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In Germania una coppia con due figli e un reddito annuo di 25.000 euro ne versa al fisco 52. In Italia una coppia con due figli e con lo stesso reddito, ne versa al fisco 1.700. In Francia il 40% dei bambini trova posto in un asilo nido, in Italia il 6%. Bastano forse queste due cifre per spiegare perché l´Italia ha, in Europa il più basso tasso di natalità: a Napoli nascono meno bambini per donna che a Stoccolma, a Roma meno bambini che a Parigi. Bastano queste cifre per sostenere con forza e convinzione l´accorato appello del nostro Presidente della Repubblica che, con la lettera pubblicata domenica sul nostro giornale, ha chiesto al nuovo Parlamento di «affrontare le politiche rivolte alla famiglia, con misure volte ad elevare il tasso di occupazione femminile, a conciliare la vita familiare e la vita lavorativa, a sviluppare azioni di assistenza sul territorio, a favorire una complessiva crescita del sistema nazionale dei servizi socioeducativi per l´infanzia…».

È una lettera importante che segnala, per la prima volta a nostra conoscenza e con tutta l´autorità del suo autore, un problema che ha assunto, nel corso degli anni, una rilevanza sempre maggiore e ormai drammatica.

Siamo l´unico paese ormai in Europa che manca di una organica politica a favore delle famiglie. È possibile che su questo tema ci sia stato un sospetto o un ritardo da parte della sinistra memore delle politiche «nataliste» del fascismo. Ma è per lo meno singolare che una politica organica a difesa delle famiglie non sia stata pensata e promossa nemmeno dalla Dc, che pure ha governato per oltre un cinquantennio il nostro paese. Quasi avesse prevalso, in quel partito, l´idea, o meglio la preoccupazione, che politiche di sostegno alla famiglia potessero liberare le donne dal loro tradizionale ruolo materno, incoraggiandole a uscire di casa per cercare soddisfazione e autonomia. Questo obiettivo, se tale era nella intenzione dei governanti dc, è stato almeno in parte raggiunto: la maggioranza delle donne italiane si qualificano infatti ancora oggi come "casalinghe". Sono soltanto 46 su 100 le donne italiane che hanno un´attività extradomestica contro il 71% in Svezia e il 57% in Francia.

Siamo dunque in Europa il paese in cui le donne sono meno presenti sul mercato del lavoro ma, contrariamente alle attese ed alle previsioni, le donne che restano a casa sono anche quelle che fanno meno figli. «Donne a casa e culle vuote» così Maurizio Ferrera, uno studioso del nostro welfare e delle politiche del lavoro, definiva recentemente la condizione del nostro paese. Una condizione paradossale anche perché tutti i sondaggi ci dicono che le coppie italiane vorrebbero avere almeno due figli. E perché tutti i dati ci dicono che nei paesi che hanno adottato adeguate politiche familiari le donne non solo fanno più figli, ma sono anche più presenti sul mercato del lavoro. Politiche familiari significa dunque aiuti alle famiglie, unite o meno in matrimonio, da realizzarsi sia attraverso una revisione delle attuali politiche fiscali sia attraverso una politica edilizia, sia attraverso un potenziamento dei servizi per la prima infanzia e per gli anziani e non autosufficienti.

In tema di servizi per la prima infanzia, il Consiglio d´Europa, nel 2002, ha fissato un obiettivo ambizioso: assicurare entro il 2010 un posto in asilo nido ad almeno un bambino europeo su tre. Noi siamo lontanissimi da quell´obiettivo che è stato già raggiunto non solo da tutti i paesi nordici ma anche da Francia, Gran Bretagna, Olanda e Belgio. In tema di assistenza a favore dei più anziani o non autosufficienti sono all´avanguardia, in Europa, la Germania e la Spagna che nel 2006 ha varato, soprattutto grazie all´impegno delle donne ministro, la Ley de dependencia che ha istituito un vero e proprio sistema nazionale, gratuito e garantito, per l´assistenza ai non autosufficienti

Servizi per la prima infanzia e per i non autosufficienti rappresentano gli assi centrali delle politiche familiari indicate come necessarie dal nostro Presidente della Repubblica. Sono servizi che tutti i paesi europei stanno realizzando, anche per favorire nuova occupazione femminile. Dicevamo all´inizio che in Germania una coppia con due figli e un reddito annuo di 25.000 euro versa al fisco solo 52 euro, contro i 1.700 euro versati al fisco da una analoga famiglia italiana. Una differenza non da poco, grazie al fatto che in Germania, come in Francia e in altri paesi europei vige il meccanismo del cosiddetto «quoziente familiare», un sistema cioè di tassazione del reddito familiare che tiene conto del numero dei componenti della famiglia. La norma è già stata proposta, almeno un paio di volte, in Italia ma sempre senza successo: una prima volta alla fine degli anni 80, e una seconda volta l´anno passato. Non sono pochi tuttavia gli studiosi che criticano un sistema che, sostengono, costerebbe troppo alle nostre finanze e, alla fine favorirebbe le famiglie con i redditi medio-alti ed alti. Poiché la proposta del «quoziente familiare» fa parte del programma del PdL, non mancherà l´occasione di discuterne in modo approfondito se e quando la proposta giungerà in Parlamento. Fin d´ora tuttavia credo sia possibile dire che nuove politiche familiari dovranno necessariamente comportare anche una revisione del nostro sistema fiscale.

Continuano a giungere indiscrezioni su come il governo si prepara ad affrontare la questione sicurezza. Dove per sicurezza si intende la lotta ai migranti, ai rom e ai clandestini. Sebbene tutte le statistiche dicano che le maggiori cause di delitto, in Italia, sono i «mariti» che pestano o uccidono le mogli, e poi la malavita organizzata (mafia, camorra e 'ndrangheta soprattutto). Non risulta però che nel decreto (o forse nel disegno di legge) ci saranno provvedimenti contro i mariti o contro la mafia.

Questo per un motivo molto semplice: quasi tutti i sociologi ci hanno spiegato che, di fronte al delitto, conta poco la arida realtà dei fatti, ma conta la percezione. I fatti sono fuffa, ideologia, pregiudizio marxista... Cioè che conta davvero è cosa si immagina la gente che accadrà e non cosa davvero accade; e dunque le leggi vanno ritagliate sulla misura della "percezione" e non della realtà. Che sarebbe un po' come se in un tribunale un giudice dicesse: «Caro amico, io lo so benissimo che lei non ha commesso questo delitto, perché le prove sono a suo favore; ma moltissime persone sono convinte invece che lei sia colpevole e quindi, visto che siamo tutta gente moderna, non posso fare altro che condannarla...».

Comunque le indiscrezioni (e le pubbliche dichiarazioni dei ministri) dicono che: primo, la condizione di clandestinità diventerà reato penale; secondo, gli attuali centri di permanenza temporanea per immigrati irregolari diventeranno centri di detenzione (per capirci meglio: campi di concentramento); terzo, contro l'immigrazione clandestina sarà schierato l'esercito.

Avrà pure prosciugato le paludi e realizzato il quartiere del-l'Eur, ma non si può affermare che il fascismo abbia modernizzato l'Italia. E bisogna andarci cauti con le «rivalutazioni striscianti» avverte Luciano Canfora — storico e saggista — perché se si legge la storia restando alla superficie si rischia, via via, di «mettere in pericolo l'architrave della Repubblica».

Il Ventennio «fondamentale» per la modernizzazione. Concorda con Alemanno, professore?

«Posso fare una premessa?».

Prego.

«L'autoproclamazione del sindaco, che dice di non essere fascista, vale fino a un certo punto. Può darsi anche che si sia pentito, ma una persona adulta non cambia repentinamente i propri convincimenti profondi. Rispettiamo l'autoconversione, però conserviamo un punto interrogativo sulla sua profondità».

Alemanno superficiale?

«La conferma della superficialità è proprio nella sostanziale rivalutazione del bilancio positivo del fascismo. Ricordo che nei primi anni '90 Berlusconi e Fini tracciarono un bilancio positivo del fascismo fino alle leggi razziali del '38. È una frase buffa, perché il fascismo sin dal '19 proclamò di essere razzista. Un dato che non può essere camuffato».

Però Alemanno parla solo della modernizzazione. Secondo lei non ci fu?

«Il sindaco riecheggia notizie prese di qua e di là. Gli storici dicono che negli anni '30 l'intera Europa vide un processo di modernizzazione, connessa al grande sviluppo industriale e al capitalismo maturo. Si sarebbe prodotto comunque, indipendentemente dal regime politico».

Mussolini prosciugò le paludi, fece edificare l'Eur e realizzare le infrastrutture.

«Anche Cesare aveva pensato modifiche di quel tipo. Fa parte dell'esercizio del potere dare corpo a un piano di lavori pubblici in un'epoca di relativa pace, ma non può essere il biglietto da visita di un regime. C'è un campo in cui è doverosa l'osservazione critica e cioè i fortissimi passi indietro dal punto di vista del principio di rappresentanza. L'Italia fascista fu imbrigliata nel corporativismo e le donne ottennero il diritto di voto solo dopo la Liberazione».

Non avrà paura che si torni ai figli della lupa, al sabato fascista, al salto nei cerchi di fuoco...

«In quegli aspetti c'è una forma supplementare di equivoco. Nessuno è contrario all'educazione completa, anche fisica. Ma nel caso del fascismo, con cose tipo libro e moschetto, si fece un uso distorto del culto del corpo e della violenza».

Nulla da rivalutare, dunque?

«Questo tipo di rivalutazione strisciante è nell'aria e bisogna stare attenti ai manuali per le scuole, dove prima o poi qualcuno comincerà a infilare questi concetti. Noi abbiamo una Costituzione scritta che discende direttamente dalla Resistenza e dalla lotta di liberazione, attenti a non mettere in pericolo l'architrave della nostra Repubblica».

Nessun imprenditore decide un investimento senza prima averne studiato con cura i costi e i benefici sotto diversi scenari possibili. Ma a questa procedura non hanno diritto i cittadini italiani, cui viene chiesto di finanziare le infrastrutture (almeno 1000 euro a testa solo per l'Alta Velocità) senza che mai sia stata fatta un'analisi costi-benefici seria di alcun progetto. Sgombriamo subito il campo da un equivoco: si dice spesso che alcune di queste infrastrutture hanno un valore simbolico, e che sarebbe miope fermarsi a un ragionieristico confronto tra i costi e i benefici. Forse. Ma per un Paese niente ha un valore simbolico maggiore della compagnia di bandiera, eppure gli imprenditori italiani si sono ben guardati (giustamente) dal mettere mano al portafoglio per Alitalia: perché mai dovrebbero chiedere agli italiani di fare diversamente con l'Alta Velocità? Si dirà che degli studi esistono. Ma essi sono lontani dagli standard internazionali, e sono spesso poco più che documenti di propaganda politica. Per esempio, sulla Torino-Lione uno studio assai citato della Commissione europea si basa fra l'altro sull'ipotesi assurda di un aumento dei transiti ferroviari merci tra Italia e Francia di circa sei volte da qui al 2030, quando negli ultimi dieci anni essi sono scesi di oltre il 40 per cento. L'unico tentativo di analisi costi-benefici seria per la Torino-Lione, quella di Rémi Proud'Homme su lavoce.info, mostra una perdita in valore attuale netta per la società di 25 miliardi, includendo i risparmi di tempo di percorrenza, le minori emissioni, la diminuzione degli incidenti stradali.

Il ponte sullo Stretto non è da meno: come hanno denunciato Andrea Boitani e Marco Ponti, fu dichiarato fattibile in base a un'analisi a valore aggiunto, che stima (generosamente) i benefici sull'economia locale ma ignora i costi. E nonostante l'enorme aumento dei costi (per l'Alta Velocità di tre volte) rispetto alle previsioni iniziali, non si è controllato che gli investimenti rimanessero vantaggiosi.

Dunque alla tipica famiglia di quattro persone vengono chiesti 4mila euro solo per l'Alta Velocità senza alcun dibattito, quando per poche centinaia di curo fra tasse, sussidi e detrazioni di una tipica Finanziaria ci si scanna per mesi interi.

Perché grandi imprese, media e politici di tutti gli schieramenti hanno collaborato per anni a stendere un muro di omertà su questi argomenti? Se i vantaggi sono così ovvi, perché tanta paura di un'analisi costi-benefici seria affidata a un ente indipendente? Ma solo la retorica è consentita « Non possiamo restare tagliati fuori dall'Europa», diceva Ciampi: ma tutte le modalità di trasporto esistenti per la Francia sono lontanissime dalla saturazione. E per la governatrice del Piemonte Mercedes Bresso «la Torino-Lione è un'opera essenziale per abbattere lo smog»: ma come ha mostrato Francesco Ramella, anche azzerando il traffico di Tir verso la Francia, le emissioni piemontesi si ridurrebbero dell'1%, al prezzo di 16 miliardi per il contribuente. Sicuramente ci sono dei modi più efficienti per ottenere questo risultato irrisorio.

Certo, dati e fatti diventano irrilevanti se contano solo i simboli. Ma che cosa avrebbe un valore simbolico maggiore, sia per i cittadini italiani sia per l'immagine del nostro Paese all'estero: una galleria ferroviaria in più, o far rinascere le nostre città sempre più degradate, invivibili e impresentabili, liberandole da graffiti, sporcizia, disordine e microcriminalità? Si può rispondere che infrastrutture e rinascita urbana non sono incompatibili; ma la realtà è che l'enfasi sulle prime distoglie il dibattito e le risorse dalla seconda. Per questa è necessario soltanto un oscuro lavoro di ordinaria amministrazione, che avrebbe risultati più tangibili a un costo enormemente inferiore. Ma, ahimè, è anche un lavoro meno gratificante politicamente e personalmente che procurarsi infrastrutture e grandi eventi.

Nessun imprenditore farebbe eseguire un piano di investimenti colossale da un management che ha generato perdite per venti anni di fila. Eppure, agli italiani viene chiesto di affidare sulla fiducia un giocattolo da 70 miliardi di euro a un'organizzazione, le Ferrovie dello Stato, che è riuscita ad aumentare i tempi di percorrenza sulla Milano-Treviglio nonostante il quadruplicamento della tratta, e sulla Milano-Reggio Calabria nonostante la costruzione della direttissima Firenze-Roma. Un'organizzazione che da anni non riesce a risolvere un problema elementare come la pulizia dei treni, i quali anzi diventano sempre più sporchi e puzzolenti nonostante decine di proclami. Ancora una volta, che cosa sarebbe più utile per l'immagine del Paese: ripulire i treni utilizzati da milioni di turisti stranieri o fare una galleria di dubbia utilità a costi esorbitanti sotto una montagna che nessuno visita?

I veti aprioristici degli ambientalisti sono forse antistorici, ma perché impedire qualsiasi riflessione sull'effetto di questi investimenti sul paesaggio, che rimane pur sempre uno dei principali asset del nostro Paese? Eppure non si può disconoscere che i lavori infrastrutturali hanno spesso avuto effetti dirompenti da questo punto di vista. Nonostante i loro eccessi, gli ambientalisti hanno ragione: deturpare una vallata per ridurre le emissioni dell'1% al costo di 16 miliardi è un buon investimento per le imprese appaltatrici, ma non per il Paese.

Infine, da più parti si sentono profonde preoccupazioni per l'impatto che opere come il ponte sullo Stretto possono avere sulla criminalità organizzata. La 'ndrangheta uccide per un appalto pubblico di pochi milioni in un piccolo Comune calabrese: possiamo ben immaginare che appetiti scatenerà un appalto da miliardi di euro. È un problema simbolico anche questo?

Forse gli imprenditori hanno delle risposte ovvie e convincenti a tutte queste domande. Se così è, saremo tutti lieti di conoscerle. Ma per rispetto dei cittadini italiani, per una volta lasciamo perdere la retorica.

Normalmente inseriamo articoli dai quotidiani il giorgo stesso o quello successivo. Pubblichiamo eccezzionalmente questo articolo da un quotidiano di oltre una settimana fa per il suo interesse.

