Quando un governo è intimamente orientato da idee di destra, quale che sia la sua auto-etichettatura politica, in tema di politiche rivolte a peggiorare le condizioni di lavoro ci si può aspettare veramente di tutto.
In Francia sono state appena eliminate di fatto le 35 ore introdotte dieci anni fa dal governo socialista di Jospin come orario normale ed effettivo del lavoro settimanale. I governi Blair e Brown hanno fatto di tutto – riuscendoci, alla fine, pochi mesi fa – per far approvare dai ministri degli Affari sociali europei una norma che permette alle imprese di costringere i lavoratori a seguire orari compresi tra le 60 e le 78 ore la settimana. L’ultima trovata del governo Berlusconi batte però ogni precedente, quanto a disprezzo per le persone che si guadagnano da vivere alle dipendenze di un’impresa e adozione esplicita di misure che tolgono ad esse ogni possibilità di difesa, mentre introducono tra i lavoratori stessi forme clamorose di ingiustizia sociale.
Il nocciolo della trovata è noto. Finora un lavoratore titolare di un contratto a termine, come dipendente effettivo o come finto autonomo (è il caso dei lavoratori a progetto), il quale riteneva che il contratto medesimo fosse viziato da qualche irregolarità poteva far ricorso al giudice del lavoro. Se quest’ultimo stabiliva che il contratto era effettivamente irregolare, una condizione che sicuramente sussiste, tra gli altri, proprio per decine di migliaia di lavoratori a progetto, poteva imporre all’impresa di trasformare il rapporto di lavoro precario in un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Ora non più. Il governo intende togliere al giudice simile facoltà. Salvo ripensamenti dell’ultima ora, un emendamento della finanziaria stabilisce infatti che l’impresa colta in fallo è tenuta al massimo a versare al soggetto alcune mensilità di stipendio, a titolo di indennizzo. Né ha l’obbligo di rinnovare almeno il contratto a termine. Le conseguenze a carico dei lavoratori interessati sarebbero esilaranti come il famoso Comma 22 (se vuoi essere esonerato dalle missioni pericolose devi essere dichiarato pazzo, ma nessuno può essere dichiarato tale se chiede l’esonero) se non fossero drammatiche.
Anziché passare da una condizione di precarietà lavorativa ed esistenziale alla modesta sicurezza che offre oggi un contratto a tempo indeterminato, la persona che protesta per le irregolarità che subisce rischia di perdere pure il contratto a termine.
Da parte loro le imprese non tarderanno ad approfittare della nuova normativa. Dinanzi alla prospettiva di perdere anche il posto da precario, pochi lavoratori oseranno rivolgersi al giudice, reso ormai impotente dal nuovo dispositivo. Territori sterminati si aprono quindi per la moltiplicazione dei contratti a termine, quasi non bastassero quelli che già impoveriscono la vita di alcuni milioni di persone. Intanto si inasprirà il conflitto tra chi ha un lavoro stabile, e teme sopra ogni altra cosa di finire catapultato nella massa di coloro che per decenni un lavoro stabile non sanno nemmeno che cosa sia.
Si dice che la trovata di togliere potere ai giudici del lavoro, annerendo al tempo stesso le prospettive di lavoro e di vita di tanti precari, sia motivata dal fatto che migliaia di lavoratori delle Poste che hanno un contratto a termine hanno fatto causa all’azienda. Se il motivo fosse davvero questo, la trovata in parola non solo apparirebbe ancora più meschina di quanto già non sia. Sarebbe anche rivelatrice di che cosa debbono attendersi i lavoratori italiani per quanto riguarda le intenzioni già annunciate dal governo di procedere a ulteriori riforme del mercato del lavoro. Si parte da situazioni specifiche, che magari fanno problema ma richiederebbero soluzioni altrettanto specifiche, per ridurre all’impotenza e al silenzio la massa dei lavoratori dipendenti.
La forma della Repubblica cambia nell'aula del senato alle 20 in punto, 171 sì 128 no e 6 astensioni al lodo Alfano che rende Silvio Berlusconi immune dal virus della giustizia. Lo spettro del Sovrano Assoluto si materializza, rigurgito di premodernità che scava la democrazia postmoderna. Ma è di prima mattina, ore 10.30, seduta appena iniziata, che entra in scena l'intendenza, addetta alla divisione ideologia. La guida Gaetano Quagliariello, professione storico, senatore da due legislature, vocazione intellettuale organico. Non nega, non sdrammatizza, non derubrica: rivendica, «a testa alta». Altro che interessi personali del premier, dice: il lodo rende uno storico servigio al paese.
Il paese, argomenta, soffre da sempre di una malattia, che si chiama «illegittimità del potere politico» e si manifesta nel fatto che l'esercizio del potere viene vissuto come un'usurpazione, fino a che il potente di turno non dà segni di cedimento e diviene oggetto di spietata crudeltà popolare. Con scientificità, diciamo, opinabile lo storico cita vittime illustri, da De Gasperi a Fanfani, da Moro a Craxi; con furbizia da guitto si annette l'idea dell'autonomia della politica di Togliatti, perché risalti di più l'ignavia dei suoi eredi che a un certo punto presero a considerare la magistratura «una casamatta gramsciana da conquistare per derivarne il potere sullo stato». Poi arriva al punto: dopo l'89, la storia d'Italia è storia del doppio conflitto fra potere politico e potere giudiziario, e fra giudici militanti e giudici «servitori (o servi?) dello stato». Sì che tre vittorie elettorali non sono bastate a togliere ai giudici il vizio di provare a delegittimare Berlusconi. È tempo di voltare pagina: si sappia d'ora in poi «che un risultato elettorale è definitivo fino alla successiva elezione», perché chi è legittimato dal popolo deve poter fare quello che vuole senza sottostare a legge alcuna. E l'opposizione ringrazi, perché il lodo le dà la storica occasione di liberarsi da quella «sindrome di superiorità morale» che un altro storico, com'è noto, le rimprovera un giorno sì e l'altro pure dalle colonne di un grande quotidiano.
Applausi. L'intellettuale organico ha svolto bene il suo compito. Ha preso i fatti e li ha messi a testa in giù e piedi in aria, come si conviene a una buona ideologia. Ha preso le carte e le ha mischiate col trucco, come si conviene a un mediocre illusionista. Ha scambiato lo storico deficit di legalità che affligge in Italia potere politico, potere economico e società civile e l'ha ribaltato in un deficit di legittimità. Ha preso l'equilibrio fra i poteri, che in Costituzione vincola il principio della legittimità politica al principio della legalità, e l'ha trasformato in «due legittimità concorrenti, quella dell'autorità giudiziaria e quella che deriva dalla sovranità popolare», rivoltando la tragedia in farsa. La tragedia, per dirla con le parole di Gustavo Zagrebelsky, è il rischio assai prossimo che lo scarto che si sta spalancando tra legalità e legittimità si trasformi nel conflitto insanabile «tra una legittimità illegale e una legalità illegittima». La farsa è il banale quadretto sempreverde di Silvio Berlusconi rincorso da frotte di toghe rosse.
Da ieri però c'è anche una farsa che può rivoltarsi in tragedia. Finora troppo pop, troppo cheap, troppo naïf, Silvio Berlusconi ha capito che gli serve un apparato ideologico, un pennacchio intellettuale, una rilettura della storia nazionale adatta allo scopo. E' l'ultima casamatta da espugnare all'egemonia che fu della sinistra. Lo spettro della sinistra ci rifletta e riemerga anch'esso da dov'è nascosto. È ora di ritrovare quantomeno una propria versione dei fatti e dei misfatti.
ROMA - Meno personale, buste-paga più leggere, chiusura di sedi locali. E soprattutto: soppressione degli incentivi sullo stipendio legati alla lotta all´evasione fiscale. Sono questi gli effetti della manovra d´estate che rischiano di dare un duro colpo al morale degli uomini impegnati nella caccia a chi fa il furbo con il fisco: a pagare il dazio dei severi tagli alla spesa pubblica sono in prima linea i 35.662 dipendenti dell´Agenzia delle entrate, tra di loro la schiera di «007» che è stata protagonista nei mesi scorsi dei casi legati a Valentino Rossi, Giancarlo Fisichella e Fabio Capello. Una vera e propria categoria di tecnici, cui si aggiungono le competenze dei dipendenti delle Dogane e dell´Agenzia per il territorio. Su tutti costoro cadrà la scure di Tremonti: e domani scenderanno in Piazza Montecitorio per protestare. «Tagliare le risorse dei lavoratori delle agenzie fiscali equivale ad indebolire la lotta contro l´evasione fiscale», dice il segretario della Confsal-Salvi, Sebastiano Callipo. «Da una parte ci chiedono di incentivare i controlli fiscali, dall´altra ci tagliano le risorse», spiega Giovanni Serio segretario della Fp-Cgil.
E i tagli ci sono. A partire dal quello noto come «comma 165»: fu introdotto nel 2003 dallo stesso governo di centrodestra che ora lo cancella: in pratica si stabilisce che una percentuale delle risorse recuperate dall´evasione fiscale ed effettivamente riscosse, vadano direttamente nelle buste paga dei dipendenti delle Agenzie fiscali e del ministero dell´Economia. Senz´altro un incentivo e comunque un modo di legare la retribuzione ad una variabile concreta. In tutto, ogni anno, arrivano circa 330 milioni che significano per il 2007 circa 3.900 euro lordi in media annua per dipendente. La manovra d´estate riduce del 10 per cento la somma del 2007 e la spalma anche sulla Guardia di Finanza: con l´effetto che ci saranno meno risorse per tutti. Ma c´è di più: dal 2009 il meccanismo del «comma 165» viene abolito. A questo si aggiunge il taglio dei fondi per l´integrativo, come per gli alti statali: circa 782 euro in meno all´anno dal 2010.
Nasce anche un problema di personale. Il governo Prodi aveva varato un piano per l´assunzione di 5.100 dipendenti per la lotta all´evasione: di questi non c´è più traccia. Al contrario scatta la tagliola del turn over che a fronte di pensionamenti per 1.700 dipendenti nelle tre agenzie principali, prevede solo un reintegro del 10%. «Al Nord gli uffici sono già in carenza di organico», aggiunge Serio della Cgil.
Anche i presidi territoriali dell´Agenzia delle entrate rischiano: la manovra prevede una riduzione del 20 per cento delle direzioni regionali. Significa che su 40 uffici, otto sono destinati a chiudere.
La lotta all´evasione batte la fiacca? La manovra prevede 100 mila accertamenti in più e norme contro i paradisi fiscali. Ma arriva anche una sorta di «condono mascherato», come lo definisce un documento del centro studi Nens, con la possibilità di aderire ai verbali di constatazione direttamente con la Guardia di Finanza che ha fatto le rilevazioni e senza passare per la trafila degli uffici: la sanzione prevista per queste pratiche, che era già di un quarto del normale, si riduce ad un ottavo. Scompare anche il cosiddetto elenco clienti-fornitori in base al quale ogni società doveva comunicare per via informatica codice fiscale e partita Iva, appunto, dei clienti e dei fornitori: una banca dati molto utile per individuare false fatturazioni o gonfiate. Tra le armi che vengono spuntate anche quelle tese a limitare l´uso del contante e a rendere possibile la tracciabilità del denaro: scompare il conto corrente dedicato imposto ai professionisti per incassare le parcelle sopra i 500 euro (vietando il contante sopra questa cifra). Scompare anche il divieto di pagare in qualsiasi transazione in contante fino a 5.000 euro: con la manovra il tetto torna a 12.500 euro lasciando maggiore libertà ma anche rendendo più difficili i controlli.
«Non ci stiamo», dicono Cgil-Cisl-Uil e Confsal-Salvi. E domani saranno in piazza.
Appena qualche settimana fa si rifletteva sulla pesante perdita del potere d’acquisto. Politici d’ogni colore, imprenditori e finanzieri dichiaravano di unirsi al coro di chi giudicava insostenibili gli attuali livelli salariali ed immaginava politiche di recupero. Magari perché i bassi salari deprimono i consumi. I numeri europei che hanno rimbalzato su tutti i media, nella loro drammaticità, sono del resto inoppugnabili. L’Italia è il fanalino di coda con una perdita di circa un quinto del potere di acquisto rispetto alla media degli altri paesi dell’Europa a 15. Rispetto a molti degli altri paesi, tuttavia, presenta alcune anomalie. La prima è costituita dal fatto che al deprezzamento dei salari non corrisponde un’analoga contrazione dei profitti, la seconda è costituita da una crescita esponenziale della remunerazione delle fasce più elevate della dirigenza, tant’é che le due linee del grafico che rappresenta i lavoratori “normali” da una parte e quelli della dirigenza dall’altra, non solo non marciano in parallelo, ma la seconda corre sempre più verso la parte alta del quadrante. Situazione tanto clamorosa da indurre esponenti del Governo a proporre politiche fiscali antispeculative indirizzate verso settori che, evidentemente non solo non risentono della crisi ma, anzi, nella crisi prosperano.
Perché non c’è niente di più falso della massima secondo la quale: quando è guerra è guerra per tutti. Nella stessa linea si era anche ipotizzato un taglio, o un tetto per le retribuzioni più elevate. Appena qualche settimana fa, si è detto, perché non appena arrivata la conferma della crisi, il Governo ha subito rimandato le politiche distributive che aveva annunciato per l’immediato dopo-elezioni. La Confindustria, dal canto suo, non solidarizza più con i percettori di salari insufficienti, ma riprende a piangere su se stessa, più che sui propri peccati. Come nelle migliori tradizioni, insomma, si ripresenta l’annoso problema di sempre: su chi scaricare i costi della crisi? In queste ultime settimane, le linee relative alla politica sociale ed alla questione salariale si sono sufficientemente chiarite. Lanciamo un’ancora di salvataggio per l’impresa e poi: si salvi chi può. Il salvataggio dell’impresa, però, parte ancora una volta dalla richiesta di solidarietà ai lavoratori: in una situazione di crisi come questa è impensabile chiedere un recupero salariale. Che è poi soltanto una forma elegante per annunciare il proposito di una ulteriore riduzione dei salari (reali). Cos’altro può significare la proposta del Governo di fissare all’1,7% il tetto dell’inflazione programmata, quando sappiamo che in Italia ed in Europa si galoppa al di sopra del 3,5 per cento, verso quota 4%? Che i sindacati, a queste condizioni, neppure accettino di sedersi al tavolo, sembra proprio il minimo.
Ma una volta chiarito che il salvataggio dell’impresa dovrebbe incominciare con il sacrificio dei lavoratori, rimane la seconda parte dello slogan: si salvi chi può! Su questo è importante riflettere per un momento, perché si tratta di una linea che il Governo pratica con sempre più coerenza offrendo un ventaglio di possibilità integrative a chi non riesce più a sbarcare il lunario con il proprio salario. Una prima possibilità offerta, di cui già abbiamo parlato, è quella di lavorare di più. Questa possibilità è incentivata mediante una parziale detassazione degli straordinari. Altri percorsi, ancora ispirati alla filosofia dell’arrangiarsi, sono quelli dell’abolizione dell’incompatibilità tra redditi da pensione e redditi da lavoro. Se la pensione non è più sufficiente, si può ritornare sul mercato per arrotondarla. Analoga possibilità è offerta ai dipendenti pubblici ai quali manchino non più di 5 anni per raggiungere il massimo contributivo: potranno ritirarsi dal lavoro con il 50%, fermo restando che al raggiungimento dei 40 anni diventeranno regolarmente pensionati con l’importo che sarebbe loro spettato se avessero continuato a lavorare.
Tutte misure, come si vede, che facilitano un incremento del reddito complessivo se ci si da da fare, in ogni caso, evidentemente, lavorando di più. La spaventosa cifra del lavoro irregolare, quasi il 40 per cento secondo le ultime stime, fa capire come funziona, nel suo insieme, il sistema. Sopratutto se si considera non solo l’evasione più eclatante delle imprese che lavorano totalmente in nero, ma i mille lavoretti, anche autonomi, spesso per lo stesso datore di lavoro con “gestione separata” che contribuiscono, per chi ne ha le forze e l’abilità, di arrotondare un salario che, nei livelli più bassi, è assolutamente insufficiente. Il salario, così, diventa solo una delle fonti di reddito, seppure spesso la principale, e le strade di difesa del reddito non suggeriscono più la solidarietà tra i lavoratori, la vertenza per il suo miglioramento, ma una vita spericolata, in mare aperto, che premia i più forti ed i più furbi e affonda i più deboli ed i più ingenui. Va avanti, grazie a mille sotterfugi, una profonda trasformazione del lavoro, del quale ci si può appropriare anche a basso costo, grazie alla concorrenza di un mercato parallelo di diseredati, pronti a qualunque sacrificio. La misura voluta dal Governo, che abolisce il diritto ad una data certa per le dimissioni, consentendo di ripristinare il barbaro costume delle dimissioni firmate in bianco, non è poca cosa, è un simbolo del rispetto che i potenti di turno riservano a chi, per vivere, è costretto a vendere la propria forza lavoro.
Qui il bellissimo quindicinale online il manifesto sardo
L’Italia che ricorda in quest’anno 2008 il settantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali è sotto accusa di razzismo per alcune misure varate dal governo attuale. È inevitabile che questa situazione dia un tono particolare alla rievocazione e alla discussione di quel che accadde nel 1938. Un gruppo di scienziati italiani, ad esempio, ha sentito la necessità di ribattere punto su punto le tesi di un celebre manifesto di alcuni scienziati di allora e di affermare esplicitamente che le razze umane non esistono. Questo "manifesto degli scienziati antirazzisti" è stato presentato nei giorni scorsi nel parco toscano di San Rossore in un meeting antirazzista dedicato dal presidente della Regione Claudio Martini a una riconsacrazione laica del luogo dove settant’anni fa Vittorio Emanuele III firmò le leggi razziali. Di commemorazioni e di riparazioni simboliche dello stesso genere se ne prevedono altre.
