrre energia pulita, ai rigassificatori indispensabili per liberalizzare e diversificare l'approvvigionamento di metano, ai termovalorizzatori e agli altri impianti per il trattamento dei rifiuti, alla manutenzione ordinaria e straordinaria della rete idrica.

L’Alta Velocità è il più grande investimento infrastrutturale in corso nel nostro Paese: va completato e utilizzato appieno. Il completamento della TAV metterà a disposizione del trasporto regionale un aumento del 50 per cento delle tratte ferroviarie. Noi le useremo per ridurre il traffico attorno alle grandi città e per dare ai pendolari un servizio finalmente decente.

Secondo: crescita del Mezzogiorno, crescita dell’Italia.

La priorità in materia è quella di portare entro il 2013 la rete delle infrastrutture, a cominciare dal sistema dei trasporti – strade, ferrovie, porti, aeroporti e autostrade del mare – su un livello quantitativo e qualitativo confrontabile con l’Europa sviluppata. E lo stesso vale per servizi essenziali come quelli idrici e ambientali.

La Sicilia ha bisogno di una rete infrastrutturale che le consenta di diventare davvero, con le altre regioni del nostro Mezzogiorno, la naturale piattaforma logistica per gli scambi di servizi, di beni, di persone, di culture in un’area cruciale del mondo.

Terzo: controllo della spesa pubblica.

Proprio l’esperienza di questi due anni ci consente di dire credibilmente ai cittadini italiani che nella prossima legislatura, il banco di prova decisivo per il Governo del Partito Democratico è quello di riqualificare e ridurre la spesa pubblica. Senza ridurre, anzi facendo gradualmente crescere in rapporto al PIL, la spesa sociale aumentandone la produttività e rendendola finalmente quel fattore di sviluppo e di uguaglianza che oggi ancora non è.

Mezzo punto di PIL di spesa corrente primaria in meno nel primo anno, un punto nel secondo e un punto nel terzo: il conseguimento di questo risultato è condizione irrinunciabile per onorare l'altro impegno che assumiamo con i contribuenti italiani, famiglie e imprese: restituire loro, con riduzioni di aliquota e detrazioni, ogni Euro di gettito aggiuntivo, derivante dalla lotta all'evasione fiscale. Obbiettivo del Partito Democratico è quello di semplificare il nostro barocco sistema amministrativo, ridurre le sovrapposizioni fra uffici, livelli istituzionali, organismi ed enti pubblici, accorpare in un’unica sede provinciale tutti gli uffici periferici dello Stato.

Cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi Comuni metropolitani, ai quali andranno dati poteri reali in settori importanti come la mobilità. Utilizzeremo in modo produttivo il grande patrimonio demaniale, con l’accordo di Stato e Comuni, in modo da abbattere contestualmente di qualche punto il debito pubblico, che potrà così scendere più rapidamente al di sotto della soglia del 100 per cento sul PIL. Libereremo così risorse per almeno un punto di PIL all’anno.

Quarto: Pagare meno, pagare tutti.

Oggi è possibile ridurre davvero le tasse ai contribuenti leali, che sono tanti, lavoratori dipendenti e autonomi, e che pagano davvero troppo. Il risanamento della finanza pubblica realizzato negli ultimi due anni, combinato con questo credibile e concreto programma di riduzione e riqualificazione della spesa e con la prosecuzione della lotta all’evasione, permette per il futuro, anche per quello immediato, di programmare una riduzione del carico fiscale.

Un obiettivo che si traduce, subito, in un incremento della detrazione IRPEF a favore dei lavoratori dipendenti. E dunque in un aumento di salari e stipendi.

Quinto: investire sul lavoro delle donne.

Il modello sociale italiano è oggi afflitto da tre gravi patologie: bassi tassi di occupazione femminile, bassa natalità e alti tassi di povertà minorile. Per questo noi vogliamo trasformare l’enorme capitale umano femminile inattivo in un “asso” da giocare nella partita dello sviluppo, della competitività, del benessere sociale.

Vogliamo rovesciare il circolo vizioso in un circolo virtuoso. Più donne occupate significa infatti più crescita, più nascite (come dimostra l’esperienza degli altri paesi europei), famiglie più sicure economicamente e più dinamiche e meno minori in povertà.

Sesto: aumentare il numero di case in affitto.

La scarsa disponibilità di case in affitto blocca la mobilità, specie dei giovani e delle giovani coppie. Il terzo delle famiglie che non possiede abitazioni è esposto al rischio di aumenti dei costi degli affitti e alle difficoltà di poter acquistare una casa senza venderne un'altra.

Tra le misure che proporremo per aumentare l’offerta di case in affitto, un grande progetto di social housing realizzato da fondi immobiliari di tipo etico a controllo pubblico, con ruolo centrale della Cassa Depositi e Prestiti, che può mobilitare risorse per 50 miliardi di euro, senza intervento di spesa pubblica, per la costruzione e gestione di 700 mila unità abitative da mettere sul mercato a canoni compresi fra i 300 e i 500 euro.

E una coraggiosa riforma del regime fiscale degli affitti: tassare il reddito da affitto ad aliquota fissa, ferma restando l’opzione per la condizione di miglior favore; e consentire la detraibilità di una quota fissa dell’affitto pagato fino a 250 euro mensili.

Settimo: incremento demografico.

Grande obiettivo programmatico del Partito Democratico è quello di invertire l’attuale trend demografico, aiutando in modo significativo le famiglie con figli, mediante l’istituzione della Dote fiscale per il figlio, proposta dalla Conferenza governativa di Firenze sulla famiglia.

La Dote sostituisce gli attuali Assegni per il nucleo familiare e le detrazioni Irpef per figli a carico, assicura trattamenti significativamente superiori a quelli attuali, si rivolge anche ai lavoratori autonomi.

L'asilo nido deve diventare un servizio universale, disponibile per chiunque ne abbia bisogno. Il nostro obiettivo, in collaborazione con le Regioni e gli enti locali, è quello di raddoppiare il numero dei posti entro cinque anni, in modo da assicurare il servizio ad almeno il 20 per cento dei bambini da 0 a 3 anni.

E’ anche con questi strumenti che si sostiene la famiglia, che la si aiuta a svolgere la sua importante funzione sociale.

Dobbiamo fare della nostra una società a misura di bambino, riservando all’infanzia i tempi e gli spazi di cui ha bisogno.

Ottavo: Scuola, Università e Ricerca.

Abbiamo bisogno di “campus” scolastici e universitari. Abbiamo bisogno che per i ragazzi i luoghi di formazione non siano come una fabbrica o un ufficio, ma dei centri di vita e di formazione permanente.

Cento “campus”, universitari e scolastici, dovranno essere pronti per il 2010. Questi saranno a tutti gli effetti delle centrali di sapere per le comunità locali, dei luoghi di formazione e di “internazionalizzazione” per i nostri ragazzi.

Tutti gli studenti delle scuole italiane saranno periodicamente sottoposti a test oggettivi, che serviranno alle famiglie per valutare la qualità dell’apprendimento dei ragazzi e della scuola che frequentano.

Importante sarà l’investimento destinato alla professionalità dei docenti. Ciò significa ad esempio prevedere per gli insegnanti periodi sabbatici di aggiornamento intensivo, così come avviene per i professori universitari.

Quanto alla ricerca, dobbiamo spingere le imprese a investire più risorse, concentrando solo sugli investimenti in ricerca e sviluppo i contributi a fondo perduto.

Nono: lotta alla precarietà, miglior qualità del lavoro e più sicurezza, un diritto fondamentale della persona umana.

In questo senso si tratta di difendere e promuovere standard minimi di civiltà. Ma anche di far avanzare un’idea alta della competizione e della produttività.

Per questo bisogna creare un'unica Agenzia Nazionale per la sicurezza sul lavoro, grazie alla quale potrà essere realizzato un sistema di forti premi per le imprese che investono in sicurezza, agendo sul livello della contribuzione; bisogna, inoltre, avviare la sperimentazione di un compenso minimo legale, concertato tra le parti sociali e il governo, per i collaboratori economicamente dipendenti, con l'obiettivo di raggiungere 1.000 euro mensili.

Troppi giovani sono ora “intrappolati” troppo a lungo, spesso per anni, in rapporti di lavoro precari.

Noi contrasteremo questa situazione, facendo costare di più i lavori atipici e favorendo un percorso graduale verso il lavoro stabile e garantito. Un percorso che preveda un allungamento del periodo di prova e una incentivazione e modulazione del contratto di apprendistato come strumento principale di formazione e di ingresso dei giovani nel lavoro.

Decimo: garantire la Sicurezza.

Far sentire sicuri i cittadini, aumentando la presenza di agenti per strada e anche utilizzando nuove tecnologie è uno dei principali obiettivi programmatici del Partito Democratico.

Per questo, trasferiremo ai comuni funzioni amministrative e vareremo un piano di mobilità interna alla Pubblica Amministrazione di personale civile oggi sottoutilizzato, per impiegarlo nelle attività amministrative di supporto alle attività di polizia. La sicurezza dipende anche dalla certezza della pena. Troppo frequenti sono i casi di condannati per reati di particolare allarme sociale che vengono ammessi a rilevanti benefici di legge senza avere mai scontato un giorno di carcere.

Il “pacchetto sicurezza” approvato dal Consiglio dei Ministri il 30 ottobre scorso aveva ampliato il numero dei reati particolarmente odiosi, fra questi la rapina, il furto in appartamento, lo scippo, l’incendio boschivo e la violenza sessuale aggravata. E in tutti questi casi prevedeva l’obbligo della custodia cautelare in carcere, il giudizio immediato, l’applicazione d’ufficio della custodia cautelare in carcere già con la sentenza di primo grado e l’immediata esecuzione della sentenza di condanna definitiva senza meccanismi di sospensioni. Su questa linea noi proseguiremo.

Undicesimo: giustizia e legalità

Di innovazione ha bisogno un’altra sfera decisiva nella vita di un Paese e di ogni suo cittadino: quella della giustizia, della legalità. Il Partito Democratico, sia attraverso il codice etico, sia attraverso norme statutarie relative ai comportamenti di suoi iscritti eletti nelle istituzioni, stabilisce indicazioni rigorose in particolare sulla qualità delle nomine di cui i suoi rappresentanti dispongono.

Proporremo, inoltre, norme innovative per la trasparenza delle nomine di competenza della politica. Per ognuna di esse, dovranno essere predeterminati e resi pubblici criteri di scelta fondati sulle competenze; attivate procedure di sollecitazione pubblica delle candidature; infine, pubblicato lo stato e gli esiti delle procedure di selezione. Noi proporremo anche di introdurre nel nostro ordinamento il principio della non candidabilità al Parlamento dei cittadini condannati per reati gravissimi come quelli connessi alla mafia e alla camorra, alle varie forme di criminalità organizzata, o per corruzione o concussione. Il nostro undicesimo grande obiettivo programmatico comprende anche il motivo principale dell’emergenza giustizia: i tempi del processo, sia penale che civile.

Noi porteremo a compimento le riforme avviate negli scorsi anni, come la razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile e di quello penale. Ma adotteremo anche provvedimenti amministrativi che possono essere presi immediatamente, per accrescere l’efficienza del sistema giudiziario italiano.

C’è poi il nodo delle intercettazioni telefoniche, informatiche e telematiche. E’ uno strumento essenziale al fine di contrastare la criminalità organizzata e assicurare alla giustizia chi compie i delitti di maggiore allarme sociale, quali la pedofilia e la corruzione. Si tratta di conciliare queste finalità con i diritti fondamentali, come quello all’informazione e quelli alla riservatezza e alla tutela della persona.

Dodicesimo: banda larga in tutta Italia e TV di qualità.

L’effettiva possibilità di accesso alla rete a banda larga deve diventare un diritto riconosciuto a tutti i cittadini e a tutte le imprese, su tutto il territorio nazionale, esattamente come avviene per il servizio idrico o per l’energia elettrica. Noi realizzeremo, a partire dalle grandi città, reti senza fili a banda larga per creare un ambiente disponibile alla gestione di nuovi servizi collettivi.

Per quanto riguarda la televisione è necessario seguire i principi della libertà, della concorerenza e dell'autonomia. Più libertà significa superamento del duopolio, oggi reso possibile dall'aumento di canali garantito dalla TV digitale. Per andare oltre il duopolio occorre correggere gli eccessi di concentrazione delle risorse economiche, accrescendo così il grado di pluralismo e di libertà del sistema. La libertà di informazione è un cardine della democrazia, come ci ha insegnato un grande giornalista, che resta nel cuore di tutti gli italiani, Enzo Biagi.

Più concorrenza significa ricondurre il regime di assegnazione delle frequenze ai principi della normativa europea e della giurisprudenza della Corte costituzionale. Più qualità: noi proponiamo di istituire un fondo, finanziato da una aliquota sui ricavi pubblicitari, che finanzi le produzioni di qualità. Dire qualità e dire Italia è la stessa cosa. Più autonomia della televisione dalla politica significa, subito, nuove regole per il governo della RAI. La nostra idea è quella di una Fondazione titolare delle azioni, che nomina un amministratore unico del servizio pubblico responsabile della gestione.

Queste sono alcune delle nostre idee per cambiare il Paese. Questo è il cammino di innovazione che attende l’Italia.

wwww.partitodemocratico.it

Il testo che abbiamo tratto dal sito di Rai news 24, 17 febbraio 2008

Ambiente

Infrastrutture e qualità ambientale. Veltroni respinge l'ambientalismo del No "che cavalca ogni movimento di protesta del tipo Nimby cioè 'non nel mio giardinò". È prioritaria la realizzazione di impianti per produrre energia pulita, rigassificatori e termovalorizzatori. Non dimentica la Tav che "va completata e utilizzata appieno". E poi vuole che si "produca il 20 per cento di energia con il sole e con il vento per risparmiare miliardi di euro sulle importazioni di petrolio". Lo slogan è: dopo aver incentivato la rottamazione delle auto, ora incentiviamo la rottamazione del petrolio.

Mezzogiorno

Farlo crescere per far crescere l'Italia. Portare entro il 2013 la rete delle infrastrutture, a cominciare dal sistema dei trasporti, allo stesso livello dell'Europa sviluppata. Stesso discorso vale per servizi essenziali come quelli idrici e ambientali. Attenzione particolare è rivolta alla Sicilia per la sua posizione cruciale nel Mediterraneo.