Sarà anche vero che la sinistra non ha capito la gente, che è lontana dalla realtà, come negarlo. Ma anche i grandi giornali non scherzano. Per esempio: dopo gli acuti strali lanciati dalla grande stampa contro la pubblicazione in rete dei redditi 2005 degli italiani, pare che i lettori non siano così scandalizzati. Populismo di sinistra, tuonano gli editoriali. E anche: gogna! E pure: violazione della privacy! Tutti più o meno d'accordo nel dire che quei dati non dovevano esser messi in rete (salvo naturalmente pubblicarne a dozzine e centinaia). Ma poi, guarda tu come va il mondo, gli stessi giornali chiedono ai loro lettori: è giusto pubblicarli in rete? Risultati: l'84% dei lettori di Repubblica dice sì. Il 54 e passa per cento dei lettori del Corriere dice sì. È abbastanza per sostenere che hanno perso il contatto coi loro lettori? La faccenda è piuttosto strabiliante. Ma non la faccenda dei redditi, che alla fine è una cosuccia veniale che spiega poco e nulla sul Paese. Ciò che strabilia è che ci siano costantemente informazioni in libertà vigilata. Beppe Grillo riempie una piazza, un blog, arringa e infiamma centinaia di migliaia di persone. È un fatto pubblico. Ma se una trasmissione tivù riprende le sue parole (diritto di cronaca) apriti cielo: era una faccenda pubblica, ma perché renderla «troppo» pubblica? I redditi degli italiani sono pubblici, ce lo ripetono come un mantra proprio quelli contrari alla pubblicazione, ma così, dicono, sono «troppo» pubblici. Maledizione, eccoci al cospetto di una parola elastica, per cui una cosa è teoricamente nota a tutti, ma se lo diventa davvero scattano infiniti problemi, dalla privacy all'opportunità, dall'istigazione all'invidia sociale, fino all'istigazione al sequestro di persona, come se la mafia avesse bisogno dei redditi pubblicati su internet. Alla fine, resta la sensazione di vivere in un posto in cui c'è una specie di libertà vigilata. Tutto libero, ma non troppo, tutto pubblico, ma non troppo. Tutto trasparente, ma non troppo. Tutto un po' stupido. Un po' troppo.

La lotta di classe? C´è stata e l´hanno stravinta i capitalisti. In Italia e negli altri Paesi industrializzati, gli ultimi 25 anni hanno visto la quota dei profitti sulla ricchezza nazionale salire a razzo, amputando quella dei salari, e arrivare a livelli impensabili ("insoliti", preferiscono dire gli economisti). Secondo un recente studio pubblicato dalla Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, nel 1983, all´apogeo della Prima Repubblica, la quota del prodotto interno lordo italiano, intascata alla voce profitti, era pari al 23,12 per cento.

Di converso, quella destinata ai lavoratori superava i tre quarti. Più o meno, la stessa situazione del 1960, prima del "miracolo economico". L´allargamento della fetta del capitale comincia subito dopo, nel 1985. Ma per il vero salto bisogna aspettare la metà degli anni ´90: i profitti mangiano il 29 per cento della torta nel 1994, oltre il 31 per cento nel 1995. E la fetta dei padroni, grandi e piccoli, non si restringe più: raggiunge un massimo del 32,7 per cento nel 2001 e, nel 2005 era al 31,34 per cento del Pil, quasi un terzo. Ai lavoratori, quell´anno, è rimasto in tasca poco più del 68 per cento della ricchezza nazionale.

Otto punti in meno, rispetto al 76 per cento di vent´anni prima. Una cifra enorme, uno scivolamento tettonico. Per capirci, l´8 per cento del Pil di oggi è uguale a 120 miliardi di euro. Se i rapporti di forza fra capitale e lavoro fossero ancora quelli di vent´anni fa, quei soldi sarebbero nelle tasche dei lavoratori, invece che dei capitalisti. Per i 23 milioni di lavoratori italiani, vorrebbero dire 5 mila 200 euro, in più, in media, all´anno, se consideriamo anche gli autonomi (professionisti, commercianti, artigiani) che, in realtà, stanno un po´ di qui, un po´ di là. Se consideriamo solo i 17 milioni di dipendenti, vuol dire 7 mila euro tonde in più, in busta paga. Altro che il taglio delle aliquote Irpef.

Non è, però, un caso Italia. Il fenomeno investe l´intero mondo sviluppato. In Francia, rileva sempre lo studio della Bri, la fetta dei profitti sulla ricchezza nazionale è passata dal 24 per cento del 1983 al 33 per cento del 2005. Quote identiche per il Giappone. In Spagna dal 27 al 38 per cento. Anche nei paesi anglosassoni, dove il capitale è sempre stato ben remunerato, la quota dei profitti è a record storici. Dice Olivier Blanchard, economista al Mit, che i lavoratori hanno, di fatto, perduto quanto avevano guadagnato nel dopoguerra. Forse, bisogna andare anche più indietro, al capitalismo selvaggio del primo ‘900: come allora, in fondo, succede poi che il capitalismo troppo grasso di un secolo dopo arriva agli eccessi esplosi con la crisi finanziaria di questi mesi.

Ma gli effetti sono, forse, destinati ad essere più profondi. C´è infatti questo smottamento nella redistribuzione delle risorse in Occidente dietro i colpi che sta perdendo la globalizzazione e il risorgere di tendenze protezionistiche: da Barack Obama e Hillary Clinton, fino a Nicolas Sarkozy e Giulio Tremonti.

Sostiene, infatti, Stephen Roach, ex capo economista di una grande banca d´investimenti come Morgan Stanley, che la globalizzazione si sta rivelando come un gioco in cui non è vero che vincono tutti. Secondo la teoria dei vantaggi comparati di Ricardo, la globalizzazione doveva avvantaggiare i paesi emergenti e i loro lavoratori, grazie al boom delle loro esportazioni. E quelli dei paesi industrializzati, grazie all´importazione di prodotti a basso costo e alla produzione di prodotti più sofisticati. «E´ una grande teoria - dice Roach - ma non funziona come previsto».

Ai lavoratori cinesi è andata bene, ma quelli americani ed europei non hanno mai guadagnato così poco, rispetto alla ricchezza nazionale. Sono i capitalisti dei paesi sviluppati che fanno profitti record: pesa l´ingresso nell´economia mondiale di un miliardo e mezzo di lavoratori dei paesi emergenti, che ha quadruplicato la forza lavoro a disposizione del capitalismo globale, multinazionali in testa, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori dei paesi sviluppati. Quanto basta per dirottare verso le casse delle aziende i benefici dei cospicui aumenti di produttività, realizzati in questi anni, lasciandone ai lavoratori le briciole. Inevitabile, secondo Roach, che tutto questo comporti una spinta protezionistica nell´opinione pubblica, a cui i politici si mostrano sempre più sensibili.

Ma il ribaltone nella distribuzione della ricchezza in Occidente è, allora, un effetto della globalizzazione? Non proprio, e non del tutto. Secondo gli economisti del Fmi, nonostante che il boom del commercio mondiale eserciti una influenza sulla nuova ripartizione del Pil, l´elemento motore è, piuttosto, il progresso tecnologico. Su questa scia, Luci Ellis e Kathryn Smith, le autrici dello studio della Bri, osservano che il balzo verso l´alto dei profitti inizia a metà degli anni ´80, prima che le correnti della globalizzazione acquistino forza. Inoltre, l´aumento della forza lavoro disponibile a livello mondiale interessa anzitutto l´industria manifatturiera, ma, osservano, non è qui - e neanche nei servizi alle imprese, l´altro terreno privilegiato dell´offshoring - che si è verificato il maggior scarto dei profitti.

Il meccanismo in funzione, secondo lo studio, è un altro: il progresso tecnologico accelera il ricambio di macchinari, tecniche, organizzazioni, che scavalca sempre più facilmente i lavoratori e le loro competenze, riducendone la forza contrattuale. E´ qui, probabilmente, che la legge di Ricardo, a cui faceva riferimento Roach, si è inceppata. Il meccanismo, avvertono Ellis e Smith, è tutt´altro che esaurito e, probabilmente, continuerà ad allargare il divario fra profitti e salari in Occidente.

Dunque, è la dura legge dell´economia a giustificare il sacrificio dei lavoratori, davanti alla necessità di consentire al capitale di inseguire un progresso tecnologico mozzafiato? Neanche per idea. La crescita dei profitti, sottolinea lo studio della Bri, «non è stato un passaggio necessario per finanziare investimenti extra». Anzi «gli investimenti sono stati, negli ultimi anni, relativamente scarsi, rispetto ai profitti, in parecchi paesi». In altre parole «l´aumento della quota dei profitti non è stata la ricompensa per un deprezzamento accelerato del capitale, ma una pura redistribuzione di rendite economiche».

La lotta di classe, appunto.

«Relativismo non vuol dire nulla! Non ne posso più di sentir parlare a vanvera di relativismo! Gli «ismi» in genere sono flatus vocis, parole vuote, che non significano nulla fintanto che non si spieghi specificatamente cosa si intenda dire. Fini non è né un filosofo né un teologo: lasciamo perdere le sue citazioni filosofiche o i suoi omaggi teologici al Pontefice».

Il filosofo Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, non nasconde la sua irritazione per il dibattito politico-culturale seguito al discorso di Gianfranco Fini da neo-presidente della Camera. Ammette però di apprezzare un passaggio: quello in cui si afferma che «la minaccia alla libertà non viene dalle ideologie antidemocratiche del secolo scorso, ormai sepolte nella quasi totalità delle coscienze».

Ma sul relativismo, lei boccia Fini?

«Se per relativismo si intende il fatto che la libertà viene declinata sempre più in termini individualistici ed egoistici sono perfettamente d´accordo con Fini. Ma questo è solo un aspetto del problema. Siamo in un'epoca molto difficile proprio perché tutti sono diventati democratici. Ed è difficilissimo capire cosa significhi democrazia. E allora bisogna ridefinire il termine. Questo è il punto».

Nessuno spettro mussoliniano o stalinista alle porte?

«Fini ha ragione: non viviamo più in anni nei quali ci si debba preoccupare di pericoli di carattere autoritario o totalitario».

Quali sono invece i veri pericoli per la democrazia oggi?

«È in atto una evidente crisi della democrazia. Si tratta di una crisi del principio di rappresentanza. Una crisi di sovranità. Che deriva in parte dall'autorevolezza o meno del ceto politico, ma anche da cause più strutturali. Penso alla potenza degli apparati tecnico-economici-finanziari, che non funzionano certo sulla base di principi democratici. Esiste un difficile problema di rapporti tra sfera politica e sfera economica, sfera politica e sfera finanziaria, sfera politica e sfera tecnico-scientifica. Questi sono i problemi del futuro. Che dovremo affrontare tutti insieme».

Se ne è parlato riservatamente per giorni tra salotti, comitati elettorali e redazioni dei giornali. E ieri i presunti retroscena dello stupro della giovane studentessa africana avvenuto la scorsa settimana a La Storta — periferia nord di Roma — sono diventati materia di scontro tra i candidati a sindaco della capitale. Ha iniziato Rutelli: «Alcune di queste vicende degli ultimi giorni sono state anche un po' sospette. Ma non tocca a me parlarne, indagheranno le forze dell'ordine, indagherà la magistratura ».

Immediata la replica di Alemanno: «Si è toccato il fondo. Sono preoccupato di come Rutelli sta affrontando quest'ultimo scorcio di campagna elettorale». Poi ha rivelato: «Si lascia intendere chissà che cosa intorno allo stupro della studentessa del Lesotho nei pressi della stazione La Storta. È una cosa talmente fantascientifica che non so se fa più ridere o piangere. Come si fa a strumentalizzare il dolore? Sottacqua dicono che è stata la destra a organizzare lo stupro della studentessa del Lesotho. Sono dei cialtroni e vanno rimandati a casa».

A mettere in pubblico alcune «stranezze» dello stupro alla Storta era stato, mercoledì scorso, il sito internet Dagospia, pubblicando una lettera siglata MD che ricalca una e-mail fatta circolare dall'ex assessore della giunta Veltroni, oggi consigliere regionale del Pd, Mario Di Carlo. «Ricevo e giro», avvertiva il politico per dire che non è lui la fonte primaria dell'informazione. Nel messaggio ci si chiedeva come fosse possibile che un rumeno senza fissa dimora nominasse un avvocato del calibro di Marcello Pettinari, «famoso penalista difensore del magistrato Metta indagato nell'ambito del processo Lodo Mondadori che vedeva indagati Berlusconi, Pacifico, Previti e Squillante».

E faceva notare che Pettinari ebbe in gioventù un passato missino, mentre uno dei soccorritori della ragazza di colore violentata, «guarda caso, firma con Alemanno con tanto di foto sul Messaggero del 22 aprile 2008 il patto per la legalità e la sicurezza». Conclusione della lettera: «Agatha Christie faceva dire a Poirot che quando ci sono tre coincidenze diventano un indizio».

In questo caso l'indizio sarebbe quello di un concentrato un po' sospetto di uomini di destra intorno alla vicenda. Al quale il Secolo d'Italia ha replicato ieri mattina con un articolo intitolato «Rutelliani disperati: il rumeno? Assoldato dal Pdl». E la nomina di Pettinari, che non ricorda di essere stato missino e oggi si autodefinisce «liberale convinto», era stata spiegata dall'interessato al Riformista (che aveva ripreso Dagospia) in questi termini: il rumeno aveva in tasca un biglietto da visita di un avvocato suo amico, Cesare Sansoni, risalente a un trasloco di un paio di anni fa; chiamò lui, che però è un civilista e quindi ha passato il caso al figlio Antonio e a suo zio, Marcello Pettinari.

Sempre ieri l'agenzia Ansa ha diffuso un'altra notizia che alimenterebbe l'indizio nato dalle coincidenze riassunto nella e-mail: una donna rumena «che lavora in un negozio di generi alimentari sulla via Cassia », dunque vicino alla Storta, avrebbe testimoniato in un interrogatorio svoltosi nei giorni scorsi in Procura, che «nella comunità rumena della capitale sarebbero circolate voci secondo le quali Joan Rus, l'uomo accusato di aver violentato la studentessa del Lesotho, potrebbe essere stato coinvolto in un gesto tendente a screditare la comunità stessa». La testimone avrebbe detto di aver «sentito queste voci tra i suoi connazionali », senza poter affermare se rispondessero alla realtà.

In Procura la notizia di questa testimonianza sul rumeno mandato a violentare una ragazza di colore non trova riscontro. Anzi, viene smentita. Confermata solo la deposizione del «salvatore» della vittima, Bruno Musci, ufficialmente secretata dagli inquirenti per evitare possibili «inquinamenti » derivanti da interviste sui giornali o in tv. Ma è una deposizione durata ben quattro ore, e di solito su un verbale si mette il segreto quando emergono novità che vanno verificate. Per esempio tempi e modalità con cui lo stesso Musci e il suo amico Massimo Crepas hanno dato l'allarme ai carabinieri. La donna avrebbe anche detto che pochi giorni prima dell'aggressione la moglie del violentatore era tornata in Romania. Per il marito, che i connazionali conoscerebbero come un tipo «violento e aggressivo », i difensori hanno chiesto la perizia psichiatrica.

A Ballarò il candidato-sindaco del centrodestra, Gianni Alemanno, ha dipinto martedì sera un quadro «terroristico» di Roma, parlando di «sgoverno», di «situazione terribile», di «città fuori controllo». La più sonora smentita gli viene dai dati reali della Questura di Roma: nel raffronto fra i primi trimestri dell’anno, dal 2006 al 2008, l’ultimo presenta il segno meno in quasi tutti i reati.

Meno omicidi volontari (da 9 a 6), meno violenze sessuali (dalle 53 dell’anno passato alle 35 di quest’anno), meno furti, molti di meno, meno rapine (- 35%), meno reati connessi alla droga e così via. Dati che confermano, del resto, la tendenza nazionale al calo annunciata dal ministro dell’Interno Giuliano Amato che ne ha scritto, inascoltato, sul primo numero della rinata rivista Amministrazione civile del suo dicastero.

Pochi giorni or sono, il New York Times ha scritto, fra l’altro, che, a Roma, «uscire a cena è una cosa perfettamente sicura, grazie ad una bassa percentuale di criminalità», la capitale non è stata mai così sicura, anche «dopo il crepuscolo», dai tempi dell’imperatore Traiano. Firmato Jan Fisher che vive qui e sa quello che dice su giorni e notti romane.

Del resto, se la Roma odierna fosse quella dipinta a tinte fosche dal candidato-sindaco della destra, per quale masochismo sarebbero venuti l’anno scorso nella Città Eterna oltre 9 milioni di turisti che vi hanno soggiornato per alcuni giorni? Masochisti fino in fondo perché, intervistati dalla Doxa, oltre la metà di loro, il 51 per cento, ha risposto che non era alla prima vacanza sul Tevere. Dunque erano già stati fra noi e si erano trovati così bene da volerci tornare. Tutto ciò l’anno scorso, in pieno «sgoverno» veltroniano, secondo il fantasioso e cupo Alemanno (nomen/omen).