Intanto, su di un binario parallelo a quello dei riti e dei simboli si srotolano i fatti concreti di una società italiana che, pur lontana anni luce da quella di allora, viene accusata di ricadere negli stessi errori . Fra tante altre misure che dividono e discriminano la popolazione tra chi è al di sopra e chi è al di sotto di ogni sospetto ce n’è una che ha colpito in modo speciale l’opinione pubblica: il censimento delle impronte dei piccoli zingari. La storia non si ripete, certo, anche se è difficile non ricordare che alle leggi razziali si arrivò nel 1938 dopo un censimento dei cognomi ebraici.
Una cosa è certa: queste misure prese in nome della sicurezza diffondono insicurezza. Si è creato un circuito perverso tra paure socialmente diffuse e ricerca politica del consenso. Chi parla di maniera forte e tolleranza zero copre l’inefficienza delle istituzioni e stimola la paura nei confronti dei gruppi marginali. Mendicanti, vagabondi, gente senza casa e senza lavoro si trasformano così nella percezione sociale in gruppi pericolosi. E’ un fenomeno antico. Come abbia segnato la storia dell’Europa e dell’Italia ce lo ha raccontato in saggi bellissimi il grande storico e uomo politico polacco Bronislaw Geremek morto improvvisamente in questi giorni, che a quella umanità diversa, perdente e ribelle ha dedicato una vita di studi.
Oggi, in una situazione di crisi delle società affluenti assistiamo al riprodursi di meccanismi antichi: aumentano i gruppi di sradicati, emarginati, migranti e cresce la paura nei loro confronti. Su quella paura crescono fortune politiche mentre le relazioni sociali si spogliano rapidamente di ogni traccia di umanità. Che la stragrande maggioranza degli italiani, inclusi i membri del governo, non sia disposta a dichiararsi razzista niente toglie alla cupezza di ciò che avviene.
Qui non sono in gioco fedi razziste. E tuttavia la discriminazione su base etnica che colpisce gli zingari in Italia solleva una grande questione morale e giuridica. Minimizzarla o coprirla con una untuosa retorica paternalista , parlarne come di una misura protettiva verso gli stessi zingari significa non rendersi conto che attraverso questa misura passa una offesa alla dignità dell’individuo, alla parità dei diritti fra tutti gli esseri umani, all’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La democrazia ne è colpita in un frammento della popolazione tanto più indifeso quanto più esposto a essere ferito. E se l’offesa fatta ai bambini ci offende in modo speciale è anche perché all’origine della sensibilità morale della nostra cultura nei confronti dei bambini c’è una indimenticabile pagina dei Vangeli cristiani.
Il limpido manifesto antirazzista degli scienziati non si muove a questo livello e non può far reagire una società italiana che non si sente razzista. E’antica tra noi la coscienza della nostra realtà di paese di passo, aperto a tutte le presenze del mondo. "L’origine degli Italiani attuali risale agli stessi immigrati africani e mediorientali che costituiscono tuttora il tessuto perennemente vivo dell’Europa": lo diceva perfino il manifesto razzista del 1938 con parole che, in tempi di criminalizzazione legale dell’immigrazione clandestina e di sfruttamento bestiale dei lavoratori africani e orientali condannati alla clandestinità, sembrano venire da un altro mondo.
Resta il fatto che alla discriminazione poliziesca di quel piccolo contingente di bambini (di volta in volta definiti "pericolosi" o "in pericolo" , a seconda della franchezza o dell’ipocrisia di chi parla) si dovrà opporre un rifiuto fermo. Chi ha autorità per farlo la usi. Chi si vergogna del paese che fa questo lo dica. Nel 1938 ci fu un italiano che alla lettura delle leggi razziali esplose gridando che si vergognava di essere italiano. Si chiamava Achille Ratti ed era Papa col nome di Pio XI. (L’episodio è emerso grazie a uno studio di P. Giovanni Sale sulla "Civiltà cattolica"). Se il Papa non giunse a dichiarazioni pubbliche conseguenti e adeguate, ciò si dovette solo alla morte che lo colse di lì a poco.
Le parole di un Papa contano. Contano anche i silenzi. Qualcuno immaginerà che si voglia qui riaprire la questione del cosiddetto "silenzio" del successore di Pio XI , un altro italiano di diversa personalità: Papa Pacelli. Non è questo il punto. Si vuole solo ricordare una realtà a tutti evidente: il Papa aveva allora in Italia e sulle cose italiane uno speciale campo di azione e di governo. Lo ha ancor oggi: e non certo meno di allora. L’esercizio del diritto papale a fare politica è un dato di fatto. Che di recente l’attuale maggioranza di governo se ne sia fatta garante è piuttosto una mossa del gioco politico che una sanzione al di sopra delle parti.
Potrebbe il Papa di oggi avvertire lo stesso sentimento di vergogna del suo predecessore Pio XI? Difficile immaginarlo. Ci si vergogna per il paese a cui si appartiene, così come i bambini si vergognano per i genitori. Ma qui si pone un problema non di sentimenti bensì di atti politicamente e socialmente rilevanti. Sia l’eventuale parola del Papa sia un suo perdurante silenzio avranno il loro peso in una lacerazione della società e in un disagio che emergono oggi soprattutto dalle voci del mondo cattolico più impegnato nel volontariato e nel governo pastorale; un disagio tanto più forte quanto più vasta è l’apertura di credito fatta al nuovo governo italiano da parte delle autorità della Chiesa.
Nell’Italia del 1938 al papato guardarono con speranza gli ebrei italiani, in nome di una antichissima tradizione storica che aveva costituito il vescovo di Roma come il protettore supremo della comunità ebraica. Ebbene, anche gli zingari hanno costruito nei secoli un vincolo di tipo protettivo col pontefice. Come ha raccontato Bronislaw Geremek, gli zingari ricorsero molto spesso alla protezione papale . Si appellarono al Papa perfino per dimostrare che, se rubavano, lo facevano con un suo permesso scritto (apocrifo, naturalmente).
Anche questa è una storia tutta italiana. Ne fu protagonista quella stessa minoranza di antica presenza nella penisola che è stata vittima di recenti gravissime violenze e che oggi è nel mirino di misure legali di discriminazione. Discriminazione etnica: non diremo razziale perché le razze non esistono.
Per prendere una stretta di mano fra Olmert e Abu Mazen come il segno che la pace è vicina non ci vuole scarsa memoria, ci vuole mala fede: non solo perché leader israeliani e palestinesi, peraltro tutti ben più credibili dei due attuali, si sono ormai stretti la mano decine di volte e nelle più disparate capitali del mondo senza che poi nulla accadesse, ma soprattutto perché mai come ora, con l'attacco all'Iran incombente, lo scenario mediorientale è apparso altrettanto cupo. Come del resto quelli analoghi, anche questo vertice destinato a battezzare la ex iniziativa euromeditterranea con cui Sarkozy sperava di rilanciare un ruolo centrale della Francia (ex, da quando Angela Merkel gli ha ricordato il senso delle proporzioni), è spettacolo da baraccone.
Persino un passo indietro rispetto al passato perché di un accordo generale regionale ha solo il nome, consistendo in realtà solo nella proposta - a chi vuole e su cosa vuole - di accordi bilaterali, su un vastissimo menu, che va dalla polluzione al turismo. Non una iniziativa «comunitaria» come era, almeno nelle intenzioni, l'accordo di Barcellona, dunque, ma a geometria variabile, in cui il «comune» sarà poco più che formale: anziché delegare tutto il potere decisionale alla burocrazia di Bruxelles, ci sarà ora un segretariato con due co-presidenti, uno europeo e uno extracomunitario.
In continuità col passato c'è invece il fatto che si prevede di tutto, meno, anche questa volta, l'essenziale: la libera circolazione di merci capitali e servizi, non di quelle merci particolarissime che sono i prodotti agricoli, perché le sole competitive con le nostre; e perché, per motivi non certo commerciali, noi preferiamo la «banana atlantica» (quella della United Fruits), a quella pur buonissima dell'Africa del nord.
E, naturalmente, non prevede nemmeno la libera circolazione degli umani. (Come ha detto Roland Henri, che dirige il Centro di ricerca dell'Institut du Monde Arabe et islamique, «Gli europei ci vogliono come loro, con loro, ma non da loro»).
Imponderabile «Ufficio Gioventù»
Previsto nel menu di Parigi c'è persino anche un immancabile Ufficio Gioventù, che non si capisce bene cosa potrà fare in queste condizioni, il problema dei giovani della sponda sud essendo essenzialmente solubile per un tempo prevedibilmente lungo soltanto con una libera circolazione: metà della popolazione ha meno di 30 anni e per mantenere la percentale di disoccupazione al già altissimo livello attuale bisognerà, nei prossimi 15 anni, creare 23 milioni di nuovi posti di lavoro.
L'inutile iniziativa Sarkozy è l'approdo di 36 anni di mediocri tentativi euromediterranei, sulla cui inefficacia tutti concordano. Dalla «Politica Mediterranea globale», lanciata nel 1972 e rinnovata nel 1990, consistente in accordi commerciali; al «Dialogo 5+5» (Maghreb e europei vicini), anch'esso, nel 1990; al «Forum mediterraneo sulla sicurezza», nel 1994, stabilito fra 11 paesi, che ha avuto come effetto il coinvolgimento degli eserciti turco e marocchino nell'avventura del Kosovo; all' «Accordo di partenariato», firmato nel 1995 a Barcellona. Praticamente annullato dalla brusca inversione di tendenza impressa nel 2003 quando, sotto la presidenza Prodi, venne varata la Pev (Politica europea di vicinato), che ha affogato il Mediterraneo nel calderone, marginalizzandolo rispetto all'est, cui sono state indirizzate il grosso delle risorse, non solo perché l'operazione appariva economicamente più promettente, ma perché quell'orizzonte geografico assecondava la tentazione di un'Europa pan Cristiana.
Come in un recente convegno a Tangeri ha detto l'ambasciatore Huitzinger - uno dei diplomatici incaricati da Sarkozy di seguire il suo piano - la politica mediterranea dell'Unione europea assomiglia alla torta millefoglie: una serie di strati diversi, posti l'uno sopra l'altro. Così collocati senza mai riflettere criticamente sulle iniziative precedenti, senza tracciare un bilancio su ciò che è realmente accaduto o meglio non accaduto. E così anche ora, con il nuovo progetto di Unione per il Mediterraneo.
Nell'affrontare con qualche serietà il problema Mediterraneo, che ha riacquistato una grande centralità, non si può far finta di non sapere che attraverso il Mediterraneo passa la frontiera più drammatica del mondo, molto più drammatica di quella che separa il Messico dagli Stati Uniti: lì il rapporto è di 1 a 6 nel reddito procapite, invece da noi è di 1 a 14. E che la dipendenza dei paesi del sud dall'Europa è totale: quasi tutte le loro esportazioni vanno verso l'Ue ma per l'Ue sono niente, in compenso quasi tutte le loro importazioni provengono dall'Ue. In queste condizioni la zone di libero scambio non è solo inutile, può essere solo fonte di ulteriore degrado.
Lo squilibrio non è solo economico. È anche politico. Da una parte l'Europa unita, che agisce attraverso istituzioni comuni; sull'altra sponda un fronte frammentato e diviso da ostilità non sanate. Le sigle unitarie sono solo etichette. E poi sul fallimento del dialogo euromediterraneo - così occorre chiamarlo - pesa come un macigno l'accresciuta diffidenza politica generata dalle ferite aperte in questi 30 anni - la guerra all'Iraq - o non chiuse, anzi ulteriormente approfondite: l'occupazione israeliana della Palestina.
L'Europa avrebbe potuto contribuire alla soluzione. Non l'ha fatto perché gli Stati uniti glielo hanno impedito. Ci aveva provato con un'iniziativa un po' più autonoma nel 1973, in occasione della prima crisi petrolifera, quando aveva preso apertamente posizione in favore dell'Opec e aveva proposto il riconoscimento dell'Olp. Fu bloccata da un intervento di Kissinger che, con sarcasmo, chiese all'Europa di sottoscrivere una nuova Carta Atlantica che conteneva l'obbligo di consultazione preventiva su tutto.
L'asimmetria con il Nord Africa
L'intervento Usa si è ripetuto negli anni, sicché l'Ue ha finito per delegare a Washington la politica, ritagliandosi libertà per qualche accordo commerciale. I negoziati fra Israele e l'Autorità palestinese, come è noto, non prevedono nemmeno la presenza europea.
Ma ora sta accadendo una cosa molto grave. Una mossa europea che non potrebbe essere più in linea con la peggiore politica Americana: si sta procedendo, attraverso l'up grading dell'accordo di associazione di Israele con l'Ue, ad un mutamento qualitativo dello status di questo paese. Che potrebbe persino preludere ad un suo isolato ingresso nella stessa Unione. Per ora si tratta solo di manovre, di ballon d'essai. Ma è proprio così che di solito si procede in Europa.
L'ideologia mediterranea - l'aspirazione a ricercare l'unità fra nord e sud del Mediterraneo non è - bisogna tenerne conto - innocente. Non lo è mai stata. Oggi c'è chi, a giusta ragione, teme che sia un modo per separare il nord Africa dal suo continente, un pretesto per dissimulare - scrive Danilo Zolo - l'asimmetria.
Il dialogo euromediterraneo è intasato da quintali di detriti, di incomprensioni, non ha toccato la società araba reale, ha al massimo coinvolto le elites. La società araba è certo cambiata. Le emittenti locali si sono moltiplicate e sui tetti di in ogni villaggio fiorisce una selva di parabole. Ma attenti: stare alle finestre dell'Europa ma non poter stare alle sue porte, guardarci da lontano fidando in una vicinanza che è solo virtuale, può aver effetti perversi. La circolazione delle immagini e delle merci, e non quella degli umani, è uno squilibrio avvertito come insulto, come una ingiustizia suprema, come una beffa. Perché tutti sanno ormai che l'Europa non può far a meno degli immigrati, che sono già il 10% della nostra forza lavoro. Ma questa fetta di popolazione non ha rappresentanza, non ha diritti politici, non vota. Sono come gli schiavi nell'antica Roma. Peggio della casta degli intoccabili in India. Da noi il lavoro più umile e mal pagato, viene politicamente sottratto alla democrazia. Un'Europa che nega questi diritto è un vulno intollerabile.
Dietro il marketing dell’orso - dice il sociologo dell’ambiente Lauro Struffi - c’è una gabbia: vasta, con impalpabili sbarre elettroniche, ma gabbia. E mentre noi sogniamo un cucciolo, il suo territorio finisce di essere distrutto nell’indifferenza». A dare l’allarme, la moderatissima Società degli alpinisti tridentini. Per la prima volta, dopo 136 anni, ha indetto lo «sciopero dei sentieri». Non curerà più i tracciati in Paganella, cuore di una stagione epica dell’alpinismo. «Ruspe, piste e seggiovie - dice il presidente della Sat, Franco Giacomoni - hanno cancellato la montagna. Nessuno ci ha avvertiti. Inutile restare dove non si può più camminare». Il nuovo profilo è uno choc: uno scheletro di piloni, asperità spianate, grotte di ghiaccio riempite di detriti, autostrade sciabili che rompono i boschi. Uno scempio non isolato. Protetta dal marchio di garanzia dell’orso, la speculazione penetra in parchi e riserve.
La Provincia autonoma di Trento ha pronti 50 milioni di euro per gli impianti che collegheranno Pinzolo con Madonna di Campiglio. Dieci milioni andranno alla connessione tra Passo Rolle e San Martino di Castrozza. Cento milioni alla comunicazione tra Folgaria e Laste Basse, in Veneto. Un’altra valanga di denaro è destinata a cabinovie e strade a Tremalzo, nel Tesino, alla Polsa, in valle di Pejo e in valle dei Mocheni. A rischio anche il ghiacciaio della Marmolada: una funivia sul versante fassano, promessa in questi giorni dopo anni di opposizione, sbloccherà l’attuazione dell’accordo sui confini fra Trentino e Veneto. «Località fallite - dice il leader di Cipra e Mountain Wilderness, Luigi Casanova - o sotto la quota-neve, o in zone delicatissime e sotto tutela integrale. All’inizio i soldi pubblici pagano gli impianti, poi ripianano i debiti che producono ogni anno». Non sono esclusi i fallimenti dei privati.
La società funiviaria di Folgarida e Marrileva, in valle di Sole, in questi giorni rischia il crack. Decine di milioni gli euro perduti in una speculazione finanziaria sui terreni vicini all’aeroporto di Venezia. Il credito locale trema. La Provincia «per tutelare gli interessi collettivi», si è detta «pronta a fare la propria parte». A pochi mesi dalle elezioni provinciali d’autunno, monta anche l’ombra di una colossale speculazione edilizia. «Trentino e Sudtirolo - dice lo scrittore e giornalista Franco de Battaglia - sono la zona con la maggior concentrazione d’impianti al mondo. Non servono altre piste. Le seggiovie, spacciate per mobilità alternativa, nascondono milioni di metri cubi di seconde case sui fondovalle devastati da vent’anni di abusi».
