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Quaranta cadaveri e un centinaio di dispersi, che non troveremo mai, nel mare di Sicilia. Persone, esseri umani, che fuggono dai loro paesi, raggiungono la costa meridionale del Mediterraneo. È una storia di sterminio di massa che si ripete e continuerà. Di chi è la responsabilità di questa strage continua? Nostra, della nostra globalizzazione aperta a tutti i movimenti di capitali, ma chiusa - fino all'omicidio di massa - alle persone, a quelli che non riescono a vivere nei loro paesi e a rischio di morte tentano di sbarcare nel nostro mondo ricco e benestante. Magari solo per mendicare, ma in un paese ricco la mendicità può dare da vivere.

È una tragedia, ma essendo una tragedia di poveracci non diventa mai un nostro problema. Al massimo si cerca di eludere il problema con più vigilanza, con sbarramenti di motovedette e guardie.

Questi disperati migranti non c'erano un tempo o il fenomeno era meno rilevante. Oggi queste popolazioni sono più povere, alla disperazione, perché nei loro paesi la popolazione è cresciuta e perché le loro produzioni sono state distrutte dalla nostra crescita di produttività. Perché la nostra globalizzazione è stata quella dei paesi benestanti, quasi il club dei signori. E - va detto - nei nostri paesi benestanti la globalizzazione finanziaria e mercantile ha accresciuto il distacco tra poveri e ricchi. E i nostri poveri, quelli che lavorano a salario a tempo determinato, o in nero, temono l'arrivo di altri poveri, ancora più poveri e più disposti a lasciarsi sfruttare per un tozzo di pane.

Gli imperi coloniali non ci sono più, ma viene da dire che siamo andati al peggio. Non ci sono più le colonie, ma c'è la colonizzazione volontaria di tutti quelli che nei loro paesi non riescono più a vivere e tentano di farsi individualmente colonizzare nei nostri paesi ricchi.

Questi movimenti migratori sono diventati una costante tragica dei nostri tempi e quel che sorprende è che non ci sia nessuna iniziativa non dico democratica, ma almeno umanitaria. Pensiamo solo a rafforzare le frontiere e basta. Tacciono i governi, tacciono anche i partiti di opposizione e qui da noi tace anche la Chiesa cattolica, quelli che tentano di arrivare mica sono cristiani!

Questa tragedia degli emigranti - donne, bambini e uomini condannati ad affogare nel nostro bel Mediterraneo - non sembra toccare la sensibilità delle nostre società, dei nostri politici, dei nostri intellettuali. Un'insensibilità che segna il nostro grado di imbarbarimento.

Nel dialetto subalpino circolava una metafora romanesque: «l’hanno cambiato a balia»; forse lo dicono ancora d’uno che improvvisamente risulti diverso (i dialetti e relativa sapienza vanno estinguendosi); l’ubriacone diventa asceta, il codardo compie gesta eroiche et similia.

Stanno nel fisiologico le metamorfosi lente operate da lunghi esercizi (Freud le chiama forme reattive, Reaktionsbildungen). Qui è innaturalmente fulminea. Tale appariva la conversione del Caimano in homme d’Etat pensoso, equanime, altruista. Impossibile, natura non facit saltus. Nessuno cambia d’un colpo a 72 anni, tanto meno l’egomane insofferente delle regole (etica, legalità, grammatica, buon gusto), specie quando sia talmente ricco in soldi e voti da mettersele sotto i piedi. Era molto chiaro dall’emendamento pro Rete4, in barba alla disciplina della concorrenza, ma i cultori del cosiddetto dialogo perdonano tutto o quasi.

Nell’aria del solstizio, lunedì sera 16 giugno, Leviathan (nome biblico del coccodrillo archetipico) batte due colpi. Partiamo dall’arcinoto retroscena. Come gli capita spesso, soffre d’antipatiche rogne giudiziarie: in un dibattimento milanese prossimo all’epilogo è chiamato a rispondere del solito vizio, definibile lato sensu "frode"; stavolta l’accusa è d’avere pagato David Mills, avvocato londinese, affinché dichiarasse il falso su fondi neri esteri; l’aveva incautamente svelato l’accipiens. Inutile dire quanto gli pesi la prospettiva d’una condanna: il massimo della pena è otto anni, art. 317 ter c. p., o sei, se fosse applicato l’art. 377 (indurre al falso chi abbia la facoltà d’astenersi); appare anomala l’ipotesi d’un presidente del Consiglio interdetto dai pubblici uffici, né sarebbe pensabile l’insediamento al Quirinale nell’anno 2013; punta lì, lo sappiamo, in un’Italia ormai acquisita, patrimonio familiare, dépendance Mediaset. La posta è enorme. Altrettanto i mezzi con cui risponde al pericolo.

Esiste un dl sulla sicurezza pubblica. Palazzo Madama lavora alla conversione in legge. Gli emendamenti presentati dai soliti yes men prevedono la sospensione d’un anno dei processi su fatti ante 1 luglio 2002, la cui pena massima non ecceda i 10, pendenti tra udienza preliminare e chiusura del dibattimento; così tribunali e corti sbrigheranno il lavoro grosso. Lo dicono senza arrossire i presentatori del capolavoro e lo ripete Leviathan nella lettera al presidente del Senato, sua devota creatura, annunciando un secondo passo, ripescare l’immunità dei cinque presidenti, dichiarata invalida dalla Consulta quattro anni fa.

Sarà sospeso anche uno dei processi inscenati a suo carico «da magistrati d’estrema sinistra»: gliel’hanno detto gli avvocati; che male c’è?; un perseguitato politico deve difendersi; e ricuserà il presidente del tribunale, lo rende noto en passant. Ma è puro caso che l’emendamento gli riesca comodo. La ratio sta nell’interesse collettivo. Discorso molto berlusconiano, chiunque glielo scriva. Tra un anno sarà immune: se non lo fosse ancora, basterebbe allungare la sospensione; tra cinque da palazzo Chigi scala Monte Cavallo, sono due passi; nel frattempo vuol essersi riscritta la Carta vestendo poteri imperiali (davanti a lui, Charles-Louis-Napoléon, III nell’ordine dinastico, è un sovrano legalitario). In sede tecnica riesce arduo definire questo sgorbio, tanto straripa dalla sintassi legale. Ciurme parlamentari sfigurano il concetto elementare della legge: va al diavolo la razionalità immanente i cui parametri indica l’art. 3 Cost.; l’atto rivestito d’abusiva forma legislativa soddisfa solo l’interesse personale del futuro padrone d’Italia.

Vengono in mente categorie elaborate nel diritto amministrativo: «le détournement du pouvoir»; mezzo secolo fa Francesco Carnelutti configurava l’ipotesi «eccesso di potere legislativo». Siamo nel regno dei mostri, studiato dal naturalista Ulisse Aldrovandi. L’espediente appare così sguaiatamente assurdo in logica normativa, da sbalordire l’osservatore: perché sospendere i processi su fatti ante 1 luglio 2002, mentre seguitano i posteriori?; e includervi i dibattimenti alla cui conclusione manchi un giorno?; tra 12 mesi l’ingorgo sarà più grave, appena ricadano nei ruoli. Che nel frattempo il taumaturgo d’Arcore abbia quadrato il cerchio allestendo una giustizia rapida, è fandonia da imbonitori: la pratica abitualmente, quando non adopera le ganasce; o forse sottintende una tacita caduta nella curva dell’oblio; spariscono e non se ne parla più, amnistia anonima. Oltre alla patologia amministrativa, l’incredibile pastiche ne richiama una civilistica: il dolo, nella forma che Accursio chiamava «machinatio studiosa», stretta parente della frode, tale essendo la categoria sotto cui è definibile l’epopea berlusconiana (avventuriero piduista, impresario delle lanterne magiche, grimpeur d’affari risolti con trucchi penalmente valutabili, intanato in asili fiscali a tenuta ermetica, spacciatore d’illusioni elettorali): gli emendamenti galeotti hanno come veicolo un dl firmato dall’ignaro Presidente della Repubblica su materie nient’affatto analoghe, e s’era guardato dal dire cosa covasse; in nomenclatura romana, dolus malus.

Gli sta a pennello l’aggettivo tedesco «folgerichtig», nel senso subrazionale: ha dei riflessi costanti (finto sorriso, autocompianto, barzelletta, morso, digestione); non tollera le vie mediate; sceglie d’istinto la più corta, come il caimano quando punta la preda. Con questa sospensione dei processi sotterra l’azione obbligatoria: Dio sa cos’avverrà nei prossimi cinque anni ma gli obiettivi saltano all’occhio: la vuole à la carte; carriere distinte, ovvio; Procure agli ordini del ministro, sicché il governo disponga della leva penale; procedere o no diventa scelta politica (se ne discorreva nella gloriosa Bicamerale sotto insegna bipartisan: Licio Gelli, fondatore della P2, rivendicava i diritti d’autore riconoscendo le idee del suo «Piano» d’una «rinascita democratica» anno Domini 1976; l’ancora invisibile demiurgo frequentava la loggia in quarta o quinta fila). A quel punto nessuno lo smuoverebbe più se fosse il superuomo cantato dai caudatari, invulnerabile dal tempo. Le altre due mete è chiaro quali siano: prima, uscire dall’Unione europea, compagnia scomoda; seconda, moltiplicare lo smisurato patrimonio. Sul quale punto nessuno con la testa sul collo ha dubbi: anni fa gli contavano 40 mila vecchi miliardi; crescono come la vorace materia prima evocata da Anassimandro.

SARNO (SA) - Niente più licenze edilizie, per almeno sei mesi. Troppe le duecentottanta concesse negli ultimi anni: il territorio di Sarno, massacrato dieci anni fa dall’alluvione che uccise 137 persone, non sopporta altro cemento. Compreso quello abusivo, che continua a invadere anche le zone più a rischio. Stefano Boeri detta le sue condizioni. Dal 2002 l’architetto milanese lavora al piano regolatore del comune campano (il vecchio piano risale al 1972 e la bozza di un altro piano venne trovata negli anni Novanta a casa del camorrista Pasquale Galasso). Ma con l’attuale giunta di centrodestra si è arrivati a un punto di rottura: si discuterà stasera, in Consiglio comunale, se ci si avvarrà ancora della consulenza di uno dei più autorevoli progettisti italiani e dei suoi propositi di bloccare la cementificazione, legale e illegale, nella piana agricola. O se invece si continuerà a consumare suolo. Se non avrà garanzie Boeri rinuncerà all’incarico, lasciando in balìa di sé stesso un territorio fra i più martoriati, dove la memoria dell’alluvione racconta di palazzi costruiti in luoghi in cui ogni regola e persino il buonsenso lo impedivano.

Sarno è impantanata in un paradosso. Da una parte c’è l’architetto che redige un piano. Dall’altra c’è il Comune, che gli ha dato l’incarico di mettere ordine in una sconsiderata espansione edilizia e che elargisce concessioni all’insaputa dell’architetto e spesso in contrasto con il piano. La cifra di duecentottanta permessi dal 2004 la fornisce il sindaco, Amilcare Mancusi. «L’edilizia è una delle principali attività della città», spiega il primo cittadino. Ma la piana agricola, che ospita colture di pregio, è un fitto cantiere dove le villette sono spacciate per edifici rurali. E ciò accade nonostante a Sarno ci siano 30mila abitanti, come nel 1970. «È vero», insiste il sindaco, «ma abbiamo il nuovo ospedale e molti insediamenti industriali: non è detto che la popolazione non aumenti». Un altro dei cardini del piano di Boeri è il recupero delle case abbandonate del centro storico, un appartamento su dieci. «Ma per questa operazione ci vuole molto più tempo», è la replica di Mancusi.

La frenesia edilizia è incessante e, secondo alcuni tecnici, in contrasto con il piano territoriale adottato dalla regione Campania, che per le aree agricole prevede rigide misure di tutela. Alla seduta di stasera si arriva dopo un lungo braccio di ferro. Boeri ha scritto anche una lettera a Giorgio Napolitano: il caso di Sarno è considerato esemplare di un certo modo di abbandonare i territori più delicati a un destino di pericolo immanente. E che le ferite in Campania possano riaprirsi lo segnala l’Ordine dei geologi, il cui presidente regionale, Francesco Russo, indica duecentoventi zone a rischio idrogeologico, fra le quali centoventi con caratteristiche simili alle rapide colate di fango che seppellirono Sarno. Più suolo si impermeabilizza con il cemento, più le acque piovane non sono smaltite correttamente, più aumentano i rischi di alluvioni e frane.

Fra le scelte controverse dell’amministrazione, votata dall’intero Consiglio comunale, c’è anche quella di concedere l’abitabilità a tutti i piani interrati di edifici fuori del centro storico. «È una decisione di cui abbiamo saputo a cose fatte», spiega Boeri, «senza considerare, vista la tragedia di dieci anni fa, i rischi che corre chi va a vivere lì». «Quei locali erano già usati come tavernette», risponde Mancusi, che accusa Boeri di ritenersi il dominus delle scelte politiche della città, «che invece spettano al Consiglio comunale».

L’ultimo capitolo spinoso è l’abusivismo. Lo stesso sindaco ammette che il fenomeno non si è esaurito e investe anche i lembi più pericolosi del territorio. Attualmente sono oltre seimila le domande di condono. «Ma gli insediamenti illegali non sappiamo neanche dove siano», lamenta Boeri, «soprattutto quelli che non rientrano in nessuna sanatoria. Abbiamo chiesto una mappa, ma non siamo mai riusciti a ottenerla».

«Regime leggero», democrazia non più antifascista ma a-fascista nonché a-politica, aveva disgnosticato giovedì scorso Fausto Bertinotti nella sua analisi delle «ragioni della sconfitta». Un fine settimana e il tema si è arroventato, complici da un lato un'uscita di Giulio Tremonti sull'impoverimento dei ceti medi che comporterebbe un rischio di fascismo, dall'altro le decisioni del governo su intercettazioni, esercito a guardia della sicurezza, emendamento salva-Berlusconi.

Per Eugenio Scalfari (Repubblica), queste ultime sono la prova che «non sarà fascismo, ma è un allarmante incipit verso una dittatura che si fa strada in tutti i settori sensibili della vita democratica, complici la debolezza dei contropoteri, la passività dell'opinione pubblica e la sonnolenta fragilità delle istituzioni»; ragion per cui il Pd farebbe bene a decidere che non c'è più alcuna possibilità di dialogo con il governo. Per Piero Sansonetti (Liberazione) Tremonti ha ragione oltre le sue intenzioni: il rischio-fascismo s'è già inverato in una «svolta illiberale e autoritaria», che comprende l'interruzione della curva di crescita delle libertà collettive e individuali, alcune rotture dello stato di diritto, la semplificazione del sistema politico a spese del pluralismo e della rappresentanza, il ritorno del classismo, la sostituzione dei valori di solidarietà e giustizia sociale con principi gerarchici e d'ordine.

Giudizi che le cautele di tre storici (Piero Melograni, Emilio Gentile, Lucio Villari) intervistati dal Corsera, convinti che il fascismo sia un fenomeno novecentesco non riproducibile oggi, non bastano a controbilanciare. Non chiamiamolo fascismo, ma il problema di una frattura fascistoide della democrazia costituzionale, di un salto di forma della Repubblica (che non coincide con il gioco della sua numerazione in prima, seconda e terza), c'è ed è sotto la vista di chiunque non guardi, per dirla alla Kubrik, «a occhi completamente chiusi».

Il problema, però, non è solo di nome e nemmeno solo di diagnosi, ma di analisi, e ha ragione Paolo Franchi, sul Corsera di ieri, a farlo presente. Gli appelli al risveglio delle opposizioni, scrive Franchi, suonano tanto drammatici quanto poco convincenti, «forse perché sono poco convincenti le analisi che li sorreggono», e anche perché di un rischio-regime si parla dal '94 in poi a ogni governo Berlusconi, senza che fin qui - e per fortuna - questo rischio si sia effettivamente inverato. «Denunciare con parole di fuoco il rischio che quello che non è capitato finora stia per succedere adesso è sicuramente più facile, ma altrettanto sicuramente meno produttivo, che guardare impietosamente dentro questo quindicennio e dentro se stessi per provare a essere oggi sul serio opposizione, domani governo. Era davvero inevitabile che la transizione italiana avesse un esito di destra?».

Domanda ineludibile, eppure a tutt'oggi quasi improponibile, come se per rispondere mancasse la profondità storica - ma 15 anni a far data da Tangentopoli, quasi 20 a far data dall'89, cominciano a essere tanti - o la coerenza di un'ipotesi di interpretazione politica. Eppure senza porsela e senza tentare di rispondere, è difficile se non impossibile sia la valutazione della deriva di regime, sia l'indicazione di una prospettiva di opposizione o di alternativa. Perché è vero - e Franchi forse lo sottovaluta - che il quadro di oggi è per certi versi peggiore di quello del '94: per la scomparsa della sinistra (non solo radicale) dalla scena, per la tendenza alla stabilizzazione, e non come nel '94 alla destabilizzazione, del sistema che il voto del 13 aprile ha espresso. Ma è altrettanto vero - e questo invece lo sottovaluta Scalfari - che le derive di regime che oggi hanno libero corso nell'attività di un governo privo di opposizione erano già tutte, ma proprio tutte presenti nella vittoria berlusconiana del '94. E che dal '94 a oggi, non c'è stata nell'opposizione a Berlusconi né chiarezza né costanza su quanto e come andassero avversate e contrastate.

Per scomporre in altre domande la domanda sull'esito della transizione: era inevitabile affidarsi a una soluzione giudiziaria della fine della «prima Repubblica» all'inizio degli anni '90? Era inevitabile partecipare alla delegittimazione della Costituzione giocherellando con riforme che di fatto servivano solo a disfare lo stato sociale e a rafforzare i poteri dell'esecutivo? O derubricare l'importanza di alcune libertà (si vedano le vicende della legge 40 e dei Pacs) per tenersi buone le gerarchie vaticane? O credere fino in fondo alle metamorfosi democratiche di Fini, o alle buone ragioni settentrionaliste di Bossi? O accettare e incoraggiare forma e vocazione dell'attuale Pd? Era inevitabile (già dalle leggi d'emergenza di fine anni 70) considerare opzionali i vincoli dello stato di diritto? Soprattutto: era inevitabile sacrificare alla «normalità» della democrazia maggioritaria lo svuotamento della democrazia costituzionale? Sono solo alcuni esempi di domande possibili e obbligate. Non s

Nel mezzo della luna di miele che la maggioranza degli italiani credeva di vivere con il nuovo governo, la vera natura del berlusconismo emerge prepotente, uguale a se stessa, dominata da uno stato personale di necessità e da un’emergenza privata che spazzano via in un pomeriggio ogni camuffamento istituzionale e ogni travestimento da uomo di Stato del Cavaliere. No. Berlusconi resta Berlusconi, pronto a deformare lo Stato di diritto per salvaguardia personale, a limitare la libertà di stampa per sfuggire alla pubblicazione di dialoghi telefonici imbarazzanti, a colpire il diritto dell’opinione pubblica a essere informata sulle grandi inchieste e sui reati commessi, pur di fermare le indagini della magistratura. La Repubblica vive un’altra grave umiliazione, con le leggi ad personam che ritornano, il governo del Paese ridotto a scudo privato del premier, la maggioranza parlamentare trasformata in avvocato difensore di un cittadino indagato che vuole sfuggire al suo legittimo giudice, deformando le norme.

In un solo giorno – dopo la strategia del sorriso, il dialogo, l’ambizione del Quirinale – Silvio Berlusconi ha chiamato a raccolta i suoi uomini per operare una doppia azione di sfondamento alla normalità democratica del nostro sistema costituzionale. Sotto attacco, la libertà di informazione da un lato, e l’obbligatorietà dell’azione penale dall’altro. Per la prima volta nella storia repubblicana, il governo e la sua maggioranza entrano nel campo dell’azione penale per stravolgerne le regole e stabilire una gerarchia tra i reati da perseguire. Uno stravolgimento formale delle norme sulla fissazione dei ruoli d’udienza, che tuttavia si traduce in un’alterazione sostanziale del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Principio istituito a garanzia dell’effettiva imparzialità dei magistrati e dell’uguaglianza dei cittadini. La nuova norma berlusconiana (presentata come un emendamento al decreto-sicurezza, firmato direttamente dai Presidenti della I e II commissione di Palazzo Madama) obbliga i giudici a dare «precedenza assoluta» ai procedimenti relativi ad alcuni reati, ma questa precedenza serve soprattutto a mascherare il vero obiettivo dell’intervento: la sospensione «immediata e per la durata di un anno» di tutti i processi penali relativi ai fatti commessi fino al 31 dicembre 2001 che si trovino «in uno stato compreso tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado».

È esattamente la situazione in cui si trova Silvio Berlusconi nel processo in corso davanti al Tribunale di Milano per corruzione in atti giudiziari: con l’accusa di aver spinto l’avvocato londinese Mills a dichiarare il falso sui fondi neri della galassia Fininvest all’estero. Quel processo è arrivato al passo finale, mancano due udienze alla sentenza. Si capisce la fretta, il conflitto d’interessi, l’urgenza privata, l’emergenza nazionale che ne deriva, la vergogna di una nuova legge ad personam. Bisogna ad ogni costo bloccare quei giudici, anche se operano "in nome del popolo italiano", anche se il caso non riguarda affatto la politica, anche se il discredito internazionale sarà massimo. Bisogna con ogni mezzo evitare quella sentenza, guadagnare un anno, per dar tempo all’avvocato Ghedini (difensore privato del Cavaliere e vero Guardasigilli-ombra del suo governo) di ripresentare quel lodo Schifani che rende il premier non punibile, e che la Consulta ha già giudicato incostituzionale, perché viola l’uguaglianza dei cittadini: un peccato mortale, in democrazia, qualcosa che un leader politico non dovrebbe nemmeno permettersi di pensare, e che invece in Italia verrà presentato in Parlamento per la seconda volta in pochi anni, a tutela della stessa persona, dalla stessa moderna destra che gli italiani hanno scelto per governare il Paese.