Spesa pubblica

Spesa pubblica da riqualificare e ridurre, far aumentare gradualmente la spesa sociale in rapporto al Pil. lo slogan è 'spendere meglio, spendere menò. Nel dettaglio: mezzo punto di Pil di spesa corrente primaria in meno nel primo anno, un punto nel secondo e uno nel terzo. E poi l'impegno di restituire ai contribuenti italiani, "con riduzioni di aliquota e detrazioni, ogni euro di gettito aggiuntivo derivante dalla lotta all'evasione fiscale". E poi, ancora Veltroni promette un aumento dell'efficienza del lavoro pubblico "collegando all'effettiva produttività la dinamica delle retribuzioni" e una "semplificazione del nostro barocco sistema amministrativo".

Abolizione delle Province nei grandi comuni metropolitani; utilizzo del grande patrimonio demaniale per abbattere contestualmente di qualche punto il debito pubblico che "potrà cosi' scendere più rapidamente al di sotto della soglia del 100 per cento sul Pil".

Tasse.

"Ridurre davvero le tasse ai contribuenti locali, che sono tanti, ai lavoratori dipendenti e autonomi che pagano davvero troppo". Grazie al risanamento, per il leader del Pd è possibile programmare una riduzione del carico fiscale. 'Pagare meno, pagare tutti' è il suo slogan. Come? Incremento della detrazione Irpef a favore dei lavoratori dipendenti e dunque aumento di salari e stipendi; si parte dai redditi medio-bassi e poi si porta a regime per la restituzione del fiscal-drag. L'impegno è, a partire dal 2009, di ridurre gradualmente tutte le aliquote Irpef: un punto in meno all'anno, per tre anni.

Subito, invece, riduzione della pressione fiscale sulla quotadi salario da contrattazione di secondo livello. Per le piccole imprese, poi, elevare il tetto di 30mila euro di fatturato per il pagamento a forfait delle diverse imposte e tributi.

Donne

Incentivi fiscali per lavoro femminile e difesa della 194. In particolare, Veltroni pensa ad un credito di imposta rimborsabile per le donne che lavorano: nei primi due anni della legislatura vale solo per il sud, poi sarà esteso a tutto il paese. Inoltre, i Cda delle aziende pubbliche devono essere per metà al femminile. Nuovo congedo di paternità interamente retribuito dalle imprese. Sulla 194: difesa netta delle legge che "è una buona legge contro il dramma dell'aborto e che in 30 anni ha quasi dimezzato il numero degli aborti", per questo "va difesa ed è un tema che va tenuto fuori dalla campagna elettorale".

Casa

Aumentare il numero di case in affitto. Il progetto è quello di social housing realizzato da fondi immobiliari di tipo etico a controllo pubblico, con ruolo centrale della Cassa depositi e prestiti, che può mobilitare risorse per 50 miliardi di euro, senza intervento di spesa pubblica, per la costruzione di 700 mila case sul mercato a canoni compresi tra i 300 e i 500 euro. E poi: tassare il redddito da affito ad aliquota fissa e consentire la detraibilità di una quota fissa dell'affitto pagato fino a 250 euro mensili.

Figli

Istituire una Dote fiscale di 2.500 euro per il primo figlio, cifra che poi aumenta con il numero dei figli. Più asili nido: assicurarli ad almeno il 20 per cento dei bambini da 0 a 3 anni. E qui Veltroni condanna in modo netto la pedofilia "il più orrendo dei crimini, equiparabile ad un delitto".

Università

100 campus universitari e scolastici da realizzare entro il 2010. E poi, scuole aperte il pomeriggio e luoghi di formazione permanente. Novità anche sulla valutazione degli studenti: nelle scuole dovranno essere sottoposti a test oggettivi perchè, dice Veltroni, "è sul talento e sul merito che la società italiana dovrà contare" e "a quarant'anni dal '68 - aggiunge Veltroni - fatemi dire che chi allora proponeva il '6 politicò produceva un falso egualitarismo che perpetuava le divisioni sociali e di classe esistenti". Per gli insegnanti, previsti periodi sabbatici di aggiornamento intensivo.

Precari

Lotta alla precarietà con il salario minimo legale di 1000 euro per i giovani precari. Il percorso prevede un allungamento del periodo di prova e una incentivazione del contratto di apprendistato come strumento principale di formazione e ingresso dei giovani nel lavoro. In un primo periodo i trattamenti e le agevolazioni all'impresa restano quelle attuali; alla fine di questo periodo si procede alla verifica della qualificazione dell'apprendista con la possibilità di continuare il rapporto e se necessario con ulteriori agevolazioni. Dopo, vanno previsti incentivi all'impresa che trasforma il rapporto in contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Sicurezza

Diritto alla sicurezza. Previsto il varo di un piano di mobilità interna alla Pubblica amministrazione di personale civile, oggi sottoutilizzato, per impiegarlo nelle attività amministrative di supporto alle attività di polizia. Maggiore controllo del territorio grazie alle nuove tecnologie, a cominciare dalle reti senza fili a larga banda, e la videosorveglianza da far diventare un terminale della rete.

Giustizia

Giustizia più equa e veloce. Trasparenza delle nomine di competenza della politica. L'istituzione della figura del manager dell'Ufficio giudiziario che si occupi di assicurare la celerità dei processi.

Banda larga

Portare la banda larga in tutta Italia e garantire a tutti gli italiani una Tv di qualità. Veltroni promette la realizzazione, a partire dalle grandi città, delle reti senza fili a abanda larga per creare un ambiente disponibile alla gestione di nuovi servizi collettivi. Inoltre, superamento del duopolio, oggi possibile grazie all'aumento di canali garantito dalla tv digitale.

La polemica per il grattacielo più alto della Mole

di Ettore Boffano

Alla fine, sarà una sorta di referendum per una cartolina. Quella dei tabaccai e dei "saluti da Torino", con la metropoli distesa come in un quadro di Felice Casorati, la corona delle Alpi e infine la Mole Antonelliana: solitaria ed enigmatica nello skyline. Poi, un quesito polemico, «Vorreste vedere nell’orizzonte un grattacielo di 200 metri?», e assieme anche un retropensiero di politica bancaria del NordOvest e una corsa al primato tra Piemonte e Lombardia. Per via di quella fusione di un anno fa tra "San Paolo Imi" e "Banca Intesa" che molti, in riva al Po, non hanno ancora digerito e che, quasi per tutti, sarebbe una vittoria tutt’altro che simbolica delle guglie del Duomo di Milano e degli uomini di Giovanni Bazoli e di Corrado Passera.

Quasi per tutti, meno uno: Enrico Salza, uno dei "padroni" della città che al grattacielo, a dire il vero, ci pensava già quando il "San Paolo" era ancora tutto torinese. E che, questa mattina, ne presenterà in una mostra il progetto definitivo assieme al suo creatore: quel Renzo Piano che a Torino ha già offerto il ridisegno del Lingotto. Duecento metri di altezza, di cemento armato, di acciaio e di vetro (almeno 180 reali e altri 20 di antenne contro i 167 metri della Mole), per degli uffici realizzati vicino al Palazzo di Giustizia, sulla "spina" urbanistica che ha coperto il passante ferroviario: il trincerone che divideva in due i quartieri. Una spesa di almeno 350 milioni di euro. Quasi un festa per il banchiere, che al grattacielo annette il segnale tangibile e definitivo di non aver tradito la sua città e di non aver «svenduto la banca ai milanesi». Ma una festa già rovinata dai contrasti, perché proprio ieri pomeriggio la questione è diventata una polemica. Nella libreria del Gruppo Abele, infatti, un comitato organizzato tra gli altri dall’ambientalista Paolo Hutter e dal meteorologo Luca Mercalli ha lanciato la battaglia. C’è già lo slogan, «Non grattiamo il cielo di Torino», c’è un primo manifesto (proprio una cartolina vera, "taroccata" con la sagoma di un grattacielo accanto alla Mole) e c’è anche la provocazione eccellente: un messaggio inviato da Vittorio Gregotti, padre del piano regolatore torinese, che mette in guardia dalle "torri" troppo alte. Una critica che l’architetto Augusto Cagnardi, l’altro coautore del prg, aveva avanzato in modo ancora più caustico: «I grattacieli non sono prezzemolo, da distribuire a casaccio. Il rischio è che si trasformino nei salami di Jacovitti che crescono tra i piedi di Cocco Bill».

Insomma, gli ingredienti necessari perché tutto si amalgami in un "caso Torino", tenuto conto che la città attende adesso altri tre grattacieli pronti a frastagliare l’orizzonte delle Alpi: quello "gemello" del progetto di Piano e che potrebbe essere assegnato a Salvatore Ligresti, quello disegnato da Massimiliano Fuksas per la Regione Piemonte al Lingotto e infine quello previsto in piazza Marmolada accanto alla fontana-igloo di Mertz. Con la questione pronta ad attorcigliarsi attorno a un solo interrogativo: nel ventunesimo secolo, ha ancora senso mutare lo skyline di una città? Guido Montanari, docente di storia dell’architettura e tra i promotori del comitato, risponde con un no secco: «Torino ha un orizzonte che, eccetto la Mole e poi la Torre Littoria di piazza Castello e il grattacielo della Rai, conserva le linee dell’Ottocento. È una sua grande bellezza: così come hanno rivelato tutte le tv del mondo durante le Olimpiadi. Perché rovinarla? Il problema non è decidere se i grattacieli sono giusti o sbagliati, semmai invece se una città come Torino ne ha bisogno».

Renzo Piano preferisce non parlare, in attesa della conferenza stampa di oggi. Ma qualche settimana fa, commentando la prossima inaugurazione, il 19 novembre, del grattacielo disegnato per il "New York Times", aveva replicato anche alle prime critiche torinesi: «Io non difendo in modo aprioristico l’uso delle torri, anche se mi affascinano. Ciò che conta, in realtà, è fare edifici che non siano egoistici, arroganti, ma piuttosto pubblici e aperti. Il grattacielo di "Intesa San Paolo" avrà un auditorium, un ristorante sul tetto, terrazze panoramiche, sale per mostre».

Adesso, però, tutti i contrasti si sposteranno in Comune, dove dovrà essere approvata la variante per il grattacielo (c’è già un parere negativo, non vincolante, delle circoscrizioni). Con il sindaco Sergio Chiamparino che, però, sembra lasciare pochi spazi ai ripensamenti: «È vero, lo skyline torinese è fermo all’800. Ma ogni epoca ha segnato la città e dunque ciò può accadere anche oggi. I grattacieli non sono oggetto del demonio: dipende da come vengono realizzati. Discorsi che Piano conosce bene e sui quali ci dà garanzie». Tutto si concluderà dunque tra i banchi della Sala Rossa? Paolo Hutter, ex assessore comunale all’ambiente, promette di no: «Faremo decidere i cittadini. E non è il solito modo di dire: siamo pronti al referendum».

Un edificio altissimo è un buon affare

ma anche la storia ha le sue ragioni

Vittorio Gregotti

La fissazione dei grattacieli, oltre all’orgoglio sempliciotto degli amministratori per il segno urbano simbolico, al di là della sfida per il "Guinness dei primati" e dei suoi significati banalmente psicanalitici, non bisogna dimenticare che è anche un buon affare. Nonostante i maggiori costi di strutture ed impianti, qualche centinaia (o migliaia) di metri quadrati in più guadagnati con la maggiore altezza qualche volta fanno tornare i conti. Quindi si capisce come molti e vari interessi convergano verso l’edificio altissimo. Tutto questo senza alcun pregiudizio verso un tipo edilizio consolidato da più di un secolo. Ma anche per il grattacielo dovrebbe valere una più generale strategia di disegno urbano sia per quanto riguarda il suo impatto con il profilo della città e nei confronti degli altri monumenti, sia per la sua collocazione sul piano funzionale e dei trasporti. Non meraviglia quindi che la "corsa al grattacielo" sollevi molte obiezioni fondate, anche al di là delle resistenze conservatrici ad ogni novità: questo specie nelle città con un forte profilo storico come Torino. Credo che se anche si tratta di un’iniziativa di un ente come la banca San Paolo-Intesa, le amministrazioni della città farebbero cosa utile aprendo una discussione sulla questione. Al di là della qualità architettonica del progetto di Renzo Piano, che potrà essere certamente positiva a partire dalla sua esperienza in merito alla tipologia delle torri.

Si veda anche eddyburg per Carta, nel numero del 13 ottobre 2007

Titolo originale: Reach for the Sky- Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Sin dall’unificazione italiana del 1861, Torino, la “capitale delle Alpi”, sa cosa significhi essere un saltatore con gli sci dal trampolino olimpico. Un giorno sta alta nel cielo più di ogni altra città; quello successivo, viene riportata a terra senza tante cerimonie.

Nel 1861, questa magniloquente cittò barocca, tutta sensazionali cupole, strade commerciali porticate, pasticcerie specializzate in cioccolato e grandi piazze, divenne la capitale della nuova Italia. Ma nel giro di pochi anni, il titolo andò a Firenze, e poi a Roma, portandosi con sé via posti di lavoro, prestigio nazionale e ruolo. Torino si scrollò la polvere di dosso e divenne una delle più innovative e particolari città industriali, famosa per la sensazionale fabbrica Fiat del Lingotto – progettata dall’ingegnere Giacomo Matte-Trucco, con la pista da corsa sul tetto – come per la Cappella della Sacra Sindone, il più barocco di tutti i monumenti religiosi barocchi, capolavoro del teatino sacerdote-architetto Guarino Guarini.

La storia d’amore politico fra Mussolini e Hitler portò quella che era diventata la più razionalista delle città romantiche ad essere una rovina senza tetti: nel maggio 1945, più del 40% degli edifici di Torino risultavano distrutti. Così la città si reinventò un’altra volta: negli anni ’50, insieme a Milano, fu il propulsore del “miracolo economico” italiano. Alla fine del secolo, con l’industria pesante che migrava verso l’Asia, cadde in un altro periodo di declino.

Ora, per le Olimpiadi Invernali del mese prossimo, Torino sta di nuovo alzando lo sguardo. Nelle prossime settimane, i visitatori scopriranno una città che mette in mostra non solo le prodezze sportive, e nemmeno semplicemente buone architetture connesse alle Olimpiadi, ma un’urbanistica intelligente e ricca di senso civico ad una dimensione tranquillamente eroica. Il modo in cui Torino sta utilizzando i giochi olimpici a proprio vantaggio è quasi l’esatto opposto di come vengono gestiti i giochi del 2012 a Londra.

