Titolo originale: After extensive consultation, we'll be doing as we please – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Le consultazioni sono state una delle principali caratteristiche degli anni di Blair-Brown. Si legano a Tony Blair, al suo “grande dialogo”, alla sua “grande tenda”. Ma i più sarcastici sostengono che avvengano solo perché poi il governo sia in grado di far precedere agli annunci politici più difficili le rassicuranti parole “Dopo ampie consultazioni …”
Ce ne sono al momento circa 500 l’anno, e l’anno scorso si è arrivati alla reductio ad absurdum quando è stato pubblicato il documento Effective Consultation, ovvero una consultazione sulle consultazioni. La risposta del pubblico rivela che la “fatica mentale della consultazione” è una cosa che si sta affermando, si teme che le domande poste siano troppo tecniche, semplicemente irrilevanti, e in generale che le risposte saranno comunque ignorate. Un aspetto ben descritto dall’umorista americano Ambrose Bierce nel suo Devil's Dictionary, che definisce il verbo “ consultare” come: “ chiedere l’approvazione altrui a qualcosa che si è già deciso”.
Il che ci porta a un caso di consultazione importante che si conclude questa settimana: quello sui progetti per una terza pista e l’ampliamento dell’aeroporto di Heathrow. Sia Gordon Brown che il suo ministro ai trasporti Ruth Kelly hanno reso molto chiaro il proprio entusiasmo a proposito. Parallelamente, in una serie di “ road-show” del ministero dei Trasporti è stato chiesto alla gente che abita vicino all’aeroporto cosa ne pensava. Beh, più o meno.
Il road-show dove sono stato si teneva in uno Holiday Inn nella zona occidentale di Londra. Fra carte di corridoi di volo e punti di rilevamento per il rumore degli aerei, c’erano delle bacheche contenenti i corposi documenti della consultazione, intitolati Adding Capacity at Heathrow. Sono rivolti a 250.000 persone che abitano vicino all’aeroporto, e che hanno risposto alle domande.
Entrando nella sala consultazione ho visto un uomo – un membro del pubblico in carne e ossa – che leggeva una delle domande, aggrottando la fronte. “Un momento” diceva. “Qui si chiede: Sino a che punto lei è d’accordo con la proposta che nel caso si costruisse una terza pista a Heathrow, essa dovrebbe accompagnarsi a nuove strutture di terminal passeggeri?”. Ha sollevato gli occhi mentre rifletteva concentrato. “Ma io non la voglio, la terza pista a Heathrow” ha concluso.
Sadicamente gli ho chiesto cosa ne pensava di un’altra delle domande: “ Sino a che punto lei è d’accordo, o no, sull’aggiunta di una terza pista entro i limiti di qualità dell’aria stabiliti dal documento guida, senza altri interventi?”. Gli ho indicato la parte del documento di consultazione che dovrebbe aiutarlo a rispondere a questa domanda, trovando immediatamente un passaggio caratteristico: “ Restano ad oggi alcune incertezze riguardo ai modelli sull’intensità delle emissioni di ossidi di azoto, che potrebbero essere superiori o inferiori a quanto previsto, ma l’andamento delle concentrazioni di azoto non dovrebbe divergere in modo significativo”. L’uomo ha di nuovo sollevatolo sguardo. “Aspetti ...”
“É una consultazione molto difficile” ammetteva un funzionario estremamente cortese, a disposizione per rispondere alle domande. “É molto tecnica”.
Gli ho risposto che non doveva per forza essere così, che il governo avrebbe potuto semplicemente chiedere: “ È favorevole alla costruzione di una terza pista all’aeroporto di Heathrow”. Ha risposto automaticamente che c’era già stata una consultazione su questo, citando quella precedente il documento guida del 2003, il quale gaiamente prevedeva un raddoppio degli impianti aeroportuali nei prossimi 25 anni. In quella consultazione, l’idea di massima di ampliare le capacità aeroportuali era stata proposta in modo molto generico a tutta la popolazione del sud-est inglese. “E avevano risposto di sì?” ho chiesto al funzionario. “Beh – ha ribattuto – c’era tutta una gradazione di risposte”.
Ci sono state parecchie consultazioni sull’ampliamento di impianti aeroportuali, tutte più o meno famigerate tra chi abita nei corridoi di volo: una si è distinta per essersi guadagnata la definizione di “ concretamente fuorviante” dal tribunale supremo. Ho ricordato al mio funzionario che le consultazioni sono piuttosto prive di significato nel caso dell’aeronautica. “Beh – replicato – devono partire da una base di scelte”.
La base di scelte in questo caso è che Gordon Brown non solo vuole la terza pista, ma anche eliminare l’alternanza nell’uso delle piste, con gli aerei che atterrano su ciascuna di quelle esistenti una settimana sino alle tre del pomeriggio, e la settimana dopo solo dopo le tre. In questo modo, si dà un po’ di sollievo dall’orrendo fracasso a chi abita più vicino lungo i corridoi: gli si concede, per così dire, una mezza vita. Naturalmente, a chi ci abita non viene chiesto se sono o meno a favore di questa possibile sospensione dell’alternanza, o della costruzione della terza pista, per l’ottimo motivo che tutti risponderebbero di NO.
Un’altra importante e recente consultazione ha riguardato la modifica delle procedure urbanistiche, ora all’esame del parlamento. Anche qui aleggia il fantasma di Ambrose Bierce: è ampiamente diffusa fra i consultati l’opinione che il progetto di legge sia stato redatto prima di analizzare le loro risposte. Il disegno di legge è stato ispirato dalla procedura di revisione pubblica del progetto per il quinto terminal di Heathrow, durata cinque anni: troppo, per il governo. Il terminal, che aprirà il mese prossimo, alla fine della procedura è stato autorizzato come ultimo definitivo passo nell’ampliamento di Heathrow, condizione allora accettata dal governo e ora dimenticata. Il disegno di legga taglia drasticamente il diritto di interferire nelle decisioni urbanistiche, e verrò approvato prima che la British Airports Authority presenti la propria domanda per la terza pista.
Si: si tratta di una fregatura di proporzioni colossali. Si apre la strada alla BAA, compagnia private a capitale spagnolo, per deportare migliaia di persone, radere al suolo il villaggio storico di Sipson (qui non si sono tenuti road-show di consultazione, a causa di “mancanza di spazi adeguati”): tutto per realizzare una pista che produrrà ogni anno emissioni di carbonio equivalenti all’intera produzione del Kenya.
Al timone della grande alleanza che coraggiosamente si oppone a tutto questo c’è Hacan ( Heathrow Association for the Control of Aircraft Noise) Clearskies, il cui presidente John Stewart ha chiesto a chi viene chiamato in causa di ignorare le domande della consultazione: “Ma dove dice Commenti Generali scrivete: MI OPPONGO A QUALUNQUE ULTERIORE AMPLIAMENTO DI HEATHROW”. Questa, aggiunge, è una linea di confine.
Hacan terrà una manifestazione contro l’ampliamento di Heathrow alla Westminster Central Hall lunedì alle 19.00.
Nota: sulle modalità dei rapporti cole popolazioni locali si veda anche su Mall questo articolo dall'Independent 23 febbraio 208 (f.b.)
Non è una bomba a orologeria, o almeno speriamo che non lo diventi, ma il conto alla rovescia è già cominciato. Il calendario lascia ormai meno di due mesi, prima delle elezioni che potrebbero riconsegnare l’Italia al centrodestra, per approvare il nuovo Codice dei Beni culturali e del Paesaggio presentato dal ministro Francesco Rutelli. E inopinatamente, anche da parte di alcuni settori del centrosinistra sono in atto le “grandi manovre” contro una riforma fondamentale per salvaguardare l’ambiente, l’identità e l’immagine del Belpaese.
Predisposta da una commissione di esperti sotto l’autorevole presidenza del professor Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, la riscrittura del Codice ha il merito principale di restituire allo Stato la competenza “esclusiva” sulla tutela del paesaggio, in sintonia con la sentenza della Corte costituzionale del novembre scorso. Il potere centrale si riappropria in questo modo di alcune prerogative sul governo del territorio che per definizione, riguardando un patrimonio collettivo, non può essere localistico, municipale o regionale, frazionato insomma tra una pluralità di soggetti amministrativi spesso in conflitto tra loro. In forza di una legge delega già prorogata di due anni, il termine ultimo per ratificare il provvedimento scade il 1° maggio, ma difficilmente il testo sopravviverebbe in questa versione a una vittoria elettorale del centrodestra.
Nello spirito dell’articolo 9 della Costituzione, secondo cui “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, la riforma introduce innanzitutto l’obbligo di una pianificazione congiunta fra Stato e Regioni per elaborare i piani paesaggistici. In questa procedura, è previsto poi il parere vincolante delle Sovrintendenze su qualsiasi intervento urbanistico o paesaggistico che incida su territori vincolati. E inoltre la sub-delega dalle Regioni ai Comuni, per i piani e le licenze edilizie, viene subordinata all’istituzione di uffici con competenze specifiche.
Prima dell’approvazione definitiva da parte del governo uscente, occorrono però i pareri consultivi delle competenti Commissioni parlamentari (Cultura e Ambiente) e prima ancora quello della Conferenza Stato-Regioni. È proprio in questa sede che è scattata la trappola dilatoria per allungare l’iter procedurale e insabbiare il provvedimento. Di fronte alla convergenza dei Comuni e delle Province, seppure condizionata a qualche ritocco ragionevole e accettabile, sono state alcune regioni governate dal centrosinistra come la Toscana e la Calabria (in quest’ultima l’assessore al Turismo è stato arrestato nei giorni scorsi in un’operazione antimafia), alleate per l’occasione ad alcune regioni di centrodestra come la Lombardia e il Veneto, a tirare il freno per difendere i propri poteri decisionali, nonostante la disponibilità di altre regioni di centrosinistra tra cui il Piemonte, la Sardegna, la Puglia e la Basilicata.
Di rinvio in rinvio, si rischia ora di far naufragare in extremis il Codice Rutelli provocando una spaccatura all’interno dello stesso Partito democratico. Non a caso, quando il Pd ha organizzato il suo recente convegno sull’Ambiente a Firenze, il presidente della giunta regionale toscana, Claudio Martini, aveva contestato pubblicamente il testo elaborato in più di un anno di lavoro dalla commissione Settis, bollandolo come un “passo indietro” nel governo del territorio. Allo slogan del cosiddetto “ambientalismo del fare”, si contrappone perciò un interrogativo che merita una risposta chiara e definitiva: per fare che cosa? Le “grandi opere”, l’autostrada della Maremma o le villettopoli sul modello di Monticchiello, contestate non solo dai Verdi ma da tutto il fronte ecologista? Oppure, per fare ecomostri da abbattere poi a colpi di denunce e cariche di dinamite?
Da qui alle elezioni di metà aprile, questo diventa perciò un test importante per definire il profilo ambientalista del Partito democratico guidato da Walter Veltroni. Non c’è nulla di rivoluzionario, di radicale o di massimalista, nel Codice sul Paesaggio. Non è stato concepito da una “sinistra antagonista”, come si suol dire a volte in tono spregiativo, ma da una cultura riformista delle conoscenze e delle competenze. E si tratta di uno strumento utile anche a fini economici, per incentivare il turismo di qualità e quindi l’occupazione di tutto l’indotto.
Mentre la sottosegretaria ai Beni culturali, Danielle Mazzonis, avviava un tentativo di mediazione per superare l’impasse, il professor Settis ha scritto intanto a Rutelli per esprimergli la sua preoccupazione e sollecitarlo a respingere l’ostruzionismo di quelle che lui stesso chiama le “regioni palazzinare”: tanto più che il governo ha la facoltà di approvare il Codice anche contro un loro eventuale parere negativo. “Benedetto Croce – ricorda in conclusione la lettera - fu ministro per un solo anno, ma ancora si studia la sua legge sul paesaggio, la prima nella storia d’Italia”. Si farà in tempo ora ad approvarne una nuova, a quasi un secolo di distanza?
Roma – A questo punto la domanda è:servono le Regioni ? A quasi quarant’anni dall’entrata in funzione degli enti regionali. Augusto Barbera, ordinario di diritto costituzionale a Bologna, parte dall’assunto che si debba dare un senso al federalismo. “Individuati con chiarezza gli obiettivi, so possono affrontare i problemi normativi e predisporre le soluzioni tecniche più adeguate. Servono le Regioni ? E a quale scopo ? E con quali compiti ? Quali gli obiettivi da perseguire ‘ Quali i collegamenti fra Regione e gli enti locali ?”
Appunto, professore, quali obiettivi perseguire ?
“Si sovrappongono due linee di politica istituzionale: una centralistica e l’altra localistica. La prima cerca di trattenere allo Stato il maggior numero di funzioni, prendendo spunto dalla tutela di interessi nazionali, dall’attenzione ai vincoli di bilancio, dal perseguimento di malintese politiche meridionalistiche; l’altra linea cerca invece di trasferire il massimo possibile di funzioni.”
Una contrapposizione netta che si sta estremizzando, no ?
“Una contrapposizione ideologica, soprattutto, che trascura come il problema sia il centralismo, ma anche il localismo.”
Perché mai il localismo sarebbe un problema ?
“La pianificazione territoriale è invischiata in logiche campanilistiche che inducono a mettere da parte i tentativi di pianificazione seria. La ricchissima rete di aziende pubbliche ha cominciato a superare la dimensione locale, ma è frenata da logiche municipalistiche, si moltiplicano strutture sottodimensionate. Infine, i Comuni, grazie al potere di veto, respingono o ritardano l’insediamento di impianti come i termovalorizzatori, le centrali.”.
E gli ospedali ?
“Problemi anche qui. L’alleanza fra corporazioni mediche e interessi campanilistici rende impossibili in alcune regioni una seria pianificazione ospedaliera. E le università ? la ricerca di fondi le porta a disperdere energie, disseminando sedi anche in piccoli comuni.”
La questione Malpensa diventa questione padana anziché internazionale, da aeroporto Hub.
“Nell’area padana ci sono diciotto aeroporti. Prendo l’Emilia-Romagna, dove vico: c’era solo Bologna, oggi ci sono anche Rimini, Parma, Licenza e Forlì.”
Troppi livelli decisionali ?
“Decisamente troppi. Andrebbero rivisti tutti i poteri decentrati, liberando energie locali e attribuendo maggiore autorità al centro.”
L’occhiello che il Messaggero ha messo all’intervista, e che ne riassume il contenuto, è il seguente: “Il costituzionalista Barbera: con le logiche di campanile impediscono una seria pianificazione”. D’accordo. Moltri segni indicano che si tende a tornare indietro rispetto al rigurgito devoluzionista cominciato quasi un decennio fa. Sebbene sia rarissimo il caso ch qualcuno si interroghi sul merito delle ragioni dei NO: la TAV in val di Susa non è solo compattuta per i danni ambientali, ma per l’assoluta inconsistenza dell’efficacia economica e trasportistica. Il MoSE nella Laguna di Venezia è contestato perché inutile e dannoso ai fini stessi che si propone, e del tutto insostenibile dal punto di vista economico. E così via. Barbera non fa essezione a questo modello di ragionamento ameno miope, che difende l’efficienza delle decisioni ma trascura il giudizio sulla loro qualità.
Ma c’è un altro punto che vogliamo sollevare. Dice Barbera: le logiche di campanile “inpediscono una seria pianificazione”. Gli chiediamo: quando mai lo Stato hanno fatto una “seria pianificazione”? Quando mai ha esposto l’insieme delle loro scelte sul territorio, orientate a una strategia di lungo periodo (in materia di grandi infrastrutture, le tutele dei beni paesaggistici d’interesse nazionale, le precauzioni connesse alla difesa del suolo, le ricadute territoriali delle politiche energetiche, agricole, trasportistiche ecc.), curandone la coerenza complessiva e riferendole esattamente al territorio? Quando mai su questo complesso sistematico di scelte, , lo Stato ha coinvolto nella discussione l’insieme del sistema delle autonomie locali, applicando quei principi di trasparenza e di condivisione che a ogni piè sospinto vengono predicate? Eppure, fin dal 1977 (Dpr 616/1977, articolo 81) lo Stato avrebbe il dovere e l’impegno di farlo: di definire le “linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale,con particolare riferimento alla articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo”. Rispetti lo Stato i suoi impegni e adempi ai suoi doveri; dopo, avrà buon gioco a chiedere anche agli altri di farlo.