Il quale però non si è fermato lì e per quasi tutta la serata ha continuato a dipingere a tinte fosche la realtà romana, costellata di delitti, di stupri, di rapine e così via. Abbiamo già fornito la secca smentita che viene dai dati reali. Ma aggiungiamo qualcosa. Noi non siamo soliti attribuire ai sindaci le responsabilità relative al tasso di criminalità di questa o quella città, ben sapendo che i loro poteri in materia sono abbastanza scarsi. Però, siccome l’onorevole Alemanno insiste nel gettare la croce (celtica?) addosso a Rutelli e a Veltroni, andiamo a vedere, in base al Rapporto del Viminale sul 2006, cosa è successo realmente a Roma e cosa è accaduto oggettivamente a Milano dove, fra Lega, Forza Italia e An, il governo della città il centrodestra ce l’ha dallo stesso 1993 in cui Rutelli fu eletto per la prima volta in Campidoglio. Possiamo così constatare che negli omicidi volontari Roma è a 1 ogni centomila abitanti contro 1,7 di Milano che risulta superiore persino alla media nazionale di 1 e mezzo. Pessima graduatoria quindi. Che rimane tale per le rapine dove Milano (sempre riferendosi ai centomila abitanti) ne registra quasi il doppio di Roma, o per i furti in appartamento (336 contro i 257 di Roma).

Nello scenario truculento messo in piedi alla bell’e meglio da Alemanno c’è il discorso, in sé gravissimo, sulla droga. Anche in questo caso però gli va molto male, peggio anzi del previsto. Perché se a Roma, nel 2006, è stata denunciata una persona per spaccio di stupefacenti, a Milano, nello stesso anno, ne sono state denunciate poco meno di due. Di questi, quanti sono risultati stranieri? Uno immagina che nell’inferno romano cupamente affrescato da Gianni Alemanno siano, in percentuale, molti di più i delinquenti di nazionalità straniera, e invece no, essi risultano molti di più a Milano: quasi il 58% là contro il 40% qui. Percentuali che, in ogni caso, esigono più prevenzione, attenzione e rigore repressivo. Su un reato il candidato-sindaco della destra potrebbe avere le sue ragioni: per i furti di auto e moto Roma batte Milano, ma, insomma, non è un reato cruento o pericoloso come ammazzare qualcuno oppure spacciare droga.

Insomma, se esistesse un delitto di «terrorismo sociale e turistico», l’onorevole Alemanno potrebbe esserne accusato con ampia facoltà di documentazione e di prova. In effetti ha ragione Francesco Rutelli ad usare un solo aggettivo, liquidatorio, per quel suo comizio: irresponsabile. Apprendisti stregoni che scherzano col fuoco, che lo alimentano, aiutati da telegiornali e giornali dove l’Italia, e Roma con essa, per un omicidio avvenuto chissà dove fanno grondare di sangue il video per giorni e giorni. Così la provincia di Pavia - dove c’è, sì e no, un omicidio l’anno - per la vicenda irrisolta di Garlasco si tinge di sangue. Così Perugia dipinta, da mesi ormai, come una sorta di Sodoma e Gomorra d’Italia.

E poi ci lamentiamo se all’estero, nella stessa Europa, ci considerano un Paese fermo, seduto, anzi ripiegato su se stesso. Nella graduatoria degli omicidi volontari l’Italia è scesa, in cifra assoluta, dai 1.441 del 1992 ai 621 nel 2006, e da 4 ogni centomila italiani a 1,5. Con una netta diminuzione (specie in Sicilia) degli assassinii dovuti alla criminalità organizzata e con un aumento invece dei delitti passionali o familiari, cresciuti da 97 a 192 l’anno. La criminalità organizzata comunque «firma» tuttora un quinto degli omicidi volontari. Nonostante questa presenza malavitosa, tuttora sanguinaria, il tasso di omicidi si colloca in Italia in linea con le medie europee.

Sulle violenze sessuali - che oggi ben più di ieri vengono denunciate da chi le subisce - ha detto bene Rutelli: per una quota elevata, purtroppo, esse avvengono ad opera di persone conosciute dalla vittima, consanguinei oppure partner, parenti, amici, quindi fra le mura domestiche. La violenza sulla donna o sul minore non viene percepita fra quelle mura come un crimine vero e proprio. Sciaguratamente. Poiché questo appena descritto è lo scenario oggettivo della criminalità in Italia rispetto al resto dell’Europa e del mondo, poiché questo è il quadro autentico della criminalità a Roma che l’Interpol ha definito qualche anno fa la capitale più sicura fra quelle dei Paesi sviluppati, come mai la propaganda «sfascista» sull’Italia e su Roma può attecchire tanto? Perché la nostra informazione, in speciali modo quella in tv, con rare eccezioni, proietta - soprattutto nei periodi in cui al governo c’è il centrosinistra - una immagine largamente distorta della realtà criminale dando conto, spesso come prima notizia negli «strilli» dei Tg, di un delitto avvenuto chissà dove, amplificato poi per mesi, se la notizia è morbosamente ghiotta (Cogne, Garlasco, Perugia, ecc.), da tutti i possibili talk-show, a cominciare da Porta a porta. Ogni tanto vedo i Tg europei e non trovo nulla di paragonabile, di «oscenamente» paragonabile. E pensare che, secondo il Censis, oltre il 60% si forma proprio dalla tv un’opinione sulle cose. Che inganno, che manipolazione, che tremenda responsabilità civile.

Roma. Gianfranco Fini se ne va per mercati in passeggiata elettorale «controllando» il permesso di soggiorno degli ambulanti. Se voleva documentare il disordine, non gli va troppo bene. Al semaforo di Forte Boccea, il venditore di accendini, egiziano, mostra i documenti in ordine. Più avanti altri due egiziani. Altri due permessi di soggiorno esibiti. Conclude il prossimo presidente della Camera dei Deputati (ride, ma non deve essere molto soddisfatto): «Dico, non è possibile che tutti siano in regola, mi sa proprio che i documenti se li comprano».

Altra città. Altra scena. Bologna. Il consiglio comunale approva un ordine del giorno per dotare la polizia municipale di spray urticanti e «manganelli», da usare nelle intenzioni soltanto per legittima difesa perché tra la pistola e le mani nude ci deve essere uno strumento intermedio, si sente dire. Sempre Bologna. Il sindaco Sergio Cofferati non gradisce che si parli di «ronde», ma conferma che saranno chiamati «volontari» a svolgere «compiti di assistenza alla cittadinanza più debole e a segnalare comportamenti scorretti o pericolosi».

Sembra diffondersi, come un’onda impetuosa, una sicurezza «fai da te». Ogni maggioranza comunale, ogni sindaco, ogni partito con troppo o pochi voti, agita la questione per proprio conto, con una propria iniziativa - «ronde», «volontari», ordinanze contro lavavetri, controlli del reddito degli immigrati. Una babele dove quel che conta, non pare essere l’efficacia dell’iniziativa, la sua coerenza con una «politica», ma l’eco mediatica che avrà, il dividendo politico che sarà possibile incamerare pronta cassa. Non c’è di niente di peggio - e di più dannoso - che l’approssimazione, quando si hanno di fronte problemi seri.

Abbiamo imparato, nel corso del tempo, a capire che le politiche pubbliche in tema di sicurezza ridisegnano il profilo stesso della società (mai che si ascolti un qualche ragionamento, a questo proposito); che molte esperienze hanno messo in dubbio l’efficacia delle politiche criminali nel controllo dei conflitti e dei fenomeni illeciti; che il senso di insicurezza non è necessariamente connesso all’esistenza di pericoli "concreti", ma spesso ha a che fare con il genere, l’età, l’esperienza di vita, la familiarità con l’ambiente in cui si vive, il senso di appartenenza a una comunità. Ilvo Diamanti ci ha spiegato come l’insicurezza sia un sentimento diffuso, che riflette un timore concreto, reale; ma anche un’inquietudine più nebbiosa. Non è un scherzo affrontare, con politiche pubbliche efficaci e condivise, la sovrapposizione della Paura, figlia di uno spaesamento esistenziale, con le paure provocate da minacce concrete. Appena l’anno scorso l’Osservatorio Demos-Coop, ha documentato come «entrambi i sentimenti stanno montando, senza freni». L’83% degli italiani ritiene che negli ultimi 5 anni la criminalità, nel nostro Paese, sia cresciuta. Nella precedente rilevazione, che risale a 2 anni fa, questa percentuale era già alta: 80%. È cresciuta ancora. È aumentata l’insicurezza locale. Nel 2005, il 34% delle persone percepiva in crescita l’illegalità nella zona di residenza. Oggi, quella componente è salita di oltre 10 punti percentuali. Ha superato il 44%. L’incertezza - è la conclusione delle ricerca - si sta insinuando nel nostro mondo, nelle nostra vita. Intorno a noi. Dentro noi stessi. Stentiamo a trovare un rifugio nel quale sentirci protetti. Infatti, il 57% delle persone si dicono preoccupate della criminalità nella zona in cui vivono. Quasi 10 punti più di due anni fa.

Si può affrontare una catastrofe «emotiva» e concretissima così imponente con qualche alzata d’ingegno, con una mossa del cavallo, con un’iniziativa propagandistica e qualche posa gladiatoria? Non pare. Eppure è quel che accade in un clima di allegra spensieratezza secondo un canovaccio che attribuisce alla «destra» la capacità di «combattere la criminalità». Lo pensa il 40% degli italiani mentre solo il 18 riconosce una qualche fiducia al centrosinistra che appare debole, incerto, incapace di comprendere, spiegare, affrontare il fenomeno. E proprio per questo è chiamato a dotarsi ora di una «cultura della sicurezza» moderna, non ideologica, arricchita dai valori del rispetto della dignità della persona. A giudicare da quel che si è visto ieri, e nei giorni addietro, «destra» e «sinistra» sembrano muoversi nella stessa direzione sbagliata. Frammentarietà e approssimazione degli interventi. Qualche sceneggiata propagandistica. Che finiranno soltanto per aumentare la percezione di insicurezza che affligge il Paese.

La società di costruzioni Condotte, terza in Italia per fatturato, non ha più il certificato antimafia. A darne notizia è stato un comunicato del ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, che ha precisato di aver “dato disposizioni all’Anas affinché adotti con urgenza tutti i provvedimenti previsti dalla legge relativamente ai rapporti contrattuali in corso con la Società Italiana per Condotte d’Acqua Spa, cui è stata revocata dal Prefetto di Roma la certificazione antimafia”.

E la risposta dell’Anas non si è fatta attendere. Interpellata dal Sole 24 ore la società ha annunciato: “Abbiamo provveduto in giornata (ieri, ndr) alla revoca di tutti i contratti in essere e alla comunicazione del provvedimento a Condotte”. Da ieri, quindi, sono bloccati tre lotti della Salerno-Reggio Calabria: le tratte Serre-Mileto da 91 milioni e la Mileto-Rosarno (il lotto A vale 41 milioni e il lotto B 26) e un maxilotto della Ss Jonica (la variante di Palizzi da 87 milioni). Ancora incerta la sorte dei cantieri: per ora l’Anas ha deciso solo di revocare il contratto con Condotte. Deve ancora valutare se procedere a una riassegnazione con gara oppure se, soprattutto nei caso di lavori ormai quasi finiti (come ad esempio sulla Serre-Mileto) si possano tentare anche strade più brevi, come il subentro del raggruppamento secondo classificato.

Ma il no al certificato antimafia rischia di provocare un effetto domino su moltissime della grandi opere in corso di realizzazione in Italia nelle quali è impegnata Condotte: a cominciare dall’Alta velocità ferroviaria (sia sulla Roma-Napoli che sulla Torino-Novara) passando poi per il Mose di Venezia e per finire da ultimo anche alla Nuvola di Fuksas, appalto da 221 milioni vinto da Condotte appena a dicembre 2007. Per la Nuvola sarebbe il secondo stop dopo il braccio di ferro con la prima impresa, la Dec di Bari che ha bloccato per anni il progetto.

Il nulla osta antimafia è richiesto in varie fasi dell’appalto e non solo all’inizio. Serve per ottenere i pagamenti in ogni fase di avanzamento dei lavori. Anche se ogni prefettura è autonoma nella valutazione discrezionale sul provvedimento, nei casi come questo, di imprese di rilievo internazionale, è scontato che anche le altre prefetture si adegueranno e negheranno anche per gli altri appalti il visto.

Al momento non si ha notizia di indagini in corso sui vertici della società: il problema, come ha spiegato lo stesso Di Pietro nel comunicato, riguarda piuttosto “la gestione di alcuni cantieri dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e della nuova strada statale 106 Jonica”. Il diniego del nullaosta antimafia deciso dal Prefetto di Roma – spiega Bruno Frattasi alla guida del Comitato di sorveglianza sulle grandi opere – è stato preso dopo numerose verifiche del gruppo interforze di Reggio Calabria, che ha visitato più volte i cantieri trovando un contesto ambientale inquinato”. Le indagini secondo Di Pietro avrebbero evidenziato “uno stretto legame tra la società e la criminalità organizzata calabrese”. Anche il comitato diretto dal prefetto Bruno Frattasi e incaricato di vigilare sulle grandi opere della legge obiettivo ha fornito un parere negativo al Prefetto di Roma sul rilascio.

Sorpresa e stupore da parte della società romana. “Siamo attoniti – commenta il vicepresidente di Condotte, Duccio Astaldi – perché completamente all’oscuro di tutto. Nella vicenda ci dovremmo sentire parte lesa: avevamo denunciato noi per primi che nelle forniture di calcestruzzo nel cantiere sulla strada statale Jonica qualcosa non funzionava”. In un comunicato poi la società si è detta certa che “tutto verrà chiarito e risolto in tempi rapidi” e ha auspicato “che tutti gli organi competenti, verso cui esprime la massima fiducia, agiscano nel pieno rispetto dei loro poteri”. Impossibile per ora pensare a un ricorso: “Non abbiamo ricevuto alcun provvedimento: lo abbiamo saputo dal comunicato del Ministro”.

Condotte è la terza impresa di costruzioni italiana per fatturato. Secondo l’ultimo bilancio disponibile, nel 2006 ha avuto un giro d’affari d 713 milioni con un utile di 6,9 milioni. È anche una delle più antiche; è stata fondata nel 1880 e ora fa capo a Ferfina (holding della famiglia Bruno). Ma il sospetto dell’infiltrazione mafiosa e il conseguente blocco di tutti gli appalti in Italia potrebbero portarla al fallimento. Prima ad esprimere solidarietà è stata l’associazione di categoria dei grandi general contractor, l’Agi, secondo la quale la revoca dei contratti “avrebbe effetti di devastante gravità per una delle maggiori, più antiche e più qualificate imprese del settore”.

Berlusconi, per come racconta la cronaca e come lo ricordo io che fui anche testimone diretto, è stato l’inventore delle cordate fasulle.

La più celebre fu quella della Sme, passata anche sui tavoli della giustizia civile e penale. Per bloccare il contratto già firmato tra De Benedetti e l’Iri, s’inventò un’inesistente cordata guidata da un suo prestanome, certo Scalera, che rimise in gioco l’accordo per il tempo necessario a riaprire il gioco. Poi Scalera scomparve, scomparve fisicamente, e la cordata Fininvest-Ferrero-Barilla ne prese il posto, ma era fasulla anche quella. Alla fine lui si ritirò e Ferrero-Barilla si divisero le spoglie della Sme. In quel caso la Fininvest non aveva altro interesse che fare un favore politico a Craxi. Il compenso fu il famoso decreto soprannominato "decreto Berlusconi" con il quale il governo bloccò la sentenza della Corte Costituzionale autorizzando le televisioni Fininvest a trasmettere in barba alla sentenza della Corte e dei tribunali che le avevano emesse.

Non fu il solo caso. Ce n’erano stati altri all’epoca della guerra di Segrate, che vide ancora una volta opposti lui da un lato e la Cir di De Benedetti dall’altro e che culminarono nel famoso "lodo Mondadori" anch’esso transitato sui tavoli della giustizia civile e penale con esiti a volte a lui favorevoli a volte contrari, sepolti infine dalla prescrizione.

Il personaggio è dunque coniato in questo modo, se ne infischia dei conflitti d’interesse, se ne infischia delle leggi e se ne strainfischia delle norme europee. Guarda al sodo, al suo interesse, animato dall’istinto del combattente e dagli spiriti animali d’un capitalismo senza regole.

Però questa volta non gioca sul tavolo delle tre carte. Questa volta – credetemi – fa sul serio. La cordata italiana lui la vuole veramente e riuscirà a farla decollare in un modo o in un altro, magari imbarcando per la strada i tedeschi o i fondi americani o qualche arabo di quelli che lui conosce.