A Torino, i nuovi edifici sono per la maggior parte interventi sottotono nel vecchio tessuto urbano sia della città industriale che di quella barocca. È vero, c’è il vistoso Palasport Olimpico d’acciaio da 12.250 vicino al recentemente restaurato Stadio comunale degli anni ‘30, ma anche questo scintillante progetto dell’architetto di Tokyo Arata Isozaki, costruito formalmente per le partite di hockey su ghiaccio olimpiche, ha un futuro di lungo termine come struttura multiuso per gli sport, gli spettacoli, gli eventi culturali. Come ogni altra realizzazione olimpica qui, fa parte di una massiccia trasformazione urbana. Al punto che l’intero funzionamento della città, o più precisamente il modo in cui ci si muove per far funzionare la città, sarà completamente trasformato fra due o tre anni.

A Londra, gli ultimi progetti per il parco olimpico del 2012 resi pubblici la scorsa settimana sembrano confermare che qui quello che conta di più è la gran bolgia di trucchi visivi e illusionismo architettonico. Lo stadio e le altre strutture progettate per il 2012 sembrano montagne russe prese da una fiera dei divertimenti gigantesca e probabilmente saranno già fuori moda appena terminate. Nel frattempo, il programma dei trasporti pubblici tanto necessario a fare delle Olimpiadi di Londra un successo, sta arrancando. Se Torino è vicina a completare una nuova linea di metropolitana completamente automatizzata, e la ricostruzione delle principali linee ferroviarie - liberando nel frattempo una enorme quantità di spazio per nuove case e l’ampliamento della principale università- Londra deve ancora raggiungere un accordo per iniziare i lavori del Crossrail, o stendere i binari del tram verso Stratford. Eppure, tutto il clamore, tutta la grafica architettonica al livello dei bambini, la visibilità politica, arrivano dalla Londra Olimpica.

A Torino, i visitatori delle Olimpiadi che si concederanno un po’ di tempo per esplorare resteranno esterrefatti dalla ricostruzione delle principali linee ferroviarie. Quello che per decenni è stato una guazzabuglio di binari che attraversava la città ora è stato ricoperto. Le linee presto attraverseranno il centro in tutte le direzioni, quelle nazionali e internazionali. Al di sopra, un grandioso viale di proporzioni davvero barocche porterà il traffico su sei corsie, e poi piste ciclabili, altri trasporti pubblici, percorsi pedonali fiancheggiati da poderose fontane, e poi giù dentro al cavernoso flusso del nodo di interscambio di trasporti a Porta Susa. Il traffico, pubblico e privato, così si può muovere verso il centro, oppure superarlo tangenzialmente venendo dalla direzione di Milano verso le Alpi, o dalla costa ligure o dalla Francia.

L’ambiziosa nuova cattedrale del Santo Volto, progettata da Mario Botta, fungerà da portale est del nuovo Viale della Spina. Il Metro automatico, che scambia con le ferrovie e il Viale della Spina a Porta Susa, sarà prolungato per raggiungere i parcheggi posti agli ingressi autostradali principali della città.

Altri monumenti di architettura verso il centro di Torino comprendono un centro culturale progettato da Mario Bellini e i nuovi spazi del Politecnico cittadino di Vittorio Gregotti. I nuovi colorati alloggi per gli studenti serviranno come villaggio della comunicazione durante le Olimpiadi, prima che entrino gli studenti. Nessuno degli edifici olimpici andrà sprecato quando gli sciatori lasceranno la città.

Le Olimpiadi sono state anche utilizzate per completare la rivitalizzazione delle ex aree industriali più vicine al centro, come il Lingotto, dove la famosa fabbrica Fiat è stata trasformata nel corso di parecchi anni sotto la direzione architettonica di Renzo Piano. I Mercati Generali Ortofrutticoli degli anni ‘30, un grande e buon esempio di progetto classico ed essenziale, sono stati intelligentemente rinnovati e trasformati da Benedetto Camerana e Giorgio Rosental in un Villaggio Olimpico per i 2.600 atleti che parteciperanno ai giochi del prossimo mese. Sarà un magnifico posto per abitare, sia durante i Giochi che dopo, quando sarà usato come alloggio per studenti e giovani in cerca di prima casa. Nonostante l’uniforme feticista delle sue architetture dell’era di Mussolini, il vecchio mercato rivitalizzato sembra indossare una camicia verde anziché nera: i pannelli fotovoltaici abbondano, e anche il sistema di ventilazione è alimentato a energia solare.

Lì vicino, un delizioso padiglione in cemento in stile fluttuante costruito per l’Esposizione Italia '61 è stato riutilizzato dopo anni di abbandono: sono stati inseriti una struttura sportiva da 94.000 posti per il pattinaggio artistico e altre gare, sotto le complesse geometrie di calcestruzzo originariamente concepite dai fratelli architetti Annibale e Giorgio Rigotti. Il rifacimento è di Arnaldo De Bernardi e Gae Aulenti, molto conosciuta per la conversione della Gare D'Orsay, a Parigi, nel Musée D'Orsay. Come nel caso del vecchio Mercato Ortifrutticolo, anche qui c’era una struttura che aveva perso il proprio scopo ed è stata riportata in uso per il lungo periodo.

C’è un edificio olimpico nuovo di zecca al Lingotto; si tratta degli 8.000 posti dell’Ovale progettato da Hok Sport e dallo Studio Zoppini di Milano. Realizzato per le gare di pattinaggio veloce durante i Giochi, è stato costruito in modo tale che, con poca fatica, sia possibile riconvertirlo in struttura per mostre e fiere commerciali. La città, a differenza di Londra, riesce a progettare con calma nuovi e funzionali edifici pubblici anziché fantasmagorie.

Il padiglione della medaglie a Torino è collocato in Piazza Castello, la maggiore delle piazze barocche della città, mentre in Piazza Solferino, l’Atrium Torino, una coppia di svolazzanti padiglioni da mostra terminati nel 2004 su progetto di Giugiaro Architettura e Archiland Studio, è usato per raccontare la storia di cosa abbiano significato a Torino le Olimpiadi Invernali. Si ricorda anche ai visitatori, che nonostante la città giochi un ruolo importante nei Giochi, gli eventi più spettacolari avranno luogo nelle valli alpine di Susa, Chisone e Germanasca. Qui non tutto è andato liscio. I nuovi interventi olimpici sono avvenuti in zone piuttosto selvagge, dove si aggirano ancora i lupi. C’è stato un inteso dibattito sull’equilibrio fra investimenti nelle Olimpiadi e la domanda di mantenere le Alpi intatte, per quanto possa restarlo una catena di montagne tanto vicina a tante luccicanti città.

Per una cifra pari ad un quarto del costo degli investimenti che Londra prevede di fare entro le Olimpiadi del 2012, Torino ha mostrato che è possibile preparare un evento sportivo internazionale investendo anche nel benessere urbano di lungo periodo. Le nuove architetture danno la sensazione di essere parte integrante di quella che continua ad essere una delle più belle e illuminate città d’Europa.

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La decisione di Pierferdinando Casini di presentarsi da solo alle elezioni complica un po' il panorama politico ma rende chiarissima la "truffa" che si delinea nei confronti degli elettori. Truffa quadrupla. Proviamo a spiegare perché.

Prima truffa , di carattere aritmetico. Ai nastri di partenza della campagna elettorale ci sono quattro o forse cinque (o forse sei o sette) partiti: quello di Berlusconi, il Pd, la Sinistra, Casini (immagino con la Cosa Bianca), forse la destra di Storace, forse (se non andrà con Casini) Mastella, forse i socialisti e i radicali. Di questi partiti, uno arriverà primo e prenderà il 55 per cento dei seggi alla Camera, tutti gli altri (indipendentemente dalla loro collocazione a destra o sinistra) si divideranno il restante 45 per cento dei seggi. Il partito che arriverà primo (quasi certamente quello di Berlusconi) difficilmente avrà ottenuto più del 40-42 per cento dei voti. Dunque beneficerà di un premio di maggioranza pari al 10-15 per cento. Una enormità. Non esiste in nessun paese dell'Occidente. Una legge così ha un solo precedente: la legge elettorale varata da Mussolini nel '23. E' una legge di tipo fascista.

Seconda truffa . Il senso della legge dovrebbe essere quello di dividere il parlamento in maggioranza e opposizione. Una maggioranza solida del 55%, una opposizione consistente del 45%. Agli elettori decidere se la maggioranza andrà alla destra o alla sinistra. Nel parlamento che uscirà dal 14 aprile non sarà così. Alcuni (o forse molti) dei partiti che hanno preso i voti come opposizione cambieranno schieramento e passeranno in maggioranza. E' uno scenario molto probabile. Praticamente sicuro per Storace, probabilissimo per Casini, abbastanza probabile per il Pd. Anche perché in Senato - dove il premio di maggioranza viene distribuito regione per regione, e quindi è praticamente inesistente - probabilmente Berlusconi non avrà i voti per governare, o ne avrà pochissimi (come fu per Prodi) e dunque dovrà ricorrere necessariamente alle alleanze. In questo modo si comprime e si punisce l'opposizione.

Terza truffa . Si dice che questa meraviglia bipartitica - inventata da Veltroni, Fini, Guzzetta, Segni e qualche altro genietto - garantirà all'elettore che sarà lui - l'elettore - a scegliere chi governa e chi no. Cioè che le coalizioni, le alleanze, i programmi, si fanno prima delle urne. Bene, ora è chiaro che è esattamente il contrario. Prima ci si accapiglia in campagna elettorale, poi si vota, e poi l'ammucchiata. Un imbroglio del genere non si era mai visto in democrazia. Agli elettori non sarà concesso di scegliere né per quale deputato votare, né per quale partito, né per quale coalizione. E' una situazione davvero senza precedenti.

Quarta truffa . Per i motivi che dicevamo prima - ma anche per l'incredibile somiglianza del programma politico illustrato dal Pd con il programma elettorale che Berlusconi presentò nel 2001 e nel 2006 - diventa sempre più vicina la prospettiva della grande coalizione. E tutta quella storia del "voto utile" diventa più truffaldina che mai. Ti dicono: «vota per Berlusconi o Veltroni, perché solo uno di loro due può vincere e quindi è inutile votare per i partiti minori...» . Falso: se voti per uno o per l'altro cambia poco, tanto governeranno insieme.

L'unica vera certezza, per l'elettorale, è chi starà all'opposizione: la Sinistra l'Arcobaleno. Non vorrei apparire fazioso, ma a me sembra che davvero l'unico possibile voto utile - dal punto di vista "scientifico" - sia quello per la sinistra.

Sulla tendenza di fondo si veda l'articolo di Rossana Rossanda del 2 dicembre 2007

NAPOLI — Il piano della grande pattumiera capace di ingoiare un milione di tonnellate di rifiuti, il piano che il commissario straordinario Gianni De Gennaro aveva preparato per risolvere la crisi di Napoli, finisce nella spazzatura. Non è realizzabile perché le discariche individuate non possono essere riaperte. Il commissario le aveva scelte basandosi sulle documentazioni che gli erano state fornite, ma quando i tecnici sono andati a fare gli esami necessari prima di dare l'ok all'utilizzo, è venuto fuori un quadro completamente diverso. L'impianto di Montesarchio poteva franare da un momento all'altro, quello di Ariano Irpino anche, e in più è pure inquinato. La discarica di Villaricca, che secondo il piano aveva una capacità di 35 mila tonnellate, in realtà non può riceverne più di diecimila.

Tutte informazioni che è lo stesso De Gennaro a fornire in una conferenza stampa stavolta ristrettissima, senza né telecamere né microfoni. Ammette: «Non sono riuscito a trovare colpi d'ala per raccogliere, nei cento giorni preventivati, le 200 mila tonnellate di giacenza». Oggi di giorni alla scadenza del suo mandato ne mancano ottantaquattro e tranne la riapertura del sito di stoccaggio di Ferrandelle — che ha una capacità di 350 mila tonnellate, ma per accordi con i cittadini che protestavano ne sarà utilizzata solo la metà — non c'è altro.

Nei quartieri residenziali o del centro di Napoli la raccolta dell'immondizia ora si fa, in periferia meno, in provincia è ancora un disastro. E per smaltire le tonnellate di spazzatura in giacenza ci si è rivolti a ditte tedesche, che potranno farlo in circa sei mesi. Per avere discariche utilizzabili bisognerà invece aspettare l'apertura dei cinque impianti (uno per provincia) di cui, con un provvedimento del governo, fu decisa la realizzazione quando a gestire l'emergenza c'era il capo della Protezione civile Guido Bertolaso. Era l'estate 2007: cioè quattro commissari fa.

C'è fra lo Stato moderno e le donne un'antica inimicizia, fatta di esclusione da una parte e di estraneità dall'altra, che la costruzione della cittadinanza non è mai riuscita a sanare del tutto ma solo a lenire. La legge italiana numero 194 è stata una tappa cruciale di questo lenimento: siglando, fra donne e Stato, non la pace ma un armistizio. La procura di Napoli che ha ordinato il blitz del Policlinico, i poliziotti che l'hanno eseguito con zelo in eccesso, i politici che lo approvano, lo sdrammatizzano o lo spoliticizzano, i predicatori che lo cavalcano per testare (scusate la volgarità della citazione letterale) la grandezza dei propri genitali, devono sapere che hanno rotto questo armistizio e assumersene, da adulti e non da bambini, da padri e non da figli in perenne rivolta edipica contro le madri e contro la Madre, le dovute responsabilità.

Da oggi sul tappeto non c'è solo la questione dell'aborto, o la difesa della 194. E sbaglierebbero anche le donne se si lasciassero prendere nella trappola strumentale di questo perimetro. La questione sul tappeto è quella dello Stato costituzionale di diritto. Quello che garantisce - o dovrebbe - che le leggi siano applicate correttamente e non in un clima di emergenza permanente, quello che stabilisce - o dovrebbe - procedure giudiziarie corrette, quello che ci tutela - o dovrebbe- dagli abusi delle forze dell'ordine, quello che difende - o dovrebbe - il rapporto fra medico e paziente da aggressioni e interferenze indebite. Prima di discutere dell'aborto si discuta di questo: a quando un'ispezione nella procura di Napoli? Da quando una telefonata anonima è quanto basta per ordinare un blitz? L'infermiere anonimo verrà gratificato con un encomio allo zelo pro-life? Noi comuni mortali dovremo munirci di avvocato prima di entrare in una sala operatoria? E i medici, prima di fare una disgnosi fetale, dovranno dare un'occhiata ai giornali per vedere che aria tira?