Con ogni evidenza, per l’uomo che guida il governo non è sufficiente vincere le elezioni, e nemmeno stravincerle: non gli basta avere una grande maggioranza alle Camere, parlamentari tutti scelti di persona e imposti agli elettori, una forte legittimazione popolare, mano libera nel dispiegare legittimamente la sua politica. No. Ancora una volta a Berlusconi serve qualcosa di illegittimo, che trasformi la politica in puro strumento di potere, il Parlamento in dotazione personale, le istituzioni in materia deformabile, come le leggi, come i poteri della magistratura. È una coazione a ripetere, rivelatrice di una cultura politica spaventata, di una leadership fuggiasca anche quando è sul trono, di un sentimento istituzionale che abita la Repubblica da estraneo, come se fosse un usurpatore, e non riesce a farsi Stato, vivendo il suo stesso trionfo come abusivo. Col risultato di vedere il Capo dell’esecutivo chiedere aiuto al potere legislativo per bloccare il giudiziario. Qualcosa a cui l’Occidente non è abituato, un abuso di potere che soltanto in Italia non scandalizza, e che soltanto l’establishment italiano può accettare banalizzandolo, per la nota e redditizia complicità dei dominati con l’ordine dominante, che è a fondamento di ogni autoritarismo popolare e di ogni democrazia demagogica, come ci avviamo purtroppo a diventare.

Questo uso esclusivo delle istituzioni e della norma, porta fatalmente il Premier ad un conflitto con il Capo dello Stato, garante della Costituzione. Napolitano era già intervenuto, nelle forme proprie del suo ruolo, contro il tentativo di introdurre la norma anti-prostitute nel decreto sicurezza, spiegando che non si vedeva una ragione d’urgenza. Poi aveva preso posizione per la stessa ragione contro l’ingresso nel decreto della norma che porta i soldati in strada a svolgere compiti di polizia. Oggi si trova di fronte un emendamento che addirittura sospende per un anno i processi penali e ordina ai magistrati come devono muoversi di fronte ai reati, una norma straordinaria inserita come "correzione" in un decreto che parla di tutt’altro. Che c’entra la sospensione dei processi con la sicurezza? Qual è il carattere di urgenza, davanti ai cittadini? L’unica urgenza – come l’unica sicurezza – è quella privatissima e inconfessabile del premier. Una stortura che diventa un abuso, e anche una sfida al Capo dello Stato, che non potrà accettarla. Come non può accettarla il Partito Democratico, che ieri con Veltroni ha accolto la proposta di Scalfari: il dialogo sulle riforme non può continuare davanti a questi "strappi" della destra, perché non si può parlare di regole con chi le calpesta.

Nello stesso momento, mentre blocca i magistrati e ferma il suo processo, Berlusconi interviene anche sulla libertà di cronaca. Il disegno di legge sulle intercettazioni presentato ieri dal governo, infatti, non impedisce solo la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, con pene fino a 3 anni (e sospensione dalla professione) per il cronista autore dell’articolo e fino a 400 mila euro per l’editore. Le nuove norme vietano all’articolo 2 la pubblicazione "anche parziale o per riassunto" degli atti delle indagini preliminari "anche se non sussiste più il segreto", fino all’inizio del dibattimento. Questo significa il silenzio su qualsiasi notizia di inchiesta giudiziaria, arresto, interrogatorio, dichiarazione di parte offesa, argomenti delle difese, conclusioni delle indagini preliminari, richiesta di rinvio a giudizio. Tutto l’iter investigativo e istruttorio che precede l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare è ora coperto dal silenzio, anche se è un iter che nella lentezza giudiziaria italiana può durare quattro-sei anni, in qualche caso dieci. In questo spazio muto e segreto, c’è ora l’obbligo (articolo 12) di "informare l’autorità ecclesiastica" quando l’indagato è un religioso cattolico, mentre se è un Vescovo si informerà direttamente il Cardinale Segretario di Stato del Vaticano, con un inedito privilegio per il Capo del governo di uno Stato straniero, e per i cittadini-sacerdoti, più cittadini degli altri.

Se il diritto di cronaca è mutilato, il diritto del cittadino a sapere e a conoscere è fortemente limitato. Con questa norma, non avremmo saputo niente dello spionaggio Telecom, del sequestro di Abu Omar, della scalata all’Antonveneta, della scalata Unipol alla Bnl, del default Parmalat, della vicenda Moggi, della subalternità di Saccà a Berlusconi, dei "pizzini" di Provenzano, della disinformazione organizzata da Pollari e Pompa, e infine degli orrori della clinica Santa Rita di Milano. Ma non c’è solo l’ossessione privata di Berlusconi contro i magistrati e i giornalisti (alcuni). C’è anche il tentativo scientifico di impedire la formazione di quel soggetto cruciale di ogni moderna democrazia che è la pubblica opinione, un’opinione consapevole proprio in quanto informata, e influente perché organizzata come attore cosciente della moderna agorà. No alla pubblica opinione (che non sappia, che non conosca) a favore di opinioni private, meglio se disorientate e spaventate, chiuse in orizzonti biografici e in paure separate, convinte che non esista più un’azione pubblica efficace, una risposta collettiva a problemi individuali.

A questo insieme di individui –di cui certo fanno parte anche gli sconfitti della globalizzazione, la nuova plebe della modernità – il populismo berlusconiano chiede solo una vibrazione di consenso, un’adesione a politiche simboliche, una partecipazione di stati d’animo, che si risolve nella delega. La cifra che lega il tutto è l’emergenza, intesa come orizzonte delle paure e fine del conformismo, del politicamente corretto, delle regole e degli equilibri istituzionali. Conta decidere (non importa come), agire (non conta con che efficacia), trasformare l’eccezione in norma. Il governo, a ben guardare, non sta militarizzando le strade o le discariche, ma le sue decisioni e la sua politica. Meglio, sta militarizzando il senso comune degli italiani, forzandolo in un contesto emergenziale continuo, con l’esecutivo trasformato per conseguenza da organo ordinario in straordinario, che opera in uno stato d’eccezione perenne. Così Silvio Berlusconi può permettersi di venire allo scoperto in serata, scrivendo in una lettera a Schifani che la norma blocca-processi «è a favore di tutta la collettività», anche se si applica «a uno tra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me per fini di lotta politica». È il preannuncio di una ricusazione, in una giornata come questa, vergognosa per la democrazia, con il premier imputato che rifiuta il suo giudice mentre ne blocca l’azione. A dimostrazione che Berlusconi è pronto a tutto. Dovremmo prepararci al peggio: se non fosse che il peggio, probabilmente, lo stiamo già vivendo.

Qui gli articoli di D'Avanzo e di Scalfari. E, per ricordare come è fatto il lupo, c'è una vecchia cartella a lui dedicata

ROMA - «Esiste il rischio che si arrivi alla dittatura della maggioranza. O meglio alla dittatura dei leader, del Re Sole e del Re Ombra». Arturo Parisi non riesce ad attenuare i toni. Soprattutto non fa niente per allontanare l´allarme già lanciato su Repubblica da Eugenio Scalfari e Giuseppe D´Avanzo. Per diradare la nebbia che avvolge i provvedimenti del governo Berlusconi. Che, a suo giudizio, gettano un´ombra sinistra sul prossimo futuro. Soprattutto se il Partito democratico non smetterà di «cercare solo il riconoscimento da parte della maggioranza».

Dalla casa bolognese, l´ex ministro della Difesa chiede al suo partito di impostare l´opposizione in tutt´altro modo. Nei giorni scorsi non aveva nascosto le critiche. Ora invoca una svolta. Per riconquistare la sua «autentica funzione». Prendendo atto dei pericoli che la democrazia italiana sta attraversando e spostando in una fase successiva il dialogo sulle riforme. «Sono d´accordo con Scalfari dalla prima all´ultima riga. Descrive una dinamica che tocca tutto il Paese e non solo la maggioranza. E che è partita dalla caccia indiscriminata al rumeno dopo l´omicidio Reggiani ed è arrivata alle ronde "democratiche" di cui sento parlare a Milano». Il tutto provocato da una «sindrome dell´emergenza» che viene alimentata di giorno in giorno. Una paura giustificata? Parisi si ferma, cerca di calibrare ogni parola. Ma ogni verbo diventa un fendente: «È alimenta da fattori esterni. La catena paura-emergenza-poteri straordinari produce altra paura e quindi la richiesta di altre misure straordinarie. La militarizzazione, in effetti, è una sintesi di quel che accade. Impiegare 2500 soldati non può provocare ripercussioni immediate ma lancia un messaggio. La gente pensa: "allora la situazione è davvero critica"». Nel lungo periodo, cioè, l´effetto può essere la restrizione delle libertà? Il silenzio stavolta dura diversi secondi, poi Parisi sospira: «Il rischio, appunto, è che la richiesta di una restrizione delle libertà nasca dalla gente».

Un pericolo che fa paventare «un potenziale eversivo suscitato dalla paura e che mette capo all´accentramento dei poteri dell´esecutivo». Con un´aggravante: «Chi è preposto al governo è esposto a domande che vengono da settori e gruppi portatori di una cultura democratica inadeguata». Una frase che sembra avvalorare la tesi di chi parla di "deriva fascista". L´ex ministro, però, mette le mani avanti: «I termini vanno pesati». Non vuole fare analogie rispetto al Ventennio. Parla, però, di «corto circuito dei processi democratici». Che in questo caso penetra le sue radici nel rapporto che si è instaurato tra maggioranza e opposizione: «L´allarme più forte, come ricorda Scalfari, riguarda l´asservimento dei Parlamenti al volere della "Corona". Dobbiamo riconoscere che l´accentramento di poteri nel centrodestra sta giustificando anche l´accentramento dei poteri nel centrosinistra. All´esautoramento dei parlamentari da parte dei ministri del Re Sole corrisponde un esautoramento dei parlamentari da parte dei ministri-ombra del Re Ombra. Entrambi sono coinvolti nella stessa dinamica paura-emergenza-risposta emergenziale».

Il cuore del problema, dunque, per Parisi è rappresentato dal dialogo tra Veltroni e Berlusconi. In particolare il tentativo del segretario di Piazza Santa Anastasia di farsi riconoscere «come titolare esclusivo del ruolo di oppositore». Una strada che offre al Pd una «rendita di posizione, ma certo non aumenta le probabilità di rappresentare un´alternativa agli occhi degli elettori. C´è l´illusione che la forza dell´opposizione venga dal riconoscimento da parte della maggioranza». Si confonde «alternanza con alternativa» senza far salire le chance di vincere le elezioni al prossimo turno. E invece «Walter dovrebbe farsi riconoscere dagli elettori prima che da Berlusconi. Il confronto sulle riforme dovrebbe svolgersi solo dopo che il Pd si è assicurato il riconoscimento degli elettori. E questo fino ad ora non mi sembra avvenuto». Anzi, ammonisce Parisi alzando per un momento il tono della voce, le conseguenze saranno inevitabili: «una democrazia bloccata», proprio come avveniva nella Prima Repubblica con il pentapartito e il Pci. «Se la maggioranza è debordante e l´opposizione è inadeguata - avverte - è evidente che la democrazia, come noi la conosciamo, è a rischio. C´è una degenerazione. Se non una dittatura della maggioranza, una distorsione profonda. Se non fosse per la presenza della Lega da una parte e dell´Idv e dell´Udc dall´altra, bisognerebbe assumere che la trama tra il Sole e l´Ombra ha messo in moto una dinamica preoccupante». «Per questo - chiude Parisi - condivido dalla prima all´ultima riga quello che ha scritto Eugenio Scalfari».

Postilla

Veramente Scalfari non aveva paragonato Berlusconi al Re Sole, ma alla "parrucca del Re Sole". E poi, concludendo l'analogia, ha scritto: "Il Re Sole. Ma qui il sole non c’è. C’è fanghiglia, cupidigia, avventatezza, viltà morale". Essere l'Ombra non del Re Sole, ma di una realtà fatta di "fanghiglia, cupidigia, avventatezza, viltà morale" è davvero un po' avvilente...

«Berlusconi vuole dimostrare che per governare la crisi italiana è costretto per necessità a separare lo Stato dal diritto. Come se il Paese attraversasse una terra di nessuno. Il soldato come questurino, il giudice come chierico, il giornalista come laudatore: sono le tre figure di una scena politica che minaccia di trasformare il senso della nostra forma costituzionale. Sono i fantasmi di un tempo sospeso dove il governo avrà più potere e il cittadino meno diritti, meno sicurezza, meno garanzie». Così ha scritto ieri Giuseppe D’Avanzo su questo giornale [qui in eddyburg].

Purtroppo questo suo giudizio fotografa esattamente la realtà. Non sarà fascismo, ma certamente è un allarmante "incipit" verso una dittatura che si fa strada in tutti i settori sensibili della vita democratica, complici la debolezza dei contropoteri, la passività dell’opinione pubblica e la sonnolenta fragilità delle opposizioni.

Questa sempre più evidente deriva democratica, che si è profilata fin dai primi giorni della nuova legislatura ed è ormai completamente dispiegata davanti ai nostri occhi, ha trovato finora il solo argine del capo dello Stato. Giorgio Napolitano sta impersonando al meglio il suo ruolo di custode della Costituzione. L’ha fatto con saggezza e fermezza, dando il suo consenso alle iniziative del governo quando sono state dettate da necessità reali come nella crisi dei rifiuti a Napoli, ma lo ha negato nei casi in cui le emergenze erano fittizie e potevano insidiare la correttezza dei meccanismi costituzionali. Sarebbe tuttavia sbagliato addossare al presidente della Repubblica il peso esclusivo di arginare quella deriva: se la dialettica si riducesse soltanto al rapporto tra il Quirinale e Palazzo Chigi la partita non avrebbe più storia e si chiuderebbe in brevissimo tempo. Bisognerà dunque che altre forze e altri poteri entrino in campo.

Bisogna denunciare e fermare la militarizzazione della vita pubblica italiana della quale l’esempio più clamoroso si è avuto con i provvedimenti decisi dal Consiglio dei ministri di venerdì sulla sicurezza e sulle intercettazioni: due supposte emergenze gonfiate artificiosamente per distrarre l’attenzione dalle urgenze vere che angustiano gran parte delle famiglie italiane.

E’ la prima volta che l’Esercito viene impegnato con funzioni di pubblica sicurezza. Quando fu assassinato Falcone e poi, a breve distanza di tempo, Borsellino, contingenti militari furono inviati in Sicilia per presidiare edifici pubblici alleviando da quelle mansioni la Polizia e i Carabinieri affinché potessero dedicarsi interamente alla lotta contro una mafia scatenata.

Ma ora il ruolo che si vuole attribuire alle Forze Armate è del tutto diverso: pattugliamento delle città con compiti di pubblica sicurezza e quindi con poteri di repressione, arresto, contrasti a fuoco con la delinquenza.

Che senso ha un provvedimento di questo genere? Quale utilità ne può derivare alle azioni di contrasto contro la malavita? La Polizia conta ben oltre centomila effettivi, altrettanti ne conta l’Arma dei carabinieri e altrettanti ancora la Guardia di finanza. Affiancare a queste forze imponenti un contingente di 2.500 soldati è privo di qualunque utilità.

Se il governo si è indotto ad una mossa tanto inutile quanto clamorosa ciò è avvenuto appunto per il clamore che avrebbe suscitato. Tanto grave è l’insicurezza delle nostre città da render necessario il coinvolgimento dell’Esercito: questo è il messaggio lanciato dal governo. E insieme ad esso l’eccezionalità fatta regola: si adotta con una legge ordinaria una misura che presupporrebbe la dichiarazione di una sorta di stato d’assedio, di pericolo nazionale.

Un provvedimento analogo fu preso dal governo Badoglio nei tre giorni successivi al 25 luglio del ‘43 e un’altra volta nel ‘47 subito dopo l’attentato a Togliatti. Da allora non era più avvenuto nulla di simile: la Pubblica sicurezza nelle strade, le Forze Armate nelle caserme, questa è la normalità democratica che si vuole modificare con intenti assai più vasti d’un semplice quanto inutile supporto alla Pubblica sicurezza.

* * *

Il disegno di legge sulle intercettazioni parte dalla ragionevole intenzione di tutelare con maggiore efficacia la privatezza delle persone senza però diminuire la capacità investigativa della magistratura inquirente.

Analoghe intenzioni avevano ispirato il ministro della Giustizia Flick e dopo di lui il ministro Clemente Mastella, senza però che quei provvedimenti riuscissero a diventare leggi per la fine anticipata delle rispettive legislature.

Adesso presumibilmente ci si riuscirà ma anche in questo caso, come per la sicurezza, il senso politico è un altro rispetto alla «ragionevole intenzione» cui abbiamo prima accennato. Il senso politico, anche qui, è un’altra militarizzazione, delle Procure e dei giornalisti.

Le Procure. Anzitutto un elenco dei reati perseguibili con intercettazioni. Solo quelli, non altri. E’ già stato scritto che lo scandalo di Calciopoli non sarebbe mai venuto a galla senza le intercettazioni. Così pure le scalate bancarie dei "furbetti". Ma moltissimi altri. Per chiudere sul peggiore di tutti: la clinica milanese di Santa Rita, giustamente ribattezzata la clinica degli orrori.

Le intercettazioni poi non possono durare più di tre mesi. Non c’è scritto se rinnovabili e dunque se ne deduce che rinnovabili non saranno. Cosa Nostra, tanto per fare un esempio, è stata intercettata per anni e forse lo è ancora. Tre mesi passano in un "fiat", lo sappiamo tutti.

I giornalisti e i giornali. C’è divieto assoluto alla pubblicazione di notizie fin all’inizio del dibattimento. Il deposito degli atti in cancelleria non attenua il divieto. Perché? Se le parti in causa o alcune di esse vogliono pubblicizzare gli atti in loro possesso ne sono impedite. Perché? Non si invochi la presunzione di innocenza poiché se questa fosse la motivazione del divieto bisognerebbe aspettare la sentenza definitiva della Cassazione. Dunque il motivo della secretazione è un altro, ma quale?

In realtà il divieto non è soltanto contro giornali e giornalisti ma contro il formarsi della pubblica opinione, cioè contro un elemento basilare della democrazia. Il caso del Santa Rita ha acceso un dibattito sull’organizzazione della Sanità, sul ruolo delle cliniche convenzionate rispetto al Servizio sanitario nazionale. Dibattito di grande rilievo che potrebbe aver luogo soltanto all’inizio del dibattimento e cioè con il rinvio a giudizio degli imputati. L’eventuale archiviazione dell’istruttoria resterebbe ignota e così mancherebbe ogni controllo di opinione sul motivo dell’archiviazione e su una possibile critica della medesima. Così pure su possibili differenze di opinione tra i magistrati inquirenti e l’ufficio del Procuratore capo, sulle avocazioni della Procura generale, su mutamenti dei sostituti assegnatari dell’inchiesta. Su tutti questi passaggi fondamentali la pubblica opinione non potrebbe dire nulla perché sarebbe tenuta all’oscuro di tutto.

Sarà bene ricordare che il maxi-processo contro "Cosa Nostra" fu confermato in Cassazione perché fu cambiato il criterio di assegnazione dei processi su iniziativa del ministro della Giustizia dell’epoca, Claudio Martelli, allertato dalla pressione dei giornali in allarme per le pronunce reiterate dell’allora presidente di sezione, Carnevale. Tutte queste vicende avvennero sotto il costante controllo della stampa e della pubblica opinione allertata fin dalla fase inquirente. Falcone e Borsellino non erano giudici giudicanti ma magistrati inquirenti. Mi domando se avrebbero potuto operare con l’efficacia con cui operarono senza il sostegno di una pubblica opinione esaurientemente informata.

Le gravi penalità previste da questa legge nei confronti degli editori costituiscono un gravame del quale si dovrebbero attentamente valutare gli effetti sulla libertà di stampa. Esso infatti conferisce all’editore un potere enorme sul direttore del giornale: in vista di sanzioni così gravose l’editore chiederà a giusto titolo di essere preventivamente informato delle decisioni che il direttore prenderà in ordine ai processi. Di fatto si tratta di una vera e propria confisca dei poteri del direttore perché la responsabilità si sposta in testa al proprietario del giornale.

Si militarizza dunque il giudice, il giornalista ed anche la pubblica opinione.

* * *

Ha ragione il collega D’Avanzo nel dire che questi provvedimenti stravolgono la Costituzione. Identificano di fatto lo Stato con il governo e il governo con il "premier". Se poi si aggiunge ad essi il famigerato lodo Schifani, cioè il congelamento di tutti i processi nei confronti delle alte cariche dello Stato, l’identificazione diventa totale.

Qui il nostro discorso arriva ad un punto particolarmente delicato e cioè al tema dell’opposizione parlamentare.

Parlo di tutte le opposizioni politiche. Ma in particolare parlo del Partito democratico.

Negli ultimi giorni il Pd e Veltroni quale leader di quel partito hanno assunto su alcune questioni di merito atteggiamenti di energica critica nei confronti del governo. La luna di miele di Berlusconi è ancora in pieno corso con l’opinione pubblica e con la maggior parte dei giornali ma è già svanita in larga misura con il Partito democratico. Salvo un punto fondamentale, più volte ribadito da Veltroni: il dialogo deve invece continuare sulle riforme istituzionali e costituzionali.

E’ evidente che questa "riserva di dialogo" condiziona inevitabilmente il tono complessivo dell’opposizione. Le riforme istituzionali e costituzionali sono di tale importanza da trasformare in "minimalia" i contrasti di merito su singoli provvedimenti. Tanto più che Tremonti chiede all’opposizione di procedere «sottobraccio» per quanto attiene alla strategia economica; ecco dunque un’ulteriore "riserva di dialogo". Sembrerebbe, questa, una novità a tutto vantaggio dell’opposizione ma non è così. La politica economica italiana dovrà svolgersi nei prossimi anni sotto l’occhio vigile delle Autorità europee. Che ci piaccia o no, noi siamo di fatto commissariati da Bruxelles.

Tremonti dovrà assumere responsabilità impopolari. Necessarie, ma impopolari e vuole condividere con l’opposizione quell’impopolarità.