Una legge, coraggiosa ma in ritardo di anni, ha appena frenato le lottizzazioni comunali. Dal 2009, però, e a discrezione della giunta. La volata per trasformare in un condominio l’ultimo pezzo di prato è lanciata. Mentre l’orso ammicca dall’ingannevole pubblicità di Alpi intatte, avanzano strade in alta quota, tangenziali, tunnel, edifici, centri commerciali, cave, capannoni, funivie e bacini per l’innevamento artificiale.
I parchi, soppressa la politica conservativa, sono relegati a logo per i depliant turistici: nessun ostacolo alle auto, sì anche a rally e ai raduni di fuoristrada. Il presidente del Parco Adamello-Brenta è diventato presidente dei cacciatori. Il leader del comitato anti-parco ha preso il suo posto. Davvero la specialità trentina, come si sussurra, è ridotta a finanziaria pubblica di sostegno alla voracità dei privati?
La catena delle Alpi misura più di 190 mila chilometri quadrati. Il versante ormai è inciso da 87 mila chilometri di strade di montagna, 2.024 impianti di risalita, 5.943 chilometri di piste, 12 milioni di posti-letto turistici. Negli ultimi vent’anni il 60% delle frazioni d’alta quota dei 5.954 comuni alpini, è stato però abbandonato. Dimezzato il territorio coltivato: macchia e cespugli invadono ogni anno oltre la metà del terreno.
«In Trentino nel 1980 - dice il perito Adriano Pinamonti - venivano sfalciati 300 chilometri quadrati di pascolo: ora, nonostante i contributi Ue e provinciali, sono 190. Dal 1990 le aziende agricole di montagna si sono dimezzate. Le malghe attive, da 700, sono ridotte a 300. Nel 1980 salivano sui pascoli estivi 36 mila vacche, oggi sono 8 mila. Gli ettari dei prati alti, da 90 mila, sono diventati 35 mila».
L’età media della popolazione alpina è di 57 anni, 72 quella dei piccoli contadini. Paesi e villaggi sono abitati da vecchi e immigrati, ultima risorsa per alberghi, stalle e cantieri. In un secolo la superficie dei ghiacciai alpini, termometro della salute climatica, si è ridotta del 50%. I suicidi, nelle località turistiche raggiunte dalla ricchezza dello sci, sono il triplo di quelli in città. Il 74% dei giovani emigra a fondovalle, o nei capoluoghi, prima dei 25 anni.
«L’Italia - spiega il direttore del Museo degli usi e costumi di San Michele all’Adige, Giovanni Kezich - dalla Roma imperiale ha ereditato cultura urbana e attrazione centripeta. Resiste però il magnetismo del paradosso alpino. Si fugge, ma si resta ancorati ad un invisibile, e indissolubile, cordone ombelicale. Chi nasce in montagna, appartiene per sempre alle relazioni che la animano. Il dramma è lo smarrimento della capacità di vivere da soli, senza rete. Un impoverimento sociale, ma pure un evento politico».
Dopo il 1968, l’alta quota ha perso il fascino «americano» della protesta. Libertà, avventura, impresa, rifiuto di uno sviluppo, dall’Europa, si sono trasferite in Asia e Sudamerica. L’esodo dalle Alpi occidentali, in Piemonte, è consumato. Ma anche i villaggi trentini, cassaforte immobiliare dei nuovi ricchi, cominciano a restare deserti quasi tutto l’anno. Un’agonia alimentata da governo ed enti locali. L’Italia, spaventata dall’idea di regolare il traffico dei Tir, è l’unico Paese a non aver firmato la Convenzione delle Alpi. Le comunità montane, anche quelle vere, rischiano la soppressione. I contadini di montagna ricevono un terzo degli incentivi destinati agli agricoltori di pianura. L’anno prossimo le Dolomiti saranno dichiarate «patrimonio dell’umanità»: Trento e Bolzano hanno preteso però di tutelare solo le rocce, non l’ambiente che le circonda.
«L’ennesimo imbroglio pubblicitario - dice il glaciologo Roberto Bombarda - svela l’obiettivo dei grandi interessi politici ed economici: ultimare la demolizione di ciò che resta dell’ambientalismo italiano. Un esempio? Nessuna località trentina è nella lista di quelle che hanno scelto una mobilità dolce».
Colpire associazioni e comitati alpini, a cominciare da chi si oppone alle linee ferroviarie ad alta velocità, per estinguere ciò che resta del movimento che nel 1987 disse no al nucleare. Quali battaglie credibili resterebbero, nel Paese, consumata la distruzione della montagna? «Protezionisti e Verdi italiani - dice Geremia Gios, docente di economia dell’ambiente all’università di Trento - vivono una crisi senza precedenti. Lotte estetiche, estremismo, mancanza di concretezza e assenza di leader autenticamente ambientalisti precedono il disastro degli ultimi anni. Si sono lasciati identificare come il partito neo-conservatore del no. In montagna, dove c’è bisogno di soluzioni ai problemi, odiano il loro snobismo ideologico: proprio quando sarebbero indispensabili». Solo un’assessora Verde, a Trento, siede ormai nei governi regionali delle Alpi. La mobilitazione associativa è ai minimi storici.
Nessuno schieramento nazionale mette la natura al primo posto del programma. «Il Trentino - dice il presidente provinciale del Wwf, Francesco Borzaga - era un esempio di armonia tra uomo e natura. Se l’equilibrio si è rotto qui, significa che non solo le Alpi sono perdute. La montagna, per la sua fragilità, ha sempre anticipato il destino ambientale di metropoli e pianure».
Sotto accusa, l’iper-specializzazione economica dell’alta quota: colonizzata dall’industria della neve, spazza via le piccole aziende agricole e piega le medie al modello padano, o bavarese. Dal 2006 l’Europa ha ridotto drasticamente i sussidi agli allevatori. I contributi locali del 2007, aumentati per scongiurare il tracollo delle stalle, non sono ancora stati pagati. Chi può, abbandona. «Se non ti adegui a sistema e dimensioni della pianura - dice Laura Zanetti, presidente dei pastori e dei malghesi del Lagorai - ti fanno fuori. Il biologico viene ostacolato con ogni mezzo, trionfa un iperigienismo comico».
Tutto deve essere sterile, pastorizzato e standardizzato. «Mentre tonnellate di concimi chimici, mangimi tossici e alimenti sconvolti dai conservanti, ottengono incentivi - continua Zanetti - La montagna è persa perché ha scelto di abbandonare i piccoli, la ricchezza della loro diversità».
Uno spartiacque impressionante e senza precedenti. Da una parte l’oligarchia del potere politico ed economico, ormai indistinguibili. Dall’altra la crescente domanda popolare di condizioni di vita compatibili sulle Alpi. L’esempio della Vallarsa, tra le più povere e marginali del Trentino, è lo specchio di un cambiamento dirompente. In due anni è stata totalmente cablata. L’altro giorno, quando la rete ottica si è bloccata, il Comune è stato sommerso dalle proteste: sedici telefonate in venti minuti. «Il giorno dopo - dice il sindaco - è mancata l’acqua per una mattina: una chiamata in quattro ore». Tra pochi giorni aprirà qui il primo supermercato italiano automatico. Nel distributore 400 prodotti, freschi compresi, scelti dagli abitanti e acquistabili 24 ore su 24 con una tessera. Gli anziani non dovranno più implorare i figli di fare la spesa per loro a Rovereto.
I neo-pendolari d’alta quota, vera novità della montagna fino a un’ora di viaggio dal posto di lavoro, disporranno di un servizio introvabile anche in città. Persi i contadini, grazie alla tecnologia i paesi si ripopolano di intellettuali e professionisti. Una coppia, nel silenzio di località Bruni, disegna cartoon destinati al mercato giapponese. «Non sono però i casi di nicchia - dice il sociologo Christian Arnoldi - a frenare la fuga innescata dal turismo di massa. L’indifferenza politica per la vita in montagna resta totale. In Italia si pensa ancora che seppellire il turismo di assistenzialismo significhi aiutare la montagna. Il risultato è che, assieme ai saperi, se ne va anche la cultura della contemporaneità. Una fascia del mondo sfasata dal proprio tempo: nelle valli gli eventi sono legati allo sport, oppure rileggono in farsa il passato». A combattere la battaglia decisiva contro l’ultimo assalto alla natura meglio conservata d’Italia, solo qualche giovane. Nei masi, assieme a rumeni, peruviani e indiani, cominciano a tornare ragazzi trentini decisi a coltivare la terra, invece di asfaltarla. Elisa e Filippo Rasom, ventenni, si sono appena sposati. A Vallonga, sopra Vigo di Fassa, hanno inaugurato un allevamento con 27 mucche e un apiario con 80 arnie. «Alberghi e piste - dice Filippo - senza una stalla non avranno più nulla da offrire». A Zortea, nella valle del Vanoi, Elisa e Corrado Cozzolino hanno puntato su 60 capre e 100 arnie.
Laureati, padovani, oggi trentenni, sono reduci dalla prima settimana di ferie dopo dieci anni. «Solo piccole dimensioni e grande qualità di prodotti naturali - dice Elisa - restituiscono un senso economico anche alle periferie montane». Francesco Prandel, professore di chimica a Levico, il pomeriggio fa invece il pastore a Fravort, in Valsugana. Una malga in affitto, sfalcio a mano, come risposta al sequestro dell’orso nutrito per piazzare settimane bianche. Ce ne sono già decine, come loro. Investimenti contenuti, sacrificio, coraggio, percezione del limite e passione: l’altra faccia delle valli svendute all’ordinarietà dei colossi finanziari che tengono in ostaggio il circo bianco.
Anche Francesco Franzoi, in Valpiana, non ha smesso di fare il formaggio sull’alpeggio. Riconosce ogni forma, dal profumo sa dire la settimana di caseificazione, fiori e versanti brucati quel giorno. Non capisce perché in Italia i prodotti tipici artigianali, per legge, non possano essere «somministrati fuori dal luogo di produzione». Come se una Ferrari potesse essere venduta solo a Maranello. «I modelli globali - dice - hanno svuotato il Trentino. Rese inutili le Alpi, portano al fallimento anche il resto dell’economia nazionale. Sussidiarietà, solidarietà e comunità sono l’unica risposta a liberismo, egoismo e xenofobia». L’autonomia riformista, alternativa al neocentralismo padano, si nasconde nelle periferie d’alta quota. Inizia a battersi per guarire ambiente e paesaggio. Chiede che dell’orso non si parli, e non si rida, più. Che si accetti di incontrarlo, piuttosto, ascoltando ciò che ha da dire la paura. Un animale di carne finalmente libero in una foresta vera.
La notizia è giunta tardi e mi induce a dirvela prima di ciò che sto per scrivere perché dubito che la troverete su molti altri giornali. Venerdì al Senato americano, i democratici hanno tentato di abbattere la privatizzazione delle cure mediche per gli anziani e di tornare all’estremismo di Kennedy, Johnson, Carter e Clinton: le cure mediche sono un diritto dei cittadini. La proposta repubblicana era: abbandonare i vecchi al buon cuore delle compagnie di assicurazione.
Ha scritto l’economista di Princeton Paul Krugman (New York Times 12 luglio): «Sembrava un film. Ai democratici mancava un voto per vincere. All’improvviso si è presentato in aula il settantasettenne Senatore Kennedy, appena operato di tumore alla testa. Kennedy ha portato il voto risolutivo. Bush e il dominio delle assicurazioni private sono stati sconfitti».
È una storia che dice molto della testarda ossessione di un vecchio, grande politico americano di stare ogni momento, e fino alla fine, dalla parte dei cittadini. Per noi è solo un simbolo, ma perché non dichiarare subito che solo così, qualunque sia il suo stato anagrafico, un leader politico può definirsi «coraggioso»?
Ma ora riprendo il mio percorso fra le tristi notizie italiane.
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Mi era venuto in mente, pensate, di dire in questo articolo, che il conflitto di interessi paga, che alla fine di qualunque storia che non sia una fiaba vince il più forte, non il migliore (persino se la forza è rubata attraverso l’abuso sia del potere privato che di quello pubblico), che non c’è niente di male nel sentirsi migliore di chi attacca o minaccia o ricatta tutti i poteri dello Stato e scardina, piega o abolisce con le sue leggi tutte le regole.
Mi era venuto in mente di dire che, per forza, molti perdono la testa, il filo e il sentiero della ragione dopo quindici anni di realtà berlusconiana raccontata a rovescio, deformata, amputata, pur di isolare, più o meno intatta, l’immagine di una sola persona - Berlusconi l’immune - costringendo tutti gli altri protagonisti presenti in scena a una forma di sottomissione, a un continuo addossarsi di colpe, o ad essere confinati dal consenso comune (dei buoni e dei cattivi commentatori) nell’isola degli estremisti, dove persino ciò che rimane di Rifondazione (Sansonetti, Liberazione, 10 luglio) ti ingiunge di chiedere scusa, e si unisce agli scandalizzati non dello scandalo, ma di chi lo denuncia, visto come un guastafeste, ovviamente estraneo alla sinistra, sia quando usa i toni sbagliati, sia quando usa quelli giusti.
Avrei voluto scrivere che non ci sono toni giusti perché, alla fine, come puoi presumere di essere un giudice, nel mondo in cui tutti ormai accettiamo di dire o lasciar dire che i giudici sono comunque manovrati da una forza politica, nel mondo in cui tutti, tutti più o meno, diciamo: «Basta con l’uso politico della giustizia» (alcuni usano l’assurda parola “giustizialismo”, dicono: «occorre far finire questa anomalia»; e precisano che l’anomalia sono i giudici che indagano, non coloro che - avendo grandi responsabilità politiche - ne approfittano e commettono reati).
Non dirò che sono stato dissuaso dalla enormità dei fatti, che sono questi: sono stati resi immuni da ogni azione giudiziaria le quattro più alte cariche dello Stato. Ma una, il presidente della Repubblica, è già difeso dalla Costituzione. Due, se malauguratamente inquisiste, non danno luogo ad alcuna impossibilità di governare perché sono cariche elettive interne al Parlamento e in caso di necessità si possono rieleggere o alternare senza coinvolgere o negare il consenso dei cittadini. Rimane la quarta, ma la quarta è il plurimputato Silvio Berlusconi. Dunque tutto è avvenuto per una sola persona anomala. E una immensa barricata, che coinvolge persone estranee a ogni imputazione, è stata eretta, per quella sola persona deformando lo Stato, creando per la Repubblica un danno senza ritorno, una ferita sul volto dell’Italia che ci renderà unici e riconoscibili anche in futuro.
Potrei continuare raccontando il modo un po’ mussoliniano con cui stata strangolata, in questi giorni, la Camera dei Deputati, soffocandone il dibattito fino al ridicolo per una grande istituzione democratica, forzando ognuno di noi, in quel quasi silenzio, ad apparire complici del progetto in cui il presidente-imputato esige la sua legge liberatoria, e la vuole sùbito, impone tempi ridicolamente stretti al presidente della Camera e il presidente della Camera si presta, obbedisce, esegue: «Volete un solo giorno di finto dibattito (finto perché la disciplina della maggioranza era toccante; finto per l’eroismo dell’Udc di Casini, che ha scelto l’astensionismo per non ipotecare il futuro; finto per il numero di minuti dedicati al dissenso). Come no? Agli ordini». Lo sanno tutti che un Parlamento (potere democratico dello Stato) è agli ordini dell’esecutivo e dunque si impegnerà nella missione di mettere a tacere l’altro potere democratico, quello giudiziario.
Potrei raccontare i veri e propri momenti di urla e rivolta fisica della maggioranza ad ogni tentativo di Pd e Italia dei Valori di porre almeno un argine alla prepotente imposizione di discussione strangolata. Pensate, persino la sinistra sembra provar piacere a condannare "l’opposizione urlata"; ma in Parlamento le sole urla che si sentono, alte e selvagge, sono quelle della maggioranza che si getta con furore su ogni spiraglio di resistenza, per quanto mite.
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Invece mi fermo qui, per dire: questo è il mio millesimo editoriale, uguale agli altri. È una rappresentazione fedele di ciò che accade. Ma ciò che accade ripete un gioco di potere che in fondo non si è interrotto mai, neppure nei pochi giorni di Prodi. Perché anche in quei giorni sono rimasti intatti tutti i centri di controllo di ciò che sappiamo ogni giorno del Paese. Infatti Prodi è apparso un grave e fastidioso pericolo mentre governava, veniva additato all’Italia come un incapace ed esoso esattore di tasse e come la rovina della nostra economia, che adesso è totalmente paralizzata e in stato di abbandono. E intanto i costi e le tasse salgono ma il nuovo Parlamento italiano è impegnato a fermare i giudici.
Mi fermo anche per il modo efficace con cui il notista della Stampa Ugo Magri racconta un momento della non esemplare giornata alla Camera che abbiamo appena vissuto. Cito: «Perfino Furio Colombo viene snobbato dai colleghi Pd, i quali si vede che ne hanno le tasche piene, nel momento in cui invoca “solidarietà per i magistrati che Berlusconi considera un cancro”».
Mi resta da dire che ho pronunciato questa frase in modo deliberatamente formale e non stentoreo sapendo - come è accaduto - che sarei stato subito coperto da urla. Strana cosa le urla di una larga maggioranza di potere che non rischierebbe nulla perfino ostentando una flemma tipo Anthony Eden o Lord Sandwich. Ma quelle urla ci dicono come è, come sarà l’epoca di potere che comincia adesso. Che nessuno pensi impunemente di sgarrare. Dalla gabbia mediatica non si sfugge. Provvede la gabbia mediatica, con la partecipazione straordinaria e volontaria di tanti di noi, a dire, proprio mentre urla fino al parossismo l’intero Popolo delle libertà, che l’opposizione “urlata” ed “estremista” è proprio insopportabile.