Non è la prima volta e non sarà l'ultima che l'aborto si fa segno di più generali questioni: proprio perché l'aborto, al contrario di quanto sostiene la scellerata campagna sulla sua «faciloneria», si colloca su un delicato crinale, fra coercizione e libertà, fra garanzie collettive e decisione individuale, fra specie e singolarità. Bombardare questo delicato crinale a colpi di cannone significa bombardare, con la cittadinanza femminile, l'edificio dello Stato di diritto, tornare a uno Stato violento da un lato e paternalista dall'altro, che si fida più dei poliziotti che delle donne, e delle donne fa quando va bene delle vittime incapaci di intendere e di volere, quando va male delle assassine: feticide, come recita il brillante neologismo. Lasciare tutto questo fuori dalla campagna elettorale, come va predicando la premiata ditta V&B, è un'illusione falsa e truffaldina, che serve a Veltroni per non sbarrarsi il voto cattolico, a Berlusconi per non sbarrarsi il voto femminile. Siamo abituati a una politica che si nutre di confusione, ma ci sono questioni che domandano chiarezza. E se non la ricevono, la fanno.

Quale sarà il destino dei diritti e delle libertà civili nel nuovo tempo della politica che si è appena annunciato, e che assumerà tratti più netti dopo il voto del 13 aprile? Da Napoli è appena arrivata una inquietante risposta, tanto più grave perché dà la misura di un mutamento di clima.

Un mutamento di clima che, senza bisogno di cambiare le norme in vigore, determina una vera e propria aggressione nei confronti di chi altro non ha fatto che valersi dei diritti che le riconosce la legge sull’interruzione della gravidanza.

Il racconto della donna è davvero un caso di scuola di violazione della dignità della persona, dunque di uno dei principi fondativi della convivenza, come si legge nella nostra Costituzione e nell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». Non basta dire, infatti, che s’era ricevuta una segnalazione anonima e che era necessario effettuare accertamenti. Proprio il carattere anonimo delle segnalazioni esige sempre prudenza nella loro utilizzazione, altrimenti la libertà e la dignità di ciascuno di noi vengono consegnate nelle mani di qualsiasi mascalzone. Vi erano molti modi per accertare se davvero si stava violando la legge, senza bisogno di piombare addosso alla donna e di farle domande assolutamente illegittime, come quella riguardante il padre. Ma ci si comporta così quando si ritiene di essere assistiti da un consenso sociale, quando si pensa che l’aria sia cambiata e che nell’agenda politica ed istituzionale a diritti e libertà spetta ormai un posto marginale. La vicenda napoletana ci ha purtroppo dato la tragica conferma di una regressione civile già in atto. Sarebbero urgenti, a questo punto, una reazione politica ed una istituzionale.

Chiunque abbia il senso delle istituzioni, merce purtroppo sempre più rara, dovrebbe esigere, nell’interesse di tutti, un chiarimento del modo in cui magistratura e polizia si sono comportate a Napoli, e l’individuazione delle specifiche responsabilità, come hanno chiesto le componenti del Csm. Siamo di fronte ad una violenza di Stato, che esige un immediato e pubblico ristabilimento della legalità. Solo così sarà possibile cancellare, almeno in parte, l’effetto intimidatorio che quella irruzione può avere nei confronti di tutte le donne che intendono far ricorso alla legge 194. Per quanto riguarda la reazione politica, sono ovviamente benvenute le proteste, le condanne. Ma non bastano. Non siamo di fronte ad un caso isolato ed isolabile, ma appunto alla rivelazione di un clima. E questo clima può essere cambiato solo se, con adeguata forza, si rifiuta l’agenda politica che l’ha determinato e a questa se ne oppone una più civile, rispettosa delle persone e della loro umanità, che rimetta al primo posto il riconoscimento e il rispetto dei diritti.

Dal centrodestra sono venuti segnali insistiti e chiarissimi. La radicale messa in discussione dell’aborto è netta, ha ormai una forte evidenza nella campagna elettorale, ben poco offuscata dalle variazioni tattiche di Berlusconi rispetto alla lista di Giuliano Ferrara, visto che lo stesso Berlusconi ha rilanciato proprio la parola d’ordine di Ferrara di proporre all’Onu ben più di una moratoria sull’aborto - il pieno riconoscimento del diritto alla vita del concepito. A queste proposte si aggiungono la posizione ostile ad ogni aggiustamento della legge sulla procreazione assistita, anche a quelli che una provvida giurisprudenza ha rigorosamente introdotto, mettendo in evidenza gli eccessi di potere del governo Berlusconi; la dura linea sulle questioni della sicurezza; la "questione privacy" proposta sostanzialmente come mezzo per limitare il ricorso alle intercettazioni anche in materie dove appaiono necessarie e per incidere sulla libertà d’informazione; e l’ipotesi di procedere ad una revisione anche della prima parte della Costituzione, quella appunto delle libertà e dei diritti.

Se questo è il catalogo, ormai evidentissimo, del centrodestra, quali segnali sono venuti dal Partito democratico e dalla Sinistra arcobaleno? Flebili, comunque privi finora della evidenza necessaria per presentarsi come un programma forte e coeso, capace di imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica e modificare così l’agenda politica. Per il Partito democratico questo è anche il frutto di una difficoltà interna, testimoniata dalla pubblica adesione della senatrice Binetti alla proposta berlusconiana sull’aborto. Per la Sinistra arcobaleno è probabilmente l’effetto determinato dal ritardo di una effettiva elaborazione comune.

La passata legislatura lascia un’eredità pesante. Testamento biologico, unioni di fatto, disciplina delle intercettazioni sono lì a ricordarci una impotenza dell’Unione, la difficoltà estrema nel gestire politicamente situazioni complesse. Soprattutto per i primi due casi, si constatò in modo sbrigativo che non v’era la necessaria maggioranza parlamentare, e questo favorì all’interno dell’Unione le operazioni di chi volle chiudere nel cassetto testi significativi. Non si tenne conto che si trattava di materie che riguardano la vita di tutti, le decisioni sul morire e l’organizzazione delle relazioni affettive (e il nascere, legato alle nuove linee guida sulla procreazione assistita), sì che sarebbe stato necessario avere non solo un più netto atteggiamento davanti all’opinione pubblica, ma anche più coraggio parlamentare, portando in assemblea i disegni di legge, obbligando i senatori ad assumere esplicitamente le loro responsabilità e consentendo così ai cittadini di valutare meriti e colpe all’interno di entrambi gli schieramenti. In altre materie, quelle legate alla sicurezza pubblica in particolare, vi è stata una eccessiva propensione a soluzioni sbrigative, con una riduzione di problemi complessi a questioni di puro ordine pubblico, rendendo indistinguibile la posizione del governo da quella dell’opposizione. Di queste debolezze si è avuta una conferma ulteriore nelle materie sbrigativamente indicate con il termine privacy, che sono poi quelle che riassumono molti dei diritti legati al diffondersi delle nuove tecnologie. Un solo esempio. Con il decreto "milleproroghe" si è portato ad otto anni e mezzo il tempo di conservazione dei dati sul traffico telefonico, un non invidiabile record mondiale.

Che cosa potrà accadere nel prossimo Parlamento? La previsione più facile induce a concludere che, se prevarrà il centrodestra, la linea sarà quella della riduzione dell’autonomia delle persone nel decidere della loro vita (ricorso alla procreazione assistita, aborto, rifiuto di cure, decisioni di fine vita, unioni di fatto), dell’indebolimento delle garanzie in nome della sicurezza, della limitazione del controllo di legalità da parte dei giudici, che è una componente essenziale della tutela dei diritti. Ma questo non significherà necessariamente abbandono di una nuova normativa sul testamento biologico o sulla procreazione assistita. Regole su queste materie potrebbero servire per una finalità esattamente opposta a quella per la quale erano state finora pensate: chiudere ogni varco alla possibilità di giungere comunque al riconoscimento di diritti delle persone sulla base delle norme della Costituzione, come hanno fatto con grande rigore alcuni giudici.

La necessità di un diverso e chiaro programma in materia dei diritti è evidente. Questo programma, in primo luogo, deve essere dichiaratamente "conservatore", nel senso che deve consistere in una intransigente difesa dei principi costituzionali e in un loro coerente sviluppo nelle direzioni segnate dall’innovazione scientifica e tecnologica. È vero che queste innovazioni ci obbligano a confrontarci in modo assolutamente inedito con i temi della vita, dell’umano. Ma questa riflessione, e le conseguenze pratiche che se ne traggono, devono trovare la loro collocazione nel quadro di valori democraticamente definito, appunto quello costituzionale. Questo non esclude il confronto, la discussione, la prospettazione di punti di vista anche radicalmente diversi. Esclude, invece, la pretesa di imporre un altro quadro di principi, imposto autoritativamente, ritenuto "non negoziabile" perché espressione di verità non discutibili.

Giungiamo così al vero nodo politico e culturale, alla revisione costituzionale di fatto che si vuole realizzare avendo le prescrizioni delle gerarchie ecclesiastiche come unica tavola dei valori. Questo è uno dei punti condivisi di cui si vanta il Popolo delle libertà. Questa è la vera radice del rischio che corrono libertà e diritti, che non ha nulla a che vedere con l’anticlericalismo o con il "laicismo", ma ha molto a che fare con la democrazia. Un rischio che si aggrava ogni giorno, visto che l’interventismo delle gerarchie vaticane si traduce sempre più spesso in una precettistica minuta. Quale società si sta delineando?

Le debolezze politiche e culturali del passato centrosinistra sono nate anche su questo terreno, e si è rivelata sbagliata la linea di chi ha ritenuto che un atteggiamento morbido avrebbe consentito un progressivo superamento delle difficoltà. Il "politicismo" del rapporto esclusivo con le gerarchie vaticane non ha pagato e, anzi, ha aperto varchi sempre più ampi al loro intervento, mentre veniva trascurato e mortificato il rapporto con il mondo cattolico più aperto. Chiedere maggiore consapevolezza di questa situazione non significa incitare allo scontro. Significa mettere in chiaro, nella fase democraticamente essenziale della campagna elettorale, i propositi e le prospettive di azione di ciascuno. Anche su questo si costruirà il consenso delle forze politiche di centrosinistra e di sinistra.

L’esempio del Partito democratico è contagioso: Berlusconi si agita, il centrodestra è in subbuglio, Casini minaccia di imboccare un percorso separato se non potrà confederarsi conservando autonomia, ma anche la base di An non resterà elettoralmente indifferente alla piroetta di Fini e dei suoi colonnelli, già da tempo berlusconiani.

Alla sinistra del Partito democratico un altro processo semplificatorio è egualmente in corso. Anche lì con alcune non trascurabili difficoltà. Le sigle scompaiono ma il vento potente delle elezioni cancellerà inevitabilmente le microscopiche oligarchie dell’uno virgola che tanto hanno rallentato e debilitato il percorso del governo Prodi.

La ditta Diliberto scomparirà senza traumi rientrando nella casa da cui era uscita qualche anno fa. Per i Verdi l’abbraccio con la sinistra sarà assai meno semplice e non basta certo la parola «arcobaleno» nel logo elettorale a preservarne la missione cui del resto avevano già da tempo rinunciato.

L’esperienza dei partiti ambientalisti in Europa ci dice che essi, se non hanno la forza di presentarsi da soli al corpo elettorale, sono destinati a scomparire o debbono scegliere di fare da lievito ambientalista in un contenitore ampio. Stemperarsi nel Partito democratico poteva avere un senso, nella sinistra radicale non ha senso alcuno ed equivale ad un decesso annunciato.

La funzione rinnovatrice del Partito democratico sull’intero sistema politico è talmente evidente che tutti gli osservatori e commentatori l’hanno colta e sottolineata. Rappresenta un robusto passo avanti verso un bipolarismo meno imperfetto e, perché no? verso un bipartitismo che metterebbe finalmente il nostro paese al passo con le altre democrazie occidentali, gli Usa, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, la Spagna, tanto per citarne le principali.

Ma gli effetti innovatori non si fermano qui. Altri se ne profilano non meno importanti e non privi di rischi.

L’appuntamento elettorale ne mette in prima fila alcuni, la fase successiva ne farà emergere altri dei quali tuttavia è fin d’ora possibile e utile segnalare la natura.

* * *

In prima fila ci sarà il programma economico, in corso di avanzata stesura da parte d’un ristretto gruppo di competenti che si valgono di qualificati contributi: Morando, che guida l’équipe, Boeri, Visco, Bersani ed altri ancora. Si sa fin d’ora che le liberalizzazioni vi avranno ampio spazio. Il rifinanziamento dei salari e del potere d’acquisto dei redditi bassi e medi altrettanto. L’incremento di produttività e di competitività delle imprese. Il nuovo "welfare" configurato per bilanciare la flessibilità del lavoro.

Nel complesso la parte redistributiva del programma economico avrà come base i provvedimenti già predisposti da Prodi, Padoa-Schioppa e Visco nell’ultima fase di quel governo prima della crisi, con in più interventi di detassazione e di riduzione della pressione fiscale.

Questo complesso di misure che il gruppo dirigente del Partito democratico ha ben chiare in mente dovrebbe anche avere un effetto anticongiunturale e anti-recessivo. I sintomi di rallentamento economico sono ormai evidenti in Usa e in Europa; soprattutto in Germania, con effetti diffusivi nelle altre economie dell’Unione europea.

L’Italia da questo punto di vista offre possibilità di intervento anticiclico maggiori che altrove, i redditi individuali consentono e anzi richiedono incrementi capaci di rilanciare i consumi; le liberalizzazioni insieme a radicali interventi di riforma del sistema distributivo potrebbero stabilizzare i prezzi anche di fronte ad un aumento della domanda.

Per converso c’è carenza di manodopera qualificata. Questa è una strozzatura grave alla quale bisognerebbe far fronte con offerte di lavoro a tecnici e manodopera qualificata straniera.

Si tratta insomma di un insieme complicato che richiede collaborazione tra governo, sindacati, imprenditori, commercianti, agricoltori, banche. Mercato e regole di mercato. Un «mix» appropriato per un partito riformista affiancato da un patto sociale che garantisca un appoggio di base.