Intanto, nel merito delle riforme, Berlusconi procede come si è detto e visto, alla militarizzazione del sistema. "L’Etat c’est moi" diceva il Re Sole e continuarono a dire i suoi successori fin quando scoppiò la rivoluzione dell’Ottantanove.

Voglio qui ricordare che uno dei modi, anzi il più rilevante, con il quale l’identificazione dello Stato con la persona fisica del Re si realizzò fu l’asservimento dei Parlamenti al volere della Corona. Gli editti del Re per entrare in vigore avevano bisogno della registrazione dei Parlamenti e soprattutto di quello di Parigi. Questa era all’epoca la sola separazione di poteri concepita e concepibile. Ma il re aveva uno strumento a sua disposizione: poteva ordinare ai Parlamenti la registrazione dell’editto. Di fronte all’ordine scritto del Sovrano il Parlamento registrava "con riserva" e l’editto entrava in funzione. Di solito quest’ordine veniva dato molto di rado ma col Re Sole e con i suoi successori diventò abituale. Quando i Parlamenti si ribellarono ostinandosi a non obbedire il Re li sciolse. Il corpo del Re prevalse sulla labile democrazia del Gran Secolo.

Il Re Sole. Ma qui il sole non c’è. C’è fanghiglia, cupidigia, avventatezza, viltà morale. Corteggiamento dell’opposizione. Montaggio di paure e di pulsioni. Picconamento quotidiano della Costituzione.

Quale dialogo si può fare nel momento in cui viene militarizzato il Paese nei settori più sensibili della democrazia? Il Partito democratico ha un solo strumento per impedire questa deriva: decidere che non c’è più possibilità di dialogo sulle riforme per mancanza dell’oggetto. Se lo Stato viene smantellato giorno per giorno e identificato con il corpo del Re, su che cosa deve dialogare il Pd? E’ qui ed ora che il dialogo va fatto, la militarizzazione va bloccata. Le urgenze e le emergenze vanno trasferite sui problemi della società e dell’economia.

«In questo nuovo buon clima si può fare molto e molto bene» declama la Confindustria di Emma Marcegaglia. Qual è il buon clima, gentile Emma? Quello dei pattuglioni dei granatieri che arrestano gli scippatori e possono sparare sullo zingaro di turno? Quello dell’editore promosso a direttore responsabile? Quello del magistrato isolato da ogni realtà sociale e privato di «libero giudizio»? Quello dei contratti di lavoro individuali? E’ questo il buon clima?

Ricordo che quando furono pubblicati "on line" gli elenchi dei contribuenti ne nacque un putiferio. Il direttore dell’Agenzia delle Entrate, autore di tanto misfatto, fu incriminato e si dimise. Ma ora il ministro Brunetta pubblica i contratti di tutti i dirigenti pubblici e le retribuzioni di tutti i consulenti e viene intensamente applaudito e incoraggiato. Anch’io lo applaudo e lo incoraggio come ho applaudito allora Visco e Romano. Ma perché invece due pesi e due misure? La risposta è semplice: per i pubblici impiegati si può.

E’ questo il buon clima? Attenti al risveglio, può essere durissimo. Può essere il risveglio d’un paese senza democrazia. Dominato dall’antipolitica. Dall’anti-Europa. Dall’anarchia degli indifferenti e dalla dittatura dei furboni.

Io trovo che sia un pessimo clima.

La Stampa

Le false favole europee

di Barbara Spineli

Quasi tutte le parole che descrivono la bancarotta del referendum irlandese sull'Europa suonano false e fanno pensare a quel che Macbeth dice del mondo, quando viene a sapere che la sposa è morta: come la vita, anche le parole sono «una favola narrata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla».

Non significa nulla lamentare con enfasi la democrazia assente nell'Europa, la sua lontananza dai popoli, perché l'Unione non è uno Stato pienamente funzionante, con cui i popoli sono in vero rapporto dialettico. È un edificio ancora da fabbricare o comunque completare, anche se le nostre società sono già europeizzate e le leggi nazionali soggiacciono in larga misura a quelle comunitarie. Il Trattato di Lisbona non è d'impedimento alla democrazia e anzi l'accentua notevolmente, coinvolgendo più che in passato il parlamento europeo e anche i parlamenti nazionali. Gli avversari odierni del trattato, come quelli che osteggiarono la costituzione nel 2005, lo sanno alla perfezione ed è contro questi miglioramenti che si battono. Si battono contro l'accresciuto potere di decisione affidato al parlamento europeo in 40 nuove politiche, e perfino contro la maggiore influenza dei deputati nazionali. Lottano contro la votazione diretta dei futuri presidenti della Commissione: pur proponendoli, gli Stati devono, secondo il trattato, tener conto degli equilibri creatisi nelle elezioni europee.

E’ una favola che non significa nulla dire che l'Europa viene regolarmente bocciata perché non ha peso su questioni cittadine vitali. Il trattato di Lisbona è colmo di difetti (ha cancellato la parola costituzione e i simboli di un soggetto politico nuovo) ma i progressi non sono trascurabili: il trattato unifica le politiche di sicurezza, immigrazione, terrorismo. In questi come in altri ambiti sostituisce all'unanimità il voto a maggioranza, il che vuol semplicemente dire che comuni politiche europee divengono realizzabili, come già accade nell'agricoltura, nel commercio, nella moneta. I propagandisti del No mentono sapendolo: denunciano un'Europa assente su immigrati o sicurezza, e uccidono la possibile sua presenza. Questo vuol dire che non vogliono affatto quello che pretendono. Vogliono preservare un potere, anche se ormai irrilevante. Come gli uomini impagliati di Eliot, hanno le mascelle spezzate di regni perduti: regni che si spengono «non già con uno schianto ma con un lamento».

È una favola che non significa nulla ripetere, come automi addestrati, che l'Europa è incapace di comunicazione. Della comunicazione sono responsabili i comunicatori, i destinatari della comunicazione, e chi è in mezzo: i media. I referendum falliti segnalano che la catena non ha funzionato, che nelle mani del popolo è stato messo quel che politici e media non sanno maneggiare. Il giorno prima del voto irlandese, Rai 1 neppure nominava un referendum che riguardava 490 milioni di europei. Il giorno dopo era perentoriamente sapiente su quel che aveva ignorato. Molto spesso i plebisciti danno risposte a domande che nel quesito referendario neppure son formulate: è il motivo per cui democrazie memori di referendum liberticidi, come la Germania, li vietano.

Non meno insignificante è la favola sull'identità europea inesistente: narrata da chi, dell'Unione, non scorge il nuovo, inedito incrociarsi tra locale, nazionale, soprannazionale. Tra costoro Marcello Pera: interrogato da Giacomo Galeazzi su La Stampa, piange l'Europa atea «giustamente punita». L'Europa è fatta di molte identità, lo dimostra proprio il referendum. In Irlanda hanno votato contro cattolici spaventati da aborto e eutanasia, ma anche anticapitalisti non religiosi. L'Europa sarà sempre più meticcia: l'intera sua storia è un Bildungsroman, un romanzo di formazione che ci educa al coesistere di più appartenenze (etniche, culturali, religiose). Obama somiglia a tale romanzo più di quanto gli somigli Pera.

È insignificante poi la favola che indica colpe e difetti delle istituzioni soprannazionali di Bruxelles. Nel trionfo dei No non c'è un responsabile ma ce ne sono tanti, e Bruxelles è il meno colpevole. Responsabili sono Stati, partner europei e atlantici, classi dirigenti, elettori. Questi ultimi non vanno vituperati ma giudicarli non è blasfemo.

Non significa nulla infine parlare di rottura e chiusura di un'epoca eroica. L'epoca eroica dell'Unione non è conclusa, i compiti oggi non sono meno grandi di quelli del dopoguerra. Ieri era questione di pace e guerra, dopo due smisurati conflitti. Oggi è questione del peso di questo continente nel mondo, della penuria planetaria di cibo ed energia, della catastrofe climatica, del conflitto fra culture. Ancora non è stata escogitata sul pianeta una costruzione politica capace di superare le inadeguatezze dei vecchi piccoli Stati-nazione, e l'invenzione dell'Europa resta un unicum esemplare.

Non è dunque l'Europa federale che naufraga periodicamente ma l'Europa dei falsi Stati sovrani: a Parigi, L’Aja, Dublino. Rischia il naufragio anche a Roma, dove un cruciale partito governativo, la Lega, imita il No irlandese (anche se i partiti principali a Dublino erano per la ratifica). La divisione sull'Europa è ben più grave dei contrasti su Afghanistan e Usa nel governo Prodi, non fosse altro perché la disapprovazione di Bush è diffusa in America e nel mondo: l'elogio del «clima più costruttivo» fatto dal Quirinale suona come una critica gratuita a Prodi. I giornali che hanno dilatato per due anni tali contrasti hanno appena accennato all'offensiva leghista contro l'Europa.

Una cosa poco promettente è che gli europei sembrano non imparare dalle crisi, nonostante quel che si dice su disastri e colpe felici. I disastri sono istruttivi solo per uomini con forte senso del futuro, del bene comune. Jean Monnet ad esempio diceva che «le crisi sono grandi opportunità»: di rompere col passato, di tentare il nuovo («Nulla è pericoloso come la vittoria», ripeteva). Alla Francia il referendum non ha insegnato molto. Pochi giorni prima del referendum, il ministro degli Esteri Kouchner ha vilipeso, sprezzante, gli irlandesi. Ha facilitato il No: per incompetenza, ignoranza, megalomania francese, come quando Chirac insultò gli europei orientali nel 2003. Comunicare bene e astutamente vuol dire parlar chiaro, ma non a vanvera.

In realtà non siamo di fronte a una storia eroica che finisce ma a una grande illusione che continua. L'illusione che gli Stati-nazione possano farcela da soli, in un mondo dove ciascuno dipende dal vicino e dal lontano. L'illusione che sia sovranità autentica, quella che Stati promettono di custodire. Tale sovranità non esiste, l'Irlanda lo conferma. Il militante più potente dei No è un ricchissimo industriale, Declan Ganley, che s'è preparato dal 2007 fondando l'associazione Libertas. Libertas riceve finanziamenti ingenti da neo-conservatori Usa e dal Foreign Policy Research Institute di cui Ganley - presidente di una ditta Usa specializzata in contratti bellici privati - è membro da anni: lo ha ricordato venerdì in un convegno parigino l'europeista liberal-democratico inglese Andrew Duff. Così come la natura, anche l'Unione ha orrore del vuoto. Quando non siamo noi a farla, è fatta da altri: in particolare, da chi teme l'Europa-potenza e vuol estrometterla.

Eppure di tutte queste parole false sono tanti a bearsi, compiacendosi del nulla. Chi resiste come Giorgio Napolitano o la Commissione o Sarkozy e la Merkel dice che un'avanguardia deve insistere, e pragmaticamente proseguire le ratifiche. Saggio consiglio, ma tutt'altro che pragmatico. Qui urge ancora un po' d'eroismo. I più determinati oggi non sono gli eroi ma i rinunciatari, i pavidi, gli uomini impagliati di Eliot: «La sanguigna marea s'innalza e ovunque / annega la cerimonia dell'innocenza; / i migliori mancano d'ogni convincimento, / mentre i peggiori son colmi d'appassionata intensità».

il manifesto

La sordità di chi vuol «tirare dritto»

di Luciana Castellina

«Tireremo dritto». Questa, esattamente come tre anni fa - quando a bocciare la Costituzione furono francesi e olandesi - la risposta che i leaders di tutta Europa (italiani inclusi) hanno dato al nuovo «no» degli irlandesi. Che si sono pronunciati così nonostante sia stato loro sottoposto un testo meno ambizioso, frettolosamente arrangiato a Lisbona, nella speranza di far creder agli scettici che si trattasse di una minestra diversa da quella rifiutata.

Andranno dunque avanti come stabilito, insensibili al non trascurabile particolare che la ratifica del Trattato è sì stata approvata da 18 stati membri, ma sempre e solo dai rispettivi parlamenti e generalmente senza che i cittadini ne sapessero poco più che niente, mentre questa Unione Europea non passa l'esame proprio ogni volta che a votare è direttamente il popolo via referendum.

Come tre anni fa, anche questa volta, i renitenti sono stati accusati di tradimento e di ignoranza: come non capire l'afflato ideale di quei 418 articoli fitti di indicazioni sulla circolazione di merci servizi e capitali?

Per gli irlandesi, poi, c'è un'aggravante: sono anche ingrati. Hanno mangiato a ufo tutti questi anni, ottenendo più vantaggi da Bruxelles di chiunque altro, tanto da balzare da un reddito procapite inferiore alla media europea addirittura al secondo posto: e non si sono contentati.

Non basta, evidentemente. Ed è singolare che non si consideri proprio questo dato un aggravante: che se l'Unione non piace nemmeno a chi ne ha più beneficiato, vuol dire che il disamore deve essere davvero profondo. Vuol dire che un'Europa sempre più allineata alla globalizzazione, priva di una propria specifica ragion d'essere, a rimorchio degli Stati Uniti su guerre e ideologia, non è roba che fa sentire europei.

Agli irlandesi che hanno il beneficio di esser ancora neutrali, costa oltretutto anche più cara: li trascina nella costruzione di eserciti europei della cui autonomia politica dalla Nato c'è di cui dubitare.

Di particolarmente europeo rischia oggi di esserci piuttosto un tratto peggiorativo: la progressiva erosione della democrazia che stiamo vivendo e che costituisce, non a caso, uno dei principali motivi di diffidenza dei cittadini verso le istituzioni europee, dove del resto ormai esplicitamente si teorizza la necessità di passare a una democrazia (persino) post-parlamentare, perchè i problemi posti dalla globalizzazione sarebbero oramai tanto complessi da esigere una crescente dose di delega ai gestori amministrativi.

Del resto a leggere i commenti al voto irlandese risulta davvero imbarazzante l'assenza di ogni riflessione sul distacco che ormai si registra fra pronunciamenti dei parlamenti e pronunciamenti diretti, via referendum, dei cittadini.

La prima e più urgente cosa che occorre dire, e anzi, ripetere, è che si deve adesso andare a una vera fase costituente europea, non a un nuovo esercizio di ingegneria istituzionale, pratica in cui l'Unione eccelle. Per riproporsi l'interrogativo di fondo: a che serve un'Europa clone del mercato globale, che non riesce a rappresentare una qualche specifica diversità, in grado di reinverare quanto di meglio c'è nella nostra tradizione democratica e sociale? Anzichè tirare dritto, meglio una pausa di riflessione. Anche per la sinistra che, o è stata piattamente e acriticamente europeista, o , pur essendo critica, si è scordata di considerare seriamente il p

Berlusconi è intenzionato a dimostrare che – per governare la crisi italiana, come vuole che noi l’immaginiamo – è costretto per necessità a separare lo Stato dal diritto, la decisione dalla legge, l’ordine giuridico dalla vita. Come se il Paese attraversasse una terra di nessuno.

Così critica, oscura e sinistra da rendere urgente e senza alternative un potere di regolamentazione così esteso da modificare e abrogare con decreti le leggi in vigore. Con il «decreto sicurezza» (alla voce immigrati) e con il «decreto Napoli», è stato chiaro che Berlusconi intende muoversi in uno «stato di eccezione». Ha deciso di esercitare il suo potere secondo un tecnica che gli impone di creare – volontariamente e in modo artefatto – una necessità dopo l’altra, giorno dopo giorno, quale che siano le priorità più autentiche e dolorose del Paese. Nonostante quel che si può pensare, infatti, la necessità non è una situazione oggettiva, implica soltanto un giudizio o una valutazione personale. In fondo, sono straordinarie e urgenti soltanto le circostanze definite tali: quel che, come tali, definisce il Cavaliere.

Il quinto consiglio dei Ministri del Berlusconi IV ha dichiarato l’assoluta necessità di ridimensionare l’azione dei giudici; di limitare il diritto di cronaca; di declinare le ragioni dello Stato con l’esibizione, la forza, le armi dell’Esercito. E’ finora il caso più emblematico ed esplicito di quel che abbiamo definito la «militarizzazione della politica». Non è mai avvenuto in Italia che i soldati fossero chiamati a far fronte all’ordine pubblico o al controllo delle città. Nemmeno nei terribili mesi che seguirono alla morte di Falcone e Borsellino, all’aperta sfida lanciata contro lo Stato dalla Cosa Nostra di Totò Riina. In quell’occasione, l’Esercito si limitò a proteggere, con "posti fissi", gli edifici pubblici e i luoghi "sensibili" liberando dall’impegno non investigativo le forze di polizia. La decisione del governo di «parificare» 2.500 soldati «agli agenti di pubblica sicurezza» con «compiti di pattugliamento e perlustrazione» delle città inaugura una nuova, inedita stagione. Evocando ragioni (necessità) di «ordine pubblico» e «sicurezza» avvicina, sovrappone il diritto alla violenza. Assegnata all’Esercito, altera il suo segno la funzione amministrativa della polizia, chiamata a rendere esecutivo il diritto. Quella funzione e presenza si fa intimidazione. Non solo per chi trasgredisce, ma per tutti coloro che non credono «democratico» che il governo sostenga le sue decisioni con la violenza. Nello slittamento del legittimo esercizio del potere verso un arbitrario diritto della forza, come non avvertire il rischio che chiunque dissenta sia considerato un "criminale" perché avversario di una «decisione assoluta» che sola può assicurare la «governabilità» e l’uscita dalla crisi? Non è questa l’idea politica, il paradigma di governo, addirittura il fondo sublogico che consiglia a Berlusconi di intervenire anche contro la magistratura limitando l’uso delle intercettazioni o contro l’informazione, promettendo il carcere a chi pubblica il testo o il riassunto di "un ascolto"?

Magistratura e informazione, i due ordini che, in un’equilibrata architettura di checks and balances, sono le istituzioni di controllo dei poteri, diventano in questo quadro i pericolosi agenti attivi e degenerati del declino da affrontare. «Nemici», perché impediscono al sovrano di governare, perché sorvegliano le sue decisioni e quella vigilanza è un ostacolo che crea uno status necessitatis, l’urgenza di un provvedimento legislativo che Berlusconi avrebbe voluto con immediata forza di legge. E’ stato costretto a una marcia indietro dal capo dello Stato e, dalla Lega, a una correzione che autorizza le intercettazioni anche per i reati contro la pubblica amministrazione. Ma il disegno di legge, se non sarà corretto in Parlamento, dissemina l’iter investigativo e la sua efficacia di intralci, intoppi, legacci, esclusioni, vuoti, bizzarri obblighi (se l’indagato è un vescovo bisognerà avvertire il segretario di Stato vaticano, cioè il ministro di un altro Stato). Sono ostacoli che salvaguardano le pratiche più spregiudicate dei colletti bianchi, rendono più fragile la sicurezza dei più deboli, senza proteggere davvero alcuna privacy. I corifei del sovrano diffondono numeri farlocchi sul passato, mai spiegano perché non chiudono le falle nella rete dei gestori di telefonia, venute alle luce con l’affare Telecom. Né svelano all’opinione pubblica come e se daranno mai conto dell’uso delle «intercettazioni preventive» che oggi, al di fuori del processo penale e di ogni tipo di controllo giurisdizionale, possono essere effettuate dalle polizie e, dal 2005, anche dai servizi segreti su delega del presidente del Consiglio con l’autorizzazione del procuratore presso la Corte d’Appello.

Non è la privacy del cittadino che interessa a Berlusconi. Gli interessa soltanto la sua privacy e la sua immagine, l’annullamento di un paio di conversazioni con Agostino Saccà, l’oblio di altre in cui di lui si parla. Intende creare una sorta di «diritto positivo della crisi» che impone al giudice di che cosa occuparsi in ossequio alla funzionalità della decisione politica, presentata come necessaria e univoca. Vuole giornalisti silenziosi, intimiditi dalla minaccia del carcere. Vuole editori spaventati dalle possibili, gravi penitenze economiche.

Il soldato come questurino, il giudice come chierico, il giornalista come laudatore sono le tre figure di una scena politica che minaccia di trasformare radicalmente la struttura e il senso della nostra forma costituzionale. Sono i fantasmi di un tempo sospeso dove il governo avrà più potere e il cittadino meno diritti, meno sicurezza, meno garanzie.

Solo la bellezza può riscattare le città

Al centro dell'affresco del Buongoverno, nel Palazzo dei Priori di Siena, Ambrogio Lorenzetti (1285-1348) aveva dipinto una scuola mentre come «cuore della città reale» aveva immaginato, proprio davanti al Duomo, l'immenso Ospedale della Scala. Una ragione per quella scuola e quell'ospedale sparati così in primo piano c'è. Perché quella rappresentata da Ambrogio Lorenzetti non vuole essere soltanto una realtà estetica ma anche sociale: fin dai primi secoli dell'Anno Mille, tutti i cittadini della civitas avevano avuto, accanto ai loro doveri alla partecipazione attiva e alla sua difesa, alcuni diritti inviolabili come l'accesso all'istruzione elementare con tanto di maestro (la scuola) e all'assistenza sanitaria con tanto di medico (l'ospedale).

Strade, piazze, portici, ponti come simbolo delle nostre libertà e dei nostri diritti. Una città «bella » analizzata non soltanto come un'opera d'arte ma anche come «ambiente ecologico per la sua democrazia, dove i suoi cittadini si possono sentirsi intimamente tali ». Sono alcuni dei tasselli del mosaico messo insieme da Marco Romano nel suo nuovo libro ( La città come opera d'arte, Einaudi, pp. 120): «L'idea di bellezza proposta ad esempio dal Rinascimento — spiega Romano che è stato docente di Estetica delle città a Venezia, Palermo, Genova, Milano nonché autore sempre per Einaudi di una Estetica della città europea — non voleva soddisfare solo l'esigenza dello spirito ma aveva anche l'ambizione di sfidare il tempo offrendo una prospettiva di eternità nella quale si potessero radicare le nostre speranze terrene». Per questo, quando si trattava di «estetica delle città» l'idea di eternità doveva superare necessariamente i confini della semplice forma per legarsi «alla trasformazione di ogni individuo in un effettivo elemento della civitas, in una persona socialmente riconosciuta».