Dirò che mi fermo, in attesa di nuovi eventi che saranno, tra poco, così clamorosi, inauditi e - ripeteremo noi, pedanti - estranei alla democrazia, da prendere di sorpresa persino chi ha sempre dichiarato piena sfiducia in questo governo e nella sua maggioranza. Azzardo una previsione, e la proporrò. Sarà la descrizione di un paesaggio grave e tragico. Anche se vorranno costringerci alla percezione prevista dal copione. Ci diranno che è il “ritorno al Paese normale”.
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E’ il momento in cui si scopre che il conflitto di interessi ha un suo modo pernicioso di spandersi, anno dopo anno, in Italia. È l’interesse del conflitto, nei due sensi letterali: perché l’interesse è un continuo dividendo che il Paese deve pagare al titolare del conflitto, concedendogli ogni volta di più, visto che controlla così tanto.
Ma è anche l’interesse a mantenere vivo il conflitto perché i nemici, bene in vista e tenuti alla gogna, sono indispensabili per un governare montato come una campagna elettorale che non finisce mai. Nonostante l’effetto illusorio di una pace sempre possibile e sempre vicina, ogni accostamento viene impedito alzando bruscamente il prezzo, in modo che sia impossibile. Ma sempre per colpa dell’altro e a meno di un di un cedimento che ne cancella l’identità e lo esibisce come preda.
Dunque l’interesse remunera due volte il conflitto. C’è - s’intende - la condizione del rigoroso rovesciamento mediatico. Esempio: se gli aggrediti da questo potere commettono l’errore di rispondere con un insulto a un insulto, solo l’ insulto degli aggrediti sarà ricordato, ripetuto, inchiodato nella memoria collettiva. Avverrà a cura dei media, in modo che l’autore potente del primo insulto appaia sempre il mite protagonista vilmente insultato. Un esempio: Berlusconi definisce “cancro” e “metastasi” i giudici senza altra ragione che i temuti processi contro di lui. I media registrano e dimenticano all’istante. Fanno in modo che non se ne parli mai più, fino allo sbadiglio di Ugo Magri sulla Stampa per la mia frase. Ma se dite “magnaccia” (parola forse un po’ esagerata) al primo ministro sorpreso a sistemare le sue giovani amiche nella Tv di Stato, state tranquilli: se ne parlerà per sempre.
Temo invece, dati i tempi e dati i media, che non si parlerà per sempre della odiosa intenzione, inclusa nel “pacchetto sicurezza” del ministro dell’interno italiano Maroni, di obbligare all’umiliazione delle impronte digitali i bambini Rom, sia quelli italiani sia quelli ospiti del Paese Italia, che sta rapidamente diventando il più barbaro d’Europa. Giovedì 10 aprile [sic] il Parlamento europeo ha condannato a larga maggioranza l’Italia per l’incivile progetto. Il ministro degli Esteri Frattini e il ministro per gli Affari europei dell’attuale governo italiano Rochi, hanno subito indossato la faccia dell’«ora fatale del destino che batte nel cielo della nostra patria» (le prime parole del discorso di Mussolini, 10 giugno 1940) per ribattere a muso duro al Parlamento europeo che le nostre impronte digitali ai bambini non sono affari loro. Ronchi ha detto giustamente: «E’ il momento peggiore del nostro rapporto con l’Europa».
Vero, ma suona ridicola una frase così solenne se detta dal colpevole colto sul fatto. Il fatto triste è che Frattini e Ronchi intendevano proprio dire: «Se noi abbiamo deciso di svergognare l’Italia e affiancarla, quanto a diritti civili, allo Zimbabwe, sono affari nostri. E nessuno ci deve impedire di infangare come vogliamo la nostra immagine».
I due ministri, nel loro impegno a puntare sul peggio, sono apparsi così decisi, così sicuri che si possa buttare all’aria ogni decente e rispettoso rapporto con l’Europa, e così irrilevante essere considerati da Paesi civili come un Paese incivile, da rendere un po’ meno cupa l’immagine del ministro Maroni. Il ministro, in nome delle superstizioni della sottocultura leghista, priva di ogni soccorso, anche modesto, della cultura comune, ha dichiarato diverse guerre, tutte ai poveri e ai deboli inventati come nemici.
Pensate alla sua guerra ai Rom, che sono 150mila, metà italiani, metà donne, metà bambini. Il loro coordinatore, Xavian Santino Spinelli, ha parlato in Piazza Navona a nome dei molti Rom presenti (è la prima volta nella storia politica del nostro Paese) e a nome di tutti i Rom italiani.
Forse dispiacerà alla sottocultura leghista che il Rom Spinelli oltre a essere musicista (troppo facile, diranno) sia anche docente di Antropologia all’Università di Trieste. Il fatto è che il peggio di Maroni ha fatto nascere un meglio senza precedenti nelle vita italiana: un legame con il popolo Rom. Giovedì 8 luglio, per fare un altro esempio senza precedenti, la sala conferenze della Fondazione Basso era affollata di di Rom e di intellettuali della Fondazione per discutere il che fare insieme. Il lunedì precedente l’Arci ha organizzato in Piazza Esquilino una raccolta di impronte digitali di adulti e bambini italiani, evento affollato e filmato da una decina di televisioni europee e americane.
Ma proviamo a confrontare l’indefesso lavoro del ministro Maroni contro i piccoli, i deboli, gli scampati alla traversata del mare e alle guerre e persecuzioni nei loro Paesi, con ciò che pensa (del pensiero padano, del ministro Maroni e, ovviamente dell’illustre governo di Frattini e Ronchi) il Cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi. Cito da pag. 13 de Il Giornale, 8 luglio: «Asili per gli immigrati: le materne comunali dovrebbero essere aperte anche ai figli degli immigrati clandestini. Lo sgombero dei Rom: l’impressione è che nello sgombero si sia scesi sotto la soglia di tutela dei fondamentali diritti umani. L’esercito nelle città: I soldati servono ad aumentare la paura. La sicurezza non passa per decreto legge. La moschea di Viale Jenner: Maroni sposta la moschea? Solo un regime fascista e populista usa tali metodi dittatoriali».
Lo stesso giorno il ministro della Difesa La Russa aveva detto, con la sua famosa mancanza totale di humour: «Per il momento sembra chiaro che ai militari, a Milano, sarà affidata la sorveglianza del Duomo e delle chiese più importanti». Il Cardinale, che celebra ogni giorno la messa in Duomo, ha visto sùbito immagini che a uomini intelligenti e sensibili evocano Pinochet.
Come si è visto, l’interesse del conflitto è grande e sfacciato abbastanza da indurre l’editore del governo (che è anche il governo dell’editore) a pubblicare la più squallida e violenta copertina che mai settimanale politico europeo abbia pensato di pubblicare. Panorama, 10 luglio: la fotografia è quella di un bambino che i lettori sono chiamati a identificare come zingaro. Il titolo è “Nati per rubare”. Segue questo testo: «Appena vengono al mondo li addestrano ai furti, agli scippi, all’accattonaggio. E se non ubbidiscono sono botte e violenze. Ecco la vita di strada dei piccoli Rom che il ministro Maroni vuole censire, anche con le impronte digitali».
So di averne già parlato, ma ripeto le citazioni e l’immagine per due ragioni. Una è l’ offesa per una pubblicazione che esalta, secondo i canoni di Goebbels, l’indegnità genetica dei bambini di un popolo. L’altra è la solidarietà ai colleghi di Panorama, molti dei quali conosco e stimo personalmente, per l’umiliazione imposta loro da un proprietario che, dovendosi salvare dai suoi processi, ha bisogno dei voti leghisti e dunque deve pagare (e far pagare) pesanti tributi alla sottocultura leghista così risolutamente respinta dal Vescovo di Milano, in piena solitudine.
L’interesse del conflitto è una infezione che continua ad estendersi. Ma siamo appena all’inizio delle sue conseguenze peggiori. Purtroppo, a fra poco.
furiocolombo@unita.it
È NECESSARIO parlare di giustizia, della legge Ghedini-Alfano in via di velocissima approvazione, dell’emendamento blocca-processi e del suo auspicato smantellamento, del divieto ai giornali di riferire notizie sulla fase inquirente delle inchieste giudiziarie. È necessario ribadire con forza, come ha fatto Ezio Mauro nel suo articolo di venerdì, la vergogna d’una strategia dominata dall’ossessione del "premier" di evitare a tutti i costi e con tutti i mezzi la celebrazione di un processo a suo carico per un reato assai grave (corruzione di magistrati) che non rientra nelle sue funzioni ministeriali; un reato infamante di diritto comune sottratto all’accertamento giurisdizionale con un grave "vulnus" dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Tutto ciò è necessario e bene ha fatto il Partito Democratico ad opporsi con fermezza al complesso di questi atti legislativi, inaccettabili sia nel merito sia nelle procedure e nella tempistica che li hanno caratterizzati. Ma c’è un aspetto della situazione ancora più grave perché va al di là del caso specifico della denegata giustizia riguardante Silvio Berlusconi. E riguarda il mutamento in corso della Costituzione materiale.
Si sta infatti verificando dopo appena due mesi dall’insediamento del governo un massiccio spostamento di potere verso la figura del "premier" e del governo da lui guidato, un’intimidazione crescente nei confronti della magistratura inquirente e giudicante, una vera e propria confisca del controllo parlamentare di cui gli attori principali sono gli stessi presidenti delle due assemblee e la maggioranza parlamentare nel suo complesso. Non si era mai visto nei sessant’anni di storia repubblicana un Parlamento così prono di fronte al potere esecutivo che dovrebbe essere sottoposto al suo controllo.
Le Camere si sono di fatto trasformate in anticamere del governo, i loro presidenti hanno accettato senza fiatare che decreti firmati dal capo dello Stato per ragioni di urgenza fossero manomessi da emendamenti indecenti e non pertinenti, disegni di legge dei quali il capo dello Stato aveva rifiutato la decretazione per evidente mancanza dei presupposti di urgenza sono stati votati in quarantott’ore invertendo l’ordine dei lavori e l’intera agenda parlamentare.
Lo ripeto: qui non emerge soltanto l’ossessione dell’imputato Berlusconi, emerge un mutamento profondo ed estremamente pericoloso della Costituzione materiale della Repubblica, che avvia la democrazia italiana verso forme autoritarie, affievolisce l’indipendenza e lo spazio operativo dei contropoteri, mette in gioco gli istituti di garanzia a cominciare da quello essenziale della Presidenza della Repubblica.
Siamo entrati in una fase politica dominata dall’urgenza, qualche volta reale ma assai più spesso inventata e suscitata artificialmente. L’urgenza diventa emergenza, l’emergenza diventa eccezionalità. Il governo opera come se ci trovassimo in condizioni di stato d’assedio o in presenza di enormi calamità naturali; i decreti si susseguono; i testi dei provvedimenti finanziari sono approvati in nove minuti senza che nessuno dei componenti del governo ne abbia preso visione; la velocità diventa un valore in sé indipendentemente dal merito; la schedatura dei "rom" e dei loro bambini deve essere eseguita a passo di carica; tremila militari debbono affiancare trecentomila poliziotti e carabinieri per dare ai cittadini la sensazione di una minaccia incombente ed enorme e al tempo stesso la rassicurazione dell’intervento dell’Esercito per dominarla.
Questo sta avvenendo sotto gli occhi d’una pubblica opinione sbalordita, ricattata da paure inconcrete e invelenita dall’antipolitica dilagante che provvede ad infiacchirne la responsabilità sociale e il sentimento morale.
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È pur vero che nell’era globale gli enti depositari a vari livelli di poteri sovrani debbono poter decidere con appropriata rapidità. La rapidità è diventata addirittura uno dei requisiti di merito delle decisioni poiché la lentocrazia non si addice alla dimensione globale dei problemi. A livello locale, nazionale, continentale, imperiale, la rapidità rappresenta un valore in sé che comporta un’autorità centralizzata ed efficiente. Il paradigma più calzante di questa forma post-moderna di democrazia presidenziale è fornito dagli Stati Uniti, dove il Presidente, direttamente eletto, fruisce di strumenti di alta sovranità e d’un apparato amministrativo che a lui direttamente si rapporta. La democrazia presidenziale cesserebbe tuttavia di esser tale se non fosse collocata in uno stato di diritto fondato sull’esistenza di poteri plurimi reciprocamente bilanciati. Il primo di tali poteri bilanciati è l’autonomia degli Stati dell’Unione, che delimita territorialmente la competenza federale.
Il secondo è il Congresso e in particolare il Senato dove il legame elettorale dei senatori con i cittadini dello Stato in cui sono stati eletti è nettamente superiore al legame verso il partito di appartenenza: partiti liquidi che hanno piuttosto le sembianze di comitati elettorali finalizzati alla selezione dei candidati piuttosto che alla custodia di ideologie e discipline partitocratiche. In queste condizioni i membri del Congresso e le sue potenti commissioni rappresentano un "countervailing power" di particolare efficacia sia nell’ambito finanziario sia nella nomina di tutti i dirigenti dell’amministrazione federale sia nei poteri d’inchiesta e di controllo che non sono affievoliti dalla labile appartenenza ai partiti.
Il terzo potere risiede nella Suprema Corte che agisce sulla base dei ricorsi intervenendo sulla giurisdizione e sulla costituzionalità.
Il quarto potere è quello della libera stampa, nella quale nessun altro potere ha mai chiesto restrizioni e vincoli speciali a tutela di istituzioni e di pubbliche personalità. Giornali e giornalisti incorrono, come tutti, nei reati contemplati dalle leggi ma non esiste alcun limite alla stampa di pubblicare notizie su qualunque argomento e qualunque persona, tanto più se si tratti di personaggi pubblici, della loro attività pubblica e dei loro comportamenti privati e privatissimi.
Questo è nelle sue grandi linee il quadro complesso della democrazia presidenziale, ulteriormente arricchito dalla pluralità delle Chiese e dalla libertà religiosa che ne consegue. Non si tratta certo d’un modello statico né di un modello privo di storture, di vizi, di grandi e grandissime magagne; tanto meno di una società ideale da imitare in tutto e per tutto. Ma configura un punto di riferimento importante nell’evoluzione di un centralismo democratico nell’ambito dello Stato di diritto e della separazione bilanciata dei poteri e dei contropoteri. Nulla di simile alla nuova Costituzione materiale verso la quale si sta involvendo la situazione italiana.
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Sbaglierebbe di grosso chi ritenesse che l’involuzione del nostro sistema verso istituzioni di democrazia deformata risparmi l’economia. In realtà essa è la più esposta alle intemperie dell’interventismo pubblico e delle cosiddette politiche creative e immaginose delle quali abbiamo già fatto tristissima esperienza nel quinquennio tremontiano 2001-2006. Quelle politiche sono ritornate all’opera in un quadro internazionale ancor più complesso e preoccupante.
L’esempio che desta maggior allarme è fornito dal caso Alitalia del quale abbiamo più volte parlato e che ora sembra delinearsi in tutta la sua gravità. A quanto risulta dalle più attendibili indiscrezioni fatte filtrare direttamente dall’"advisor" Banca Intesa, si procede verso la formazione di una "nuova Alitalia" che potrebbe utilizzare l’80 per cento delle rotte di volo sul territorio nazionale e del personale di volo e di terra necessario all’esercizio di questa attività. La proprietà della nuova compagnia sarebbe interamente privata e nazionale. Essa non avrebbe più alcun debito poiché debiti, perdite, esuberi di personale sarebbero interamente trasferiti ad una "bad company" o "vecchia Alitalia" che dir si voglia, di proprietà pubblica, avviata alla liquidazione con tutti gli oneri conseguenti.
In uno schema di questo genere il maggior beneficiario è rappresentato dai proprietari di Air One, società sostanzialmente fallita che scaricherebbe i suoi debiti e le sue perdite nella "bad company" e percepirebbe quote azionarie della "new company": un salvataggio in piena regola a carico del danaro pubblico. Molti altri aspetti assai dubitabili si intravedono in questo progetto, lo sbocco del quale sarebbe una compagnia regionale del tipo della Sabena o della Swiss Air, risorte sulle ceneri di un fallimento per servire un mercato poco più che regionale. Se questo accadrà, l’opinione pubblica e i dipendenti di Alitalia avranno modo di misurare il danno che la sconsiderata condotta di Berlusconi-Tremonti ha procurato al Paese affondando la trattativa con Air France senza alcun piano alternativo e agitando lo specchietto per allodole della Compagnia di bandiera.
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Tiene ancora banco la disputa tra Tremonti e Draghi sulla "Robin Hood Tax". Nella recente riunione dell’Abi (Associazione bancaria italiana) il ministro e il governatore erano entrambi presenti e parlanti. I giornali hanno riferito in dettaglio lo scontro - peraltro assai sorvegliato nelle forme - che si è verificato tra i due, col governatore che ha battuto sulla necessità di evitare che la "Robin Tax" si traduca in un aggravio dei costi dell’energia e dell’attività bancaria e il ministro che difendeva la sua figura di difensore dei ceti deboli e di severo tassatore dei profitti speculativi. «Prima si tassavano gli operai che non potevano certo trasferire su altri le loro imposte» ha detto ad un certo punto il ministro dell’Economia guardandosi fieramente intorno come gli capita di fare quando pensa d’aver inferto un colpo dritto al petto dell’avversario.