Delusa, amareggiata, pronta a lasciare. O quasi. Marina Marino, 45 anni, urbanista, a capo dell'Ufficio tecnico del Comune di Bagheria (Palermo) si è presa una pausa di riflessione, ma in paese, dove i boss mafiosi locali la sopportano malvolentieri già da qualche anno, si è capito che potrebbe lasciare. Laureata all'Università di Venezia Marina Marino è arrivata qui dopo aver vinto una selezione pubblica quando al vertice del Comune c'era Pino Fricanò sindaco ché si compiaceva di frequentare Francesco Campanella, uno dei complici di Bernardo Provenzano oggi pentito: era il 2003
Decisiva è stata la seduta del consiglio comunale di mercoledì sera quando la maggioranza di "rinnovamento" che attualmente guida il Comune dopo una lunga tradizione di commissariamenti per infiltrazioni mafiose non ha avuto la forza politica di fermare la richiesta presentata dai parenti di un boss locale. Oggetto della delibéra è la destinazione urbanistica dell'area di fronte al Municipio, l'ex palazzo delle Poste italiane, che la famiglia del boss Pietro Lo Iacono, già condannato, in primo grado, a 13 anni di carcere nel dicembre del 2005 per associazione a delinquere di stampo mafioso, ha acquistato per 700mila euro nel 2004. Il figlio di Lo Iacono, il nipote (si chiamano ambedue Carmelo) e la moglie Dorotea Zarcone, hanno presentato alla fine di giugno del 2005 domanda per cambiare la destinazione urbanistica dell'immobile: l'obiettivo è di farne un centro commerciale. L'ufficio guidato dà Marina Marino si è opposto e da allora il contenzioso è andato avanti. L'atto del consiglio comunale poteva chiudere l'intera partita destinando l’area a spazio pubblico a servizio della città. Ma la delibera è stata respinta dal consiglio comunale grazie ai voti della minoranza (qui rappresentata dai partiti del centrodestra) e all'assenza di almeno sette consiglieri della coalizione che appoggia il sindaco Biagio Sciortino, il quale ha sì nel programma l'impegno antimafia ma era assente per partecipare a un convegno. Non è stata tenuta in considerazione l'informativa antimafia della Prefettura: «Le ditte interessate, per le provate cointeressenze e per gli stretti vincoli di parentela con l'appartenente alla mafia Pietro Lo Iacono, possono subire condizionamenti mafiosi».
Questa la goccia che ha fatta traboccare il vaso: «La politica si è dimostrata in questi anni molto debole in alcune materie» dice Marina Marino. In questa occasione poteva dimostrare una vera volontà di rinnovamento in quello ché è stato per anni il Comune simbolo della mafia guidata da Bernardo Provenzano. Marina Marino ha anche redatto il nuovo Prg di Villabate, regno dei boss Nicola e Nino Mandalà (uomini di Provenzano): un piano regolatore che ha cambiato destinazione d'uso all'area su cuì doveva sorgere il centro commerciale voluto dalla mafia che dunque non pótrà più essere costruito.-E c'è un'aItra scortesia alla mafia che l'urbanista Marino ha preparato a Bagheria: ha predisposto un regolamento per l’assegnazione di trenta lotti nell’area di insediamento produttivo che prevede l'obbligo di presentare il certificato antimafia a chi voglia accedervi. Una previsione che-qualcuno, si dice in paese, vorrebbe surrettiziamente aggirare facendo in modo che si debba presentare solo un’autocertificazìone antimafia. Sarebbe il massimo, considerato che quei lotti sono stati pensati per accedere anche ai fondi del Patto territoriale di Bagheria in totale 47,57 milioni di investimenti dì cui 35,85 milioni di fondi pubblici. La delibera doveva andare in Consiglio giovedì sera ma la seduta è stata rinviata. Vedremo come andrà a finire.
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L’altro giorno a Grosseto al convegno «L’albergo non è una casa» un alto, elegante ufficiale della finanza, in divisa, ha raccontato una delle storie più losche nell’ambito di abusi edilizi che mi sia capitato di ascoltare. Il tono della voce studiato per non tradire nessuna emozione accentuava l’aspetto veramente incredibile e anche grottesco su come poteri locali, funzionari pubblici che dovrebbero certificare la perfetta rispondenza alla legge dei contratti di compravendita delle case e imprenditori d’assalto, che sembrano arrivati dall’isola della Tortuga, si sono messi d’accordo per truffare i cittadini e lo Stato e farsi passare per benefattori.
In Toscana la straordinaria bellezza dei luoghi, quell’atmosfera incantevole in cui sono immerse le colline, il modo con cui l’uomo ha saputo inserirsi nella natura mantenendo un perfetto equilibrio non vanno protetti e mantenuti solo per il piacere di pochi esteti. Costituiscono le fondamenta dell’economia locale, basata da sempre sui forestieri, senza i quali non saprebbero a chi vendere i caci, la finocchiona, le terrecotte, il panforte, l’olio buono e il vino buono e tutto il resto. Il paesaggio in Toscana può essere paragonato a quello che rappresenta lo Stock Exchange per New York o la Ford per Detroit o i grandi vini per Bordeaux. Ecco perché qualsiasi manomissione del territorio «plus qu’un crime, ça à étè une erreur», come dicono benissimo i francesi, dove errore sta per cazzata: il classico modo di darsi la tradizionale zappa sui piedi.
Sembra incredibile ma in Toscana continuano a farsi male con questa zappa, anche se le vicende edilizie variano molto da zona a zona. In questa regione, che dovrebbe avere più sensibilità di altre, le cose vanno molto peggio che in Emilia Romagna, il cui governo ha dato interpretazione restrittiva delle norme che regolano in generale l’urbanistica. Qui invece sta dilagando un fenomeno abbastanza nuovo, almeno in queste dimensioni soprannominate: «Viva le RTA», intese come residenze turistico alberghiere, ovvero come costruire quello che non si può costruire, nei terreni vincolati al verde, pagando meno tasse, e fregando turisti con promesse non mantenute e privati con contratti fasulli. Queste RTA vengono usate come grimaldello per aprire porte che altrimenti resterebbero chiuse. Un esempio: il piano regolatore proibisce di costruire in una certa area di solito tra le più amene per riservarla al verde pubblico, escludendo tassativamente edifici di qualsiasi genere. Niente paura. Si fa una finta ricognizione delle capacità ricettive della città, si scopre di aver bisogno di altri posti letto per i turisti e a ruota si presenta una domanda per una o più installazioni di che, in deroga al piano regolatore, prevede l’insediamento proprio nelle zone proibite e molto ambite dagli speculatori. A questo punto si lancia una campagna in favore dell’insediamento per allargare le potenzialità del paese, che non trova molti oppositori: si faccia avanti chi è contro il turismo in Italia?
Naturalmente tutti o quasi tutti sono a favore, in buona o in cattiva fede e con rapidità si dà inizio ai lavori dell’albergo. I due aspetti più strabilianti di tutta la faccenda, che è tutta straordinaria, sono almeno due: il primo è la sicurezza e la tracotanza con cui i costruttori mettono mano fin dall’inizio a edifici con appartamenti privati, senza simulare di stare costruendo un’RTA e quando la palazzina è finita si passa alla vendita ai privati senza mettere in scena nemmeno per qualche giorno la parvenza di un albergo con camerieri e insegne turistiche. Il secondo aspetto è rappresentato dai contratti di compravendita, che nei casi migliori sono stilati dai notai con uno stile che riecheggia la prosa dell’Azzeccagarbugli di manzoniana memoria, in cui si dice tutto e il contrario di tutto. E nei casi peggiori certificando il falso quando si rassicura il compratore affermando che lui ha la piena proprietà dell’immobile.
Mi risulta che in Toscana almeno un ufficiale della finanza ha chiesto alla magistratura di mandare nelle patrie galere qualcuno di questi notai meno coscienziosi, diciamo così, ma la sua richiesta non è stata accettata. Come finale paradossale di tutta l’operazione i costruttori in questo modo non solo truffano gli acquirenti, ma anche lo Stato venendo a pagare meno tasse.
L’ufficiale parlava della propria area di competenza, che era quella di Massa Carrara, ma il fenomeno è diffuso quasi ovunque in Italia. Quanto alle giunte che dovrebbero sorvegliare con occhio attento ad ogni minimo tentativo di manomettere il territorio, sembra che stiano perennemente con la testa dentro uno scatolone di sabbia. Come spiegare altrimenti lo strano comportamento dei comuni della Toscana che dovevano chiedere ai costruttori la tassa prevista per il cambiamento d’uso degli edifici: quasi tutti, con eccezione di Pisa e di altri due centri minori, si sono dimenticati di chiederla. Era uno sforzo superiore alle loro possibilità.
Cominciamo dall'idrovia, "concepita nel 1965, doveva servire a togliere i troppi camion dalle strade e abbattere l'inquinamento. Invece ci costruiranno su un lato una strada camionabile: dopo il danno, la beffa". Quando parla del canale mai completato, con enorme spreco di denaro pubblico, si infervora il cavaliere Antonio Canova, presidente del Comitato di salvaguardia del territorio. Il sodalizio è nato a maggio con una assemblea di oltre 500 abitanti e i sindaci di Vigonovo, Saonara, Fossò, Camponogara, Dolo e Mira, cioè dell'hinterland tra Padova e Venezia; e il 13 dicembre scorso sono scesi in piazza.
La storia è molto di più di una bega del Nord-est. E non è soltanto un problema di traffico. Perché accanto alla beffa idrovia-camionabile si sta giocando un'altra partita. "C'è da denunciare un altro pericolo", annuncia il consigliere provinciale dei Verdi di Padova, Paolo De Marchi: "La Regione sta covando in segreto il progetto di un maxi porto off-shore, 18 chilometri al largo delle foci del Po di Rovigo". Lunga 528 metri e larga 156, la piattaforma artificiale servirà per l'attracco delle grandi navi portacontainer. E diventerà il luogo di smistamento, su battelli più piccoli, dei container destinati ai porti di Ravenna, Chioggia, Venezia, Trieste, Slovenia e Croazia, dove i mostri navali con chiglie profonde 25 metri non possono attraccare. "Visto che l'idrovia non l'hanno completata, per trasportare poi i container da Venezia verso l'entroterra ci sarà un fiume continuo di camion anche sulla strada che vogliono costruire sulla sponda destra", spiega il sindaco di Saonara, Andrea Buso. Saranno necessarie, si teme, una nuova strada statale, detta Romea commerciale, che affianchi la esistente Romea tra Mestre e Ravenna, e una nuova autostrada a lato di quella già ingolfata dal traffico tra Padova e Venezia.
Non basta. Sono in doppio allarme anche i pescatori del Polesine, già in scompiglio per la costruzione, nello stesso tratto di mare davanti al delta del Po, del rigassificatore previsto dal governo. Alessandro Faccioli, vicepresidente di Federcoopesca, che nella zona conta 1.500 associati più 24 cooperative, parla chiaro: "Tra il traffico delle grandi navi e le zone di rispetto attorno al porto off-shore e al rigassificatore, lo specchio di mare dove poter pescare si ridurrà ancora di più. Importeremo dalla Cina anche il pesce?".
Nonostante le proteste, in Regione è dato per scontato che la costruzione della piattaforma inizierà l'anno prossimo. Merito di quattro robusti genitori: Consorzio Venezia Nuova, Autorità del Porto di Venezia, Consorzio Interporto di Rovigo e impresa Mantovani. Il costo è notevole, almeno 500 milioni di euro. "Ma sono disposte a finanziarci Bnl, Monte dei Paschi, Unicredit e Sanpaolo", spiegano il presidente dell'Interporto di Rovigo, Mario Borgatti, e l'ingegnere capo dei progettisti della Mantovani, Piergiorgio Baita.
Con buona pace dell'idrovia Padova-Venezia: dal lontano1965 sono stati spesi oltre 100 milioni di euro per scavare solo parte del tracciato e costruire tutti i ponti per le strade che dovrebbero attraversarla (e che oggi attraversano l'aria). L'anno scorso Padova, città con due fiumi e vari canali, a causa delle forti piogge ha rischiato grosso un'altra volta. Il Comune ha diramato istruzioni alla popolazione su come comportarsi in caso di alluvione. E uno studio del docente di ingegneria idraulica Luigi D'Alpaos dimostra che in mancanza dello sfogo a mare assicurato dall'idrovia completata, Padova rischia danni enormi. "Ben maggiori dei 50-100 milioni necessari a completare questa benedetta idrovia osteggiata dalle lobby delle auto e dei pedaggi autostradali", conclude Carlo Crotti, presidente dell'associazione Salvaguardia idraulica del territorio padovano e veneziano.
Due bei debutti per il neo-ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo: a livello internazionale è andata a chiedere a nome dell’Italia una riduzione dei parametri fissati a Kyoto contro le emissioni di gas serra, ritenendoli troppo alti per noi; a livello interno ha cancellato per decreto la commissione tecnica per la valutazione dell’impatto ambientale (Via) composta da elementi capaci e quindi «scomodi». Tale cancellazione ha più di un risvolto inquietante. Intanto essa è stata infilata nel decreto legge sui rifiuti, pur essendo materia "assolutamente estranea ai contenuti e ai motivi di necessità e di urgenza che hanno portato alla redazione del decreto legge sui rifiuti" (l’osservazione critica, assai pertinente, è dell’ufficio legislativo del Wwf). Inoltre l’azzeramento tecnico-scientifico è stato motivato, tragicomicamente, col "contenimento della spesa pubblica" poiché riduce da 60 a 50 i componenti della detta commissione tutta da rinominare nei prossimi tre mesi dai nuovi ministri (il vero titolare della grandi manovre ambientali sembra Altero Matteoli, ministro per le Infrastrutture, autore di un Codice per l’ambiente mai abbastanza deprecato).
Va detto subito che il numero di 60 componenti non nasceva a caso: ci sono valutazioni ambientali e valutazioni ambientali strategiche, o VAS (per i grandi progetti soprattutto), volute dalla direttiva europea per la quale, attenzione, il governo Berlusconi è stato già condannato per il mancato recepimento. Le VAS richiedono esami delicati, dettagliati, approfonditi, e quindi tecnici in grado di svolgerli seriamente e nei tempi dovuti. Esigenza riconosciuta pure dal TAR. Evidentemente, ora si vogliono invece valutazioni "semplificatissime", quindi ultraveloci, compiute da tecnici più allineati al nuovo corso Prestigiacomo-Matteoli di quelli testé "cancellati". All’articolo 7 del decreto sui rifiuti si fa capire anche un’altra cosa allarmante: con il decreto legge col quale sarà rifatta (su misura) la nuova commissione per la VIA sarà pure riordinato il Ministero medesimo. Altra decisione quanto meno sorprendente. Siamo in realtà ad uno sbrigativo spoil-system "esteso impropriamente", nota sempre il Wwf, "oltre che agli incarichi apicali della pubblica amministrazione di nomina politica, anche ad una commissione tecnica", con l’aggravante dell’uso della decretazione di urgenza. Ma quale urgenza poi? Con questa "cancellazione" della commissione tecnica si perdono in realtà mesi e mesi, si vanificano lavori delicati (appunto) in corso di esame. Decreto legge quindi da bocciare su tutta la linea.
Ma la voce che gira negli ambienti ministeriali è che Altero Matteoli voglia portare presso di sé, cioè alle Infrastrutture, la valutazione d’impatto ambientale, soprattutto in materia di grandi opere, come l’amatissimo Ponte sullo Stretto col quale - l’ha ridetto l’altro giorno Silvio Berlusconi - "passerò alla storia". E Matteoli con lui, s’intende.