L'invito è dunque quello di guardare l'evoluzione della città europea da mille anni a questa parte per pensare e progettare la città di oggi. Avvicinando Calatrava e Ammannati, la Biblioteca Malatestiana di Cesena e il Beaubourg, la locanda della Posta di Senigallia a l'«Unite d'habitation» di Le Corbusier ma allo stesso tempo allontanandosi da ogni nostalgia tradizionalista (alla Léon Krier per intenderci). In questa riscoperta del valore sociale della bellezza c'è, per Romano, la ricetta per superare l'attuale crisi delle nostre città. Come aveva, a suo tempo, fatto la Firenze mercantile aprendo i cantieri delle nuove mura arnolfiane e del Duomo quando era ancora in lotta contro le famiglie dell'oligarchia; come aveva fatto Siena «disegnando » Piazza del Campo quando ormai la sua potenza finanziaria e militare era avviata verso un irrimediabile declino; come avevano fatto, in tempi più recenti, i cittadini di Bilbao reagendo al loro tramonto industriale affidando a Frank 0. Gehry il progetto per la nuova «filiale » del Guggenheim.

Tommaso Moro nella sua Utopia voleva non soltanto che tutti gli abitanti avessero i medesimi compiti, il medesimo lavoro, i medesimi cibi, i medesimi vestiti ma anche che avessero «le medesime case a tre piani». Quest'idea di democratizzazione estetica dell'architettura può rivelarsi utile anche ai nostri giorni. Che vedono banlieu e periferie trasformati in luoghi di degrado «non perché lontane materialmente dal centro, ma perché i loro abitanti sono privi di qualsiasi riconoscimento di appartenenza, sono una galassia asserragliata in un ghetto dove si perde l'idea stessa di democrazia». Dunque risanare (anche esteticamente) quelle periferie vuol dire avviare il loro riscatto sociale. Non a caso, d'altra parte, Voltaire chiedeva nel Settecento un nuovo piano regolatore che restituisse a nuova vita i quartieri più bui di Parigi. E lo voleva addirittura scolpito nel marmo, esposto nell'atrio del palazzo municipale, trasformato in una testimonianza perenne del «glorioso» futuro delle città.

«Idea colta, ma anacronistica Servono scuole e biblioteche»

Le risposte di Stefano Boeri e Francesco Dal Co

Sergio Fajardo, sindaco di Medellin e probabile prossimo presidente della Colombia, in quattro anni ha letteralmente ribaltato la città. E lo ha fatto solo con l'architettura: scuole, biblioteche, funivie e altre «strutture » destinate alla collettività che (insieme all'aumento del numero dei poliziotti di quartiere) hanno di fatto dimezzato gli omicidi della seconda città della Colombia, tristemente famosa in quanto a lungo capitale mondiale del narcotraffico.

Per Stefano Boeri, direttore di «Abitare» e protagonista con Fajardo del simposio su «La dimensione politica dell'architettura» organizzato dalla Fondazione Targetti e dalla Fondazione «Corriere della Sera» svoltosi ieri a Firenze, il modello per migliorare la qualità di vita delle città è proprio quello indicato da Fajardo: «Non credo che abbellire la città serva necessariamente a renderla anche più vivibile — dice Boeri —. È una visione che definirei molto colta ma anche molto anacronistica, legata a una realtà imposta da pochi soggetti». Secondo Boeri, dunque, «l'idea della città come opera d'arte globale non aiuta a cancellare diseguaglianze che oltretutto non possono più essere localizzate soltanto nelle periferie ma in quelle che io chiamo le anti-città, vere e proprie zone franche nel centro di città come Bari, Genova e Napoli».

Sulla stessa linea anche Francesco Dal Co, professore di Storia dell'architettura all'Università di Venezia: «L'idea di ispirarsi a una bellezza antica per migliorare la qualità delle nostre città mi fa venire in mente i turisti che amano la Cupola del Brunelleschi senza però sapere che nel Quattrocento, all'ombra di quella bellissima cupola, la gente viveva al massimo trentadue anni. O a chi si entusiasma davanti alla Reggia di Katsura in Giappone senza rendersi conto che è impossibile viverci ». Per Dal Co, d'altra parte, «non tutte le architetture antiche che sono sopravvissute fino a noi sono necessariamente anche belle». Il suo modello? «La periferia di Berlino disegnata negli Anni Venti da Mies van der Rohe, una periferia certo bellissima e oggi assai ambita dall'élite degli intellettuali, ma dove quello che conta non è tanto la visione estetica quanto la misura del vivere, l'idea che ogni singolo spazio rispecchi fedelmente la tipologia delle persone che ci vivono, e questo non è certo soltanto una questione di bellezza».

C'era un insopportabile tanfo di Anni Cinquanta dieci giorni fa all'Urban Center, dove - convocato dall'assessore Masseroli al grido di battaglia boccionian-futurista "la città che sale" - sguazzava a proprio agio un codazzo di " professionisti acuti (che), tra i sorrisi ed i saluti, ironizzano i miei dubbi sulla vita" (della città). Col ritornello gucciniano mi frullavano per la testa le parole di Giuseppe De Finetti che nell'immediato dopoguerra si interrogava sul "perché le forze nuove della città si esprimono in modi così alieni, così sciocchi, così dannosi all'utile" e, ammonendo sul rischio di "lasciar prendere la mano ai praticoni od ai cosiddetti uomini d'azione, che credono di fare la civiltà d'oggi perché costruiscono case o producono beni industriali o commerciano le merci od il denaro e lo fanno sempre con furia gloriandosi della velocità della loro azione e del loro successo, ma sciupando la civiltà del domani, la ricchezza del domani", stigmatizzava "gli spiriti inquieti che tendono al nuovo per il nuovo, allo strano e al mirabolante" e "la frenesia di privatismo che si rivela nelle ricostruzioni senza piano regolatore" come "l'indizio più valido della decadenza dello spirito civico e, con ciò, della classe dirigente venturi aevi immemor" e invitava a ragionare per la città del 2000, decidendo sulle trasformazioni milanesi "dall'esterno e da lungi".

Un orizzonte decisamente troppo ampio e distante per chi, anche oggi, propone di abdicare al ruolo di indirizzo pubblico e collettivo sul "bene comune" che è la città, delegandolo alle opportunità di mercato di volta in volta ritenute aziendalmente attendibili e ad una conformazione progettuale e di immagine che in questa visione attiene più al carattere della riconoscibilità del marchio aziendale o del logo pubblicitario, assunto acriticamente da pubblici amministratori inclini (a destra e a sinistra) alla politica-spettacolo. Così a destra quelle stesse forze che strepitano contro il "tradimento" di Alitalia al ruolo produttivo indotto dalla Grande Malpensa, a livello milanese vogliono poi condizionare FS a reinvestire il miliardo di euro che si ricaverebbe dal riuso edificatorio degli scali ferroviari dimessi, sul Secondo Passante milanese per riconcentrare nel capoluogo metropolitano residenza di lusso e funzioni pregiate, anziché sulla Gronda regionale Novara-Malpensa-Bergamo e sul collegamento per Chiasso al progetto elvetico AlpTransit. Ma anche a sinistra non va meglio, se il sindaco comunista di Cinisello affida alla ciellina Progetto Fiera la valutazione economica delle proprie trasformazioni urbane "perché loro gli affari li sanno fare", se gli amministratori comunali di Sesto S.G. si affidano a un accondiscendente (e dimostrabilmente inattendibile) avallo economico di Guido Rossi per un ingiustificabile raddoppio degli indici edificatori all'ex Falck e se l'ex assessore di Pieve Emanuele giustifica la prosecuzione stabilita nella Finanziaria di Prodi dell'inciucio Bassanini/Tremonti nell'uso degli oneri urbanizzativi, perché altrimenti i Comuni non sanno come quadrare i bilanci sociali. Bertinotti, con bella suggestione metaforica, ha intitolato il suo ultimo libro, in cui espone "cinque riflessioni sul mondo che cambia", La città degli uomini. Anche inteso in senso più letterale, ciò esprime una pregnante attualità alternativa. Ma perché, allora, rifarsi all'esempio del populismo demagogico del primo Fanfani degli Anni Cinquanta, anziché alla ripresa dell'eredità storica delle conquiste riformiste e generaliste del centrosinistra degli Anni Sessanta/Settanta (Prg e standard pubblici di legge, 40-70% di edilizia popolare, ecc.), unico baluardo ancora oggi rimasto ai cittadini per opporsi alla deriva privatistico-liberista, via via prevalsa dagli Anni Settanta ad oggi?

Per decenni termini come «industria delle costruzioni», hanno contribuito a mascherare, evocando l'idea di progresso, un disastroso consumo di territorio. Costruire una casa, abbiamo imparato a nostre spese, non è come fabbricare una macchina: produrre un edificio è, di fatto, un'operazione irreversibile che va valutata come tale.

Le parole, a volte, servono a confondere il senso delle cose.

Oggi il termine «valorizzazione», ad esempio, associato ad aree ed edifici pubblici, sembra indicare un loro futuro recupero sociale: nuovi parchi e servizi per i cittadini. Ma si veda l'esito dei concorsi per la trasformazione di due vecchie rimesse Atac che invitava gli architetti a proporre, con un preoccupante neologismo, «nuovi mix funzionali». L'iniziativa è di per sé opportuna perché riguarda spazi che potrebbero costituire una risorsa per i quartieri: il primo nel nodo vitale di piazza Bainsizza, il secondo nel relitto urbano, a ridosso della soprelevata, tra la ferrovia e la Prenestina. Eppure uno dei progetti prevede, oltre ad alcuni servizi di quartiere, un serpentone di sette piani lungo via Monte Santo e un blocco di dieci su viale Angelico (16.000 mq tra abitazioni e servizi privati), l'altro tre fabbricati lungo via del Pigneto con enormi balconi che si protendono nel vuoto.

A parte la qualità dell'architettura, il vero problema, oggettivo e allarmante, sono le migliaia di nuovi metri cubi, in gran parte residenziali, che minacciano di riversarsi su aree della città già troppo dense. E mentre altre diciotto aree di proprietà Atac sono in attesa di trasformazione, la parola «valorizzazione» diviene incerta: qualche spazio pubblico scambiato con il permesso di costruire nuova edilizia privata.

Nei municipi è in corso un acceso dibattito sulle idee proposte dai due concorsi. Ma non sarebbe una buona idea interpretare il termine «valorizzazione» come semplice esecuzione del nuovissimo piano regolatore che qui prevede, saggiamente, servizi pubblici?

Titolo originale: After extensive consultation, we'll be doing as we please – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Le consultazioni sono state una delle principali caratteristiche degli anni di Blair-Brown. Si legano a Tony Blair, al suo “grande dialogo”, alla sua “grande tenda”. Ma i più sarcastici sostengono che avvengano solo perché poi il governo sia in grado di far precedere agli annunci politici più difficili le rassicuranti parole “Dopo ampie consultazioni …”

Ce ne sono al momento circa 500 l’anno, e l’anno scorso si è arrivati alla reductio ad absurdum quando è stato pubblicato il documento Effective Consultation, ovvero una consultazione sulle consultazioni. La risposta del pubblico rivela che la “fatica mentale della consultazione” è una cosa che si sta affermando, si teme che le domande poste siano troppo tecniche, semplicemente irrilevanti, e in generale che le risposte saranno comunque ignorate. Un aspetto ben descritto dall’umorista americano Ambrose Bierce nel suo Devil's Dictionary, che definisce il verbo “ consultare” come: “ chiedere l’approvazione altrui a qualcosa che si è già deciso”.

Il che ci porta a un caso di consultazione importante che si conclude questa settimana: quello sui progetti per una terza pista e l’ampliamento dell’aeroporto di Heathrow. Sia Gordon Brown che il suo ministro ai trasporti Ruth Kelly hanno reso molto chiaro il proprio entusiasmo a proposito. Parallelamente, in una serie di “ road-show” del ministero dei Trasporti è stato chiesto alla gente che abita vicino all’aeroporto cosa ne pensava. Beh, più o meno.

Il road-show dove sono stato si teneva in uno Holiday Inn nella zona occidentale di Londra. Fra carte di corridoi di volo e punti di rilevamento per il rumore degli aerei, c’erano delle bacheche contenenti i corposi documenti della consultazione, intitolati Adding Capacity at Heathrow. Sono rivolti a 250.000 persone che abitano vicino all’aeroporto, e che hanno risposto alle domande.

Entrando nella sala consultazione ho visto un uomo – un membro del pubblico in carne e ossa – che leggeva una delle domande, aggrottando la fronte. “Un momento” diceva. “Qui si chiede: Sino a che punto lei è d’accordo con la proposta che nel caso si costruisse una terza pista a Heathrow, essa dovrebbe accompagnarsi a nuove strutture di terminal passeggeri?”. Ha sollevato gli occhi mentre rifletteva concentrato. “Ma io non la voglio, la terza pista a Heathrow” ha concluso.

Sadicamente gli ho chiesto cosa ne pensava di un’altra delle domande: “ Sino a che punto lei è d’accordo, o no, sull’aggiunta di una terza pista entro i limiti di qualità dell’aria stabiliti dal documento guida, senza altri interventi?”. Gli ho indicato la parte del documento di consultazione che dovrebbe aiutarlo a rispondere a questa domanda, trovando immediatamente un passaggio caratteristico: “ Restano ad oggi alcune incertezze riguardo ai modelli sull’intensità delle emissioni di ossidi di azoto, che potrebbero essere superiori o inferiori a quanto previsto, ma l’andamento delle concentrazioni di azoto non dovrebbe divergere in modo significativo”. L’uomo ha di nuovo sollevatolo sguardo. “Aspetti ...”

“É una consultazione molto difficile” ammetteva un funzionario estremamente cortese, a disposizione per rispondere alle domande. “É molto tecnica”.

Gli ho risposto che non doveva per forza essere così, che il governo avrebbe potuto semplicemente chiedere: “ È favorevole alla costruzione di una terza pista all’aeroporto di Heathrow”. Ha risposto automaticamente che c’era già stata una consultazione su questo, citando quella precedente il documento guida del 2003, il quale gaiamente prevedeva un raddoppio degli impianti aeroportuali nei prossimi 25 anni. In quella consultazione, l’idea di massima di ampliare le capacità aeroportuali era stata proposta in modo molto generico a tutta la popolazione del sud-est inglese. “E avevano risposto di sì?” ho chiesto al funzionario. “Beh – ha ribattuto – c’era tutta una gradazione di risposte”.

Ci sono state parecchie consultazioni sull’ampliamento di impianti aeroportuali, tutte più o meno famigerate tra chi abita nei corridoi di volo: una si è distinta per essersi guadagnata la definizione di “ concretamente fuorviante” dal tribunale supremo. Ho ricordato al mio funzionario che le consultazioni sono piuttosto prive di significato nel caso dell’aeronautica. “Beh – replicato – devono partire da una base di scelte”.

La base di scelte in questo caso è che Gordon Brown non solo vuole la terza pista, ma anche eliminare l’alternanza nell’uso delle piste, con gli aerei che atterrano su ciascuna di quelle esistenti una settimana sino alle tre del pomeriggio, e la settimana dopo solo dopo le tre. In questo modo, si dà un po’ di sollievo dall’orrendo fracasso a chi abita più vicino lungo i corridoi: gli si concede, per così dire, una mezza vita. Naturalmente, a chi ci abita non viene chiesto se sono o meno a favore di questa possibile sospensione dell’alternanza, o della costruzione della terza pista, per l’ottimo motivo che tutti risponderebbero di NO.

Un’altra importante e recente consultazione ha riguardato la modifica delle procedure urbanistiche, ora all’esame del parlamento. Anche qui aleggia il fantasma di Ambrose Bierce: è ampiamente diffusa fra i consultati l’opinione che il progetto di legge sia stato redatto prima di analizzare le loro risposte. Il disegno di legge è stato ispirato dalla procedura di revisione pubblica del progetto per il quinto terminal di Heathrow, durata cinque anni: troppo, per il governo. Il terminal, che aprirà il mese prossimo, alla fine della procedura è stato autorizzato come ultimo definitivo passo nell’ampliamento di Heathrow, condizione allora accettata dal governo e ora dimenticata. Il disegno di legga taglia drasticamente il diritto di interferire nelle decisioni urbanistiche, e verrò approvato prima che la British Airports Authority presenti la propria domanda per la terza pista.

Si: si tratta di una fregatura di proporzioni colossali. Si apre la strada alla BAA, compagnia private a capitale spagnolo, per deportare migliaia di persone, radere al suolo il villaggio storico di Sipson (qui non si sono tenuti road-show di consultazione, a causa di “mancanza di spazi adeguati”): tutto per realizzare una pista che produrrà ogni anno emissioni di carbonio equivalenti all’intera produzione del Kenya.

Al timone della grande alleanza che coraggiosamente si oppone a tutto questo c’è Hacan ( Heathrow Association for the Control of Aircraft Noise) Clearskies, il cui presidente John Stewart ha chiesto a chi viene chiamato in causa di ignorare le domande della consultazione: “Ma dove dice Commenti Generali scrivete: MI OPPONGO A QUALUNQUE ULTERIORE AMPLIAMENTO DI HEATHROW”. Questa, aggiunge, è una linea di confine.

Hacan terrà una manifestazione contro l’ampliamento di Heathrow alla Westminster Central Hall lunedì alle 19.00.

Nota: sulle modalità dei rapporti cole popolazioni locali si veda anche su Mall questo articolo dall'Independent 23 febbraio 208 (f.b.)

here English version

Non è una bomba a orologeria, o almeno speriamo che non lo diventi, ma il conto alla rovescia è già cominciato. Il calendario lascia ormai meno di due mesi, prima delle elezioni che potrebbero riconsegnare l’Italia al centrodestra, per approvare il nuovo Codice dei Beni culturali e del Paesaggio presentato dal ministro Francesco Rutelli. E inopinatamente, anche da parte di alcuni settori del centrosinistra sono in atto le “grandi manovre” contro una riforma fondamentale per salvaguardare l’ambiente, l’identità e l’immagine del Belpaese.

Predisposta da una commissione di esperti sotto l’autorevole presidenza del professor Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, la riscrittura del Codice ha il merito principale di restituire allo Stato la competenza “esclusiva” sulla tutela del paesaggio, in sintonia con la sentenza della Corte costituzionale del novembre scorso. Il potere centrale si riappropria in questo modo di alcune prerogative sul governo del territorio che per definizione, riguardando un patrimonio collettivo, non può essere localistico, municipale o regionale, frazionato insomma tra una pluralità di soggetti amministrativi spesso in conflitto tra loro. In forza di una legge delega già prorogata di due anni, il termine ultimo per ratificare il provvedimento scade il 1° maggio, ma difficilmente il testo sopravviverebbe in questa versione a una vittoria elettorale del centrodestra.

Nello spirito dell’articolo 9 della Costituzione, secondo cui “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, la riforma introduce innanzitutto l’obbligo di una pianificazione congiunta fra Stato e Regioni per elaborare i piani paesaggistici. In questa procedura, è previsto poi il parere vincolante delle Sovrintendenze su qualsiasi intervento urbanistico o paesaggistico che incida su territori vincolati. E inoltre la sub-delega dalle Regioni ai Comuni, per i piani e le licenze edilizie, viene subordinata all’istituzione di uffici con competenze specifiche.

Prima dell’approvazione definitiva da parte del governo uscente, occorrono però i pareri consultivi delle competenti Commissioni parlamentari (Cultura e Ambiente) e prima ancora quello della Conferenza Stato-Regioni. È proprio in questa sede che è scattata la trappola dilatoria per allungare l’iter procedurale e insabbiare il provvedimento. Di fronte alla convergenza dei Comuni e delle Province, seppure condizionata a qualche ritocco ragionevole e accettabile, sono state alcune regioni governate dal centrosinistra come la Toscana e la Calabria (in quest’ultima l’assessore al Turismo è stato arrestato nei giorni scorsi in un’operazione antimafia), alleate per l’occasione ad alcune regioni di centrodestra come la Lombardia e il Veneto, a tirare il freno per difendere i propri poteri decisionali, nonostante la disponibilità di altre regioni di centrosinistra tra cui il Piemonte, la Sardegna, la Puglia e la Basilicata.

Di rinvio in rinvio, si rischia ora di far naufragare in extremis il Codice Rutelli provocando una spaccatura all’interno dello stesso Partito democratico. Non a caso, quando il Pd ha organizzato il suo recente convegno sull’Ambiente a Firenze, il presidente della giunta regionale toscana, Claudio Martini, aveva contestato pubblicamente il testo elaborato in più di un anno di lavoro dalla commissione Settis, bollandolo come un “passo indietro” nel governo del territorio. Allo slogan del cosiddetto “ambientalismo del fare”, si contrappone perciò un interrogativo che merita una risposta chiara e definitiva: per fare che cosa? Le “grandi opere”, l’autostrada della Maremma o le villettopoli sul modello di Monticchiello, contestate non solo dai Verdi ma da tutto il fronte ecologista? Oppure, per fare ecomostri da abbattere poi a colpi di denunce e cariche di dinamite?

Da qui alle elezioni di metà aprile, questo diventa perciò un test importante per definire il profilo ambientalista del Partito democratico guidato da Walter Veltroni. Non c’è nulla di rivoluzionario, di radicale o di massimalista, nel Codice sul Paesaggio. Non è stato concepito da una “sinistra antagonista”, come si suol dire a volte in tono spregiativo, ma da una cultura riformista delle conoscenze e delle competenze. E si tratta di uno strumento utile anche a fini economici, per incentivare il turismo di qualità e quindi l’occupazione di tutto l’indotto.

Mentre la sottosegretaria ai Beni culturali, Danielle Mazzonis, avviava un tentativo di mediazione per superare l’impasse, il professor Settis ha scritto intanto a Rutelli per esprimergli la sua preoccupazione e sollecitarlo a respingere l’ostruzionismo di quelle che lui stesso chiama le “regioni palazzinare”: tanto più che il governo ha la facoltà di approvare il Codice anche contro un loro eventuale parere negativo. “Benedetto Croce – ricorda in conclusione la lettera - fu ministro per un solo anno, ma ancora si studia la sua legge sul paesaggio, la prima nella storia d’Italia”. Si farà in tempo ora ad approvarne una nuova, a quasi un secolo di distanza?