Prima si tassavano gli operai. I lavoratori dipendenti. Certo, è così. È stato sempre così perché i lavoratori dipendenti sono stati la sola categoria sociale che ha pagato le tasse per intero, salvo dover accettare d’immergersi nel precariato del lavoro nero con tutto ciò che ne consegue sia sul piano salariale sia sulle protezioni antinfortunistiche e le provvidenze sociali. Prima si tassavano gli operai. Perché il ministro usa l’imperfetto storico? Ora non si tassano più? Al contrario: ora si tassano ancora più di prima. Basta scorrere le cifre uscite dall’Istat appena due giorni fa. Il peso dell’Irpef è in aumento e, all’interno del gettito dell’imposta personale, è in aumento l’onere dei lavoratori in genere e di quelli dipendenti in particolare. Prima si tassavano? Mai come adesso sono tassati, onorevole Tremonti ed è proprio lei a farlo. Perciò non usi l’imperfetto storico perché il tema è terribilmente presente (e futuro).
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Lo stesso Tremonti ha presentato nei giorni scorsi a Bruxelles il suo documento sull’importanza della speculazione nell’aumento dei prezzi dell’energia e delle "commodities". Avrebbe dovuto essere, nelle aspettative del ministro e dei tanti giornali che gli fanno coro, una sorta di marcia trionfale. Invece è stato un flop né poteva essere altrimenti per le tante ragioni che abbiamo elencato domenica scorsa. Le autorità europee hanno cortesemente messo in dubbio che l’aumento dei prezzi derivi dalla speculazione (la stessa osservazione ha fatto Draghi nella riunione dell’Abi sopra ricordata), hanno messo in dubbio che si possa dimostrare una collusione tra operatori e infine hanno messo in dubbio che l’Europa abbia strumenti adeguati per intervenire sul mercato delle "commodities" e del petrolio che si svolge per la maggior parte su piazze extraeuropee.
Questa storia della speculazione peste del secolo è un modo come un altro di suscitare un nemico esterno immaginario e distrarre l’attenzione da realtà assai più rilevanti e preoccupanti. Così il governo affronterà un durissimo autunno. Ora anche la Marcegaglia è "estremamente preoccupata" dal calo di produzione industriale dello scorso maggio e di quanto ancora si prevede per giugno e per i mesi successivi. Ma non lo sapeva, non lo prevedeva, non era nei segnali delle sue antenne, gentile presidente di Confindustria? Il clima era buono fino a un paio di settimane fa, diceva lei. Dunque una brutta sorpresa, un fulmine a ciel sereno? Stia più attenta, signora Marcegaglia: questa è roba seria e non ci si può impunemente distrarre.
Le città sono nate per dare risposta a due grandi questioni. La spinta verso il progresso economico: i primi aggregati urbani della storia, come noto, nascono nel vicino oriente proprio per permettere l’accumulazione della produzione agricola eccedente ai bisogni della popolazione insediata. Il bisogno di sicurezza verso l’esterno, la necessità di riconoscersi in gruppi che condividono la lingua e la cultura.
Le mura o i recinti delle città rappresentavano fisicamente e simbolicamente il limite tra dentro e fuori, tra sicurezza e insicurezza, tra l’ignoto e il conosciuto. Ma questo artificio di dividere in due la realtà, contrapponendo un interno sicuro per definizione ad un esterno ignoto non è mai stato vero. La storia delle città è stata sempre attraversata da inaudite violenze. Spesso queste violenze provenivano dall’esterno, dall’ignoto, appunto. Ma tante volte erano generate dal cuore stesso della città, dalla lotta di fazioni interne alla ricerca della supremazia e del dominio, dai conflitti religiosi. Nei momenti di crisi le violenze sono state indirizzate verso i diversi o le minoranze. Verso coloro che venivano dipinti come responsabili assoluti dello stato di malessere. Gli esempi sono infiniti. Da Antigone alle streghe, fino alle recenti persecuzioni razziali, sono tanti i modi con cui le città hanno tentato di esorcizzare la paura.
Il sentimento della paura non è dunque nuovo nella città. Quello che viviamo attualmente è soltanto l’ultimo in ordine di tempo. Nonostante i dati numerici ci dicano che i fenomeni di violenza sono più o meno stabili negli ultimi anni, si parla solo della sicurezza e dell’intervento repressivo necessario a riportare ordine. Siamo assediati in ogni luogo da telecamere puntate a scrutare ogni angolo urbano. Il senso comune di insicurezza che si sta affermando non è dunque un fenomeno inedito, ma un tema ciclicamente ricorrente. La novità inedita sta a mio giudizio nel fatto che i casi di violenza si iscrivono in una fase in cui la città nella forma storica con cui la conoscevamo -e cioè quella rete di relazioni e di luoghi che permetteva di attenuare le conseguenze dell’insicurezza sempre esistente- sta scomparendo. Oggi, insomma, c’è più allarme sociale perché non c’è più la città.
Non erano soltanto le mura a generare sicurezza e senso di appartenenza. L’evoluzione storica delle città ha portato progressivamente alla costruzione dei luoghi dell’identità delle comunità. Da quelli più semplici, come le strade destinate al commercio o le piazze sedi di mercato, a quelli più complessi, come i luoghi dell’esercizio dei poteri pubblici, della cultura o i luoghi in cui si svolgevano i riti del pensiero magico o religioso. Nella città contemporanea questo bisogno di identità sociale è diventato sempre più complesso e articolato: le strutture destinate all’istruzione di massa, le abitazioni pubbliche o i servizi alle persone -da quelli sanitari a quelli sociali- hanno rappresentato negli ultimi secoli i luoghi simbolici e concreti della sicurezza sociale. Sono stati i servizi sociali a fornire un’ancora di salvataggio alle fasce di popolazione più povere. Sono stati gli alloggi popolari a dare una fondamentale base al bisogno di sicurezza dell’abitare.
La fase del liberismo senza regole in cui viviamo sta cancellando con una velocità impressionante questo sistema di equilibrio sociale. Le città sono diventate esclusivo fattore economico, ogni altro elemento di giudizio, da quello simbolico a quello di benessere sociale è scomparso. Un esempio recentissimo si trova nel decreto legge n.112 del governo Berlusconi in vigore dal 25 giugno. L’articolo 58 obbliga i comuni a individuare le proprietà pubbliche da vendere e a redigere specifici progetti di “valorizzazione economica”. I progetti approvati andranno in deroga a tutti gli strumenti urbanistici e alle norme di tutela del paesaggio. Conta soltanto la realizzazione dell’affare economico.
I servizi sociali vengono chiusi uno dopo l’altro perchè non ci sono soldi, fatto incomprensibile per un paese che pure partecipa all’opulento banchetto degli otto paesi più ricchi del pianeta. Il sistema sanitario chiude progressivamente tutte le sedi periferiche che garantivano, quanto meno dal punto di vista psicologico, una sicurezza di assistenza immediata. Le scuole, quando non vengono dismesse per il calo della natalità, versano in uno stato di progressiva fatiscenza fisica e di contenuti: i tagli all’istruzione sono continui e generalmente accettati. Le case pubbliche e degli enti previdenziali sono state vendute alle più potenti società immobiliari, da Pirelli real estate alle altre grandi multinazionali del mattone.
Agli inquilini e ai pensionati non è restato altro che andare ad ingrossare le squallide periferie metropolitane. E tocchiamo così il secondo aspetto della scomparsa delle città. Anche nel periodo seguente alla rivoluzione industriale, quando le mura urbane non avevano più una funzione reale, le città crescevano quasi sempre per contiguità. Nuovi quartieri nascevano a diretto contatto con quelli esistenti e nel loro insieme dialogavano con la città storica. Oggi gran parte della popolazione è stata espulsa dalla città compatta e vive in un informe periferia metropolitana dove non esistono servizi e luoghi di aggregazione sociale e si vive nel più completo isolamento. In cui le opinioni non si formano dialetticamente con gli altri abitanti, ma si ricevono acriticamente dai media.
E così, come spesso succede, coloro che hanno causato questo devastante deserto sociale e cioè gli esponenti del pensiero liberista sostenitore dell’abbattimento di ogni residua funzione pubblica, cavalcano l’onda emotiva. Ed hanno buon gioco, finora, nell’additare i responsabili del clima di paura. Lavavetri, mendicanti e marginali. Immigrati dai paesi poveri e rom. Dopo gli assalti ad alcuni campi sosta, siamo arrivati all’idea criminale di prendere le impronte digitali ai bambini di etnia rom. Sono i responsabili della scomparsa della città che vivono di rendita sulla paur
La nostra Costituzione dà ben pochi poteri al Presidente della Repubblica che è tenuto a difenderla; fra di essi c'è il diritto di concedere la grazia e la possibilita di indirizzarsi alle Camere. Non può invece rimandare loro più di una sola volta una legge che ritiene sbagliata: se esse in seconda lettura la mantengono ferma, non puo rifiutare di promulgarla - siamo una Repubblica parlamentare ed è bene che tale restiamo.
Non è il caso della Francia, dove il capo dello stato presiede il consiglio dei ministri: così Nicolas Sarkozy parla da mattina a sera come Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio dei ministri e leader del suo proprio partito, la Ump. Gli serve più che mai una visibilità quando è, come ora, in difficolta nella sua stessa maggioranza.
E' dunque, supponiamo, nella sua prima e seconda veste che, incontrandolo al G8 nell'isola giapponese di Hokkaido, ha suggerito a Silvio Berlusconi di graziare l'ex Br Marina Petrella, che sta lasciandosi a morire in un penitenziario francese (ieri sera è stata ricoverata d'urgenza in un ospedale). Lui, da parte sua, senza attendere il parere del Consiglio di Stato, ritiene di estradarla in Italia, ma avrebbe la coscienza più tranquilla (in questi giorni aveva appena smesso di abbracciare Ingrid Betancourt che già offriva asilo senza condizioni ai membri delle Farc che disarmassero) se la sapesse senz'altro graziata. Silvio Berlusconi lo ha subito rassicurato, ricevendo poi a giro di e-mail dal Quirinale una nota che precisa come la grazia sia prerogativa del capo dello stato. Cosa che i due avrebbero dovuto sapere.
Non varrebbe la pena di commentare le uscite di due esternatori impenitenti come Nicolas e Silvio, se non ci fosse di mezzo la vita di una donna di 54 anni, che si è ricostruita da un passato tempestoso di speranze e illusioni, errato ma condiviso non certo per sordidi motivi da una parte della sua generazione. Marina Petrella era stata condannata una prima volta a sei anni di detenzione per soli reati associativi e stava ricominciando a vivere quando, nell'alone dei molti processi Moro, era stata ricondannata all'ergastolo per aver partecipato a un omicidio e per concorso in altri reati commessi in quanto dirigente di un gruppo territoriale delle Br romane.
Sappiamo quale estensione funesta ha avuto la dizione «concorso» negli anni dell'emergenza. In realtà i giudici non dovevano ritenerla così pericolosa se non è seguito di colpo l'arresto, e lei, già fortemente provata per la scelta fatta e per averne pagato il prezzo, non se l'è sentita di attendere un parere della Cassazione che magari le confermasse la pena a vita. Si è affidata alla parola che Francois Mitterand aveva dato nel 1985, secondo la quale chi dicesse addio alle armi e decidesse di passare a una seconda esistenza in Francia, senza piu uscire dalla legalità, vi sarebbe stato accolto.
E così è avvenuto, i governi che sono successi a Mitterrand hanno tenuto fede alla sua parola e Marina Petrella in Francia è stata per ben quindici anni con tutti i documenti in regola, ha trovato un lavoro e messo al mondo una seconda figlia.
Soltanto di recente, su pressione del governo italiano e di una frazione della maggioranza di destra francese, i nostri vicini d'oltralpe hanno deciso di consegnare all'Italia prima Cesare Battisti, poi Paolo Persichetti e adesso Marina Petrella. Adesso, quando quella fase degli anni Settanta, ammesso che sia stata un vero pericolo per le istituzioni italiane - cosa di cui dubita chi scrive - è finita da trent'anni. Marina di anni ne ha 54 e questo esito del tutto inatteso le ha tolto ogni volonta di vivere. Non si nutre, non parla.
Noi ci aspettiamo che Giorgio Napolitano abbia l'umanità che il presidente francese non ha avuto, pur avendo alle spalle l'impegno di Mitterrand che l'Italia non ha: gli anni di piombo sono stati soprattutto un dramma nostro e è piu facile essere generosi con quelli degli altri. Ma pensiamo che egli sarà generoso, tenendo presente la vicenda molto speciale di Marina Petrella, la gravità del suo stato e, anche, la grazia concessa dai suoi predecessori a Renato Curcio prima e a Ovidio Bompressi poi.
Ma da lui vorremmo qualcosa di più della grazia per Marina, con cui lei possa trovare le ragioni per continuare a vivere. Vorremmo un gesto che chiuda la pagina giudiziaria di oltre un decennio doloroso ma fattualmente concluso. Trent'anni sono molti, tutto lo scenario e i suoi soggetti sono cambiati. Ci aspettiamo che il Presidente della Repubblica indirizzi al Parlamento l'esortazione a trovare il modo di mettervi un punto finale. Non occorre una memoria condivisa fra chi ha anche compiuto atti gravi - e pagato assai caro, un tentativo di insorgenza sociale - e chi ne è stato vittima. Non crediamo alla dimenticanza pura e semplice, sappiamo dai greci che bisogna saper ricordare per mettere fine all'odio e dedicare un altare all'oblio. Sappiamo anche che non sono le famiglie colpite a voler ancora vendetta, non i Calabresi, non i Moro, non i Tarantelli.
Se Giorgio Napolitano inviterà a chiudere anche simbolicamente questa pagina forse non sarà subito ascoltato, ma la sua parola restituirà alla storia quella stagione e le darà pace.
I rom li schediamo per proteggere i bambini. Le moschee le chiudiamo per motivi urbanistici. L´Alto Commissariato per la lotta alla corruzione, invece, lo sciogliamo per tagliare la spesa pubblica. La decisione è contenuta in un articoletto passato inosservato del decreto legge del 25 giugno scorso. Un Paese che, secondo le classifiche di Trasparency International, risulta al quarantunesimo posto nella graduatoria mondiale sulla corruzione dei poteri pubblici, appena sopra la Malesia, ha deciso che l´Alto Commissario non ci serve. Protesta il Consiglio d´Europa, dove l´Italia aveva appena aderito allo speciale organismo per la lotta alla corruzione. E annuncia che «chiederà spiegazioni» al governo italiano.
In realtà la creazione dell´Alto Commissario deriva da una serie di impegni internazionali assunti dall´Italia. Oltre che dal Consiglio d´Europa, la presenza di una autorità nazionale indipendente che vigili sull´onestà dei funzionari pubblici è prevista anche dalla Convenzione dell´Ocse. E soprattutto dall´articolo 6 della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla corruzione, che l´Italia si è impegnata a ratificare prima di assumere la presidenza del G8, che della lotta alla corruzione ha fatto una priorità. I casi sono due: o non aderiamo alla convenzione Onu, oppure ricostituiamo l´Alto Commissariato dopo averlo abolito. Con un indubbio aggravio per la spesa pubblica.
La manifestazione di ieri di Antonio Di Pietro (non solo sua, soprattutto sua) è stata un successo ma sarà inutile. Quello che ci aspetta sono cinque anni di inarrestabile potere berlusconiano. Cinque anni almeno. La legge che garantisce l'immunità al presidente del Consiglio, il principale, sacrosanto obiettivo dei manifestanti di ieri, sarà approvata domani sera dalla camera dei deputati. Senza problemi. Le contromisure al regime, se di regime si tratta e probabilmente sì senza per questo proporre impossibili paralleli con il passato, non si improvvisano. Non saremmo nell'abisso democratico che proprio i girotondi denunciano se bastasse lanciare un grido per provocare una reazione sufficiente a bloccare il treno del governo. Questa reazione non si intravede.
Che i manifestanti di ieri con il loro furore antiberlusconiano siano i principali alleati di Berlusconi, come ci raccontano in troppi, è una sciocchezza. Il cavaliere è un re nudo che si muove completamente al di fuori della Costituzione. Se c'è qualcuno tra la folla osannante che a un certo punto lancia un grido è un bene e al cavaliere non fa affatto comodo. Infatti ne è ossessionato. L'ossessione però finisce con l'essere reciproca. E trasforma la vicenda personale del presidente del Consiglio - i suoi interessi economici, i suoi processi, le sue amanti - nell'unica ragione valida per fargli opposizione. Il fatto che Berlusconi governa diventa più grave, più insopportabile del come effettivamente stia governando. Molte ragioni di opposizione al centrodestra e dunque al razzismo, all'istinto securitario, al classismo delle misure economiche, sono rimaste fuori dalla piazza di ieri sera. Sembra questo il limite più forte dei girotondi, più ancora delle semplificazioni, delle volgarità, degli argomenti che in fondo esprimono la stessa cultura autoritaria che si vorrebbe contestare.