Dal canto suo, l’onorevole Sandro Bondi ha debuttato davanti alla commissione Cultura della Camera con una audizione da maratoneta durata oltre cinque ore. Ha cercato di "volare alto" per evitare le secche della difficile situazione finanziaria. Ha detto una cosa importante: non retrocederà dal Codice Rutelli per i beni culturali e il paesaggio al più debole e ambiguo Codice Urbani sulla stessa materia. Bondi condivide "pienamente il pensiero del professor Salvatore Settis" secondo il quale il nuovo Codice è "un importante passo avanti nell’attuazione della Costituzione repubblicana. Può esserlo. Dipende da noi". Il neo-ministro si è pure detto impressionato da "città devastate dalla bruttezza e dal degrado" : "la bruttezza e il degrado generano violenza. Per questo dobbiamo investire nella bellezza". Sante parole. Come quelle in cui Bondi assicura che avvierà una collaborazione con le Regioni "mediante l’inserimento di più specifici contenuti prescrittivi e mediante la redazione di nuovi piani paesaggistici" Ma, come ha già notato su questo giornale Stefano Miliani, tanta buona volontà deve fare i conti con…Tremonti e con la manovra finanziaria che, secondo il "Sole 24 Ore" di giovedì 5 veleggia "verso i 35 miliardi", da coprire riducendo anche le spese, già quanto mai asfittiche, destinate ai Beni e alle attività culturali (Bondi ha riconosciuto che per queste voci fondamentali spendiamo appena lo 0,28 per cento del bilancio dello Stato, cioè 2,3 miliardi di euro, ponendoci "agli ultimi posti tra gli Stati europei"). Per compensare infatti il taglio dell’Ici, il ministro dell’Economia ha tolto ai Beni culturali 4,9 milioni di euro e altri 7,7 ne sottrarrà ai fondi speciali. Il taglio più contraddittorio e più pesante riguarda tuttavia proprio il paesaggio sul quale le intenzioni del neo-ministro sembrano così incoraggianti. Dalle parole ai fatti il clima cambia: sinora è confermata la cancellazione dei 15 milioni all’anno per un triennio che Rutelli aveva destinato all’abbattimento di "ecomostri", dalle torri del Villaggio Coppola a Pinetamare al grande scheletro cementizio dell’isola ligure di Palmaria, e via elencando. Se così fosse, saremmo davvero alle beffe.
In tanta austerità - che rischia di bloccare del tutto la già zoppicante macchina del Ministero nelle "ordinarie" attività di tutela e di restauro (ci sono Soprintendenze dove sono già finiti i soldi del 2008 per francobolli e telefoni) - spunta l’idea di un nuovo direttore generale (ce ne sono già una quarantina al MiBAC) il quale, secondo Bondi, dovrebbe fungere da super-coordinatore dei 3.500 musei italiani. Un grande manager con relative stock options? Un iperdirettore di musei pescato non si sa dove? Per spremere più introiti da biglietti e ingressi, forse. Che non è il compito dei musei per buona parte gratuiti proprio per la fondamentale funzione culturale ed educativa che essi svolgono.
Ma anche all’onorevole Bondi, ahimé, piace molto l’identificazione cultura-turismo culturale. Che invece sono cose diverse: l’una è la "materia prima", che ha valore in sé al di là dei ricavi che se ne possono trarre, e l’altro è uno degli utilizzi della medesima. Così si rischia invece di ridurre tutto a mercato. E poi, i musei statali sui quali il Ministero potrebbe agire sono un quinto di tutti i musei italiani anche se, in più d’un caso, risultano i maggiori. Ci sono infatti i musei comunali, prevalenti al Centro-Nord (dai Capitolini al Castello Sforzesco, dai genovesi Palazzo Rosso e Bianco all’Archeologico di Bologna, a tutti i musei bresciani). Poi vengono i Diocesani, gli Ecclesiastici ormai più di 600. Un coordinamento nazionale sembra francamente arduo e problematico. A meno che non si debba recuperare qualche supercritico specialista in comunicazione oggi in panchina dopo aver cercato, invano per ora, di salire in Campidoglio. Mentre l’attuale, stimato direttore generale del MiBAC, Giuseppe Proietti, mi risulta ancora in attesa di riconferma.
Il ministro degli interni s'è accorto che la prostituzione è materia delicata e che ci vogliono almeno una quindicina di giorni prima di legiferarci sopra, e così il geniale emendamento Berselli-Vizzini sguscia dal decreto sicurezza e passa al disegno di legge, o forse agli archivi. Gli stessi Berselli e Vizzini del resto, un attimo prima di passare alla storia, si sono accorrti che appiccicare il loro geniale emendamento in coda al decreto sicurezza correva il rischio di essere incostituzionale. I geniali emendatori e il ministro non potevano accorgersene prima? Sì, se avessero un'idea di che cosa vuol dire legiferare. Ma non ce l'hanno. Da quando ha messo piede in parlamento quattordici anni fa, la (non più) nuova destra italiana capitanata da Silvio Berlusconi crede che legiferare significhi sparare l'annuncio eclatante di una cosa che non si può fare, farlo rimbalzare su tutte le tv e le gazzette del regno, far sognare agli italiani una soluzione magica effetto di una bacchetta magica, e infine non farne nulla o quasi. Fino alla volta successiva, quando il copione ricomincia da capo.
La prostituzione è un problema, come sempre e oggi, in tempo di mercato globale e mercificazione totale, più di sempre? Un emendamento e via, le prostitute diventano «socialmente e moralmente pericolose», vengono sbattute in galera o al confino e come per incanto spariscono dalle strade e dalla vista. Poi si scopre che la prostituzione, come tutte le cose di questo mondo, è l'effetto di una catena di rapporti complessi - nella fattispecie, rapporti di sesso, di potere e di danaro -, che la bacchetta magica non funziona, che usarla contro l'elemento finale della catena, cioè le prostuitute di strada, senza attaccare gli altri, cioè i clienti e gli organizzatori del traffico, è delirante, e il problema resta lì dov'era.
Nel frattempo però è stato raggiunto il risultato più importante, che non riguarda affatto il problema della prostituzione ma la semina mediatica del convincimento che le prostitute sono persone socialmente e moralmente pericolose, che basterebbe sbatterle in galera o al confino per levarsele di torno e che se il governo non lo fa è perché qualcuno, generalmente da sinistra, glielo impedisce. Dopodiché scatta l'immancabile sondaggio sulla percezione del rischio-prostituzione, dal quale risulterà che la maggioranza degli italiani ritiene che le prostitute sono moralmente e socialmente pericolose, che bisogna sbatterle in galera o al confino o nelle case chiuse e che il governo voleva farlo ma non gliel'hanno fatto fare. E così la tavola è apparecchiata per il prossimo sussulto, le prostitute restano dove sono, i clienti e gli sfruttatori pure, senza che né l'opinione pubblica né il governo né il governo ombra ne abbiano tratto un solo elemento di conoscenza su: chi e perché si prostituisce; qual è il grado di disumanità di un mercato del lavoro che convince molte donne, soprattutto immigrate, che fra prostituirsi per 400 euro a notte e lavorare per 400 euro al mese è meglio prostituirsi; qual è il grado di alienazione che le porta sempre più spesso a sostenere che prostituirsi «è un lavoro come un altro»; qual è il grado di feticismo che porta molti uomini a preferire il sesso a pagamento al sesso implicato in una qualche relazione; chi e quanto ci guadagna e ci lucra sopra organizzando racket e sfruttamento; quali provvedimenti si potrebbero tentare per rendere tutto ciò meno disumano, ascoltando quello che le prostitute hanno da dire e magari da proporre, e hanno varie volte detto e proposto.
E' un copione disperante che si ripete da settimane a turno, sugli immigrati, sui rom, sulle prostitute, sui trans. Pare proprio che nel belpaese altra idea non circoli che quella di ripristinare la filosofia del grande internamento riveduta e corretta: tutti in galera o nei cpt, immigrati, rom, prostitute, trans, piccoli delinquenti (i grandi no, restano a piede libero) e tutti quelli che possono interpretare la parte dei devianti nella commedia della all'italiana della normalità benpensante. In attesa che ricompaia anche la nave dei folli, l'ultimo sondaggio (Demos-Coop, su Repubblica di ieri) ci avverte che tutti gli italiani pensano che la criminalità sia in vorticoso aumento, due su dieci temono di essere rapinati, cinque hanno paura degli stranieri, otto vogliono sgombrare i campi rom, sei invocano le ronde e tutti i poliziotti e le videocamere. Gli emendamenti slittano, ma intanto ben scavato, vecchia talpa.
«Il Pd non può non essere ambientalista. La sfida che ci attende è quella del rigore per lasciare ai nostri nipoti un paesaggio almeno come l’abbiamo trovato». Vittorio Emiliani, giornalista, tessera Pd, grande paladino del bello e dell’ambientalismo, fiero oppositore del partito del mattone, a cominciare dalla sua Capalbio...
Dove l’anima del Pd che si batte contro il piano strutturale sembra maggioritaria rispetto a quella ambientalista.
Cosa ne pensa?
«Lasciamo perdere. Di Capalbio ho detto anche troppo in passato. A me interessa fare un discorso più generale sul Pd».
Prego.
«La proposta dell’ambientalismo del fare non mi convince: la trovo mite e subalterna al berlusconismo. Non c’è bisogno di aggiungere all’ambientalismo il verbo fare. Difendere le ragioni dell’ambiente non significa non fare, ma fare bene, secondo regole precise. Sono proprio le regole che dobbiamo recuperare. In questo sono d’accordo con Giorgio Ruffolo».
Che dice?
«Che un partito di sinistra come il Pd deve condurre due grandi battaglie: il recupero dell’interesse pubblico, distrutto dal berlusconismo, e la difesa dell’ambiente. Moralità e ambientalismo devono essere i due caratteri di fondo che contraddistinguono l’identità di sinistra».
Nel Pd quale anima prevale: ambientalista o sviluppista?
«Lo sapremo quando daranno la parola agli iscritti».
Provi intanto a giudicare quella dei dirigenti.
«Mi sembra un ambientalismo molto diluito. Veltroni ha cooptato il vertice di Legambiente che esprime una posizione ambientale molto blanda rispetto ad esempio a Italia Nostra e al Wwf».
C’è Realacci.
«Anche lui ex presidente di Legambiente, sostenitore di um ambientalismo ragionevole, molto soft».
E allora come comporre le due anime?
«Non sarà facile. L’unica strada percorribile sarà l’intesa su questioni concrete».
Tipo?
«Che posizione assumerà il Pd sul progetto di revisione della legge urbanistica? Che dirà del ministro Prestigiacomo che ha esordito chiedendo l’abbassamento dei parametri di Kyoto? E se Bondi rivedrà in senso peggiorativo il codice dei Beni culturali approvato da Rutelli?».
Bondi ha applaudito la posizione di Asor Rosa su Monticchiello.
«Mero tatticismo, furbizia».
In Toscana - da Viareggio all’Elba - il Pd perde voti là dove si esprime una voglia di mattone. E Conti irride Asor Rosa dicendo che dopo le sue polemiche a Monticchiello il centrosinistra ha aumentato i voti. Gli sviluppisti portano voti e gli ambientalisti li fanno perdere?
«Può anche darsi che nell’immediato sia così. Che il mattone paghi di più. Ma la sinistra deve guardare all’interesse generale. Battersi contro il conflitto di interessi non porta voti, ma allora cosa si fa? Si lascia perdere? Difronte al paesaggio abbiamo doveri che riguardano le future generazioni. Non possiamo limitare lo sguardo alle urne elettorali. Anche perché le battaglie giuste prima o poi pagano sempre...».
Italia Nostra chiede un nuovo regolamento urbanistico, che ponga fine alla cementificazione incontrollata e preveda una seria riqualificazione del centro storico. Questa la posizione dell’associazione emersa durante il convegno promosso in San Girolamo - «Identità da salvare, Lucca e il suo territorio» - al quale hanno partecipato numerosi esperti del campo dell’urbanistica e il sindaco Mauro Favilla.
La posizione di Roberto Mannocci, presidente della sezione Lucca di Italia Nostra è netta: «Il Regolamento urbanistico approvato nel 2004 non è stato capace d’indicare un progetto di città, consente ai singoli operatori la libertà di scegliere cosa e come costruire, lasciando in pratica la pianificazione alle regole del mercato e del guadagno. E una città pianificata in base alle regole del mercato non è una città». La preoccupazione di Mannocci è supportata da alcuni dati su quanto si è costruito (9 milioni di euro di oneri di urbanizzazione incassati dal Comune anche nel 2007) e su quanto ancora si può costruire. O recuperare: basta pensare - sono dati forniti dall’architetto Gilberto Bedini, uno dei consulenti del sindaco sull’urbanistica - ai 600mila metri cubi dei grandi contenitori pubblici nel centro storico o ai 700mila metri cubi di edifici da recuperare (fra pubblici e privati) fuori dalle Mura.
Cifre su cui riflettere. Non a caso, nei vari interventi il denominatore comune è stata l’avversione al modello di centro storico come “parco divertimenti”: «Il turismo di massa può uccidere una città d’arte: Lucca deve evitare di diventare come Venezia e Firenze, dove gli abitanti non sono più padroni della loro città» sostiene il presidente nazionale di Italia Nostra, Giovanni Losavio. Anche se Lucca negli ultimi decenni ha visto un costante calo di residenti nel centro storico, oggi poco più di 9mila, con lo spostamento massiccio nella periferia e conseguente cementificazione delle campagne. Tra le molte proposte emerse, spicca l’idea dell’urbanista Vezio De Lucia, in passato consulente della Provincia, che propone la creazione di una “linea rossa” che circondi le zone agrarie oltre la quale sia proibito costruire, obbligando di conseguenza ad un riutilizzo più razionale degli spazi già edificati. E, infatti - osserva Mannocci - «a Lucca Italia Nostra propone da anni la creazione di maggiori servizi per i cittadini del centro, come la creazione di una “cittadella alimentare” al mercato del Carmine o il ritorno dentro le mura degli uffici».
In questa ottica di recupero e sviluppo sostenibile del territorio, l’architetto Gilberto Bedini, elenca alcune di quelle che dovrebbero essere le linee guida di un nuovo regolamento urbanistico: la conservazione degli spazi verdi, anche non coltivati, rimasti intatti all’interno delle aree urbane (come nella zona di Sant’Anna), il riutilizzo degli edifici “recuperabili”, come la Pia Casa e il mercato del Carmine, appunto. Per quanto riguarda la politica dei “grandi contenitori”, definiti da Mannocci un possibile «volano per lo sviluppo della città», è prospettato un intervento importante, ancora però da definire. Gli spazi disponibili sono enormi: tra edifici del centro e fuori dalle Mura è da recuperare complessivamente una superficie utile di 383mila metri quadri, per un volume complessivo di 1 milione e 300mila metri cubi.
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I prezzi del cibo vanno alle stelle, milioni sono affamati e altri milioni lo saranno in paesi dove il riso si vende a tazze e non più a sacchi, i ristoranti servono pasta perché costa meno, tutti i redditi se ne vanno in calorie. La crisi mondiale del cibo è una sciagura. Ma i titoli di grano e mais vanno alle stelle, miliardi si spostano dalla borsa valori alla borsa merci, si acquistano campi e fertilizzanti e mietitrebbie e persino rimorchi e cargo. La crisi mondiale del cibo è un'opportunità.
Toccherebbe capire le cause ma gli organismi di riferimento hanno altro da fare. Qualche governo ha messo tasse sull'export, prima mangiamo e poi vendiamo il resto: anatema dell'Organizzazione mondiale del commercio. Qualche altro critica i sussidi agli agricoltori ricchi: anatema della Banca mondiale. L'Onu dovrebbe mettere d'accordo affaristi e affamati ma non ce la fa perché è un fantasma e la sua moral suasion giace sepolta da qualche parte nel deserto dell'Iraq.