Roma – A questo punto la domanda è:servono le Regioni ? A quasi quarant’anni dall’entrata in funzione degli enti regionali. Augusto Barbera, ordinario di diritto costituzionale a Bologna, parte dall’assunto che si debba dare un senso al federalismo. “Individuati con chiarezza gli obiettivi, so possono affrontare i problemi normativi e predisporre le soluzioni tecniche più adeguate. Servono le Regioni ? E a quale scopo ? E con quali compiti ? Quali gli obiettivi da perseguire ‘ Quali i collegamenti fra Regione e gli enti locali ?”

Appunto, professore, quali obiettivi perseguire ?

“Si sovrappongono due linee di politica istituzionale: una centralistica e l’altra localistica. La prima cerca di trattenere allo Stato il maggior numero di funzioni, prendendo spunto dalla tutela di interessi nazionali, dall’attenzione ai vincoli di bilancio, dal perseguimento di malintese politiche meridionalistiche; l’altra linea cerca invece di trasferire il massimo possibile di funzioni.”

Una contrapposizione netta che si sta estremizzando, no ?

“Una contrapposizione ideologica, soprattutto, che trascura come il problema sia il centralismo, ma anche il localismo.”

Perché mai il localismo sarebbe un problema ?

“La pianificazione territoriale è invischiata in logiche campanilistiche che inducono a mettere da parte i tentativi di pianificazione seria. La ricchissima rete di aziende pubbliche ha cominciato a superare la dimensione locale, ma è frenata da logiche municipalistiche, si moltiplicano strutture sottodimensionate. Infine, i Comuni, grazie al potere di veto, respingono o ritardano l’insediamento di impianti come i termovalorizzatori, le centrali.”.

E gli ospedali ?

“Problemi anche qui. L’alleanza fra corporazioni mediche e interessi campanilistici rende impossibili in alcune regioni una seria pianificazione ospedaliera. E le università ? la ricerca di fondi le porta a disperdere energie, disseminando sedi anche in piccoli comuni.”

La questione Malpensa diventa questione padana anziché internazionale, da aeroporto Hub.

“Nell’area padana ci sono diciotto aeroporti. Prendo l’Emilia-Romagna, dove vico: c’era solo Bologna, oggi ci sono anche Rimini, Parma, Licenza e Forlì.”

Troppi livelli decisionali ?

“Decisamente troppi. Andrebbero rivisti tutti i poteri decentrati, liberando energie locali e attribuendo maggiore autorità al centro.”

Postilla

L’occhiello che il Messaggero ha messo all’intervista, e che ne riassume il contenuto, è il seguente: “Il costituzionalista Barbera: con le logiche di campanile impediscono una seria pianificazione”. D’accordo. Moltri segni indicano che si tende a tornare indietro rispetto al rigurgito devoluzionista cominciato quasi un decennio fa. Sebbene sia rarissimo il caso ch qualcuno si interroghi sul merito delle ragioni dei NO: la TAV in val di Susa non è solo compattuta per i danni ambientali, ma per l’assoluta inconsistenza dell’efficacia economica e trasportistica. Il MoSE nella Laguna di Venezia è contestato perché inutile e dannoso ai fini stessi che si propone, e del tutto insostenibile dal punto di vista economico. E così via. Barbera non fa essezione a questo modello di ragionamento ameno miope, che difende l’efficienza delle decisioni ma trascura il giudizio sulla loro qualità.

Ma c’è un altro punto che vogliamo sollevare. Dice Barbera: le logiche di campanile “inpediscono una seria pianificazione”. Gli chiediamo: quando mai lo Stato hanno fatto una “seria pianificazione”? Quando mai ha esposto l’insieme delle loro scelte sul territorio, orientate a una strategia di lungo periodo (in materia di grandi infrastrutture, le tutele dei beni paesaggistici d’interesse nazionale, le precauzioni connesse alla difesa del suolo, le ricadute territoriali delle politiche energetiche, agricole, trasportistiche ecc.), curandone la coerenza complessiva e riferendole esattamente al territorio? Quando mai su questo complesso sistematico di scelte, , lo Stato ha coinvolto nella discussione l’insieme del sistema delle autonomie locali, applicando quei principi di trasparenza e di condivisione che a ogni piè sospinto vengono predicate? Eppure, fin dal 1977 (Dpr 616/1977, articolo 81) lo Stato avrebbe il dovere e l’impegno di farlo: di definire le “linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale,con particolare riferimento alla articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo”. Rispetti lo Stato i suoi impegni e adempi ai suoi doveri; dopo, avrà buon gioco a chiedere anche agli altri di farlo.

Delusa, amareggiata, pronta a lasciare. O quasi. Marina Marino, 45 anni, urbanista, a capo dell'Ufficio tecnico del Comune di Bagheria (Palermo) si è presa una pausa di riflessione, ma in paese, dove i boss mafiosi locali la sopportano malvolentieri già da qualche anno, si è capito che potrebbe lasciare. Laureata all'Università di Venezia Marina Marino è arrivata qui dopo aver vinto una selezione pubblica quando al vertice del Comune c'era Pino Fricanò sindaco ché si compiaceva di frequentare Francesco Campanella, uno dei complici di Bernardo Provenzano oggi pentito: era il 2003

Decisiva è stata la seduta del consiglio comunale di mercoledì sera quando la maggioranza di "rinnovamento" che attualmente guida il Comune dopo una lunga tradizione di commissariamenti per infiltrazioni mafiose non ha avuto la forza politica di fermare la richiesta presentata dai parenti di un boss locale. Oggetto della delibéra è la destinazione urbanistica dell'area di fronte al Municipio, l'ex palazzo delle Poste italiane, che la famiglia del boss Pietro Lo Iacono, già condannato, in primo grado, a 13 anni di carcere nel dicembre del 2005 per associazione a delinquere di stampo mafioso, ha acquistato per 700mila euro nel 2004. Il figlio di Lo Iacono, il nipote (si chiamano ambedue Carmelo) e la moglie Dorotea Zarcone, hanno presentato alla fine di giugno del 2005 domanda per cambiare la destinazione urbanistica dell'immobile: l'obiettivo è di farne un centro commerciale. L'ufficio guidato dà Marina Marino si è opposto e da allora il contenzioso è andato avanti. L'atto del consiglio comunale poteva chiudere l'intera partita destinando l’area a spazio pubblico a servizio della città. Ma la delibera è stata respinta dal consiglio comunale grazie ai voti della minoranza (qui rappresentata dai partiti del centrodestra) e all'assenza di almeno sette consiglieri della coalizione che appoggia il sindaco Biagio Sciortino, il quale ha sì nel programma l'impegno antimafia ma era assente per partecipare a un convegno. Non è stata tenuta in considerazione l'informativa antimafia della Prefettura: «Le ditte interessate, per le provate cointeressenze e per gli stretti vincoli di parentela con l'appartenente alla mafia Pietro Lo Iacono, possono subire condizionamenti mafiosi».

Questa la goccia che ha fatta traboccare il vaso: «La politica si è dimostrata in questi anni molto debole in alcune materie» dice Marina Marino. In questa occasione poteva dimostrare una vera volontà di rinnovamento in quello ché è stato per anni il Comune simbolo della mafia guidata da Bernardo Provenzano. Marina Marino ha anche redatto il nuovo Prg di Villabate, regno dei boss Nicola e Nino Mandalà (uomini di Provenzano): un piano regolatore che ha cambiato destinazione d'uso all'area su cuì doveva sorgere il centro commerciale voluto dalla mafia che dunque non pótrà più essere costruito.-E c'è un'aItra scortesia alla mafia che l'urbanista Marino ha preparato a Bagheria: ha predisposto un regolamento per l’assegnazione di trenta lotti nell’area di insediamento produttivo che prevede l'obbligo di presentare il certificato antimafia a chi voglia accedervi. Una previsione che-qualcuno, si dice in paese, vorrebbe surrettiziamente aggirare facendo in modo che si debba presentare solo un’autocertificazìone antimafia. Sarebbe il massimo, considerato che quei lotti sono stati pensati per accedere anche ai fondi del Patto territoriale di Bagheria in totale 47,57 milioni di investimenti dì cui 35,85 milioni di fondi pubblici. La delibera doveva andare in Consiglio giovedì sera ma la seduta è stata rinviata. Vedremo come andrà a finire.

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L’altro giorno a Grosseto al convegno «L’albergo non è una casa» un alto, elegante ufficiale della finanza, in divisa, ha raccontato una delle storie più losche nell’ambito di abusi edilizi che mi sia capitato di ascoltare. Il tono della voce studiato per non tradire nessuna emozione accentuava l’aspetto veramente incredibile e anche grottesco su come poteri locali, funzionari pubblici che dovrebbero certificare la perfetta rispondenza alla legge dei contratti di compravendita delle case e imprenditori d’assalto, che sembrano arrivati dall’isola della Tortuga, si sono messi d’accordo per truffare i cittadini e lo Stato e farsi passare per benefattori.

In Toscana la straordinaria bellezza dei luoghi, quell’atmosfera incantevole in cui sono immerse le colline, il modo con cui l’uomo ha saputo inserirsi nella natura mantenendo un perfetto equilibrio non vanno protetti e mantenuti solo per il piacere di pochi esteti. Costituiscono le fondamenta dell’economia locale, basata da sempre sui forestieri, senza i quali non saprebbero a chi vendere i caci, la finocchiona, le terrecotte, il panforte, l’olio buono e il vino buono e tutto il resto. Il paesaggio in Toscana può essere paragonato a quello che rappresenta lo Stock Exchange per New York o la Ford per Detroit o i grandi vini per Bordeaux. Ecco perché qualsiasi manomissione del territorio «plus qu’un crime, ça à étè une erreur», come dicono benissimo i francesi, dove errore sta per cazzata: il classico modo di darsi la tradizionale zappa sui piedi.

Sembra incredibile ma in Toscana continuano a farsi male con questa zappa, anche se le vicende edilizie variano molto da zona a zona. In questa regione, che dovrebbe avere più sensibilità di altre, le cose vanno molto peggio che in Emilia Romagna, il cui governo ha dato interpretazione restrittiva delle norme che regolano in generale l’urbanistica. Qui invece sta dilagando un fenomeno abbastanza nuovo, almeno in queste dimensioni soprannominate: «Viva le RTA», intese come residenze turistico alberghiere, ovvero come costruire quello che non si può costruire, nei terreni vincolati al verde, pagando meno tasse, e fregando turisti con promesse non mantenute e privati con contratti fasulli. Queste RTA vengono usate come grimaldello per aprire porte che altrimenti resterebbero chiuse. Un esempio: il piano regolatore proibisce di costruire in una certa area di solito tra le più amene per riservarla al verde pubblico, escludendo tassativamente edifici di qualsiasi genere. Niente paura. Si fa una finta ricognizione delle capacità ricettive della città, si scopre di aver bisogno di altri posti letto per i turisti e a ruota si presenta una domanda per una o più installazioni di che, in deroga al piano regolatore, prevede l’insediamento proprio nelle zone proibite e molto ambite dagli speculatori. A questo punto si lancia una campagna in favore dell’insediamento per allargare le potenzialità del paese, che non trova molti oppositori: si faccia avanti chi è contro il turismo in Italia?

Naturalmente tutti o quasi tutti sono a favore, in buona o in cattiva fede e con rapidità si dà inizio ai lavori dell’albergo. I due aspetti più strabilianti di tutta la faccenda, che è tutta straordinaria, sono almeno due: il primo è la sicurezza e la tracotanza con cui i costruttori mettono mano fin dall’inizio a edifici con appartamenti privati, senza simulare di stare costruendo un’RTA e quando la palazzina è finita si passa alla vendita ai privati senza mettere in scena nemmeno per qualche giorno la parvenza di un albergo con camerieri e insegne turistiche. Il secondo aspetto è rappresentato dai contratti di compravendita, che nei casi migliori sono stilati dai notai con uno stile che riecheggia la prosa dell’Azzeccagarbugli di manzoniana memoria, in cui si dice tutto e il contrario di tutto. E nei casi peggiori certificando il falso quando si rassicura il compratore affermando che lui ha la piena proprietà dell’immobile.

Mi risulta che in Toscana almeno un ufficiale della finanza ha chiesto alla magistratura di mandare nelle patrie galere qualcuno di questi notai meno coscienziosi, diciamo così, ma la sua richiesta non è stata accettata. Come finale paradossale di tutta l’operazione i costruttori in questo modo non solo truffano gli acquirenti, ma anche lo Stato venendo a pagare meno tasse.

L’ufficiale parlava della propria area di competenza, che era quella di Massa Carrara, ma il fenomeno è diffuso quasi ovunque in Italia. Quanto alle giunte che dovrebbero sorvegliare con occhio attento ad ogni minimo tentativo di manomettere il territorio, sembra che stiano perennemente con la testa dentro uno scatolone di sabbia. Come spiegare altrimenti lo strano comportamento dei comuni della Toscana che dovevano chiedere ai costruttori la tassa prevista per il cambiamento d’uso degli edifici: quasi tutti, con eccezione di Pisa e di altri due centri minori, si sono dimenticati di chiederla. Era uno sforzo superiore alle loro possibilità.

Cominciamo dall'idrovia, "concepita nel 1965, doveva servire a togliere i troppi camion dalle strade e abbattere l'inquinamento. Invece ci costruiranno su un lato una strada camionabile: dopo il danno, la beffa". Quando parla del canale mai completato, con enorme spreco di denaro pubblico, si infervora il cavaliere Antonio Canova, presidente del Comitato di salvaguardia del territorio. Il sodalizio è nato a maggio con una assemblea di oltre 500 abitanti e i sindaci di Vigonovo, Saonara, Fossò, Camponogara, Dolo e Mira, cioè dell'hinterland tra Padova e Venezia; e il 13 dicembre scorso sono scesi in piazza.

La storia è molto di più di una bega del Nord-est. E non è soltanto un problema di traffico. Perché accanto alla beffa idrovia-camionabile si sta giocando un'altra partita. "C'è da denunciare un altro pericolo", annuncia il consigliere provinciale dei Verdi di Padova, Paolo De Marchi: "La Regione sta covando in segreto il progetto di un maxi porto off-shore, 18 chilometri al largo delle foci del Po di Rovigo". Lunga 528 metri e larga 156, la piattaforma artificiale servirà per l'attracco delle grandi navi portacontainer. E diventerà il luogo di smistamento, su battelli più piccoli, dei container destinati ai porti di Ravenna, Chioggia, Venezia, Trieste, Slovenia e Croazia, dove i mostri navali con chiglie profonde 25 metri non possono attraccare. "Visto che l'idrovia non l'hanno completata, per trasportare poi i container da Venezia verso l'entroterra ci sarà un fiume continuo di camion anche sulla strada che vogliono costruire sulla sponda destra", spiega il sindaco di Saonara, Andrea Buso. Saranno necessarie, si teme, una nuova strada statale, detta Romea commerciale, che affianchi la esistente Romea tra Mestre e Ravenna, e una nuova autostrada a lato di quella già ingolfata dal traffico tra Padova e Venezia.

Non basta. Sono in doppio allarme anche i pescatori del Polesine, già in scompiglio per la costruzione, nello stesso tratto di mare davanti al delta del Po, del rigassificatore previsto dal governo. Alessandro Faccioli, vicepresidente di Federcoopesca, che nella zona conta 1.500 associati più 24 cooperative, parla chiaro: "Tra il traffico delle grandi navi e le zone di rispetto attorno al porto off-shore e al rigassificatore, lo specchio di mare dove poter pescare si ridurrà ancora di più. Importeremo dalla Cina anche il pesce?".

Nonostante le proteste, in Regione è dato per scontato che la costruzione della piattaforma inizierà l'anno prossimo. Merito di quattro robusti genitori: Consorzio Venezia Nuova, Autorità del Porto di Venezia, Consorzio Interporto di Rovigo e impresa Mantovani. Il costo è notevole, almeno 500 milioni di euro. "Ma sono disposte a finanziarci Bnl, Monte dei Paschi, Unicredit e Sanpaolo", spiegano il presidente dell'Interporto di Rovigo, Mario Borgatti, e l'ingegnere capo dei progettisti della Mantovani, Piergiorgio Baita.

Con buona pace dell'idrovia Padova-Venezia: dal lontano1965 sono stati spesi oltre 100 milioni di euro per scavare solo parte del tracciato e costruire tutti i ponti per le strade che dovrebbero attraversarla (e che oggi attraversano l'aria). L'anno scorso Padova, città con due fiumi e vari canali, a causa delle forti piogge ha rischiato grosso un'altra volta. Il Comune ha diramato istruzioni alla popolazione su come comportarsi in caso di alluvione. E uno studio del docente di ingegneria idraulica Luigi D'Alpaos dimostra che in mancanza dello sfogo a mare assicurato dall'idrovia completata, Padova rischia danni enormi. "Ben maggiori dei 50-100 milioni necessari a completare questa benedetta idrovia osteggiata dalle lobby delle auto e dei pedaggi autostradali", conclude Carlo Crotti, presidente dell'associazione Salvaguardia idraulica del territorio padovano e veneziano.

Veneto City, il colosso che scuote il Nordest

di Adriano Favaro

L'esempio del terzo Veneto , il futuro di una regione che deve esporre le sue eccellenze. Capitale che sfida Parigi, Barcellona, Londra. O l'esempio del cuore di pietra in cui si è trasformata questa regione che, dopo i capannoni, pretende di sviluppare ancora cemento, torri e alberghi in mezzo alla campagna. Perfino il nome di questa operazione è simbolo del doppio che rappresenta: "Veneto City ". Doppio perché da quando si è cominciato a discutere del progetto - una delle più grandi operazioni edilizie mai pensate in Italia, su un'area di oltre 50 campi da calcio, nei comuni di Dolo, Pianiga e Mirano a metà strada tra Padova e Mestre, in Riviera del Brenta - il fronte dei no e dei sì è diventato subito scottante.

Il progetto "documento preliminare" è arrivato - 80 pagine - in municipio di Dolo lo scorso ottobre. "È la nuova vetrina del Veneto e dell'Italia del Nord" hanno detto i promotori. Con in testa Luigi Endrizzi, ingegnere (sua l'idea dell'Ikea, Padova) che conserva il suo stile: «Non abbiamo presentato un progetto e ora non facciamo interviste o discorsi. La questione è nelle mani dei Comuni interessati e alle istituzioni: loro devono scegliere». Il complesso comprende una specie di Parco scientifico, Ikea e Cinecity; torre telefonica-tv e alcuni alberghi.

La decisione apre un problema per il Nordest: possono 20, 40, 60 consiglieri comunali decidere di un'opera che sposta il baricentro socio-economico di una regione?

Vi dovrebbero lavorare diecimila persone, 60-70 mila auto. Si pensa anche di spostare la stazione ferroviaria di Arino. Il territorio della City è nel cuore degli incroci del nuovo Veneto: passante, autostrada, ferrovia.«C'era già l'edificabilità - spiega Endrizzi - Proponiamo un'opera di alto profilo». La Regione non ha fatto mosse ufficiali. Un anno fa il governatore Giancarlo Galan (ad un Rotary) ha esposto le sue idee: «Veneto City non è un mostro che sconvolge il territorio. L'agricoltura qui ormai non ha più senso, lo sviluppo passa per la logistica». Bene se non ci fosse di mezzo la Porto Marghera da risanare, area dismessa che aspetta il rilancio. Area per la quale Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, non si risparmia. Dal 2006 dice: «Non sprechiamo territorio». Aggiungendo: «Fare Veneto City è un'idea delirante». La primavera scorsa alla fiera immobiliare di Milano: «Stop a Veneto City. Il futuro è a Marghera. Ai bordi della laguna ci sono duemila ettari da riutilizzare». A Milano la Regione era assente e molti hanno letto in questo il braccio di ferro Galan-Cacciari. Quest'ultimo poi all'Unione industriali veneziani ha posto domande precise. E il presidente Antonio Favrin: «La piattaforma logistica la vogliamo a Marghera; ma con che governance?».

Tradotta la considerazione è: chi ci dà garanzie? Il Comune, la Regione? Chi governa? Giusta domanda anche alla luce delle considerazioni di Fabio Gava, assessore all'industria: «Il rilancio di Porto Marghera va bene. In questo modo Venezia verrà riconosciuta "capitale". Del resto che la città non ha mai guardato al territorio». In attesa Veneto City è riuscito a dividere.

«É un intervento insensato - commenta Edoardo Salzano, uomo di sinistra, docente universitario, per anni assessore al Comune di Venezia - Continuano a costruire cose che mi sembrano molto brutte sulle sponde del Brenta: quel canale è una meraviglia».

Anche l'architetto Guglielmo Monti, sovrintendente ai Meni architettonici del Veneto Orientale è perplesso: «Si può parlare male di questa iniziativa, così come quella della "città della moda". Dal mio punto di vista sono due pericoli per il territorio, minacce nel senso che se si costruiscono grossi centri si svuoteranno gli altri, i più vecchi. Io devo salvaguardarli invece. In decenni di capannoni non si è imparato niente. Sembra essere tornati ad un nuovo Far West edilizio. Il mio potere? Poco. Il paesaggio è protetto fino a 150 metri dai bordi dell'acqua del Brenta. Dopo no. Il fatto è che qui si sono sviluppate forme di commercio e rendite finanziarie che esulano da turismo e agricoltura, che sono le grandi vocazioni di questa terra».

Lo sviluppo "ecocompatibile" è invocato anche dai sindaci di questa Riviera presa nello strabismo veneziano-padovano, da decenni arrancante nel rilancio di un'identità che nemmeno le ville più belle del mondo (sempre chiuse) riescono a darle.Salzano sa che i comuni di Dolo, Pianiga e Mirano si aspettano molto dalla "City" (Ici da decine di milioni). «Qui i soldi arrivano, guastano e vanno via. Lavorerà qualche manovale da fuori. Queste operazioni immobiliari non danno niente alla società». Però dovrebbe essere la vetrina del Veneto. «Se il veneto ha bisogno di cose moderne le faccia a porto Marghera. Qui serve pensare alla crisi dell'industria. É stato molto più facile fare soldi con l'immobiliare che investire in ricerca. Fiat e Pirelli hanno dirottato sull'immobiliare per anni». E se i palazzi fossero firmati da Foster o Piano? «'Ste robe le chiamano "mattone col pennacchio". Ma sono sbagliate e basta. Temo che qui nemmeno il pennacchio...».