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Capitalismo democratico e nuovo patto sociale: così si può definire un programma idoneo all’attuale fase storica e addirittura dell’attuale andamento di «stagflation» del ciclo economico mondiale.

Per attuare un programma del genere è necessario sollecitare la collaborazione del centrodestra o offrire quella del Partito democratico, secondo che la vittoria elettorale arrida all’una o all’altra parte?

Tutti ci auguriamo che nella nuova legislatura l’opposizione sia esercitata in modo costruttivo e che la maggioranza ascolti i suggerimenti dell’opposizione, ma di qui a governi di larghe intese ci corre un mare. Io ritengo che le larghe intese siano sconsigliabili, più d’intralcio che di giovamento. La maggioranza ha il compito di stabilire le priorità e le modalità della politica economica, l’opposizione quello di suggerire modifiche e appoggiare specifiche misure di generale interesse. Niente di meno ma niente di più. Ma in altri campi la collaborazione tra le parti politiche contrapposte è invece necessaria laddove si parli di riforme istituzionali e costituzionali, non disponibili a maggioranze risicate ed occasionali.

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Ci sono ancora, da una parte e dall’altra dei due principali schieramenti, larghe zone di resistenza alla collaborazione reciproca sulle riforme istituzionali.

Bisogna vincere queste resistenze che non hanno alcuna valida motivazione. Si tratta di riformare la legge elettorale affinché il pessimo sistema attuale sia modificato recuperando la libertà degli elettori di scegliere i loro candidati, magari affidando tale compito a consultazioni primarie previste per legge. Bisogna anche varare un sistema proporzionale con elevate soglie di sbarramento, riformare i regolamenti parlamentari, e soprattutto il finanziamento pubblico: quello che è recentemente accaduto in Parlamento con la connivenza di tutti i gruppi è semplicemente vergognoso e deve essere a nostro avviso immediatamente cancellato fin dall’inizio della prossima legislatura. Infine bisognerà istituire il Senato federale in corso di legislatura.

Ma anche l’ordinamento giudiziario richiede una collaborazione bipartisan con l’occhio fisso al problema dei problemi che è quello dei tempi per una rapida giustizia. E’ imperativo che il processo sia riformato e la giurisdizione esercitata con efficienza e rapidità. Lo si promette da decenni senza che alle parole siano mai seguiti i fatti. Non è più possibile andare avanti in questo modo nell’erogazione di un servizio pubblico fondamentale.

A nostro avviso queste e non altre sono le riforme da affrontare insieme. Su tutto il resto la maggioranza e il suo governo siano responsabili di attuare il proprio programma, l’opposizione eserciti uno stretto controllo parlamentare e proponga valide alternative.

* * *

Un tema che impegnerà in pieno la nuova legislatura sarà quello delle questioni «eticamente sensibili»; per dirlo in modo più concreto e semplice, il rapporto corretto tra i cattolici e i laici o meglio ancora tra la gerarchia ecclesiastica e le istituzioni della Repubblica, laiche per definizione.

Da questo punto di vista sono rimasto allibito (e non credo di esser stato il solo) leggendo sui giornali di ieri che Casini, dopo lo scontro con Berlusconi e Fini, si sia consultato sul da fare con il cardinale Camillo Ruini che sarebbe stato largo di suggerimenti e forse anche di interventi conciliativi tra l’una e l’altra fazione. Allibito. Qui non c’entra l’uso dello spazio pubblico che nessuno contesta alla gerarchia ecclesiastica. Qui un leader di partito sollecita l’intervento del cardinal vicario in una disputa tra forze politiche e il cardinale interviene. Così ho letto e mentre scrivo non mi risulta alcuna smentita da parte degli interessati.

Contemporaneamente Giuliano Ferrara lancia l’idea di una lista, collegata con il partito di Berlusconi e di Fini, che abbia come programma la moratoria contro l’aborto. Una lista siffatta, dopo che la gerarchia ecclesiastica con il conforto esplicito del Papa ha fatto sua la campagna di Ferrara, si configura come l’entrata in campo elettorale e politico dei vescovi italiani. In mancanza d’una pubblica sconfessione di quell’iniziativa, la lista sulla moratoria è dunque la lista della Cei. Se quest’iniziativa si materializzerà penso che il Partito democratico non possa sottrarsi a denunciare un’invasione di campo di proporzioni inaudite con tutte le inevitabili conseguenze che essa avrà sulla campagna elettorale e i contraccolpi sul rapporto fra le istituzioni laiche e quelle religiose.

* * *

C’è ancora un aspetto dell’entrata in campo del Partito democratico che merita di essere affrontato. Sarà un partito di sinistra o di centro? Le opinioni degli osservatori sono sul merito discordi mentre quelle dei diretti interessati sono univoche: sarà un partito di sinistra riformista.

Personalmente la penso come loro: un partito di sinistra riformista che ha utilmente segnato un confine con la sinistra massimalista senza tuttavia che quel confine sia presidiato da un muro invalicabile.

La novità è notevole. Nenni aveva fatto qualche cosa di simile nel 1963, aveva rotto il patto d’unità d’azione col Pci fin dal ‘57 dopo i fatti d’Ungheria, ma non c’era nessun muro tra i due partiti. Come non ci fu ai tempi di Craxi, almeno nelle parole. Ci fu nei fatti. Craxi faceva mostra di poter usare i due forni (quello della Dc e quello del Pci) per rendere ancor più forte il potere d’interdizione del suo 10 per cento dei voti e in gran parte ci riuscì.

E’ un fatto tuttavia che la sinistra massimalista o comunista ha esercitato un potere rilevante su quella riformista nel sessantennio di storia repubblicana. Il senso comune attribuisce al Pci la responsabilità di questa deformazione della democrazia italiana rispetto alle altre democrazie europee, ma non sempre il senso comune coincide col buonsenso. E’ certamente vero che il Pci ebbe in tempi di guerra fredda questa responsabilità, ma nessuno ha il buonsenso di domandarsi perché il Pci ebbe un peso determinante nella sinistra italiana mentre non lo ebbe (o addirittura non esisté) nelle altre democrazie europee.

Perché? Non è una curiosità storiografica poiché la questione ha riverberi sulla nostra attualità. La risposta potrebbe essere questa. Il Pci ebbe gran peso perché la borghesia italiana fu percorsa sempre da tentazioni trasformistiche e/o eversive e non dette mai vita ad una destra liberale di stampo europeo.

Il Partito democratico – così mi sembra – sfida oggi una destra demagogica e interpella quel poco che c’è di autentica borghesia produttiva affinché si schieri con le forze dell’innovazione che uniscono insieme i valori della libertà e dell’eguaglianza.

Dipende da questa borghesia se il partito delle riforme avrà la meglio stimolando anche – se vincerà – la destra a trasformarsi non solo nelle forme ma nella sostanza.

Muore, senz’essere mai nata, la Seconda Repubblica. Lascia uno spaventoso vuoto di legalità, dove è già precipitata la politica e nel quale rischia di inabissarsi l’intera società italiana. In questo clima, e con un contesto così degradato, si corre verso le elezioni anticipate.

È infatti l’intero sistema politico italiano che ha fissato un appuntamento con il viandante solitario: non più con il popolo ma con l’individuo, non più con la classe ma con il lavoratore, non più con l’ideologia ma con il merito personale. È tutto qui il tema della campagna elettorale che comincia oggi: correre da soli. La solitudine rivendicata da Veltroni significa infatti non potersi più nascondere dentro il numero; e mai più mimetizzarsi nella folla che garantisce l’impunità, nella folla dei partiti che è la stessa delle mille curve sud d’Italia.

Ed è la società, prima ancora che il centrosinistra in macerie, ad avere preparato, tra grillismi e antipolitica, tra girotondi e manifestazioni di piazza, tra Porta a Porta e Anni Zero, tra tradimenti e ribaltoni, tra demagogie e caste, l’uscita dal gruppo del solitario in fuga e in salita, perché è tutta in salita la ricostruzione del lessico politico in Italia. È insomma lo Spirito del Tempo a incarnarsi nel leader che deve correre da solo per sfasciare la poltiglia che non permette al paese di essere governato; per emulsionare questa chiazza d’olio di intrighi e di miseria che è diventata la politica; per scuotere la mediocrità dei topi nel formaggio, degli ubriachi che si sorreggono a vicenda, delle mezze figure che in venti non fanno una figura intera.

Correre da soli, dunque. Con l’istinto prima che con la ragione, con il sentimento più che con l’intelligenza, con la fantasia più che con la logica. Nel ciclismo correre da soli è un azzardo, roba da campioni o da ragazzini presuntuosi che a metà percorso spompano, vengono raggiunti dal gruppo, risucchiati e abbandonati senza gloria negli ultimi posti. Nel mondo animale chi corre da solo è la preda che scappa e che soccomberà alla zampata del predatore. Nella letteratura e nel cinema americani corre da solo il cow boy, il giustiziere e il farmer dell’Ovest dove banchieri, avvocati e federali sono come i tanti partiti italiani, imbroglioni e perditempo; corrono da soli Humphrey Bogart in Casablanca, e John Wayne in tutti i suoi film: generosamente risolvono i problemi ma alla fine se ne vanno, vittoriosi e perdenti, lasciando ad altri la terra, le donne, una nuova regola e un nuovo modo di stare al mondo.

Ebbene, nella sfida di Veltroni c’è questo sapore dell’America che è amata a sinistra, quella – diceva Goethe senza contrapporla alla politica italiana – che «non ha i castelli e non ha i basalti», l’idea dell’America politica liscia liscia, bella e diretta, olimpicamente classica, senza le contorsioni inverificabili delle verifiche italiane, degli inciuci, dei trasformismi, dei mercati parlamentari, l’America dove sempre si corre da soli.

È vero che può far sorridere l’inglese abusato di Veltroni, ma lasciamoglielo dire yes we can se dietro questo primo slogan della campagna elettorale si intravede un’idea americana di Italia veloce contrapposta all’Italia barocca e mostruosa delle vecchie coalizioni. È vero che l’inglese di Veltroni a volte sembra quello della pubblicità, don’t touch my Breil, o magari l’insensato life is now. È vero che a volte somiglia a quello dei nostri cosiddetti manager bocconiani, veri cretini cognitivi che dicono background e break even, serendipity e fuzzy come una specie di tributo pagato alla moda più presuntuosa e più insulsa. E però concediamoglielo questo vezzo, facciamogli contrapporre a una lingua politica che è una babele la lingua diretta e moderna che non ha accenti, non ha né sdrucciole né piane. Molto meglio andare avanti con le assonanze, da I care a We can che con le procedure istituzionali ridotte ad apparati cerimoniali; meglio rincorrere una realtà velocissima che ribolle da Kennedy a Hillary ad Obama piuttosto che l’inaderenza cadaverica alla realtà.

Ma, come dicevamo, c’è anche, nella sfida di Veltroni che corre da solo, qualcosa del ciclismo di Pantani, di Coppi e di quei volti tristi come le salite. E c’è l’alone dell’animale sacrificale con il destino segnato dai sondaggi: l’uomo che corre da solo contro Mosé – così lo chiama Maroni – che alla testa di diciotto partiti ci prova per la quinta volta. Si sa che in campagna elettorale nessuno si salva dalla demagogia e dalla retorica, ma la demagogia è un mantello che, con lo spavaldo yes we can di Veltroni, si stringe a sinistra e si allarga a destra.

Caro Direttore, adesso lo sappiamo. Le elezioni si svolgeranno ancora una volta con la legge che tutti hanno definito una «porcata», per responsabilità soprattutto del centrodestra che a suo tempo la impose, e si è successivamente speso contro il referendum e ogni iniziativa che si proponesse di rispondere alla domanda dei cittadini. Accadrà dunque che il Parlamento sarà così eletto ancora una volta a partire da una legge delegittimata agli occhi dei cittadini e in pendenza del referendum che attende di essere svolto. Rispondendo a questa legge pensata per dividerci l'Unione si è divisa. L'Unione ha deciso in modo concorde la propria discordia cedendo alle illusioni delle identità e ai calcoli delle convenienze di partito. In questo contesto il Pd si presenta ai cittadini come una novità esposta alla tentazione della autosufficienza. A questo punto tornare indietro ci sembra purtroppo impossibile.

Attendiamo tuttavia ancora che qualcuno ci spieghi qual è il motivo che ci costringe ad assecondare questa legge divisiva continuando a dividerci, distruggendo allo stesso tempo il centrosinistra e il bipolarismo in Italia.

Sia consentito agli ulivisti, che da ulivisti si sono riconosciuti dentro il processo costituente del Pd nella candidatura di Rosy Bindi, di ripetere ancora una volta quello che vanno dicendo inascoltati da mesi.

Ricominciamo dall'alleanza dell'Ulivo.

Non è una questione di nomi. Non ci interessa che si chiami Ulivo, l'importante è ricominciare dallo spirito dell'Ulivo. Ricominciamo da un progetto di governo condiviso solo da chi lo condivide, un progetto che esclude solo chi si esclude.

Ricominciamo da un Pd ulivista nella ispirazione e non solo nel simbolo, che si proponga non più come parte contro le altre parti, ma, come dicevamo un tempo, come baricentro, motore, timone dell'alleanza dell'Ulivo e di tutto il centrosinistra. Siamo ancora in tempo. Torniamo allo spirito dell'Ulivo. Ricominciamo da una alleanza ulivista.

Ricominciamo da oggi.

«La corruzione è il male che affligge ancora la pubblica amministrazione». La Corte dei conti apre col botto l'anno giudiziario 2008. Uno scenario sinistro, dove il malcostume galoppa e lo sviluppo rimane fermo. E' tutto nero su bianco nella relazione del procuratore generale della magistratura contabile, Furio Pasqualucci, secondo cui «profili di patologie» sono evidenti «nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria». In particolare, aumentano le condanne per danni materiali e per danni all'immagine della pubblica amministrazione a causa del diffuso pagamento di tangenti (per concussione o corruzione) durante la stipula di contratti.

Una lista degli illeciti lunga, lunghissima che il procuratore generale pronuncia sotto gli occhi attenti del presidente della Repubblica Napolitano e del ministro dell'economia Padoa Schioppa. E così si scopre un giro di tangenti che il più delle volte sarebbe diretta conseguenza di «artifici ed irregolarità nella dolosa alterazione di procedure contrattuali», o di «trattamenti preferenziali negli appalti d'opera». Il dato parla da solo: su un totale di 1.905 sentenze di condanna emesse in primo grado nel 2007 dalle sezioni regionali della Corte dei conti per un totale di oltre 92 milioni di euro, l'11,4% ha riguardato danni causati da corruzione, tangenti e concussione. Uno dei casi più eclatanti è stata la condanna da 2,4 milioni di euro per i danni materiali e morali all'Enipower spa.