Questa volta gioca da presidente del Consiglio "in pectore". L’Alitalia la considera cosa sua e considera cosa sua anche l’hub di Malpensa e quello di Fiumicino. Considera cosa sua i sindacati di Alitalia e quelli della Sea. Anche di Linate. Anche i dieci aeroporti che infiocchettano il lombardo-veneto da Bergamo a Treviso.

Si è calato interamente nella figura del leader autoritario preconizzato da Giulio Tremonti. Decide la politica, l’economia segue. Il mercato, se ostacola i suoi disegni, vada a farsi fottere. E se necessario vada a farsi fottere anche l’Europa tecnocratica.

Dio, Patria, Famiglia e ora anche Alitalia. Tremonti dixit.

* * *

È opportuno a questo punto valutare oggettivamente i costi dell’operazione cominciando dall’Alitalia e dal piano industriale presentato da Air France, che prevede un investimento immediato di due miliardi di euro.

Questa cifra è la somma di 150 milioni di esborso per gli azionisti di Alitalia, più 600 milioni di rimborso delle obbligazioni emesse da quella società, più l’assunzione dei debiti che figurano nel bilancio della Compagnia di bandiera. Air France si è anche impegnata a ricapitalizzare l’azienda con un miliardo di capitale. E fanno tre. Ci vogliono dunque tre miliardi per assumere il controllo di Alitalia e assicurarle il capitale di funzionamento. Ma resta che la Compagnia continuerà a perdere a dir poco 350 milioni l’anno se non sarà risanata e rilanciata.

Il corso Spinetta, che fa l’amore col progetto Alitalia ormai da quindici anni, prevede di portare la società al profitto entro cinque anni col taglio degli esuberi, il rinnovamento della flotta, l’abbandono di Malpensa e un investimento complessivo di 6,5 miliardi entro il 2013 nel quadro di un grande gruppo che comprende Air France, Klm, e la stessa Alitalia.

L’impegno totale dell’acquisto e del rilancio contempla dunque 10 miliardi di investimenti. Queste sono le cifre di partenza.

* * *

Ma per una cordata patriottica che abbia come obiettivo di rilanciare non solo Alitalia ma anche Malpensa tutelando i sindacati interni delle due aziende senza tuttavia smantellare Linate e tanto meno gli altri aeroporti padani, il costo dell’investimento non si ferma qui.

Senza eliminare gli esuberi non si risana un bel niente. Quanto a Malpensa le perdite attuali ammontano a 200 milioni annui. Per arrivare all’aeroporto partendo da Milano si impegna un’ora e venti minuti. Ci vogliono quindi altri investimenti indispensabili in strada e ferrovia. I diritti di traffico dell’Alitalia dovranno poi essere divisi tra i tre aeroporti di Malpensa, Fiumicino e Linate. La Sea non ha un soldo e deve essere ricapitalizzata.

Non si è dunque lontani dal vero ipotizzando che la cordata patriottica dovrà darsi carico di almeno altri 4 miliardi entro il 2013, da aggiungere ai 10 previsti da Air France. Totale quattordici. Ammesso che due hub siano un peso sostenibile.

Non mi sembra che Toto sia affidabile per un’impresa di queste dimensioni né mi sembra che Banca Intesa si possa accollare da sola una responsabilità di questo genere.

I nomi chiamati in causa e cioè Ligresti, Bracco, Soglia, Moratti, Fininvest, Della Valle, possono mobilitare l’un per l’altro 200 milioni a testa. Sapendo che nessuno di loro guiderà l’operazione. Cordata patriottica, appunto. Come la fede d’oro per finanziare la conquista dell’Impero.

Comunque un miliardo o giù di lì. Ne mancano almeno altri tredici. Ma il leader patriottico non bada a queste quisquilie. Lui guiderà il governo, su questo non ha dubbi. È in grado di compensare chi lo aiuta. Troverà il modo. E poi c’è lo Stato. Lo Stato pagherà. Il rischio e l’investimento saranno distribuiti sulle spalle dei contribuenti e dei risparmiatori. Sarà lanciato un prestito obbligazionario. Si formerà un consorzio di banche. Al Tesoro ci sarà Tremonti il creativo. Tremonti il protezionista. Tremonti il colbertiano. Che vuole la politica autoritaria alla testa dell’Europa e dell’Italia. Amico di Sarkozy.

La Cassa Depositi e Prestiti avrà un ruolo. Mediobanca anche.

Naturalmente le risorse che saranno gettate su Alitalia-Malpensa dovranno essere sottratte da altri impieghi. Ma la decisione è politica. Se il Capo è d’accordo, si va alla guerra e così sia.

Dio, naturalmente, è con noi e intanto ci farà vincere le elezioni, che è ciò che conta.

* * *

I sindacati incontreranno Spinetta il 25 prossimo, dopodomani. Forse sul cargo tratteranno (cinque vecchi aerei, 135 piloti per guidarli, 200 milioni di fatturato annuo, 70 milioni annui di perdita). Forse si aprirà uno spiraglio sugli esuberi di AZ Servizi e sul tempo di dismissione.

Se rompono la crisi sarà immediata. Se rompono si assumono i rischi della rottura perché Spinetta è stato chiaro su questo punto: senza l’accordo con i lavoratori mi ritiro. E’ un ricatto? A me sembra un dato di fatto e un segno di considerazione. Ma ognuno decide con la sua testa.

Può darsi però che i sindacati non rompano, che il piano industriale francese li convinca, ma che abbiano bisogno di qualche giorno per perfezionarlo.

Può darsi che cinque giorni, dal 25 al 31 marzo, non bastino. Può darsi che ne vogliano dieci o giù di lì. Spinetta concederà quei pochi giorni fissando una data certa e accettata? Prodi e Padoa-Schioppa accetteranno una proroga breve con data prefissata e non superabile?

Esprimo un’opinione personale: una proroga di cinque o sei giorni oltre il 31 marzo sembra accettabile. Oltre quel limite non lo è.

Quanto al prestito che Berlusconi chiede al governo, Prodi ha già detto che non si può fare se non è garantito da un soggetto bancabile. La Ue vieta operazioni di prestito a rischio da parte di un governo ad una società per azioni.

Al di là di questo non ci sono altri orizzonti che l’amministrazione controllata. Significa congelamento dei debiti, nomina d’un commissario giudiziale, risanamento con vendita delle poche attività e concordato con i creditori. Esuberi? Da quel momento la controparte dei sindacati sarà il commissario. La flotta continuerà a volare? Così come Parmalat continuò a produrre il suo latte e i suoi yogurt?

C’è una differenza di fondo tra i due casi: la gestione di Parmalat era attiva ma il capitale finanziario non c’era più. Per Alitalia invece il capitale finanziario non c’è più e la gestione è in pesante passivo.

Affinché la flotta continui a volare occorre che i fornitori vendano il carburante a credito, la manutenzione e il personale di volo e di terra lavori senza sapere se a fine mese gli stipendi saranno pagati. Una situazione ovviamente impossibile quale che siano le opinioni in proposito di Giordano, Diliberto e Pecoraro Scanio.

Berlusconi strillerà e con lui Fini. E con loro Formigoni e la Moratti che sono tra i principali responsabili del flop di Malpensa. E gli elettori?

Nessuno può dire quale sarà l’effetto dell’affaire Alitalia-Malpensa sugli elettori del Nord. Forse la maggioranza se ne infischia o forse no. Quanto agli industriali, è un fatto che in quindici anni da quando dura quest’agonia sotto quattro diversi governi, gli industriali del Nord nessuno li ha visti. Avevano altri pensieri. Li vedremo oggi? Daranno oro alla Patria? In barba al mercato? Col solo vantaggio d’essere i finanziatori di Berlusconi?

Tutto è possibile. Nel 1921 finanziarono Mussolini pensando che sarebbe stato una marionetta nelle loro mani. Non fu così, ma quando se ne accorsero era troppo tardi. Dovettero aspettare vent’anni e una catastrofe epocale.

Qui se ne preparano altri cinque e siamo ancora alle prese con lo stesso leader, lo stesso personale politico, la stessa Lega, lo stesso Fini, gli stessi "ascari" con i cannoli o senza cannoli.

Ma il popolo è sovrano. A volte decide per il suo bene, a volte si dà il martello sui piedi, a volte resta a casa a guardare lo spettacolo dalla finestra. E questa è la cosa peggiore che possa accadere.

Quel che è avvenuto a Bolzaneto nel 2001 è la violazione simultanea e flagrante di tre importanti trattati internazionali che l'Italia aveva contribuito ad elaborare e si era solennemente impegnata a rispettare: la Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950, il Patto dell'Onu sui diritti civili e politici del 1966, e la Convenzione dell'Onu contro la tortura del 1984. A Bolzaneto sono stati inflitti trattamenti disumani e degradanti ma, in più casi, anche vere e proprie torture.

I trattamenti disumani e degradanti, vietati dalla Convenzione europea, sono quelli che causano sofferenze fisiche o mentali ingiustificate e umiliano e abbrutiscono una persona. Ad esempio, la Corte europea vietò all'Inghilterra di infliggere come pena la fustigazione di minorenni condannati; condannò la Turchia perché due ufficiali avevano commesso atti di violenza carnale nella zona nord di Cipro senza essere puniti; censurò la Lettonia per aver detenuto in un carcere carente di strutture adeguate un condannato paraplegico e non autosufficiente, causandogli 'sentimenti costanti di angoscia, inferiorità ed umiliazione'. Anche tenere ventidue ore al giorno più detenuti in celle anguste, senza servizi igienici, costituisce trattamento disumano e degradante - come fu rimproverato all'Inghilterra.

Quando si ha invece tortura? Quando i maltrattamenti o le umiliazioni causano gravi sofferenze fisiche o mentali, ed inoltre la violenza è intenzionale: si compiono volontariamente contro una persona atti diretti non solo a ferirla nel corpo o nell'anima, ma anche ad offenderne gravemente la dignità umana; e ciò allo scopo di estorcere informazioni o confessioni, o anche di intimidire, discriminare o umiliare. "Datemi un pezzettino di pelle e ci ficcherò dentro l'inferno", è quel che un grande scrittore americano fa dire ad un aguzzino. La tortura è proprio ciò: l'inferno nel corpo o nell'anima. È tortura l'uso di elettrodi su parti delicate del corpo, il fatto di provocare un quasi-soffocamento (infilando un sacchetto di plastica sul capo), o quasi-annegamento (si tiene una persona a testa in giù, inondandole di acqua la bocca e il naso, così da darle la sensazione di annegamento), o picchiare con forza e a lungo sul capo di una persona con un elenco telefonico, fino a provocare capogiri o svenimenti. Queste e tante altre forme di violenza sono state concordemente considerate tortura da autorevoli giudici internazionali.

A Bolzaneto quasi tutti i 200 e passa arrestati vennero sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, come risulta dagli atti dei pubblici ministeri, riassunti nell´incisivo reportage di D'Avanzo pubblicato su questo giornale. Ma in più di un caso si andò oltre e si trattò di vera e propria tortura. Ad esempio, nel caso di A.D. che – cito D'Avanzo – «arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella 'posizione della ballerina' [in punta di piedi]. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole, lo minacciano di 'rompergli anche l'altro piede'. Poi gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano 'Comunista di merda'». Penso anche al caso di G.A., arrivato ferito a Bolzaneto: «Un poliziotto gli prende la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due 'fino all´osso'. G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G.A. ha molto dolore. Chiede 'qualcosa' Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare». Questi fatti, se confermati dai giudici, costituiscono tortura. Così come si arriva alla soglia della tortura in altri casi apparentemente meno gravi, ma in cui l´effetto cumulativo di più comportamenti (insulti, pestaggi ripetuti, umiliazioni soprattutto nei confronti delle donne, spesso lasciate nude agli sghignazzamenti e agli scherni dei poliziotti), è tale da causare gravi sofferenze mentali (spesso anche fisiche).

Orbene, di fronte a questi fatti cosa si può fare in Italia? Visto che siamo legati da importanti trattati internazionali, se i giudici non infliggeranno adeguate punizioni e significativi risarcimenti, si potrà fare ricorso alla Corte Europea. Ma non basta. La Corte di Strasburgo potrà tutt'al più accertare la violazione della Convenzione europea da parte dell'Italia e condannare il nostro Governo a risarcire i danni morali e materiali. Più significativo sarebbe che i nostri giudici potessero condannare per tortura coloro che fossero ritenuti colpevoli di tali atti. Ma è impossibile: come è noto, anche se la Convenzione dell´Onu del 1984 ne impone l'emanazione, una legge che vieti specificamente la tortura manca ancora in Italia – benché ben 20 progetti di legge siano stati presentati in Parlamento dal 1996.

Come mai? In genere in Italia tardiamo ad attuare trattati internazionali, per insipienza, lentezze burocratiche, ottuse resistenze della pubblica amministrazione. Nel caso della tortura è lecito però sospettare che la mancanza di una legge sia dovuta anche ad una precisa volontà politica di certi partiti: la volontà di non consentire che i colpevoli dei fatti di Bolzaneto venissero puniti adeguatamente. È significativo che nella penultima legislatura (2001-2006), quando sembrava di essere in dirittura di arrivo, all'improvviso la Camera approvò a maggioranza, in plenaria, un emendamento della Lega che richiedeva per la tortura la sussistenza di "reiterate violenze o reiterate minacce" (non basterebbe torturare solo una volta, bisognerebbe torturare la stessa persona ieri, oggi e domani, per essere puniti!). Anche se successivamente si tornò al testo originario, la legislatura si chiuse senza alcuna legge, così come è avvenuto nel 2006-2008.

Se i giudici confermeranno la ricostruzione dei fatti e le tesi dei pubblici ministeri, si avranno due conseguenze, già sottolineate da altri: taluni fatti non verranno chiamati per nome e cognome (tortura), ma con termini generici, inadatti a rifletterne la gravità, come «abuso di ufficio» e «violenza privata»; e i reati cadranno presto in prescrizione.

Per il futuro, non ci resta che sperare che il prossimo Parlamento sia meno inefficiente. E che le «autorità amministrative competenti» traggano le debite conseguenze da condanne di funzionari dello Stato che infangano il buon nome delle forze dell'ordine, la cui stragrande maggioranza rispetta e tutela i diritti umani. E non si tema di continuare a protestare: il giorno in cui smettiamo di indignarci per fatti come quelli di Bolzaneto, la democrazia è morta in Italia.

Domani sono cinque anni. Era il 20 marzo del 2003 e i primi missili salparono dalle navi al largo del Golfo Persico diretti su Baghdad. Avvertiti per tempo, pochi direttori di giornali statunitensi si piazzarono davanti alla tv per non perdersi i primi lampi verdi nella notte di Baghdad e all'Hotel Palestine i reporter cominciarono a strillare nei microfoni. Quella notte un missile più grosso degli altri sventrò il palazzo che una spiata aveva indicato come il covo di Saddam, non era vero e la guerra continuò per un altro pugno di settimane, i figli del dittatore cacciati come bestie, macellati ed esposti come trofeo di caccia, il dittatore stesso stanato dal suo buco, rasato ed impiccato davanti a un telefonino con telecamera. «Major combat is over», Bush lo annunciò in maggio su una portaerei con più cineprese che cannoni. Non era vero nemmeno quello ma a chi importava? L'Iraq era stato vinto in un attimo, senza alcun onore - se mai ve n'è in una guerra - i bombardieri americani spianavano la strada alla fanteria americana che spianava la strada alle salmerie della ricostruzione, la stampa occidentale scherniva i fantaccini iracheni che si arrendevano in massa mentre Halliburton e soci firmavano contratti che avrebbero arricchito alcuni e mandato altri in galera per truffa. Lo stato canaglia moriva sepolto di missili e bugie. Intanto il mondo cambiava. Il primo a sparire fu il principio che gli stati si riconoscono tra loro e tra loro si possono difendere ma non aggredire. Era il trattato di Westfalia, datava tre secoli e mezzo, bruciò come carta vecchia. Morì anche l'Onu ma non se ne accorse e oggi si ostina ad esistere in un palazzo di vetro a New York ma non più nelle coscienze di un pianeta mutato. A che serve una legge sovranazionale se funziona benissimo la legge del più forte?

