Lo «sporco ladro», il «lurido negro», l´intruso nel sabato notte dei milanesi, stavolta è risultato essere concittadino dei suoi assassini. Un italiano di nome Abdoul William Guibre. Esattamente com´è italiano il suo coetaneo Mario Balotelli – pelle scura e accento bresciano – che poche ore prima indossava la maglia nerazzurra sul prato di San Siro.
Adesso è prevedibile che il pestaggio mortale, suggellato dalle grida razziste degli aggressori, rinfocoli sentimenti popolari di segno opposto. Il nostro turbamento per la penetrazione dell´odio xenofobo come malattia sociale contagiosa. E viceversa il malumore diffuso di chi ci accuserà: ecco, trasformate un balordo in martire pur di ignorare che le «vere vittime» sono i cittadini minacciati da una criminalità ben riconoscibile nella sua connotazione etnica.
La corrente di pensiero delle «vere vittime» riunisce difatti quei vasti settori popolari che traggono sollievo da un governo italiano per la prima volta dedito a nominare i colpevoli, non come singoli individui, ma come categorie da eliminare. Il povero «Abba» Guibre, con la sua cittadinanza tricolore, incarna una variabile non prevista dal senso comune dominante. Ma ugualmente il vittimismo deprecherà l´attenzione eccessiva concessa a un episodio che, senza quelle grida razziste, chissà, forse sarebbe rimasto in cronaca locale.
Ora ha poco senso disquisire se l´esasperazione dei baristi che hanno subito il furto si sarebbe scaricata tale e quale, a colpi di spranga, pure su ladruncoli d´aspetto diverso. Mi auguro invece che i responsabili politici riconoscano in quella esasperazione – troppo spesso cavalcata e legittimata – motivo di riflessione e allarme. Ogni giorno veniamo a conoscenza di episodi di violenza spicciola che si verificano nei cantieri del lavoro irregolare, sulle strade dell´accattonaggio e della piccola delinquenza, perfino nel fastidio per la religiosità altrui. Queste tensioni sempre più frequenti, come già accaduto in altri paesi, potrebbero degenerare in conflitti metropolitani a sfondo etnico. L´Italia sta raggiungendo, del tutto impreparata, il livello di guardia. Se è vero infatti che la giustificazione della furia popolare può offrire nell´immediato vantaggi politici, ne conseguiranno inevitabilmente lacerazioni del tessuto sociale, problemi di ordine pubblico, degrado civile.
Nessuno strumentalizzi il linciaggio della Stazione Centrale, dunque. Ma, per favore, gli imprenditori politici dell´allarme-stranieri valutino il rischio di trasformarsi in apprendisti stregoni. Solo ieri il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, se la cavava con una generica invettiva («è una vergogna») di fronte al fermo in via dei Missaglia di un marocchino già 34 volte arrestato e due volte rimpatriato. Mica è facile impedire il ritorno degli indesiderati. Eppure De Corato non smette di annunciare l´espulsione degli abitanti di altri dieci campi rom della periferia, come se gli ottanta sgomberi già effettuati avessero alleviato il senso d´insicurezza dei cittadini. Con chi se la prenderà quando sarà evidente l´inefficacia delle sue minacce? Con i magistrati, con le forze di polizia, con l´esercito?
Così sta accadendo un po´ dappertutto: vengono suscitate aspettative che, una volta deluse, incrementano un surplus di rancore o, peggio, degenerano in giustificazionismo della vendetta «fai da te». Mi auguro che il nostro concittadino «Abba» Guibre, nuovo italiano come ce ne sono tanti, sia pure ladro di biscotti, sprangato a morte in una notte di fine estate, venga onorato nelle sue esequie dalla presenza del sindaco di tutti i milanesi, Letizia Moratti, che riempirebbe così di significato le sue nette parole di condanna. Perché sia chiaro che la Milano dell´Expo 2015 diventerà metropoli europea solo facendo sentire a casa loro, non ospiti provvisori e indesiderati, pure i suoi abitanti più recenti di nome Abdoul.
Il tema caldissimo di oggi è l’Alitalia, il tema appena meno scottante ma altrettanto infuocato è il federalismo fiscale. L’accoppiata sarebbe già di per sé esplosiva ma come non bastasse si colloca in un panorama politico estremamente teso e inquietante: una serie di annunci, di disegni di legge, di atti politici e amministrativi che hanno tutti il solo univoco effetto di accrescere le tensioni, inasprire i conflitti, mostrare la faccia feroce e la voglia di menar le mani all’insegna di uno slogan diventato ormai un "passepartout".
Lo slogan è stato inventato dal ministro dell’Interno che lo ripete a dritto e rovescio come una sorta di tic, di intercalare, ed è "tolleranza zero". È diventato il succo programmatico del governo e della sua maggioranza.
Evidentemente funziona e i sondaggi in favore del "premier" hanno toccato il culmine.
La gente vuole che si proclami tolleranza zero nei confronti di chiunque utilizzi i propri diritti di libertà in senso non conforme al senso comune ora in auge. Che poi la tolleranza zero realizzi risultati desiderati oppure no, questo non arresta l’onda d’urto d’una strategia "schiacciasassi" tipica nella storia europea degli ultimi cent’anni tutte le volte che pulsioni autoritarie abbiano, in nome di superiori ragioni di ordine e di sicurezza, ristretto i diritti di cittadinanza.
Speriamo che il "trend" attuale non ci conduca oltre il limite del populismo e delle favole narrate al popolo per distrarlo, ma questa sorta di ipnosi collettiva induce comunque a riflessioni preoccupate in un’epoca in cui si ridisegna la mappa politica ed economica del mondo.
Tolleranza zero, abolizione di fatto della legge Merlin sulla prostituzione, smantellamento della scuola pubblica dell’obbligo senza un progetto che abbia un senso, crescente pressione sui poteri e sull’indipendenza della magistratura inquirente, leggi elettorali che rafforzano il potere degli apparati confiscando ogni diritto di scelta dei cittadini, disprezzo dei valori costituzionali più sensibili, clericalismo di ritorno e impoverimento dei valori cristiani in una ritrovata alleanza tra la gerarchia ecclesiastica e il potere politico, inquinamento reciproco tra politica e affari, rivalutazione del fascismo da parte di ministri e di sindaci in carica: questo è lo sfondo allarmante di questa stagione.
La crisi dell’Alitalia e l’incognita del federalismo fiscale ne rappresentano i punti di massima tensione e di totale mancanza di progettualità. Non la fantasia ma il dilettantismo è oggi al potere. Non è la prima volta che accade nel nostro paese dove purtroppo la memoria è labile e non riesce a diventare matura esperienza.
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Il ministro Tremonti, nella sua lunga ricostruzione del disastro Alitalia esposta davanti alla commissione competente della Camera e successivamente riprodotta nel suo testo integrale su 24 ore di venerdì e di ieri, ha esordito dicendo: «Lasciamo da parte il confronto con le condizioni di Air France dello scorso aprile, era un altro contesto e un’operazione di altra natura».
Seguiamolo in questa sua raccomandazione iniziale, non senza tuttavia aver ricordato che l’offerta di Air France fu respinta dal combinato-disposto del rifiuto dei sindacati, dalla campagna scatenata da Berlusconi contro quel progetto e dall’insistente pressione a favore d’una cosiddetta cordata tricolore sponsorizzata da Banca Intesa.
Se oggi ci troviamo tutti di fronte ad un "malpasso" la responsabilità sta in quel rifiuto dovuto a due soggetti (sindacati e Berlusconi) e alla presenza d’un convitato di pietra in attesa di entrare in scena (Banca Intesa).
Per Tremonti invece le responsabilità incombono interamente su Prodi e Padoa-Schioppa, incapaci secondo lui di afferrare il bandolo della matassa e concludere.
Credo che ci sia stata un’inerzia di Prodi come ci fu, ancor più grave, nella questione dell’immondizia napoletana. Ma Tremonti dimentica almeno due passaggi essenziali avvenuti nel corso del governo Berlusconi e della sua presenza al ministero dell’Economia. Il primo passaggio sta nella valutazione patrimoniale di Alitalia: l’azione in Borsa valeva circa 10 euro nel 2001 e 1,57 nel 2006. Tremonti ha contestato queste cifre, ma il 24 ore dell’11 settembre le ha ricontrollate insieme alla banca dati della Thomson Financial e ne ha certificato l’esattezza. In cinque anni di legislatura il patrimonio della compagnia di volo ha perso dunque i 9 decimi del suo valore patrimoniale. Le cifre non sono opinioni e non hanno bisogno di commenti.
Il secondo passaggio riguarda la proposta dell’amministratore di Alitalia, Mengozzi, nominato a quella carica dal governo Berlusconi e quindi dallo stesso Tremonti. Mengozzi aveva in animo una fusione con Air France. Aveva negoziato a lungo e aveva ottenuto che la fusione fosse fatta attribuendo ad Alitalia il 30-35 per cento del capitale del network francese. Il governo però respinse la proposta. Anche qui c’è poco da commentare, i fatti parlano da soli.
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E veniamo all’oggi. Il governo ha emanato pochi giorni fa un decreto che spacca in due Alitalia: la società controllata dal Tesoro con in capo tutti i debiti, il personale, la flotta, i diritti di volo e i pochi soldi rimasti in cassa; una società sostanzialmente fallita, affidata dal Tesoro ad un commissario secondo le regole della legge Marzano appositamente riveduta per meglio adattarla al caso Alitalia.
A fianco del rottame Alitalia una nuova società di nuovissima istituzione, con 18 azionisti, un presidente (Roberto Colaninno) e un amministratore delegato (Sabelli), depurata da tutti i gravami e pronta a fondersi con Air One.
Sulla base della legge Marzano questa società figlia giovane e bella d’una madre vecchia e moribonda, potrà rilevare tutta la polpa di Alitalia e cioè gli aerei per l’attuazione del piano industriale, le rotte, il personale di volo e di terra necessari. Gli esuberi resteranno in capo alla società madre, così pure i debiti e il personale esuberante. Il prezzo ritenuto giusto da ambo le parti sarebbe attorno ai 450 milioni di euro.
Il capitale messo insieme dai 18 azionisti (tutti italiani) supera il miliardo. Il nome, nuovo di zecca, è Compagnia Aerea Italiana (Cai). Air One si fonderà con essa e i suoi proprietari otterranno 300 milioni portando nella Cai la flotta, le rotte, le opzioni per l’acquisto di nuovi aerei, il personale di volo. L’amministratore di Air One, Toto, entrerà nel capitale della Cai con 120 milioni e siederà nel consiglio d’amministrazione.
Il governo e soprattutto Berlusconi è entusiasta: in centoventi giorni la cordata italiana si è materializzata, il caso Alitalia è stato risolto, tutto è stato previsto: la sospensione per sei mesi delle regole antitrust, una benevola disponibilità della Commissione di Bruxelles a dare il disco verde all’operazione, l’entusiasmo degli azionisti della Cai. Molti di loro – in palese conflitto d’interessi – sono felici di esser adeguatamente compensati da alcuni affari sottobanco. L’amministratore di Banca Intesa, diventato da "advisor" dell’operazione azionista Cai, di fronte all’obiezione sugli affari non chiari di molti colleghi di cordata ha risposto che «i conflitti d’interesse saranno gestiti». Il capo dell’antitrust chiamato in causa dal senatore Zanda non ha risposto. Bonanni della Cisl manifesta disponibilità a collaborare.
Tutto insomma sembra andare a gonfie vele. Certo il Tesoro si dovrà accollare parecchi pesi: i debiti della vecchia Alitalia, gli esuberi di circa 7 mila unità di cui mille piloti; ma l’onore è salvo, perdite future non sono previste, gli esuberi saranno trattati con gli ammortizzatori sociali esistenti. Ma l’attivo sta nella resurrezione della compagnia di bandiera interamente rinnovata e tricolore, un taglio consistente ai vecchi azionisti, l’ingresso d’un vettore straniero con una quota di capitale non superiore ai 120 milioni. Che cosa si vuole di più? Berlusconi dove tocca fa il miracolo. I consensi degli italiani distratti e assuefatti (che sono al momento la larga maggioranza) sono alle stelle. Tremonti sentenzia: «La luna di miele del governo con gli italiani durerà molto a lungo, ci stiamo preparando a festeggiare le nozze d’argento».
Invece no. Poche ore dopo queste celebrazioni scoppia la tempesta. Ci siamo dentro tuttora e non si sa ancora come finirà.
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Il governo e insieme con esso il commissario di Alitalia, Fantozzi, il presidente di Cai, Colaninno, il leader della Cisl, Bonanni, si erano scordati della questione "contratti". O meglio: non se ne erano scordati ma l’avevano considerata di facile soluzione. I dipendenti – pensavano – non hanno alternative: se non accettano le condizioni offerte dalla Cai, la nuova società si ritirerà, l’Alitalia fallirebbe, 20 mila persone forse più, considerando anche il lavoro indotto, andrebbero in mobilità, anticamera del licenziamento entro qualche anno. Quindi accetteranno.
Ma i contratti, per consentire alla Cai di volare con profitto, debbono realizzare una diminuzione di costi del 30 per cento e un pari aumento di produttività. O così o niente, prendere o lasciare. Gli esuberi avranno ammortizzatori lunghi e corsie preferenziali per essere ricollocati, ma sui contratti e sulla produttività non c’è margine. D’altra parte furono proprio i piloti ad affondare l’offerta di Air France. Dunque se la sono voluta. Chi semina vento raccoglie tempesta. E poi il mercato è il mercato.
Invece i piloti, gli assistenti di volo, il nucleo duro dei dipendenti, non ci stanno. All’inizio sembra una manfrina ma col passare dei giorni si vede che no, non è la solita sceneggiata sindacalese. I piloti alla fine si alzano dal tavolo e se ne vanno. Berlusconi chiama Colaninno, Sacconi chiama i sindacati, Matteoli chiama i piloti, Passera chiama tutti, ma la questione sembra ormai chiusa: Cai conferma che non può fare modifiche alla sua piattaforma, i piloti confermano che a quelle condizioni è inutile continuare. Berlusconi ha un momento di sconforto ma poi torna in battaglia: ha ancora qualche carta da giocare e la gioca.
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Alle ore 14 di ieri, sabato, Fantozzi incontra i sindacati e comunica che siamo alla fine: non c’è più un euro in cassa, i fornitori di carburante hanno comunicato che non faranno più forniture a credito, d’ora in poi la flotta Alitalia potrà contare soltanto sulle poche riserve esistenti nei depositi.
Per conseguenza a partire da domani lunedì alcuni voli saranno cancellati e il personale addetto verrà messo in cassa integrazione. I voli da annullare saranno 34. Gli altri e in breve l’intera flotta cesseranno di volare entro una settimana o poco più.
Tra i piloti e gli assistenti di volo la tensione sale alle stelle. Intanto si viene a sapere che il fornitore che ha chiuso i rubinetti del credito è l’Eni. Ennesimo paradosso: la compagnia di bandiera petrolifera non fa più credito alla compagnia di bandiera del trasporto aereo. Il governo è stato informato? Oppure governo ed Eni d’accordo stringono la tenaglia intorno al collo dei sindacati? Roberto Colaninno ha passato a Mantova la notte di venerdì e la mattina di sabato ma nel pomeriggio è all’aeroporto di Verona: rientrerà a Roma in serata. Questa mattina, domenica, inviterà i sindacati ad un colloquio finale.
Ha qualcosa da mettere sul tavolo? Sì, qualcosa ce l’ha. Si era tenuto una riserva da usare all’ultimo minuto e l’ultimo minuto è arrivato. Potrà migliorare il "monte salari" del personale da riassumere in Cai in misura del 20 per cento. Che cosa significa? Se aveva chiesto ai piloti una decurtazione stipendiale del 25 per cento rispetto gli stipendi vigenti, il 20 per cento di miglioramento significa che la decurtazione scenderebbe al 20. Basterà? Questa sarà l’ultima parola.
Ma c’è un però. Colannino non vuole trattare soltanto con i piloti. Se seguisse questa tattica le altre categorie dei dipendenti potrebbero esigere che quel 20 per cento di miglioria sia ripartito tra tutti. Da buon imprenditore Colaninno non ha nessuna voglia di imbottigliarsi in una questione di riparto, perciò la sua offerta sarà fatta al complesso delle sigle sindacali: vedano tra di loro come spartire l’offerta. Comunque entro oggi la questione dev’essere chiusa altrimenti lunedì mattina comincerà non più l’ultima fase ma l’agonia vera e propria di un malato terminale.
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Forse l’accordo oggi si farà: le probabilità si misurano al 51 per cento in favore dell’accordo in extremis contro il 49 che non riesca. Berlusconi, che era ormai con le spalle al muro perché il fallimento dell’Alitalia sarebbe stato per lui una catastrofe d’immagine senza precedenti, deve aver strizzato per bene Colaninno e i membri principali della cordata tricolore. Questi a loro volta avranno rincarato a propria compensazione i vantaggi extra che si aspettano dalla loro partecipazione.
Passera saggiamente aveva detto che i conflitti d’interesse debbono essere gestiti e il "premier" è un asso in quel tipo di gestione. Un’occhiata di riguardo non si può negare a nessuno dei 18 "capitani coraggiosi". Di occhiate di riguardo ne sono già state date parecchie, una di più non la si nega a nessuno pur d’assicurare il lieto fine.
Lieto fine per tutti? Forse per i piloti che rappresentano la nobiltà di spada tra i dipendenti Alitalia, forse per gli assistenti di volo che rappresentano la nobiltà di toga. Il popolaccio dei servizi a terra sarà il più strattonato, ma peggio per loro, qualcuno che trasporti i bagagli lo si trova sempre a buon prezzo magari tra i marocchini e i romeni per bene che fanno la coda per un posto precario.