L'opposizione non è un pranzo di gala. A farla nei confini dettati dal Corriere della Sera, Veltroni finisce col non farla affatto. Se adesso - a giorni alterni - promette battaglia è perché Berlusconi lo ha costretto e perché le grida di questa piazza disturbano anche lui. Ma non è al partito democratico che si può affidare l'alternativa al potere berlusconiano. Non ne ha le caratteristiche strutturali perché è nato per venire a patti con Berlusconi, tanto è vero che si è inventato un inesistente presidente del Consiglio statista. Non ne ha più il background istituzionale tanto è vero che si ricorda della Costituzione solo di fronte agli avvocaticchi del primo ministro e anche in quel caso chiuderebbe un occhio se servisse a resuscitare il «dialogo». Non ne ha alla fine nemmeno la voglia perché se padroni e salariati sono uguali non ha senso dividersi su chi sta con gli uni e chi con gli altri. L'alternativa dovremmo aspettarcela dalla sinistra, ma quel che resta della sua rappresentanza partitica è troppo impegnata a massacrarsi nelle sue piccole stanze. E se ieri ha fatto una pausa è stato solo per venire ad ascoltare l'urlo dei girotondi, ai piedi del palco. Ma almeno di questo non diamo la colpa a Di Pietro.
Comunque vada non saranno i guai giudiziari a far cadere Berlusconi dal piedistallo. Come accade da quattordici anni a questa parte. Ora, nella «doppietta» decreto bloccaprocessi-lodo Alfano, il premier può optare persino per la seconda ipotesi, facendo contenti i suoi alleati e fornendo al Pd l'apparenza di un punto da incassare. A dover scegliere il male minore, l'impunità temporanea per «le alte cariche dello stato» è sicuramente l'opzione preferibile. Ma sempre «male minore» è.
La vicenda conferma come la via giudiziaria al cambiamento politico sia un'illusione, ma - soprattutto - quanto sia sbagliato concepire la lotta al berlusconismo come battaglia che si risolve in una persona sola e nelle sue malefatte. Per quanto sia potente la persona e grave il malaffare. Un riduzionismo che, prima, ha costruito un'alleanza elettorale dal respiro corto come quella dell'ultimo governo Prodi e ora ha ridotto l'opporsi parlamentare al puro contrasto delle leggi ad personam predisposte dalla maggioranza del presidente del consiglio.
Così la prima manifestazione di massa contro un governo ignobile è costretta a muoversi sulle sabbie mobili di uno scambio tra le due modalità diverse messe in campo per garantire l'impunità berlusconiana, mentre il Pd si accontenta (per simularsi in vita) di un'innocua raccolta di firme in attesa di una piazza che verrà. Tra tre mesi, forse.
Nel frattempo Maroni prende impronte, Tremonti propaganda la sua carità ai poveri, il duo Brunetta-Sacconi smantella in via definitiva i diritti del lavoro, la Russa fa la guerra, Scajola predispone affari nucleari. In pochi vedono in queste politiche concrete l'essenza del berlusconismo; in pochissimi (e sparpagliati) provano a opporvisi. I più inseguono le vicende pecorecce dell'imperatore e dei suoi cortigiani o pensano di poterle esibire come prova d'indegnità a un'opinione pubblica ormai rotta a tutto o quasi.
Scendere in piazza è un atto lodevole e c'è da sperare che la manifestazione di oggi vada bene, che sia un augurio per il futuro. Ma è pericoloso ridurre la portata dell'iniziativa guardando solo la punta dell'iceberg: il problema dell'iniziativa contro «il ritorno del Caimano» non è in ciò che dice, ma in quel che non dice. Nel lasciare ai margini, ad esempio, i temi economici e sociali. Nell'ignorare che l'uso privato e affaristico della cosa pubblica è la forma che riveste la sostanza della trasformazione delle persone in merci, dei cittadini in sudditi. Una mezza opposizione.
Col Berlusconi IV, ogni giorno porta, a noi cittadini, la sua pena e a tutto il Belpaese la sua sventura. Il quadro generale dei nostri beni culturali è divenuto, in pochi mesi, fosco. Francesco Rutelli era stato criticato (anche su queste colonne) per un giro di nomine sbagliato, ma aveva difeso validamente nel governo Prodi i finanziamenti destinati alla tutela e alla cultura, e quelli per il Fondo Unico dello Spettacolo, inoltre aveva conseguito il risultato finale di far approvare il Codice per i beni culturali e per il paesaggio nella versione ampiamente riformata predisposta da Salvatore Settis. Versione che, per ora, il suo successore, Sandro Bondi, ha detto di non voler toccare. Purtroppo però o la capacità di contrattazione del roseo neo-ministro all’interno del governo Berlusconi è inesistente, molle come il burro d’estate, o egli non vede e non sente (se non glielo dicono). Venerdì lo stesso Salvatore Settis, presidente del Consiglio superiore dei Beni Culturali, ha messo il dito sulle piaghe di un ministero che, già a corto di risorse, si vede ora massacrato di tagli. Bondi parla e Tremonti fa, cioè taglia: un miliardo circa di euro nei prossimi tre anni, secondo Settis. Oltre ai 150 milioni già sottratti ad una amministrazione che deve fare i conti con le bollette della luce, del telefono e del gas, con le spese per i francobolli.
Il segretario nazionale della Uil-Bac, Gianfranco Cerasoli, ha accusato Sandro Bondi di fungere ormai da «commissario liquidatore» del ministero creato con tante speranze da Giovanni Spadolini nel 1975. Il piano di tagli predisposto dal duo Tremonti-Brunetta incide in modo pesantissimo sulla voce «tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici», cioè sulla ragion d’essere costituzionale del ministero stesso. In definitiva per tutta l’attività del ministero dei Beni e delle Attività Culturali (MiBAC) rimarrebbe una miseria contro risorse che sino a ieri ammontavano a 625 milioni di euro. Dunque, niente assunzioni di tecnici, riduzione degli orari dei musei e magari chiusure diffuse, nessuna ispezione o missione sul territorio con grande gioia di speculatori, ladri, tombaroli e abusivi. Si pagherebbero, di fatto, i magri stipendi (il direttore di un grande museo non arriva ai 1.500 euro mensili) e poco più. Con tanti saluti al turismo culturale motore di un movimento intenso di visitatori del Belpaese che apprezzano soprattutto le città d’arte, i musei e i paesaggi italiani, e sempre meno le spiagge e le montagne. Una sorta di suicidio in piena regola, anche a volerlo guardare dal solo punto di vista economico.
Due scenari emergono infatti da questa serie di amputazioni: nel primo caso, si è detto, avremmo la “morte” del ministero dei Beni culturali; nel secondo, «la sola riduzione del Fus (Fondo unico dello spettacolo, ndr) porterà ad una crisi degli attuali settori di intervento», commenta Cerasoli, «che colpirà, secondo le stime dell’Agis, almeno 1.100.000 lavoratori». Aggiungiamoci la cancellazione della Tax Credit e per il nostro cinema, appena risollevatosi un po’, sarà la tomba. Corollario finale: il ministero dell’Economia e Finanza, cioè il solito Tremonti, si tiene per sé «le entrate derivanti dai servizi aggiuntivi (legge Ronchey) che permetteva il reintegro di almeno il 50 per cento delle somme». E l’omone di burro Bondi che fa? Sorride, stringe mani, distribuisce targhe e premi. Sembra tanto contento di sé. Un necroforo felice. Ma dove vive?
Le disgrazie, dicevo, non vengono mai sole. Nelle pieghe del decreto legge del 25 giugno scorso, all’articolo 58, si scopre che il superministro Giulio Tremonti, privati i Comuni dell’Ici e di un ben po’ di risorse sino a ieri trasferite dal centro (Bossi e Calderoli dov’erano andati nel frattempo, a pescare?), spinge gli Enti locali a vendere, anzi a svendere tutto, travolgendo ogni regola di buona amministrazione, pur di turare le falle, or ora allargate, dei loro bilanci correnti.
I Comuni infatti dovranno operare forzosamente la privatizzazione del loro patrimonio edilizio formando Piani delle Alienazioni Immobiliari in cui iscrivere i «singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione». Insomma: cari Comuni, non vendetevi proprio i palazzi civici e quelli degli uffici, però tutto il resto mettetelo sul mercato. Obiezione: ci sono i piani urbanistici vigenti a fissare le destinazioni d’uso dei vari immobili. Risposta: roba vecchia, il Piano delle Alienazioni votato dal consiglio comunale «costituisce variante allo strumento urbanistico generale». Non conta nulla che questo sia stato elaborato con procedure democratiche, osservazioni, ricorsi, controricorsi. Tutto cancellato: il Piano delle Alienazioni, in una botta sola, spazza via quell’intero ciarpame democraticistico. E i palazzi di valore storico-artistico? Non sappiamo, ma c’è ragionevolmente da temere anche per essi.
«Tragedia nella tragedia», commenta nel suo coraggioso sito eddyburg.it l’urbanista Edoardo Salzano, docente a Venezia, «nessuno ha reso pubblico questo ignobile provvedimento. Il potere degli Alienanti è diventato davvero egemonico, il loro governo un regime». Basterebbe, e avanzerebbe, questo ritorno in campo del Grande Alienatore e Cartolarizzatore Tremonti (che tante sofferenze sociali ha prodotto nel quinquennio 2001-2006). Ma, purtroppo, c’è, come abbiamo visto, la messa in liquidazione, per sottrazione di fondi, del ministero per i Beni e le Attività culturali che, suggerisce Salvatore Settis, ridotto ad una larva burocratica, potrebbe essere espropriato dalle Regioni. Lo propongono da tempo Toscana, Lombardia e Veneto. E, visto come vanno le cose in Sicilia, dove la tutela è già regionale, potrebbe anche essere la fine della cultura italiana intesa, da molti secoli, come la base, assieme alla lingua, di una identità nazionale unitaria.
ROMA - Difficile non confrontarsi con le parole di Umberto Eco. Difficile non chiedersi se davvero noi italiani siamo con un piede nel burrone, se davvero la democrazia qui, adesso, è in pericolo. «Non siamo ancora al regime – dice Rossana Rossanda – ma ci sono molti segnali di avvicinamento. Siamo al limite, tira un’aria brutta. Trovo importante che Eco sia intervenuto. Il rischio c’è. E a preoccuparmi non sono solo le gesta di Berlusconi, di La Russa, della "banda" che ci governa, ma il guasto profondo che si è prodotto nella società italiana, nell’opinione pubblica». Da Parigi, dove ormai vive quasi in pianta stabile, senza tuttavia perdere nulla di quel che succede in Italia, Rossanda vede un Paese incline al «populismo», in cerca del «capro espiatorio», «del poveraccio, del diverso», su cui far convergere frustrazioni, rancori, paure: «Se è vero che il 47 per cento degli italiani prova repulsione all’idea di vivere accanto a un Rom, allora bisogna battersi contro quel 47 per cento, ribellarsi all’egoismo, all’individualismo, risvegliare le coscienze».
Una democrazia, quella italiana, che scivola lentamente in altro. Dice Eco che «la maggioranza ha diritto di governare», ma altra cosa è il sentirsi depositari dell’unica verità. Dacia Maraini si farà prendere pubblicamente le impronte, il 7 luglio prossimo, a Roma, come atto di protesta contro uno dei provvedimenti più odiosi decisi da questo governo, la schedatura dei piccoli Rom. E’ d’accordo con Eco: «Questo Paese è borderline dal punto di vista della democrazia. Berlusconi non tiene conto di nulla, è un estremista, gestisce l’Italia come fosse una sua azienda. Maggioranza non può essere diritto di impunità, non è dominio sulla minoranza, non implica l’uso personalistico, poliziesco della politica».
La storia non si ripete o, semmai, si può ripetere in farsa, «ma anche le farse, a volte, possono essere inquietanti», avverte Rossanda che attribuisce un certo torpore etico anche alla scomparsa dei comunisti alla Berlinguer: «Potevi non essere d’accordo con loro, ma il Pci di allora, con le sue denunce, ti faceva sentire in colpa, agitava le coscienze». Oggi gli anticorpi sembrano minori. Che serva il ritorno alla piazza? «Se fossi a Roma – dice Rossanda - non andrei alla manifestazione dell’8 luglio perché intravvedo in Di Pietro un’idea della democrazia alimentata dalla vendicatività che non condivido». A ognuno il suo. Vincenzo Cerami pensa che, «per carità, un girotondo vada benissimo» ma da un «grande partito come il Pd, doverosamente dotato di senso delle responsabilità istituzionali, ci si attende una manifestazione alta, matura». Eco, dice Cerami, ha ragione quando fiuta il pericolo-regime in Italia ma l’immagine di «una minoranza che non osa reagire» non si applica certo all’opposizione veltroniana che, a mio avviso, non è né paciosa né tranquilla. Io dico: una manifestazione il Pd la farà, con i suoi tempi, con i suoi modi, senza un linguaggio impulsivo. Lasciamo che la maggioranza si cuocia nel suo brodo, lasciamo che vengano più allo scoperto...».
Lo scrittore Predrag Matvejevic, che ha conosciuto il regime croato di Tudjman e l’aria irrespirabile dei Paesi dell’Est, e ha ricevuto la cittadinanza italiana dal presidente Napolitano, tifa per un’Italia più reattiva: «Una democrazia a rischio può scivolare facilmente in quello che io chiamo "democratura" dove tutto sembra come prima, dove si proclama con forza il rito della democrazia ma, in realtà, è rimasto solo l’involucro».
Umberto Eco
"La minoranza ha il dovere di manifestare"
Repubblica, 2 luglio 2008
Umberto Eco ha inviato questa lettera a Furio Colombo, Paolo Flores d'Arcais, Pancho Pardi, promotori della manifestazione dell'8 luglio in Piazza Navona.
Cari Amici,
mentre esprimo la mia solidarietà per la vostra manifestazione, vorrei che essa servisse a ricordare a tutti due punti che si è sovente tentati di dimenticare:
1) Democrazia non significa che la maggioranza ha ragione. Significa che la maggioranza ha il diritto di governare.
2) Democrazia non significa pertanto che la minoranza ha torto. Significa che, mentre rispetta il governo della maggioranza, essa si esprime a voce alta ogni volta che pensa che la maggioranza abbia torto (o addirittura faccia cose contrarie alla legge, alla morale e ai principi stessi della democrazia), e deve farlo sempre e con la massima energia perché questo è il mandato che ha ricevuto dai cittadini. Quando la maggioranza sostiene di aver sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia.
Umberto Eco
Un presidente della Repubblica sotto tutela. Costretto a precisare di aver deciso in autonomia l'invito alla prudenza spedito ieri al Csm a proposito del decreto blocca processi. Precisazione complicata: in effetti Napolitano ha fatto esattamente quanto i due presidenti delle camere, guardiani della maggioranza berlusconiana, gli avevano chiesto 24 ore prima. Preoccupandosi poi di farlo sapere perché questa è la cifra istituzionale delle seconde cariche dello stato. Quando nel 1991 Francesco Cossiga volle condizionare le decisioni dell'organo di autogoverno della magistratura si mise a sedere alla presidenza del Csm. Napolitano ha scritto una lettera. Per ribadire l'ovvio, cioè che il Consiglio superiore ha la facoltà di esprimere pareri sulle leggi che riguardano l'organizzazione della giustizia - ha però sbagliato norma di riferimento, si tratta della 195 del 1958 - e per cavillare sui limiti di questi pareri. È pacifico: il controllo di costituzionalità sulle leggi non spetta al Csm, che infatti non lo svolge. Di quel potere è titolare la Corte costituzionale e in prima istanza anche il capo dello stato che non deve dimenticarsene.
Berlusconi impone leggi non costituzionali. Questo è un fatto, verificatosi più volte durante la legislatura 2001-2006. Leggi cancellate dalla Corte costituzionale anche quando il presidente della Repubblica le aveva firmate senza troppi problemi. Anche allora il Csm aveva lanciato un avvertimento sulla illegittimità delle leggi di Castelli, Bossi e Fini, Cirielli e Pecorella. Anche allora molto scandalo (della destra) ma nessun capo dello stato preoccupato di ridimensionare («marginalizzare» ha detto ieri il portavoce di Forza Italia) il Csm. Forse perché allora non si parlava di «dialogo»? E siccome adesso adesso se ne parla, il Csm dovrebbe chiudere gli occhi di fronte a una norma che senza alcuna ragionevolezza blocca alcuni processi, incluso quello del premier?
Costituzionalizzare Berlusconi è un'impresa impossibile. Uscire dall'anomalia italiana a cavallo del cavaliere pure, dal momento che l'anomalia è lui. Napolitano si impegna. Richiama tutti con i suoi «messaggi in bottiglia» nel nome di una correttezza istituzionale che non c'è. È costretto a inseguire Schifani e Fini, concede una copertura al presidente del Consiglio e ne è immediatamente ricambiato con l'annuncio di un possibile nuovo decreto sulle intercettazioni. La «moral suasion» non funziona col cavaliere. Che resta libero nelle sue sguaiate scorribande mentre gli altri poteri che dovrebbero contenerlo si frenano a vicenda con molta eleganza e rispetto. Se Napolitano con la sua lettera voleva un clima più disteso ha ottenuto solo un nuovo affondo della destra contro il Csm. Ora al capo dello stato resta solo l'estrema decisione, firmare o non firmare la legge con il «blocca processi». Scopriremo allora se c'è ancora qualche argine a Berlusconi oppure no.