Dotata delle moderne protesi tecnologiche, la superpotenza mondiale rimasta ha sancito l'eversione dalla struttura legale che governava il mondo e ha fatto della soggezione dell'altro la leva e il motore di una nuova storia. La seconda superpotenza mondiale, come il New York Times battezzò l'opinione pubblica in quelle giornate di cinque anni fa, non tardò a liquefarsi come l'illusione generosa che era. I dettagli rimasti, come il divieto di torturare i nemici, vennero sepolti ad Abu Ghraib. In Italia la sinistra di governo ha avuto in una guerra, quella per il Kosovo, uno dei suoi atti fondativi: sradicata nei punti cardinali, disseccata nei molti vegetali a cui la sua toponomastica si è riferita negli anni, ha continuato per quella strada. La sinistra cosiddetta radicale ha avuto nella guerra la prima forca caudina davanti alla quale piegarsi per fedeltà di coalizione, avviando la crisi in cui oggi si dibatte. Messi insieme i partiti arcobaleno valgono il 13% ma pregano per l'8% e qualcosa vorrà dire. Sì, il governo Prodi si è ritirato dall'Iraq, ma quando ormai lo prometteva anche Berlusconi. E in questa campagna elettorale della guerra non si fa minuziosamente parola, è cosa remota. Molto remota. Domani sono cinque anni

Marco Poggi, infermiere penitenziario, entrò in servizio a Bolzaneto alle 20 di venerdì 20 luglio 2001 e ci rimase fino alle 15, 15.30 di domenica 22 luglio. «Ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con schiaffi, pugni, calci, testate contro il muro».

«Picchiava la polizia di stato ma soprattutto il "gruppo operativo mobile" e il "nucleo traduzioni" della polizia penitenziaria. Ho visto trascinare un detenuto in bagno, da tre o quattro agenti della "penitenziaria". Gli dicevano: "Devi pisciare, vero?". Una volta arrivati nell´androne del bagno, ho sentito che lo sottoponevano a un vero e proprio linciaggio…».

Marco Poggi dice che sa che cos´è la violenza. «Ci sono cresciuto dentro. Ho "rubato" la terza elementare ai corsi serali delle 150 ore e sono andato infermiere in carcere per buscarmi il mio pezzo di pane. Per anni ho lavorato al carcere della Dozza a Bologna. Un posto mica da ridere. Tossici, ladri di galline, mafiosi, trans, stupratori. La violenza la respiravi come aria, ma quel che ho visto a Bolzaneto in quei giorni non l´avrei mai ritenuto possibile, prima. Alcuni detenuti non capivano come fare le flessioni di routine previste dalla perquisizione di primo ingresso in carcere. Meno capivano e più venivano picchiati a pugni e calci dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli ufficiali, i sottufficiali guardavano, ridevano e non intervenivano. Ho visto il medico, vestito con tuta mimetica, anfibi, maglietta blu con stampato sopra il distintivo degli agenti della polizia penitenziaria, togliere un piercing dal naso di una ragazza che era in quel momento sottoposta a visita medica e intanto le diceva: "Sei una brigatista?"».

Marco Poggi è «l´infame di Bolzaneto». Così lo chiamavano alcuni agenti della "penitenziaria" e lui, in risposta, per provocazione, per orgoglio, per sfida, proprio in quel modo - Io, l´infame di Bolzaneto - ha voluto titolare il libro che raccoglie la sua testimonianza. Poggi è stato il primo - tra chi era dall´altra parte - a sentire il dovere di rompere il cerchio del silenzio. «Delle violenze nelle strade di Genova - dice - c´erano le immagini, le foto, i filmati. Tutto è avvenuto alla luce del sole. A Bolzaneto, no. Le violenze, le torture si sono consumate dietro le mura di una caserma, in uno spazio chiuso e protetto, in un ambiente che prometteva impunità. Solo chi l´ha visto, poteva raccontarlo. Solo chi c´era poteva confermare che il racconto di quei ragazzi vittime delle violenze era autentico. Io ero tra quelli. Che dovevo fare, allora? Dopo che sono tornato a casa da Genova, per giorni me ne sono stato zitto, anche con i miei. Io sono un pavido, dico sempre. Ma in quei giorni avevo come un dolore al petto, un sapore di amaro nella bocca quando ascoltavo il bla bla bla dei ministri, le menzogne, la noncuranza e infine le accuse contro quei ragazzi. Non ho studiato - l´ho detto - ma la mia famiglia mi ha insegnato il senso della giustizia. Non ho la fortuna di credere in Dio, ho la fortuna di credere in questa cosa - nella giustizia - e allora mi sono ripetuto che non potevo fare anch´io scena muta come stavano facendo tutti gli altri che erano con me, accanto a me e avevano visto che quel che io avevo visto. Ne ho parlato con i miei e loro mi hanno detto che dovevo fare ciò che credevo giusto perché mi sarebbero stati sempre accanto. E l´ho fatta, la cosa giusta. Interrogato dal magistrato, ho detto quel che avevo visto e non ci ho messo coraggio, come mi dicono ora esagerando. Non sono matto. Ci ho messo, credo, soltanto l´ossequio per lo stato, il rispetto per il mio lavoro e per gli agenti della polizia carceraria - e sono la stragrande maggioranza - che non menano le mani».

Marco Poggi ha pagato il prezzo della sua testimonianza. «Beh! - dice - un po´ sì, devo dirlo. Dopo la testimonianza, in carcere mi hanno consigliato - vivamente, per dire così - di lasciare il lavoro. Dicevano che quel posto per me non era più sicuro. Qualcuno si è divertito con la mia auto, rovinandomela. Qualche altro mi ha spedito la mia foto con su scritto: "Te la faremo pagare". Il medico con la mimetica e gli anfibi mi ha denunciato per calunnia. Ma il giudice ha archiviato la mia posizione e con il lavoro mi sono arrangiato con contratti part-time in case di riposo per anziani. Oggi, anche se molti continuano a preoccuparsi della mia integrità più di quanto faccia solitamente la mia famiglia, sono tornato a lavorare in carcere, allo psichiatrico di Castelfranco Emilia. Mi faccio 160 chilometri al giorno, ma va bene così. Sono tutti gentili con me, l´infame di Bolzaneto».

Dice Marco Poggi che «se i reati non ci sono - se la tortura non è ancora un reato - non è che te li puoi inventare». Dice che lui «lo sapeva fin dall´inizio che poi le condanne sarebbero state miti e magari cancellate con la prescrizione». Dice Poggi che però «quel che conta non è la vendetta. La vendetta è sempre oscena. Il direttore del carcere di Bologna Chirolli - una gran brava persona che mi ha insegnato molte cose sul mio lavoro - ci ripeteva sempre che lo Stato ha il dovere di punire e mai il diritto di vendicarsi. Mi sembra che sia una frase da tenere sempre a mente. Voglio dire che importanza ha che quelli di Bolzaneto, i picchiatori, non andranno in carcere? Non è che uno voglia vederli per forza in gabbia. La loro detenzione potrebbe apparire oggi soltanto una vendetta, mi pare. Quel che conta è che siano puniti e che la loro punizione sia monito per altri che, come loro, hanno la tentazione di abusare dell´autorità che hanno in quel luogo nascosto e chiuso che è il carcere, la questura, la caserma. Per come la penso io, la debolezza di questa storia non è nel carcere che quelli non faranno, ma nella sanzione amministrativa che non hanno ancora avuto e che non avranno mai. Che ci vuole a sospenderli da servizio? Non dico per molto. Per una settimana. Per segnare con un buco nero la loro carriera professionale. È questa la mia amarezza: vedere i De Gennaro, i Canterini, i Toccafondi al loro posto, spesso più prestigioso del passato, come se a Genova non fosse accaduto nulla. Io credo che bisogna espellere dal corpo sano i virus della malattia e ricordarsi che qualsiasi corpo si può ammalare se non è assistito con attenzione. Quella piccola minoranza di poliziotti, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria, medici che è si abbandonata alle torture di Bolzaneto è il virus che minaccia il corpo sano. Sono i loro comportamenti che hanno creato e possono creare, se impuniti, sfiducia nelle istituzioni, diffidenza per lo Stato. Possono trasformare gli uomini in divisa - tutti, i moltissimi buoni e i pochissimi cattivi - in nemici del cittadino. Non ci vuole molto a comprendere - lo capisco anch´io e non ho studiato - che soltanto se si fa giustizia si potrà restituire alle vittime di Genova, ai giovani che vanno in strada per manifestare le loro idee, fiducia nella democrazia e non rancore e frustrazione. I giudici fanno il loro lavoro, ma devono fare i conti con quel che c´è scritto nei codici, con quel che viene fuori dai processi. Non parlo soltanto dei processi, è chiaro. Parlo della responsabilità della politica. Che cosa ha fatto la politica per sanare le ferite di Genova? Gianfranco Fini, che era al governo in quei giorni, disse che, se fossero emerse delle responsabilità, sarebbero state severamente punite. Perché non ne parla più, ora che quelle responsabilità sono alla luce del sole? Perché Luciano Violante si oppose alla commissione parlamentare d´inchiesta? Dopo sette anni questa pagina nera rischia di chiudersi con una notizia di cronaca che dà conto di una sentenza di condanna, peraltro inefficace, senza che la politica abbia fatto alcuno sforzo per riconciliare lo Stato e le istituzioni con i suoi giovani. Ecco quel che penso, e temo».

Ci incontriamo nell'ufficio di Ken all'ottavo piano della City Hall e stiamo ancora chiacchierando, prima di cominciare davvero l'intervista, quando Ken esce correndo dalla stanza e rientra sventolando un documento. La vecchia energia e entusiasmo non sono chiaramente diminuiti. «Guarda - dice - guarda qui... Stiamo progettando di presentare questo il 27 febbraio. E' la strategia di riduzione del carbone per la città fino al 2025-30. E può essere realizzato. Si può davvero ottenere il 60% di riduzione nelle emissioni. Si basa tutto sul cambiamento di atteggiamento e sulle tecnologie esistenti. Tutto ciò che serve è la volontà politica».

E come si genera?

Ah... beh, continuando instancabilmente a parlare di queste cose. Bisogna acquistare consenso, spingere tutto in avanti. Vedo almeno un ministro alla settimana e lo faccio da sei anni e mezzo. Sì fanno progressi dolorosamente lenti, e di tanto in tanto si torna indietro, magari perché uno di questi ministri ti dice che serve un'altra pista a Heathrow.

La tua priorità ora paiono essere i cambiamenti climatici.

Sì, ma se non riusciremo a ridurre le emissioni di carbonio sarà una catastrofe. I capitalisti più sensibili riconoscono il problema. Al tempo del Greater london council (Glc), l'arena politica internazionale rispecchiava la divisione di classe nella società e le imprese avevano totalmente aderito al Thatcher-pensiero. Ma le grandi imprese adesso sono un alleato forte su tutta una serie di questioni, dai cambiamenti climatici al miglioramento della specializzazione della forza lavoro, all'investimento nei trasporti pubblici. Non sono più loro il nemico, sono i comuni (sia quelli in mano ai laburisti che quelli guidati da conservatori e liberali). E poi c'è il governo, che è terrorizzato da quello che potrebbe dire il Daily Mail.

Parli molto di rendere Londra una città globale sostenibile. Quando eravamo nel Glc ci preoccupavamo di evitare che Londra diventasse thatcheriana. C'è qualcosa di equivalente oggi?

Allora stavamo promuovendo una strategia economica alternativa. E avevamo anche un piano per ridurre il numero di abitanti da 8 milioni e mezzo a 6. Ma le cose sono andate al contrario. Adesso bisogna lottare per contenere il più possibile la crescita di Londra. La densità immobiliare è aumentata del 300% per ettaro in quattro anni. E dato che la maggioranza della popolazione mondiale oggi vive in città bisogna trovare il modo di farle funzionare in maniera sostenibile. Poi c'è la questione della struttura. Nel Glc abbiamo fatto il possibile per impedire il declino dell'industria manifatturiera e nulla per incoraggiare business e finanza, ma quella battaglia è stata completamente persa. I servizi commerciali e finanziari sono raddoppiati e rappresentano oltre un terzo dei posti di lavoro a Londra, mentre l'industria è scesa a 300mila posti e sta ancora calando. La situazione che abbiamo di fronte certamente non è quella che avremmo scelto. A produrla è stato il big bang della Thatcher.

Finora le cose su cui ti sei concentrato sono la City e i cambiamenti climatici. Quando parli di Londra come città globale, cosa intendi?

Beh, mi pare chiaro che Londra si sia avvicinata a città come New York.

In che termini?

In termini di servizi finanziari e commerciali, ma anche di come viene percepita dal resto del mondo. Qui succedono tante cose, sempre più giovani scelgono di trasferirsi qui anziché a New York. E l'altro grande cambiamento è che la popolazione nera e asiatica è raddoppiata dai tempi del Glc. Quindi siamo di fronte a una città che è certo la capitale della Gran Bretagna ma che a tutti gli effetti è una città globale.

Nel senso di avere tutto il mondo in una sola città...

Sì. A Londra si parlano 300 lingue, a New York 200. Il grande vantaggio che abbiamo rispetto ad altre città miste è che le etnie e i luoghi qui si mescolano meglio. Una persona su venti qui è di etnia mista, ma non è così a New York. Perciò queste idee di scontro di civiltà e terrorismo globale non hanno alcun senso.

Il multiculturalismo di cui parli è diverso da quello americano...

Sì, negli Usa si tratta di condividere i valori americani, e quindi i cittadini sono definiti come italo-americani, messico-americani. Noi qui diciamo invece che questa è una città in cui ognuno mantiene la propria identità ma partecipa alla città. Nel mondo ci sono oggi diverse importanti culture e nessuna di queste potrà prevalere sul lungo periodo. Devono imparare a coesistere. Se guardiamo al tasso di crescita della Cina, è chiaro che fra dieci o vent'anni supererà gli Usa, il che sarà uno shock devastante per la psiche americana. E' per questo che sono a favore degli stati uniti d'Europa: sarebbe bello esserci.

In questo senso sei esplicitamente contrario all'egemonia Usa...

Sono contro qualunque egemonia. In questo momento abbiamo la possibilità che il mondo decida che cosa gli piace delle varie culture, che la gente scelga quali pezzi delle culture degli altri ignorare e quali invece adottare, far propri.

Nonostante tutto Londra è ancora il luogo di produzione di un neoliberismo che ha sostenuto il Washington consensus e ha prodotto ogni sorta di disastri e ingiustizie in giro per il mondo. Tu sei abbastanza esplicitamente contrario al neoliberismo e lo hai detto, eppure questo è il cuore del London Plan. Non voglio che tu riconcili queste cose, vorrei che mi dicessi come usi le due cose insieme...

All'interno di quello che tu chiami neoliberismo c'è il brutto e il bello. Voglio dire, c'è la negazione dei cambiamenti climatici, ma ci sono anche Bp e ora Shell che dicono che qualcosa va fatto. Questo per dire che le contraddizioni sono molte. Non è un complesso militare-industriale, non sono Bush, Cheney e Halliburton che dominano tutto questo.

Dunque ci sono contraddizioni o brecce nel sistema con le quali puoi lavorare...

Sì. Ma dovresti davvero parlare con i manager delle grandi imprese per chiedere perché lavorano con me. Io ho il cruccio di dover avere a che fare con istituzioni come le grandi banche che sono responsabili di problemi come l'enorme debito. Ma le banche devono avere a che fare con me.

Ok, ma questo significa che continui a sostenere la City e il suo corollario di industrie di servizi, che le chiami o meno neoliberiste...

Beh, sostengo ancora che bisogna avere una Tobin tax e che io dovrei avere il potere di redistribuire ricchezza togliendola ai super ricchi di Londra.

Ecco cosa volevo sapere. Perché l'altro problema è che Londra sta diventando anche la capitale dell'ineguaglianza e questo ha un'enorme ricaduta sulle politiche per la casa...

Sì. Ma questo non dipende dalle grandi imprese, questo dipende dal governo Labour. E' abbastanza chiaro che a Londra i guadagni lordi di quella piccola élite sono così fuori dai limiti che si potrebbero ricavare un bel po' di tasse.

E allora perché non battersi per questo?

Non vedo alternative. Non c'è possibilità che questo governo, o Gordon Brown, mi diano il potere di redistribuire la ricchezza a Londra. Così sono legato a un sistema fiscale molto meno progressista di quello che avevo al Glc, che era fantastico.

Allora al governo stai dicendo che bisognerebbe tassare i ricchi?

Certo. Ma non spreco il fiato a cercare di convincere Gordon Brown.

Però se non avessi una strategia così centrata sulla finanza non potresti redistribuire qualcosa?

E su cosa dovrebbe essere centrata? Dovrei ricostruire l'industria? Questo non è il mondo che crei, questo è il mondo in cui sei.

Ma aumenta l'ineguaglianza.

Sì. Ma dato che la finanza oggi è la fonte maggiore e più importante di posti di lavoro a Londra, allora non possiamo dire che l'abbandoniamo, perché naturalmente questo ci porterebbe ad una catastrofica recessione. Quindi è un problema. Si fa il possibile per ricostruire l'industria nel settore creativo. Ma alla fine siamo ingabbiati in quella struttura.