Eppure mezzo mondo ha fame dunque meno barriere doganali, più liberalizzazione e avanti con ogm, energia atomica, agrocarburi. E' la cosa più oscena: chi ha creato il problema (la fame) decide la soluzione (meno tasse, più ogm). Soprattutto deciderà il G8, che non è un'istituzione internazionale ma un abusivo oligopolio che si identifica per alto censo, pelle bianca e dotazione nucleare. Dovrebbe riunirsi clandestinamente come le organizzazioni malavitose, scrisse qualcuno, invece questo pianeta è suo. Ne custodisce gelosamente il disordine.
A 62 anni si è serenamente spenta la signora Repubblica. Il 2 di giugno, suo compleanno, si è svolta invece della festa una commemorazione funebre. Al suo posto si è insediata la monarchia, sua antica rivale. Le tributa ossequio una corte di ex repubblicani bisognosi di benevolenza. Non solo le alte cariche di uno stato secondario, non solo i sedili desolati della supposta opposizione, ma la libera informazione che dirama i liberi bollettini di nostrosovrano.
A sommesso contrasto si ascoltano le voci critiche dell'Onu e dei vescovi d'Italia contro le illegittime invenzioni giuridiche contro gli stranieri colpevoli di viaggio senza titolo. Si tratta di voci provenienti dall'estero, dipendendo i vescovi nostrani da un'altra sovranità. In patria l'ossequio è compatto.
Più interessante diventa il caso di Napoli e dei suoi scarti esposti. Napoli è una città monarchica. In avvio di repubblica,anni '50, eleggeva a suo rappresentante un impresario navale, per brevità chiamato ammiraglio, che la voleva riportare a regno. Napoli è una città anarchica: i re la dovevano lasciare in pace.Feste, farina e forca esaurivano il compito assegnato. Napoli ha questa doppia faccia, più spagnola che italiana. Nella Spagna monarchica prese piede più che altrove il movimento anarchico.
Nostrosovrano ha deciso di giocarsi l'avvio di regno a Napoli. E' una piazza delicata. Le statue dei re esposte davanti a Palazzo Reale hanno il numero chiuso.Napoli è difficile da espugnare proprio perchè non ha difese naturali. L'inespugnabilità si è trasferita nei suoi cittadini.
A Chiaiano si svolge un cruciale contrappunto. Da un lato, esterno, monarchico e sbirresco, si vuole imporre la dannazione di una discarica in un'area porosa e fitta di ospedali. Dall'altro lato,interno, c'è l'unanimità di un popolo paziente e civile che ha pure votato in buona parte per nostrosovrano. Non passeranno perchè la salute pubblica, il diritto all'incolumità non sono trattabili. Non passeranno perchè a Chiaiano si è costituita la repubblica disciolta altrove. Le decisioni sono prese dall'assemblea, le autorità locali, elette, partecipano e si attengono alle scelte prese. Non passeranno perchè si tratta di una rivolta compatta ma di forza quieta e ragionevole: ha accettato di trattare, di aspettare le conclusioni delle perizie scientifiche, di smobilitare la barricata nel frattempo.
Sa rispettare i patti, perciò è repubblica.
Scherzi della storia. Mentre il mondo diventa carogna, chiude i confini, dirotta il cibo per farne carburante, alza muri alti quattro metri per impedire che entrino negli Stati Uniti non i terroristi ma i campesinos disperati in cerca di un lavoro che c’è (perché lo fanno solo i campesinos disperati), proprio in quel momento - in questo momento - compare sulla scena americana un candidato nero.
Ah, ma attenti. Non solo di discutibile etnia diversa, ma anche figlio di immigrato da Paese sospetto (il Kenya), nato da un matrimonio misto che i più condannano, e identificato da un nome che può bloccare la folla in attesa in qualunque cancello di immigrazione (se quei cancelli, nei Paesi che si vantano di essere civili, fossero ancora aperti).
Si chiama Barack Obama.
Chi gli vuole male e intende denigrarlo pronuncia intero tutto il suo nome - Barack Hussein Obama - Perché si percepisca tutta la sua estraneità e diversità. Chi non può sopportare il nuovo evento ha fatto circolare la voce che forse il candidato - Dio ce ne scampi - non è neppure cristiano. Poi si è scoperto che era cristiano, ma legato a una Chiesa e a un pastore così aspramente militanti, così (si direbbe in Italia) di sinistra radicale, da fare impressione e scandalo per le brave persone miti, middle class e bianche d’America, nelle pianure della Bibbia, nelle città degli operai, nei sobborghi borghesi, di cui di solito si dice “benpensanti”. Ma le brave persone miti, middle class e bianche d’America hanno continuato a votare per lui, immigrato, meticcio, e appartenente a una Chiesa sbagliata.
Scherzi della storia. Ore prima della proclamazione di un simile candidato, un aspro editoriale del New York Times descriveva in questo modo l'America ai giorni di George W. Bush. «Un giorno non riconosceremo noi stessi per ciò che stiamo facendo oggi: una nazione di immigrati tiene in schiavitù un'altra nazione di immigrati (il riferimento è ai clandestini, ndr), sfrutta il loro lavoro, ignora la loro sofferenza, ci condanna a restare fuori legge, li arresta e li espelle quando finge di scoprirli, con incursioni improvvise nelle case e nelle fabbriche, sparge terrore indiscriminato trattando lavoratori da criminali, mentre altri criminali-lavoratori prendono il loro posto illegale e fruttuoso, fino al rastrellamento, alla prigione, alla espulsione successiva. Un'America che attribuisce come unica identità di esseri umani che lavorano la condizione di clandestini; macchia di vergogna la nostra identità, la nostra storia». Scherzi della storia. In quell'America si sono fatti avanti, dal lato umano e liberale di un'America che non è morta con Martin Luther King e con Robert Kennedy, un candidato donna, con lo slancio straordinario e infaticabile di Hillary Clinton (la stessa Hillary Clinton che aveva scritto l'unica legge che avrebbe garantito completa assistenza sanitaria anche ai più poveri).
E un candidato nero che ha avuto il coraggio di dire: «Io sono questa America. Mentre la mia nonna bianca mi teneva stretto, bambino nero estraneo in tutto alla sua vita, decisa a difendermi da ogni male, aveva paura se gente nera si avvicinava a noi, incuriosita da quel piccolo nero stretto a una donna bianca, che si ritraeva con diffidenza». Nelle elezioni primarie ha vinto Barack Obama. È il candidato del Partito Democratico per la presidenza degli Stati Uniti. Chi lo ha sentito parlare crede di sapere perché. Dice che la forza gentile di Martin Luther King e il senso di giustizia non negoziabile di Robert Kennedy sono tornati con il giovane senatore che viene dal Kenya a guidare gli americani.
Gli americani ascoltano e vedono, con lui, con quella sua capacità immediata e istintiva di evocare il sogno, un altro Paese. Vedono un'America che forse c'è stata, un'America, pensano in molti, che può essere il futuro senza rabbia, senza vendette, senza solitudine, senza paure, senza guerre, senza l'orrore degli esclusi, sfruttati e cacciati. Scherzi della storia. Gli sta davanti, come avversario, un uomo bianco immensamente per bene che non vuole avere niente a che fare con l'America repubblicana che lo precede. Cerca anche lui un Paese pulito e rispettato, legato di nuovo ad amici alleati invece che ad alleati servi, con cui tentare di realizzare insieme una politica umana, in un mondo decente che si allontana dalla morte.
Troppa speranza? Per un giorno, non è peccato. Oggi, mentre scrivo, è il giorno in cui Robert Kennedy è stato ucciso, esattamente 40 anni fa. È un giorno perfetto per sognare.
Come osservava Pierre Bourdieu più di trent’anni fa (La distinzione), i rapporti sovraordinazione/ subordinazione e la riproduzione delle divisioni e delle gerarchie sociali oggigiorno tendono sempre più a fare assegnamento sulla seduzione piuttosto che sulla regolamentazione normativa, sulla produzione dei desideri più che sulla coercizione, sulle public relation piuttosto che sulla sorveglianza. Questa fiducia, possiamo aggiungere, aumenta di pari passo con il passaggio da una "società di produttori" a una "società di consumatori". Come tutti i modelli di ordinamento sociale, quello che sta venendo alla luce - non più costruito secondo il modello della "fabbrica fordista", ma secondo quello di un centro commerciale, e che viene fatto funzionare attraverso i meccanismi descritti da Bourdieu - identifica in modo differente i gruppi della società che sono inadatti all’inclusione. Invece delle "classi pericolose", ribelli o rivoluzionarie - che puntano a neutralizzare o ad assumere il controllo dei mezzi di coercizione e a ridefinire la normativa - sono i "consumatori imperfetti" - individui e categorie di individui insensibili alla seduzione e/o incapaci di agire in base ai loro desideri per scarsità o mancanza di risorse - a essere classificati come inadatti a essere inclusi nella società (questa classificazione è appropriatamente espressa attraverso la definizione di sottoclasse = al di sotto, e dunque al di fuori, dell’ordinamento di classe).
Nella loro forma originaria, ipotizzata da Jeremy Bentham e retrospettivamente indicata da Michel Foucault, i meccanismi panoptici di dominazione, miranti a immobilizzare il sorvegliato, a tenerlo al suo posto e dentro il regime comportamentale routinario, a impedirne la fuga o la deviazione, oggi si limitano e si concentrano esclusivamente sugli "inadatti" (leggi: coloro che sono insensibili ai dispositivi di controllo applicati alla maggioranza della popolazione). Destinati in passato a essere applicati universalmente (appropriati ed efficaci per i dipendenti delle fabbriche e degli uffici, per i soldati nelle caserme, gli scolari, i pazienti degli ospedali e delle cliniche per malattie mentali, i detenuti, gli indigenti negli ospizi), oggi questi meccanismi vengono utilizzati soprattutto nei luoghi di detenzione: in più, l’enfasi posta nella dichiarata finalità della sorveglianza si è spostata dalla imposizione di una particolare routine comportamentale alla prevenzione di fughe e danni.
Come suggeriva Thomas Mathiesen, nel caso della "maggioranza", l’applicazione della strategia della dominazione del "controllo-attraverso-la-sorveglianza" è passata dal "tutti guardano tutti", ai "pochi che guardano tutti", per giungere infine alla fase "tutti guardano alcuni". Mentre si è riposto il controllo sociale nella "scatola degli attrezzi", la coercizione esercitata attraverso la seduzione e le pubbliche relazioni (la sorveglianza popolare di divi e celebrità, di persone in vista trasformate in oggetti di ammirazione e di emulazione) ha sostituito il controllo generale da parte dei rappresentanti dell’autorità.
La tendenza individuata e descritta da Mathiesen è senz’altro importante, sebbene non sia l’unica e, probabilmente, nemmeno la principale deroga nella ininterrotta storia dell’impiego tradizionale della sorveglianza. Anche all’interno del "nocciolo duro" dell’ordine sociale rimane valido lo schema "pochi che guardano molti": semmai, ora esso diventa più onnipresente, più sofisticato e tecnologicamente meglio attrezzato che in passato, e ha fatto ulteriori progressi sulla strada che porta alla completa liberalizzazione e privatizzazione. Cosa ancora più importante, questo schema si è rivolto verso un obiettivo radicalmente differente. La sua funzione principale e generale è quella di mantenere fuori gli outsider, gli indesiderabili, piuttosto che tenere dentro (leggi: dentro l’area disciplinata normativamente e dentro la routine obbligatoria) gli insider (leggi: quelli già altrimenti, adeguatamente disciplinati).
Possiamo dire che "Big Brother" e i suoi rappresentanti e plenipotenziari, sempre più numerosi, sono stati reimpiegati per contribuire all’esclusione e impedire il "ritorno degli esclusi" di una moltitudine in rapida crescita di categorie: immigrati sgraditi, improbabili clienti di centri commerciali, mendicanti invadenti, ospiti non invitati di comunità residenziali con accesso controllato, abitanti di banlieue e di ghetti urbani nei centri cittadini, gente a cui le banche non concedono crediti, eccetera. In poche parole, la funzione del Secondo Big Brother è quella di mantenere a tenuta stagna la linea che separa gli inadatti dagli adatti: una metafora concretizzata recentemente attraverso gli addetti alla sicurezza aeroportuale, che confiscano le bottiglie d’acqua minerale. Il primo Big Brother manteneva gli occhi fissi sulle uscite: quelli dei suoi discendenti sono concentrati sulle entrate.
La sorveglianza destinata a mantenere le entrate inaccessibili è presentata, pubblicizzata e venduta all’opinione pubblica sotto l’etichetta della loro sicurezza. Il fatto che il concetto di "sicurezza" sia definito e si manifesti principalmente in compiti come l’esclusione di tutti quelli ritenuti "inadatti" (cioè, controproducenti o semplicemente indifferenti al funzionamento senza intoppi dei meccanismi di controllo sociale attualmente impiegati) difficilmente viene dichiarato in modo esplicito negli articoli pubblicitari. Ciò nonostante, la cosa è fin troppo evidente nella pratica ed è ben facile da dedurre. Gli oggetti di una sorveglianza onnipresente e invadente sono indotti ad accettare l’intimo collegamento tra esclusione e sicurezza e dunque ad accettare, tranquillamente e senza risentimenti, la strategia messa in atto (quindi la realtà di incursioni sempre più radicali nella nostra privacy); ad accettare di essere costantemente sotto sorveglianza; ad accettare i benefici effetti dell’esclusione, malgrado la sua bizzarria morale. Per ridurre ulteriormente la possibilità di risentimenti, le persone sono invitate a partecipare attivamente "al gioco": per esempio, votando per allontanare gli indesiderabili dallo show del Grande Fratello.
Una volta diventata principalmente un mezzo di esclusione, la sorveglianza assegna contemporaneamente ai membri della società il ruolo di colpevoli e di bersagli, di carnefici e di vittime. Trasforma le sue potenziali vittime o "perdite collaterali" in suoi complici attivi o passivi o in spettatori solidali. Paradossalmente, ma con ottimi risultati, ciò fa crescere gli "interessi acquisiti" delle potenziali vittime nella perpetuazione e nell’ulteriore inasprimento della strategia di dominio del "controllo-attraverso-la-minaccia-dell’esclusione".
L’onnipresenza dei dispositivi di sorveglianza, oggi, ha raggiunto la fase in cui essa è ormai auto-sostentata e auto fecondante. La quantità e dimensione, la visibilità e l’invadenza di tali dispositivi, bastano a creare e alimentare un’atmosfera da "fortezza assediata" e una forma mentis da emergenza permanente: che a sua volta alimenta e legittima la richiesta di un’ulteriore, accelerata diffusione di tali dispositivi e rafforza il favore popolare per le misure promesse per accogliere tali richieste. La sorveglianza, oggi, è un "setaccio" al servizio della propria perpetuazione: un setaccio che serve a isolare i bersagli appropriati della sorveglianza (gli indesiderabili) da quelli che potrebbero/dovrebbero essere lasciati fuori (perché hanno superato il test di non indesiderabilità). Gli esclusi, tuttavia, non sono stati addestrati all’arte della autodisciplina e sono disabituati a praticarla: perciò hanno bisogno di comprare la sorveglianza per riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa della sorveglianza fornita dalla società. Da ciò deriva l’attuale "boom della consulenza", la domanda sempre crescente di "consulenti", dal vivo o telematici, ma, in entrambi i casi, altrettanto disorganizzata quanto coloro che li richiedono. Il sorprendente successo del sito Facebook trae vantaggio da questa tendenza.
Magari oggi correggerà in parte le sue parole. Capita spesso. Ma, se si prende sul serio e alla lettera quel che ha detto Silvio Berlusconi a Napoli, non c´è dubbio che l'esecutivo – come già s'era paventato – voglia tirare avanti per la sua strada con un paradigma di governo che "militarizza" la politica e l'applicazione della decisione; un canone che sospende temporaneamente l'esercizio della norma anche in violazione della legge e della Costituzione.