E poi? Il finale della storia l’abbiamo già scritto domenica scorsa: tra cinque anni Cai avrà registrato una cospicua plusvalenza patrimoniale, gli azionisti venderanno e incasseranno. Cai entrerà a far parte di un bel "network" internazionale, tedesco o franco-olandese, perché nell’economia globale non c’è posto per una compagnia di volo come Alitalia, troppo grande per esser piccola e troppo piccola per esser grande. Così saremo tornati alla casella di partenza avendo perso un sacco di soldi e di tempo. Intanto il pifferaio suona il suo piffero e gli allocchi lo seguono incantati.
È in arrivo il federalismo fiscale, del quale riparleremo. Per ora si sono sentite molte parole ma non s’è visto nessun numero. Prima o poi però i numeri dovranno sbucare da qualche parte e bisognerà leggerli con molta attenzione.
Dopo una ventina d’anni di dure polemiche, che hanno punito alcuni di noi per la loro resistenza alle mode con evidenti esclusioni (ma si sa che l’esclusione è una delle punizioni applicate dalla cultura di massa a chi non è d’accordo con le opinioni della maggioranza rumorosa; per essa quello che non compare non esiste e quello che compare può essere facilmente falsificato) cominciano ad apparire segni di rivolta contro gli «archistar», che hanno ridotto l’architettura a «design» ingrandito, i monumenti in immagini di marca, rifiutando di fare del tessuto urbano un materiale essenziale al disegno della città, accettando la privatizzazione dello spazio pubblico, e predicando l’ideologia della deregolazione come estetica della constatazione.
A queste critiche sembrava fare riferimento, anche se in modo confuso nelle sue dichiarazioni programmatiche, anche il responsabile della Biennale di Architettura di Venezia 2008 Aaron Betsky, ma poi, per far fronte agli errori denunciati, anziché cercare la via della responsabilità civica, egli sembra volere accelerare la corsa verso l’abisso dell’identificazione dell’architettura con l’idea di immagine, indefinibile, aperta ed instabile, anche se un’architettura, come sappiamo da 3500 anni, ha un’immagine formalmente ben definita anche se certo non è solo un’immagine. E’ vero: oltre alla città visibile, fisica, esiste una città dei flussi sempre più strutturalmente importante. Ma a ciascuno il suo compito. Gli architetti devono occuparsi della città visibile in cui quella non visibile abita e si confronta. Ma non fare un’architettura di imitazione del non visibile.
A distanza poi di quasi un secolo dal tempo delle avanguardie, non siamo più alimentati dal vento della rivoluzione politica ed artistica, dalla storia lunga e gloriosa delle utopie, siamo lontani da una società equa e liberata, ma anche dalla messa in discussione del ruolo stesso delle nostre pratiche artistiche nella società che è divenuta post-società di maggioranze rumorose ed omogenee.
No, caro Betsky, noi siamo oggi nell’epoca dell’impero del mercato, della finanza e dei consumi globali, siamo nel tempo della politica, del marketing e della pubblicità a cui una gran parte degli artisti, che confondono bizzarria e creatività, si adeguano, rispecchiando così fedelmente lo stato e le volontà dei poteri per i quali inoltre le proteste estetiche sono benvenuti ornamenti. Altro che «motivazioni proprie», il nostro problema è di lottare per mezzo dell’architettura contro tutto questo e contro il fatto che dopo i rispecchiamenti ideologici, ciò che trionfa è il rispecchiamento dei mercati; compreso il mercato degli architetti.
«L’architettura - dichiara solennemente Betsky - non è una questione tecnica ma culturale». Lo ringraziamo di questa prodigiosa scoperta, come quella che l’acqua è bagnata, sconvolge le nostre millenarie convinzioni. Come ho avuto più volte l’occasione di sottolineare, l’architettura sin dai tempi più antichi è stata sempre «ergon poietikon», cioè costruire poeticamente. Il costruire è, cioè essenza costitutiva della pratica artistica dell’architettura. Separare i due fatti e la specificità che deriva dalla loro congiunzione è, come dimostra lo stato dell’architettura di più ampia diffusione mediatica dei nostri giorni, del tutto disastroso: per l’architettura e per la società in cui essa opera. Ci si riduce a pensare che tutto è già giustificato dalla propria autonoma presenza, naturalmente prodotto dalla libertà creativa senza limiti e che si tratta di riconoscere il valore emozionale: è l’invenzione dell’estetica della constatazione, la violazione delle regole fatta a pagamento.
Ancor meno condivisibile appare poi nella mostra il richiamo al mondo immaginario dei film e dell’arte (e aggiungerei della letteratura). Da essi credo la cultura dell’architettura dovrebbe prendere le distanze, non per negarne i valori importantissimi per il progetto ma a causa dell’insistente ed artificiosa confusione tra le diverse pratiche (una specie di «Gesamtkunstwerk» della multimedialità) che invece, proprio al fine di discutere utilmente, devono mantenere chiare le proprie identità.
E’ vero, «ci serve un’architettura che interroghi la realtà» come Betsky afferma, ma aggiungo io, che sappia, attraverso alla risoluzione che essa propone, assumere anche una distanza critica da essa, cioè proporre un nuovo possibile. E per far questo non vanno proprio incoraggiate «quelle visioni effimere» che quasi sempre non sono affatto oggi «prove tangibili di un mondo migliore» ma consolazioni puramente seduttive attorno allo stato delle cose e riduzione delle pratiche delle arti a pura comunicazione.
Anche in questa Biennale dell’Architecture beyond Building non manca certo qualche eccezione. Anzitutto la mostra dedicata a Sverre Fen, un autentico grande architetto della mia generazione. Poi vi sono padiglioni, come quello spagnolo o finlandese che espongono con onestà i risultati architettonici recenti dei loro paesi. In generale gli allestimenti in quanto tali sono assai migliorati come ad esempio quelli di Russia o Francia: anche se la prima con pessime architetture stile archistar o la seconda con architetture di qualità modesta. Migliorati gli allestimenti salvo quelli del padiglione Italia e dell’Arsenale in bilico tra la caricatura di esperimenti compiuti dalle arti visive una trentina d’anni or sono e la festa dell’oratorio. La cosa migliore resta la dedica al grande Harald Szeemann di uno dei viali.
Anche se le proposte di questa Biennale sono, io credo, tragicamente sbagliate per la nostra disciplina e la sua pedagogia e per il futuro della città, da questo punto di vista la riflessione più seria mi sembra proprio quella fatta dal presidente Paolo Baratta, il quale sostiene giustamente che le informazioni ormai precedono le esposizioni e che forse è necessario fare delle Biennali qualcosa di completamente diverso, forse degli istituti di ricerca e sperimentazione ma soprattutto un luogo di confronto critico. Sempre che non si tratti di riflessioni senza fondamenti come vetrine delle esibizioni di pseudo artisti, come nel caso della Biennale 2008.
Questo purtroppo vale anche per le Biennali delle arti visive, che possono prendere senso solo se costruite a partire da un rigoroso punto di vista critico e non solo informativo, anche se questo è molto difficile, a causa del confronto con gli interessi delle numerose partecipazioni straniere, che sono fondamentali per le fortune delle Biennali di Venezia.
Certamente l’assenza di una esposizione dell’oggetto nella sua fisicità ha sempre costituito per le mostre di architettura, un ostacolo serio e la tentazione di sostituirlo con la scenografia o di assegnare un valore figurativo in sé alle testimonianze di produzione o di riproduzione (che talvolta qualcosa di esso possiede) è la strada che conduce appunto a ridurre l’architettura ad arte ornamentale.
Stati Uniti, la mia casa farà crash
di Andrea Rocco
Lo scoppio della «bolla» immobiliare potrebbe essere più violento del previsto, e trascinerebbe con sé la già fragile economia a stelle e strisce. I primi segnali dagli agenti: prezzi in picchiata, via i dipendenti. Guai per il consumatore medio: si è indebitato fidando sul valore dell'abitazione
Fino a qualche mese fa l'espressione chiave per descrivere la situazione del mercato immobiliare negli Stati Uniti era soft landing, atterraggio morbido. Una fase di declino progressivo, ma non drammatico, a cui doveva seguire una ripresa a tempi ragionevolmente brevi. Oggi non c'è più alcun osservatore che parli di discesa morbida. Il dibattito semmai si è spostato sull'alternativa tra una crisi dura, ma governabile, e un vero e proprio crash simile a quello che ha colpito il settore tecnologico nella primavera del 2000. Le similitudini non mancano. Come l'hi-tech, anche l'immobiliare ha visto la costruzione di una bolla speculativa con aumenti dei prezzi delle case superiori al 10% all'anno nel periodo 2002-2005, ma con punte di aumenti annui vicini o superiori al 20% in alcuni mercati particolarmente «caldi» come la Florida, la California del Sud, una parte delle Montagne Rocciose. Una vera e propria corsa al mattone che ha interessato tutte le tipologie e i segmenti del mercato, dalle ville di lusso alle seconde case per le vacanze, dagli appartamenti popolari alle penthouse newyorkesi, e che ha avuto effetti indiretti anche fuori dai confini americani. Sono però alcuni mesi che il vento sembra essere cambiato e che si moltiplicano le grida di allarme di chi vede i segni inequivocabili di un rovesciamento di tendenza. In realtà aveva già cominciato l'ex-presidente della Federal Reserve Alan Greenspan nella primavera del 2005, parlando se non di «bolla» speculativa, di «schiuma» (come quella dei cappuccini) che si sarebbe creata nel mercato immobiliare.
I dati più recenti, quelli di inizio agosto, sono però inequivocabili, anche perché vengono da due aziende leader che operano negli snodi critici del mercato e che godono dunque di un punto privilegiato di osservazione. La prima è Countrywide Financial Corporation, la più grande organizzazione finanziaria del paese nel campo della concessione di mutui immobiliari. Nell'ultimo mese Countrywide ha visto un crollo del 19% delle richieste di mutui. E ha immediatamente licenziato 382 dipendenti.«La gente è troppo ottimista - ha detto il direttore generale di Countrywide, Angelo Mozilo - quando continua a parlare di atterraggio morbido». Il secondo operatore a suonare l'allarme in questi giorni è stato Toll Brothers, azienda leader nelle case di lusso (ne costruisce oltre 9 mila ogni anno). Nell'ultimo trimestre gli ordini di abitazioni Toll sono scesi del 47% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. «Sembra che il rallentamento del mercato - ha detto al Los Angeles Times Robert Toll, amministratore delegato della società - durerà almeno altri sei mesi, che potrebbero però diventare anche due anni». Da tenere presente che fino alla primavera scorsa Robert Toll era considerato uno degli operatori più «tori», ovvero più ottimisti sulle prospettive dell'immobiliare. Ma altri segnali non incoraggianti vengono dal mercato delle seconde case. In alcune aree costiere della Florida, dominate dalle seconde case, si segnalano cadute dei prezzi nell'ordine dell'8% sull'anno precedente, in New Jersey siamo sul meno 10-15%. La crisi tocca anche le ville super-lussuose degli Hamptons, nei pressi di Long Island dove gli agenti immobiliari hanno iniziato a produrre spot televisivi per vendere le case ed organizzano veri e propri ricevimenti con vini e formaggi francesi per attirare potenziali acquirenti. Quello delle seconde case è un mercato ovviamente più «discrezionale», non guidato da necessità abitative urgenti (matrimonio, divorzio, trasferimento per lavoro) ed è caratterizzato da oscillazioni più marcate rispetto a quello delle prime case.
Il caso di San Diego è poi ancora più significativo. Qui il boom immobiliare è stato davvero straordinario. Dopo la crisi dei primi anni '90, dovuta ai tagli all'industria militare e aerospaziale, dal 1995 ad oggi i prezzi delle case sono triplicati. Ma anche qui il crash sembra dietro l'angolo: ovunque fioriscono i cartelli for sale e si diffonde la pratica delle riduzioni di prezzo, nell'ordine dei 20, 30 e anche 50 mila dollari. L'aumento di prezzi e di vendite negli ultimi dieci anni era stato spinto dal basso livello dei tassi di interesse, da nuove facilitazioni fiscali e dall'introduzione di nuovi strumenti, alcuni piuttosto disinvolti, per finanziare gli acquisti immobiliari. In pratica si è consentito di acquistare case di alto valore a chi aveva redditi limitati, con anticipi in contanti nulli e rate procrastinate nel tempo. Il castello di carte ha retto fino ad un certo punto, ma oggi l'aumento dei tassi ne ha accentuato e accelerato la caduta. E questo introduce l'altro tema molto dibattuto tra politici, economisti e operatori dell'immobiliare: le conseguenze che la ormai pressoché certa caduta del mercato delle case avrà sull'economia americana. Perché, al contrario di quanto era successo in altri momenti di crisi, oggi potrebbe essere l'immobiliare a rallentare l'economia e non la situazione economica generale ad essere motivo di arretramento nel mercato delle abitazioni. All'inizio degli anni 2000 il settore aveva tirato l'economia americana fuori da una mini-recessione e il recente boom ha consentito agli americani di indebitarsi usando l'abitazione come garanzia per i prestiti e di spendere quel denaro, tenendo alto il livello dei consumi. Si calcola che un terzo circa della crescita economica recente sia da attribuire all'immobiliare. Una decisa correzione, come quella che ormai quasi tutti si aspettano, potrebbe ridurre la crescita del Pil di un 1,5%. «Credo che le cose peggioreranno ancora molto prima che si possano vedere dei segnali di ripresa», ha dichiarato al New York Times Greg Gieber, un rispettato analista del settore
Nota: sulla bolla immobiliare USA, qui su Eddyburg vedi anche l'articolo di Mike Davis (f.b.)
Argentina, la grande occasione della speculazione immobiliare
di Maurizio Galvani
Scoppia la bolla immobiliare (e speculativa) in Argentina. Trainata dalla robusta ripresa industriale del paese latinoamericano - 8,8% negli ultimi sette mesi del 2006 e una espansione annuale pari al 7,6% - che, a sua volta, trascina la ripresa di tutti i maggiori settori. Particolarmente di quello edilizio e delle costruzioni (con un più 17,9% di produzione sia dei metalli leggeri sia di cemento). La «grande occasione» immobiliare è dovuta, inoltre, alla debolezza attuale del peso (la moneta nazionale) rispetto all'euro e al dollaro (cambiati tra il 3,91-4,01 e 3,07- 3,10 rispettivamente), come pure al grande ritorno dei capitali stranieri ed locali. O meglio, al grande rientro dopo la fuga «permessa» alla fine degli anni Novanta con la complicità dei grandi istituti di credito: quando si iniziava a paventare lo shock della grande crisi e si era conclusa la sbornia provocata dalla parità - 1 a 1 - del cambio tra peso e dollaro.
«Tornano» gli investitori, stranieri e non, e pretendono la casa più bella, più spaziosa, più d'epoca. Comprare nella zona portuale di Puerto Madero o nella zona residenziale di Recoleta o Retiro non è più solo un lusso ma anche un affare. I prezzi delle case sono lievitati e il valore al metro quadro di un abitazione è già sopra i duemila dollari; quando non tocca anche la cifra record di 3.500 dollari. Ma questo non è un problema: la richiesta può essere avanzata lo stesso, tanto i medesimi appartamenti o sono destinati ad uso privato per persone facoltose, oppure sono a loro volta fonte di speculazione e guadagno. Vengono infatti affittati, magari per brevi periodi, a turisti, per la maggior parte di nazionalità europea. I quali pretendono, appunto, il bello ed il confertevole, il «fascino bohemien» e l'avventura di una città ancora molto particolare. Comunque, una metropoli dove vivono circa tredici milioni di abitanti.
Del resto, è meglio reinvestire i propri risparmi invece che tenerli bloccati in una banca. Dopo che si è concluso il ciclo dele vacche grasse, quando in Argentina si poteva investire nei famosi tango-bond e si potevano ottenere smisurati guadagni sul costo del denaro (quasi il 15% di interesse). Ora si torna a reimpiegare questi soldi nel settore immobiliare, forse più sicuro. Tanto le ultime, più recenti, statistiche segnalano che - in tutto il paese e non solo a Buenos Aires - il costo delle viviendas (abitazioni) è cresciuto già del 17%, in un solo anno. Ed è destinato a salire provocando, a sua volta, ristrutturazioni forzate come pure espropriazioni forzate in numerossime zone. Aree che successivamente diventano «esclusive», come sta accadendo in tanti barrios (quartieri) della capitale (la zona di Palermo, ad esempio) che è diventata un'area per singole categorie di persone: Palermo hollywood (ad esempio, per gli attori...), Palermo soho (per i designer...) o Palermo chico (zona per ricconi...). Inoltre, stanno fiorendo come funghi molte agenzie immobiliari e via Internet si moltiplicano le proposte; che «preparano» i turisti prima della partenza per la capitale argentina.
Buenos Aires è sempre stata meta attrattiva per la diffusione del tango. Negli anni più recenti, fino alla dichiarazione del default, l'Argentina ha accumulato un debito pari a a 140 miliardi. La ripresa hecha in Argentina (made in argentina) è costata fatica e continua a pesare. La ripresa e una nuova investitura internazionale del paese - sotto la guida di Nestor Kirchner - si è avvertita, ma non è stata, allo stesso tempo, egualitaria (ancora sono tanti i poveri e i disoccupati). Il paese torna ad essere un grande protagonista e anche una grande «occasione» per coloro che vogliono fare degli investimenti. Con la speranza, comunque, che non si ripeta l'esperienza di svendita che fu realizzata negli anni Novanta dall'ex-presidente Carlo Menem.