L'illecito pagamento di prezzi superiori al dovuto, continua il procuratore, viene realizzato anche attraverso «fittizie sovrafatturazioni di lavori pubblici, false attestazioni sull'accelerazione dei lavori con con conseguente erogazione di premi non dovuti e fatturazione di opere in tutto o in parte ineseguite». A questi danni se ne aggiungono altri, causati «dal disinteresse, dall'inerzia e da comportamenti omissivi» da parte di chi, invece, è preposto alle procedure di appalto di opere o all'acquisizione di servizi e forniture che si sono tramutati in «altrettanti atti di citazione in giudizio». Il pg Pasqualucci cita, come esempio lampante, i numerosi casi di «indebita protrazione di procedure di espropriazione» per la realizzazione di opere pubbliche, «di ingiustificata inerzia nell'emanazione di atti nell'ambito del procedimento di appalto di tali opere, con conseguente danno per la nomina di commissario ad acta, di mancata realizzazione di progetti di monitoraggio in settori importanti come quello delle acque».

Il procuratore generale ha anche richiamato l'attenzione sull'alto numero di condanne (13 nel 2007) inflitte all'Italia dalla Corte di giustizia dell'Unione europea per la mancata applicazione delle normative europee in materia di rifiuti. «Le ripetute violazioni di regole comunitarie da parte del nostro Paese - ha detto - è segnale che merita la più attenta considerazione e una assunzione precisa di responsabilità per i notevoli danni, patrimoniali e non, che vengono arrecati all'intera collettività». E non finisce qui. Raddoppiano anche le frodi comunitarie. Nel 2006 si è registrato un forte incremento rispetto all'anno precedente degli importi del bilancio comunitario da recuperare per le irregolarità e frodi accertate di cui il 99,13% relative ai fondi strutturali e lo 0,87% per il Feoga, il Fondo europeo agricolo.

Unica nota positiva: il miglioramento dei conti pubblici. «Particolarmente apprezzabile appare - ha detto il presidente della Corte dei conti, Tullio Lazzaro - il miglioramento dell'avanzo primario, condizione essenziale per rafforzare il processo di riduzione del debito pubblico». Troppo poco però. Intorno, infatti, continua ad esserci solo terra bruciata con «la Repubblica che vive un momento di diffuso malessere e incertezza», la disamina di Lazzaro, secondo il quale occorrerebbe «riconsiderare» alcune scelte per ridare «sistematicità all'insieme degli organismi amministrativi» a tutti i livelli.

Due frammenti sul destino della nostra storia nei nostri tempi. Uno. Qualche volta anche Omero dormicchia. L'inserto di «Repubblica» sul '68 si apre stralciando un brano di Umberto Eco: «Il Sessantotto è finito, ed è giusto che lo si giudichi storicamente. Il Sessantotto ha prodotto anche il terrorismo...».

Persino Eco, nostro maestro, viene ridotto a quel riflesso condizionato che nel '68 vede per prima cosa le origini del terrorismo.

Ci vuole molta smemoratezza per non ricordarsi che il terrorismo in Italia comincia con Piazza Fontana il 12 dicembre 1969, una strage di stato che non fu certo «prodotta» dal '68, ma semmai contro il '68 e contro l'autunno caldo.

«È giusto chiedersi, anche dal punto di vista storiografico - continua il brano - che cosa ci sia stato nel Sessantotto che ha prodotto, in alcuni che non hanno saputo riaversi dalla sua crisi la scelta terroristica». Va bene. Ma non sarà giusto chiedersi che cosa ci fosse, e che cosa ci sia, nello Stato di allora e di oggi, che ha prodotto quella strage rimossa? E che relazione ci sia fra la stagione iniziata quel giorno a piazza Fontana e le sciagurate scelte di una minoritaria frazione del movimento che cominciò nel '68 e che continuò, e continua, in tante forme che con gli assassini non hanno avuto niente a che fare?

Due. Buone notizie dal Partito Democratico: si sono scordati di mettere la resistenza e l'antifascismo nella carta dei valori del nuovo partito. Secondo alcuni esponenti della nuova formazione politica si è trattato di una «dimenticanza», che a richiesta potrà essere bonariamente sanata con una frase o due, tanto c'è posto per tutti, e nascere sulla dimenticanza è un buon viatico per un partito nuovo. Secondo altri è una cosa logica: un senatore spiega che il PD si fonda sul «presupposto che la storia del '900 è finita, e con lei le sue ideologie: il fascismo oltreché il comunismo». Perciò «l'antifascismo in quanto ideologia politica è anacronistica come il fascismo». L'una e l'altra per noi pari sono.

Il '900 sarà finito, ma se uno va sul sito di Forza Italia trova messaggi che incitano i vertici: «Prendete il potere, anche contro la Costituzione, non parlate più, altrimenti i parassiti cresceranno, agite»; «Ci vogliono le maniere forti altro che le elezioni». L'antifascismo sarà obsoleto, ma il fascismo no: a Roma i fascisti aggrediscono, si prendono la Consulta degli Studenti, si preparano a marciare l'8 febbraio. Piero Terracina, ex deportato di Auschwitz-Birkenau, chiede al Pd una esplicita condanna del fascismo e del nazismo per evitare che «in nome della pacificazione, vittime e carnefici vengano equiparati». Ma che vuole? La Shoah è successa nel '900, è una storia finita, siamo in un altro millennio, tanto vale dimenticarsi anche di quella.

Tre. Un sindacalista della Cisl chiede alla Rai di bloccare il film di Francesca Comencini sulla fabbrica perché gli pare che faccia vedere troppi comunisti. Nel gioco delle obsolescenze, il '900 si porta via l'antifascismo e lascia rifiorire il fascismo; si porta via il comunismo ma l'anticomunismo no. Nello spazio di due giorni, aboliamo dalla memoria tutti quelli - studenti, partigiani, comunisti - che hanno provato a immaginare un mondo diverso. Nell'Unione Sovietica, si cancellavano i gerarchi in disgrazia dalle foto ufficiali. Noi invece celebriamo compunti la Giornata della Memoria. Orwell, al confronto, era un dilettante.

Non è la prima volta che gli italiani e i loro politici, quando arrivano al culmine della scontentezza di sé, guardano oltre le proprie frontiere e credono di trovarvi straordinari modelli di governo o straordinari uomini-guida: da invidiare o corteggiare, adorare e imitare. Oggi sono alcuni nomi che suscitano questi sentimenti d’invidia e adorazione, perché negli animi c’è sete di nomi più che di programmi, di uomini forti più che di istituzioni durevoli. Se solo avessimo un Sarkozy, se solo avessimo Angela Merkel, potremmo curare tanti nostri mali, se non tutti. Potremmo fare come il primo, che ha inventato la parola d’ordine della rottura e le ha dato sostanza aprendo il governo a personalità di valore del campo avversario. Potremmo fare come la seconda, che dal 2005 regna con la socialdemocrazia e ottiene con essa non pochi successi. Zapatero in Spagna non raccoglie consensi unanimi, perché il suo rapporto con la Chiesa è giudicato eterodosso, ma la costante sua tenacia risveglia analoga ammirazione emulativa.

Guardare oltre le proprie frontiere e mettersi alla ricerca di esempi è un’attività che può aiutare, ma a condizione di guardare da vicino i modelli che s’inseguono e di provare a capire come funzionano e perché. È questo sguardo profondo che in Italia manca, non solo a governanti e oppositori ma alla maggior parte dei partiti e a chi nella società civile si occupa della cosa pubblica e l’influenza.

L’attrazione che proviamo verso Sarkozy o la Merkel o Zapatero nasce da un singolarissimo miscuglio di invidia, di esotismo, e di quella che i latini chiamavano incuriositas. L’Italia è enormemente affascinata da quello che accade in Europa, ma a queste realtà esterne non guarda con autentica voglia d’immedesimarsi, con curiosità di sapere e comprendere. L’estero ci ammalia ma in maniera del tutto frivola, approssimativa: lo sforzo di conoscerlo davvero, di accumulare informazioni e fatti, è tanto striminzito perché è al tempo stesso strumentale ed effimero. In queste condizioni gli esempi esterni sono inservibili, così come sono inservibili le discussioni sui sistemi elettorali altrui, di cui abbiamo fatto ormai una marmellata. L’Italia incuriosa non vede e non vuol vedere quel che fa la vera forza di Sarkozy, della Merkel, di Zapatero. Proviamo dunque a esaminare questi idoli, nella speranza che qualche curiosità non frettolosa si accenda.

Sarkozy, innanzitutto. È descritto come un politico dotato di notevoli muscoli: qualcosa che mancherebbe sciaguratamente in Italia. Sarkozy è brillante, attivo, inventivo, e inoltre possiede energie eccezionali e una volontà ferrea. Ma se si osserva da vicino la sua forza, si vedrà che i muscoli in Francia non sono nell’uomo, bensì nelle istituzioni. Naturalmente anche qui c’è impazienza di correggere le istituzioni, per il peso troppo marginale che conferiscono al Parlamento. Anche qui viene criticato un sistema elettorale - il maggioritario a due turni - che ha vistosi difetti: un personaggio centrista come Bayrou, ad esempio, non riesce a trovar spazio anche se molto popolare nei sondaggi. Nonostante questo Sarkozy è oggi un Presidente legittimato, incisivo: se lo è, è perché ha come spina dorsale la Quinta Repubblica, che De Gaulle decise di sostituire nel 1958 al regime instabile dei partiti e ai veti reciproci in Parlamento che caratterizzarono la cosiddetta Quarta Repubblica.

Quel che i francesi hanno, e che gli italiani non hanno, è una memoria vivissima dei propri errori passati: non solo quelli che risalgono alle guerre tra europei, ma quelli commessi nella democrazia postbellica. Le parole che Jean Monnet pronunciò a proposito dell’Europa valgono come regola di vita quotidiana della politica e spiegano anche il nascere della V Repubblica: «L’esperienza di ciascun uomo è qualcosa che sempre ricomincia da capo. Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già come la propria natura cambi, ma come il proprio comportamento si trasformi gradualmente». È soprattutto l’istituzione che assicura il progresso, e che dà efficacia e tempi lunghi alle individualità.

Osservazioni simili si possono fare sulla Grande Coalizione di Angela Merkel: coalizione che nessuno dei protagonisti avrebbe voluto, nel 2005, ma che s’impose perché nessuno dei due aveva in parlamento una maggioranza, neppure d’un voto (con un voto in più sia la Merkel che Schröder avrebbero governato senza esser ritenuti illegittimi: anche questo consentono le regole tramutate in comune patrimonio). Se la Grande Coalizione oggi funziona, se è vissuta come strada impervia ma obbligata e obbligante, è perché in Germania esiste una cultura della stabilità, e un attaccamento a governi forti, le cui radici sono caparbie e resistenti. Anche qui c’è memoria vivissima di errori e peccati commessi in passato, su cui i tedeschi hanno meditato a lungo, producendo la stabilità economica e politica di cui si nutrono. C’è il ricordo di Weimar, con i suoi governi debolissimi e il peso abnorme esercitato da forze extraparlamentari. Ma ci sono anche le colpe accumulate negli anni della Repubblica federale: il dominio e protagonismo di singoli partiti, l’avidità di potere che prevale sugli obblighi di lealtà assunti davanti all’elettore. Sono vizi che sempre incombono, ma che stanno lì nell’animo dei tedeschi come memento non aggirabile.

È interessante osservare quel che sta succedendo dopo le elezioni in Assia e Bassa Sassonia: i democristiani scendono, e ai fianchi della socialdemocrazia si va formando una sinistra radicale che cresce a Est ma anche nei Länder occidentali. I socialdemocratici sono al bivio, e per evitare una grande coalizione devono decidere con chi allearsi (Verdi e Liberali, oppure nuova sinistra). Non si sa cosa accadrà, ma assai significativi sono i ragionamenti che vengono fatti da politici e commentatori. L’alleanza con la sinistra radicale è giudicata alla luce della storia, dunque dell’illiberale Germania comunista. Ma anche l’alleanza dei socialdemocratici con i Liberali crea imbarazzo, urta tabù. I Liberali hanno il diritto di cambiare alleanze, dopo aver promesso agli elettori di non farlo? Questo diritto non ce l’hanno, scrive la Frankfurter Allgemeine, perché «ancora grava su di essi l’etichetta di partito-voltagabbana (Umfallerpartei) attribuito loro nel 1961», quando il partito infranse la promessa di non governare mai più con Adenauer e si decise ad appoggiarlo, avendo ottenuto la garanzia di poterlo sostituire ai comandi dopo un certo tempo. A distanza di ben 47 anni, quel peccato di slealtà elettorale pesa ancora!

Zapatero, infine. Da quando è al potere, il Premier è impegnato in una lotta dura con la Chiesa, anche se più prudente di quel che viene raccontato. Anche qui la memoria conta, è un ingrediente del futuro che il Paese approva dopo il patto dell’oblio voluto da González: una memoria assente nella Chiesa, incapace di analizzare le sue responsabilità ai tempi di Franco, e su cui si fonda la popolarità di cui godono le misure laiche del Premier. Luigi La Spina nella sua inchiesta su La Stampa ha descritto bene la forza del leader spagnolo. Può anche darsi che Zapatero perda le elezioni, il 9 marzo. Ma la laicità non sarà abbandonata, e anche se la destra s’aggrappa alla Conferenza episcopale spagnola, priva com’è di idee e alle prese con una rivoluzione conservatrice americana fallita, «nessuno si sogna di cancellare tutte quelle riforme introdotte da colui che, in Italia, viene dipinto come un pericoloso mangiapreti» (La Stampa, 1 febbraio).