Dinanzi alla catastrofe dei rifiuti non smaltiti di Napoli e della Campania, Berlusconi rivendica il diritto e il dovere di declinare la "governabilità" come decisione assoluta e non partecipata. Il presidente del Consiglio non ha alcuna intenzione – come pure era parso a molti – di mitigare l'"eccedenza autoritaria" del suo piano e del decreto legge che lo sostiene. Al contrario, evocando una «destrutturazione dello Stato» e la minaccia di «un'anarchia», lo irrobustisce, lo "incarognisce" e annuncia il ruolo decisivo – nell'operazione – dell'Esercito. Saranno i militari del Genio a gestire gli impianti di combustibile da rifiuti (CdR), abbandonati dall'impresa privata (la Fibe) che si è vista decapitare le direzioni dagli arresti della magistratura. I soldati proteggeranno le discariche (e questo si sapeva) e in più – è una novità – «saranno chiamati a garantire anche l'accesso ai siti: non è accettabile alcun divieto di transito alle istituzioni della Repubblica. In gioco ci sono le regole minime per non passare dalla democrazia all'anarchia». «Chiaiano sarà definita zona militare», dice Berlusconi.
Si può immaginare allora che cosa accadrà presto in quella periferia di Napoli. Teatro dei violenti scontri della scorsa settimana, l'"ultimo chilometro" – dalla rotonda della Rosa dei Venti che conduce al Poggio Vallesana e alla Cupa del Cane, dove sono le cave di tufo che ospiteranno la discarica – sarà "militarizzato". L'Esercito, e non più la polizia, ne proteggerà la percorribilità impedita per alcuni giorni dalle barricate dei comitati di protesta. Berlusconi è stato categorico, forse imprudente, forse consapevole della sua sfida: «Dalle relazioni che abbiamo, siamo sicuri della idoneità di Chiaiano». In realtà, le analisi tecniche del suolo sono in corso soltanto da quattro giorni e, alla vigilia, ne sono stati ritenuti necessari venti per un responso rigoroso. L'anticipo della sentenza non potrà che riaccendere gli animi e in serata, a Chiaiano già si urlava contro «la beffa del governo».
Berlusconi è stato liquidatorio contro ogni ipotesi di correzione del decreto per evitare i profili di incostituzionalità che magistrati e costituzionalisti hanno rilevato nella creazione di un "commissario giudiziario" (titolare di tutte le inchieste ambientali della regione, potrà scegliersi il pubblico ministero più "affidabile", in deroga alle ordinarie regole di assegnazione) e di un "processo penale napoletano" (inedita la figura di un giudice collegiale per le indagini preliminari). Taglia corto Berlusconi: «Un ordine dello Stato non può vivere in un empireo e pensare alle leggi come ad un moloch assoluto. Le leggi devono essere adattate per far vivere meglio i cittadini». Anche questo s'era intravisto. L'emergenza napoletana si definisce ora compiutamente come «uno stato d´eccezione», come un «vuoto del diritto» che interrompe la norma e trasforma il diritto in una «prassi» dove la decisione «non può essere mai interamente determinata dalla norma». È in questo scarto che nascono le torsioni costituzionali che Berlusconi non riconosce. Il governo si sceglierà allora i magistrati che dovranno controllare le sue iniziative. I campani saranno meno protetti dalla legge. Ciò che è "tossico" altrove, non lo sarà in Campania. Ciò che altrove è considerato "pericoloso", qui non lo sarà. Le regole di tutela ambientale e salvaguardia sanitaria qui non saranno in vigore o lo saranno affievolite. Come ha scritto Stefano Rodotà «viene aggirato l'articolo102 della Costituzione, che vieta l'istituzione di giudici straordinari o speciali. Vengono creati nuovi reati di ampia interpretazione che finiscono per restringere il diritto di manifestare liberamente. La garanzia dei diritti costituzionalmente garantita è degradata. La legalità costituzionale è complessivamente incrinata». «È un dovere che lo Stato faccia definitivamente lo Stato», conclude il presidente del Consiglio.
Berlusconi agita, dunque, lo spadone intenzionato a tagliare i nodi istituzionali e sociali della catastrofe napoletana con un solo, deciso colpo netto. Senza curarsi (o intenzionalmente approfittandone) degli strappi alla Costituzione, agli ordinamenti, alla partecipazione sociale. Ne nasceranno molte polemiche e conflitti, e se ne parlerà ancora nel minuto. Quel che in queste ore, però, bisogna chiedersi è se questa incrudelita accelerazione avvantaggi la soluzione della crisi napoletana o costituisce un problema in più alla somma di inestricabili problemi che già ci sono. Nei giorni scorsi, era sembrato che il governo volesse abbassare i toni, accogliere le obiezioni. Le teste d'uovo erano al lavoro in Parlamento per correggere con un maxi-emendamento le "eccedenze" mentre responsabilmente l'Associazione nazionale magistrati dichiarava al ministro della Giustizia la sua disponibilità a trovare le soluzioni più adeguate ad «accompagnare» lo sforzo urgente del governo. L'annuncio dell'«uso della forza dello Stato» chiude ogni spazio di mediazione. Berlusconi può vantare nel suo arroccamento il beneplacito dell'opposizione, l'intesa delle istituzioni locali e soprattutto la drammaticità della crisi. Nei prossimi giorni, sapremo se sono elementi sufficienti per piegare con «la forza» le popolazioni e far dimenticare le manomissioni costituzionali e lo sbaraglio del potere di controllo di una magistratura indipendente.
Ha il «Che» tatuato sul braccio, ma quell'icona non ha nulla a che vedere con la partecipazione all'azione in difesa del suo territorio. Dario è un uomo vero e non c'è da dubitare che dica il vero, conosce le vie, gli angoli, gli uomini e le donne del Pigneto e non ne tollera più il degrado a causa di una «riqualificazione urbana» che caccia i vecchi abitanti per lasciar posto a chi è disposto a investire cifre astronomiche per una casa in un un salotto dell'intellighentzia un po' radical e molto chic. Ha deciso di intervenire perché il radicamento nel territorio legittima la sua aspirazione a rappresentarlo, visto che le forze politiche, senza nessuna distinzione tra destra e sinistra, si comportano come forze di occupazione, negando ai «vecchi abitanti» l'esercizio di poter decidere delle proprie vite.
Quella di Dario è l'orgogliosa dichiarazione di appartenenza a un territorio e alla comunità che lo abita in piena sintonia con lo spirito del tempo dominante, a nord come a sud, a est come a ovest.
Ma il territorio non esiste. Esistono luoghi e forme di vita inseriti in un rapporto dialettico con flussi di capitale che vogliono conformare quelle relazioni sociali alle compabilità economiche decise sempre altrove. Da questo punto di vista il Pigneto è paradigmatico del nesso instabile, flessibile e contrattuale tra il globale e il locale. Un quartiere viene coinvolto in un progetto di valorizzazione economica per attrarre professionisti, operatori culturali e i migranti destinati ai lavori precari e servizi a bassa qualificazione di cui hanno bisogno gli «abbienti». Una dinamica omologa a quanto avviene in molti quartieri di Milano o nella metropoli diffusa che è il nord-est.
Il sistema politico ha lasciato fare, cercando tuttalpiù di avviare uno scambio politico con le imprese coinvolte nel flusso di capitale. Andate pure avanti, ma almeno garantite qualche servizio sociale per la popolazione residente: questo è stato il refrein da alcuni lustri a questa parte. Ma i flussi di capitale non tollerano ostacoli. Da qui i punti di frizione con i «residenti». E se a Milano, la metropoli deve arrivare con i migranti sotto controllo alla grande avventura dell'esposizione universale, al Pigneto il livello di guardia è stato superato quando le forme di vita consolidate - livelli di salario e di reddito, di accesso al mercato del lavoro, di informalità delle norme del vivere associato - hanno percepito che di quel flusso di capitale rimaneva ben poco per loro residenti. Da qui l'individuazione, questa sì fascista, di un nemico dello status quo, che non è in chi governa e orienta il flusso di capitale, ma in chi vuol nuotare in quel flusso di capitale.
Il paradigma del territorio usato per spiegare tanti fenomeni va analizzato attentamente per smontarlo, perché occulta i rapporti sociali dominanti, lo svuotamento del governo in amministrazione dell'esistente. E che alimenta un populismo postomoderno dove la comunità vede i carnefici rivendicare un'eterogenesi dei fini con le proprie vittime.
In questo nostro tempo, dove sono i maestri e chi, nella vita civile, userebbe questa parola senza almeno una punta d’ironia, se non anche di dileggio? Maître sopravvive senza discredito in francese, nel settore culinario, alberghiero e forense, mentre il femminile, maîtresse, sembra un residuo di romanzo ottocentesco. Il maître de conférence è semplicemente un aiutante del professore che svolge quelle che noi avremmo definito un tempo "esercitazioni", prima di diventare agrégé. Ma chi si lascerebbe oggi definire impunemente maître à penser, espressione che suona pretenziosa e gonfia, allo stesso modo di "maestro di vita"? Meister, che richiama tempi andati di corti principesche e domestici alle dipendenze (i Kappelmeister), oppure gilde e congreghe medievali (i Meistersinger wagneriani, ad esempio), è da tempo fuori uso, come lo sono i mondi cui allude.
Il "gran maestro" delle logge massoniche o degli ordini cavallereschi appartiene a piccole cerchie iniziatiche e, da queste, non esce facilmente all’aria aperta.
I tempi sono cambiati. Il "magister" che insegnava nelle aule universitarie è diventato il professore, un termine di per sé maestoso, ma ormai totalmente volgarizzato come equivalente a insegnante. Residua il maestro elementare, con l’iniziale minuscola, e questa sopravvivenza meriterebbe un esame, prima che una qualche circolare ministeriale lo faccia sparire, sostituendolo con "operatore" di qualche cosa. In generale, però, possiamo dire che i maestri si sono ritirati dalla vita civile pubblica. Se vi faranno ritorno, sarà perché saremo entrati in un’epoca diversa dalla nostra e perché avremo fatto un ripensamento su noi stessi.
George Steiner, nei saggi raccolti sotto il titolo La lezione dei maestri (Garzanti, 2004) ha messo in guardia circa i pericoli che questa parola, il maestro - monumentale, gerarchica, prescrittiva - porta in sé. Il pericolo maggiore consiste nel viluppo del rapporto maestro-discepolo in vischiosità sentimentali. Il desiderio del maestro di piacere al discepolo, di "sedurlo" con la sua personalità, un desiderio che può portare allo schiacciamento di quella di quest’ultimo; il desiderio del discepolo, a sua volta, di primeggiare, di essere il più vicino al suo cuore, di oscurare o annullare tutti gli altri. (...)
Le degenerazioni dei rapporti interni alle "scuole", che possono portare ad altrimenti impensabili meschinità, sono ben note. Il mondo accademico ne è una miniera. Ne traggo solo un piccolo esempio, dal mio campo di studi. Il grande giurista Hans Kelsen, nella sua Autobiografia (in Scritti autobiografici, a cura di M. G. Losano, Diabasis, 2008) riferisce del suo incontro a Heidelberg con Georg Jellinek, certo uno dei massimi "maestri" del diritto pubblico a cavallo tra il XIX e il XX secolo e lo racconta così: Jellinek «era circondato da un impenetrabile gruppo di allievi adoranti, che lusingavano in modo incredibile la sua vanità. Ricordo ancora la relazione di uno dei suoi studenti preferiti, costituita quasi esclusivamente da citazioni degli scritti dello stesso Jellinek. Dopo quella riunione potei accompagnare Jellinek a casa e, cammin facendo, mi chiese che cosa ne pensavo di quella relazione. Io rimasi molto sulle mie e Jellinek ne fu visibilmente irritato. Affermò che era stata una relazione eccellente e predisse un grande futuro accademico al suo autore: ma questi – aggiunge Kelsen maliziosamente - nel corso della sua carriera accademica, ha prodotto soltanto pochi scritti mediocri».
Ecco un rischio di questo rapporto malato, la mediocrità all’ombra della megalomania. Quello citato è solo un piccolo episodio di miseria accademica. Ma, spostandoci ad altro campo, il campo del magistero politico, il quadro, da ridicolo può farsi tragico. Il rapporto fideistico col maestro, depositario di una verità ch’egli solo conosce, può condurre a tragedie che annullano la personalità dei deboli e conducono perfino all´omicidio. (...)
La radice di queste degenerazioni sta nel rapporto meramente bilaterale tra il maestro e il discepolo. Se non è filtrato, reso oggettivo da un terzo fattore comune, esso finisce per ridursi a una relazione personale ineguale di fedeltà, in cui tutte le deviazioni irrazionalistiche diventano possibili, e, soprattutto, si viene perdendo di vista il fine in vista del quale tale rapporto ha ragione di instaurarsi: la ricerca di qualcosa che sta fuori tanto del maestro quanto del discepolo. Se manca questo elemento, la persona del maestro diventa l’oggetto dell’attaccamento del discepolo e la persona del discepolo diventa l’oggetto dell’attenzione del maestro. L’amore della verità – usiamo questa parola con la minuscola – viene a essere sostituito dall’autocompiacimento dell’uno attraverso l’altro, cioè da manifestazioni di narcisismo. (...)
Il maestro è ridicolmente anacronistico. Sembra non essercene bisogno, sembra anzi un ingombro nella società egualitaria dei grandi numeri, propria del nostro tempo, che propone bensì modelli di successo, ma, per così dire, di successo applicativo, non creativo. La via del perfezionamento personale, della conoscenza, della sperimentazione e della consapevolezza, e quindi anche della critica e della ribellione, la via che indicano i Maestri, non è confacente a questa società. (...) Questa società non ha dunque bisogno di maestri. Sono pateticamente inutili. I mezzi attraverso cui si trasmettono conoscenze e si formano coscienze si chiamano maestra-televisione, maestra-pubblicità, maestra-comunicazione, maestra-moda, ecc. Queste sì sono maestre ugualitarie, stanno sul nostro stesso piano, usano il nostro stesso linguaggio, si prestano a essere comprese da tutti senza sforzi, sono adatte alla società dei grandi numeri, sono perciò pienamente democratiche. Che c´è di meglio? (...)
E invece no. Le cose non stanno affatto così. Non si tratta di aristocrazia contro democrazia, ma di due concezioni della democrazia, l’una in opposizione all’altra. L’una, la potremmo definire democrazia critica; l’altra, acritica. La democrazia critica pone se stessa sempre necessariamente in discussione, non è mai paga e tronfia, sa riconoscere i suoi limiti e sa correggere i suoi sbagli. È un sistema capace di auto-correzione, in vista di un bene o di una verità non assoluti ma relativi al momento e alle condizioni date e alle capacità ch’esso ha di padroneggiarle. Il suo senso è dato da questa tensione, tra ciò che si è e ciò che, in meglio, si potrebbe essere; il suo ethos, la molla che lo mette in movimento, è l’esigenza di colmare questa distanza.
La democrazia critica non assume, come sua massima, il detto vox populi, vox dei, per l’implicita supposizione di infallibilità ch’essa comporta. Considera un cedimento a un’inaccettabile ideologia della democrazia anche l’espressione, spesso ripetuta con leggerezza, secondo cui la maggioranza ha sempre ragione, e ciò non perché la maggioranza abbia presumibilmente torto, come ritiene ogni pensiero antidemocratico ed elitario che divide la società in migliori (i pochi) e peggiori (i tanti), ma perché semplicemente, nella democrazia critica è bandito il concetto stesso di ragione, contrapposto a torto. La maggioranza non ha né ragione né torto; ha invece diritto di decidere perché si ritiene che le decisioni che riguardano tutti siano assunte, se non da tutti, almeno dal maggior numero. È una questione di distribuzione e assunzione di responsabilità, non di ragione o di torto.