Non può approvare l'ingegner Endrizzi: «Quell'area è già lottizzabile. Meglio una incerta lottizzazione, un capannone dopo l'altro o un piano preciso? Decidano i comuni. La nostra idea è tutta da discutere e concordare, con un tavolo ampio dove oltre a Regione ci siano Provincia di Venezia, Comuni, Autostrade, Ferrovie, i protagonisti dello sviluppo di quest'area». Dove i terreni (ex agricoli) sono saliti anche sei volte di prezzo.

Furibondo è Ivone Cacciavillani: «Faccio l'avvocato e dico che occorre essere seri nelle norme urbanistiche. Forse Veneto City sarà la cosa più bella del mondo ma deve esserci coerenza tra le norme della Pubblica Amministrazione. Quante cose non vanno, non è tollerabile quello che sta accadendo qui e altrove. Prenda Padova: luoghi dove ci sono negozi invece destinati a verde pubblico e si rimedia tutto (dopo) con una variante. Andremo avanti a tutte le corti del mondo. Servono modifiche ai piani? Siano fatte secondo legge e non attraverso chissà quali cambi per avere qualche euro di Ici. Se però si creano 10mila posti di lavoro ci saranno 10 mila al mattino; e la sera. Più che il "Turco infame" e l'"Innominabile" (termine che Cacciavillani usa per Napoleone) la Serenissima è stata distrutta e affossata da Cini e Volpi. Invoco chiarezza in tutti gli atti amministrativi».

Insomma di variante in variante le aree agricole non dovrebbero diventare edificabili magari dopo che le ha acquistate qualcuno.

Anche Rosanna Brusegan, la docente che con "Italia Nostra" ha dato vita al confronto pubblico di sabato a Dolo - ore 15,30 all'ex macello - chiede una cosa simile: «Le amministrazioni devono parlare: finora ho trovato solo silenzioso. Desidero trasparenza per i gesti che impegnano nel futuro questa terra. Le uniche fonti di informazioni sono i giornali. Sono offesa nella mia dignità di cittadina, vogliamo sapere».

La politica locale una risposta l'ha già data: il presidente della provincia di Venezia Davide Zoggia (Pd) lo scorso anno ha detto: «Sì a Veneto City, d'accordo col comune di Dolo, ma solo dentro le aree già destinate per quel ruolo dal piano regolatore. Nessuna variante cioè».

Il sindaco di Dolo Antonio Gaspari (Margherita) - era vicesindaco durante il mandato di Claudio Bertolin il primo cittadino che fermò per due anni il progetto di Veneto City cercando di avere più informazioni possibili - non nasconde il suo assenso: «Veneto City deve essere opportunità, non pericolo». E poi si è buttato alla ricerca di un pool di esperti per avere chiarezza sugli effetti dell'opera. A Dolo intanto le opposizioni (Forza Italia, socialisti e Udc) rumoreggiano. L'attuale vicesindaco, Adriano Spolaore (ex ds) è un altro politico che apprezza Veneto City e che non si pone il dubbio se si tratti di una mostruosa opportunità per il terziario o di un mostro ecologico.Appoggia e a volte sopravvanza il suo sindaco che sostiene il progetto, in linea col piano territoriale provinciale: «Veneto City è una risorsa e non una speculazione» sostiene appena - ottobre 2007 - Endrizzi presentò la proposta per la del quale Bepi Stefanel, uno degli imprenditori interessanti aveva detto: «Un sistema stellare, del quale il pianeta principale sarà costituito dal centro servizi dedicato a ricerca, innovazione, marketing e analisi dei nuovi mercati».

«Qualsiasi futuro ormai è di stile metropolitano»

di Stefano Micelli

(A.F.) Stefano Micelli è docente universitario, presidente del Coses, il Consorzio formato dalla Provincia e dal Comune di Venezia per lo studio di economia e società.

Veneto City: orizzonte o scempio del futuro?

«La Provincia di Venezia corre su due dorsali, terraferma segnata dal passante e la gronda lagunare. In questo momento il passante ricolloca il futuro su quattro ruote: ogni casello diventa un polo di attrazione straordinario».

Mentre la laguna...

«In questo momento è vista e vissuta in termini di "tutela e turismo". Non si può pensare ad altro futuro per quest'area che è l'altra faccia della medaglia del Veneto che si sviluppa».

Un'area che vive ancora con "sussidi".

«Negli ultimi 500 anni la tutela della laguna è stata legata allo sviluppo delle iniziative, anche commerciali in terraferma».

Quindi il rilancio di Marghera?

«Non è solo uno sbilanciamento di una polarità ma un modo diverso di pensare ad ambiente e territorio che affidiamo a leggi speciali. Per Marghera serve il rilancio di attività compatibili con gli ambienti lagunari: residenziale, logistica (porto), turistico (completando accoglienza e ricezione anche in Marghera)».

Il futuro non sembra passare facilmente per Marghera?

«Oggi la dorsale del passante avrà un futuro di per sè. È la dorsale acquatica che ha problemi. Anche perché finora (vedi lancioni) la tutela è pubblica il guadagno privato. Pensare a Marghera vuol dire pensare al futuro della laguna».

Tornando a Veneto City...«Meglio così che cinque "mini Veneto City", uno ad ogni casello»

Le dispiacerebbe...

«Perdere l'attenzione su "laguna-Marghera". Un'area sulla quale il mondo ha fatto tesoro, da Barcellona a Valencia hanno guardato a noi».

Cosa manca?

«La sensazione che ho io è che qui manchi uno scatto culturale».

L'asse Padova-Venezia?

«Oggi chi governa le due città non ha più spirito solo "municipale". Io lotto perché ci sia un solo biglietto (tram, treno, bus..) per le due città Per chi ha 40 anni Padova e Venezia sono un'unica esperienza»

Condivido lo sforzo di presentare il territorio in modo visibile a chi viene da fuori?

«Chi viene da fuori deve avere "segnali di Metropoli". Mi chiedo perché no a Marghera? Lo deve decidere la politica. Non possiamo permetterci che gli altri continuino a vederci come somma di piccoli campanili. Il nostro spazio non può continuare a d agire senza una "cifra" metropolitana. La crescita oggi è da metropoli: che qui, o altrove, si deve fare».

«La faccenda non ci piace diciamo no a quel mostro»

(A.F.) Davvero quello il luogo ideale per il futuro del Veneto? Se parlate con Maurizio Franceschi, Confesercenti di Venezia sentite subito il no. Lo stesso che da anni usan Albonetti (Confesercenti del Veneto): «Marghera attende il riscatto». Lo stesso di Nicola Rossi, Confesercenti di Padova: «No a Veneto City, non s'ha da fare». E' in questo dibattito che nasce anche l'idea di spostare la fiera di Padova a Dolo. Uno sbarco che parrebbe non sgradito a Vittorio Casarin (Presidente della provincia di Padova e uomo che conta nella società autostradale): «Serve una fiera interprovinciale», ha fatto sapere. Che queste però non siano prove di città metropolitana lo sostiene anche Ferruccio Macola della "GL Events, Fiera di Padova: «Il mercato dice che Veneto City oggi non è un grande investimento; forse fra 15 anni. Ma se la politica dice che si va a Dolo noi andiamo».

Replica di Fernando Zilio, Ascom padovana: «Noi categorie alimentiamo la Fiera. Perché andarcene? Chi paga»? A Padova il dibattito è intenso. Dice l'assessore Ivo Rossi: «Veneto City? Come mandare gli operai in campagna: un non luogo». Riprende Maurizio Franceschi Confesercenti di Venezia: «Il problema resta la gestione del territorio Veneto, città diffusa. Dobbiamo riguardare al "policentrismo" che aveva un ruolo. C'è una regione marmellata. Le città devono garantire le funzioni». Perché se si continuano a realizzare strutture «e non parlo solo di commercio ma anche di intrattenimento - insiste Franceschi - ovviamente si svuota la città di funzioni. Senza dimenticare in queste faccende la mobilità. Il passante sta risolvendo problemi ma ne vediamo anche gli aspetti negativi. È partito Veneto City ma chi ci dice che ad ogni casello non si voglia fare una cittadella del commercio?». Domanda giusta. «Mai possibile - aggiunge Franceschi - che gli interventi di questo tipo non debbano essere visti su scala regionale, con una programmazione che dica quali debbano essere i nuovi poli». Confcommercio dice che il Veneto che verrà ha bisogno di un'accelerata sulla programmazione: «Si sta ripetendo quello che si è fatto finora: tanti investimenti immobiliari e vai. Così, senza un programma. Io dico che grande distribuzioni e le multisale (che rischiano di diventare baracconi) dovrebbero ormai entrare nelle città». Insomma guerra ai non-luoghi fino al punto, per Franceschi di dire: «Di Veneto City dò un giudizio molto negativo: crea occupazione ma si mangia lo spazio. Toglierà funzioni e ruolo alle città. E si risanerà anche Marghera? E il "Marco Polo City"? In questo grande outlet manca il governo del territorio».

Articoli di Monica Ceravolo, Francesco Spini e Armando Zeni, Francesco La Licata, Alfio Caruso, e una nota dell’agenzia ANSA

Calcestruzzi, manette per mafia

Test su strade e ponti a rischio per l’uso di materiale di scarsa qualità

L’accusa: usavano miscele di calcestruzzo «allungate» e di bassa qualità per risparmiare e creare al contempo fondi neri che in Sicilia rappresentavano il trenta per cento del fatturato e sarebbero stati utilizzati per finanziare i clan mafiosi, mentre nel resto d’Italia avrebbero avuto scopi ancora da accertare. È la tesi della Dda di Caltanissetta che ha chiesto ed ottenuto dal gip il sequestro dell’intera Calcestruzzi spa e l’arresto dell’amministratore delegato Mario Colombini e di altre tre persone: Fausto Volante, direttore di zona per la Sicilia e la Campania, sospeso dalla società nei mesi scorsi, Francesco Librizzi, già capo area per la Sicilia, e Giuseppe Giovanni Laurino, ex dipendente, anche lui capo area per la Sicilia. Truffa, frode in pubbliche forniture, intestazione fittizia di beni, con l’aggravante di aver agevolato l’attività di Cosa Nostra: queste le ipotesi di reato. Sono previsti test su alcune opere che potrebbero essere «a rischio».

“Calcestruzzi favoriva Cosa Nostra”

di Monica Ceravolo

PALERMO. Nei cantieri della «Calcestruzzi spa» sarebbe stato prodotto calcestruzzo di scarsa qualità che, venduto per buono, consentiva di creare fondi neri per finanziare Cosa nostra. Di questa truffa criminale sarebbe stato a conoscenza l’amministratore delegato della società, Mario Colombini, arrestato ieri mattina insieme con Fausto Volante, direttore di zona per la Sicilia e la Campania, e i due ex dirigenti, Francesco Librizzi e Giuseppe Giovanni Laurino.

L’ordine di custodia cautelare è firmato dal gip di Caltanissetta su richiesta del procuratore aggiunto di Caltanissetta, Renato Di Natale, e dal pm della Direzione distrettuale antimafia, Nicolò Marino, che ha coordinato l’inchiesta sull’azienda bergamasca, che fa parte del gruppo Italcementi.

Ai quattro indagati sono stati contestati i reati di truffa, inadempimento di contratti di pubbliche forniture e intestazione fittizia di beni, con l’aggravante di avere agevolato la mafia. Il giudice ha pure ordinato il sequestro della Calcestruzzi. L’azienda, presente su tutto il territorio nazionale, ha 10 direzioni di zona, 250 impianti di betonaggio, 23 cave e 21 impianti di selezione di inerti. Beni per un valore di 600 milioni di euro. Nei computer, secondo gli inquirenti, ci sarebbe la prova della truffa, con una doppia tabella.

E la scoperta del cemento depotenziato ha fatto aprire un altro, allarmante capitolo: quello delle opere a rischio. Sarà infatti necessario controllare la staticità delle opere realizzate con quel materiale. E’ per questo che, nei mesi scorsi il gip aveva ordinato il sequestro del nuovo palazzo di giustizia di Gela, il Porto Isola-Diga Foranea di Gela, la strada a scorrimento veloce Licata-Torrente Braemi e lo svincolo di Castelbuono-Pollina sul tratto autostradale A20 Palermo-Messina. Ma non basta: i consulenti dei pm esamineranno alcuni tratti della Tav, il nuovo palazzo della Provincia di Milano, il nuovo ponte sul Po di San Rocco al Porto (Lodi) e la chiesa di San Paolo Apostolo a Pescara.

Confindustria in una nota fa sapere che segue la vicenda «con piena fiducia nell’operato della magistratura». «Confindustria è certa che l’azienda saprà fornire tutti gli elementi utili a fare chiarezza, anche alla luce del fatto che la stessa società, per evitare rischi di commistioni o pratiche distorsive, ha dato vita nei mesi scorsi a una Commissione di garanzia presieduta dall’ex procuratore Piero Luigi Vigna».

Il presidente di Confindustria di Bergamo, Alberto Barcella, sostiene che non vi sono estremi di provvedimenti contro l’azienda perché giudica positivamente le azioni della società. Ivan Lo Bello, il presidente di Confindustria Sicilia, da cui è partita la proposta di mettere alla porta gli imprenditori che si piegano al racket della mafia, invita l’azienda a collaborare. Il gruppo che fa capo alla famiglia Pesenti sottolinea: «Italcementi conferma la propria linea di piena collaborazione con l’autorità giudiziaria ribadendo una linea di rifiuto di qualsivoglia contiguità con fenomeni di criminalità».

Un impero costruito sull’Italia del boom

di Francesco Spini e Armando Zeni

MILANO. Carta e cemento. Già, perché se oggi l'interesse nell'editoria dei Pesenti - la famiglia che attraverso Italcementi controlla Calcestruzzi -, come azionisti nella Rcs-Corriere della Sera, è uno dei tanti, importante sì ma non certo il principale, all’inizio di tutto fu proprio la carta. Quella che usciva dalla cartiera di Alzano, a due passi da Bergamo: carta da pacchi, niente a che vedere con i giornali - quelli verranno dopo -, seguita con l'amore da un piccolo imprenditore poco più che artigiano, Antonio, il capostipite dei Pesenti, le radici saldamente ancorate nel passato contadino della famiglia ma la testa già proiettata nel futuro imprenditoriale. Muore giovane, Auntonio, e lascia una famiglia numerosa.

Comincia così la storia dei Pesenti, che oggi guidano un gruppo che fattura sei miliardi di euro, produce oltre 70 milioni di tonnellate di cemento l’anno in 22 Paesi distribuiti su quattro continenti. Ma che da decenni sono tra i protagonisti della finanza italiana, con posizioni importanti in Mediobanca, dove siedono nel patto di sindacato tra i soci industriali, in Rcs, nella Mittel, in UniCredit dove Carlo Pesenti è consigliere di amministrazione.

Quando i Pesenti muovono i primi passi, la situazione era quella dell'Italia di metà Ottocento, non ancora unita, solo con le prime avvisaglie di un'industria che prende forma spesso trainata da gruppi stranieri, francesi, tedeschi, che nell'Italia ancora vergine vedono sbocchi importanti. Succede anche per il cemento che, a quel tempo, dalle parti di Bergamo, futura roccaforte cementiera dei Pesenti, nessuno conosceva: ci pensarono i francesi ad aprire una fabbrica di calce. E fu lì che, come dire, il destino dei Pesenti cambiò.

Lasciata la cartiera, nel 1864 a Calzo prende forma - con Augusto, figlio di Antonio - il primo nucleo della futura Italcementi. Il nome è un programma, Società bergamasca per la fabbricazione del cemento e della calce indraulica, che solo sessant'anni dopo, alla vigilia della Marcia su Roma, prese il nome di Italcementi, più conciso, più italico. E qui entra in scena Carlo, il Pesenti che fece grande - anche se alla fine rischiò di azzerarlo - il gruppo.

Gli anni di Carlo «primo» sono gli anni del primo e del secondo boom del cemento, gli anni delle prime grandi infrastrutture dell'Italia che voleva il suo «posto al sole» e che, dopo la guerra, doveva ricostruire. L'Italcementi è lì, tra i big, cresce, si rafforza, moltiplica gli utili. Carlo, uomo tutto d'un pezzo, infaticabile lavoratore, zero (o quasi) ferie, nessuna concessione mondana, inflessibile amministratore («Sono le piccole spese - diceva - che ti mandano in malora»), cattolico fervente (ogni giorno, prima del lavoro, la messa) sfrutta i grandi profitti del cemento e li investe. Diversifica. Compra banche perché le banche servono, diceva, banche a Bergamo e banche a Milano (l'Ibi). Compra assicurazioni, la Ras, una delle maggiori che già allora cercava di tener testa alle Generali. Compra giornali, come Il Tempo di Roma. E a un certo punto compra anche la Lancia.

Uomo tutto d'un pezzo, Carlo Pesenti, geloso delle sue prerogative di uomo d'industria e di finanza, deciso in tempi in cui la trasparenza era termine sconosciuto nella finanza. Memorabili le sue assemblee che si aprivano e chiudevano (nonostante si trattasse di società quotate) in un lampo senza mai soddisfare le (poche) domande di qualche sprovveduto azionista di minoranza. Solitario cavaliere dell'imprenditoria italiana del dopoguerra. Odiato e amato. Accentratore infaticabile, incapace di delegare.

Tant'è che quando morì, nel 1984, molti immaginarono il diluvio: gli succedette il figlio Giampiero che a cinquant'anni era stato tenuto fuori da tutto. In realtà, grazie anche all’alleanza con la Mediobanca di Enrico Cuccia - con un legame che resiste tuttora, con la presenza della famiglia tra i grandi soci -, Giampiero fu l’uomo che salvò - allora - il gruppo sommerso da una montagna di debiti: senza clamori cedette il cedibile, le banche, la Ras, e tenne ferma la barra sul cemento.

E’ un protagonista della «finanza cattolica», grande amico di Giovanni Bazoli - siedono insieme nel consiglio della finanziaria bresciana Mittel -, ma in ottimi rapporti anche con Alessandro Profumo. Si deve a lui, al taciturno Giampiero, amante del basso profilo, poco spazio all'immagine, poche interviste, zero presenzialismo, la seconda vita del gruppo nel cemento: l'espansione all'estero, le acquisizioni.

Il grande passo avviene nel ‘92 con l’acquisizione di Ciments Francais. Italcementi diviene una multinazionale, con le presenze odierne nell’Europa dell’Est, in Egitto, in Kuwait, in Cina. Nel ‘97 l’affare italiano che probabilmente oggi rimpiangeranno: l’acquisto della Calcestruzzi dalla Compart. Fuori dal cemento ancora i giornali, il Corriere, dove oggi Giampiero presiede il Patto di sindacato. Al resto, da anni, pensa il figlio Carlo, quinta generazione dei Pesenti, dal 2004 consigliere delegato del gruppo.

Il cemento che fa tremare la Tav

di Francesco La Licata

CALTANISSETTA. Il palcoscenico è vecchio come la storia della mafia: le cave, il movimento terra, cemento e calcestruzzo, i padroncini che caricano e scaricano. Anche i luoghi sono antichi: Riesi che evoca boss d’altri tempi come Peppe Di Cristina, la campagna di Gela popolata di «stiddari» in funzione di «antimafia militare». Ma questo è solo lo sfondo, su cui si muovono personaggi moderni e interessi contemporanei. L’ambiente che dà vita ad una storia attuale e che offre i più classici degli artifici imprenditoriali e contabili su cui poggia l’illegalità diffusa. Solo che da queste parti l’illegalità prende connotazioni particolari - la mafia, appunto - e si articola per regole squisitamente «siciliane». E così accade che alcuni dirigenti ed impiegati della Calcestruzzi spa (fa capo all’Italcementi di Bergamo) ricoprano - almeno nelle conclusioni della magistratura di Caltanissetta - anche il ruolo di boss del territorio, intimamente legati ai vertici di Cosa nostra.

Per che fare? Semplice, nella risposta dei giudici: «Spremere soldi a palate, truccando la qualità e la quantità del prodotto offerto ai committenti, per finanziare la mafia». Il tutto mediante «sovrafatturazioni di prestazioni di servizio; sottofatturazioni del calcestruzzo prodotto», quindi «fornendo prodotto di qualità difforme dai capitaloti di appalto per la costruzione di opere pubbliche e private» e «acquisendo la materiale gestione di aziende fittiziamente intestate a terzi». In sostanza, dicono i magistrati, la gestione della produzione della Calcestruzzi spa era affidata ad alcuni personaggi che fornivano materiale scadente falsificando la documentazione e la contabilità. E perciò, sparse per l’Italia e per la Sicilia, ci sarebbero opere pubbliche che corrono rischi di instabilità per via del calcestruzzo «depotenziato». Il Tribunale di Gela, per esempio, e la «veloce» di Licata e ancora la Diga Foranea di Porto Isola a Gela, lo svincolo autostradale di Castelbuono e un lotto della Palermo-Messina. Era in programma anche un’intensa attività in vista dei lavori per la costruzione del Ponte di Messina e per questo si riponeva grande attenzione verso l’impianto di San Michele di Ganzeria. Anche questo, però, sfortunatamente era finito nel gorgo melmoso della poco edificante gestione di Francesco Librizzi, sospettato di collusione con gli amici degli amici e in particolare col capo Ciccio La Rocca. Un altro poco rassicurante gestore risulterebbe Giuseppe Laurino, indicato come «la testa» che governava, tra Gela e Riesi, la truffa mafiosa.