Questi esempi mostrano una realtà diversa da quella usualmente descritta. Non è vero in primo luogo che in Italia c’è un’overdose di commemorazioni: come ha scritto Arrigo Levi, ieri su questo giornale, la memoria è semmai troppo corta, e un futuro diverso è difficile perché abbiamo insufficiente ricordo del passato. La memoria è da noi un rito formale non perché sovrabbondi, ma perché è cagionevole, svogliata, e appunto incuriosa. Non sono solo fascismo e nazismo a insegnare poco. Non insegnano neppure le esperienze di Tangentopoli, i danni causati dall’abitudine così inestirpabile all’illegalità, all’impunità, ai particolarismi, alla violazione della Costituzione. L’Italia «è un Paese senza memoria e verità», diceva Sciascia, e probabilmente è per cominciare a coniugare queste due virtù che una persona come Gherardo Colombo ha deciso nel febbraio 2007 di dimettersi da magistrato e di insegnare ai giovani la cultura della legalità che tanto ci manca. In Italia le colpe antiche e recenti non sono riconosciute come colpe, non c’è stata catarsi d’alcun tipo, e non stupisce dunque che non esista - come afferma Jacques Attali su La Repubblica - il ricambio di generazioni avvenuto altrove. Da errori e colpe si può uscire con l’uomo forte o con istituzioni e regole possenti, capaci di durare più degli uomini e di assorbire cambi di generazione anche bruschi. Imboccare questa seconda via non trasforma certo la natura delle persone ma - Monnet ha ragione - trasforma alla lunga i comportamenti e gradualmente ci darà non uomini forti, ma uomini nuovi.

La settimana si conclude con un netto successo di Berlusconi: si va alle elezioni al più presto. Berlusconi, ha ripetuto, con Veltroni, il giochetto che con la bicamerale aveva fatto con D'Alema: ha avuto da Veltroni la legittimazione a trattare per un leale accordo tra grandi potenze e poi ha fatto lo sgambetto. E, con tutta probabilità, complice di questo gioco la Confindustria di Montezemolo, la quale, dopo essersi fatta apprezzare dal centro-sinistra per la sua resistenza alle elezioni, si è repentinamente schierata a fianco del Cavaliere, dicendo che era impossibile evitare il voto al più presto.

In sostanza il fronte padronale si è ricompattato e sfida un malandato e diviso centro-sinistra al voto, forte (Berlusconi) del fatto che il centro-sinistra è stato già abbandonato dagli alleati di destra (Mastella e Dini) e che le forze della sinistra (si dice radicale) sono mortificate e scontente e soffrono delle pulsioni astensioniste del loro elettorato.

Siamo già al confronto elettorale e lo schieramento di centro-sinistra ci arriva piuttosto malmesso e senza una piattaforma unificante e credibile. In queste condizioni la prospettiva - rebus sic stantibus - è quella di una pesante sconfitta elettorale e di un regime clerico-liberista, come non si è avuto neppure nei momenti di maggior forza della Democrazia cristiana (De Gasperi non era un succubo del Vaticano mentre oggi Ruini e anche Bagnasco sono in cattedra).

Allo stato dei fatti queste prossime elezioni annunciano una vittoria della destra, ripeto, clerico-liberista nei confronti di un centro-sinistra che è sempre più centro e meno sinistra e di una sinistra che però non riesce a liberarsi delle dispute elettorali (quanti parlamentari hai tu e quanti io?) e darsi un programma di rinnovamento sociale e politico e soprattutto culturale. In tutto questo c'è la riprova (e dalle colonne del manifesto possiamo dirlo) della debolezza o inconsistenza di tanti attuali leader che si erano formati nel Pci non tanto per gli obiettivi del comunismo, ma per la subalternità all'Unione sovietica. Per molti di questi attuali dirigenti di sinistra la caduta del muro è stata come la fine del (loro) mondo.

E per venire al punto o, meglio, a una conclusione parziale e provvisoria dobbiamo dirci che da questa crisi non si esce con le astuzie tattiche dei politicanti, ma solo con l'impegno a rinnovare la propria cultura, a fare una seria analisi della società, del lavoro, della mondializzazione. Se ne può uscire solo rendendosi conto che la sovranità del mercato (e poi bisogna vedere di chi) annulla la sovranità della politica e riduce lo stato al ruolo di consiglio d'amministrazione di un condominio.

Siamo alla vigilia di un difficilissimo scontro elettorale, cerchiamo di ritrovare le armi della sinistra, del socialismo e del comunismo. Se vogliamo combattere con le stesse armi di Berlusconi andremo a una sicura sconfitta.

Oggi è il 24 gennaio 2008. Sono passati 4295 giorni dal 21 aprile del 1996, quando i Verdi italiani vinsero le elezioni politiche partecipando nell’alleanza di centrosinistra dell’Ulivo. I Verdi italiani entrarono, quel giorno, primi nella storia d’Europa, nel governo di uno dei grandi paesi del continente. Ho il ricordo preciso e forte di quel giorno, perché ero il leader dei Verdi italiani.

Oggi la lunga alleanza tra la sinistra e la cultura e l’azione degli ecologisti italiani è fallita. Rovinosamente. Sul quadrante costituzionale della conservazione della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione; su quello delle città storiche; su quello del territorio; su quello dell’inquinamento dell’aria e delle acque e, infine, sui dossier vitali dell’energia e dei rifiuti. Con i Verdi al governo i nostri maggiori problemi ambientali non solo risultano irrisolti, ma si sono aggravati.Nell’alleanza con la sinistra il pensiero ecologista si è rapidamente trasformato in enunciazione dogmatica, abbandonando il metodo problematico degli albori, ricco di ipotesi e di verifiche. Dalla fine degli anni Settanta si è via via mutato in certezze apodittiche e pregiudizi manichei.

Ne sono conferma due crisi in corso: l’agonia della regione Campania per i rifiuti bloccati, e la sterile predicazione ansiogena-ribellistica sulle questioni climatiche ed energetiche. Tutta intrisa, quest’ultima, dalle torbide attese di illimitati finanziamenti, il più delle volte calata con calcolo sull’opinione pubblica evocando scenari cancerogeni per le terrorizzate popolazioni, abusando cinicamente della credulità dei più. Così come si è potuta ritrovare la stessa intenzione nella Conferenza climatica internazionale, convocata in settembre a Roma dal governo italiano, aperta dal ministro dell’ambiente con informazioni scientifiche false sull’aumento di temperature medie in Italia.

Falsità immediatamente smentite dalla comunità scientifica. A partire dal 2007 si è rotto l’incanto: quando in Toscana prima, poi in Umbria, poi a Mantova, poi nell’Agro romano, poi a Roma, poi in Campania, poi in Puglia, è partito l’assalto al territorio di massimo pregio, nei luoghi più integri fino a tempi recentissimi. Molti hanno scoperto l’anno scorso che il potere regionale, provinciale e comunale del centrosinistra si trovava sempre dall’altra parte, con le imprese, con il business immobiliare, contro la tutela e la conservazione del paesaggio e delle città storiche. Da Fiesole al Pincio, da Perugia a Spoleto fino a Ravello, nella divina costiera.

Così nel 2007 sono nati in pochi mesi centinaia di comitati spontanei di cittadini, per lo più elettori di centrosinistra, ferocemente contrapposti ai poteri locali di centrosinistra percepiti come prova del tradimento esercitato dai propri eletti, “Templari del solo Pil”. Altro che “modello Roma”. Contraccolpi, abbandoni, in questi ultimi due mesi, tra i Verdi in Toscana e in Piemonte, per esempio, nel desiderio primario di sottrarsi alla contiguità con i Centri sociali e i partiti neocomunisti. Tentazioni, in Piemonte, Toscana e altrove, di rifondare i Verdi veri. Sgomento tra le associazioni, in particolare le più sensibili alle aree protette e al paesaggio, Italia Nostra, Wwf, Fai, Civita, Comitato per la Bellezza e Associazione Bianchi Bandinelli. Sono uscite dieci giorni fa con un pubblico appello al presidente del Consiglio dei ministri, Romano Prodi, su una intera pagina di La Repubblica: «Sdegnati dall’inarrestabile e avido assalto al territorio del quale siamo impotenti spettatori in ogni regione d’Italia».

Contando, loro, insieme a Salvatore Settis, su «un suo segnale forte, caro presidente». Santa ingenuità. E se il mondo ambientalista meno partitizzato, genericamente e pigramente di sinistra, comincia a interrogarsi se sia il caso di continuare a riservare in esclusiva la propria interlocuzione ai soli legislatori di centrosinistra, affidando loro le proprie antiche speranze, Legambiente, con il suo stile spregiudicato, ha pensato di preparare una posizione più flessibile: ha saltato a piè pari il fosso della autonomia formale dai partiti ed è entrata, in diretta, con gli ultimi suoi due “presidenti nazionali” nella Casamatta del ristrettissimo Esecutivo del Partito democratico. Decisi a realizzare lì, all’interno del partito maggiore del centrosinistra, un approccio duttile, sostituendo di fatto i Verdi in materia, per esempio, di revisione energetica, forse spingendosi fino al nucleare.

Abbandonando in questo modo le pratiche patetiche dei tavoli dell’Associazionismo, che loro sanno essere ormai inascoltato. La sinistra in Italia ha ucciso l’ambientalismo, dopo averlo disarmato, invecchiato, imbolsito con la ripetizione acritica e gli arcaismi. Almeno in due regioni dove la sinistra governa ormai da lungo tempo senza saggezza, si è arrivati con i rifiuti all’antivigilia della rovina che inghiotte Napoli e la Campania. Intendo il Lazio con Roma e in Umbria Terni e Perugia. Si è dunque all’anno zero. Mai la questione ambientale è stata così presente e insieme così negletta. Mai prima la Repubblica si è trovata senza tutela, senza conservazione, con le Sovrintendenze disperse, mortificate, degradate. Mai prima l’Italia è stata così sfigurata, neppure nella concitazione dell’immediato dopoguerra.

Finisce dunque, nel disonore, l’Alleanza innaturale. La sinistra comunista al potere ha provocato il maggior collasso ambientale della storia europea, a cominciare per lunghi decenni con le piogge acide che hanno scortecciato le foreste della Mitteleuropa. I comunisti al potere in Cina, Corea, Vietnam, Cuba, hanno prodotto la maggiore sofferenza ambientale di questi nostri anni contemporanei. Che fare in Italia? Prima di tutto uscire dalla rassegnazione e dare forza e idee nei luoghi nuovi della elaborazione, lì dove da qualche tempo si studia, si ricerca, ci si confronta, a cominciare dalle fondazioni Liberal e Farefuturo. Poi collegare tutte le persone che scrivono e studiano, e che da sole hanno cominciato a controinformare, smascherando le parole malate, le informazioni fraudolente. Infine, non lasciando isolata la recente mobilitazione del cattolici sul tema, come loro lo definiscono, della difesa del Creato. Gli ecologisti liberi da una parte. I professionisti dei raggiri dall’altra.

Postilla

Quest’articolo è uscito su di un giornale berlusconiano che non è tra le nostre frequentazioni abituali. Ringraziamo chi ce lo ha segnalato perchè insegna molte cose. Intanto, conferma che Ho Chi Min è stato l’apostolo, e l’iniziatore, di quel pauroso degrado del Pianeta Terra di cui cominciamo a vedere le conseguenze. Aspettiamo che Ripa di Meana scopra che le radici teoriche delle attività di distruzione del paesaggio e dell’ambiente sono state poste, nelle carceri che frequentò, da Antonio Gramsci.

Poi, perché spiega bene le ragioni per cui i paesaggi della Toscana siano stati, dal 1945 in poi, degradati in modo scellerato mentre le ridenti campagne della Lombardia e del Veneto sono rimaste intatte e, anzi, rese più verdi, ridenti e boscose di quelle dell’Austria.

Infine perché dimostra, con ricchezza di testimonianze, che l’ambientalismo di Alleanza nazionale (“Farefuturo”) e di Forza Italia (“Liberal”) è degno di fiducia; scopriremo che Franco Nicolazzi è tra i soci fondatori di entrambi, e che le radici furono poste dalla Società Generale Immobiliare negli anni del processo contro l’Espresso di Arrigo Benedetti e le denunce di Manlo Cancogni.

Abbandonando l’ironia, il tentativo della destra italiana (che è quello che è) di utilizzare personaggi dell’ambientalismo dei salotti per acchiappare voti nel bacino dei verdi ci sembra che vada seguito con attenzione. Gli errori della sinistra possono aiutare, certo inconsapevolmente, il lavoro dei Ripa di Meana e dei loro sponsor; può essere che anche sul versante opposto a quello dominato da Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini questo episodio insegni qualcosa di utile.

Molte cose sono cambiate in positivo, in questi anni, sul versante dell'antimafia.

Quel che non cambia o che cambia troppo poco è la politica, o perlomeno certa politica. Preliminarmente vorrei fissare alcuni punti.

Primo punto. Larga parte della politica oggi (anche trasversalmente, purtroppo) considera troppa giustizia e troppa legalità come un fastidio. Gli viene l'orticaria. Non si identifica con l'Italia delle regole quanto piuttosto con l'Italia dei furbi, degli affaristi o degli impuniti.

Secondo punto: io sono assolutamente convinto (non lo dico retoricamente) del primato della politica. Spetta alla politica, soltanto alla politica, operare le scelte di governo nell'interesse - si spera - di tutti. Non spetta a nessun altro, meno che mai ai giudici (la storia del governo dei giudici è bieca propaganda). Ma proprio perché sono seriamente convinto del primato della politica sono altrettanto convinto che la politica questo primato lo deve vivere ed interpretare nella consapevolezza della sua importanza effettiva, non con attenzione alla sola facciata. Allora, se ci sono delle inchieste giudiziarie che rivelano fatti dando indicazioni preziose in tema di corruzione e collusione fra mafia e politica, ecco che la politica dovrebbe - secondo me - esercitare il suo primato intervenendo con nuove leggi, con controlli più adeguati. E invece di tutto questo abbiamo avuto ben poco dal '90 ad oggi. Molte volte invece sembra di avvertire una certa tendenza (trasversale) a mal concepire il primato della politica come pretesa di sottrazione dei politici ai controlli, alla legge che dovrebbe essere uguale per tutti. Ecco allora che la giustizia nel nostro paese non funziona, ma invece di chiedere più giustizia si chiede meno giustizia, tutte le volte che la giustizia incrocia determinati interessi. Ecco allora che alla magistratura si chiede di fare un passo indietro, invece di potenziarne gli strumenti e le possibilità di risolvere - nelle sue competenze istituzionali - questo o quell'altro problema.