“Piove sul bagnato”, era il titolo d’apertura del “manifesto” di domenica scorsa. A illustrarlo, la foto di una cordata di persone con l’acqua alla cintola. A spiegarlo, il sommario che diceva di 530 vittime ufficiali (ma certamente molte di più) nella poverissima Haiti, ripetutamente colpita da violente tempeste tropicali. Commento: “Ma nel mondo non fa notizia”.
Ch’io sappia è la prima volta che un giornale, con tanta evidenza e così decisa condanna (all’interno suffragata poi dall’ampia descrizione di un paese afflitto anche in condizioni “normali” da miseria e sfruttamenti inauditi), sottolinea il fatto che le catastrofi ambientali (quelle stesse che trovano vastissimo spazio e sensazionale risonanza se lo tsunami si abbatte su riviere fitte di turisti occidentali, o Katrina colpisce un simbolo della mitologia americana come New Orleans, o Gustav mette a rischio la convention repubblicana) vengono di fatto ignorate quando offendono paesi del sud del mondo, esclusi dal novero di quelli che contano, estranei al circuito dei mercati forti, privi di risorse pregiate che gli consentano di “emergere”, da sempre soggetti a tutte le maledizioni. Basta buttare un occhio su “Il diario della terra”, rubrica per cui mezzo ogni settimana meritoriamente “L’Internazionale” dà notizia di questi eventi: sempre sono decine, ma spesso centinaia o migliaia di morti, e centinaia di migliaia di profughi, senza tetto, senza cibo, senza meta. Ma tutto questo appunto non fa notizia. Venti righe nelle pagine interne di qualche quotidiano, quindici secondi in coda a un telegiornale, è il massimo che ne segue. Quando va bene.
Nulla di che stupirsi, si dirà: da sempre morti e calamità “valgono” di più o di meno a seconda di chi ne soffre. Ma la cosa non appare più così semplice, se si confronta con una serie di altri fatti o comportamenti collettivi riguardanti il rischio ecologico. I poli si sciolgono, ma di che mai lamentarsi: li si potrà circumnavigare con ampie prospettive di un nuovo boom turistico, e sarà finalmente facile l’accesso ai sottostanti preziosi giacimenti di gas, petrolio, uranio; peccato certo per i poveri orsi che da mesi continuano a nuotare senza trovare approdo, ma dopotutto anche una lacrima serve a coronare teneramente la narrazione dei fatti. E se i mari inquinati e supersfruttati non hanno più pesce, in compenso prosperano le acquaculture; se poi il loro livello continua a innalzarsi, l’Olanda già va progettando coste artificiali e case galleggianti; alcuni arcipelaghi in Oceania sono già sommersi, ma nessuno ci fa caso. L’automobile ancora e sempre insostituibile simbolo del nostro tempo, rimane protagonista nei mercati come nell’immaginario collettivo, benché notoriamente tra le cause prime di ciò che i giornali annunciano, vistosamente titolando “Il pianeta ha la febbre”. D’altronde tutto questo significa tanto buon Pil, che (mentre le borse crollano, i consumi ristagnano, la benzina è alle stelle, potenti banche falliscono e - udite udite! - tocca allo stato salvarle, e insomma la crisi a lungo negata è ormai tra noi) scalda i cuori di economisti e politici e riaccende le speranze. Come sciuparle, soffermandosi sulle sciagure di Haiti e altre terre iellate? Bush, che censura i più allarmati rapporti del Pentagono sulla crisi ecologica, fa scuola. “La crescita innanzitutto”, è l’articolo di fede che tutti fanno proprio e con stentorea certezza rilanciano. Da destra come da sinistra.
Ed è questo che mi è difficile capire. Se il capitale insiste nelle politiche che l’hanno portato a conquistare il mondo, e con pertinacia e disperazione ad esse si aggrappa anche quando sempre meno si rivelano paganti, sempre più contrastate come sono nel loro obiettivo primario e imprescindibile (la crescita appunto, l’accumulazione) dai confini stessi del mondo che dominano: tutto ciò appartiene a una “necessità” difficile da negare, anche se sempre meno pagante. Ma le sinistre? Anche tra loro, fatta eccezione per piccoli gruppi ambientalisti, la crescita è una indiscutibile, perfino ovvia necessità. E su questo spesso mi trovo a scontrarmi di brutto anche con amici, ai quali porto stima e affetto.
Penso ad esempio a Galapagos, un amico appunto, che in un recente fondo (“Sotto i debiti”, 3 settembre) dopo un ampio giro d’orizzonte sul calo dei consumi che tocca più o meno tutti i paesi e sulla conseguente generale contrazione della crescita, si sofferma a considerare che “fra i lettori del manifesto ci sono molti sostenitori della ‘non crescita’, fautori della qualità della vita più che dell’ espansione illimitata del Pil”. “E di ragioni ne hanno,” ammette. Ma, aggiunge, “in un paese come l’Italia ci sono macro aree che necessitano di crescita quantitativa per colmare gap storici di redito e sviluppo”. Ora, a parte che tra i fautori della qualità della vita più che della crescita ci sono non solo lettori ma anche redattori e collaboratori del manifesto (basti pensare alla eccellente rubrica “Terra-terra”, firmata per lo più da donne, la bravissima Marina Forti in testa) davvero è plausibile sperare che l’insistenza nella medesima logica economica fin qui osservata possa sanare il guasto da essa prodotto? Se lo sfruttamento più che mai esoso del lavoro caratterizza lo strenuo tentativo del capitalismo neoliberistico di rimettersi in equilibrio? Se negli ultimi decenni, mentre il Pil poco o tanto continuava a salire, aumentavano precarietà e disoccupazione, gli orari di lavoro si allungavano, crescevano le distanze tra ricchi e poveri, non solo a livello internazionale ma anche all’interno dei paesi più affluenti? E oggi l’1% degli abitanti del mondo ne possiede il 50% della ricchezza?
Ma (sapendo di rischiare impopolarità e forse reazioni negative tra persone sinceramente impegnate per “un mondo migliore”) credo si debbano considerare anche altre posizioni. Un esempio. Non ho seguito personalmente il forum torinese di “Sbilanciamoci!”, ma ne ho letto ampie cronache e dettagliati compendi delle “Cento proposte per il bene comune”, cioè della “Controfinanziaria” come ogni anno elaborata dal gruppo, e in sostanza (quasi) tutta condivisibile. Come non essere d’accordo con chi auspica migliori scuole, sanità, trasporti pubblici, case popolari, tasse sulle emissioni inquinanti, e dichiara di volere “equità sociale, sostenibilità ambientale, pace e solidarietà internazionale”?
Rimane tuttavia difficile capire come si pensi di realizzare tutto ciò in un solo paese, prescindendo - parrebbe - dal fatto che questo paese, come l’intero pianeta, è governato dal neoliberismo (mentre mostrano di saperlo benissimo gli operai che in Italia, in Polonia, in Serbia, in Bangladesh, lavorano per la Fiat, e proprio al Forum di Torino ne discutono concludendo: “I problemi sono uguali in tutto il mondo”). Senza dunque rimettere apertamente in causa un modello economico che, in tutto il mondo appunto, sempre più brutalmente va depredando la natura e sfruttando il lavoro, e ormai solo nella guerra vede lo strumento per rilanciare la crescita e mantenersi vincente. Che è quanto, sempre a Torino, hanno denunciato uno scienziato dell’ambiente, Luca Mercalli, e uno scienziato della politica, Marco Revelli: chiedendo il primo la fine della crescita, il secondo un netto cambio di paradigma.
Questo oggi a me pare l’handicap più grave di tutte le sinistre (quelle che restano e ancora hanno il coraggio di chiamarsi così). Una sorta di rassegnazione che sembra dare ormai il capitale come un fenomeno metastorico, una realtà immodificabile quindi, un destino ineluttabile. Cui segue il ripiegamento su una politica piccola, frantumata, operante per singoli temi, incapace di confrontarsi con i problemi che (come ha detto la piccola internazionale di operai Fiat allo stesso Forum Sbilanciamoci) sono di tutto il mondo.
Conseguenza inevitabile della sconfitta? Certo, le botte pesano. Ma a volte possono servire a ripensare le linee guida seguite finora, e magari rimetterle in causa, a confronto con una realtà sociale economica culturale ambientale clamorosamente trasformata e in continua trasformazione, su tutto il pianeta.
Nella mostra allestita al Padiglione Italia, «Experimental Architecture», i progettisti invitati, attivisti e intellettuali oltre che professionisti, mettono in discussione le politiche della sicurezza, i cicli dell’industria edilizia, la gestione delle risorse. Un impostazione ribadita all Arsenale nella sezione «L Italia cerca casa», che propone nuove forme di condivisione dello spazio
«Sperimentale» è una di quelle parole trite e abusate la cui sola vista induce a voltare pagina. Lungi dall'evocare la rivoluzionaria presa sulla realtà del metodo galileiano, il termine tende ormai a sovrapporsi alla sfera mielosa della creatività, manna degli uffici stampa e dei predicatori neoliberisti. La mostra Experimental Architecture ospitata nel Padiglione Italia della Biennale veneziana restituisce invece al lemma il senso di critica e verifica del reale che gli compete. È sufficiente scorrere la lista dei circa sessanta partecipanti per rendersi conto che la visita non assomiglierà alla solita stanca passeggiata tra plastici colorati: pochi i nomi conosciuti al grande pubblico, e in ogni caso noti più per avere espresso nuovi punti di vista sull'abitare, elaborato nuove strategie d'intervento nella città, che per gli edifici realizzati. «Sono architetti, urbanisti, artisti - spiega Emiliano Gandolfi, curatore di questa sezione della Biennale - che hanno scelto di reinterpretare il ruolo dell'architettura in un momento storico in cui è sempre più marginalizzata, schiacciata tra la produzione di oggetti spettacolari e le richieste imperiose di un capitalismo globale che disegna la crescita urbana esclusivamente in base a calcoli economici». Dopo decenni in cui l'unica sperimentazione possibile era la definizione di forme sofisticate o strutture biomorfe, si torna a rivendicare apertamente un significato sociale e politico dell'architettura, si producono analisi, visualizzazioni, racconti che generano alternative al sistema unico del real estate .
Spaesamento e tensione vitale
È vero che tutto questo non rappresenta una novità assoluta: con l'intensificarsi, nel terzo millennio, di crisi economico-finanziarie, petrolifere e immobiliari, anche gli ambienti più tradizionali dell'architettura mondiale hanno ritenuto opportuno stemperare l'entusiasmo ludico della creazione, fieramente ostentato per tanti anni, con una mesta retorica della responsabilità, dell'attenzione alla natura e al rispetto delle persone. Per limitarsi agli esempi più istituzionali, basta ricordare il Less Aesthetics, More Ethics della biennale di Fuksas o i rassicuranti casi di buon governo di Burdett, o ancora i temi dell'ultimo congresso mondiale degli architetti che si è tenuto a Torino a luglio. Ma gli architetti selezionati da Gandolfi sono decisamente più radicali, mettono in questione le politiche della sicurezza, l'istituto della proprietà, i sistemi di comunicazione, i cicli consolidati dell'industria edilizia, la gestione degli spazi pubblici, delle risorse energetiche. Per lo più sono attivisti e intellettuali, oltre che professionisti. Censiscono e quantificano fenomeni altrimenti difficili da valutare, come le enormi cubature di uffici inutilizzati o la sostituzione dei tessuti misti dei centri storici con i grandi centri commerciali (NL Architects e ZUS, entrambi olandesi). O studiano sistemi di riuso integrale dei materiali di costruzione (l'architettura a ciclo continuo dei 2012 Architecten, sempre olandesi). Oppure lavorano su nuove forme di architettura partecipata, come i cileni Elemental o Teddy Cruz, che opera sul confine Tijuana-San Diego. Altri «attivano» spazi abbandonati con installazioni e servizi temporanei, come una forma di manutenzione urbana, o inventano sistemi interattivi per gli spazi pubblici (Id-lab, Milano-Torino) o forniscono kit di autocostruzione (gli spagnoli Recetas Urbanas). Anche se molti di loro sono comparsi su riviste specializzate, a mostre e convegni internazionali, questa è con ogni probabilità la prima volta che si trovano concentrati in così grande numero a fare massa, protagonisti della scena e non speziate figure di contorno, in un posto come la Biennale: una contiguità che può produrre una sensazione di spaesamento, ma certamente anche una grande tensione vitale.
Sulla stessa linea si pone la mostra del Padiglione Italiano all'Arsenale, curata da Francesco Garofalo. Il titolo neorealista, L'Italia cerca casa , e i modelli in scala potrebbero dare l'impressione di un genere espositivo completamente diverso, e invece anche in questo caso la ricerca si è spostata dall'abitazione all'abitare, dalle soluzioni formali all'interrogazione politica, sociale, economica della città. In un paese dove il dibattito pubblico sui problemi delle periferie e del disagio abitativo è stato ininterrottamente dominato da faziose arringhe sulle responsabilità dell'architettura e dell'urbanistica modernista (che però per insondabili ragioni ha prodotto, dall'Olanda al Sudamerica, tessuti urbani e abitazioni più che desiderabili), un'analisi sulla finanziarizzazione del mercato immobiliare come quella prodotta da Giovanni Caudo, co-curatore del Padiglione, è ossigeno puro. Studiando i meccanismi che hanno alimentato l'impennata dei valori immobiliari attraverso l'indebitamento delle famiglie, Caudo mette a nudo l'inutilità dei programmi di espansione edilizia: «Le radici dell'emergenza abitativa contemporanea sono profondamente diverse dalla storica "vertenza della casa". Per soddisfare il fabbisogno abitativo degli anni '70 bastava costruire più case. Oggi se ne costruiscono in abbondanza, ma solo in libero mercato, e la fascia di persone che se le possono permettere si assottiglia». La chiave del problema è nella quota di affitti a prezzi sociali, che negli altri paesi europei è infinitamente più alta, mentre in Italia il culto della casa di proprietà viene incoraggiato come «un fenomeno di identità culturale». Ma tra la realtà del debito e il miraggio di un canone equo si possono sperimentare nuove forme di condivisione dello spazio e dei servizi, dal co-housing in su.
Il recupero degli interstizi
Portando alle estreme conseguenze questo concetto di abitazione collettiva, Andrea Branzi propone un co-housing integrale , che estende la convivenza agli animali come nelle metropoli indiane, dove circolano scimmie, vacche sacre e altre bestie. Un modello non antropocentrico meno irragionevole di quanto possa sembrare a prima vista, che ritorna nel progetto dei Salottobuono, Altri inquilini - una rilettura critica del piano di riqualificazione del quartiere Sant'Elia a Cagliari elaborato da Oma - che prende in considerazione oltre ai movimenti dei residenti storici anche quelli delle «popolazioni» animali e vegetali. Molti si pongono il problema della ripopolazione dei centri storici, espropriati da turismo, commercio, uffici, banche: i genovesi Baukuh intensificando gli spazi interstiziali, i lotti abbandonati, i parcheggi a raso di cui è stracolma Milano, Ian+ riconfigurando i palazzi sottoutilizzati di Roma, Studio Albori convertendo un «ecomostro», ex-stazione ferroviaria disegnata da Aldo Rossi e Gianni Braghieri, in un aggregato di case miste. E se Italo Rota polemicamente sostiene l'impossibilità di immaginare nuove case collettive, perché «la gente non può vivere da sola, ma è incapace di vivere insieme», i disegni e il modello metallico di Beniamino Servino danno consistenza a questo paradosso attraverso una visione perturbante: un'enorme stecca orizzontale alla Le Corbusier sopraelevata su pilotis di ordine gigante, congiunta alla terra da rampe elicoidali che ricordano gli scivoli di Carsten Höller. Un'immagine che potrebbe coincidere con il peggiore incubo di un fiero abitante di una villetta brianzola.
La cancellazione del progetto della realizzazione del parcheggio del Pincio da parte dell’amministrazione comunale romana è una notizia straordinaria. Ha vinto la Roma migliore e potremo godere nuovamente della terrazza sovrastante piazza del Popolo senza che uno dei peggiori scempi a cui si voleva perpetrare alla nostra città lo deturpasse per sempre. Da questa vicenda si possono trarre tre lezioni generali e un’attenzione per il futuro di Roma.
Lungo le recinzione del cantiere che ha tentato di sfigurare la meravigliosa terrazza si legge che la decisione era stata presa sulla base dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3543 del 2006. Un riferimento oscuro che in realtà si riferisce al provvedimento con cui Romano Prodi aveva fornito all’allora sindaco Veltroni poteri speciali in materia di traffico. La città soffoca quotidianamente in un gigantesco ingorgo e la soluzione prescelta, senza alcun confronto con il consiglio comunale e la città grazie ai poteri speciali, era quella di sfigurare uno dei luoghi più belli del mondo per ricavarne 720 posti auto.
E siccome al ridicolo non c’è più fine, qualche giorno fa lo stesso Veltroni -eroicamente immolatosi nella difesa del Pincio- sulle pagine di Repubblica affermava che la principale urgenza di Roma era quella di costruire un piano per i parcheggi. Era proprio lui, sulla base dell’ordinanza Prodi, ad avere pieni poteri per realizzare quel piano dei parcheggi. Non l’ha fatto quando era sindaco e ora traccia la linea della nuova amministrazione di destra a cui ha regalato il governo della città! Bisognerebbe che qualche anima caritatevole lo avvertisse di non insistere. La prima lezione da trarre dalla vicenda è che bisogna farla finita con le scorciatoie istituzionali. Il futuro delle città deve tornare ai consigli comunali e ai cittadini. I pieni poteri ad personam, i commissari straordinari e i famigerati accordi di programma hanno dimostrato che servono soltanto a consentire ignobili speculazioni.