Questo modo di concepire la democrazia comporta la capacità di estraniarci da noi stessi, di uscire dalla nostra pelle per poterci osservare per quello che siamo e confrontarci con quello che non siamo e vorremmo essere. Essere al tempo stesso soggetto e oggetto, cioè la coscienza di se stessi, è forse ciò che di più difficile possiamo immaginare, nella vita individuale e, a maggior ragione, in quella collettiva. Quando si dice "la lezione dei maestri", si dice innanzitutto distanza tra noi, come soggetti, e noi, come oggetti, cioè coscienza critica. La funzione del maestro, nella democrazia critica, non è un lusso, è una necessità vitale.
Tutto il contrario, nella democrazia acritica. Se la maggioranza ha sempre ragione, se la sua volontà è infallibile come quella divina, la voce ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio, come quella del grillo parlante che Pinocchio, che non vuol sentir parola, schiaccia con un colpo di martello. Non c’è bisogno di maestri in questa democrazia, ma di ideologi, di comunicatori, di propagandisti o di pubblicitari, cioè di quelle false maestre (televisione, pubblicità, moda, ecc.) di cui s’è detto. Esse non creano tensione, allontanano da noi l’inquietudine del dubbio, ci fanno credere che ciò che siamo sia anche ciò che non possiamo non essere, che dove siamo non possiamo non essere. Ci fanno stare in pace con noi stessi, perché ci privano della coscienza di noi stessi e ci trasformano da soggetti in oggetti.
I maestri non esistono se non ci sono discepoli. Non sono i maestri a creare i discepoli, ma i discepoli a creare i maestri. Quando tra noi, potenziali discepoli, incominciano a porsi domande di senso ed esigenze di ethos, allora possono comparire i maestri. Questo – porre domande inevase e far valere esigenze insoddisfatte - è il compito di chi crede che valga la pena di impegnarsi per una democrazia con gli occhi aperti su se stessa e sul suo futuro, cioè per una forma di convivenza che coltivi l’inquietudine non come un vizio, ma come una virtù.
Abbiamo di fronte a noi degrado della vita pubblica, deterioramento della democrazia, inquietudine senza sbocco per l’avvenire e incapacità generalizzata di indicare prospettive diverse dal tirare in qualche modo a campare per allontanare soltanto il momento di una crisi che, non possiamo non saperlo, prima o poi verrà. In quel momento, la presenza o l’assenza di un magistero civile sarà determinante.
Stefano Rodotà (Repubblica) e Valerio Onida (Sole24ore) scovano strappi e buchi nel pacchetto di provvedimenti preparato dal governo «per dare più sicurezza al Paese».
La nascita di un diritto della diseguaglianza, con il reato di immigrazione clandestina, trasforma «una semplice condizione personale» in reato ignorando l'accertata o presunta pericolosità sociale, dimenticando che in uno Stato democratico «lo strumento penale e la pena detentiva non sono utilizzabili ad libitum dal legislatore» (Rodotà). L'incostituzionalità delle circostanze aggravanti da infliggere a chi «si trova illegalmente sul territorio nazionale» dà vita a un doppio binario di giudizio per il cittadino italiano e lo straniero, che paga - con la maggiore severità della pena - soltanto la sua «condizione soggettiva» (Onida).
Sono interpretazioni neutrali dei principi costituzionali e delle norme esistenti. Forse si può, forse è addirittura necessario andare oltre questo confine «tecnico» affrontando, con radicalità, il paradigma che affiora in questi provvedimenti che connotano il governo di destra. Forse, potremmo familiarizzare con quel ci attende. Con una formula provvisoria, lo si può definire la «militarizzazione della decisione».
Proprio alla luce dei rilievi giuridico-costituzionali di Rodotà e Onida si può dire come, per il governo, il diritto non sia la norma, soltanto la decisione lo è. C'è al fondo dei provvedimenti dell'esecutivo una sorta di decisionismo schmittiano, una concezione del diritto che privilegia, rispetto alla norma, «il suo aspetto di prassi rivolta a una decisione», quasi in antagonismo alla legge. Per l'esecutivo di Berlusconi non appaiono pertinenti e vincolanti i precetti dello Stato di diritto né lo Stato né il diritto. Quel che conta per i ministri è «dare risposte all'insicurezza dei cittadini»; è «decidere», «interpretare il potere costituente del popolo» per usare la formula di Carl Schmitt. Quest'urgenza - vissuta, raccontata, immaginata come estrema o improrogabile - è sufficiente a creare «uno stato d'eccezione», un «vuoto», quel «vuoto del diritto» che sospende la norma e trasforma il diritto in «prassi, processo, cioè in qualcosa la cui decisione non può essere mai interamente determinata dalla norma». Naturale che saltino fuori distorsioni, incostituzionalità, un «diritto penal-amministrativo della diseguaglianza».
C´è in questo esito un presupposto inedito per l´Italia e perversamente moderno perché, come ha scritto Giorgio Agamben, «la creazione volontaria di uno stato d´eccezione permanente è divenuta una delle pratiche essenziali degli Stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici». Questa condizione crea un sostanziale svuotamento della partecipazione politica a vantaggio della verticalizzazione della decisione politica (il ricorso al decreto legge). Sollecita la «militarizzazione» della sua applicazione, anche in opposizione alle leggi e in violazione della Costituzione.
Appare coerente, allora, che il primo Consiglio dei ministri si sia tenuto a Napoli e abbia affrontato il collasso della raccolta dei rifiuti in Campania e le questioni dell'immigrazione.
Napoli è la città che rende più credibile - quasi indiscutibile - la creazione dello «stato d'eccezione». In quell'area metropolitana si misurano, senza apparenti limiti la catastrofe delle istituzioni; il fallimento delle amministrazioni del centro-sinistra; l'arretratezza della società civile; l'impotenza dello Stato; la pervasività dei poteri criminali; lo sfacelo di ogni rapporto di cooperazione; la frattura di ogni strategia della fiducia. Questo paesaggio rovinoso, minacciato da calamità sanitarie, consente di realizzare, con diffuso consenso, quel «vuoto del diritto» che sospende temporaneamente l'esercizio della norma. Autorizza a declinare la «governabilità» come decisione assoluta e non partecipata fino a ipotizzare l'uso delle forze armate per applicarla. La militarizzazione della decisione, appunto.
È coerente che, nella città della spazzatura non smaltita, si siano affrontate anche le questioni dell'immigrazione perché se i rifiuti minacciano l'integrità di Napoli, i «rifiuti umani», gli «scarti» della modernità, gli «esuberi» impauriscono la società e inceppano la vita dello Stato. Così anche in questo caso sarà legittimo, in forza della necessità, la sospensione dell'ordinamento giuridico, la produzione di quel «vuoto» che inghiotte anche i principi costituzionali, la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, la convenzione europea dei diritti, il patto internazionale sui diritti civili e politici, liquidando per decreto lo «stato d'emergenza» in cui gli «scartati» sono costretti a vivere. Necessitas legem non habet.
Lo «stato d'eccezione» è creato, voluto, organizzato volontariamente. È una scelta politica. È strategia. Quindi concederà di non guardare alle regioni meridionali oppresse dalle mafie. Berlusconi, che ha glorificato come eroe Vittorio Mangano, un mafioso, in campagna elettorale, potrà non vedere quei pericoli e riservare soltanto poche, pleonastiche righe al ricordo di Giovanni Falcone («La ricorrenza dell'eccidio di Capaci è un momento di memore riflessione»). Per la creazione artefatta e permanente di uno stato d'eccezione, per la militarizzazione delle decisioni, per il nuovo, modernissimo «paradigma di governo», sarà più urgente nominare i direttori dei servizi segreti e affidarli alle cure di De Gennaro.
Un agente in divisa (festa della Polizia, 16 maggio, ore 10.30) si è staccato dalla sua pattuglia, si è accostato per dire: «Sono di sinistra. Mi dicono che sono l’unico. Mi aiuti a capire. Dove ho sbagliato?».
Poco prima in un altro crocevia due signori bene in arnese non tanto più giovani di me si erano piazzati alle mie spalle il più vicino possibile, e fingevano di conversare ad alta voce.
Uno: - Ha vinto Berlusconi, se lo devono mettere in testa i comunisti. Ha vinto Berlusconi.
L’altro: - Eh santo Dio, finalmente ce li siamo levati dalle palle. Per sempre, hai capito, per sempre.
Uno: - Era ora. ’Sti comunisti del cazzo che ci stavano rovinando... ’Sti comunisti di Prodi!
Alcuni giorni prima, a Fiumicino, di ritorno dal Salone del Libro, mentre ero intruppato nella piccola folla che camminava verso il ritiro bagagli, due signori, più manager che pensionati, cercavano di restare vicini per farsi sentire in una cantilena tipo “Hare Krishna” «Per fortuna ha vinto Berlusconi... per fortuna ha vinto Berlusconi. Passa parola ai comunisti...». Con loro c’era un bambino serio, con il suo zainetto, probabilmente in trasferta tra padre e madre, tra una casa e l’altra. Oltre a me, era il solo a essere imbarazzato.
Nella libreria Mondadori di via del Corso si è accostata una signora, anche lei con un bambino per mano. Dice: «Dateci una parola di speranza». Ci siamo salutati con un sorriso.
La sera prima, di fronte al televisore per guardare una memorabile puntata di “AnnoZero” (quella in cui Travaglio ha spiegato che nei Paesi democratici ci si ispira all’emendamento della Costituzione americana che vieta al governo di censurare la stampa affinché la stampa possa censurare il governo) vengo sorpreso da questo scambio di battute fra il sindaco Ds-Pd di Salerno De Luca e il sottoministro leghista Castelli.
De Luca: - Prima di tutto dobbiamo imparare dalla Lega Nord, imparare dal loro rapporto col territorio, dalla forza del loro linguaggio... lo dico a tutti ma vedo che la sinistra fa spallucce.
Castelli: - Ma no, no, quelli di sinistra non fanno spallucce. Adesso le piegano le spalle.
Lo stesso sottoministro Castelli, poco prima, dopo avere ascoltato un appassionato, civile intervento di Stefano Rodotà contro la barbarie dei rastrellamenti notturni e delle invasioni alle quattro del mattino nei campi legali abitati da Rom di cittadinanza italiana e monitorati da posti fissi di polizia, ha detto con espressione beata: «Avete notato? da quando ci siamo noi non sbarcano più».
Michele Santoro ha dovuto pazientemente ricordargli che cinquanta clandestini erano morti in mare appena pochi giorni prima. Ma non ha cancellato quell’aria di trionfo sul viso di Castelli. Ognuno ha le sue ragioni di felicità. Per fortuna, si è spostata la telecamera.
Proprio in quelle ore dal Libano (pensate, dal Libano) il nuovo ministro della Difesa La Russa, camuffato da capo a piedi in divisa da combattimento ha annunciato che l’ordine pubblico in Italia (ovvero l’argine forte e risoluto contro l’incontenibile orda degli immigrati e dei clandestini, che, come si sa, straripano lungo i viali e assediano minacciosi le chiese cristiane) sarà mantenuto dai pattuglioni composti da esercito e polizia. Soldati armati per le strade di Milano, di Torino, di Roma. È sempre più evidente che alcuni, nel nuovo, agile governo di Berlusconi Quinto, lavorano a trasformare i loro sogni in un incubo, con la loro Notte dei cristalli e i loro pogrom. Le foto dell’assedio, della fuga, dell’incendio di Ponticelli hanno guadagnato la prima pagina del New York Times di giovedì scorso. Noi italiani abbiamo immagini buone e meno buone di noi nel mondo. Ma crudeli e razzisti mai. Adesso Gentilini e Borghezio hanno vinto su Primo Levi e Piero Calamandrei.
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Per caso, subito dopo “AnnoZero”, subito dopo l’immagine di un Paese in cui la voce di Stefano Rodotà resta la sola a indignarsi dell’incendio dei campi nomadi, ho ascoltato a Radio Radicale un frammento del loro archivio. Hanno ritrasmesso, proprio quella sera (notte dal 15 al 16 maggio) una riflessione di Emma Bonino sull’immigrazione che mette in luce la cieca e sorda xenofobia della Lega che ormai è il vero motore del governo di destra, mentre gli altri si dedicano a teatrali cerimonie di potere nello stesso tempo assoluto e benevolo. La Bonino ti fa capire quanto sia piccola la testa dei tanti Castelli leghisti e neo-leghisti, e la disinformazione profonda che sono riusciti a radicare in Italia. I filmati di “AnnoZero” ci hanno mostrato, in fiorenti città emiliane senza criminalità, il furore razzista di brave signore e di ex militanti di tutte le gradazioni della sinistra.
La Bonino divide la sua riflessione in tre parti. «Loro», «noi» e «il che fare». «Loro», gli immigrati devono essere visti prima di tutto, a partire dai dati: in 10 anni si è messo in moto un flusso fisso di 150 milioni di esseri umani che vengono e continueranno a venire per non morire. È un due per cento della popolazione del mondo che tenta e continuerà a tentare, contro qualunque politica di contenimento, dal mondo della penuria a quello del lavoro.
Quel due per cento potrà aumentare, se continuiamo a permettere che la penuria diventi fame e che un minimo di speranza lasci il posto alla disperazione. Ma niente al mondo potrà fermare un flusso che nessuno regola e nessuno contiene. Ed è ridicolo affermare che quel flusso lo decidiamo noi. La Bonino ricorda che centinaia di chilometri di muro fra Stati Uniti e Messico non hanno fermato un solo messicano clandestino. Poi Emma Bonino propone due punti che sembrano sfuggire, in Europa, a ogni governo, nonostante siano noti ed evidenti. Il primo è che le rimesse degli emigranti sono quasi sempre la parte più importante del Pil dei Paesi da cui fuggono. Dunque nessun accordo bilaterale potrà mai funzionare, neppure a pagamento. Le rimesse sono somme immense e non si possono negoziare contro il ritorno di spossessati.
Il secondo punto è che il mondo agiato, anche quando non è governato da politici immersi nelle xenofobia, che diventano «impresari della paura», non compra neppure uno spillo dal mondo povero. Non compra, ma preme e ricatta per vendere nel mondo povero in prodotti del mondo agiato.
In questo modo lavora alacremente a mantenere stabile quel flusso fisiologico che si stabilisce da solo e che nessun governo può regolare.
Poi - nella riflessione della Bonino - ci siamo «noi». «Noi» siamo l’Europa e gli Stati Uniti. L’atteggiamento è psicotico. Noi, le stesse persone, li vogliamo per lavorare e nessuno va per il sottile se sono clandestini. Meglio, li paghi meno.
«Noi» però siamo gli stessi che non li vogliono vicini, non li vogliono in città, non li vogliono vedere, li accusano di tutti i reati, li preferiscono in prigione, invocano l’espulsione.
La via d’uscita? Concentrare tutte le risorse, morali, materiali, legali e tecniche sull’unico percorso possibile non per bontà ma per necessità: l’integrazione.
È stata una bella sorpresa apprendere che la riflessione pubblica di Emma Bonino sulla immigrazione che ho ascoltato da Radio Radicale, subito dopo avere visto il sindaco già di sinistra De Luca e il sottoministro Castelli scambiarsi effusioni da guerrieri con grinta che sanno come trattare gli indigeni, aveva questa data: 12 dicembre 2002. Come si vede non tutta la civiltà marcia allo stesso passo.
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Ma adesso, ai nostri giorni, da noi, mentre continuano brutte e difficili guerre nel mondo (Iraq, Afghanistan) mentre resta la minaccia dell’Iran e rialza la testa la doppia guerra del Libano (contro il Libano e contro Israele) e non si sa quale sarà, fra poco, il destino dell’Egitto e quello del Pakistan, ma anche il prezzo del petrolio e la tenuta della grande finanza americana, troppo posseduta dai «fondi sovrani» cinesi e arabi, adesso il ministro della Difesa italiano annuncia soldati armati contro i Rom in Italia, una misura che ricorda gli ultimi giorni della Repubblica di Weimar. E intanto molti sindaci «di sinistra» offrono le loro ronde di cittadini come pegno per la loro resa agli «impresari di paura» della Lega Nord. E gli «impresari di paura» della Lega Nord vanno a giurare fedeltà alla Padania nella squallida messa in scena teatrale di Pontida. Resta da domandarsi come possa un gruppo xenofobo locale eletto in un’area sola del Paese sulla base di un impegno per quell’unica area, sanzionato da un giuramento, governare tutto il resto del Paese che non conosce quel partito, non lo ha votato e non poteva votarlo. Infatti la Lega fuori dal Nord non presenta né liste né candidati.