Questo è il punto...

Lo so, ma a New York è uguale. La cosa interessante è stata anche che New York e Londra sono cresciute diventando virtualmente il riflesso una dell'altra in termini di struttura del lavoro. Entrambe sono città in cui la popolazione sta crescendo, entrambe sono città varie, entrambe sono città che in termini culturali non hanno quasi nulla in comune con il resto del paese. Ed entrambe sono al centro dell'amministrazione dell'economia globalizzata.

Esattamente.

Beh, datemi poteri dittatoriali e saremo in grado di fare qualcosa su questo. Se si facesse qualcosa a Londra, la finanza si sposterebbe semplicemente a Parigi o Shanghai. Bisogna costruire strutture globali di progressisti, laburisti e verdi per affrontare il problema. Se improvvisamente il governo Labour mi desse la libertà di gestire l'intera faccenda e io rimettersi mano al sistema fiscale, la finanza si trasferirebbe in un altro posto. Ma, fortunatamente per noi, avrebbero dei problemi a spostarsi in altre parti d'Europa. Ma non è solo una questione di che cosa fa la sinistra. Adesso abbiamo Bill Gates che dice "ho guadagnato 35 milioni di sterline e non posso spenderli, dovrò realizzare qualcosa di progressista con questi soldi". E Warren Buffet ha praticamente detto la stessa cosa. C'è Clinton che corre di qua e di là per convincere le ditte a donare medicinali e strumentazioni mediche economiche al terzo mondo.

Fanno qualcosa di diverso da te, però. Fanno cose per cercare di evitare che i problemi appaiano così gravi, mentre quello che tu ti proponi di fare è cercare di cambiare il funzionamento delle cose. Non solo esercizi ginnici.

No, ma neanche quello che stanno facendo Gates, Buffet e Clinton a proposito dei cambiamenti climatici. La Fondazione Clinton sta davvero spingendo su questa questione. Clinton sta negoziando con grandi compagnie la possibilità di passare alla produzione di semafori a risparmio energetico. L'idea è assicurare che Chicago, New York, Londra e Los Angeles li comprino e magari pure Parigi e Berlino, e perciò il prezzo si abbasserà così da avere un effetto a lungo termini. Questo genere di cose è molto interessante. Durante la guerra fredda, sia che ci si schierasse con l'Urss che con gli Stati uniti, quasi ogni questione politica interna rifletteva gli stessi schieramenti. Ma adesso non è così semplice.

Tu hai fatto certamente parecchio in termini di relazioni globali, hai già detto che hai molte iniziative in piedi con Cuba, la Cina, la Russia, il Venezuela. Puoi dirci qualcosa in più?

In tutto questo la questione centrale è quella cinese. La cosa interessante della Cina è che, nonostante abbia adottato la sua forma di capitalismo, in realtà non è un semplice capitalismo. La nostra opinione iniziale che avremmo avuto un legame da città a città con Shanghai ben presto è stata cancellata quando ci siamo resi conto che tutte le più grandi decisioni globali ottengono ancora il via libera dalla macchina del partito a Pechino. E in ogni nostra trattativa con la leadership del Partito comunista cinese abbiamo visto che sono sinceramente orgogliosi di aver sollevato 200 o 400 milioni di persone dalla povertà.

Qual è il ruolo di Londra allora?

Il ruolo di Londra è quello di fare il possibile per incoraggiare legami tra quello che sta emergendo in Cina e in India, le forze progressiste dell'occidente, le forze progressiste del sud America e via dicendo.

Ok, dimmi ora un po' di Chavez. Che succede?

Chavez è consapevole del fatto che non possiamo redistribuire ricchezza. Così ci vende il petrolio per i nostri autobus a 20 milioni di dollari in meno l'anno e noi usiamo i soldi che risparmiamo per ridurre della metà le tariffe sugli autobus in modo che tutti ne possano usufruire.

Da una parte ti allei con Chavez, dall'altra vai a Davos.

Ci vado per parlare di cosa possiamo fare sui cambiamenti climatici.

Che ne pensi del movimento no global? Hai sostenuto il social forum.

Si, ma bisogna isolare i violenti. Non penso che siano tutti provocatori, ma dal collasso del comunismo è nata una generazione di giovani arrabbiati che sono cresciuti senza l'esperienza all'interno di organizzazioni comuniste o trotzkiste o nel sindacato. E poiché non sono stati addestrati nel marxismo e non hanno imparato da gente che gli ha spiegato che questa è una lotta lunga una vita, si sono arrabbiati e sono usciti a spaccare vetrine. Mi dispiace, ma questa gente è un lusso che non possiamo permetterci. Non lascio che un venticinquenne arrabbiato che fra vent'anni sarà un bancario senza scrupoli e si sarà dimenticato tutto mi faccia venire rimorsi. Ho investito la mia intera vita adulta nel cercare di portare avanti la causa socialista.

L'intervista

Il sindaco e la giornalista

Doreen Massey è una geografa di rilievo internazionale, insegna all'Open University, ha ricevuto il Prix Vautrin Lud (il «Nobel della geografia») e collabora alle politiche urbane di Caracas, in Venezuela. I suoi ultimi libri sono For space (Sage, 2005) e World city (Polity, 2007), un'analisi delle dinamiche metropolitane a partire dal caso di Londra. Insieme a Stuart Hall e Michael Rustin ha fondato e diretto a lungo la rivista «Soundings, A journal of politics and culture». Questo colloquio con Ken Livingstone, «sindaco» della Grande Londra, pubblicato anche su Soundings, continua un dialogo iniziato quando Livingstone, negli anni '80, era a capo del Greater London Council (poi sciolto dal governo Thatcher) e Doreen Massey collaborava con le politiche di cambiamento urbano. Anche a Londra si vota (fra poco più di un mese) per le elezioni locali e i conservatori - sostenuti dalla grande stampa inglese - hanno lanciato una durissima sfida a Livingstone e agli aspetti più radicali delle sue politiche. Dopo Parigi e Roma, il voto di Londra sarà un test importante per disegnare il profilo di una politica di sinistra nelle grandi città europee.


Cinque anni di guerra in Iraq e una guerra afghana che nessuno osa riesaminare hanno cambiato il mondo radicalmente, danneggiando in misura non ancora calcolabile la sicurezza, la forza d'attrazione, la robustezza economica, infine la potenza morale dell'Occidente. Non siamo solo alle prese con la «fine della magia americana», descritta dal ministro francese Kouchner in una conferenza parigina dell'11 marzo. La magia che aveva sedotto lui e molti europei - a cominciare da Berlusconi nel 2001-2006 - ha avuto e continua ad avere effetti durevoli, che non scompaiono con l'evaporare dell'incanto e sui quali gli ex ammaliati tacciono, come ignorassero che questo tacere è un ennesimo, scandaloso peccato di omissione.

Ovunque sulla Terra, la politica neo-conservatrice ha alimentato un sospetto deleterio: che qualsiasi nazione toccata dall'Occidente diventi fatalmente uno Stato fallimentare. Che la democrazia sia qualcosa di malato, di temibile. Che libertà, laicità, pluralismo siano da posporre, sempre, ai ben più essenziali imperativi di sicurezza. Quel che accade in Tibet negli ultimi giorni non è disgiunto dalla magia infranta: ne è il lascito, catastrofico. La carneficina di monaci buddisti a Lhasa (i tibetani in esilio parlano di 100 uccisi) è responsabilità cinese ma è stata facilitata da America ed Europa, che non a caso reagiscono con voce pallida, e sguardo cieco. Quel che essi non hanno visto è la lezione che gran parte degli Stati ha tratto dalla politica di Bush. Una lezione che possiamo riassumere così: per meglio difendersi dalle insipienze Usa, gli Stati hanno tutto l'interesse a presentarsi come Leviatani aggressivi, chiusi in sovranità assolute.

Sovranità generalmente ingannevoli (tutti siamo immersi nell'economia-mondo), ma anche l'inganno è effetto delle guerre antiterroriste: dalle menzogne non si esce che con altre menzogne. I grandi profittatori dei conflitti odierni non sono solo i produttori petroliferi e le compagnie fornitrici di soldati che hanno contribuito a privatizzare le guerre. Tutti gli Stati che scelgono la forza - Cina, autocrati arabi o asiatici - sanno che la strategia Usa, al momento, non produce che failed states, incapaci di monopolizzare violenza e territori. Che l'America esca spezzata da tale esperienza è tragicamente confermato dalle stragi cinesi, dalla forza con cui i conservatori islamisti si presentano al voto iraniano. Basta guardare alla stupefacente coincidenza dei giorni. L'insurrezione tibetana comincia lunedì 10 marzo: da tempo ardeva nell'ombra. Nonostante questo il Dipartimento di Stato esce poche ore dopo, l'11 marzo, con un rapporto sui diritti umani che denuncia le lentezze della Cina ma la cancella dalla lista dei trasgressori. Le timide reazioni americane ed europee alle stragi tibetane testimoniano molto più di un'incongruenza: testimoniamo una rotta morale dell'Occidente.

Una potenza imperiale che pretende fondarsi sulla democrazia non può ignorare gli effetti morali di quel che fa: è suo tratto distintivo, e proprio questo tratto è andato svanendo. La guerra in Iraq fu iniziata per mostrare la superiorità delle istituzioni libere - la democrazia avrebbe generato Stati stabili, plurali - ed è avvenuto il contrario. Dopo l'aumento di truppe deciso da Bush, i soldati Usa sono più sicuri ma la violenza resta. Non ce ne accorgiamo più, perché non apparendo in video sembra inesistente. Il premio Nobel Joseph Stiglitz ricorda nel suo ultimo libro che le tv accendono i riflettori solo quando gli attentati fanno più di 25 morti (The Three Trillion Dollar War, Norton 2008). Né sembra accorgersene il candidato repubblicano alla successione di Bush: pur di persuadere i neo-conservatori, McCain annuncia: «Se riusciamo a ridurre i nostri morti possiamo restare anche cento anni in Iraq. A me va benissimo». Né l'Iraq è divenuto più vivibile, con poche ore di elettricità al giorno e quasi 5 milioni di sfollati (2,5 dentro e 2 fuori, in Siria e Giordania) Ecco il cataclisma occultato per anni dalle bende della magia: l'America voleva esportare democrazia, e ha esportato invece insicurezza, violenza, immoralità. La sua posizione è talmente indebolita che non può reagire agli eventi cinesi. Anche per questo fanno tanta impressione i dibattiti elettorali italiani: un ex ministro del campo berlusconiano consiglia addirittura di tornare in Iraq, quasi non sapesse com'è diventato il paese nel quinto anniversario della guerra.

Il cataclisma morale non viene fabbricato solo col cinismo, con la spudorata violenza di politiche avventate. Lo si fabbrica anche con questo non-sapere, quest'ignoranza singolarmente militante. È incompetenza tecnica, politica, militare. È l'ignoranza che nel vecchio dizionario Tommaseo viene distinta dall'inscienza: quest'ultima è di uomini che non sanno quello che fanno, mentre la prima è ignoranza colpevole, ignora quello che saremmo tenuti a sapere, è «crassa, rozza, indolente, superba». Fu ignoranza superba lanciare guerre senza conoscere i paesi occupati. È ignoranza superba la politica verso la Cina. Nell'amministrazione Usa, un gruppetto di finti esperti ha giocato col mappamondo alla maniera di Chaplin-Hitler nel Grande dittatore. Sarebbe bastato uno sguardo in terra per vedere che la violenza cinese si sarebbe abbattuta sul Tibet, incoraggiata dal rapporto pronto al Dipartimento di Stato da mesi.

L'idea di Bush era semplice, dopo gli attentati del 2001: si trattava d'inventare una politica assolutamente nuova. Interessi e valori avrebbero coinciso, come nei sogni o nelle magie. Clinton stesso in fondo aveva provato, in Kosovo: con un certo successo, anche se contaminato dal veleno dei nazionalismi etnici. Ma l'Iraq non era il Kosovo, la Freedom Agenda dei neo-conservatori concerneva il pianeta e non una minuscola provincia. L'ultimo rapporto della Fondazione Carnegie (Nuovo Medio Oriente, 2008) sostiene che la Freedom Agenda è stata un totale fallimento: ha rafforzato l'Iran, regalandogli un Iraq turbolento ma ideologicamente fedele. Ha incoronato Ahmadinejad. Raccomandando infine una democrazia numerica (conta chi raccoglie maggioranze e non l'imperio della legge né l'equilibrio tra poteri, ambedue anteriori alla democrazia), ha aiutato non i pochi laici ma gli islamisti, ovunque e soprattutto in Palestina. A ciò si sono aggiunte condotte statunitensi accettate da parecchi governi dell'Unione Europea: le torture a Abu Ghraib, il trasferimento di prigionieri in centri di tortura europei oltre che arabi. Come dice l'ammiraglio William Fallon, appena dimesso dal Comando centrale Usa, ha prevalso la peggiore delle strategie: «l'imprevedibilità con gli alleati, la prevedibilità con gli avversari».

Uscire da simili disfatte è difficile. McCain e Hillary Clinton quasi sembrano non scorgerne la natura. La scorge meglio Obama, forse perché conosce le diversità del mondo: soprattutto quando critica una politica filo-israeliana «schiacciata sul Likud». O lamenta il deteriorarsi mondiale dell'immagine Usa: «Per colpire pochi fondamentalisti (al massimo 50.000)», ha detto in un incontro con le comunità ebraiche a Cleveland, il 24 febbraio, «abbiamo provocato un disastro, trascurando 1,3 miliardi di musulmani».

La questione morale è al centro. Accanto al disastro economico-strategico della guerra irachena (Stiglitz indica un costo di 3000 miliardi di dollari, pagato solo col deficit), c'è questo disastro etico: non meno esiziale. Un'etica che fallisce così miseramente è terribilmente simile al comunismo - e non sorprende che fra i neo-con ci siano tanti eredi del '68 marxista-cinese. Alla fonte l'ideale comunista è buono, ma i risultati sono tali che etica e ideale ne escono lordati irrimediabilmente. Lo stesso accade per le guerre etiche, così come son state imposte dagli esorcisti neo-con d'America ed Europa.

La parola impronunciabile - quella che dovrebbe far scattare chiunque, con un senso di allarme istintivo - è stata pronunciata, in un'aula di tribunale. E non dagli avvocati: dai Pubblici ministeri. Connessa a fatti specifici. A ben individuati imputati. Documentata. Certificata da testimonianze giurate e giudicate vere da una magistratura di solito avara, quando si tratta di «organi dello Stato».

«La tortura è stata molto vicina a Bolzaneto - ha detto la Pm Petruzziello - In quelle ore si è verificata una grave compromissione dei diritti umani». Nel nostro paese sono state praticate, a livello di massa, su oltre 200 persone, con continuità e ostentazione, sevizie, umiliazioni, crudeltà che rientrano tra gli atti previsti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Non è una notizia, questa?

No, a leggere i grandi quotidiani italiani. L'ho cercata a lungo, quasi incredulo, quella notizia - almeno un titoletto, qualche riga, un corsivo, un piccolo editoriale... - sulle prime pagine del Corriere e di Repubblica, che pure, il giorno prima, in un'anticipazione della requisitoria (a pagina 16!) aveva parlato di «trattamenti inumani e degradanti...., dita spezzate, pugni, calci, manganellate su persone inermi, bruciature con accendini e mozziconi di sigaretta, bastonate sulle piante dei piedi; teste sbattute contro i muri, taglio di capelli, volti spinti nella tazza del water...». E che mercoledì non ne parla più - un compito già svolto, un fatto già archiviato -, mentre il Corriere la confina a pagina 23, come se si trattasse di cronaca nera, e la Stampa a pagina 20 (con almeno un piccolo richiamo in prima). Per i giovani di Bolzaneto, per i loro oltraggi subìti, non si scomodano gli opinion leader, i Panebianco, i Galli della Loggia, e nemmeno gli Scalfari o le Annunziata. De minimis non curat praetor. È più importante il gossip su Ciarrapico (prima pagina di tutti), sulle squillo del governatore di New York (in prima di Repubblica), sulla moglie di Mastella ...

Non è nemmeno un fatto politico?

Ancora una volta no, a porgere l'orecchio al brusio che viene da questa orribile campagna elettorale, tutta all'insegna della virtualità e della simbolizzazione. Evidentemente quei corpi umiliati, quei ragazzi profanati alla loro prima esperienza d'impegno pubblico, non sono simboli sufficientemente maneggiabili, né utili nello spazio degradato della competizione senza principii. Meglio il faccione di Calearo, i fogli bianchi strappati da Berlusconi, le boutades sulla castrazione chimica di Veltroni, la rincorsa ai santini distribuiti da Ruini. Fanno più colore. «Funzionano», «tirano», come si dice adesso.