Seconda lezione. Quando lo scorso anno ci mobilitammo contro quella decisione governo, regione, provincia di Roma e capitale erano amministrate dal centro sinistra. In altri tempi sarebbe stata una garanzia di libera dialettica. Ai nostri giorni non è bastato che l’appello contro il parcheggio fosse firmato da personalità della cultura come da Desideria Pisolini Dall’Onda, Salvatore Settis, Italo Insolera eLuitpold Frommel, solo per citare alcuni delle decine di firmatari. A parte Liberazione e il manifesto, sugli altri quotidiani non è uscita una riga. Un controllo ferreo dell’informazione non consentiva il libero dispiegarsi di una normale dialettica che –sempre auspicabile- assumeva per la rilevante delicatezza del luogo il significato quasi di obbligo morale. Oggi il vaso di Pandora si è aperto. Dello scandalo del Pincio se ne parla su Le Monde e sulla stampa nazionale. In queste condizioni la nostra ragionevole posizione si è affermata. Dobbiamo oggettivamente ringraziare un sindaco che non ripudia il ventennio fascista perché a sinistra si è voluta azzerare ogni elemento critico. La seconda lezione da trarre dalla vicenda è dunque che a sinistra bisognerà chiudere per sempre una pagina umiliante in cui si è confuso il proprio ruolo con l’obbligo valido per tutti di “obbedir tacendo”. Si pensi che Roberto Morassut, ex assessore all’urbanistica di Roma, ha denunciato alla magistratura Report per l’impeccabile servizio sull’urbanistica romana. Un deputato Pd, come la società immobiliare negli anni ’60 contro l’Espresso, cerca di far tacere la Gabanelli e Mondani.
Terza lezione. I luoghi simbolici di ogni città vanno rispettati. A nessuna persona sensata verrebbe in mente di costruire un parcheggio sotto piazza San Pietro. Siamo invece arrivati ad un tale livello di corruzione delle coscienze che da noi si voleva scavare sotto il Pincio, mentre a Milano si scava davanti a Sant’Ambrogio e a Fiesole si devasta una delle piazze storiche più belle d’Italia. Il problema è che con l’impressionante silenzio della sinistra si è affermata in questi anni una concezione economicista delle città e dei beni comuni. Viene prima lo sviluppo, viene prima l’economia e le città si devono adeguare. Non era mai accaduto nella storia e conseguentemente è a rischio l’identità di tutte le nostre meravigliose città. A Torino, è solo un esempio tra tanti, si vorrebbe mutare per sempre, creando qualche grattacielo, lo storico disegno urbano soltanto perché –così si afferma- farebbe bene all’economia. L’interesse di alcuni potentissimi gruppi finanziari prevale sulla storia, sulla ragione della tutela, sugli interessi di tutti. Questa posizione culturale è congeniale della destra neoliberista. Ma quando queste stessa supina accondiscendenza verso le false ragioni dell’economia (in realtà si farebbe presto a dimostrare che si tratta sempre di speculazioni fondiarie) viene sostenuta dalla sinistra si comprende perché stiamo vivendo una sconfitta storica. La terza lezione è dunque che la sinistra ricostruisca un suo autonomo pensiero critico sulle città che metta al primo posto gli interessi generali. Si potrebbe iniziare da pochi passi dal defunto parcheggio del Pincio, dove un ettaro di villa Borghese, la prima villa pubblica aperta alla cittadinanza romana è stata recintata e affidata a un gruppo imprenditoriale che gestisce la casina Valadier. Questi benemeriti “imprenditori” non hanno trovato di meglio che contrattare i costi del restauro con la possibilità di aumentare il numero dei tavolini del ristorante. L’amministrazione di centro sinistra di Roma ha accettato con entusiasmo. Così il popolo delle stock option può pranzare a contatto con gli eroi dell’Italia mentre villa Borghese versa in degrado spaventoso. Non c’è una città dell’Europa civile che compie simili misfatti. E’ ora di revocare la concessione.
Infine l’attenzione al futuro di Roma. Oggi i quotidiani parlano della volontà di compensare il compianto parcheggio del Pincio con l’allargamento dell’offerta del vicino parcheggio del galoppatoio. Nel merito occorrerà comprendere se questo allargamento peggiorerà ancora lo stato di villa Borghese. E a scorrere le indiscrezioni della stampa non c’è da stare allegri. Sembra che si voglia realizzare un magnifico tunnel tra il parcheggio del Galoppatoio e piazza del Popolo. Un’idea geniale, degna di Chicco Testa. Si potrebbe tracciarne uno simmetrico dall’altro lato e farlo uscire proprio davanti alla storica “breccia” da cui le truppe piemontesi entrarono a Roma. Un magnifico tunnel che rappresenterebbe bene la modernità stracciona di un paese che non vuole liberarsi, unico in Europa, del predominio della speculazione fondiaria. Di un paese che non ha ancora capito che sono la storia e la natura a dover guidare le trasformazioni delle città e non viceversa. Proprio nel paese in cui esiste il più grande giacimento culturale del mondo. Lasciato in pace il Pincio, occorrerà lasciare in pace anche la piazza del Pop
Fra le luci sfavillanti e le installazioni visionarie della Biennale Architettura si apre lo spazio drammaticamente concreto de «L´Italia cerca casa / Housing Italia», allestito da Francesco Garofalo nel Padiglione italiano alle Tese delle Vergini e promosso dalla Parc (la Direzione generale del ministero dei Beni culturali). Qui il volo dell´architettura diventa più radente: niente star, niente bizzarrie compositive, niente bei gesti assimilabili alla moda. Visitando il Padiglione si sente rimbalzare il paradosso di questi anni, quello per cui più case si costruiscono più ce ne vorrebbero. I dati li propone Garofalo, architetto romano e professore a Pescara, introducendo il catalogo della mostra (che verrà edito da Marsilio): il bisogno di case è acuto e stringe alla gola milioni di persone (più di centomila, per esempio, nella sola Roma), eppure non si è mai costruito tanto in Italia come in questo decennio, 350 mila appartamenti nel solo 2007, un trend che non ha eguali neanche nel dopoguerra, quando occorreva dare un tetto a chi l´aveva avuto distrutto dalle bombe. «Quella dell´abitare è la questione centrale della nostra cultura architettonica», sintetizza Garofalo.
La mostra è divisa in tre sezioni. Si guarda al passato, alle politiche per l´abitazione attuate nel Novecento. Al presente, a un mercato dell´edilizia dominato dalla finanza e dai mutui. E al futuro, con l´esposizione di dodici progetti di altrettanti studi italiani, in prevalenza animati da giovani architetti: accanto ai più esperti Andrea Branzi (classe 1938) e Italo Rota (nato nel 1953), ecco Marco Navarra (1963) e Beniamino Servino (1960), Mario Cucinella (1960) e Luca Emanueli (1961), insieme agli studi Albori, Baukuh, Cliostraat, IaN+, Salottobuono e al gruppo Stalker/Osservatorio Nomade.
La prima sezione racconta l´edilizia popolare in Italia dagli anni Trenta al suo esaurirsi, alla fine degli anni Ottanta. Un atlante sistemato nella grande sala rettangolare del Padiglione (disegnato da Mario Lupano e curato da Maristella Casciato) assembla su 350 metri quadrati di parete le immagini di un pezzo fondamentale dell´architettura novecentesca. È la storia di insediamenti che ancora resistono nel paesaggio opaco di molte periferie italiane, svettando in mezzo alla banalità dei palazzi di speculazione privata – sono i palazzi dell´Icp, Istituto case popolari, poi diventato Iacp, oppure dell´Incis, che erano destinati agli impiegati dello Stato, o, ancora, dell´Ina-Casa. Le ultime istantanee riguardano i grandi complessi degli anni Sessanta e Settanta, edificati sulla spinta di manifestazioni di piazza e di lotte operaie. Fu uno sforzo enorme da parte dello Stato. Nacquero lo Zen a Palermo, le Vele a Napoli, a Roma Corviale e il Laurentino 38. Molte città videro ergersi nelle cinture periferiche grappoli di torri grigie, disegnate in modo elementare eppure dotate di personalità architettonica e di una monumentalità che i progettisti ritenevano adeguati a una classe operaia sempre più consapevole di sé. A Roma, racconta Giovanni Caudo, autore del saggio presente nel catalogo Dalla casa all´abitare, i piani di edilizia popolare prevedevano alloggi per una popolazione pari a quella dell´Umbria, 712 mila stanze su più di 5 mila ettari. I risultati, in molti casi, furono controversi. Enormi spazi inutilizzati. Servizi scarsi e scadenti. Manutenzione inesistente. E, soprattutto, una lontananza dalla città che aveva l´aspetto dell´esclusione sociale. La discussione fra gli storici dell´architettura è tuttora aperta e cerca di districarsi fra luoghi comuni demonizzanti, come se quegli edifici fossero la quintessenza del disagio che affligge le periferie, la sola sua causa.
Quella stagione è comunque chiusa, nonostante l´intervento pubblico nell´edilizia sia stato in Italia di molto inferiore alla media dei paesi europei.
La seconda sezione della mostra è occupata dal video che mette in immagini il testo di Caudo Dalla casa all´abitare (regia di Maki Gherzi, animazione di Kalimera). Caudo spiega il paradosso delle tante case costruite e della tanta gente che non trova casa. I valori immobiliari sono tremendamente lievitati negli ultimi anni e soltanto ora, dopo la crisi dei subprime americani, gli aumenti si sono arrestati. Crescono i mutui e le famiglie sono sempre più indebitate. Il mercato è di fatto l´unico a fornire abitazioni, prevalentemente da acquistare (in Italia, a differenza degli altri paesi europei, il 73 per cento delle famiglie vive in appartamenti di proprietà). Ma al mercato non accedono le fasce più deboli e neanche strati del ceto medio (single, precari, giovani coppie, studenti, lavoratori in trasferta). L´affitto è anche fattore di dinamismo e una città in cui questo mercato è risicato ne risente: è difficilissimo, per esempio, per ricercatori o artisti stranieri trovare a Roma una sistemazione temporanea. «Le case sono diventate di carta», spiega Caudo, «sono merce di transazioni finanziarie e lo stesso sta accadendo per le città, un tempo luogo principale delle trasformazioni, dall´economia industriale a quella dei servizi».
La soluzione del paradosso non viene indicata in un ritorno all´edilizia popolare. Caudo segnala come molti paesi europei puntino sull´affordable housing, le case accessibili, né solo private, né solo pubbliche, che sorgano in aree già urbanizzate, ma inutilizzate. L´invito è dunque lanciato alla politica, ma anche alla cultura architettonica, «che sembra essersi appiattita sul mercato imperante e sulle domande di spettacolarizzazione».
I progetti esposti (la cura è di Gabriele Mastrigli) sono "materiali per la riflessione". Ma già il titolo che li raggruppa bandisce gli effetti speciali: «La casa per ciascuno». La gran parte di essi propongono il riuso di volumi già esistenti, evitando di consumare territorio. Lo studio Albori di Milano vorrebbe recuperare la struttura incompiuta della stazione ferroviaria di San Cristoforo a Milano, progettata da Aldo Rossi. Andrea Branzi, invece, immagina una "casa madre", un complesso che tiene insieme residenza e lavoro, ma non solo: è una specie di co-housing integrale, di coabitazione fra specie umana e animale. Mario Cucinella indaga su una casa da 100 mila euro di 100 metri quadrati a zero emissioni di CO2. Lo studio IaN+ suggerisce un ritorno della residenza nel centro di Roma, ricostruendo l´interno di alcuni edifici di cui resterebbero intatte le facciate. Marco Navarra, architetto che vive a Caltagirone, studia i modi di abitare degli immigrati ed è anche un sostenitore del repairing cities, le città che si riparano senza espandersi (ha appena pubblicato un volume sulle esperienze compiute al Cairo): per la Biennale ha messo a punto delle soluzioni di abitazioni e di servizi per la comunità tunisina di Mazara del Vallo. Il gruppo Stalker, invece, ha analizzato le tecniche costruttive dei Rom ed ha realizzato con loro, nel campo Casilino 900 di Roma, una casa in legno, grande 70 metri quadrati. Beniamino Servino, architetto casertano, ha disegnato un edificio sospeso su piloni, una casa-viadotto che si contrapponga all´immensa città diffusa spalmata fra Napoli e Caserta.
I progetti esplorano vari temi. E offrono soluzioni più a portata di mano o più lontane, proponendosi come ipotesi di studio: ma il concetto dell´abitare li attraversa tutti, come pure l´idea che l´architettura non può fare a meno di cercare un riscontro sociale. «È una sfida architettonica», insiste Garofalo, ricordando che non a caso le tre principali riviste dell´architettura italiana si intitolino Abitare, Casabella e Domus.
Non c'è proprio nulla di "vecchio" o di "nostalgico", come si sono affrettati a dire in molti, nella polemica sulla doppia sortita sul fascismo e su Salò di due uomini di prima fila della destra italiana al governo, il sindaco di Roma e il ministro della Difesa: né francamente è interessante sapere se è per fascismo istintivo, naturale, antico, che nascono queste bestemmie istituzionali, o per la nuovissima incultura repubblicana, europea, occidentale che domina il berlusconismo indisturbato e regnante.
Al contrario, quelle frasi parlano di noi e di oggi, di ciò che siamo come Paese e come classe dirigente, come cultura nazionale e come pubblica opinione. Di questo vale la pena discutere, dunque, non delle piccole beghe tra Storace ed Alemanno che secondo alcuni sono l'unico movente e la spiegazione pacifica e rassicurante di una rivendicazione congiunta fatta davanti ai simboli della Repubblica, e non a caso da due "uomini nuovi" (se così si può dire) proiettati in competizione sul dopo-Fini, nel grembo berlusconiano che tutto concede e nulla vieta.
Stanno perfettamente insieme, nel rozzo bisogno di riaggiustare l'identità della destra dopo 14 anni, l'esaltazione dell'eroismo cieco e patriottico (dunque ingenuo e storicamente "innocente") di Salò con la riduzione del fascismo ad esperimento di modernizzazione autoritaria, travolto solo da un "esito" incongruo e tragico dovuto all'errore dell'innesto nibelungico col nazismo, le leggi razziali e la guerra. Si chiarisce l'aspetto tattico della svolta di Fiuggi, per la fretta dell'arruolamento belusconiano e la necessità conseguente di un cambio rapido di parole d'ordine e di riferimenti politici: una svolta appunto politicista, nient'affatto culturale, e tanto meno morale e storica, come confermano gli esiti odierni.
E' facile, sotto il mantello, i numeri e la leadership altrui, diventare ministri e presidenti delle Camere. Più difficile diventare democratici convinti: e addirittura convincenti.
Nell'immaturità della svolta, due elementi appaiono soprattutto fragili, e tra loro collegati. L'orrore e la vergogna delle leggi razziali, insieme con la necessità di un accreditamento internazionale, hanno portato Fini e tutta la classe dirigente di An a periodizzare la loro presa di distanza dal fascismo dal 1938. Tutto ciò che è avvenuto in questo senso è naturalmente doveroso e positivo, a partire dal primo incontro tra Fini e Amos Luzzatto, presidente della comunità ebraica italiana, che "Repubblica" ospitò nel 2003 su richiesta dello stesso Luzzatto, perché il leader di An non poteva andare in Israele senza prima aver fatto i conti con gli ebrei italiani. E tuttavia questo forte passo in avanti (nell'assunzione di una responsabilità storica, e nel discostarsene, condannandola) ha un limite se resta isolato. Perché se non c'è una condanna del fascismo come regime ("antiparlamentare, antiliberale e antidemocratico" come disse Mussolini nel '25) si disconosce la sua stessa "natura", la sua opposizione al principio di uguaglianza attraverso l'elitismo da un lato e il razzismo dall'altro, e dunque si può separare - come appunto fa Alemanno - l'esito tragico del Ventennio dalla tragedia quotidiana che nasceva dalla sua stessa essenza liberticida, dal suo "odio per la democrazia", da quella che Turati chiamò l'"anticiviltà".
Non solo: concentrando il "male" del fascismo nel '38, la condanna di quel male si risolve in un atto di contrizione personale a Yad Vascem, come se l'orrore supremo dell'Olocausto assorbisse in sé tutti gli altri scempi della democrazia compiuti dal regime, ogni altro gesto di riparazione, ogni legittima aspettativa degli italiani che avevano subito torti, abusi, violazioni della libertà. A partire dall'assassinio di Matteotti, per il quale nessun post-fascista ha sentito il bisogno nell'anniversario, ottant'anni dopo, di esprimere una condanna dal palazzo del governo, dopo che dal palazzo del governo Mussolini aveva impartito l'ordine di ammazzare un deputato d'opposizione.
Questo limite ha tre ragioni evidenti. La prima è la mancanza di un'autonoma necessità democratica degli uomini di An a chiudere per sempre la storia del loro passato, assumendo non solo la democrazia come contesto imprescindibile della vicenda odierna, ma i costruttori della democrazia - a partire dalla Resistenza - come Padri di una Repubblica condivisa e accettata nei suoi valori e nei suoi caratteri fondanti, tradotti nella Costituzione. La seconda è il limite naturale del berlusconismo - una specie di autismo politico - che concepisce la sua grandezza nell'edificazione di sé e non nella costruzione di una moderna cultura conservatrice democratica e occidentale che il Paese non ha mai conosciuto, doroteo o fascista com'è sempre stato a destra. La terza è lo strabismo congenito degli intellettuali liberali e dei loro giornali, che non hanno mai incalzato la destra per spingerla a liberarsi dei suoi vizi storici e dei suoi ritardi culturali, risparmiando con avarizia ideologica evidente quel pedagogismo che per decenni hanno opportunamente dispiegato nei confronti dei ritardi e delle colpe del comunismo: e che esercitano ancora - naturalmente a senso unico - anche oggi che il comunismo è per fortuna morto ed è nata una sinistra di governo riformista.