Sorprende che nessun costituzionalista si sia posto il problema se si può governare un Paese in nome e per conto di un progetto di secessione da quel Paese.
Non risulta che i secessionisti scozzesi, che pure hanno ottenuto la devolution, possano governare a Londra.
E cominciamo a scoprire che le accuse di Berlusconi a Casini (ci impediva di governare) non erano infondate.
Adesso, infatti, sono gli avvocati di Berlusconi a lavorare per conto della Lega alfine di dare all’Italia una vergogna in più: il reato di clandestinità. La vergogna si rivela due volte. La prima perché accusa e macchia di un reato persone innocenti che sono note, listate, rintracciabili in quanto da anni stanno tentando di percorrere i crudeli labirinti della legge Bossi-Fini. Hanno presentato i documenti e si sono - in tal modo - autodenunciati.
Ed è vergogna perché i clandestini lavorano e tengono in piedi intere aziende e senza di loro molti settori dell’industria italiana smettono di produrre.
Dovremo ricordarci di queste date, di questi giorni, di questo anno. Al contrario di quanto è avvenuto negli anni 60 in America, dove Martin Luther King si è messo alla testa del Movimento dei diritti civili, qui, in questa Italia, fra campi nomadi bruciati, famiglie con bambini in fuga, case distrutte con la gente dentro («stranieri», si intende, è accaduto già varie volte, fra inchieste imprecise e colpevoli non rintracciati) si è messo in marcia un potente movimento contro i diritti civili. A capo ci sono i ministri della Lega secessionista, che lavora alacremente a dividere e danneggiare l’Italia. E ci sono i servizi legali del «Popolo delle Libertà» (cioè di casa Berlusconi) e ciò che resta di An disciolta nell’acido berlusconiano.
Chi ha capito tutto è Fini. Dirige la Camera abbronzato e annoiato, dà risposte sbadate, mostra poco orgoglio e poco interesse per il posto che gli hanno assegnato. Ha capito che l’involuzione sembra soft, sarà durissima. M non riserva per lui alcun posto nella catena del potere.
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Scrive Massimo Franco sulla prima pagine del Corriere della Sera del 14 maggio che occorre «sconfiggere quanti continuano a ritenere più comodo lo scontro». Vorrei assicurare il collega che non è così comodo. Anche perché basta la minima critica, il più cauto dissenso per parlare di «scontro». La solitudine si rivela anche un po’ pericolosa, come dimostra l’aggressione a colpi di casco del ragazzo «comunista» a piazza San Giovanni a Roma, la sera di venerdì 16 maggio. Poi però il sindaco Alemanno gli manda la sua solidarietà. E questo è il massimo di civiltà in cui puoi sperare in questo momento.
Infatti ti capita non raramente di ricevere lettere come questa: «Egregio (?) sig. Colombo Furio, sono un simpatizzante leghista di lunga data: le scrivo queste righe per esprimere il mio più totale disprezzo sia per quello che dice in Tv nelle trasmissioni condotte dai suoi soci-amici, sia per quello che scrive sul suo vergognoso organo di disinformazione che è l’Unità. Mi domando come faccia il Pd ad accettare che un personaggio come lei faccia parte dei suoi rappresentanti. E non capiscono che lei apre bocca solo per spargere sempre veleno e rancore contro il Berlusca. È veramente autolesionistico da parte di Veltroni averle dato una poltrona. Con totale disistima. La saluto. E mi raccomando: continui a scrivere. Paolo da Milano». Sì, grazie. Conto di continuare a farlo.
Si è parlato molto, negli ultimi anni, della casta politica e delle sue cecità, dei suoi privilegi. Si è parlato della distanza che la separa dal cittadino, dal suo quotidiano tribolare. Si è parlato assai meno della malattia, vasta, che affligge l’informazione e il compito che essa ha nelle democrazie. Compito di chiamare i poteri a render conto, tra un voto e l’altro. Compito d’abituare l’opinione pubblica non a inferocirsi, ma a capire le complicazioni, a esplorarne le radici, a scommettere con razionalità su rimedi non subito spettacolari. Compito di formare quest’opinione, cosa che spetta all’informazione in quanto «mezzo che mette il cittadino a contatto con l’ambiente che sta al di fuori del suo campo visuale»: lo scriveva Walter Lippmann nei primi Anni 20, e la missione è sempre quella.
La malattia non è solo italiana, sono tante le democrazie alle prese con un’informazione che fallisce la prova, che al cittadino non rende visibile l’invisibile, che dal potere politico si fa dettare l’agenda, le inquietudini, gli interessi prioritari. Che è vicina più ai potenti o alle lobby che ai lettori. Che alimenta il clima singolare che regna oggi nelle democrazie: come se vivessero un permanente stato di necessità - di guerra - dove per conformismo si sospendono autonomie, libertà di dire. La grande stampa Usa si è fatta dettare l’agenda da Bush, per anni. La stampa francese per anni s’è dedicata ai temi prediletti da Sarkozy.
Quel che ci rende originali non è dunque la malattia. È il fallire del sistema immunitario, che altrove generalmente funziona. Non sappiamo liberarci dalle patologie, dalle loro cellule.
Siamo immersi in esse con compiacimento, con il senso di potenza che dà l’ebbro sentirsi in branco: lo straordinario conformismo che disvelò Jean-François Revel (Pour l’Italie, 1958) non è scemato. In Italia c’è poca auto-stima ma anche poca analisi di sé. Un romanzo spietato come Madame Bovary è da noi impensabile. Quanto all’informazione, nulla che somigli alle autocritiche dei giornalisti Usa sull’Iraq, emerse quando Katrina travolse New Orleans. L’informazione italiana non produce anticorpi atti a ristabilire un contatto con la società. Il risultato è palese, oggi, e lo storico Adriano Prosperi lo descrive con nitidezza: nel Palazzo «un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e opposizione, un gusto della correttezza (...) un’aria di intesa e di pace». Fuori, intanto: una guerra tra poveri, e pogrom moltiplicati contro rom e diversi (la Repubblica, 16-5). Il guaio è che anche la stampa è Palazzo: incensa serenità politiche ritrovate e scopre, d’improvviso, una società inferocita da tempo, ormai indomabile dalla destra che l’ha sobillata.
L’enorme polemica suscitata da alcune affermazioni televisive del giornalista Marco Travaglio è sintomo di questa malattia, assieme alla violenza, impressionante, con cui alcuni si scagliano contro di lui (in primis un grande professionista d’inchieste giudiziarie come Giuseppe D’Avanzo). Il Paese traversa tifoni, e i giornalisti trovano il tempo di scannarsi a vicenda come fossero nell’ottocentesca Zattera della Medusa. Chi ha visto il quadro di Géricault, al Louvre, ricorderà la cupa zattera, dove pochi naufraghi pensarono di salvarsi a spese di altri. Su simile zattera sono oggi i giornalisti, mangiandosi vivi. L’istinto della muta è forte in tempi di necessità, di Ultimi Giorni dell’Umanità.
Ignoranza e mancanza di memoria sono tra i mali che impediscono di smettere il cannibalismo tra giornalisti e di suscitare un’opinione pubblica informata. Si ignora quel che succede nel Paese, e da quanto tempo. Il pogrom di Ponticelli non è un evento nuovo. Violenze di mute cittadine contro il capro espiatorio già sono avvenute il 2 novembre 2007, quando squadracce picchiarono i romeni dopo l’assassinio di Giovanna Reggiani. Già il 21-22 dicembre 2006 presidi cittadini incendiarono un campo nomadi a Opera presso Milano, approvati da un consigliere comunale leghista, Ettore Fusco, ora sindaco. E non erano violenze nate da niente, avevano anch’esse album di famiglia che chi ha memoria conosce: la tortura di manifestanti no-global a Genova nel 2001; gli sgomberi dei campi Rom attuati brutalmente dal Comune di Milano nel giugno 2005; le parole del presidente del Senato Pera contro i meticci nell’agosto 2005; le complicità del governo Berlusconi nel rapimento di Abu Omar e nella sua consegna ai torturatori egiziani.
Erano pogrom anche quelli del 2006-2007, e gli oppositori di allora non sapevano che a forza di aizzarli avrebbero suscitato i mostri che adesso, grazie all’allarme europeo, devono condannare. La perdita di memoria è stupefacente, ramificandosi s’espande. D’un tratto Berlusconi è «un’altra persona», al pari di suoi amici come Dell’Utri, Schifani. Non hanno dovuto fare ammenda: sono altre persone perché il conformismo fa letteralmente magie. Non si ricorda quel che è stato Berlusconi ancora ieri: come quotidianamente ha delegittimato Prodi, trascinando dietro di sé l’informazione. Di conflitto d’interesse non si parla più. Non si ricordano i trascorsi dei suoi uomini. I rapporti con la mafia o il vivere vicino a essa sono pur sempre una loro macchia. Travaglio ha avuto il cattivo gusto di non uniformarsi, di dirlo a Fabio Fazio su Rai3. Sta pagando per questo.
Fa parte del conformismo giornalistico il fascino per il potere (il vizio infantile descritto nel libro di Scalfari: non solo i buoni vincono ma chi vince è buono). E anche se il fascino esiste altrove, in Italia è diverso: proprio perché lo Stato è debole, la massima irriverenza verso le cariche repubblicane si mescola non di rado a riverenze esagerate (verso il presidente del Senato, anche verso il Capo dello Stato). L’usanza non esiste in regimi presidenziali come America e Francia.
Travaglio è un professionista che ha molto investigato, ma ve ne sono altri: Abbate che ha indagato su mafia e politica, o Peter Gomez, Gian Antonio Stella, Elio Veltri, Carlo Bonini, Francesco La Licata. Anche D’Avanzo è fra essi, e per il lettore non è chiaro perché si sia tanto accanito contro Travaglio, il cui carattere non è più spigoloso di altri astri giornalistici. Travaglio si è chiesto come mai un politico dal passato non specchiato sia presidente del Senato. Non è illegittimo. Ha violato il sacro della carica, ma la prossimità di Schifani alla mafia è già stata descritta da Lirio Abbate e Peter Gomez ne I Complici - in libreria dal marzo 2007 - senza che mai sia stata sporta querela. Berlusconi s’avvia a esser osannato allo stesso modo, metamorfizzandosi in tabù. L’antiberlusconismo non è più una normale presa di posizione politica; sta divenendo un insulto che disonora oppositori e giornalisti. Qui è l’altra originalità italiana. Nessuno si sognerebbe in America di accusare il New York Times o i democratici di anti-bushismo, nessuno in Francia denuncerebbe l’anti-sarkozismo di Libération o dei socialisti. Da noi lo spirito dell’orda è tale che ieri era indecente difendere Prodi, oggi è indecente attaccare Berlusconi.
Le precipitose scuse di Fabio Fazio non erano necessarie. Più appropriato è quello che ha detto dopo, su La Stampa del 13 maggio: «L’idea che si immagini sempre il complotto, la trama, fa pensare che non possa esistere la normalità; è come se non si riuscisse a concepire che in Italia c’è chi lavora autonomamente. Noi giornalisti non siamo dipendenti della politica. Semmai questo è un atteggiamento proprietario che ha la politica nei confronti dei cittadini». Che cos’è la normalità, per il giornalista? È non farsi intimidire, non lasciarsi manipolare dalla violenza con cui il presidente della Camera Fini giustifica, in aula, gli attacchi a Di Pietro («dipende da quel che dici»). È lavorare solo per i lettori: via maestra per fabbricarsi gli anticorp
COMINCIO questa mia rassegna settimanale dei principali fatti e misfatti politici con una citazione. E’ tratta da un libro di Alexis de Tocqueville, "La democrazia in America" scritto due secoli fa e ormai diventato un classico. L’ha ricordato Umberto Eco nella sua "bustina" sull’ Espresso di venerdì.
«Nella vita di ogni popolo democratico c’è un passaggio assai pericoloso, quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente dell’abitudine alla libertà. Arriva un momento in cui gli uomini non riescono più a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell’ordine è già schiava in fondo al cuore e da un momento all’alto può presentarsi l’uomo destinato ad asservirla. Non è raro vedere pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o distratta e che agiscono in mezzo all’universale immobilità cambiando le leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi. Non si può fare a meno di rimanere stupefatti di vedere in quali mani indegne possa cadere anche un grande popolo». Aggiungo per doverosa completezza l’avvertenza che spesso compare in certi film che trattano problemi e casi di stretta attualità: «Ogni riferimento a personaggi reali è infondato o puramente casuale».
Abbiamo assistito ed assistiamo, dopo la vittoria del centrodestra ad una profonda trasformazione del leader di quella parte politica, da pochi giorni asceso per la quarta volta in 14 anni alla presidenza del Consiglio. Tanto è stato demagogico e iracondo nelle sue precedenti apparizioni e tanto appare oggi uno statista pensieroso del bene comune. Molti dubitano della sincerità di questa trasformazione.
Un campione intervistato da "Sky Tg24" su questo tema, rispondendo alla domanda «è sincero o è bugiardo?» ha dichiarato per l’82 per cento «è bugiardo». Una parte consistente del campione è formata evidentemente da persone che appena pochi giorni prima avevano votato per lui. Ciò rende estremamente pertinente l’analisi di Tocqueville.
Ma io non credo – e l’ho già scritto domenica scorsa – che Silvio Berlusconi, bugiardo per antonomasia, in questo caso menta. E’un grande attore e un grande venditore del suo prodotto, cioè di se stesso, e come tutti i grandi attori si immedesima completamente con ciò che dice. Nel momento in cui decide di assumere e interpretare il personaggio dello statista, quella maschera diventa vera, diventa realtà, l’attore si comporta da statista e lo è. Quindi va preso sul serio. Del resto in politica le parole sono pietre ed è precluso fare il processo alle intenzioni.
Tuttavia la memoria delle maschere assunte in precedenza rimane e deve rimanere perché l’attore può cambiar maschera a suo piacimento e in qualunque momento se gli ostacoli che incontra lungo la strada si rivelino troppo difficili e troppo ostici ai suoi interessi e alle sue ambizioni. Il grande attore non ha convinzioni proprie e una propria identità: si immedesima nella parte e quella è la sua forza. Finita una recita ne comincia un’altra; talvolta interpreta due parti e due personaggi diversi e addirittura contrapposti. In queste situazioni pirandelliane Berlusconi ci si ritrova molto bene e tutti noi, cittadini di questo Paese, dobbiamo ricordarcelo.
Ho detto che il grande attore non ha convinzioni proprie o, se pure ne ha, esse sono irrilevanti di fronte alla sua personalità recitante. Ma quando la recita è finita le sue pulsioni istintuali affiorano e determinano i suoi comportamenti. Abbiamo imparato a conoscerle, le pulsioni istintuali di Berlusconi che è sulla scena nazionale da ormai trent’anni. Il neo-statista va preso sul serio e gli si può e anzi gli si deve fare un’apertura di credito; del resto le elezioni le ha vinte e la sua legittimità è piena e fuori discussione. Non altrettanto la sua tempra morale e politica. Perciò con lui la disponibilità deve andare di pari passo alla memoria vigile e al riscontro costante tra parole e fatti, tra intenzioni e realizzazioni.