Qualcuno ha sentito un solo fiato, al centro o da quello che si chiamava fino a ieri il centro-sinistra (lasciamo andare la destra, che quelle torture le ha favorite, le ha prodotte e le ha coperte...), sullo scandalo di Bolzaneto? Sul nostro senso civile finito sotto i tacchi degli anfibi dei medici aguzzini e dei secondini sadici, in una caserma della Repubblica? Quegli stessi che ancora pochi mesi fa guidavano la caccia ai mendicanti e ai lavavetri in nome della legalità, e si stracciavano le vesti di fronte a un migrante privo di permesso di soggiorno, hanno obiettato qualcosa per quegli uomini in divisa che colpivano le ferite aperte, minacciavano di stupro ragazzine minorenni, piegavano a colpi di bastone adolescenti ridotti all'impotenza?

Eventi come questi non sono indolori. Scavano un solco. Tracciano un confine. D'ora in poi sarà sempre più difficile mantenere anche solo un terreno di discorso possibile, e aperto, tra queste due Italie: quella piccola, esile, minoritaria fin che si vuole, che non ci sta a digerire tutto, anche il disumano, e quella disposta ormai a passare su tutto e che tutto accetta come «normale». Sarà sempre più difficile continuare a credere anche solo a una riga delle infinite colonne di piombo, e delle stucchevoli prediche sulla nostra bella democrazia, che ci ammanniscono sui giornali. Sarà sempre più difficile, quasi impossibile, continuare ad affidare anche solo un brandello dei nostri progetti e delle nostre speranze a un qualche settore di questo ceto politico indifferente a tutto tranne che a se stesso. Insomma, sarà sempre più difficile sentirsi parte, anche piccola, di un medesimo paese.

Saremo apolidi, forse. O esuli mentali. Può darsi che sia questo l'estremo approdo del bradisismo che si è innescato in questa tormentata transizione italiana: la fuoriuscita dell'Altra Italia dall'Italia ufficiale. La chiusura definitiva del ciclo apertosi col 1945, e protrattosi per oltre un sessantennio. Non lo so. Ma una cosa è certa: d'ora in poi nessuno si permetta più di farci, dall'alto di un qualche luogo «istituzionale» o da qualche organo di stampa, la predica sul «bene comune», sull'«impegno civile», e della «buona cittadinanza». Perché ogni legittimazione è finita.

Quaranta anni fa, dopo il 1968, c'era a ogni assemblea una discussione su chi potesse aprirla, presiederla e chiuderla, nella generale presa di parola che dilagò in Italia e in gran parte d'Europa. Ognuno sentì che poteva e doveva parlare, esporsi, assumersi delle responsabilità, partecipare a una decisione rifiutando di delegarla ad altri, perché ogni mandato rappresentativo portava in sé il verme della gerarchia e della burocratizzazione.

Adesso, quegli ardenti giovani sono almeno cinquantenni e assieme alla loro prole non sembrano desiderare altro che dare una delega al più presto e a un leader che presenti un'immagine attraente, capace di decidere per tutti, perlopiù autocandidato dopo un vasto lavorio, sul quale discutere fra pochi e per un poco, e mandare al voto popolare affidandoglisi per cinque anni senza essere più seccati. In capo a quella scadenza si giudicherà se confermarlo o no, nel mandato. Questo è il sugo della democrazia moderna e, come dice Veltroni, semplificata e non si rompano ulteriormente le scatole.

Nel giro di una generazione s'è dissolta l'acerba critica che, nel nome di un bisogno e diritto assoluto di partecipazione di tutti e di ciascuno, investì la «forma partito» e ogni struttura organizzata. Verso di essi la sfiducia era duplice: qualsiasi organizzazione cristallizza livelli di comando che depotenziano l'assemblea. E nel medesimo tempo spersonalizzava le responsabilità in nome di una «linea» astratta dettata dal gruppo dirigente, lontana dalla complessità degli individui e delle individue che portavano avanti il cambiamento.

Perché di cambiamento si trattava, come sempre quando ingenti masse, stavolta un'intera generazione, si muovono. E in quale direzione era chiaro: allargare la sfera delle decisioni al limite fino alla partecipazione di tutti. Obiettivo difficile. Ma quella spinta spezzò luogo per luogo l'impermeabilità delle strutture politiche, economiche, civili, dalla fabbrica agli ospedali, che furono invase e pervase.

Negli anni Settanta non fu «ideologia», fu esperienza di massa. Essa fragilizzava non solo i vecchi partiti ma i nuovi, e i gruppi extraparlamentari costituitisi sotto l'ondata del movimento, e lo stesso costituirsi nei movimenti di strutture d'una qualche stabilità. Uno dei maggiori problemi della democrazia, e non solo quella diretta, ma ogni democrazia che si rispetti, fu sperimentato da migliaia di soggetti, uomini e donne, giovani e vecchi, molti dei quali per la prima volta «facevano politica».

In Italia durò quasi dieci anni, incontrando prima resistenze forti ma opache e poi, quando cominciò l'azione dei gruppi armati, la repressione si scatenò su quelli ma anche su di essa, che andò finendo. Oggi l'esito di quella stagione è surreale. Il concetto stesso di democrazia ne è uscito modificato ma in senso opposto a quello che aveva innervato la spinta d'urto iniziale.

Oggi infatti ne siamo agli antipodi: prima niente delega, oggi avanti tutta con la delega, prima niente leader, oggi solo un leader, al massimo due per via dell'alternanza che si confrontino in lunghe sfide di immagine. Quando uno di essi avrà ottenuto dagli elettori anche pochi voti in più assicurandosi un consistente «premio di maggioranza», decida senza perdere tempo in parlamentarismi, comitati e assemblee, centralizzando di fatto i poteri fino alla scadenza fisiologica del mandato, che la società non deve accelerare né disturbare. (A meno che il leader sia scoperto in flagrante delitto di menzogna - possibilmente d'ordine personale, perché quella politica è un inconveniente ammesso).

A uscirne a pezzi in Italia sono stati per primi i partiti del dopoguerra, dove la cristalizzazione burocratica s'era trasformata negli anni del Caf anche in monopolio di sempre meno giustificabili privilegi, quando non corruzioni e imbrogli con la scusa dei «costi della politica», producendo alla fine lo scandalo di Tangentopoli.

Diversa fu soltanto l'origine della crisi del partito più partito di tutti, quello comunista, provocata non dalla corruzione ma dal dubbio sulla sua stessa ragione di essere dopo la caduta del Muro di Berlino. Dubbio che si presentò anche come la prima rottura di metodo: in capo a una notte di pensamenti, l'allora segretario Occhetto si presentò non alla segreteria o alla direzione del Pci ma in una popolare sezione di Bologna, di tradizione partigiana, proponendo a quegli stimati veterani di cambiare nome e bandiera del Pci per tenerlo fuori dal precipitare dell'Urss e ridare fiato a una nuova «Cosa».

Fu uno choc, che quella sezione ingoiò, e da allora gli choc non sono cessati, sempre più diretti fra leader e base, leader ed elettori, leader e gente non più intercettata da un partito - perché il metodo della Bolognina non fu messo in causa da nessuno, tanto dovette sembrare liberatorio dalla cappa delle forme.

Scomposte le quali, la divaricazione fra partito politico come luogo di elaborazione, cultura, interesse d'un gruppo politico-sociale e dirigente carismatico - che fino ad allora s'erano tenuti assieme - si è andata allargando, e dai partiti ha investito le istituzioni elettive modificando l'ossatura formale della rappresentanza. Inutile fare la storia. Sta di fatto che scomposto il partito, il militante si è andato confondendo con il simpatizzante, la base del partito del dirigente scivola nella base elettorale, il leader si candida da sé, cerca ex post un consenso e assume i comportamenti d'una figura carismatica dal quale si attende la parola.

È fin paradossale che nel 2008, mentre le residue monarchie, in Spagna e Gran Bretagna, sono semplici portaparola dei governi, i capi di stato delle repubbliche presidenziali sono sempre meno garanti delle costituzioni e sempre più dirigenti assoluti dell'esecutivo. Addio alle distinzioni di poteri fra un capo dello stato, il potere legislativo e quello esecutivo - esse tendono a essere riassunte tutte nel capo dello stato. Con Mitterrand presidente, si diceva ancora il governo Rocard o Chirac o Jospin, mentre oggi, del governo presieduto da Fillon, è chiamato senz'altro il governo Sarkozy. In Italia il processo è più sornione, perché per ora non siamo ancora una repubblica presidenziale, ma le pressioni per divenirlo sono esplicite.

Insomma dal «niente delega» del 1968 e seguenti si è passati alla quasi generale autoconsegna a un leader, mentre i poteri costituzionali e i contropoteri della repubblica rinunciano a funzionare. Se lo tentano, il presidente li sfida. In Francia, Sarkozy fa appello contro di essi per istituire la «pericolosità sociale» come sufficiente a tenere illimitatamente in galera anche chi ha scontato la sua pena, chiedendo e avendo l'appoggio delle famiglie delle vittime. Berlusconi ha fatto lo stesso contro la magistratura, che non è riuscita mai a condannarlo sul serio. Veltroni, leader del Pd, ha ottenuto un raid distruttivo della polizia contro un'incolpevole comunità romena a mo' di vendetta per ingraziarsi l'opinione.

Ogni leader è ormai tentato dal populismo, arma (impropria) personale. Le leggi sono fredde e impermeabili, anche Veltroni si rivolge agli umori d'un popolo già di sinistra - come fa Berlusconi con quello di destra - che lui solo capirebbe e questo popolo volentieri gli si affida, a misura di quanto il senso comune democratico si sia andato guastando.

È il modello americano senza le sue salvaguardie, anch'esse del resto fortemente attenuate dopo l'11 settembre: il presidente Bush, che da un anno non ha più con sé né il paese né il Congresso, continua a condurre una guerra illegale e mortale all'Iraq, ne agita un'altra all'Iran, e appoggia le più folli avventure di Israele contro Gaza, tirando dritto fino alla scadenza del prossimo novembre. Chissà che un'azione di al Qaeda non lo confermi. Lui o un altro repubblicano, mentre i democratici si dilaniano in infinite primarie.

Questa sarebbe la democrazia «modernizzata» che hanno in testa anche politici molto diversi, come Berlusconi e Sarkozy, Putin e Veltroni. Il cui slogan è non per caso: semplifichiamo. Un parlamento è troppo complicato in una società divisa. Semplifichiamolo. L'ideale è arrivare a due capi assoluti con maggioranze assolute. Due condottieri. Due prìncipi. Prìncipi repubblicani, s'intende. Nel senso che durano cinque anni salvo riconferma.

Un capovolgimento del senso della Costituzione del 1948 e dei sommovimenti che l'avrebbero radicalizzata. Non è un evento giuridico, una vicenda delle culture del diritto. Qualcosa di più forte di esse le ha minate nel profondo perché si vada concludendo a questo modo quella che speranzosamente è stata chiamata «la transizione italiana» dalla prima alla seconda Repubblica. La quale si affaccia ben deforme. C'è da interrogarsi perché sia andata così e quali ne possano essere ancora i ripari. Quel che è certo è che, piaccia o non piaccia, l'estrema sinistra, fra cui Negri, avevano veduto giusto: sugli stati ha prevalso la forza cogente delle proprietà e dei capitali internazionali diventati giganti con la globalizzazione, che non incontra più freni né correttivi nei poteri politici. Ne è stata aiutata e li depotenzia.

Messa in causa la loro base di massa nelle figure del conflitto di classe, di sesso, di dominio sulla sfera etica, i leader europei sembrano apprendisti stregoni che non poggiano più che sui loro stessi esorcismi. Mentre alle masse sembra non restare che la protesta o la rivolta, mancando qualcosa di più, a partire da una preliminare e condivisa ricomposizione degli interessi. Che sia finita un'epoca più di quanto ci siamo finora resi conto è confermato dalla battuta di Gianfranco Fini che, per sbeffeggiare la Repubblica nata nel 1945, ha proposto di chiamare giorno della Liberazione quel 13 aprile che presume giorno di vittoria del Popolo delle Libertà. A mettere un alt occorre un sussulto di coscienza, di cultura. Al quale sta chiamando soltanto la Sinistra Arcobaleno, povera sinistra un po' malconcia, ma la sola a ragionare.

«L'ultimo atto di una sinistra anti-industrialista»: Luca Cordero di Montezemolo «teme» che in questo si traduca il decreto contro l'insicurezza sul lavoro varato ieri sera dal governo, nell'ultimo giorno disponibile prima di una scadenza-termini che avrebbe rimandato il tutto al prossimo governo. Detta a un ex presidente dell'Iri passato alla storia per le privatizzazioni dell'industria pubblica (una su tutte, la svendita a prezzo stracciato dell'Alfa Romeo alla Fiat), suona un po' grossa. Ma la riconoscenza e la memoria non sono di questo mondo.

«Con le sanzioni non si salvano le vite», ha chiosato acido il presidente di Confindustria. Chissà perché è un'affermazione che nessuno ha osato pronunciare a proposito di un altro decreto sicurezza, quello varato in poche ore e senza nessun travaglio dopo l'omicidio della signora Reggiani a Roma, a opera di un poveraccio. Un provvedimento, reiterato la scorsa settimana, che limita la libera circolazione dei cittadini comunitari e che secondo Amnesty international «mette a rischio i diritti umani». C'è sicurezza e sicurezza: poco importa che ogni giorno muoiano più persone lavorando di quante ne vengano assassinate per strada.

«Si punta solo sull'inasprimento delle pene». Sono ancora parole di Montezemolo. A Confindustria non basta che il governo abbia attutito le sanzioni per le imprese fuorilegge (quelle che, per esempio, trasgrediscono la direttiva Seveso sulle produzioni pericolose per chi lavora e per chi ci vive attorno), trasformando il carcere in multe. L'organizzazione degli industriali italiani considera la sicurezza un prezzo troppo alto, perché sa che la gran parte dei suoi affiliati trasgredisce regolarmente quelle norme per contenere il costo delle proprie produzioni. Cos'altro potrebbe sostenere un sistema industriale che compete principalmente sul costo del lavoro?

«Servirebbero più formazione, più prevenzione, più cultura della sicurezza». Su questo il presidente di Confindustria ha perfettamente ragione, meglio affrontare il problema alla radice. Ma chi dovrebbe fare formazione, prevenzione e cultura della sicurezza? Chi dovrebbe mettere i lavoratori nelle condizioni di sapere i rischi che corrono, di avere le conoscenze per evitarli, di non correre come dei pazzi accettando qualunque condizione? E non è forse la politica industriale prevalente in Italia a impedire tutto ciò? A Montezemolo gli antichi risponderebbero: de te fabula narratur.

Il decreto varato dal governo uscente di per sé non risolve il problema dell'insicurezza sul lavoro, può semplicemente limitare qualche danno, arriva persino tardi. Ma i padroni ne parlano come roba da Soviet e l'ostacoleranno con ogni mezzo: non si sono accorti che Walter Veltroni ha dichiarato finita la lotta di classe, ricomponendola in un'accogliente lista elettorale.

Le “esigenze” emerse al “tavolo tecnico” Stato-Regioni - in particolare la contrarietà a un nuovo centralismo delle funzioni in materia di paesaggio, la distinzione con i beni paesaggistici sottoposti a vincolo, lo snellimento delle procedure - sono state esaminate il 27 febbraio in un incontro fra il presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo, e il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Francesco Rutelli.

Lo ha reso noto l'ufficio stampa della Basilicata, precisando che De Filippo ha chiesto al Ministro di “valutare l'opportunità di modificare la terza parte del Codice dei beni culturali e del paesaggio sulla base delle esigenze espresse al tavolo tecnico della Conferenza Stato-Regioni”.

Il presidente lucano ha espresso “preoccupazione per la manifesta volontà di accentramento delle funzioni in materia di paesaggio con conseguente svalutazione del ruolo regionale. Tale aspetto ha aggiunto De Filippo - trova fondamento, tra l'altro, nel previsto assetto delle autorizzazione per cui il parere del Soprintendente (Ministero) è preventivo, obbligatorio e sempre vincolante, nonostante l'obbligatorietà dell'elaborazione congiunta Ministero-Regioni del Piano paesaggistico”. Il presidente della Giunta regionale della Basilicata, inoltre, ha chiesto “una maggiore semplificazione delle procedure” e ha proposto di “rendere più evidente, all'interno del Codice, la distinzione del concetto di 'paesaggio' riferito a tutto il territorio da quello di 'beni paesaggistici' intesi esclusivamente come beni sottoposti a vincolo, considerato il fatto che l'articolato normativo del testo è riferito essenzialmente alla tutela dei beni paesaggistici”.