Anzi, dovremmo dire che proprio le indulgenze della cultura italiana e del suo establishment compiacente, la permeabilità azionaria (salvo naturalmente la golden share berlusconiana) del Pdl dove contano solo fedeltà e rapporti di forza, non scommesse culturali e coraggio politico, la nuova predisposizione italiana verso il politicamente scorretto e il "non conforme", rendono possibile ciò che sta accadendo: non nel pensiero politico, che con ogni evidenza non c'è, ma nella prassi di governo della destra. E' come se il contesto italiano di oggi autorizzasse un passo indietro rispetto ai timidi passi avanti di più di un decennio fa.
Oggi, in questa Italia, è evidentemente possibile onorare Salò e rimpiangerla. Oggi è possibile rivalutare il fascismo, poi incespicare in una correzione travagliata costruita con due "non" ("comprendere la complessità storica del fenomeno totalitario in Italia non significa non condannare...) per la difficoltà di dire con nettezza qualcosa di chiaro, di risolto, di comprensibile. Dire, soprattutto, cos'è oggi questa destra, in cosa credono i suoi uomini.
Bobbio aveva avvertito su questo possibile esito dello sforzo decennale del revisionismo per affermare un rifiuto dell'antifascismo in nome dell'anticomunismo: una nuova forma "aberrante" di equidistanza tra fascismo e antifascismo. E' ciò che stiamo sperimentando in questo inizio di stagione, nella distrazione italiana del dopo-ferie, in un Paese in cui il senso comune - con i suoi pregiudizi - si è sostituito alla pubblica opinione (con la sua consapevole capacità di giudizio), la sinistra è prigioniera della sua subalternità culturale prima che politica, manca un principio di reazione perché non è in campo un pensiero alternativo al pensiero dominante: mentre si allarga ogni giorno, per conseguenza naturale, quella che i vecchi sudditi sovietici chiamavano la capacità di "digestione" della società.
Ma lo stesso Bobbio avvertiva che alla base della repubblica (e probabilmente della sua tenuta nel lungo dopoguerra) c'era un sentimento civile condiviso: un'"idea comune della democrazia". E' ciò che oggi manca ed è la dominante della fase che stiamo vivendo. Proverei a dare questa definizione: in Italia oggi si contrappongono due diverse idee della democrazia. Non c'è bisogno di giudizi roboanti o di etichette improprie. È sufficiente guardare la realtà.
Da un lato c'è un'idea repubblicana, nazionale ed europea che potremmo definire di democrazia costituzionale, che si riconosce nello Stato moderno, nella divisione dei poteri e nel principio secondo cui la sovranità "risiede" nel popolo. Dall'altro lato c'è l'idea di una democrazia che potremmo chiamare demagogica, una sorta di autoritarismo popolare continuamente costituente di un ordine nuovo, quasi una rivoluzione conservatrice che sovverte l'eredità istituzionale mentre la governa: in nome di un populismo che crea se stesso come un potere sovraordinato agli altri, nella prevalenza della decisione rispetto alla regola, anzi nella teorizzazione della nuova libertà post-politica che nasce proprio dalla rottura delle regole, perché il nuovo mondo si gerarchizza spontaneamente nella subordinazione volontaria al demiurgo.
Ce n'è abbastanza (basta pensare ai richiami impliciti ma evidenti del futurismo, del dannunzianesimo, dell'irrazionalismo, del nazionalismo, della restaurazione rivoluzionaria) perché l'istinto fascista nascosto ma conservato voglia fare la sua parte, si agiti sotto la cenere di una fiamma mai spenta, chieda di partecipare al banchetto costituente di questa "destra realizzata" che cerca una forma compiuta in Italia, una definizione che vada oltre l'orizzonte biografico berlusconiano e il limite biologico del suo titanismo. Così come si capiscono le responsabilità di tutto questo. Si capisce meno, se questa è la partita, cosa faccia chi per definizione sta dall'altra parte del campo. Se questo, tutto questo è destra (qualcuno può ancora avere dubbi?) si può rinunciare ad essere sinistra, col Pd, sia pure sinistra finalmente risolta, e capace di parlare all'intero Paese? Non solo: quell'idea comune della democrazia - che in gran parte coincide con la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, dunque è di per sé "costituente" dell'identità civile del Paese - non si può declinare e costruire già dall'opposizione, con il rischio di scoprire magari che quel sentimento è già maggioranza nella coscienza dei cittadini?
C'è una qualche ragione di stupore nel fatto che alla celebrazione della difesa di Roma l'8 settembre - l'8 settembre!, nel giorno in cui quelli come lui, i nostalgici della Patria Littoria e, insieme, i ministri della difesa, dovrebbero, per decenza, chiudersi in silenziosa meditazione -, il ministro La Russa non abbia trovato di meglio che tessere l'elogio dei combattenti di Salò? Ignazio La Russa è un fascista (può sembrate anacronistico, ma è così). Era fascista trent'anni fa, quando bazzicava piazza San Babila. Ha continuato a essere fascista per tutto il tempo in cui ha ricoperto alte cariche in un partito, il Msi, che aveva nel proprio simbolo il sacello del duce e che ostentava come un onore la discendenza dalla Repubblica sociale. E' rimasto fascista nonostante la riverniciatura di Fiuggi. E' fascista culturalmente. Politicamente. Anche antropologicamente, lasciatemelo dire, tanto da sembrare una caricatura del fascista. Lo è allo stesso modo di Alemanno, di Gasparri, di Storace... Quello che ha detto a Porta San Paolo lo aveva già detto, in forma certamente più cruda, prima del '94, nelle sezioni del suo partito dove troneggiava di solito il testone di Mussolini e pendevano ai muri i gagliardetti della «decima mas». E lo avrà ripetuto chissà quante volte ai raduni reducistici della Divisione Littorio o della «Ettore Muti» (quelli, per intenderci, che rastrellavano con i tedeschi le nostre valli e bruciavano le borgate ribelli).
Quello che colpisce e indigna, nei fatti di ieri, è che ora lo dica non più da «uomo di partito», ma da ministro - e non un ministro qualunque -: da Ministro della Difesa, uno che rappresenta il braccio armato della nostra nazione, e che decide della vita e della morte sia dei nostri soldati che di quelli che se li trovano davanti. Quella «lettura» della storia italiana viene dal cuore del potere governativo, dal suo nucleo più duro, e inquietante, perché preposto «all'esercizio della forza». Ma anche questo è un segno dei tempi. Della profonda trasformazione - e degenerazione - del nostro sistema politico. Del mutamento strutturale - di «regime», potremmo dire - dell'assetto istituzionale italiano.
Se il fascista La Russa può permettersi di usare, da quel podio, «istituzionalmente», un linguaggio che negli ultimi anni aveva dovuto moderare e mascherare, se può dire quello che pensava e che pensa, è perché avverte che se lo può permettere. Che si sono abbassate le difese immunitarie del paese rispetto a quella retorica e a quelle argomentazioni. Che nel senso comune prevalente, la memoria di quegli eventi è ferita, neutralizzata, in ampia misura azzerata. Sembra che, interpellato, il ministro abbia risposto di aver «detto cose molto meno impegnative di quelle che disse Violante sui ragazzi di Salò, o di quello che ha detto lo stesso Veltroni». E purtroppo colpisce un punto dolente, perché lo strappo di Porta San Paolo avviene su un terreno già preparato da tempo.
Si insinua in un vuoto di consapevolezza e di coscienza storica lasciato da chi, per rincorrere mode mediatiche e troppo facili riconoscimenti dall'avversario politico, ha bruciato troppi ponti. Cancellato troppe linee identitarie. Giocato troppo spregiudicatamente con la propria e l'altrui storia. I «regimi» nascono, e soprattutto si manifestano, anche così: non solo con i fatti, ma con le parole. E se dei fatti (e misfatti) di questo governo le vittime sono gli «ultimi», quelli su cui è facile maramaldeggiare (i migranti, i rom, i precari, i senza voce...), delle parole vittima sono i «primi»: i fondatori di questa Repubblica che si appanna e svanisce. Quelli che l'8 settembre, in solitudine, nel naufragio della patria, scelsero. Un'Altra Italia, da allora non certo maggioritaria, ma autorevole, capace di voce e di memoria. Ostacolo e limite a ogni tentativo di ritorno. E' quella la vittima sacrificale di Porta San Paolo. Il segno che, sessantacinque anni dopo, Roma è caduta. Lo misureremo nei prossimi giorni, dall'intensità della risposta, quanto profonda sia la caduta. Ma se quelle parole dovessero «passare». Se venissero archiviate come cronaca nel gossip dominante. Se la pur dignitosa e autorevole replica del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dovesse restare la sola, e non si materializzasse - di contro - una ferma, diffusa, condivisa e forte risposta, allora dovremmo concludere che il cerchio si chiude. E l'autobiografia della nazione si ripropone, nel suo eterno ritornare.
Domanda: il ministro di Giustizia, Angelino Alfano, e il suo scudiero Franco Ionta, direttore dell’amministrazione penitenziaria, sono due ingenui dilettanti allo sbaraglio o due ambiziosi furbacchioni che credono di poter raggirare tutti in tutte le occasioni? Se invento nuovi reati e nuove aggravanti; se inasprisco le pene; se faccio di ogni erba un fascio e cancello ogni ragionevole confine tra inciviltà, micro-devianza e criminalità (e anche tra i diversi tipi di criminalità). Se non punisco più il fatto, ma castigo l’identità, l’appartenenza ad alcune categorie di “umani” che giudico, di per se stesse, pericolose; se – in soldoni – penso di risolvere ogni problema sociale (dalla tossicodipendenza a quello – epocale – dell’immigrazione) con il diritto penale e la galera, non posso poi stupirmi se le carceri scoppiano. Se Alfano è in questa condizione, dovremmo chiederci se è l’uomo giusto al posto giusto.
Se invece, come crediamo, Alfano non è Alice nel Paese delle Meraviglie, il “piano svuota-carceri” che oggi propone è la prova concretissima del fallimento del modello securitario scelto dal governo per fronteggiare la “percezione d’insicurezza” che esso stesso alimenta irresponsabilmente da anni. Agitando la bandiera della sicurezza, la destra di Berlusconi ha costruito la sua credibilità e la vittoria elettorale.
Alla prova dei fatti, alle prese con la dura realtà di fenomeni complessi, getta la spugna escogitando un «piano» che, ancora una volta, mostra quanto sia contraddittoria la sua “visione”: Berlusconi ha votato l’indulto; è riuscito, in campagna elettorale, a cacciarlo sulla groppa delle responsabilità di Prodi e, ora che è al governo, se ne cucina un altro. Solo che non lo chiama indulto, ma «piano svuota-carceri».
Già basterebbe, ma non è il peggio. Il peggio è che Alfano vuole convincerci che il suo «piano» non sia uno slogan di marketing politico-burocratico, ma che serva davvero a qualcosa. In realtà, non serve a niente. È inattuabile e soprattutto inutile. È soltanto il tentativo, rispetto al peggio che incombe, di salvare la faccia, di liberarsi di ogni responsabilità futura. Alfano sa quale inferno sono oggi le carceri e che incontrollabile gehenna diventeranno nei prossimi due anni quando i detenuti in Italia diventeranno più di 70mila (in alcune previsioni, 73 mila) in un sistema predisposto per ospitarne 43 mila. Settantatremila persone ristrette l’uno sull’altro in celle sopraffollate, “chiuse” per venti ore al giorno. Alfano teme che, presto, le rivolte incendieranno i penitenziari.
Sa come i tumulti, già scoppiati in piccoli penitenziari (Trento), possono allargarsi ai più grandi (a Sulmona lo si è già visto) dove, nell’ora d’aria, due poliziotti penitenziari tengono a bada duecento detenuti alla volta. Alfano sa oggi, a prezzo di quali violenze, sia conservato un ordine che non si disintegra soltanto per la responsabilità dei detenuti e il sacrificio della polizia penitenziaria. Vuole soprattutto dirsi innocente per quel che può accadere o accadrà. La sua ricetta ha due medicine. Il braccialetto per i 4.100 italiani da “liberare” e l’espulsione per i 3.300 stranieri che devono scontare meno di due anni.
Ora il braccialetto elettronico, in Italia, è una boutade. La sperimentazione è stata catastrofica e dal 2005 l’uso di questi dispositivi è stato interrotto. Costano troppo (15 milioni l’anno per i 400 braccialetti da testare) e l’impresa non vale il prezzo: la centralina che conferma la presenza del detenuto in casa salta anche quando viene spolverata o sfiorata da un bambino; il meccanismo diventa muto se il detenuto si immerge in una vasca da bagno o scende in cantina con un fiorire di falsi allarmi che mobilitano senza costrutto le forze di polizia che non ne vogliono più sapere nulla di quell’aggeggio. Naturalmente la tecnologia potrebbe migliorare e permettere al detenuto, ad esempio, di lavorare o studiare. Ma a quale prezzo? Ai costi attuali dei braccialetti in dotazione, le casse dello Stato dovrebbero sborsare nei prossimi dieci anni, per i 4000 detenuti programmati, un miliardo e 500 milioni di euro. Ci sono questi soldi in cassa? Alfano sa che non ci sono.
Non è più concreta del braccialetto, l’espulsione per gli stranieri. Si dice che 3.300 stranieri devono scontare ancora due anni e possono farlo nei loro Paesi. È vero, così c’è scritto nella legge. Ma quanti di quei 3.300 devono soltanto scontare tre mesi, sei mesi? Le statistiche del ministero non lo indicano, ma il dato è importante perché l’iter di espulsione di un tribunale di vigilanza (non decide il ministero l’espulsione del detenuto straniero condannato in via definitiva) in media “prende” sei mesi di tempo. Quanti di quei 3.300 saranno già liberi prima che l’idea di Alfano si realizzi? Ammettiamo che tutti i 3.300 debbano scontare due anni e i tempi di espulsione siano coerenti, ci sono le risorse per accompagnarli nei paesi d’origine? I soldi non ci sono e, per quel che se ne sa, anche le espulsioni per via amministrativa del ministero dell’Interno sono ferme al palo per la sofferenza del bilancio.
Anche in questo caso, ammettiano che il bilancio della Giustizia consenta le espulsioni, è davvero economico rispedire a casa un neozelandese e due kazaki (nelle carceri italiane sono “rappresentate” 160 nazionalità)? E tuttavia ammettiamo ancora che la ricetta di Alfano (braccialetto più espulsioni) sia praticabile, come pensa il governo di impedire che non si crei, tra un anno, la stessa emergenza sovraffollamento di oggi? La questione è decisiva. Indirizzata alla “difesa sociale”, spesso manipolata nelle sue criticità, a danno del reinserimento e di ogni programma sociale, la politica securitaria del governo moltiplica soltanto le imputazioni, aggrava le pene e la detenzione, riduce le opportunità di libertà condizionata per una vasta gamma di reati e produce, senza alternative, soltanto nuovi detenuti in misura esponenziale. Per di più senza risolvere la questione sicurezza ché non c’è alcun rapporto tra il tasso di incarcerazione e la riduzione del tasso di criminalità. Su questo incidono, infatti, per gli studi più accreditati, i periodi di crisi economica e sociale, la variazione delle occasioni di guadagni illeciti, la variazione dei livelli occupazionali, il grado di legittimazione delle istituzioni politiche, economiche e sociali.
Dunque, la morale della favoletta di fine estate raccontata da Alfano e Ionta è soltanto una. Con gli slogan si possono forse vincere le campagne elettorali, ma difficilmente si governa un Paese: la destra di Berlusconi prima ha spaventato il Paese e, oggi, non ha uno straccio di idea né per rassicurarlo né per proteggerlo.
D’un tratto in politica s’accampa un Nuovo che scompiglia ogni cosa, che promette addirittura di ricominciare il mondo. Il Nuovo è il corpo del candidato, e non del solito candidato ma del candidato-donna. E neppure di una donna che ha speciali esperienze: quando i giornali americani scrivono che con Sarah Palin «è nata una stella» alludono a un candidato forte perché enormemente simile a tutte le donne e alla loro vita quotidiana, fatta di tanti bambini, tante famiglie accidentate. È la prima volta e questa formula («È la prima volta») ha le virtù d’un mantra: è un cumulo di sillabe che protegge con magica efficacia. Tutto sembra tramutarsi in mantra, non appena sul palcoscenico fa irruzione la biologia femminile: non intercambiabile con quella dell’uomo, perciò primeva, inaugurale. Nel rifare il mondo, la donna può anche ricorrere all’arma suprema, all’atomica che dissuade l’avversario azzittendolo. Mette in mostra, modernamente disinibita, quel che ancor ieri era intimo: la pancia incinta, dunque il rapporto primordiale con la vita e la morte. Giacché questa è la politica al grado zero: vita o morte, pace o guerra, tutto o nulla. Nella favola di Esopo erano le membra del corpo che si ribellavano alla pancia oziosa. Adesso fa secessione la pancia, reclama il primato assoluto.