Ma i dubbi dei magistrati sulla «tenuta» delle opere non si limitano alla Sicilia. A sentire uno dei «collaboratori» (utilissime le dichiarazioni di Salvatore Paterna e Carlo Alberto Ferrauto, entrambi ex dipendenti e sospettati di mafia) che hanno aiutato gli investigatori a capire, il sistema non poteva sopravvivere senza la distrazione compiacente della sede centrale di Bergamo. E perciò i controlli saranno estesi ad una serie di lavori sparsi per l’Italia, per esempio alla Tav di Anagni dove - quando era in servizio Paterna - fu fornito un tipo di calcestruzzo(il RCK15) che richiedeva 270 Kg. di cemento per ogni m3 e in effetti ne conteneva 150 Kg. Ma i controlli dovranno essere «a sorpresa», perchè sembra che ai periti del Tribunale si tenda a fornire campioni astutamente selezionati. Nelle gallerie, per esempio, bisogna addentrarsi perchè agli estremi il calcestruzzo è «a posto», le colate taroccate stanno verso il centro.

La truffa poggiava, come hanno spiegato i due «pentiti», sull’esistenza di due diverse schermate del computer che, di volta in volta, fornivano una «ricetta» ad uso esterno (che certificava la buona qualità del prodotto) ed un’altra ad uso interno che serviva a calcolare il deficit di cemento, per poterlo poi giustificare nelle giacenze in magazzino, e l’eccesso di «additivi». A parere dei magistrati questo «patrimonio informatico» non poteva essere destinato ad uso esclusivo dei «locali». Si spiega così il decreto di sequestro valido per tutti gli stabilimenti del territorio nazionale. E, d’altra parte, che - sulle vicende siciliane - vi fosse un dibattito interno alla Italcementi è dimostrato dall’intensa attività telefonica di dipendenti e dirigenti, anche dopo una prima ondata di arresti, di licenziamnti e allontanamenti, qualche volta non difinitivi. Illuminante, in proposito, un colloquio tra Fausto Volante (responsabile per Sicilia e Calabria) e un padroncino che si riteneva discriminato dall’azienda e perciò minacciava: «Ve lo dico, geometra... Ve lo dico spassionatamente, se io vado via dalla Calcestruzzi succede una bomba, perchè... ma non in Sicilia, ma qua anche in Campania, perchè qua c’è una melma, c’è una corruzione...una corruzione tremenda... tremenda...».

Un ruolo ambiguo viene assegnato all’amministratore delegato Mario Colombini, già rappresentante legale della Calcestruzzi spa di Ravenna (Gruppo Ferruzzi). I giudici lo accusano di aver chiuso più di un occhio all’epoca della intestazione fittizia «sottoscritta da Volante e Ferraro (indiziato mafioso)» della cava di contrada Palladio. Questa convinzione deriva anche da una serie di intercettazioni telefoniche ed ambientali che confermano la consapevolezza di Colombini riguardo all’operazione. Il 31 luglio 2006, al telefono, addirittura «ammette di averla avallata», ma «sorprendentemente sostiene di non ricordare nemmeno più per quale motivo». Poi tradisce preoccupazione, come quando parlando con la moglie, trapela che ha ricevuto una riservata dalla Italcementi. «In particolare da tale Carlo (identificabile in Carlo Pesenti, chiosano i magistrati)».

Le mani sull’edilizia

di Alfio Caruso

Fu Vito Ciancimino a insegnare a picciotti e compari l’importanza del calcestruzzo, delle società edilizie e di quelle sbancamento terra. Servono per aggiudicarsi gli appalti, per far la cresta sui lavori, per ripulire il danaro proveniente dal traffico di droga. Il figlio del barbiere di Corleone, che non aveva fatto fortuna in America, nei suoi quattro anni da assessore pubblico rilascia circa 3000 licenze edilizie, e che sarà mai se l’80 per cento di esse è monopolizzato da un muratore, da un venditore di carbonella, da un guardiano di cantiere? Se poi vengono spazzate via le magnifiche ville liberty, compreso quel gioiello di Villa Deliella, abbattuta in una notte, è il prezzo da pagare al progresso.

Cinquant’anni dopo niente è cambiato. Gli appalti servono a ripulire circa 9 miliardi di euro l’anno. L’aggiunta di piccoli accorgimenti tattici, allungare il cemento armato né più né meno come avveniva con il vino, consente d’impinguare il business. Per un boss avere le mani dentro la calce rappresenta la migliore garanzia di partecipare alla spartizione della torta. Almeno così è stato fino al crollo del vertice mafioso, fino alla resipiscenza di una classe imprenditoriale per la quale Cosa Nostra non è più un buon affare. E in questo senso la Calcestruzzi Spa, azzerata ieri da un’inchiesta giudiziaria di lungo percorso, ha costituito nell’ultimo quarto di secolo una tipica storia di connivenze e complicità.

L’inizio è rappresentato da tre fratelli: Salvatore, Nino e Giuseppe Buscemi. Secondo le migliori tradizioni si erano spartiti i compiti: Giuseppe era medico, Nino faceva l’imprenditore, Salvatore guidava il mandamento di Passo di Rigano-Boccadifalco-Uditore. Alta mafia per tradizione familiare e consolidati rapporti con la Palermo delle professioni, delle banche, della nobiltà. Interessi così intrecciati da consentire a Nino Buscemi di conoscere in anticipo l’ordine di cattura che il 29 settembre 1984 lo mandava in galera assieme ad altri 365 mafiosi. L’urgenza di Nino non fu di sottrarre se stesso ai rigori della legge, bensì la sua società, la Calcestruzzi Palermo, che in una manciata di ore cambiò proprietà. Venne acquistata dalla Calcestruzzi Ravenna, stella di prima grandezza nel firmamento della Ferruzzi holding.

Il sodalizio tra le due dinastie divenne solido: Nino e Giuseppe Buscemi figuravano soci paritari dei romagnoli nella Finsavi. Quando rapirono la salma di Serafino Ferruzzi con richiesta di riscatto miliardario, i suoi famigliari bussarono ad alcune porte siciliane. Malgrado un’improvvisa fioritura di cadaveri nel Ravennate, la salma non fu restituita, ma nessuno pretese più quattrini. Nel ’97 i magistrati siciliani avanzarono il sospetto che le società off-shore legate ai Gardini-Ferruzzi avessero aiutato Cosa Nostra a ripulire centinaia di miliardi. Indimenticabile la riunione della primavera ’88 negli eleganti uffici della Calcestruzzi in via Mariano Stabile a Palermo: era il famoso tavolo degli appalti con il riconoscimento del 2 per cento alle «famiglie» incaricate di sovrintendere ai lavori e dello 0,80 a Riina. Nella cena di festeggiamento dell’accordo zu Totò pronunciò la triste frase: «Sono come lo Stato, anch’io riscuoto le tasse». Quella stessa sera, a poche centinaia di metri, la presunta società civile siciliana faceva la fila per ammirare i sessanta quadri attribuiti a Luciano Leggio. Le opere d’arte andarono via come il pane, prezzo minimo: quindici milioni.

Eppure la Calcestruzzi trovò nuovi padroni, continuò a vincere appalti, proseguì a incamerare profitti, a servire da schermo a intese che la procura di Caltanissetta giudica illecite. D’altronde l’importanza del mattone è dimostrata dal record di case abusive, circa 250 mila, detenuto dalla Sicilia. Da trent’anni pochi generosi combattono per salvare tesori quali l’Oasi del Simeto, la Valle dei Templi. Nel piano di riordino delle coste, benedetto da Cuffaro appena eletto, non rientrarono soltanto i pochissimi che avevano edificato sui terreni del demanio.

A Palermo Pizzo Sella sarebbe un incantevole angolo di verde se non fosse stato devastato da 193 mila metri cubi di cemento. A costruire centinaia di villette fu una società all’ombra di Michele Greco, il papa. Un sostituto procuratore con la faccia e i modi dell’antipatico, Alberto Di Pisa, ebbe l’esistenza frantumata alla vigilia di far luce sulle torbide connivenze. Da sindaco Leoluca Orlando Cascio ogni inverno prometteva che in estate le ruspe avrebbero fatto piazza pulita. In otto anni fu abbattuto un solo rudere. Nel 2002 il Comune rilevò Pizzo Sella per demolire le villette. Nel 2004 l’assessore alla Legalità, Michele Costa, figlio del procuratore ucciso nell’80, si dimise per l’impossibilità di ottemperare all’impegno. Politici, sindacalisti, professori universitari, architetti da un paio di anni si battono uniti per fare un pernacchio alle sentenze emesse dalla Cassazione, dal Tar, dal Consiglio di giustizia amministrativa.

ANSA

La Calcestruzzi spa in previsione della realizzazione del Ponte sullo Stretto aveva aperto a Messina uno stabilimento. Secondo quanto emerge dalle indagini, la societa’ di Bergamo era sicura che avrebbe fornito il calcestruzzo all’impresa chiamata a realizzare il ponte. Il particolare emerge dall’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta che ieri ha portato all’arresto dell’amministratore delegato della societa’ bergamasca, Mario Colombini. Il dichiarante Salvatore Paterna, ex dipendente dell’azienda, arrestato e condannato per mafia nei mesi scorsi, ha dichiarato ai pm che: ’’La Calcestruzzi Spa apri’ l’impianto di Messina in previsione della costruzione del ponte sulla stretto; del resto Impregilo ex Girola spa ha sempre lavorato con la Calcestruzzi’’. Paterna ha fatto capire agli inquirenti che la Calcestruzzi voleva me

Affari & Finanza

Cantiere Italia, i soldi e i sogni

di Adriano Bonafede

C’è di tutto e per tutti: autostrade, ponti, linee ferroviarie ad alta velocità, superstrade, persino dighe. Se si dovesse prendere alla lettera il programma enunciato da Berlusconi durante la campagna elettorale, l’Italia si dovrebbe trasformare, da Nord a Sud, in un immenso cantiere. Del resto i piani d’investimento ci sono, molte opere considerate fondamentali sono già state iniziate o sono sulla rampa di lancio. A questo punto basterebbe soltanto dare una spinta, mettere sul piatto più soldi e, soprattutto, velocizzare il tutto: proprio quello che i costruttori si aspettano adesso dal nuovo presidente del Consiglio e dal governo.

A dare un’occhiata alle opere in corso di realizzazione o di progettazione, balza agli occhi il gigantesco sforzo finanziario pensato, se non proprio messo in atto, dallo Stato e dalle sua varie articolazioni, dall’Anas alle Ferrovie, dalle regioni alle concessionarie autostradali. Ci sono in ballo decine di miliardi di euro per oltre 40 opere ritenute prioritarie che dovrebbero essere ultimate, secondo il "Primo programma delle infrastrutture strategiche", da qui al 20142016, con punte anche nel 2017.

Il tanto chiacchierato Ponte sullo Stretto, con una previsione di costi per 6,10 miliardi (ma il prezzo dell’acciaio è tanto lievitato in questi ultimi mesi da rendere questa cifra ormai solo indicativa), non è l’opera più faraonica in programma. Ad esempio, la ‘dorsale jonica, la SS106, ha un budget di costi stimati in 15,3 miliardi per 491 chilometri. C’è poi la tratta ferrovia ad alta velocità MilanoTorino, da ultimare entro il prossimo anno, il cui costo è stimato in 7,78 miliardi. Di poco inferiore l’impegno finanziario previsto per l’autostrada SalernoReggio Calabria, 7,57 miliardi.

Tra le opere in programma di cui si è parlato molto sui giornali in questi anni c’è il sistema Mo.Se. di dighe per bloccare l’acqua alta a Venezia (costo stimato 4,27 miliardi), da ultimare entro il 2012. E c’è la Pedemontana Lombarda, un lavoro che dovrebbe costare alla collettività 4,66 miliardi. L’alta velocità ferroviaria la fa da padrona: ci sono varie tratte (MilanoBologna, MilanoVerona, BolognaFirenze, MilanoGenova, tanto per citarne alcune) ciascuna delle quali vale intorno ai 5 miliardi. Il ‘corridoio 5’ europeo, ovvero La TorinoLione, ha un costo stimato in 4,7 miliardi.

Insomma, a guardare sulla carta l’Italia sembra tutta un cantiere. I colossi italiani del settore, a cominciare da Impregilo e Astaldi, e dalle imprese che fanno capo alla Lega Coop riunite nel Consorzio Ccc, hanno le mani in pasta un po’ ovunque. Le alleanze sono ‘ a geometria variabile’, e qualche volta le imprese che si contendono un’opera con una guerra all’ultimo prezzo si ritrovano a collaborare in altri frangenti.

Impregilo, ad esempio, ha vinto di recente la gara per la Pedemontana Veneta (un lavoro da sempre caldeggiato dalla Lega Nord) proprio contro le cooperative riunite nel Consorzio Ccc. Ma sul passante di Mestre le due imprese sono tranquillamente socie come se niente fosse. E sul Ponte di Messina, che ancora deve cominciare, c’è, insieme a Impregilo, anche la Cmc (una delle principali imprese della Lega Coop). Ancora il Ccc è in società al 50 per cento con Pizzarotti sulla Brebemi (autostrada BresciaBergamoMilano), mentre Pizzarotti è socio di Impregilo sulla Pedemontana Lombarda. Astaldi è socia di Impregilo sulla Pedemontana Lombarda ma sulla linea C della metropolitana di Roma è general contractor. Condotte privilegia molto il rapporto con Impregilo, di cui è socia nei raggruppamenti di imprese per due lotti della SalernoReggio Calabria e per il Ponte di Messina.

Dunque tutte le imprese sono posizionate, come i concorrenti prima di una gara, per la ripartenza delle opere pubbliche. Il governo Berlusconi deve ora reimpostare le priorità e, si sa, ha gusti diversi rispetto all’esecutivo Prodi. Intanto, per prima cosa, ha annunciato la ripresa del Ponte sullo Stretto. Cosa che ha fatto immensamente piacere al trio Salvatore LigrestiMarcellino Gaviofamiglia Benetton che insieme controllano Impregilo, l’impresa che aveva vinto la gara poi congelata dal governo di centro sinistra.

Il ritorno di Berlusconi ridisegna di fatto la mappa del potere nel mondo delle costruzioni. Ligresti e Gavio, non è un mistero, avevano salutato il possibile ritorno del Cavaliere al governo, già prima delle elezioni politiche, con grande entusiasmo. Il perché è presto detto: oltre alle grandi opere in cui Impregilo è coinvolta, i due hanno separatamente molti altri interessi da soddisfare. Ligresti ha, tramite Immobiliare Lombarda (controllata da FondiariaSai) una serie di investimenti da fare a Milano, che ora saranno moltiplicati per quattro dopo l’annuncio di Expo 2015. Un governo amico sarà di giovamento. La stessa cosa può dirsi per Marcellino Gavio, che tramite le sue concessionarie autostradali (la MilanoTorino in primo luogo) e le sue società di costruzione (tra cui la Grassetto che un tempo fu di Ligresti) potrà ricevere benefici dalla ‘sintonia’ con il nuovo governo.

Oggettivamente il mondo della cooperazione non sembra avvantaggiato dal governo Berlusconi, che nell’esperienza precedente tra il 2001 e il 2006 aumentò la tassazione su questo genere di imprese. Ma il nuovo clima bipartizan promette bene. Non sembra più il tempo per guerre di questo tipo. Anche perché le cooperative sono presenti massicciamente nelle opere infrastrutturali del centro nord. Condotte, invece, attraversa per conto suo un momento difficile: mentre era in corso un complesso piano di ristrutturazione, sono arrivati dei problemi sul fronte giudiziario. La Todini, guidata dalla spumeggiate Luisa Todini, è ora impegnata nella Variante di Valico FirenzeBologna, che sarà finita entro il 2011 per un costo stimato di 3,12 miliardi.

Astaldi è in questo momento, e come molte altre imprese di costruzione, più impegnata all’estero che in Italia: circa il 62 per cento del fatturato. Ma resta la speranza di una ripresa delle grandi opere nel nostro paese: infatti se si guarda il suo portafoglio lavori, si scopre che per il 60 per cento è ancora concentrato in Italia.

Questo però significa una cosa sola: all’estero i lavori si prendono e si portano a termine, in Italia si prendono ma sembrano non finire mai. «È questo il vero problema dell’Italia spiega Paolo Buzzetti, presidente dell’Ance le opere cominciano ma non si va avanti se non molto, troppo lentamente. Da una nostra indagine risulta che per gli appalti oltre 50 milioni di euro ci vogliono in media 67 anni per finire mentre in Gran Bretagna ne bastano 23. È il momento di dare una svolta. Le decisioni devono essere prese in tempi rapidi, e i progetti devono essere fatti meglio: sono quasi sempre sbagliati perché sono degli schemi di massima».

Insomma, i lavori pubblici italiani sono come delle ouvertures a cui non segue mai la sinfonia vera e propria. «C’è tanta carne al fuoco, ma il fuoco è basso», dice Piero Collina, presidente del Consorzio Ccc. «La storia dei nostri appalti è fatta di lungaggini burocratiche, di ricorsi su ricorsi, di continui stop and go dovuti anche alle resistenze locali».

I costruttori riconoscono che il primo Berlusconi, con la Legge Obbiettivo, ha fatto qualcosa per velocizzare le procedure. Ma non è bastato, e ora più che mai non basta più. «Su project financing (finanziamento privato dei progetti, NdR) dice Romano Galossi, membro di presidenza dell’Ancpl e sull’offerta economicamente più vantaggiosa vanno fatti degli immediati aggiustamenti».

Ma, oltre alle procedure e alle lungaggini da correggere, c’è anche un molto più semplice problema di soldi. Ci sono davvero? Ai costruttori corre un brivido su per la schiena: sarà che Berlusconi vuole rilanciare i grandi lavori, ma al momento ha stornato i fondi inizialmente destinati al Ponte sullo Stretto (e che il governo Prodi aveva poi assegnato ad altre infrastrutture nel Sud) a coprire lo sgravio Ici sulla prima casa. Insomma anche i costruttori vedono che le casse dello Stato sono messe male. Non c’è dubbio: c’è ancora uno scarto fra i sogni degli imprenditori e la realtà. Chissà se Berlusconi saprà davvero colmarlo.

la Repubblica

Superstrade, dighe e cantieri eterni ecco l´Italia delle opere incompiute

di Davide Carlucci



MILANO - La grande scritta "vergogna" sul cavalcavia è stata cancellata. Ma il completamento della superstrada della val Camonica non è ancora ripartito. Fermo dai tempi di tangentopoli: fu un ministro di quell´era, il bresciano Gianni Prandini, a volerla e fu una storia di mazzette a inguaiare la ditta costruttrice a bloccare i lavori. Era il 1992 e quattro anni dopo il sottosegretario Antonio Bargone previde la conclusione dell´opera nel 1998. Dieci anni dopo è successo di tutto - anche la morte di un camionista, nel 2005, per il crollo della rampa di un viadotto - ma di cantieri riaperti nel tratto tra Capodiponte e Forno Aglione neanche a parlarne. «La ripresa era annunciata prima per l´autunno, poi per la primavera - dice Guido Cenini, di Legambiente - l´estate è alle porte e siamo ancora con i camion e le auto incolonnate che passano davanti alle case, causando un inquinamento pazzesco. E dire che siamo partiti, negli anni Sessanta, con l´idea di un´autostrada che doveva collegare il Bresciano con la Germania... ».

Ma siamo in Italia, la nazione delle incompiute, imprese ambiziose che al dunque non arrivano mai. Tormentoni che si rinnovano a ogni campagna elettorale: la chiusura dell´anello ferroviario di Roma, era d´attualità già nel 1993, quando Francesco Rutelli si candidò per la prima volta a sindaco ed è tornata a esserlo quest´anno. Progetti immaginifici, come la "strada dei due mari": dovrebbe collegare il Tirreno all´Adriatico ma si riduce a rari brandelli di strada a quattro corsie tra Fano e Grosseto. Di eterni cantieri è piena la Calabria, dalla mai abbastanza vituperata (dagli automobilisti) Salerno-Reggio Calabria, alla statale 106 che porta a Taranto lungo lo Ionio. Un monumento allo spreco è la diga sul Menta, pensata nel 1979 per dare acqua a Reggio, lavori iniziati nel 1985, costi sestuplicati rispetto al progetto originario, completamento previsto nel 2011 e tutti che ancora si chiedano se serva davvero. Asciutto anche l´invaso del Pappadai, in Puglia, in costruzione dagli anni ‘80, costato già 400 milioni di euro. Il primato però è della Sicilia: le opere interrotte risultano 168 su un totale di 357 censite in tutt´Italia. E solo a Giarre, se ne contano ben 12, dalla piscina olimpionica al teatro comunale.

Ovunque va lentissima l´alta velocità ferroviaria: non solo in val di Susa, ma anche tra Milano e Novara, tra Firenze e Bologna (con l´incognita del sottoattraversamento del capoluogo toscano) e tra Genova e Milano, dove un´inchiesta giudiziaria terminata con una prescrizione - erano coinvolti il senatore Pdl Luigi Grillo e il costruttore Marcellino Gavio - ha contribuito ad allungare i tempi. Sorte comune a tantissime altre opere, come la linea 6 della metropolitana di Napoli, ferma anch´essa dai tempi di Tangentopoli e inaugurata solo in parte. Ma a Napoli sono fermi da tempo immemore anche la bonifica dell´area ex Italsider di Bagnoli, la cittadella della polizia e l´ospedale del mare nel quartiere Ponticelli-San Giovanni. L´elenco delle strutture sanitarie o assistenziali mai finite - o in grave ritardo nei lavori, come l´ospedale di Cona, inaugurato nel 1990 da papa Giovanni Paolo II, e l´orfanotrofio di Vercelli, inaugurato dopo 33 anni - in Italia, è lunghissimo. E tra le opere lasciate a metà c´è anche un borgo: Consonno, nel Comasco, doveva essere una specie di Disneyland. Ora è un paese fantasma.

la Repubblica

L’ospedale-scandalo in costruzione da 50 anni

di Giuseppe Caporale

È un palazzo di cinque piani in costruzione dal 1958 ma che non è mai stato aperto. Lo Stato, per questo ospedale, ha già speso oltre venti milioni di euro. Non solo, ogni anno l´Azienda sanitaria locale investe altri soldi per adeguare la struttura ai cambiamenti delle normative, per sostituire gli impianti che con il tempo, nel corso di questi 50 anni, si sono ovviamente deteriorati.