Il Ministro - è scritto nella nota dell'ufficio stampa dell'esecutivo regionale lucano - “ha assicurato la disponibilità del ministero a negoziare su questi tre nodi accogliendo l'emendamento che distingue fra beni paesaggistici e paesaggio. Inoltre, il ministero ha concordato sulla opportunità di modificare il parere da vincolante ad obbligatorio, condizionato al fatto che esso avvenga successivamente all'approvazione del piano e all'accertamento dell'adeguamento-conformità ad esso degli strumenti urbanistici. E, infine, si è detto disponibile a rendere più semplici le procedure.

Il modello del partito-contenitore, che presuppone una dialettica tra due grandi aggregazioni elettorali, è nato negli anni ’60 all’interno della politologia statunitense, con Kircheimer e Wells.

L’idea centrale era che, in una fase di crescita stabile della classe media, i voti potenziali per i due schieramenti si concentrassero sulle issues intermedie tra una destra e una sinistra che rimanevano residuali poiché diminuivano gli elettori interessati a quelle opzioni “estreme”. In Italia, il sistema bipolare è arrivato faticosamente ad affermarsi proprio quando la middle class, in tutto l’Occidente, si proletarizza e aumentano in modo esponenziale i differenziali di reddito tra i molto ricchi e i sempre più poveri. Era peraltro già avvenuto negli USA negli anni ’80, ed è un processo che continua ancor oggi. Quindi, è prevedibile che i due contenitori politici debbano fare i conti sia con una differenziazione interna paralizzante sia con una concorrenza significativa di flash parties alle loro estreme. E non è un caso che il nuovo partito di centro che si va ricostituendo si riunisca intorno ai “valori non negoziabili” dell’etica cattolica, dato che sempre meno si riesce a trovare l’elettorato omogeneo nei pressi del ceto medio. Il bipartitismo, poi, dove si è affermato, subisce il contrappasso di esecutivi forti e con diversa legittimazione, o di centri di identificazione super partes. È il caso degli USA, con la Presidenza che si autolegittima elettoralmente fuori dalle votazioni per il Congresso e la House of Representatives, o della Gran Bretagna, dove la Corona dei Windsor raccoglie l’identità nazionale e controlla la politica estera, di difesa, di intelligence e delle relazioni con il Commonwealth delle vecchie ex-colonie. Caso diverso è la Francia, dove però la Presidenza è la fonte e il riferimento dell’esecutivo, mentre l’Assemblea Nazionale è sempre più residuale nel decision making politico. E in Italia, dove si trova il “motore immobile” del bipartitismo?

La Monarchia, come è noto, non c’è più, ed è stata anzi un fattore di rottura della classe politica, non di identità nazionale e territoriale. I Savoia sono diventati monarchi dell’Italia unita grazie a un simpatico avventuriero repubblicano (Garibaldi), a un cupo letterato genovese (Mazzini) anch’egli antimonarchico, e al Conte di Cavour che, monarchico per dovere, aveva della casa Savoia una pessima opinione, mai nascosta, peraltro. Per non parlare di Benito Mussolini.

I “valori cattolici” poi non sono più universali, e comunque corrispondono agli interessi di uno Stato Autonomo, dentro le Mura Leonine. L’epica dell’unità italiana, infine, è stata scientemente distrutta, per volgari interessi di bottega, dalla corsa al federalismo che ha consumato il residuo prestigio della classe politica; e consegnato l’Italia, proprio mentre si doveva rinegoziare la politica estera e la collocazione dell’Italia nella nuova divisione internazionale del lavoro, alla contemplazione degli ombelichi localistici e alla retorica dei “distretti industriali”. Vi immaginate cosa può contare la Basilicata del petrolio di Ferrandina, da sola, contro il cartello dell’OPEC e i suoi compari russi? Mentre occorreva la morte ma anche la rinascita dello Stato-Nazione, tutti sono andati alla spicciolata nel mercato-mondo, e ne hanno prese di santa ragione.

Il carisma del leader inoltre non è tutto, e comunque oggi i dirigenti politici sono privi di quelle caratteristiche psicologiche, culturali, di formazione che hanno costruito Mitterrand e De Gaulle, Helmut Schmidt e Ronald Reagan. Non a caso nei programmi politici ci sono pochi e generici accenni alla politica estera.

Ho due sospetti: che entrambi gli schieramenti italiani, i due partiti-contenitore (nel senso dei programmi-contenitore alla TV, dopo il primo shock petrolifero del 1973) credano che, come si dice in Toscana, “il mondo goda”; e si attendono dagli USA e dalla NATO il sostegno gratuito che tanta parte ha avuto nel “miracolo economico” italiano, o che magari sognino di fare quelli che, con il nostro debito pubblico e la nostra amministrazione locale e centrale, dettano le regole all’UE che si sta invece interrogando se, in futuro, non si debba riservare all’Italia lo stesso trattamento che Giuliano Amato e il suo ministro Piero Barocci furono costretti a subire nel 1992: l’uscita temporanea della Lira dallo SME.

Insomma, nei programmi non si intravede una geopolitica seria e fattibile, ma un elenco di belle cose che, forse, non ci sarà modo di poter attuare. Come il bambino affamato, all’osteria, con il padre affranto per la perdita del lavoro in “Ladri di Biciclette”. Ma ne riparleremo in seguito.

Nel quotidiano parlare di economia sembra che la produttività abbia soppiantato la flessibilità. Del lavoro, è evidente. Non c’è intervento dei dirigenti confindustriali, del governatore di Bankitalia, di esperti radiotelevisivi, di manager, di politici dei maggiori schieramenti, che non rimarchi la necessità assoluta di aumentare la produttività del lavoro. Per far salire le retribuzioni, reggere la competizione con i paesi emergenti, rilanciare il tasso di crescita del paese. Quel che nella discussione sovente non è chiaro è che cosa realmente si intenda per produttività del lavoro. Non è questione da poco. Infatti, a seconda del significato che si attribuisce a questa parola, le azioni da intraprendere in varie sedi saranno assai differenti, così come lo saranno le conseguenze per i lavoratori.

La definizione più appropriata di produttività del lavoro vede in essa il valore aggiunto (o frazione di Pil) prodotto per ora lavorata. Prendiamo due lavoratori, Carlo e Luigi, di pari età e competenza professionale. Il lavoro di Carlo, tutto compreso, costa 30 euro lordi l’ora, mentre il prodotto che lui realizza in un’ora vale 50 euro. In questo caso il valore aggiunto è di 20 euro. Il lavoro di Luigi, dipendente da un’altra azienda, costa di più, 40 euro l’ora, ma quel che produce ne vale 65. Poiché il suo valore aggiunto tocca i 25 euro, la produttività del lavoro di Luigi è maggiore di quella di Carlo. Supponiamo ora che il suo capo dica a quest’ultimo che se proprio vuole un aumento di salario deve aumentare la produttività: additandogli, per stimolarlo, l’esempio di Luigi. Che cosa deve fare Carlo per soddisfare una simile richiesta? A rigore, ha una sola scelta: lavorare più in fretta. Accelerare i movimenti. Come il suo omonimo Charlot in Tempi moderni. Deve avvitare più freneticamente i bulloni che il nastro trasportatore gli fa scorrere davanti, senza saltarne uno, a costo di finire anche lui nel ventre della macchina che li muove – con qualche rischio in più a paragone del personaggio del film.

Prima di mettersi ad emulare Charlot, Carlo potrebbe però avanzare qualche obiezione. Ad esempio potrebbe dire che se gli dessero dei mezzi di produzione più moderni, come quelli di Luigi, in luogo dei residuati di vent’anni fa con cui deve arrangiarsi, produrrebbe di più, senza dover lavorare a ritmi infernali. O che l’organizzazione del lavoro studiata dai tecnici a tavolino, magari imposta da una lontana impresa capogruppo che dei problemi locali non capisce nulla, spreca l’intelligenza e l’esperienza delle persone anziché utilizzarle al meglio. Che quelli della ricerca & sviluppo potrebbero finalmente inventarsi qualcosa che abbia un più elevato valore d’uso, in modo da poter essere venduto a un prezzo migliore, facendo così crescere il valore aggiunto per ora lavorata.

Potrebbe anche far notare, il Carlo, che i materiali, i semilavorati, i componenti che arrivano nel suo reparto da una regione vicina, oppure dalla Turchia, dalla Malesia o da un’altra parte del mondo, presentano spesso difetti o ritardi che provocano rallentamenti della produzione. Un problema che rende quasi impossibile valutare quale sia la produttività del lavoro di una data unità produttiva, visto che in moltissimi casi due terzi se non tre quarti, in valore, d’un qualsiasi manufatto o servizio provengono appunto dall’esterno. Per cui la maggior produttività di Luigi a confronto di Carlo potrebbe derivare da una miglior catena globale di subfornitura, non già dal fatto che lavora meglio o più in fretta.

Nell’insieme le obiezioni di Carlo che non vorrebbe diventare Charlot stanno a significare che allo scopo di aumentare la produttività del lavoro, e con essa i salari, non esiste soltanto la formula "lavorare di più per guadagnare di più". Esiste anche quella che consiste nel fare maggiori investimenti in capitale produttivo, ricerca e sviluppo, innovazioni organizzative interne ed esterne, formazione. Quegli investimenti che le imprese italiane non amano fare, o fanno in misura assai inferiore rispetto a quella che i loro utili gli permetterebbero. Tanto per dire, i cinquanta maggiori gruppi italiani quotati in borsa hanno realizzato nel 2006 (dati Mediobanca) oltre 42 miliardi di utile. Nel 2007 non dovrebbero essere lontani dai 50 miliardi.

Dopo avere equamente rimunerato gli azionisti, gran parte dei suddetti gruppi potevano spendere il resto degli utili in investimenti rivolti ad aumentare la produttività del lavoro. Hanno invece speso somme colossali, ancora in tempi recenti, nel riacquisto di azioni proprie, o buybacks. Lungi dall’essere il segno d’una lungimirante politica industriale, come sono immancabilmente salutati dai commentatori economici, i buybacks sono effettuati in prevalenza allo scopo di far salire il prezzo delle azioni. Avendo di mira un duplice risultato: rendere più ostici eventuali tentativi di scalata al proprio gruppo da parte di altri gruppi, e soprattutto aumentare il guadagno derivante dalle opzioni sulle azioni che i manager hanno sottoscritto in passato (senza versare un euro), in attesa di tempi in cui il valore delle azioni sale di molto. Quelli, appunto, che il riacquisto delle azioni proprie miracolosamente avvicina. Risultati conseguiti a scapito degli investimenti e dell’aumento che questi potrebbero recare alla produttività del lavoro.

Il dubbio che a questo punto affiora è che, tutto sommato, alle imprese un aumento di produttività ottenuto accrescendo il valore aggiunto per ora lavorata in realtà importi poco. Naturalmente, se Carlo accetta di lavorare ai ritmi del film di Charlot tanto meglio. Ma in fondo basterebbe che lavorasse più a lungo. Nessun bisogno di investimenti per rinnovare gli impianti, migliorare l’organizzazione, inventare prodotti migliori. Sarebbe sufficiente che facesse un congruo numero di ore di straordinario, che lavorasse qualche sabato in più, o facesse qualche giorno di ferie in meno. Avvicinandosi così agli orari degli americani. Al riguardo il presidente di Confindustria è stato esplicito: ogni cinque anni in Italia, ha detto, si lavora un anno di meno che negli Stati Uniti. Trascurando qualche dettaglio. Gli americani lavorano 1800 ore l’anno anziché 1500, e fanno in media otto giorni di ferie pagate in luogo di trenta, perché l’assicurazione sanitaria privata di cui debbono forzatamente avvalersi è costosissima, l’istruzione universitaria per i figli pure, le retribuzioni di gran parte dei lavoratori dipendenti sono cresciute, in termini reali, di pochissimi punti rispetto agli anni 70, e i sindacati hanno quasi perso ogni potere. Se questo è il modello soggiacente all’idea di lavorare di più per guadagnare di più, la nozione autentica di produttività del lavoro, perfino il mite Charlot avrebbe qualcosa da obbiettare. Se poi nei fatti, cioè nei futuri contratti, il dubbio citato sopra circa il significato reale di produttività dovesse rivelarsi infondato, saranno in tanti a rallegrarsene.

In piedi per ore, nudi e con le mani alzate, o a fare il cigno o a piroettare come ballerine o ad abbaiare come cani per essere meglio derisi e insultati dalla polizia, dai carabinieri, dai medici. Intimidazioni politiche e intimidazioni sessuali, schiaffi, colpi alla nuca. Un salame usato come manganello, o agitato per meglio rendere le minacce di sodomizzazione. Gentili epiteti come «troia» e «puttana» alle ragazze, «nano di merda», «nano pedofilo», «nano da circo» a un disabile, costretto per sovrappiù a farsela addosso dal sadico rifiuto di accompagnarlo in bagno. Una mano divaricata e spezzata. Nuche prese a schiaffi e a colpi secchi. Piercing strappati, anche dalle parti intime. Promesse di morte, al grido di «Ne abbiamo ammazzato uno, dovevamo ammazzarne cento». Nella caserma di Bolzaneto, in quel di Genova 2001, dopo l'assassinio di Carlo Giuliani e l'assalto alla scuola Diaz, questi furono i fatti, secondo la ricostruzione dei pm al processo che si sta svolgendo in questi giorni. Lo sapevamo dalle testimonianze, adesso lo sappiamo, come si dice in gergo, dalla raccolta degli elementi probatori sottoposti a riscontri. Fu dunque tortura a tutti gli effetti, con tutto il carico di sadismo, sessismo, pornografia di cui la tortura è fatta. Conviene non volgere lo sguardo e leggere attentamente questa macabra descrizione: non solo a Abu Ghraib, non solo a Guantanamo, non solo nelle carceri dove «spariscono» le vittime delle «rendition» americane, la tortura è tornata ad essere uno strumento ordinario dello stato d'eccezione permanente in cui viviamo. «Standard Operation Procedure», normale procedura, come dice il titolo del documentario su Abu Ghraib di Errol Morris meritoriamente premiato alla Berlinale, come meritoriamente Hollywood ha premiato ieri «Taxi to the Dark Side», il documentario di Alex Gibey su sevizie e morte di un tassista afgano nella base americana di Bagram, caso d'avvio dell'uso della tortura da parte dell'amministrazione Bush dopo l'11 settembre. E certo, rivisto adesso - e non da adesso - il film di Genova appare una sinistra anticipazione su scala locale di quello che pochi mesi dopo, con l'11 settembre e la guerra al terrorismo, si sarebbe scatenato su scala globale. Una prova generale, come del resto a molti fu chiaro fin da subito.

Conviene non volgere lo sguardo e non rimuovere il fatto che a Bolzaneto quei gesti sono stati eseguiti, quelle parole sono state dette, quei piercing sono stati strappati, quei corpi sono stati denudati e derisi e colpiti, da quelle forze dell'ordine che dovrebbero presidiare lo stato di diritto. E' accaduto, e niente ci garantisce che non possa riaccadere. E fin qui, il discorso pubblico si è ben guardato dal seminare qualche parola immunitaria. Genova è sepolta nella memoria, riemerge solo nelle requisitorie dei pm e nelle sentenze dei giudici. Storia giudiziaria, questione di ordine pubblico: non entrerà nei comizi elettorali, come non è mai entrata nell'agenda politica; non è tema «eticamente sensibile», non c'entra con la Vita né con la Morte, non è fatta di maiuscole, non sta a cuore al Vaticano, non agita i teo-con, non si intona col pensiero positivo del Pd. Alla prima del suo film a Berlino, Errol Morris ha detto che l'ha girato per dire quanto si vergogna del suo paese. Qualcuno in sala ha commentato che è troppo poco, che la vergogna è messa in conto nel gioco delle opinioni della democrazia americana e non impedirà alle «standard operating procedure» di ripetersi. Può essere, ma chi si vergogna in Italia di Bolzaneto? Abu Ghraib, sostiene Errol Morris, forse non fu opera di qualche «mela marcia», come l'amministrazione Bush ha sostenuto assolvendosi; forse fu il picco di una prassi di abusi sistematica, e certo fu il sintomo del degrado della tavola dei valori della democrazia americana. Di che cosa fu sintomo Bolzaneto quanto alla democrazia italiana, di che cosa picco, chi autorizzò le «mele marce» di quella caserma, chi ci garantisce che altre mele non marciscano? Un processo istruisce queste domande, ma sta alla politica, e a noi tutti, rispondere.

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