LA STASI generale dei processi è un espediente faute de mieux: B. vuole l’immunità, reiterata nell’ascesa al Quirinale; e che intanto il dibattimento milanese dorma. S‘è visto perdente nel giudizio a regola d’arte (ai bei tempi li affatturava): se no, quale migliore occasione d’un dibattimento trionfale?; così conclude chiunque, munito d’un cervello, non militi sotto bandiera blu (colore della nuova pirateria, epoca «Beautiful»). La sua difesa è l’abusato giuramento purgatorio sulla testa dei figli, quarta volta: tali messinscene valevano poco già otto secoli fa, quando un canone del IV Concilio Laterano, anno 1215, squalifica l’obsoleta macchina giudiziaria vietando ogni apporto ecclesiastico alle «purgationes vulgares» (ordalie e duelli); dalla crisi emergono i sistemi inquisitori (raziocinio empirico sulla questione storica, giudici professionisti, fonti romane, leggi imperiali, statuti). Nella consueta chiave paranoide mima il gesto delle manette davanti ai Confesercenti che lo fischiano: toghe sovversive l’hanno condannato in segreto, sei anni, ma lui non è un povero diavolo inerme; cambierà le regole nell’interesse collettivo, Robin Hood delle libertà; e honny soit chi insinua sospetti d’un profitto personale. A ogni costo deve impedire la decisione milanese. Il famigerato emendamento sulla sicurezza viene utile sotto due aspetti: gli blinda un anno; e mettono paura le centomila cause che manda al diavolo per bloccare la sua. Non è discorso da cavaliere immacolato: li preoccupa la routine sconvolta?; gli garantiscano l’immunità, legando nel frattempo lo scomodo tribunale. Così parlano gli estorsori (art. 629 c. p.): «chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da 5 a 10 anni»; e nessuno se ne stupisce, tanto poca notizia fa Tortuga emersa nell’Olona. Che batta bandiera nera, è già chiaro quando i networks nascenti invadono l’etere, protetti da governanti complici, finché una vergognosa legge ad divum Berlusconem, cosiddetta Mammì (Oscar, ministro delle Poste), consacra il duopolio, ed è niente rispetto al séguito. Cade Craxi premier: affogano i tre del Caf, Craxi, Andreotti, Forlani; il pirata delle tv salta in politica, condottiero forzaitaliota; raddoppiando ogni volta la posta, oltre ad arricchirsi smisuratamente insegue l’en plein assoluto; se il colpo riesce, l’Italia sarà una signoria berlusconiana.
Non ha perso tempo. Venerdì 27 giugno Palazzo Chigi vota un ddl. a beneficio dei quattro presidenti: lui viene modestamente ultimo, dopo Quirinale, Palazzo Madama, Montecitorio; saranno immuni dal processo. Avviene nelle migliori corti europee, spiegano al pubblico i soliti piccoli Goebbels: gli elettori hanno diritto a un governo stabile; come può adempiere l’alto compito chi abbia addosso dei persecutori? Fandonie. I premier d’Europa non godono d’alcuno scudo, salvo l’eventuale autorizzazione a procedere quando siano parlamentari (in Francia e Olanda non lo sono) e viga tale ormai incongrua tutela, qui abolita dall’art. 1 l. c. 29 ottobre 1993 n. 3 (come in Belgio: altrove non è mai esistita, vedi Usa, Inghilterra, Svezia): risaliva ai tempi in cui oppositori scomodi rischiassero pressioni da una magistratura lunga mano del potere esecutivo; nell’Italia attuale il fine sarebbe inverso, lasciare impuniti gli uomini del re-padrone. Qualcosa della nient’affatto riguardosa prassi statunitense sappiamo dal caso Clinton-Levinski. Insomma, B. sarà l’unico capo del governo immune in quanto tale.
Il clou sta nell’art. 5: i processi restano sospesi finché dura la carica e la sospensione «non è reiterabile»; parrebbe uno sbarramento equo ma in cauda venenum, «salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura». Undici parole, soppesiamole. Due casi sono chiari: Il governo è affondato: dopo Primus viene Secundus; affonda anche lui; riappare Primus e perdurando la legislatura, rivive l’immunità. La seconda conclusione sicura è che a tali fini non valgano uffici diversi in legislature distinte, altrimenti un presidente del consiglio planerebbe au dessus de la loi 22 anni se, avendo governato per 5, nei 10 seguenti presiedesse Camera alta e Camera bassa, scalando infine Monte Cavallo. L’art. 5 ammette il bis solo rispetto alla «nuova nomina» durante «la stessa legislatura»: ora, niente impedisce che l’ex premier guidi una Camera o tutt’e due o la Repubblica; nella quale ultima ipotesi verosimilmente cade il limite dell’immunità alla singola legislatura; eletto in termine, la conserva sette anni. Sappiamo dove miri B.: puntava al Colle già nel secondo governo; vuol salirvi con i poteri d’un De Gaulle o Bush, mettendo a Palazzo Chigi qualche commesso ubbidiente e revocabile; tale resta l’obiettivo ma c’è una deadline o termine finale, oltre cui l’Eldorado svanisce (metafora molto realistica perché nemmeno lui sa quanti miliardi gli pioverebbero in soprannumero politico); il tutto deve accadere nella XVI legislatura. I conti sono presto fatti: Camera e Senato durano 5 anni, prorogabili con una legge, «soltanto in caso di guerra» (art. 60 Cost., c. 2); evento improbabilissimo; il quinquennio spira nell’aprile 2013; poco dopo scadono i sette dell’attuale Presidente; il quale fissa l’elezione entro 15 giorni dalla riunione delle Camere nuove; l’art. 85. Cost, c. 3, gli proroga i poteri; idem qualora manchi meno di tre mesi allo scioglimento delle Camere.
Se tutto va secondo i suoi calcoli, dunque, B. diventa capo dello Stato, presiedendo il Csm: sono gesta da Nave dei folli (tema ricorrente nella pittura didascalica quattro-cinquecentesca), visto che animale da preda sia e cosa pensi dei magistrati (mestiere sporco, vi confluiscono gli affetti da turbe mentali; e progetta visite psichiatriche); saranno spettacoli d’una strabica Dike fescennina ma, svanita l’immunità, eccolo in tribunale sotto l’accusa d’avere pagato un testimone perché mentisse. Non può succedere: il suo mondo ha qualche aspetto psicotico, però Leviathan, alias Caimano, è azzannatore infallibile; molti deliri sono coerenti; e nelle psicosi «acted out» il delirante modifica l’ambiente adeguandolo a sé. Dovendo essere eletto in questa legislatura, presuppone l’esodo dell’attuale Presidente. I casi sono tre: morte (nessun precedente); impedimento da malattia (Antonio Segni); dimissioni (Giovanni Leone). In tal senso aveva accennato una mossa. Resta da dire che mostro sia in termini costituzionali il ddl. dei quattro presidenti (meglio denominabile «c’est Moi», maiuscolo), e l’argomento richiede discorsi terribilmente seri.
ROMA — Era stato condannato, lui e altri cinque amministratori della Lega: propaganda di idee discriminatorie. «Firma anche tu per mandare via gli zingari», i manifesti che Flavio Tosi, oggi sindaco leghista di Verona, sette anni fa aveva sparso per la sua città e per i paesi vicini. «Gli zingari devono essere mandati via perché dove arrivano ci sono furti», aveva spiegato poi in una riunione.
La corte d'appello di Venezia non ha avuto dubbi: questo è razzismo. Due mesi di reclusione, per Tosi e per gli altri cinque. Tre anni di interdizione dalle campagne elettorali. Ma la Corte di Cassazione ha smontato tutto: lo ha assolto. E ha rinviato ad altra sezione della Corte d'appello.
La sentenza è di quelle destinate a far rumore: è la numero 13234 della Terza sezione penale. Non è facile star dietro alle quindici pagine delle motivazioni depositate già nel marzo scorso. In punta di penna e di diritto, la Suprema Corte legittima la discriminazione in base al comportamento. Ovvero: non puoi essere discriminato perché sei zingaro. Ma se sei ladro sì. E poco è importato ai giudici togati che Flavio Tosi aveva sostenuto, in buona sostanza, che tutti gli zingari sono ladri.
Bisogna andare a pagina 13 della sentenza. E leggere che la Cassazione conferma la frase di Tosi(riferita da una testimone) a proposito degli zingari, tutti ladri. Ma sostiene che con quella frase il sindaco manifestava «...un'avversione non superficiale che non era determinata dalla qualità di zingari delle persone discriminate, ma dal fatto che tutti gli zingari erano ladri. Non si fondava, cioè, su un concetto di superiorità o di odio razziale, ma su un pregiudizio razziale». E dunque?
La Suprema Corte ammette: «Certo, anche il pregiudizio razziale può configurare la discriminazione punibile allorché contiene affermazioni categoriche non corrispondenti al vero....». Ma?
I giudici con l'ermellino sono convinti: «In una competizione politica particolarmente accesa bisogna stare attenti al contesto...». E l'analisi di questo contesto viene esplicata per tutte le pagine di questa sentenza dove seguendo la Cassazione, in punta di penna, si fa fatica a coniugare il diritto con la logica e il buon senso.
Un esempio. A pagina 9 si parla dei sei imputati. La Suprema Corte è convinta: con i loro manifesti volti a raccogliere firme per una petizione non volevano cacciare via gli zingari, ma sistemarli meglio, nei paesi limitrofi a Verona. Eppure a pagina 12 scopriamo che proprio i paesi limitrofi a Verona erano stati tappezzati dei manifesti che chiedevano di firmare la petizione per mandare via gli zingari.
All'epoca dei fatti, settembre 2001, Flavio Tosi era capogruppo regionale della Lega nord. La sua petizione diceva: «I sottoscritti cittadini veronesi con la presente chiedono lo sgombero immediato di tutti i campi nomadi abusivi e provvisori e che l'amministrazione non realizzi nessun nuovo insediamento nel territorio comunale». E secondo la Cassazione questa petizione «non ha un contenuto palesemente discriminatorio ».
Uno strano errore è stato commesso e ripetuto dai diversi schieramenti che, nel corso di 15 anni, si sono opposti, spesso con tollerante mitezza all’impero di Berlusconi (nel senso di tutti i soldi e tutte le televisioni con cui fa politica). È stato l’errore di dire e pensare che Roberto Maroni fosse il più umano e normale dei leghisti, niente a che fare con vergognose figure come Borghezio e Gentilini.
Un errore grande. Non c’è alcuna differenza fra Maroni e Borghezio o Gentilini. Il ministro degli Interni di un Paese democratico che ordina di prendere le impronte digitali di migliaia di bambini italiani o ospiti dell’Italia, solo perché quei bambini sono Rom, è fuori dalla nostra storia di paese libero. È estraneo allo spirito e alla lettera della nostra Costituzione, è ignaro del fascismo da cui ci siamo liberati e di cui ricordiamo con disgusto, fra i delitti più gravi, l’espulsione dei bambini italiani ebrei dalle scuole italiane.
È stato uno dei peggiori delitti perché quella umiliazione spaventosa a cui sono stati sottoposti i più piccoli fra i nostri concittadini ebrei, alla fine ha generato lo sterminio. Il ministro degli Interni non è così giovane e così ignaro, per quanto la sua formazione sia immersa nella barbara e claustrofobica visione
Il ministro dell’Interno sa, e non può fingere di non sapere che obbligare i bambini di un gruppo etnico (molti radicati in Italia da decenni, alcuni da secoli) alle impronte digitali vuol dire lacerare la nostra vita, spaccare e isolare dal resto del Paese una parte di coloro che vivono e abitano con noi. Vuol dire indicare a tanti, che hanno più o meno la sensibilità morale del ministro, “gli zingari” compresi “i bambini zingari” come estranei, reietti e degni di espulsione. Chi è indicato come “da escludere” diventa per forza qualcuno da perseguitare.
Si noti un particolare davvero disgustoso e non accettabile: l’impronta verrà presa prima di tutto e più facilmente ai bambini che vanno a scuola e verranno che marchiati di fronte ai compagni. E sarà una umiliazione grave per la Polizia italiana. L’ideologia conta poco e nessuno, salvo xenofobia e razzismo, conosce uno straccio di ideologia della Lega. Ma la decisione di sottoporre i bambini di un gruppo selezionato come nemico all’umiliazione delle impronte digitali è una decisione fascista.
Mi impegno a tentare con le mie prerogative di parlamentare di impedirlo. Chiedo ai colleghi Deputati e Senatori che si riconoscono nella Costituzione di volersi unire per difendere i bambini Rom, l’onore della nostra Polizia, ciò che resta della nostra civiltà democratica.
Dunque Silvio Berlusconi dice di non essere ossessionato dai giudici. Se così fosse, tutto sarebbe più semplice. Il Cavaliere è il legittimo capo del governo del Paese, ha ottenuto un forte consenso popolare, guida una maggioranza compatta di parlamentari che ha potuto scegliere e nominare personalmente, è alla sua terza prova a Palazzo Chigi, può finalmente trasformarsi in uomo di Stato. Intanto i suoi avvocati lo difendono con sapienza, libertà e ampia fantasia tecnica nel processo di Milano, dov’è imputato per corruzione in atti giudiziari, con l’accusa di aver spinto l’avvocato londinese Mills a dichiarare il falso sui fondi neri all’estero della galassia Fininvest. Due poteri dello Stato – l’esecutivo e il giudiziario – svolgono il loro ruolo, nelle loro prerogative autonome, ed entrambi nell’interesse del libero gioco democratico, al servizio della Repubblica. Poi, l’opinione pubblica giudicherà gli esiti. Si chiama separazione dei poteri, è uno dei fondamenti dello Stato moderno, e realizza il principio secondo cui la legge è uguale per tutti, anche per chi ha vinto le elezioni e governa il Paese. Perché l’eguaglianza, come spiega Rawls, «è essenzialmente la giustizia come rispetto della norma».
Ma si può dire che sia così? Stiamo ai fatti. Ieri Berlusconi è entrato tra applausi e invocazioni da stadio all’assemblea della Confesercenti, pronta ad ascoltare la ricetta del governo per una categoria che ad aprile ha visto i consumi in caduta libera (-2,3 per cento), con i piccoli negozi in calo del 4,1, il settore non alimentare del 3,4.
Ma il Cavaliere, dopo aver ringraziato per l’accoglienza "tonificante" ha mimato con le mani incrociate le manette, ha assicurato che «certi pm vorrebbero vedermi così», ha spiegato che i giudici politicizzati sono "una metastasi della democrazia", una democrazia peraltro «in libertà vigilata, tenuta sotto il tacco» dalla magistratura ideologizzata «che vuole cambiare chi è al governo, ledendo con accuse fallaci il diritto dei cittadini a essere governati da chi hanno scelto democraticamente»: mentre il Pd, difendendo i magistrati, ha spezzato il dialogo che Berlusconi ormai rifiuta, perché non vuole discutere «con un’opposizione giustizialista».
Siamo dunque davanti alla rappresentazione istituzionale di un’ossessione. Anzi, ad un’ossessione che si fa governo, che si trasforma in legge, che rompe una politica e ne avvia un’altra. Un’ossessione che si fa verbo e carne, misura di una leadership, orizzonte di una maggioranza, cifra definitiva dell’avventura di questa destra italiana talmente impersonata dal Cavaliere da precipitare intera nei suoi incubi. Si capisce perfettamente la scomodità di fronteggiare un processo per corruzione mentre si è appena riconquistata con un trionfo elettorale la legittimità a governare il Paese. E tuttavia questa scomodità è anche una delle prove della democrazia sostanziale di una Repubblica. Perché non è in gioco, com’è ovvio e com’è evidente, il pieno diritto e la piena libertà dell’imputato Berlusconi a difendersi con ogni mezzo lecito nel processo, facendo valere fino in fondo le sue ragioni, sperando che prevalgano. In gioco, c’è il privilegio improprio di quell’imputato, che può contare sull’aiuto del Premier Berlusconi. Un aiuto attraverso il quale il potere politico diventa ineguale perché abusando della potestà legislativa costruisce con le sue mani - le mani del Presidente del Consiglio, che sono le stesse mani dell’accusato in giudizio - un vantaggio indebito contro un altro legittimo potere della Repubblica (il giudiziario) e contro i cittadini che si trovano nelle sue stesse condizioni, ma non possono contare su quel privilegio.
Per salvarsi da un potere che opera in nome di quello stesso popolo italiano da cui ha avuto un consenso amplissimo, il Cavaliere ha infatti deciso di trasformare il suo personale problema in un problema del Paese e la sua ansia privata in un’urgenza nazionale. Dopo aver ritagliato dentro la procedura penale una misura di sospensione dei processi che ha il profilo della sua silhouette, per bloccare la sentenza in arrivo a Milano, ha provato a trasformare in decreto legge (dunque un provvedimento con carattere di necessità e di urgenza) il nuovo lodo Schifani che per la seconda volta tenta di garantirgli l’immunità penale. Com’è evidente, è proprio l’urgenza di legiferare sotto necessità impellente che rende le due norme inaccettabili, perché patentemente ad personam. È il legame tra le due misure che le svilisce a strumento di salvacondotto meccanico. È tutto ciò, più la coincidenza democraticamente blasfema tra la persona dell’imputato, del capo del governo e del capo della maggioranza legislativa che fa del caso italiano qualcosa di molto diverso dal sistema costituzionale della garanzie per le alte cariche in vigore in alcuni Paesi: dove i Parlamenti - almeno in Occidente - legiferano su tipologie astratte nell’interesse del sistema e non su biografie giudiziare specifiche per dirottarne l’esito nell’interesse privato, spinti dal calendario di un processo in corso.