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La sua campagna elettorale e quella dei suoi alleati Bossi e Fini è stata costruita soprattutto sul tema della sicurezza. Gli errori del centrosinistra su questo tema sono stati molti e gravi: la maggioranza si è più volte sfaldata, i dirigenti della sinistra radicale hanno frequentemente bloccato provvedimenti di energica prevenzione e di necessaria repressione predisposti a suo tempo dal ministro dell’Interno Giuliano Amato in accordo con Prodi. La magistratura, le sue lentezze e i suoi riti hanno fatto il resto e la delinquenza ha goduto di una diffusa impunità. Non tale tuttavia da rappresentare una minaccia nazionale. Se essa è balzata al primo posto nelle preoccupazioni degli italiani ciò è avvenuto perché la percezione di quella minaccia e la paura che ne è derivata sono state cavalcate senza risparmio e senza ritegno dai triumviri del centrodestra.
Cecità di fronte al fenomeno della micro-delinquenza da parte della sinistra radicale, eccitamento della paura da parte della destra: in queste condizioni i richiami alla ragione e al senso di responsabilità dei democratici sono caduti nel vuoto.
Immediatamente dopo la vittoria elettorale di Berlusconi è scoppiata la sindrome delle ronde di strada, della repressione fai-da-te, del giustizialismo di quartiere. Nelle province di camorra la criminalità organizzata si è trasformata in giustizialismo di piazza: la manovalanza camorrista ha preceduto la polizia e i carabinieri, l’assalto ai campi rom è venuto prima delle leggi in corso di redazione da parte del nuovo ministro dell’Interno il quale, in accordo con il sindaco di Milano e con quello di Roma, ha anche istituito la nuovissima figura del "Commissario ai rom".
Che cosa debba fare un commissario addetto ad un’etnia è un mistero, ma una cosa è certa: si tratta di un’inutile e pericolosissima criminalizzazione d’una collettività.
Maroni si affanna da qualche ora a ridimensionare gli aspetti abnormi di queste sue iniziative strombazzate a pieno volume durante la campagna elettorale. Il reato di immigrazione clandestina, che costituiva uno dei punti forti della predicazione leghista, ha dovuto essere depennato di fronte alle obiezioni del capo dello Stato e dell’opinione pubblica europea, ma resta un contesto non solo repressivo ma persecutorio che eccita ancora di più la gente di mano e il teppismo della destra estrema.
L’altro ieri a Napoli uno stuolo di mamme scarmigliate e urlanti voleva scacciare alcuni handicappati-rom che per una notte erano stati ricoverati in un convitto dopo l’incendio del campo di Ponticelli. «Bruciarli no, ma scacciarli sì e subito» urlavano quelle mamme ed una in particolare che era la più agitata. Si è poi saputo che è la moglie del boss camorrista di quel quartiere.
A questo siamo arrivati, ma c’è una logica nella follia d’aver cavalcato la paura fino a questo punto: poiché miracoli in economia non se ne potranno fare, bisognava suscitare un nemico interno sul quale scaricare le tensioni e doveva essere un nemico capace di concentrare su di sé l’immaginario della nazione. Ora quell’isteria dell’immaginario ha preso la mano da Napoli a Verona e può dar luogo a conseguenze assai gravi.
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Walter Veltroni ha fatto bene ad incontrare Berlusconi a Palazzo Chigi venerdì mattina. Dal resoconto fatto dallo stesso segretario del Pd risulta che abbiano toccato vari e importanti argomenti: dalle riforme istituzionali da fare insieme ai programmi dei due schieramenti che restano invece, come è giusto che sia, fortemente conflittuali.
In particolare hanno parlato di Rai (qui la conflittualità è massima) di sostegno dei salari (anche su questo punto non c’è stato accordo) di legge elettorale europea (istituzione d’una soglia di sbarramento del 3 per cento).
Non si è parlato invece di sicurezza, per riguardo (così è stato detto) alle prerogative del Capo dello Stato cui spetta di controfirmare i decreti e i disegni di legge.
A noi non sembra una buona cosa avere escluso dall’agenda di questo primo incontro il tema della sicurezza. Al dà degli specifici provvedimenti di prevenzione e di repressione che si dovranno adottare, resta una visione d’insieme che riguarda – come scrive Tocqueville nella citazione sopra riportata – «il gusto di civiltà e di libertà».
La nostra visione di cittadini democratici mette strettamente insieme la legalità, la protezione dei cittadini, la certezza delle pene, la repressione rigorosa della giustizia di strada e delle ronde «volontarie», l’opposizione più ferma ad ogni criminalizzazione di etnie e di collettività.
Questo avremmo voluto che il segretario del Pd dicesse a titolo di premessa nel suo primo incontro con il presidente del Consiglio. Sappiamo che questa visione e questi valori appartengono interamente al patrimonio etico-politico di Veltroni e del partito da lui guidato. Vogliamo sperare che siano condivisi anche da Silvio Berlusconi nella sua nuova veste di statista. Ma se ci si deve impegnare in una politica di dialogo istituzionale, questi valori non possono essere sottaciuti e dati per noti; vanno viceversa proclamati e la loro condivisione va posta come premessa e condizione indispensabile al dialogo. Se non fossero condivisi e tradotti in atti legislativi e in linee guida amministrative conformi, il dialogo non potrebbe e non dovrebbe evidentemente aver luogo.
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Poche altre cose vogliamo aggiungere a proposito delle riforme istituzionali che maggioranza ed opposizione dovranno portare avanti insieme.
Ben venga il riconoscimento da parte di Berlusconi del governo-ombra come interlocutore del governo governante. Ma non c’è soltanto il Partito democratico all’opposizione, sicché se si vorrà formalizzare questa novità bisognerà volgere al plurale quella parola perché tutte le opposizione hanno il diritto di interloquire. Oppure non si formalizzi nulla e si aumentino piuttosto i poteri di controllo del Parlamento in pari misura ai maggiori poteri che è giusto riconoscere al presidente del Consiglio, capo dell’Esecutivo.
E’passato quasi sotto silenzio (se si esclude il lucido articolo di Ignazio Marino su «Repubblica» di venerdì) il fatto che nel nuovo governo non esiste più il dicastero della Sanità, derubricato come parte del dicastero del «Welfare» affidato ad un sottosegretario o vice ministro che sia.
La derubricazione d’un ministero le cui attribuzioni sono sotto l’usbergo della Costituzione sotto forma del diritto alla salute di tutti i cittadini, è incomprensibile e inaccettabile. Capisco che la derubricazione possa esser gradita ai presidenti delle Regioni più ricche ma proprio per mantenere la parità di prestazioni sanitarie secondo il bisogno e non secondo il reddito che la Costituzione sancisce, non si può abolire il ministero della Salute e disossare il Servizio sanitario nazionale.
Questa materia riporta l’attenzione sul federalismo fiscale, altro tema delicatissimo che fa parte di quelle riforme da fare insieme tra maggioranza ed opposizione.
Bossi ha programmato da tempo la sua secessione dolce del Lombardo-Veneto basata su un federalismo fiscale spinto all’estremo e Berlusconi, Tremonti e Fini gli hanno dato carta bianca. Dove ci può portare questo salto nel buio in termini politici ed economici è ancora del tutto ignoto. I primi studi effettuati da economisti indipendenti mostrano squilibri fortissimi tra Nord e Sud, tra regioni ricche e regioni povere, tra entrate tributarie incassate e fonti di reddito che le generano.
Il federalismo fiscale si ripercuote anche su alcuni principi costituzionali, sul Senato federale, sulla composizione e i poteri della Corte Costituzionale. Se non ci sarà accordo su queste complesse e delicatissime questioni il governo dovrà procedere da solo e poiché non dispone della maggioranza necessaria per leggi di natura costituzionale dovrà ricorrere ad un referendum che spaccherebbe il Paese in due.
Ci pensi bene il neo-statista di Palazzo Chigi. Noi ci auguriamo che la sua sopravvenuta saggezza gli porti consiglio e gli dia la forza di far marciare i suoi alleati in accordo con lui anziché lui in accordo con loro. In caso contrario la strada sarà tutta in salita e non sarebbe un bene per un Paese che ha bisogno di crescere crescere crescere. Crescere soprattutto moralmente, signor presidente del Consiglio, perché questa è ormai diventata la nostra principa
Come spesso accade, e purtroppo, fra la magniloquente declamazione dei valori e la modesta pratica di guidare decentemente un´assemblea parlamentare corre una distanza che il presidente Fini, ieri mattina, ha illustrato nel peggiore dei modi; allorché, rispondendo all´onorevole Di Pietro che protestava per le interruzioni, ha detto: «Ovviamente dipende da quel che si dice». «Ovviamente», no; e per niente affatto, «dipende».
Ed è un vero peccato che questa specie di bislacca proposizione presidenziale sia piovuta, con tanto di applausi dai banchi del centrodestra, dallo scranno più alto di Montecitorio ad appena due settimane dal discorso di insediamento di Fini; quando fra immancabili propositi di pacificazione e calorosi richiami alle radici cristiane, il neo eletto solennemente annunciò che avrebbe garantito «l´assoluta parità fra tutti i deputati».
La retorica è un´arte, ma pure un tic che mette a nudo le magagne del potere. Richiesto di un commento su quella frase, il presidente della Camera dei deputati ha replicato che si trattava di «domande fuori luogo». E anche qui: fin dal nome il Parlamento è un luogo, appunto, che a partire dai suoi massimi rappresentanti dovrebbe ispirare umiltà e cortesia, specie se sotto pressione. Questo per le forme, e un po´ anche per l´esempio, virtù invero un po´ dimenticata.
Per quanto riguarda invece il merito della faccenda non sembra poi così fuori luogo far presente che in aula le opinioni sono generalmente libere; e che consentire la loro espressione, a prescindere dai battibecchi e dagli ululati che innescano, dovrebbe essere merito e vanto di chi presiede.
Questo ieri non è accaduto. Non solo, ma rivedendo la scenetta, lascia sgomenti l´immediata determinazione o la saccente naturalezza con cui Fini, forse ancora non calato nel suo ruolo, ha pronunciato quella frase, o meglio se l´è lasciata scappare di bocca come se fosse l´unica a venirgli in mente. Poi sì, certo, a essere maliziosi - e assai poco revisionisti - si potrebbe andare avanti a lungo; fino a richiamare il modo in cui il presidente della Camera Alfredo Rocco richiamò all´ordine il deputato Giacomo Matteotti nell´ultima seduta della sua vita: «Onorevole, non provochi incidenti e concluda!», come pure: «Se ella vuole parlare, continui, ma prudentemente!».
Ma forse, senza scomodare la storia patria, conviene rileggersi il celebrato discorso d´intronazione, là dove Fini ritenne di ammonire l´Italia sui pericoli del relativismo e sull´«errata convinzione che libertà significhi pienezza di diritti e assenza di doveri». Con la postilla, magari, che fra i doveri del presidente c´è di presiedere come un arbitro, che non valuta né le azioni né il livello di gioco delle squadre.
Interruzioni, d´altra parte, sempre ci sono state e sempre ci saranno. Nella fornita biblioteca di Montecitorio i componenti del nutrito staff di Fini troveranno senza meno un´ampia pubblicistica al riguardo, dal sapido «Viva ilarità in Parlamento. L´umorismo politico da Cavour a De Nicola» del Zingali (Ala, 1950) ai due volumi (il primo fece 23 edizioni) di Andreotti, «Onorevole... stia zitto» (Rizzoli, 1987 e 1992). Potranno quindi farne istruttive schede da porre in visione al presidente. Per quanto riguarda i tempi più recenti c´è da dire che chi è interrotto comunque non manca di prendersela con il presidente. Per cui Craxi, una volta, disse a un missino che lo infastidiva: «Dategli un bicchiere di vino!»; Amato sbattè il pugno sul banco contro Spadolini; e una volta Lamberto Dini se ne uscì sbraitando nel microfono un sonoro «E cazzo!».
Ma non è giusto buttarla in burletta. Oltre a prendere le misure del suo nuovo lavoro, possibilmente senza alterigia e prosopopea, è bene che Fini tenga presente che nonostante i vari, ripetuti e sinceri proclami c´è un bel pezzo d´Italia che non è immediatamente disposto a dimenticare quella che è stata la sua cultura politica e istituzionale.
Per cui freme e magari fraintende quando egli dice: «Non credo che gli Usa siano pronti a una presidenza di Obama, non fosse altro perché è nero». O un po´ si preoccupa quando, colto da un empito spettacolare, organizza tour elettorali chiedendo i documenti a extracomunitari venditori ambulanti di accendini. Allora, del resto, non era ancora presidente della Camera. Ma quando lo è diventato, sarà che non funziona la comunicazione, sarà che tutto pesa di più, ma fattosi prigioniero della più vana e gratuita nevrosi comparativa, non si è risparmiato di osservare che «i fatti di Torino» erano più gravi «di quelli di Verona».
Ieri il numero con Di Pietro, e la tirata d´orecchie di Casini, che nel tempo del relativismo rischia addirittura di figurare come un gigante d´imparzialità, l´ultimo strenuo difensore della Repubblica parlamentare dei liberi discorsi e delle interruzioni necessitate.
Il governo ha preparato il piano sicurezza in cinque punti. Non è chiarissimo quali sono. Solo due o tre cose sono chiare. Prima, la condizione, drammatica, di clandestinità (cioè immigrazione irregolare) diventa un reato penale. Si va in prigione perché si è ladri, o assassini, o truffatori, o violentatori oppure perché si è stranieri. Secondo, i cosiddetti Cpt (centri di permanenza temporanea per persone extracomunitarie senza permesso di soggiorno) diventano centri di detenzione. Più o meno, campi di concentramento. Terzo - e questa è la novità storicamente più rilevante - a Milano (per ora) viene nominato dal ministro dell'Interno un commissario straordinario «all'emergenza rom». Perché diciamo che è storicamente rilevante? Perché per la prima volta dal 1938 entra, in un provvedimento ufficiale di un governo europeo, il concetto di razza, concetto che era stato bandito (e anche assai vituperato) dopo il nazismo e la persecuzione contro gli ebrei e - appunto - i rom. Nel 1938, in Italia, fu prima pubblicato il «manifesto della razza», compilato da un certo numero di scienziati non molto illustri né famosi, tutti assai fedeli al regime fascista, nel quale si rilanciava il concetto di «razza»; e successivamente furono varate le leggi speciali che negavano a ebrei e rom (e a chiunque non fosse di razza ariana) moltissimi diritti (compresi diritti di proprietà, di matrimonio di residenza e altro).
La nomina del commissario ai rom, naturalmente, non ha lo stesso valore persecutorio che ebbero le leggi del '38. Costituisce però la rottura di due tabù, che da allora nessuno più aveva osato infrangere: l'idea stessa di razza, e il principio che ogni persecuzione sia illegale.
Perché introduce il concetto di razza? I rom, come sapete, sono un popolo che non ha nazione, che non ha terra, è un gruppo che non è definibile per mestiere o età o città o altro. Definire i rom «una emergenza», di conseguenza, è un atto che indiscutibilmente si basa sul concetto di razza. Violando peraltro la dichiarazione sulle razze approvata dall'Unesco nel 1950 - a completamento della dichiarazione universale sui diritti della persona - nella quale si precisava che le razze non esistono. E dunque che non si possono fare leggi ad hoc, né nominare commissari ad hoc.
Naturalmente la natura razzista del provvedimento (razzista in senso tecnico, senza dare valore politico o morale a questo termine) assume un significato più grave perché va a colpire il popolo che - dopo gli ebrei - è quello che più di tutti gli altri fu devastato dallo sterminio razzista. E verso il quale, di conseguenza, le classi dirigenti europee dovrebbero avere un enorme debito morale e anche un discreto senso di colpa.
Il secondo tabu che viene rotto è quello della persecuzione. Nelle dichiarazioni di soddisfazione per la nomina del dottor Gian Valerio Lombardi, prefetto di Milano, a «commissario anti-Rom», si intuisce che l'obiettivo è quello di spianare tutti gli accampamenti dei rom intorno a Milano, che attualmente ospitano diverse decine di migliaia di persone. Raderli al suolo. E questo senza un piano per dare alloggio a queste persone, che dunque si troverebbero senza casa, senza servizi essenziali, anche - probabilmente - senza la possibilità di lavorare, e dunque, oggettivamente perseguitati.