C’erano una volta due corpi del Re - accadeva nelle monarchie medievali descritte da Kantorowicz negli Anni 50: il corpo mortale e quello eterno, santo, che raffigura l’istituzione e la Corona e s'incarna in questo o quel re. Ora s’aggiunge un terzo corpo: la pancia incinta che la donna politica, non senza cinismo, eleva come trofeo. La pancia della diciassettenne Bristol, figlia della candidata alla vice presidenza. O la pancia del ministro della giustizia Rachida Dati, in Francia. Un mistero circonda quasi sempre il Terzo Corpo. Il padre è figura secondaria: trascurabile nel caso di Bristol Palin, incerta per Rachida Dati. Il Mondo Nuovo non appartiene ai padri. In questi giorni in America è nata una santa, oltre che stella: il ventre immemorialmente è benedetto. Il corpo politico, chiamato per secoli body politic perché paragonato all’organismo umano, diventa body e null’altro, senza più i parafernali della politica.
In realtà quest’irrompere del corpo non è nuovo. Accadde all’inizio del ’900, quando si cominciò a paragonare le virtù dello sportivo con quelle dell’intelligenza o dello spirito. Robert Musil costruisce un romanzo su questa scoperta: improvvisamente l’Uomo Senza Qualità s’accorge che lo spirito del tempo (lo spirito della comunità) esalta il corpo come la cosa più autentica dell’uomo. Ulrich lo annuncia a Diotima, la cugina borghese che di autenticità è insaziabilmente affamata: «Dio, per ragioni che non ci sono ancora note, sembra aver inaugurato un'epoca della cultura del corpo; perché l'unica cosa che in qualche modo sostiene le idee è il corpo, cui esse appartengono». Aprendo il giornale, un mattino, Ulrich s’imbatte sulla vittoria di un «geniale cavallo da corsa». Il corpo (animale o femminile) ha occupato l'intera scena, divorando la genialità letteraria o politica: è diventato totem, simbolo soprannaturale in cui il clan si identifica. Basta dire corpo di donna ed è Mondo Nuovo, Moderno. Non importa quel che la donna fa: conta l'apparire corporeo, con cui il suo essere coincide perfettamente specie quando la pancia ne è sintesi e apoteosi.
Eventi simili non cadono dal cielo. Hanno antecedenti. In principio c’è un ammalarsi della politica, della democrazia, non per ultimo dei mezzi di comunicazione. Basta sfogliare i giornali, non solo in America, e si vedranno analoghe fatali attrazioni per ciò che è considerato autentico nell’uomo politico. In Italia non avremo forse l’infame curiosare su una diciassettenne incinta, ma lo spazio è egualmente invaso dal gossip, dalla cronaca rosa oltre che nera. Perfino la critica letteraria è spesso solo rosa. Attrae il privato dei politici, in particolare se donne. Si fruga nelle loro vite, nelle pance, come i rotocalchi che spiano divi e sportivi. Da tempo diminuiscono i giornalisti che indagano su altro che questo, con la stessa continuità. In Francia questa metamorfosi si chiama pipolisation: dai rotocalchi people emulati da giornali e tv. Il fenomeno concerne inizialmente sia uomini che donne. Sarkozy ha sfoggiato i propri matrimoni. Ancor prima s'è distinto Berlusconi: il corpo, i capelli, la prestanza fisica sono stati sue sciabole. I giornali si sono adattati al gusto del tempo, al finto realismo che inghiotte il reale.
La donna in politica tende a impigliarsi nella pipolisation: non fosse altro perché viene presentata come nuova e migliore in sé, a prescindere da quello che fa o pensa. Ségolène Royal era ineguagliabile in quanto donna, Hillary Clinton è caduta nella stessa trappola e ora si trova davanti la nemesi che è Sarah Palin. In Italia non è diverso. Di recente, Veltroni s’è augurato un direttore nuovo all’Unità. Non s’è soffermato sulla bravura o non-bravura del direttore Antonio Padellaro, sulla nuova linea che auspicava, sulla vecchia che esecrava. S’è limitato a proferire il mantra, lo scorso 25 maggio sul Corriere della Sera: «Ci vorrebbe una donna alla direzione dell’Unità». Senza spiegare in cosa consistesse l’ancien régime, disse che la rivoluzione era questa. Qualcuno ha commentato, con saggezza: Padellaro era un uomo, purtroppo.
McCain è tutt’altro che maldestro. Adopera la crisi della politica, della democrazia, dei media. Sa di poter contare sull’estensione del gossip, della cultura del corpo. La pancia della povera figlia di Sarah Palin e il corpo del neonato down ostentato nella campagna portano voti, perché riaccendono la guerra culturale che il populismo di destra conduce contro la presunta egemonia della sinistra. Gli studiosi George Lakoff e Thomas Frank denunciano da tempo, in libri e articoli, la fuga della destra nel falso realismo dell’autenticità e nel risentimento dei piccoli verso i forti. È una destra che s’è impossessata di molte bandiere di sinistra: la discriminazione delle piccole città, della povera gente, di chi «non è stato cooptato dall’élite cosmopolita», infine delle donne.
Obama è considerato elitario, cooptato: quindi cosmopolita, non genuinamente americano. Palin invece incarna il nuovo valore dell'Autenticità ed è contro tutte le élite, specie mediatiche. Alla convenzione repubblicana ha entusiasmato: «Ecco una notizia flash per tutti i reporter e commentatori - ha gridato -: vado a Washington non per strappare la loro buona opinione. Vado a Washington per servire il popolo di questo Paese. Non sono parte dell'establishment politico. In questi giorni ho presto imparato che se non sei parte dell’élite, alcuni media non ti considereranno il candidato qualificato». Il politico più seduttore oggi è un maverick: un cane sciolto, una personalità più che una persona. McCain è maverick e anche Sarah Palin perché - così pare - la donna in quanto tale ieri era mobile e oggi è maverick.
La vecchia guerra contro la sinistra dominatrice riprende, e permette a McCain di fingersi nuovo pur continuando Bush. Ma è guerra assai temibile, ricorda Lakoff su Huffington Post: i repubblicani la maneggiano perfettamente da quando Nixon, nel ’69, convocò la maggioranza silenziosa contro il Sessantotto. È guerra che seduce giornali e intellettuali; che ha fatto vincere Reagan e Bush jr. Viene rispolverata ogni volta che i repubblicani, pur di non evocare quel che hanno fatto, si gettano su valori che dividono la sinistra e la intimidiscono sino a incastrarla (famiglia, aborto). Anche l’uso delle donne serve a tale scopo. Se attacchi Sarah Palin sarai accusato di sessismo ed è massima ingiuria. Forse la candidata inciamperà; son numerose le sue azioni passate non pulite. Ma finché resta un totem è vincente, e inattaccabile.
Un osservatore spassionato che volesse descrivere quanto sta accadendo nella sinistra italiana in tutte le sue varie espressioni, da quella riformista a quella massimalista, dovrebbe servirsi della parola “implosione”. La sinistra sta implodendo, i suoi punti di riferimento non sprigionano più l’energia sufficiente a delineare una direzione di marcia, i fari non emettono più segnali di luce capaci di illuminare i lineamenti della costa e gli scogli che la cospargono.
Implosione ed entropia: dopo lo sforzo compiuto nella campagna elettorale e la sconfitta subita l’energia si è dispersa e degradata. Il secondo principio della termodinamica descrive questo processo che si applica non solo in natura ma in ogni entità organizzata e questo è anche il caso dell’opposizione politica e di quella sindacale. Le forze centrifughe prevalgono su quelle centripete. Il risultato è la frammentazione della sinistra e, al limite, la sua polverizzazione.
Il fenomeno potrebbe ancora essere arrestato? Difficile dirlo, ma certo il punto di non ritorno, la soglia oltre la quale il processo diventa irreversibile è molto vicino e questo si avverte con particolare intensità nel Partito democratico che essendo la forza più rilevante dell’opposizione è quella dove i fenomeni di decomposizione sono più visibili e suscitano i massimi contraccolpi.
Il presidente della Regione Lazio, che vuole entrare come azionista nella nuova Alitalia contro il parere del suo partito, ha detto l’altro ieri che il centralismo democratico è finito. L’ha detto con un senso di liberazione.
È vero, il centralismo democratico del vecchio Pci è finito da tempo e comunque i rappresentanti di istituzioni rispondono ai loro elettori prima ancora che agli organi del partito al quale appartengono.
La rivendicazione di questa autonomia istituzionale è un bene che non va sottovalutato, ma tra l’autonomia e il “liberi tutti” c’è una differenza di fondo quantitativa e qualitativa che non può essere ignorata. Diversamente il “liberi tutti” si trasforma rapidamente in un “tutti a casa” che è esattamente ciò che sta accadendo nel Partito democratico, in Rifondazione comunista e in tutto quel vasto elettorato che rappresenta il 40 per cento di elettori e che sta perdendo il senso dell’appartenenza nel momento stesso in cui perde di vista le finalità dell’azione politica e degli strumenti necessari per realizzarne gli obiettivi concreti.
Ho fatto altre volte il confronto con un fiume che rompe gli argini e si sparge nelle campagne circostanti. Quando questo fenomeno avviene le ipotesi su quanto accadrà subito dopo sono tre. La prima è che l’acqua del fiume rientri nel suo letto naturale e riprenda a scorrere come prima; la seconda è che si scavi un nuovo alveo e scorra con la stessa pendenza tra nuovi argini; infine la terza è che diventi palude, acquitrino infestato da miasmi e zanzare, luogo di caccia alle anatre che, ignare e indifese, starnazzano in cielo.
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Il governo, la sua maggioranza e gran parte dei “media” cercano dal canto loro di accentuare questo processo di disfacimento dell’opposizione. In vari modi.
Uno di essi, il più frequentato, si svolge intorno alla parola “dialogo”. S’invoca il dialogo, si vuole il dialogo e se ne tesse la tela attraverso il dialogo con pezzi dell’opposizione o addirittura con singoli personaggi. «La sventurata rispose» scrive il Manzoni quando la Monaca di Monza parla con il suo amante e acconsente al rapimento di Lucia. Credo che nella maggioranza dei casi i personaggi che hanno accettato di dialogare siano in perfetta buona fede e non abbiano in animo di far rapire alcuna Lucia, ma non toglie che la polverizzazione d’un partito di opposizione passa anche attraverso pratiche che si prestano ad essere scambiate per trasformismo, quale che siano le intenzioni degli interessati, suscitando fenomeni analoghi e non sempre altrettanto innocenti.
Il vero punto in discussione sta proprio nella parola dialogo. A volte il lessico è lo strumento diabolico che Mefistofele usa con i vari Faust che cadono nelle sue grinfie. Si dovrebbe usare – come fa il presidente Napolitano quando tocca quest’argomento – la parola confronto. Walter Veltroni l’ha detto molte volte: il confronto tra forze politiche in un sistema di democrazia parlamentare avviene in Parlamento e alla luce del sole.
A quel confronto nessuno si può sottrarre a meno di non modificare la Costituzione. E il Partito democratico non si è sottratto, ottenendo in alcuni casi qualche successo. Per esempio nel caso dell’emendamento “blocca processi” che fu tolto dal decreto legge sulla sicurezza, auspice anche la presidenza della Repubblica che fece pesare con forza la sua opinione in proposito. E per esempio nel caso dei “rom” e del “censimento” dei loro bimbi, più volte annunciato dal ministro Maroni a beneficio dei suo elettori leghisti ma poi abbandonato anche per le pressioni della Commissione di Bruxelles e del Consiglio d’Europa.
Il confronto parlamentare avviene tra forze politiche e non tra singoli personaggi e questa è la sostanza della democrazia parlamentare. Certo un partito non vive soltanto in Parlamento: vive, dovrebbe vivere, nel Paese, sul territorio, elaborando programmi specifici e concreti all’interno di una visione complessiva del bene comune e delle regole che ne scandiscono il funzionamento.
Questa presenza politica e questa elaborazione culturale sono gli aspetti manchevoli che abbiamo segnalato; a causa di questa assenza o presenza troppo debole i fenomeni di implosione, frammentazione, dialogo di singoli con lo schieramento avversario, si moltiplicano con diffuso gaudio del governo, della maggioranza e dei “media” consenzienti e addirittura dediti al picconamento dell’opposizione.
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Ho accennato all’intenzione del presidente della Regione Lazio di entrare come azionista nella compagine societaria della nuova Alitalia (Cai). Se il suo desiderio fosse accettato dagli azionisti della Cai la privatizzazione di Alitalia subirebbe uno strappo a favore di un ente locale interessato a “tutelare” le sorti dell’aeroporto di Fiumicino. Lo stesso Marrazzo ha auspicato un analogo ingresso del presidente lombardo Formigoni a tutela degli interessi dell’aeroporto di Malpensa.
C’è qualche cosa di storto in questo modo di ragionare. Se gli enti locali sul cui territorio operano aeroporti importanti dovessero far parte della Compagnia di volo dovrebbero entrarvi anche Napoli, Palermo, Bari, Venezia, Bologna ed altri ancora. L’assemblea della società diventerebbe una stanza di compensazione di interessi contrapposti con tanti saluti alle regole del mercato.
Ma una stanza di compensazione tra interessi forti la nuova Alitalia lo è già. Non a caso il senatore Luigi Zanda ha scritto una lettera pubblica e formale al presidente dell’Antitrust segnalando i macroscopici conflitti di interessi di alcuni azionisti della Cai, in particolare i Benetton, i Riva, gli Aponte e parecchi altri. Sarà interessante vedere come si comporterà l’Antitrust su una questione così delicata.
Quale dovrebbe essere la funzione del Partito democratico, posto che il trasporto aereo è un tema di rilievo nazionale sul quale una forza politica ha pieno titolo di esprimersi?
Credo che il Pd – come ogni altro partito – debba dire la sua sulla privatizzazione della Compagnia, sui molteplici conflitti di interesse presenti nella nuova società, sul piano industriale, sugli oneri che esso comporta per la finanza pubblica. Il problema degli esuberi è una derivata del piano industriale, come correttamente sostiene la Cgil.
È pacifico per tutti che in tempi di globalizzazione non esiste la possibilità di una società di trasporto aereo che non sia inserita in un “network” internazionale, a meno che non si tratti d’un vettore esclusivamente locale, con una piccola flotta di aerei e pochi dipendenti. Ma questo non è il caso dell’Alitalia.
I network interessati a livello europeo sono tre: Air France-Klm, British, Lufthansa. I tedeschi vedono in Alitalia uno strumento per aprirsi la strada verso l’Africa e l’Asia. I francesi e gli inglesi questa apertura ce l’hanno già e vedono in Alitalia un contenitore di passeggeri. Trenta milioni di passeggeri che negli anni saranno destinati a raddoppiare se inseriti in un quadro di ben altre dimensioni.
Quanto ai nuovi azionisti della Cai, realisticamente essi sanno che gli utili della Compagnia saranno assai magri nei primi cinque anni; non è quindi per la profittabilità dell’impresa che essi hanno deciso di impegnarvisi. Tantomeno per sentimenti patriottici, lodevoli ma estranei ad un piano industriale.
I soci della Cai, tutti ad eccezione di Colaninno, hanno interessi extra-Alitalia da promuovere e tutelare e questa è già una buona ragione per metter nel piatto un “cip” e sedersi a quel tavolo. Ma ce n’è un’altra di ragione: far nascere una nuova Alitalia, ripulita da tutte le croste accumulatesi durante gli anni. La ripulitura non costerà nulla alla Cai, la fa Fantozzi a spese dello Stato.
Una volta compiuta la ripulitura, Alitalia possiederà una flotta di media importanza, una serie di diritti di volo soprattutto sul territorio nazionale e un pacco-passeggeri di trenta milioni di unità destinate ad aumentare fino al raddoppio. Il conto economico, l’abbiamo detto, darà risultati magri, ma il valore patrimoniale di una società ripulita a dovere sarà notevolmente più elevato: dopo il 2011 la Cai potrà valere a dir poco un quarto in più rispetto al patrimonio di partenza. A quel punto gran parte degli attuali azionisti, che non hanno alcun interesse per il trasporto aereo, usciranno dall’affare realizzando cospicue plusvalenze. A spese dello Stato e dei contribuenti.
Questo è l’affare Alitalia, questa è la logica del mercato e questa sarà la soluzione finale della compagnia aerea italiana. Colaninno, che buon per lui non ha conflitti d’interesse in questa vicenda, probabilmente resterà a guidare la sezione italiana del “network” internazionale nelle cui capaci braccia si spegnerà la cordata tricolore.
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Ci sono molti altri temi di confronto tra maggioranza ed opposizione: la sicurezza, la giustizia, l’istruzione, la sanità. L’uscita dei partiti dalle Asl e dalla Rai e il riassetto dell’azienda televisiva. Il federalismo fiscale. E naturalmente le riforme costituzionali, legge elettorale compresa.
Il luogo del confronto è il Parlamento dove contano i voti ma conta anche il consenso che i partiti si guadagnano nel Paese con la loro presenza, le loro proposte, i loro programmi, i valori dei quali sono portatori.
Se la crisi della sinistra e in particolare del Pd è l’appannamento della leadership, conviene dunque concentrarsi su questa questione e risolverla. Bisogna contemporaneamente costruire il partito sul territorio, risollevare l’animo e l’impegno degli elettori, dare forza al vertice del partito, utilizzare l’esperienza dei cosiddetti senatori del Pd portando però nella prima linea operativa una generazione di giovani da addestrare e a cui affidare a tempo opportuno la guida.
Nelle aziende e nelle banche di grandi dimensioni questo schema si chiama “duale”, un consiglio di sorveglianza e un consiglio di gestione; nel primo stanno i saggi, nel secondo gli operativi. Forse uno schema del genere non si adatta ad un partito politico ma può comunque essere adatto a suggerire una soluzione adeguata.
C’è pochissimo tempo per riprendere la marcia. L’opposizione scricchiola, la gente si disimpegna, le rivalità interne si incistiscono. Bisogna spezzare questo circuito nefasto.