Terzo ed ultimo punto preliminare. Usa dire che l'antimafia e l'anticorruzione non portano voti. Non è vero, secondo me, ma sta di fatto che antimafia e anticorruzione nell'agenda politica, quando ci sono, sono in posizioni non primarie. Per quanto riguarda la mafia ciò accade a partire dal 1996, con vari sussulti successivi di tipo emergenziale e quindi effimero. Nel senso che soltanto dopo un fatto clamoroso che ci sveglia, troviamo tempo e modo di occuparci di queste cose, ma con una forte tendenza a dimenticarle presto e rimetterle ai margini dell'agenda.

Allora, se questo è lo scenario di fondo, non stupisce che tanti uomini politici, amministratori, imprenditori, operatori economici, professionisti (con frequente predilezione nel settore della sanità), non stupisce che tanti, troppi soggetti ancora oggi intrattengano rapporti di affari o di scambio con mafiosi o paramafiosi. Ancora oggi, dopo le terribili stragi del 92 e del 93, ancora oggi ci sono personaggi che vivono e operano nel mondo legale, talora con responsabilità istituzionali di altissimo rilievo, che sono disposti a trescare, a trattare con mafiosi o paramafiosi come se nulla fosse, come se fosse cosa assolutamente normale. Questa è una totale vergogna, che dovrebbe fare drizzare i capelli in testa a tutti. Invece quelli che si indignano sono sempre di meno. E chi viene colto con le mani nel sacco può sempre contare sulla solidarietà dei propri capi cordata, sia locali che nazionali. E allora ecco che invece dell'indignazione o della giusta tensione abbiamo la passività e la rassegnazione. Ci si convince che così va il modo, che c'è poco o nulla da fare. La questione morale e la responsabilità politica diventano reperti archeologici. Favole per i gonzi e la mafia obiettivamente e inesorabilmente cresce. Mentre è sempre più difficile agganciare i giovani con discorsi credibili in termini di impegno per la legalità.

Io ho un' impressione, sempre più forte: che la buona politica sia stata soppiantata o rischi di essere sempre più soppiantata da una politica che va facendosi sempre meno compatibile con la verità. Politica e verità stanno imboccando sempre più strade diverse. Una certa politica (oltre ad essere autoreferenziale, oltre a trasformare il confronto in perenne rissa ideologica) costruisce verità virtuali per conservare e consolidare il suo potere. Nasce anche di qui la perenne autoassoluzione di se medesima da parte della politica, anche quando sono evidenti ed indiscutibili clamorose responsabilità, se non giudiziare, certamente politiche. La strada maestra ormai è confondere deliberatamente assoluzione con prescrizione. Non sono la stessa cosa, anche se confonderle ormai è la regola. Se una sentenza - magari una sentenza definitiva di cassazione - elenca come provati e commessi fatti gravissimi (scambi di favori con mafiosi; incontri con boss per discutere di fatti criminali gravissimi, compresi omicidi; senza mai denunziare niente di niente; contribuendo in questo modo ad un sostanziale rafforzamento della organizzazione criminale: il riferimento è al "caso Andreotti"), se tutto questo - in quella sentenza - si dice che è stato commesso fino a una certa data e che costituisce reato, non punibile ancorché commesso sol perché prescritto, questa non è assoluzione! E' un'altra cosa. Confondere la prescrizione di un reato provato come effettivamente commesso con l'assoluzione è prima di tutto un errore tecnico. Ma non solo. E' anche, è soprattutto un grave errore politico. Perché se io dico che c'è stata assoluzione, a fronte di fatti gravissimi accertati in una sentenza, io questi fatti li cancello, io questi fatti li sbianchetto. Ma cancellando questi fatti, io legittimo un certo modo di fare politica, che contempla anche rapporti organici con la mafia. E questo modo di fare politica lo legittimo per il passato, per il presente e anche per il futuro. Tutto ciò è di una gravità inaudita : si cancella il confine tra lecito ed illecito, tra morale ed immorale. Ma se cade questo confine, non c'è convivenza civile al mondo che possa reggere più di tanto. Prima o poi si va a sbattere. Tutti. E tutti ci si può ritrovare sotto un bel cumulo di macerie. Oppure si va alla deriva e si finisce chissà dove. E' l'eclissi della questione morale, quando la questione morale è la premessa fondamentale di ogni buona politica.

E allora si capiscono tante cose, a partire dalla mancanza di continuità. L'antimafia "militare" bene o male ormai procede costante (come prova la sequenza di arresti: da Riina e soci a Provenzano ai Lo Piccolo). Non così l'antimafia che voglia colpire la spina dorsale del potere mafioso, le cosiddette relazioni esterne, le complicità, le collusioni, le coperture. Su questo versante, si riesce a rimanere ad un certo livello - quando lo si raggiunge - per non più di due anni tre anni. Poi stop. Allora si capisce come la nostra antimafia sia quella del giorno dopo: se non succede qualcosa che ci costringe ad intervenire e finalmente ci sveglia dal nostro torpore, non ce ne occupiamo. Allora si capisce perché quel punto nevralgico dell'antimafia che è la gestione efficiente, razionale, incisiva dei beni confiscati ai mafiosi stia subendo -lentamente ma inesorabilmente - vischiosità ed inceppamenti che rischiano di svuotare e rendere sempre meno credibile una delle conquiste più importanti dei nostri tempi. Allora si capiscono le amnesie: per esempio l'anagrafe dei conti bancari, una legge del '93 che non è mai stata attuata. Sterilizzata fino ad oggi, con qualche recentissimo segnale di novità ancora tutto da verificare. Allora si capiscono le gaffes di chi dice che con la mafia bisogna convivere. E magari dice cose che tanti altri pensano anche se lo negano, ma poi le praticano.

E attenzione, che questo quadro insieme comporta delle scelte disastrose. Una recente ricerca della Svimez, e prima ancora una ricerca del Censis, dimostrano lo zavorramento dell'economia delle aree meridionali ad opera delle mafie. Zavorramento che significa 180 mila posti di lavoro perduti ogni anno; zavorramento che significa produzione di ricchezza in meno pari a 7,5 miliardi di euro ogni anno; zavorramento che significa (secondo il Censis) che senza le mafie il PIL pro-capite del mezzogiorno sostanzialmente sarebbe identico a quello del centro-nord. Ma non basta. Il Censis ha anche denunciato che il potere criminale è sempre più potere economico, al punto che sta trasformando radicalmente il mercato e la concorrenza in paraventi, simulacri, scatole vuote. Perché l'imprenditore mafioso - rispetto a quello onesto - gode di vantaggi enormi: capitali a costo zero (il mafioso è ricco di suo, grazie al denaro illecito che continuamente riempie le sue tasche); possibilità, proprio perché già immensamente ricco di suo, di offrire prezzi molto più bassi, non avendo come obiettivo immediato quello del profitto. E infine, se ci sono dei problemi l'imprenditore mafioso, rispetto all'imprenditore normale ha il vantaggio di poterli risolvere - questi problemi - coi sistemi che sono nel suo DNA di mafioso: la corruzione, la suggestione, l'intimidazione e la violenza. Vantaggi che spiazzano ogni concorrente pulito, ne comprimono gli affari o lo espellono dal mercato. Oppure lo spolpano fino a svuotarlo, consentendo ai mafiosi o ai prestanome dei mafiosi di impadronirsi di quelle attività.

Così, il libero mercato e la legale competizione economica diventano scatole sempre più vuote e la situazione è tale che bisogna soltanto sperare che Francesco De Gregori, quando cantava: "legalizzare la mafia sarà la regola del 2000", non fosse - mentre faceva della intelligente ironia - un profeta.

Caro direttore, sono stata una moderata, non certo per la forza della mia passione civile, quanto per i modi in cui ho fatto politica e i luoghi della mia collocazione politica: ho sempre militato nella Dc e di quel partito sono stata a lungo parlamentare.

Mi rivolgo pertanto a quei moderati che hanno a cuore come me le sorti dell’Italia, che rispettano le istituzioni e le regole democratiche e che sovente ho sentito dichiararsi discepoli di Alcide De Gasperi.

Non metto in dubbio la loro buona fede allorché li vedo non solo chiedere a gran voce, con la forza del loro potere di parlamentari, elezioni subito; ma li vedo già scendere in campagna elettorale in un momento tanto delicato, in cui gli stessi presidenti del Senato e della Camera hanno ribadito che questo è il tempo della riflessione, del silenzio, del lavoro del capo dello Stato.

Mi rendo conto – pur con un notevole sforzo di immaginazione e andando contro quello che è il mio modo di intendere la politica e di considerare gli avversari mai nemici e mai indegni di rispetto – che solo il loro desiderio di mettersi al più presto al servizio del Paese, di tornare a governare per "salvare" l’Italia, li abbia portati a brindare in Senato alla fine di un governo, pur sempre eletto democraticamente dalla maggioranza dei cittadini e delle cittadine di cui faccio parte anch’io.

Tuttavia, da moderata e da cattolica – educata negli ideali di Dossetti e di De Gasperi a rispettare, a difendere la laicità dello Stato e a legare strettamente l’onestà dei comportamenti all’operato politico – mi rivolgo ai tanti che ho visto maturare e crescere nelle file del mio partito, e a tutte le donne e agli uomini di buona volontà che vorranno ascoltare le mie parole. E, aggiungo, da partigiana.

Come potrei non fare riferimento a quella mia intensa, dolorosa, forte, esperienza, di giovane staffetta partigiana, in questi giorni del 2008, in cui si celebrano i sessant’anni della nostra Carta Costituzionale? Permettetemi di ricordarvi, quale testimone di quei lontani anni del primo dopoguerra, che rispettare la Costituzione non vuol dire solo rispettarne i contenuti, ma rendere omaggio ai tanti che hanno concorso a elaborarla, a quelle donne e a quegli uomini, quegli italiani, che sacrificarono la loro vita per la democrazia. Vuol dire non dimenticare le tante vittime civili, i tanti giovani e meno giovani morti in una guerra scatenata dalla follia di onnipotenza della Germania di Hitler e delle tante nazioni, tra cui ahimé l’Italia fascista di Mussolini, che combatterono al suo fianco.

Purtroppo ciò che ho visto, ho analizzato, ho capito, durante gli anni del mio lavoro quale presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli, mi spinge a vedere nella attuale crisi politica una grave situazione di emergenza democratica. Mi rendo conto che gli anni di Gelli e dei suoi compagni oggi appaiano lontani, ma quanto lontani?

Ebbene, insisto, e aggiungo che la parte del progetto di Gelli legato al discredito delle istituzioni democratiche, attuato dall’interno delle medesime e dalla loro esasperata conflittualità – che molti ultimi avvenimenti testimoniano – rischia di giungere all’atto conclusivo.

Immaginate quali guasti potrebbe arrecare al tessuto connettivo del nostro Paese una campagna elettorale – e ne abbiamo già visto un anticipo – vissuta all’insegna della selvaggia contrapposizione tra i due poli, della violenza verbale, degli insulti, di altro fango gettato sulle nostre istituzioni.

Anch’io ho vissuto la stagione infelice di tangentopoli, e in quegli anni mi sono battuta a viso scoperto perché non si cadesse nel facile qualunquismo del: così fan tutti.

Vorrei pregare le persone per bene di ribellarsi a questo luogo comune scellerato: chi ha le mani pulite, chi ha la coscienza a posto, pretende, ottiene, i distinguo. Concludo con una frase di Jacques Maritain: «Non si può costruire una democrazia se non c’è amicizia».

I conti pubblici sono a posto, le imprese da due anni «sgavazzano» con la riduzione dell'Irpeg e dell'Irap. Ora doveva essere il turno dei lavoratori dipendenti ai quali - l'aveva promesso Prodi - doveva essere destinato tutto l'extra gettiti, per cercare di recuperare un po' del potere d'acquisto perso negli ultimi anni. Dal 2000 al 2006 - ci ha detto ieri Bankitalia - il reddito netto delle famiglie il cui capofamiglia è lavoratori dipendenti è cresciuto solo dello 0,3%, mentre per i lavoratori autonomi sono stati anni di vacche grassissime: i loro redditi sono aumentati del 13,1%. Ma c'è di più: i dati Bankitalia ci dicono che il 10% dei ricchi posseggono il 45% di tutte le ricchezze nazionali, mentre il «rimanente» 90% si spartisce il 55% e nella ricchezza è compresa anche la casa di proprietà. Forse è giunto il momento di rilanciare l'idea di una imposta patrimoniale per cercare di rendere un po' meno disumano il paese per renderlo un po' meno «stato libero di Bananas».

Dal 2000 al 2006 ci sono stati due avvenimenti particolari: l'arrivo dell'euro e il governo Berlusconi. «Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani», era stato il fortunato slogan di Berlusconi e Tremonti. Purtroppo ai lavoratori dipendenti è stato rubato il portafoglio, mentre a chi non lavora sotto padrone è stato concesso tutto: condoni fiscali tombali, diritto di sfruttare e precarizzare grazie alla legge battezzata Biagi.

Per capirlo basta guardare con attenzione i dati di Bankitalia: negli ultimi due anni i redditi dei lavoratori dipendenti sono cresciuti più di quelli dei lavoratori autonomi. Purtroppo è solo parzialmente vero. Nelle famiglie italiane è cresciuto il numero dei percettori di reddito da lavoro, ma il salario percepito (spesso frutto di abuso di part-time) è stato appena sufficiente a bilanciare l'immobilità dei salari. Quanto ai redditi da lavoro autonomo, Bankitalia fa una ammissione molto onesta: attenti - ci dice - il lavoro autonomo ha varie forme. E così scopriamo che bottegai e artigiani seguitano a spassarsela, mentre altri autonomi vedono il loro reddito diminuire. Il trucco è che non si tratta di veri autonomi, ma di lavoratori atipici il cui numero sta crescendo in maniera esponenziale, direttamente proporzionale al loro basso livello retributivo.

Visco - il ministro più odiato dagli italiani evasori - ha fatto un grande sforzo per stanare chi non pagava le tasse. Un grande sforzo è stato fatto, come negli anni '90, allora per non perdere il treno dell'euro - per sanare i conti pubblici. Il risultato, purtroppo, è negativo: forse il risanamento andava fatto, ma doveva essere accompagnato da una politica di redistribuzione dei redditi ovviamente di segno opposto a quella di classe dei tempi di Berlusconi. Insomma, serviva una politica di rientro più soft e non una politica dei due tempi. Anche perché c'è il rischio che con Berlusconi il secondo tempo si trasformi in un primo tempo bis con nuovi benefici per le imprese (in nome della competitività), riduzioni fiscali spalmate su tutti e lavoro ancora più flessibile e precario.

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