Eppure, l´ospedale Padre Pio (questo il nome voluto dal sindaco Giovanni Palumbo nel 1997 con tanto di cerimonia solenne) non è mai entrato in funzione. Vuoi per i parametri dei piani sanitari regionali, vuoi per gli eterni ritardi nei lavori. Persino ora, la Asl e la Regione continuano a stanziare fondi: da pochi giorni hanno deliberato altri quattro milioni di euro per l´ulteriore messa a norma. La quarta. Il nuovo sindaco in scadenza di mandato, Donato Agostinelli (Udeur), promette che questa sarà la volta buona.

Si muore maledicendo l´ospedale della vergogna, a San Bartolomeo in Galdo, nel beneventano. Qui, nella valle del Fortore, si vive nel terrore di aver bisogno dello Stato, di aver bisogno dell´ospedale. Quando scatta l´emergenza è un terno al lotto. Una corsa contro il tempo che quasi nessuno riesce a vincere. Troppo lontano il 118 (impiega almeno 30 minuti solo per arrivare), troppo lontani gli ospedali (Lucera a 45 minuti, Campobasso a 50 minuti, Benevento a 90 minuti di distanza). E così, lungo il tragitto, si muore. Per un infarto lieve o per un incidente che altrove sarebbe banale.

Ma l´assurdo di questa vicenda è che qui l´ospedale c´è, eccome.

La prima pietra fu posizionata nel 1962 dall´allora sindaco Aldo Gabriele. I lavori furono ultimati intorno alla metà degli anni settanta, dopo una prima catena di ritardi, dovuti anche ad un terremoto. I nostalgici ricordano ancora la prima clamorosa protesta, quella del "comitato di agitazione permanente", che nel 1980 inviò oltre mille cartoline all´allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, per chiedere l´immediata apertura della struttura. Seguì un corteo con le bandiere di tanti partiti di allora: pci, dc, psi. Poi più nulla. Tanti padrini politici, tante promesse, ma la struttura non è mai entrata in funzione. Una settimana fa l´ultimo decesso per colpa dell´ospedale della vergogna (una mamma con tre figli piccoli, morta per un problema cardiaco). E questa volta il grido di dolore e rabbia, è arrivato dal parroco del paese, don Franco Iampietro. «Basta… Sono stanco di accompagnare al cimitero persone che hanno l´unica colpa di essere nate qui», ha scritto il parroco in una lettera aperta alle istituzioni «l´ospedale mai aperto è un vuoto monumento alla disonestà e all´incapacità di chi ne è stato, e ne è l´artefice. Cosa deve fare questa gente per farsi ascoltare? Deve organizzare una rivolta?». A rispondere, l´attuale sindaco Agostinelli. «Apriremo nel 2009 ma sarà un country hospital: ci saranno due ambulanze per l´emergenza, guardia medica, e ottanta posti di riabilitazione gestiti da un privato». Ma non ci sarà il pronto soccorso. E così, lo Stato prima ha impiegato 50 anni per costruire un ospedale, e ora che potrebbe entrare in funzione, ha deciso che non serve più. Va riconvertito, non sarebbe economico. E nella valle del Fortore si continua a morire, maledicendo quel monumento allo spreco e alla vergogna.

Milano Se il dialogo sulla legge elettorale tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi ha frenato di fronte alla seconda bozza Bianco e poi si è fermato al precipitare della crisi di governo che pure ha provocato, in quel di Segrate il Partito democratico e Forza Italia vanno a braccetto da un bel po'. Anzi adesso addirittura si tengono per mano.

Arrivare al grande idillio è stato semplice: da un lato il sindaco forzista Adriano Alessandrini aveva da tempo intenzione di smarcarsi dai riottosi alleati, in particolare la Lega nord, che aveva mal digerito l'approvazione da parte della giunta dell'edificazione di un nuovo centro commerciale; dall'altro il neopartito veltroniano non ha mai nascosto il fastidio di un'alleanza con i partiti della sinistra alternativa, tanto che a fine novembre sul blog del Partito democratico segratese è uscito un intervento del coordinatore del Pd per l'area Milano sud Augusto Schieppati dal più che mai esplicito titolo «Sinistra radicale nun te reggae più».

E allora pochi giorni fa, il 16 gennaio, i gruppi consiliari di Forza Italia, Alleanza nazionale e Partito democratico hanno sottoscritto un documento, un accordo di legislatura, in base al quale le tre forze politiche si impegnano a lavorare insieme. Dando totale fiducia al sindaco forzista, visto che nel preambolo si legge che le forze politiche sottoscrittrici «constatano che non esistono rilevanti differenze per quanto riguarda le impostazioni programmatiche relative alle grandi tematiche che riguardano la città», «rilevano che occorre il formarsi di una collaborazione pragmatica e non ideologica tra le forze politiche responsabili presenti in consiglio comunale» e, dulcis in fundo, «concordano nel superare le logiche di schieramento e di condividere il programma del sindaco, opportunamente aggiornato e arricchito con alcune istanze e priorità portate avanti dai sottoscrittori e in particolare dal Partito democratico». Et voilà, l'inciucio è servito. Certo, in cambio di questa sua «genuflessione» al sindaco, il Partito democratico ottiene la possibilità, insieme a Forza Italia e An, di «concordare la definizione di una nuova compagine di giunta, al fine di attuare le indicazioni programmatiche sopra indicate». Che, tradotto dal politichese, vuol dire che il Pd avrà un assessore, e i bene informati dicono sia proprio quello Schieppati che già da tempo «nun reggae più» la sinistra alternativa.

La «grosse coalition» in salsa lombarda lascia tuttavia strascichi e malumori sia a destra che a sinistra. La Lega ha già fatto sapere che se la firma del protocollo sarà il primo passo per far fuori i lumbard dalla giunta, allora il Carroccio metterà in discussione tutte le realtà della provincia milanese dove il centrodestra governa con l'aiuto della lega. E da sinistra arrivano strali contro «l'inaccettabile inciucio» dalla coordinatrice provinciale milanese di Sinistra democratica Chiara Cremonesi, che accusa il Pd di «aver tradito il patto con gli elettori del centrosinistra», e dai Verdi regionali, che parlano di «sciagurato accordo per la condivisione e la spartizione del potere e della speculazione edilizia per cementificare la cittadina».

Se si pensa che la Lombardia è stata in tempi passati anticipatrice di quanto sarebbe accaduto poi a livello nazionale (senza andare a Depretis e al trasformismo basta pensare al craxismo degli anni Ottanta e all'accordo forzista con la Lega nel decennio successivo), è facile immaginare cosa potrebbe accadere da qui a poco in Italia. Del resto, il luogo è anche altamente simbolico: Segrate, cittadina di oltre 30mila abitanti nell'hinterland milanese, ha visto nascere Canale 5, Publitalia e l'impero mediatico del Cavaliere. E, sulla strada Rivoltana che tange la cittadina, giusto lo scorso anno è stata rimessa a nuovo la sede storica della Mondadori, che Berlusconi si è conquistato al termine di una lunga battaglia legale nota alle cronache più giudiziarie che culturali come la guerra di Segrate. In più, in un paesino vicino, c'è un parco giochi chiamato «Minitalia»: i bambini possono vedere tutte le bellezze del nostro paese in miniatura. E i loro genitori possono ammirare in consiglio comunale il «piccolo inciucio», in attesa che prenda forma quello grande, a Roma.

Nota: si può anche perdonare, a questo interessante articolo tutto sommato più attento alla politica politicante che al territorio su cui si esercita, lo svarione di collocare il parco a tema Minitalia "in un paesino vicino" a Segrate. Per la cronaca e la coerenza con i temi di questo sito, precisiamo che Capriate si trova a diversi svincoli autostradali di distanza, oltre il fiume Adda e in provincia di Bergamo. Per chi vuole andarci a fare inciuci, quasi di fronte al casello autostradale e al parco a tema c'è il comodissimo "Gugliel Motel" (f.b.)

Il Gazzettino di Venezia

I costruttori veneti: aboliamo le Province. All'assemblea regionale appelli per una nuova organizzazione del territorio: «Ridurre i livelli decisionali»

Dàgli alle Province. Confindustria, Ance (l'associazione dei costruttori edili) e sindaci del Veneto sono compatti nel chiedere una riforma profonda del sistema di amministrazione. Il sindaco di Venezia Massimo Cacciari durante l'assemblea regionale dell'Ance ieri al terminal marittimo ha colto il nocciolo della questione: «Non ha più senso parlare di "città"; viviamo in un territorio policentrico dove Treviso, Venezia, Padova e Vicenza, fino a Belluno, Verona e Rovigo sono quartieri di una stessa metropoli grande un terzo di Shanghai. Davanti a trasformazioni epocali le strutture istituzionali non possono restare quelle di duecento anni fa: deve cambiare anche il punto di vista amministrativo perché altrimenti sarà impossibile una buona amministrazione».

Il dibattito con i sindaci dei capoluoghi (assenti solo quelli di Padova e Vicenza, Zanonato e Variati) ha indicato le priorità da condividere con i costruttori: realizzare infrastrutture necessarie a un diverso e più attuale sviluppo urbanistico, recuperare gli immobili in disuso nei centri cittadini, migliorare la qualità coltivando "l'economia del bello" e sconfiggere la "sindrome del cemento" avviando «una nuova fase del fare e non solo del conservare». Tutto ciò si può realizzare solo ampliando il coordinamento tra le varie città senza per questo privarle della propria identità.

«Abbiamo un bisogno terribile di infrastrutture - ha incalzato il presidente dell'Ance veneta, Stefano Pelliciari -: servono per se stesse, ma anche per lo sviluppo del territorio e la pianificazione territoriale. Siamo indietro di tantissimi anni: almeno una ventina. Il piano regionale di sviluppo dovrebbe servire proprio a pianificare ed è importantissimo il grosso sforzo della Regione. Ma ci auguriamo che abbia un seguito concreto, con la realizzazione di infrastrutture: dalle strade, alle ferrovie, ma anche alle reti di collegamento dati, agli impianti di smaltimento dei rifiuti e di produzione di energia». L'Ance ha rinnovato un'accordo di collaborazione con Confindustria veneta, rafforzandolo anche dal punto di vista economico. Il primo obbiettivo è ottimizzare le competenze: «All'Ance spetteranno soprattutto le questioni relative a urbanistica e territorio». Il secondo, avere una sola voce nei rapporti con la politica. Tasto dolente, sul quale è ritornato il presidente di Confindustria veneto, Andrea Riello, evidenziando che nell'assemblea di ieri il confronto è stato fatto «con i sindaci e non con i presidenti di provincia: abbiamo anticipato ciò che tutti si augurano sia il futuro. Bisogna ridurre i livelli decisionali». Abolendo, appunto, le Province.

A. G.

La Repubblica. Milano

Lombardia a statuto speciale

di Andrea Montanari

La Lombardia a statuto speciale per l´Expo del 2015. Sarebbe questa la richiesta forte che Roberto Formigoni invierà oggi al nuovo governo, nel giorno del via libera del consiglio regionale al nuovo statuto della Lombardia. Un lavoro bipartisan che non finisce certo con l´approvazione della nuova carta regionale che pur definisce la Lombardia «come regione autonoma». Semmai un nuovo un punto di partenza. Più autonomia per sfruttare a pieno le potenzialità dell´Esposizione universale, la realizzazione delle infrastrutture e per cogliere tutte le opportunità che si apriranno per il sistema economico e territoriale lombardo. Due le priorità tra le altre. Il federalismo fiscale e differenziato entro l´estate e la ripresa della trattativa interrotta bruscamente con la fine anticipata della scorsa legislatura sulle 12 materie sulle quali il Pirellone chiede allo Stato di avere la competenza esclusiva o concorrente. Dall´ambiente, ai beni culturali, dall´organizzazione sanitaria, alla comunicazione, alla protezione civile, alla previdenza, alle infrastrutture, alla ricerca, innovazione e università, alla cooperazione transfrontaliera fino alle casse di risparmio rurali e regionali. Concentrandosi soprattutto su quelle che rappresentano la concretizzazione del federalismo. Come le infrastrutture e l´istruzione.

«Una giornata storica» la definisce già il presidente del consiglio regionale leghista Ettore Albertoni. Un lavoro condiviso anche dal Partito democratico durato mesi, che pone la Lombardia all´avanguardia e non solo in Italia. Il testo entrerà in vigore a metà settembre, salvo entro 30 giorni 300mila cittadini chiedano il referendum. «Con questo testo - spiega Giuseppe Adamoli, presidente della Commissione statuto del Pd - la Lombardia è in grado di esercitare non solo le funzioni standard delle altre regioni, ma anche quelle più ampie che attendiamo che il Parlamento e il governo ci assegnino nel più breve tempo possibile».

Sessantacinque articoli, che contrariamente ad altre regioni lasciano invariato a 80 il numero dei consiglieri, che però dovranno rappresentare tutte le province. Viene introdotta la mozione di sfiducia contro il governatore e la censura verso gli assessori. Riconosciute e garantite anche le pari opportunità tra uomini e donne in ogni campo. Tra i principi, il nuovo Statuto riconosce la persona «come fondamento della comunità regionale», si affermano «il diritto alla vita in ogni sua fase», la famiglia, il lavoro e l´impresa. Si riconoscono la «chiesa cattolica e le altre confessioni religiose», si perseguono tradizioni cristiane e civili e «la valorizzazione delle identità storiche e linguistiche presenti sul territorio».

L´obiettivo finale del Pirellone è quello di arrivare a una nuova concezione dello Stato, che riconosca nel cittadino il vero titolare della sua azione e dia pari dignità a tutte le componenti. Un traguardo reso difficile dai vincoli degli articoli 116 e 117 della Costituzione.

Un traguardo ambizioso, che è stato preceduto ieri da una giornata in cui la maggioranza ha ancora una volta scricchiolato sull´approvazione del piano cave dell´assessore lombardo all´Ambiente Marco Pagnoncelli. Dopo essere stato falcidiato da sette franchi tiratori leghisti, ben due riunioni dei capi gruppo e una della maggioranza durata oltre un´ora è stato nuovamente aggiornato, dopo che è mancato per ben due volte il numero legale sull´emendamento che chiedeva lo stralcio della cava di Caravaggio. Un progetto che non piace ai sindaci del cremasco e della bergamasca che temono danni al sistema idrogeologico, che hanno già annunciato ricorsi e non piace nemmeno a tutto il centrosinistra. «Formigoni farebbe bene a presentarsi oggi in aula con un nuovo assessore all´Ambiente» fa notare a fine giornata il verde bergamasco Marcello Saponaro.

Nell'icona: il Sacco di Roma in una miniatura francese del XV secolo (da Wikipedia)

A quaranta’anni dal terremoto del Belice (14 gennaio 1968 – 14 gennaio 2008) la ricostruzione continua a inghiottire risorse finanziarie e la mancanza di lavoro alimenta l’emigrazione: l’ultima finanziaria dello stato ha destinato alla ricostruzione 50 milioni di euro per la realizzazione di opere pubbliche e 100 milioni di euro per l’edilizia residenziale privata.

La storia infinita della ricostruzione del Belice è emblematica del fallimento delle politiche attuate dallo Stato a favore del Mezzogiorno e di quelle non meno fallimentari messe in atto dalla Regione Siciliana. Ma è anche emblematica del fallimento delle proposte di molti urbanisti e architetti, siciliani e non, che con maggiore o minore buona fede e con diversi gradi di coinvolgimento, si sono cimentati nella ricostruzione, disegnando piani territoriali, ideando nuove città, progettando architetture.

Riteniamo di avere individuato alcune circostanze e responsabilità che hanno condizionato negativamente la vicenda della ricostruzione. Esse riguardano la demolizione sistematica subito dopo il terremoto di un gran numero di edifici di interesse storico ed artistico, portata a compimento con troppa fretta per motivi di presunta pericolosità; la miopia dello Stato nell’impostare la politica di sviluppo del Belice con scelte verticistiche e modelli astratti; la voracità della Regione Siciliana nell’ampliare a dismisura le aree terremotate con la conseguente dispersione dei finanziamenti statali; il ricorso esagerato al trasferimento degli insediamenti in aree spesso molto lontane dalle città distrutte o danneggiate; l’utilizzazione di modelli urbanistici sovradimensionati ed estranei alla cultura insediativa locale per il disegno dei nuovi centri urbani; la megalomania e l’autoreferenzialità diffusa in molti degli architetti coinvolti, convinti che la qualità delle loro opere avrebbe creato magicamente spazi e ambienti attraenti e vitali; il meccanismo perverso di finanziamento e di esecuzione dei lavori pubblici, causa di tempi biblici di attuazione degli interventi; la leggerezza di alcuni sindaci, soddisfatti comunque di aprire qualsiasi cantiere per qualsiasi progetto.

Dopo il terremoto, le proposte di assetto territoriale della Sicilia occidentale furono orientate dall'analisi dei processi di spopolamento verificatisi nei centri più piccoli a favore dei centri medi come Sciacca e Castelvetrano. Si propose pertanto di aggregare gli insediamenti in conurbazioni di media dimensione, disposte lungo direttrici di sviluppo, ritenendo in tal modo di razionalizzare la dotazione di infrastrutture e attrezzature in funzione di bacini di utenza di ampiezza maggiore.

Lo sviluppo economico doveva essere assicurato da previsioni di insediamenti industriali, terziari, residenziali e turistici e da una grandiosa infrastrutturazione viaria. La risorsa dell'agricoltura, una delle poche presenti e radicate che poteva essere concretamente potenziata, fu del tutto trascurata: la soluzione dei problemi dell'irrigazione e la costruzione delle dighe sul Belice, di cui si era cominciato a parlare nel 1929, ripetutamente dibattuti e tenacemente rivendicati dalle forze popolari, non furono minimamente presi in considerazione. Tra le previsioni più cervellotiche anche quella di trasformare in porto industriale il porto peschereccio di Mazara del Vallo.

L’auspicato sviluppo industriale e turistico non si è realizzato, ma i criteri posti a base della pianificazione del territorio e della progettazione urbanistica delle nuove città hanno indotto un gigantesco spreco di suolo, foriero di sontuosi indennizzi per espropri sconfinati, hanno ipotizzato ciclopiche reti infrastrutturali e proposto attrezzature generalmente sovradimensionate e spesso destinate ad attività improbabili.

La ricostruzione è stata anche una straordinaria e tragica occasione che ha generato una mole sterminata di commesse pubbliche per urbanisti, architetti, ingegneri, in un arco temporale molto ampio e ha prodotto alcuni risultati dovuti alle prestazioni dei più noti progettisti italiani nel campo dell’urbanistica e dell’architettura (Giuseppe e Alberto Samonà, Ludovico Quaroni, Vittorio Gregotti, Tommaso Giura Longo, Carlo Melograni, Franco Berlanda, Franco Purini e tanti altri) che meriterebbero ulteriori analisi.

Ci sembra che l'errore più diffuso e praticato dalla committenza politica e dai progettisti, in tutte le fasi della ricostruzione, sia stato quello di proporre soluzioni urbanistiche e progetti architettonici senza porsi minimamente il problema della conoscenza della realtà sociale, economica e perfino fisica del territorio, e senza avvertire la benché minima necessità di formulare risposte che tenessero nella dovuta considerazione i problemi e le aspettative delle comunità locali. Anche se con motivazioni diverse si trattò di un atteggiamento comune, in momenti successivi, sia agli urbanisti che agli architetti, ai quali per altro la committenza pubblica non indicava percorsi e metodi più impegnativi.

Tra le infrastrutture viarie previste sono state realizzate solamente l’autostrada Palermo-Trapani (compreso il tratto tra Palermo e l’aeroporto), l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo e la strada a scorrimento veloce Palermo-Sciacca. Quest’ultima, completata alla fine degli anni ’90, impiegando per la sorveglianza nei cantieri i soldati dell’operazione Vespri Siciliani, sembra l’opera più utile di tutta la ricostruzione perhè ha consentito al territorio del Belice di uscire da una condizione di oggettivo isolamento.

Oggi, nonostante gli scempi del terremoto e quelli provocati dall’opera dell’uomo, nonostante la perdurante presenza di ruderi e rovine, la valle sembra essere risorta come territorio agricolo produttivo intensamente coltivato a vigneti e oliveti, attento alle colture biologiche e costellato da insediamenti agrituristici. Altri segnali positivi vengono dalla nuova generazione di amministratori locali, che affrontano con coraggio e consapevolezza la gestione di un’eredità difficile rappresentata dai nuovi insediamenti con migliaia di case vuote, da centri storici ridotti a siti archeologici, da opere d’arte arrugginite, da ettari di suoli cementificati che costituivano le basi delle baraccopoli.

Comincia finalmente a emergere un progetto complessivo di sviluppo locale che cerca di riannodare i fili con le radici culturali delle comunità; l’apertura di un museo nel castello Grifeo, a Partanna, avvenuta nel dicembre 2007, è una significativa testimonianza di questo processo. Il superamento dell’assistenzialismo e l’avvio di un nuovo protagonismo produttivo sono leggibili anche nella realizzazione di un parco eolico che alimenterà le entrate dei comuni interessati e le inziative nel campo della raccoltà differenziata dei rifiuti, accolte dalla popolazione con favore e spirito di collaborazione.

Palermo 16 gennaio 2008

postilla

Il meccanismo del progettista o ahimé anche pianificatore "paracadutato" sul territorio locale, che opera senza particolari rapporti di scambio e interazione con il contesto sociale, introducendo modelli e metodi vuoi standardizzati, vuoi concepiti e sperimentati altrove, non è certo limitato all'esperienza della ricostruzione del Belice. Basta del resto scorrere la pubblicistica specializzata dell'epoca per verificarne anche una base, per così dire, "teorica", oltre che nelle pratiche professionali e decisionali. Vicende diverse, hanno modo di svilupparsi soprattutto là dove le reti sociali, economiche, di rappresentanza locale, hanno forza e volontà per imporsi e instaurare un conflitto produttivo con questo genere di "governo del territorio".

Solo per fare un esempio quasi contemporaneo all'inizio delle vicende della valle del Belice, qui su eddyburg nelle Pagine di Storia si vedano i primi testi relativi alla formazione del Parco del Ticino, dove il ceto medio lombardo emergente inizia ad esprimere in forme moderne questo tipo di conflittualità (f.b.),

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