Credo che la responsabilità di riaccendere le luci d’una casa abbuiata incombano su Veltroni. Del resto è lui il segretario in carica. Decida e operi, chiami a raccolta tutti coloro che in quel partito ci credono ancora e cammini insieme a loro con idee precise e chiaramente enunciate.
Chi vuole dialogare con l’avversario a titolo personale non è un traditore. Può essere un ingenuo. Oppure un vanitoso. Comunque, se vuole farlo lo faccia a proprio rischio senza pretendere di rappresentare un partito perché l’ingenuità e la vanità possono condurre al disastro una forza politica.
Per il lettore giovane. Il “centralismo democratico” è il termine che designa il sistema di decisione-azione che ha caratterizzato il Partito comunista italiano, e altri partiti di matrice leninista. In base a quel sistema la discussione che precede le decisioni è aperta a tutti gli iscritti, nelle varie sedi di quel partito, la decisione è presa a maggioranza e poi, una volta decise le posizioni e le azioni, queste sono rispettate da tutti. La pratica del “centralismo democratico” ha come postulato il carattere elettivo di tutte le istanze decisionali.
L’Europa assolve il governo italiano perché fortunatamente non ha fatto quel che in ripetute dichiarazioni pubbliche il suo ministro degli Interni si era riproposto di fare: la raccolta generalizzata delle impronte digitali di tutti gli abitanti dei campi nomadi, compresi i bambini.
La lettura del rapporto inviato il 1° agosto da Roma a Bruxelles ha dato modo di verificare le modalità del censimento nei campi nomadi e – si badi bene – «di correggere tutte le misure che potevano dare luogo a contestazioni». Limitando «solo a casi estremi» il rilievo dei dati dattiloscopici dei bambini, quando siano «strettamente necessari e come ultima possibilità di identificazione».
L’Italia evita così il disonore di un richiamo comunitario alle più elementari regole di civiltà, e non possiamo che gioirne. Senza dimenticare però l’insistenza con cui Roberto Maroni, fra giugno e luglio, aveva più volte sottolineato la necessità di prendere le impronte dei bambini rom. Quando il suo annuncio sollevò le prime contestazioni, il ministro rincarò la dose: lo facciamo per il loro bene, solo così li sottrarremo allo sfruttamento dei genitori criminali. Infine, dopo un voto del Parlamento europeo e le perplessità manifestate dagli stessi prefetti incaricati di applicare il provvedimento, la raccolta delle impronte è stata derubricata a extrema ratio. Ma silenziosamente, alla chetichella, lasciando che fra i cittadini esasperati continuasse a circolare la certezza di un governo che non si lascia commuovere da quelle manine, viste troppe volte frugare nelle tasche e nelle borse dei malcapitati.
La genericità con cui il censimento e la nomina dei Commissari prefettizi è stata riferita a non meglio precisati “campi nomadi”, ha consentito di aggirare l’accusa di discriminazione su base etnica o religiosa. E nel frattempo gli altri ministri del governo Berlusconi, seguiti dai sindaci più fantasiosi, sono subentrati con una raffica di ulteriori emergenze, tutte da affrontare con la divisa e tutte ispirate al medesimo principio: abbiamo vinto nettamente le elezioni e dunque procediamo al ripristino del principio di autorità. Dopo i rom viene il turno dei clandestini, dei fannulloni, dei cattivi in condotta. E siccome gli annunci di tolleranza zero si nutrono dell’innovazione linguistica, diventa importante anche cambiare il nome alle cose: i Centri di permanenza temporanea diventano Centri di identificazione e espulsione, così come i poveri amministratori locali deprivati dell’Ici potranno consolarsi fregiandosi di una simbolica stella da sceriffo.
Era prevedibile che l’opinione pubblica manifestasse forte sintonia – finalmente! – con l’annuncio della fine del lassismo. Pur senza illusioni sul ripristino della sicurezza pubblica: intanto accontentiamoci che le autorità politiche indichino per nome e cognome le categorie colpevoli, ponendo fine all’indulgenza. A cosa serve lo Stato se non, innanzitutto, a sorvegliare e punire? L’integrazione, il recupero, l’assistenza, sono lussi che possono permettersi solo i privilegiati. Le culture solidariste sono ferrivecchi destinati alla discarica, insieme alla sinistra.
Per questo il presidente della Camera viene trattato come un guastafeste quando conferma il suo orientamento favorevole a riconoscere il diritto di voto amministrativo agli immigrati residenti da un congruo numero di anni sul territorio nazionale. I suoi stessi compagni di partito hanno liquidato con malcelato fastidio come “opinione personale” la sua apertura alla proposta di Walter Veltroni. Ma come? Proprio ora che otteniamo il via libera pure dalla Commissione europea, tu vieni a romperci con i diritti degli immigrati (vincolati ai doveri, ça va sans dire)? Prima ancora di Berlusconi e Maroni è il coordinatore di An, Ignazio La Russa, a precisare che «per noi la priorità resta la lotta all’immigrazione clandestina». Come se fosse plausibile un contrasto efficace dei residenti senza documenti validi che non contempli certezze di diritti riconosciuti: ricongiungimenti familiari, permessi di soggiorno validi anche per chi ha provvisoriamente perduto il lavoro, voce in capitolo sulle scelte amministrative nel luogo in cui si risiede da anni, procedure codificate di accesso alla cittadinanza italiana, luoghi di culto dignitosi e adeguati.
Tutto ciò, e non solo il diritto di voto alle elezioni amministrative, resta fuori da un programma di governo che viceversa ritiene di trarre legittimità da una cultura di sottomissione degli immigrati alla comunità nazionale. Una comunità che non può fare a meno della loro manodopera ma che al tempo stesso si dichiara satura e priva di risorse sufficienti alla loro graduale integrazione.
L’Italia cristiana che ritiene di avere già fatto troppo nel campo dell’accoglienza, incapace di commuoversi davanti agli annegati e infastidita da chi nomade non lo è certo per vocazione, trova nei suoi governanti – tornati detentori dell’autorità – gli inconsapevoli fautori di un pensiero antico. Basta leggere La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, del compianto Bronislaw Geremek (Laterza), per notare il recupero in atto di certe dottrine medievali: distinguere i “poveri vergognosi”, caduti in disgrazia nell’ambito della nostra comunità e dunque meritevoli di pubblica compassione, dai forestieri vagabondi e parassiti, indegni di ricovero e elemosina, tanto meno di diritti.
Rischiamo una regressione culturale da cui non ci salverà la benevolenza dell’Ue. Perché l’ingiustizia nei confronti dei più deboli prima o poi genera conflitti, e allora le aspettative suscitate da un governo miope moltiplicheranno il rancore sociale.
Vedi anche gli articoli di Eugenio Scalfari, Giuseppe De Rita, Luciano Gallino e Nadia Urbinati , Furio Colombo, Ilvo Diamanti e Massimo L. Salvadori
Ha inizio questa sera a Torino la nuova edizione di Sbilanciamoci , la sesta. Negli anni scorsi, e sempre all'inizio di settembre, le riunioni si sono svolte a Napoli-Bagnoli, Parma, Roma-Corviale, Bari, Venezia-Marghera. Un giro d'Italia che nella sua follia aveva un certo metodo. Il metodo, nel girovagare di Sbilanciamoci , è quello di piantare le tende del movimento in un punto particolarmente caldo della discussione pubblica, come la Parma di Parmalat o la Marghera del Nordest dei misteri. E di chiamare a discutere di fronte a una platea, troppo spesso emarginata - un voto ogni due o tre anni e basta - un gruppo di tecnici, (urbanisti, sociologi, economisti, politici, medici, ingegneri, sindacalisti, ecc. ecc.) non necessariamente rossi, ma certamente esperti.
Se ne è accorta per esempio Rosi Bindi che l'anno scorso a Marghera , da ministro del governo Prodi, ha esordito così: «Sono onorata di essere qui, a Cernobbio non mi hanno mai invitato!... La fatica più grande è accettare il confronto con un'idea alternativa di economia, di sviluppo, di benessere. Ma rimettere in discussione i modelli acquisiti, e che hanno mostrato crepe, non dovrebbe esssere il senso profondo della politica, anche quando si costituisce un partito nuovo?» Già, il partito nuovo. Bindi lotta per la leadership di uno di essi e indica quel che dovrebbe essere il senso profondo della politica, il programma del suo partito. Ma sarà sconfitta. Bindi osserva serenamente che a Cernobbio non l'hanno mai invitata e coglie subito il punto.
Cernobbio , la sede dello studio Ambrosetti che invita pensatori, politici e polemisti di moda a esibirsi di fronte alla crema del paese è stato per sei anni il riferimento di Sbilanciamoci , il suo alter ego: tutto quello che è ingiusto, escludente, privato è raccolto lì. Mentre a Cernobbio «vengono presentate le ricette più tradizionali dell'ideologia neoliberista (privatizzazioni, riduzione del welfare, precarizzazione del lavoro, supremazia del mercato, allentamento dei vincoli ambientali) nei Forum di "Sbilanciamoci" si vogliono far emergere vie ed esperienze diverse e alternative di sviluppo economico basato sulla protezione e sul rilancio del welfare, le regole e i diritti del lavoro, il positivo ruolo delle istituzioni e della spesa pubblica, la sostenibilità ambientale, la responsabilità sociale delle imprese e una fiscalità solidale che colpisca rendite e privilegi».
Questo si pensava a Bari, nel 2006. Sembra un mondo scomparso da un secolo quello di Bari, ma sono trascorsi solo due anni. La riunione del Forum era allora all'Università. Di fronte a un pubblico di centinaia di persone, il presidente della giunta regionale era al suo meglio. Riuscì a spiegare l'importanza della politica, la necessità di discutere, di convincere. Non offriva l'impossibile al suo uditorio incantato, chiedeva di fare, insieme, le poche cose possibili e importanti. A Torino, il Forum si troverà di fronte a qualche difficoltà ulteriore. Quello che vi sarà discusso non sembra interessare troppo gli esponernti politici locali: non almeno al punto di interloquire, di discutere insieme, suggerire soluzioni possibili, ascoltare le proposte di altri non allineati.
Una discussione pubblica, proprio come diceva Bindi, è fondativa per un partito, è essenziale per costruire una società di uguali. Rinunciarvi, alzare steccati, avere paura del confronto di idee, ha la conseguenza di sapere di meno, di conoscere meno i fatti, nella loro complessità. E' un errore dividere tra chi conta e gli altri, tra chi ha e chi è sempre escluso. Ai Forum di Sbilanciamoci hanno sempre parlato tutti e tutti hanno potuto ascoltare ed esprimersi: questa è la differenza fondamentale rispetto ai Cernobbio , dove parla solo qualcuno ben selezionato che la pensa all'unisono con il pensiero dominante, dove chi è ammesso ad ascoltare lo è perché si può permettere di pagare l'ingresso. Una selezione dell'informazione per censo. e per conoscenze.
Quest'anno, anche Sbilanciamoci, nonostante il nome deve badare al bilancio tutt'altro che illimitato. Per questo non è stato possibile invitare studiosi di altri paesi, che in anni diversi sono stati capaci di proporre la propria esperienza al pubblico e confrontarla con studiosi locali e con le autorità cittadine. E' un peccato, perché Susan George, o Vandana Shiva, o Aruna Roy avrebbero suggerito ai partecipanti di Torino una riflessione importante. E in tempi di scarsità, qualche idea in più fa comodo a tutti, arricchisce, ma nel senso giusto. Il sito sbilanciamoci.info che sarà presentato a Torino vuole appunto offrire qualche idea in più, non solo tirandola fuori da un vecchio cilindro, ma cercandola anche da molte provenienze e diverse, senza cautele o sospetti. ma ben diverso sarebbe sentire direttamente e discutere con compagni e compagne che spesso ci aiutano a capire.
Non è poi che le idee manchino del tutto, almeno sul piano del nostro paese. Sbilanciamoci ne propone cento, ma è un numero omerico, nel senso di esagerato. «Una politica nuova per un'economia diversa - 100 proposte per un Italia capace di futuro».
Su questa riflessione dei cento punti si svolgerà il Forum di Torino. «Con i primi atti e provvedimenti di politica economica del governo Berlusconi e del ministro dell'economia Tremonti torna una vecchia politica economica che - con la scusa dei tagli alla spesa pubblica - colpisce enti locali, welfare ambiente ed è gravemente carente di un'idea nuova di un modello di sviluppo che noi vogliamo fondato sull'equità sociale, la sostenibilità ambientale, la pace e la solidarietà internazionale». E rincara la dose: «La manovra finanziaria del governo è contro la società, l'ambiente e i diritti. I pesanti tagli previsti nei prossimi tre anni a sanità, scuola, enti locali, previdenza, ambiente superano i 30 miliardi di euro. Salari e redditi per i lavoratori dipendenti ( a causa di un'inflazione programmata all'1,7% a fronte di una reale al 3,6% e alla mancata restituzione del fiscal drag) subiranno una drastica riduzione: per loro non caleranno le tasse mentre continuerà a sopravvivere il trattamento fiscale per rentiers e classi alte di reddito...»
Nessuno avrebbe scommesso, io per prima, su una larga partecipazione al dibattito di Sinistra Democratica in festa” di Torino dal titolo “Una città a misura di chi?”, sia per l’argomento che per la data, lunedì 1 settembre, giornata che per molti ha segnato la fine delle vacanze estive. Invece, abbiamo dovuto ricrederci, e registrare il segnale che esiste il desiderio di discutere di politiche urbanistiche, spesso anche con un po’ di rabbia da parte di chi non condivide le scelte intraprese.
Per animare l’incontro, abbiamo chiamato ad un confronto con gli assessori alla viabilità e trasporti, Maria Grazia Sestero, e all'urbanistica, Mario Viano, Paolo Berdini, docente di Urbanistica presso l'Università di Tor Vergata a Roma, ed autore de "La città in vendita. Centri storici e mercato senza regole." (Donzelli Editore).
In questo saggio vengono raccontati quindici anni di scelte urbanistiche a Roma, ampiamente documentate nella trasmissione Report di qualche mese fa, e alla base, secondo alcuni, della sconfitta del centrosinistra alle ultime amministrative comunali.
"A Roma l'urbanistica è stata abbandonata: la 'valorizzazione' dell'Ara Pacis all'Augusteo e il parcheggio del Pincio sono solo gli aspetti più eclatanti dell'abbandono di una visione unitaria dei processi di trasformazione urbana. Di un'idea di città e del suo nucleo storico."
Lo stesso Ilvo Diamanti, in un recente articolo su Repubblica, “Italia, condominio degli estranei”, denuncia una deriva generalizzata: “Altri quartieri e altri villaggi nuovi. Sorgono senza seri progetti di integrazione, socializzazione. Senza politiche finalizzate a costruire relazioni sociali, oltre agli immobili. Né ad alimentare la vita pubblica, oltre alla rendita privata.”
Non è un caso che Paolo Berdini citi nel suo libro la zona di Ponte Galeria, teatro della recente aggressione dei due turisti olandesi e descritta dal sindaco Alemanno come “luogo abbandonato dagli uomini e da Dio”, come “il più impressionante esempio dell’abbandono del metodo del governo urbano, avvenuto in questi anni lungo la direttrice che collega la capitale con l’aeroporto di Fiumicino”. Nello stesso luogo, era avvenuto un incidente che aveva visto cinque persone travolte da un veicolo data l’assenza del marciapiede. La domanda che sorge spontanea è perché il Comune abbia permesso un guadagno di 800 milioni di euro ad un privato, proprietario delle aree, senza prevedere dei servizi di base per i cittadini. Sono questi i risultati dell’urbanistica contrattata?
L’assessore Viano ha difeso la valorizzazione immobiliare portata avanti dai Comuni, in quanto è ormai diventata una delle leve principali della finanza locale, data la progressiva riduzione di fondi per investimenti dallo Stato. Per contro, il fenomeno che vede diverse migliaia di persone espulse dalle città ha avuto a suo avviso caratteristiche diverse a Torino rispetto a Roma. La rigidità del mercato immobiliare torinese ha determinato questo fenomeno, non l’aumento dei costi immobiliari come nella capitale romana. Il risultato è però identico: calo demografico nelle città, pendolarismo e inquinamento atmosferico. Di infrastrutture ha parlato l’assessora Sestero, concentrandosi però soprattutto sul significato attuale di partecipazione alle trasformazioni urbane, poiché oggi scontiamo la mancanza della mediazione portata avanti nei decenni scorsi dai partiti.
Motivo di confronto, anche acceso, fra i relatori e i diversi interventi da parte del pubblico (non è stato facile fare la moderatrice!) è stata la differente valutazione della qualità di vita attuale a Torino, se rapportata a quella precedente al Piano Regolatore del ‘95. Tutti sono stati però d’accordo sull’esigenza di elaborare un bilancio dell’attuazione di questo piano e di tutte le varianti successivamente approvate, prima di progettare le prossime trasformazioni urbanistiche, che non possono avere come unico riferimento la cosiddetta “urbanistica contrattata”.
E’ necessario dunque che la Sinistra si riappropri del tema delle città, elaborando un’idea di città nel suo complesso, come insieme di progetti ur
Provo a raccontare in forma di parabola la storia di un grande Paese che abita una penisola troppo lunga. Così la definirono gli arabi, l’Italia, quando tentarono invano di impossessarsene. Un Paese la cui storia fu spezzata in due. Anzi, in tre. Nell’antichità c’erano a Nord i Celti. A Sud i Greci. Al Centro gli Etruschi. I romani lo unificarono per la prima volta, ma immergendolo in un grande impero. Poi l’impero si sfasciò e quel paese tornò a spezzarsi. In due. Anzi, in tre. A Sud, sempre i Greci. A Nord i Longobardi. Al Centro, la Chiesa. Per quattro o cinque secoli, il Nord fu politicamente unito sotto il segno dell’impero: dai longobardi, e poi dai franchi e poi dai tedeschi. A Sud invece si frammentò subito tra colonie greche, ducati longobardi e repubbliche autonome, continuamente percorso da eserciti imperiali e da orde saracene.