A due mesi appena da un voto che aveva garantito maggioranza certa, leadership sicura, alleanze blindate, opposizione dialogante, stiamo dunque assistendo ad un incendio istituzionale in cui tutto brucia, nel rogo di un leader che ogni volta consegna i suoi talenti ad un demone, sempre lo stesso. Brucia anche l’autorevolezza del premier e la sua credibilità se non come uomo di Stato almeno come uomo d’ordine: proprio ieri, mentre attaccava i giudici in preda ad un’ira visibile, la platea plaudente dei commercianti ha cominciato a mormorare, poi a rumoreggiare, infine a gridare, con i primi fischi che solcano il miele di questa luna berlusconiana, luminosa per due mesi, e improvvisamente nera. Dice la commissione del Csm incaricata di preparare il plenum che la norma salvapremier farà fermare oltre la metà dei processi in corso, scegliendo arbitrariamente tra i reati, introducendo casualmente uno spartiacque temporale, violando la Costituzione quando parla di "ragionevole durata" del dibattimento, fino a realizzare nei fatti una "amnistia occulta". Sullo sfondo, per tutte queste ragioni, si annuncia un conflitto con il Capo dello Stato che ancora ieri ha chiesto rispetto tra politica e magistratura, ma senza illudersi: «Con la moral suasion lancio messaggi in bottiglia, non sapendo chi vorrà raccoglierli».
Rotto il dialogo, perché ieri Veltroni ha chiuso definitivamente la porta, il Cavaliere è dunque solo davanti alla sua ossessione. Che non è politicamente neutra, e nemmeno istituzionalmente, perché sta producendo giorno dopo giorno una specialissima teoria dello Stato che potremmo chiamare monocratico, con un potere sovraordinato perché di diretta derivazione popolare (il governo espressione della maggioranza parlamentare) e tutti gli altri poteri della Repubblica subordinati: al punto da diventare illegittimi quando mettono in gioco nella loro autonoma funzione il nuovissimo principio di sovranità che vuole il moderno sovrano legibus solutus. I costituzionalisti hanno previsto questa forma di "autoritarismo plebiscitario", e Costantino Mortati ha parlato di "sospensione delle garanzie dei diritti" per la necessità "di preservare l’istituzione da un grave pericolo che la sovrasta" e per la precisa esigenza "di sottrarre a controlli l’opera del capo": ma nessuno avrebbe detto che eravamo davanti a questa soglia.
E invece, questo è un esito possibile - istintivo e necessitato più che teorizzato, e tuttavia perfettamente coerente - del populismo italiano all’opera da quindici anni, capace non solo di conquistare consenso ma di costruire un senso comune dominante, d’ordine e rivoluzionario insieme, tipico della modernizzazione reazionaria in atto. Nel quale può infine crescere senza reazioni questa sorta di opposizione dal governo tipica della destra populista, una speciale forma di "disobbedienza incivile" come atto contrario alla legge, con la maggioranza che detiene il potere politico impegnata a chiamare il popolo alla ribellione.
Questa, non altra, è la posta in gioco. Si può far finta di non vederla, per comodità, pavidità, complicità o per convenienza. Lo stanno facendo in molti, dentro il nuovo senso comune che contribuiscono a diffondere. Sarà più semplice per Berlusconi compiere il penultimo atto, l’attacco finale alla libera stampa. Poi il privilegio prenderà il posto del governo della legge, rule of law. Ecco dove porta l’ossessione del Cavaliere. C’è ancora tempo per dire di no: non tutta l’Italia è acquisita, indifferente e succube.
Bisogna dare atto a Silvio Berlusconi di aver compiuto un capolavoro. Malefico, ma un capolavoro. Va anche detto che non ha trovato molti contrasti, da un'opposizione parlamentare edulcorata a un presidente della Repubblica timorosissimo. Ma resta la sostanza del primo via libera parlamentare a un decreto sicurezza che mette insieme il danno e la beffa: il danno di misure repressive e a-costituzionali (ronde militari, espulsioni a pioggia, immigrazione concepita come pericolo sociale) con la beffa dell'impunibilità personale del premier spacciata come operazione di pubblica sicurezza.
Il capolavoro di Berlusconi consiste nell'aver creato (con la complicità di tv e giornali, e non solo quelli di proprietà) una doppia emergenza - pubblica e privata - su cui far passare un apparato di norme per cui i presidenti dei tribunali dovrebbero smontare dai loro tavoli quella vecchia scritta che recita «la legge è uguale per tutti». Di più. Il premier è riuscito a catalizzare su di sé (e sui provvedimenti che lo riguardano) tutte le attenzioni mediatiche e politiche del decreto sicurezza, facendo passare in secondo piano le misure altrettanto gravi che riguardano il resto degli umani. In questo modo l'opposizione parlamentare è rimasta ancora una volta vittima di un antiberlusconismo superficiale, tutto legato al Berlusconi-persona e del tutto scollegato al Berlusconi-soggetto politico.
Il guaio è che sembra essere passata la logica di scambio che il premier ha proposto all'opinione pubblica: «Io vi garantisco la sicurezza di strada e voi mi concedete l'immunità personale». Un po' come accadeva per l'antico istituto della dittatura romana: pieni poteri al dux di fronte al nemico che bussa alle porte. Non importa che il nemico sia una creazione ideologica, né che le misure securitarie proposte servano a nulla, quel che conta è l'opinione comune che si viene a creare e i benefici effetti che il «dittatore» ne trarrà. Siano essi quelli dei processi cancellati votati dal senato (soluzione tirannico-personale) o quelli di un novello lodo Schifani per l'immunità temporanea offerta alle alte cariche dello stato (soluzione oligarchico-castale).
Rimediare a un simile disastro non sarà facile. Servirebbe una mobilitazione non ridotta a testimonianza di pochi, una politica capace di ammettere i propri errori, un'informazione non asservita, una cultura capace di una comunicazione non elitaria. O, almeno, un segnale, un gesto di coraggio che dall'alto di un Colle dica «siamo una repubblica democratica, non una tirannia né un'oligarchia». O è pretendere troppo?
Spesso chi ci guarda da fuori dice qualcosa su noi e la nostra storia che è difficile dire a se stessi e perfino pensare. Di questo nostro terzo occhio possiamo risentirci o esser grati: comunque avremo l’impressione d’ascoltare una non improbabile verità. Nel mezzo d’un attonito imbarazzo un ange passe: un angelo passa, dicono i francesi. Accade nella vita degli individui come delle nazioni, e l’Italia non è l’unica a sperimentarlo. La Francia ha iniziato a scrutare dentro il proprio passato fascista grazie allo storico americano Robert Paxton, nel '66: l’angelo passò e i francesi impararono a vedere nel vasto buio della collaborazione. Chi guarda da fuori non è necessariamente uno straniero: può anche essere un connazionale che riesce a guardare da una certa distanza, che è meno fasciato da bende linguistiche patrie. Così è stato per l'Italia nell'ormai lunga epoca dominata da Berlusconi. La parola che più spesso la definisce è, da anni, «anomalia democratica»: il terzo occhio questo vede, anche quando comprende l’inquietudine della maggioranza che l’ha votata.
Sull’anomalia di Berlusconi molto è stato scritto, negarla è difficile. È anomalo il conflitto d’interessi. È anomalo che un governante controlli tutte le tv private e, se è al potere, anche le pubbliche. È anomala la naturalezza con cui, quando è Premier, cura i propri interessi e fabbrica leggi che gli evitino processi. È anomalo il fatto che continuamente si indaghi su di lui per corruzione, anche di giudici. Visti da fuori, i magistrati non sembrano eversori. Tutto questo non sorprende più molto: l’anomalia è nota ai più. Molto meno si è scritto invece sull’anomalia dell’opposizione: anomalia che crea ripetuto sgomento, in chi ci osserva con quel terzo occhio. Un’opposizione così impaurita di sé, così ansiosa d’apparire dialogante e conciliante, si vede di rado nelle democrazie. L’articolo dell’Economist del 12 giugno è rivelatore perché del tutto privo dei nostri infingimenti, come in passato lo è stato su Berlusconi. Questa volta lo sbigottimento si sposta su Veltroni: anche se il leader dell’opposizione ha scelto uno «stile Westminster» (governo ombra, fair play formale) «non c’è assolutamente nulla di britannico» nella sostanza del suo agire. Un’opposizione all’inglese, scrive l’Economist, non avrebbe esitato a indagare su Schifani - dopo le rivelazioni di Abbate e Travaglio - scoraggiando la sua nomina a presidente del Senato. Non avrebbe esitato a denunciare le bugie sulla cordata italiana pronta a comprare Alitalia in condizioni migliori di Air France. Avrebbe alzato una barriera contro il reato d'immigrazione clandestina, il divieto d’intercettazione per crimini tutt’altro che minori, le leggi che sospendono un enorme numero di processi (compresi i processi a Berlusconi; il processo per le violenze contro i manifestanti al vertice G8 del 2001; il processo sulle morti causate dall'amianto). La militarizzazione delle città crea straordinari consensi di italiani, infine, senza perciò divenire ordinaria.
Questa fatica-riluttanza a opporsi non solo è poco britannica. È poco francese, tedesca, americana. Perché nessuno, in questi Paesi, teme di apparire quel che è: inequivocabilmente oppositore, portato a dire no e a mostrare sempre quella che potrebbe essere l’alternativa al governo presente. Non mancano naturalmente le eccezioni: nell’emergenza alcune scelte sono condivise. Ma sono eccezioni, appunto: i politici sanno che le emergenze fiaccano la democrazia proprio perché aboliscono il conflitto, deturpano i modi di dire, demonizzano l’opposizione, parlamentare o giornalistica. Vogliono presto tornare a dividersi e appena possono lo fanno.
Così si comportano, senz’alcuna remora, i socialisti francesi, i democratici Usa, i conservatori inglesi: quando attaccano o contrattaccano, non si sentono in dovere di spiegare i motivi profondamente torbidi per cui hanno interrotto il dialogo. Non danno a questo opporsi il nome indecoroso di antiriformismo o massimalismo. Non sono accusati dalla stampa di «pura agitazione», di «precipitare nel rivoluzionarismo verbale». Nessuno si sognerebbe di accusare i democratici Usa di antibushismo, o la sinistra francese di antisarkosismo. Sono eccettuati i Paesi con larghe intese: in Germania i socialdemocratici non attaccano la Merkel perché la necessità li ha spinti nella Grosse Koalition. Nessuno dei due la voleva, ma hanno dovuto farla e non vedono l’ora di smettere, e riprendere la classica dialettica fra chi governa assumendosene le responsabilità e chi si oppone preparando il ricambio. In Italia non c’è Grande Coalizione ma una strana invasiva idea del decoro impone il linguaggio da Grande Coalizione.
In Italia si fatica a dare un nome al governo Berlusconi: un regime paradossale che promette sicurezza e lede la rule of law. Che fa ardite leggi finanziarie e sottovaluta la cultura della legalità. Ma ancor più impervio è dare un nome all’opposizione. Il Pd si oppone ma non vuol essere antiberlusconiano, si oppone ma non vuol farlo con la determinazione - peraltro rara - dell’Ulivo. Si oppone nell’impaccio, quasi avesse alle spalle severissime offensive: contro il conflitto d’interessi, contro le leggi ad personam. Nulla di questo è stato fatto eppure s’espande la paura di apparire antiberlusconiani, non nella realtà dei fatti ma nell’immaginario della pubblica chiacchiera.
Il clima nelle ultime ore sembra mutato, ma siccome alcune tendenze restano converrà indagare sulle radici di questo immaginario fatto di timori e fantasmi. Una delle radici è forse nella storia del Pci, evidentemente ancora inconclusa o mal conclusa. Non più comunisti, ormai liberali, gli eredi di Togliatti sono alla ricerca di un’identità introvabile ma una cosa sanno e desiderano: tutto vogliono essere, fuorché sembrare quello che sono stati in passato, cioè oppositori intransigenti. È l’intensità dell’opporsi che giudicano deleteria, molto più dell’ideologia che per decenni la sorresse. Abbandonata l’ideologia anche l’opporsi in sé viene abbandonato, come qualcosa di cui ci si vergogna, che sveglia un fantasma sgradito: il proprio. Scrive Paolo Flores d’Arcais sull’ Unità che Veltroni non sa dire sì sì, no no. In realtà non oscilla: ha un rapporto malsano con il no, associandolo al no massimalista detto per mezzo secolo dai comunisti dell’Est e dell’Ovest.
Per la verità prima ancora di cambiar nome i riformatori postcomunisti avevano cambiato linea. Ma la cambiarono nell’economia, più che su Stato di diritto e rule of law. Ricordo i tempi in cui chi si congedava dai totalitarismi, in Est Europa, era affascinato da Pinochet. Pinochet aveva abolito la rule of law, ma aveva scommesso sul capitalismo con notevole successo, e questo piaceva al postcomunismo. Quel che non gli piaceva era ben altro, e gli incuteva panico. Panico di somigliare alle sinistre radicali, figure redivive del proprio passato. Panico, oggi, di fronte a chi fa dura opposizione concentrandosi innanzitutto sulla rule of law (Di Pietro, Bonino). Il discredito che colpisce i girotondi (ma che hanno fatto di sovversivo?) è segno di questa pavidità e del conformismo che secerne. Il confluire di tradizioni democristiane nel Pd non aiuta. Avvinti gli uni agli altri, i finti affratellati pencolano nel vuoto.
I massimi dirigenti del Pd hanno grandi tremori e forse non sarebbe male che cominciassero a parlarne. Altrimenti chi guarda da fuori continuerà a sbigottirsi: più sorpreso da questi tremori, in fondo, che da Berlusconi. Tra l’Italia e le altre democrazie si sta aprendo un baratro più vasto di quello che immaginiamo: non solo tra governanti diversi ma tra oppositori, giornalisti, sindacati diversi. Quasi non ce ne accorgiamo. Non ne usciremo dicendo che siamo così complicati e che nessuno, fuori casa, è in grado di capirci.
L'effetto più evidente della globalizzazione è riscontrabile nell'ampliamento della forbice tra ricchi e poveri: sempre più ricchi i già ricchi, sempre più indigenti, i poveri.
Nei paesi industrializzati, lo indicano chiaramente le statistiche, mediamente una cittadino su sette vive al di sotto della soglia di povertà.
Certo, si tratta di una povertà relativa, almeno se confrontata con quella dei paesi che molti si ostinano a chiamare del «Terzo mondo». Anche se relativa, però, è pur sempre povertà. E come tale provoca sofferenze, anche psicologiche, e privazioni materiali.
Per contrastare l'emarginazione, molti paesi anziché ricorrere a politiche di integrazione, preferiscono la soluzione più antica del mondo: la carità. Nel paese più ricco e potente del mondo - gli Stati uniti - l'obolo si chiama «Food stamp»: è un buono acquisto da 100 dollari al mese destinato, come contributo all'acquisto di cibo, ai molto poveri. Attualmente ne sono «elargiti» 26 milioni. Visto che la popolazione Usa supera i 300 milioni, questo significa che circa 12 cittadini su 100 hanno bisogno di un obolo mensile per poter sopravvivere. Recentemente ci sono state molte proteste: l'aumento dei generi alimentari ha reso insufficiente la somma elargita: 100 dollari al mese, poco più di 70 euro al mese. Ovvero 1.200 dollari l'anno, l'equivalente di 850 euro.
Secondo molti esperti, sarebbe necessario raddoppiare l'importo del food stamp. Ma servirebbero troppi soldi, rispondono gli uomini di Bush. In realtà quei 100 dollari al mese moltiplicati per i cittadini che li percepiscono comportano una spesa inferiore ai 30 miliardi di dollari l'anno. Non pochi, ma nulla se confrontato con la spesa per la difesa (600 miliardi l'anno) e la spesa pubblica complessiva che supera i 4 mila miliardi di dollari.
Tremonti che è uomo di mondo e conosce molto bene la realtà statunitense ha fatto una pensata: importare in Italia il food stamp. Un assegno (probabilmente una carta di credito prepagata) che sarà elargita a 1,2 milioni di molto poveri. La pensata geniale è di associare questo obolo alla Robin Hood tax, un tassa che colpirà le imprese più «odiate» dagli italiani: compagnie petrolifere, banche e assicurazioni. Però, importando dagli Usa il buono pasto per i poveri, il governo Berlusconi è stato un po' stitico: non 75 euro al mese come negli Usa, ma appena 40. Come dire 1,33 euro al giorno, neppure un cappucino e cornetto. E questo nonostante la platea dei beneficiari sia molto più limitata: 1,2 milioni di cittadini molto poveri, secondo i calcoli del governo. Che ha aggiunto: i soldi potranno essere utilizzati per acquistare da mangiare o per pagare le bollette. C'è da dubitare che con 480 euro l'anno (per una spesa complessiva che supererà di poco i 500 milioni di euro) si possano pagare molte bollette di luce, gas, riscaldamento, telefono e nettezza urbana, abbonamento alla tv.
Il proverbio dice: «A caval donato non si guarda in bocca». D'altra parte anche il centro sinistra non era stato molto generoso con i molto poveri. La tecnica era stata sempre quella della regalia a quelli che con una brutto termine sono definiti «incapienti».
Forse qualcuno si vergognerà nel ricevere la carta di credito prepagata, ma sicuramente saranno in molti a benedirla. Tutto bene, allora? Non proprio. Quello che proprio non va è l'ideologia del provvedimento di stampo liberista. Per i poveri la cosa necessaria sono i servizi. Ma sul fronte di questi trasferimenti il governo è pronto ad abbattere la mannaia in primo luogo sui fondi agli enti locali. E vedrete che i 400 euro l'anno non copriranno gli aumenti che a livello locale saranno approvati per far fronte ai tagli.