Poi, all’inizio del secondo millennio, la scena si rovesciò. Il Sud (con la Sicilia) fu conquistato dai normanni e ricomposto in un solo potente Regno. Il Nord cominciò a decomporsi politicamente in liberi Comuni e Repubbliche. Continuarono dunque, Nord e Sud, a procedere per strade opposte. Ci fu un momento, quando gli svevi, e il loro imperatore, Federico II, subentrarono ai normanni, in cui la potenza del Sud avrebbe potuto congiungersi con la ricchezza del Nord. Solo il grande Federico poteva farlo. Ma a tutto pensava meno che ad allearsi con loro. E loro con lui. Si combatterono, anzi, ferocemente.
Così, dopo Federico, il grande Regno di Sicilia si ridusse progressivamente al reame di Napoli. Le repubbliche del Nord fiorirono, ma fermandosi politicamente a livello di potenze regionali. Così l’Italia cadde sotto il dominio straniero. E per quasi tre secoli subì l’onta e l’impronta della servitù. Ma ancora una volta, diverso fu il destino del Nord da quello del Sud. Nel Nord l’eredità politica dei Comuni consentì la formazione di una borghesia colta, civicamente educata, che tuttavia non fu mai capace di guidare, tutt’al più solo di assecondare un vasto movimento di liberazione. Nel Sud, tra la prepotenza dei baroni e la disperazione dei contadini non si formò mai una vera borghesia, ma quella caricatura di borghesia che si chiama mafia. Maturava dunque al Nord una borghesia politicamente irresponsabile, al Sud una pseudo-borghesia economicamente parassitaria. Quando finalmente venne il momento dell’unità, ambedue lasciarono le strutture dello Stato nelle mani di una burocrazia cui il Sud forniva i quadri e la monarchia sabauda l’impronta autoritaria.
Ma allora, è giusto domandarsi, come, da chi e perché si compie, malgrado tutto, nei tempi moderni, l’unità d’Italia? La risposta è stata data tante volte. Essa è frutto dell’azione di minoranze. Come sempre, si potrebbe dire. Sì, ma nel caso dell’Italia, di minoranze particolarmente minoritarie, nel senso che non rappresentano culturalmente le correnti pesanti di questo Paese: non ne sono il "campione". Certo, esse non sorgono dal vuoto. La civiltà italiana, la nazione italiana, benché priva di Stato, è una realtà storica. Lo è la lingua. La letteratura. L’arte. La musica. Ma è la spuma di una cultura, non il fondo. Questa si esprime nei grandi episodi della vita politica italiana moderna: il risorgimento, il fascismo, la repubblica. Quello resta torpido, servile, ribelle.
Il Risorgimento è un’antologia di slanci generosi. Forse il meno noto e il più emblematico è quella rivoluzione napoletana del 1799 che rivelò la tragica frattura tra l’idealismo patriottico dei giacobini e la ripulsa reazionaria dei lazzaroni mobilitati dai preti. Spento il genio di Cavour, contestato l’eroismo di Garibaldi, il risorgimento decade consumandosi nella grigia mediocrità della monarchia sabauda. Incapace di realizzare l’unità del Sud e del Nord quella monarchia la sforza con la violenza in una brutale repressione delle plebi meridionali. Il fascismo non è all’origine un movimento reazionario. Anch’esso espressione di minoranze intellettuali, è una rivoluzione piccolo borghese intrisa di violenza di classe e satura di letteratura retorica. Esso trascina una borghesia pavida e un proletariato sconfitto all’avventura e alla catastrofe.
La Repubblica. Nata dal riscatto vitale della Resistenza, espressione di minoranze intrepide, trae il suo vigore da due grandi forze popolari in conflitto: quella democristiana e quella comunista. Queste hanno il merito, eccezionale nella storia d’Italia, di trascendere i termini di quel conflitto dando al Paese una Costituzione socialmente avanzatissima, e di respingere i conati separatisti. La Democrazia cristiana riesce a tenere a bada le pretese clericali e a controllare il qualunquismo eversivo delle maggioranze silenziose. Il partito comunista, a frenare gli impulsi insurrezionali deviando la sua grande forza verso un disegno storico di alleanza con il mondo cattolico. A questo disegno ideologico esso sacrifica però le concrete possibilità aperte al riformismo liberale e solcialdemocratico che si afferma negli altri Paesi d’Europa.
Preservata l’unità politica del Paese, la repubblica dei partiti si rivela incapace di rifondarla su una vera unità nazionale, affrontando e risolvendo il vero nodo che impedisce la formazione di uno Stato moderno: la questione meridionale, ovvero l’impasse di una penisola troppo lunga. Questo è il vero fallimento della Repubblica. La grande insurrezione che segue, contro la corruzione politica, inizialmente motivata da un autentico sdegno civile, ha aperto le porte ad una gigantesca jacquerie. Quel terremoto ha travolto i partiti, strutture portanti della Repubblica, senza rigenerare il paesaggio politico. Ha scatenato invece una possente rebelion de las masas scatenata contro i partiti, contro lo Stato, contro la politica. L’essenza di questa deriva è il privatismo, la riduzione di ogni aspirazione a interesse privato, l’insensibilità per valori politici che lo trascendono, l’insofferenza di ogni regola che si imponga alle pretese del "particulare". Il privatismo è l’essenza del populismo. Le formazioni collettive cui da luogo non sono strutture; sono mucchi di granelli di sabbia esposti al vento di correnti emotive, di suggestioni demagogiche e mediatiche. Emerge una società informe, senza identità. Una società in senso proprio privata: di sé stessa.
Mai come oggi l’Italia è apparsa così fragile. E la sua unità così in pericolo. I pericoli di secessione non sono svaniti. Dopo il Nord la febbre leghista può investire il Sud promuovendo progetti separatisti come quelli che la Mafia elaborò nel pieno della tremenda crisi del 1992, quando si tramava la fondazione di uno Stato del Sud, una sorta di Singapore mediterranea, ultramercatistica e autoritaria. Porto franco, capitale di tutti i capitali del mondo. Il pericolo non è un nuovo fascismo. È la decomposizione nazionale e sociale. Mazzini aveva detto: l’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà. Questa profezia rischia di avverarsi al suo livello più basso.
Compito storico della Sinistra avrebbe potuto essere quello di ricomporre l’unità nazionale in un progetto di società che affronti i grandi problemi dello sviluppo economico, dell’equilibrio ambientale e del benessere sociale. E di fondare su questo il grande disegno federativo unitario indicato da Carlo Cattaneo, non lo pseudo federalismo separatista implicito nei progetti leghisti. Ma la Sinistra italiana è priva di un progetto. Essa è dilaniata tra due tendenze: alla contestazione e alla mimesi della destra, ambedue subalterne. Il sociologo Durkheim avrebbe detto che il suo linguaggio non è quello della conversazione, ma quello del pettegolezzo. Un progetto non può desumersi dal chiacchiericcio dell’attualità, ma solo dalla consapevolezza della storia di questo Paese: grande ma troppo lungo. Un progetto che permetta finalmente di accorciarlo un po’. Non sto proponendo un corso di storia. Se mai, di geografia.
Non vorremmo che l’insistere di Ruffolo sulla eccessiva lunghezza della Penisola venisse inteso come un invito ad accorciare la distanza fisica realizzando nuove vie di comunicazione.
Le cose del calcio hanno un gran pregio: smascherano l´ipocrisia nazionale, ci rivelano quanto "politica" e ideologica sia la strategia della "tolleranza zero" che governi di ogni colore hanno proposto nel tempo. Nella prima giornata del campionato di calcio, la "tolleranza zero" è diventata massima tolleranza. Non avviene per una sventura o per un´avventura.
I fatti sono noti. Un paio di migliaia di tifosi organizzati del Napoli hanno invaso la stazione ferroviaria di piazza Garibaldi; assalito un treno; costretto i viaggiatori ad allontanarsi e preteso che il convoglio raggiungesse Roma, dove i prepotenti – molti con il passamontagna a coprire il volto – sono stati accolti da trenta bus che li hanno accompagnati – gratis – all´Olimpico dove sono entrati senza alcun controllo dal cancello principale, molti senza biglietto, alcuni con sacchi di bombe carta.
Il viaggio ha provocato danni alle cose (vagoni, bus) per quasi 600 mila euro. Oggi tutti a chiedersi come sia potuto accadere quel che, con un eufemismo, il sottosegretario agli Interni Mantovano definisce «una catena di anomalie».
A porre la domanda in giro è la solita solfa italiana che riduce il fare al dire. Le Ferrovie dicono di aver fatto sapere che, nel giorno del rientro dalle vacanze per migliaia di italiani, non c´era possibilità di formare treni speciali. Il Calcio Napoli si difende ricordando di aver avvertito i tifosi delle difficoltà delle Ferrovie. Il questore di Napoli, poverino, arriva a sostenere che quando è partito il treno era tutto a posto, tutto tranquillo, gli adrenalinici viaggiatori avevano – tutti – il biglietto delle ferrovie, dello stadio e nessuno – nessuno – era armato. Nemmeno chessò una «lama» o un petardo. A sua volta, la questura di Roma spiega che, una volta che la banda di animals (1500/2000) è giunta nella Capitale, l´opzione più illuminata prevede di condurli nel recinto dello stadio per «ridurre il danno»: «Perdi la faccia, è vero, ma eviti che se ne vadano a distruggere il centro della città, che sarebbe molto peggio».
Come sempre dopo queste «catastrofi dello Stato», suonano alte le grida di sdegno. Il giorno dopo, sono a basso prezzo e nessuno si tira indietro. E poi nascono per durare poco o niente. Più o meno un anno fa, eravamo nella stessa situazione, ricordate? A febbraio era stato ucciso l´ispettore di polizia Filippo Raciti, il "decreto Amato" aveva incarognito i provvedimenti del predecessore Pisanu: possibilità di arresto in flagranza differita anche dopo 48 ore dai fatti; divieto di vendita cumulativa dei biglietti; biglietto nominativo; divieto di esporre striscioni che incitano alla violenza; nuovi reati (invasione di campo, fino a 4 anni); pene aggravate per le lesioni gravi o gravissime a pubblico ufficiale se «in occasione di manifestazioni sportive» (fino a 10 e 16 anni). Il periodo di relativa quiete che ne segue lascia sbocciare un´ottimistica attesa che presto va delusa. Novembre 2007. Un poliziotto ammazza nell´area di servizio di Badia al Pino, Arezzo, Gabriele "Gabbo" Sandri, poco dopo una rissa tra laziali e juventini. L´omicidio scatena una guerriglia in mezz´Italia (gli ultras chiedono la sospensione delle partite), a Roma vengono assaltate la sede del Coni e un paio di caserme. Anche allora, appena dieci mesi fa, si ode un solo grido: basta, tolleranza zero! Divieto delle trasferte di massa delle tifoserie violente. Sospensione delle partite in caso di incidenti anche lontano dallo stadio e lungo le vie di trasporto.
Sono le soluzioni che, anche in queste ore, tornano ad affacciarsi. E ieri come oggi, saranno inutili perché il problema non sono le leggi (che ci sono, e severissime), ma la loro applicazione che è leggera, distratta, occasionale. Perché? Perché a una donna islamica con il velo sarà vietato di entrare in un museo, ma un paio di centinaia di animals potranno attraversare la capitale con il passamontagna sul volto. Che cosa giustifica la "tolleranza zero" per quella donna e la "massima tolleranza" per gli animals del calcio?
Una spiegazione, al di là del luogo comune della politica e dell´ipocrisia del mondo del calcio, ci deve essere e voglio azzardarne una. Puoi permetterti la tolleranza zero con chi è stato spogliato dei suoi diritti, privato di ogni statuto politico e di ogni prerogativa fino a ridurlo a non-cittadino, come non-cittadini sono gli immigrati contro cui si esercitano le politiche di tolleranza zero.
I violenti degli stadi che, spesso nelle loro periferie vivono la stessa condizione di denizens degli immigrati, diventati "tifosi" e "massa" recuperano uno status – addirittura una dignità, quasi un diritto di cittadinanza – perché fanno parte dello spettacolo e lo spettacolo, con i tempi che corrono, ha sempre una positività impetuosa, indiscutibile, intoccabile. È lo spettacolo cui partecipano a restituire ai violenti diritti, voce, un linguaggio, uno spazio, un potere, un´illusione, l´impunità. Impunità che non avrebbero se, fuori dello spettacolo, scatenassero la loro collera sociale (nello spettacolo, i gesti dello spettatore «non sono più i suoi, ma di un altro che glieli rappresenta»).
È dunque il potere dispotico dello spettacolo a rendere immuni gli ultras perché è lo spettacolo che li tiene lontani dal conflitto sociale, e un prezzo bisognerà pur pagarlo per quel beneficio. Forse accade addirittura di più. Nei riti di guerra simulata, le tifoserie violente interpretano con la tribalizzazione dell´identità, l´occupazione di uno spazio territoriale, il radicamento delle appartenenze, l´evocazione di simboli e slogan politici e della coppia amico/nemico, una tendenza sociale più che condivisa; una vocazione condotta fino al limite della patologia che non si vuole o può condividere, ma nemmeno smentire al di là di una condanna di circostanza. Che, con il nuovo giorno, si può lasciare cadere da qualche parte per ricominciare ancora una volta daccapo. Non è accaduto questo finora? E non è questo che ancora accadrà?
Il falso mito patriottico secondo cui converrebbe salvaguardare sempre e comunque l’italianità delle nostre compagnie di trasporto, telecomunicazioni, autostrade, televisioni, assicurazioni, miete consensi politici trasversali. Viene assunto come un dogma da cui dipende il consenso popolare, dunque criticabile solo da economisti "apolidi" e irresponsabili.
Nella vicenda Alitalia è tale luogo comune – la difesa dell’italianità – che garantisce a Berlusconi l’aureola di difensore dell’interesse nazionale. Guai a chi si oppone. Ma se si dà per scontato che la sopravvivenza della compagnia di bandiera rappresenti una priorità vitale della nostra economia, ne consegue che le alterazioni delle regole di mercato e gli esborsi di denaro pubblico siano tollerabili come male minore, necessario al perseguimento di una non meglio precisata "strategia-Paese". In fondo anche stavolta pagheremo senza accorgercene…
L’argomento vincente è che tutti i grandi paesi hanno una compagnia di bandiera (falso) e dunque per non venir colonizzati dobbiamo avercela pure noi (perché?). Se si prova a chiedere una motivazione meno generica, la risposta è che siamo una nazione a forte vocazione turistica. Come se dipendesse da Alitalia il calo delle presenze straniere nel Bel Paese. O ancora si sostiene che l’industria del Nord necessita di collegamenti migliori. Vero, ma il piano Fenice non può certo garantirli, e perciò mira a concentrare i suoi profitti sulle tratte locali.
L’accordo con Air France tentato dal governo Prodi fu bocciato come svendita del patrimonio nazionale. Il fallimento di Alitalia viene respinto all’unanimità come ipotesi catastrofica. Ma si può star certi che se a varare un piano come quello di Intesa Sanpaolo fosse stato il governo Prodi, la destra lo avrebbe bollato di comunismo. Sospensione della libera concorrenza, favoritismo degli imprenditori "amici", dirigismo, aggravio di spesa pubblica…
Che confusione, povera sinistra riformista: ha faticato tanto per assimilare le regole dell’economia di mercato, e ora subisce l’accusa di essere antiquata da parte di chi? Di un ministro come Tremonti che a Rimini ha rivendicato con disinvoltura il motto: "Dio, patria, famiglia". Dopo anni di predicazione "meno tasse, meno Stato".
Bisogna riconoscere che se la sinistra patisce oggi l’accusa populista di "mercatismo" e sudditanza allo straniero, se i rilievi europeisti di Mario Monti vengono snobbati come prediche inutili, ciò deriva dalla timidezza con cui anch’essa ha venerato il tabù dell’italianità quando era al governo. Il cattivo esempio dello statalismo francese suscita per lo più ammirazione. E perfino l’astuzia dei finanzieri d’oltralpe Bernheim, Bolloré, Ben Ammar, che spergiurano di operare a tutela dell’italianità di Generali e Mediobanca, gode di buona stampa. Patrioti di una patria altrui? Peccato non siano servite di lezione le manovre dei vari Fazio, Consorte, Fiorani, Ricucci che concertavano scalate bancarie anch’essi con la scusa dell’italianità.
Tranne che nel caso della Fiat, è opinabile che gli altri interventi bancari motivati come difesa del "sistema-Paese" abbiano rafforzato le nostre imprese. Né il veto alla fusione italo-spagnola delle autostrade ha comportato vantaggi per i consumatori.
Certo l’Italia non può fare a meno di una politica industriale, e soprattutto in tempi di crisi lo Stato deve fare la sua parte in economia. Una visione meramente liberista sarebbe irresponsabile, ma di qui a illudersi che le crisi aziendali si superano ricorrendo al patriottismo degli imprenditori, ce ne corre. Mentre le nostre imprese più dinamiche si rafforzano grazie a fusioni internazionali o diventando competitive sui mercati esteri, i difensori (trasversali) dell’italianità perseguono la falsa idea che la libera concorrenza sia un lusso che questo Paese non potrebbe permettersi. La loro aspirazione è una deroga perenne alle norme antitrust, da ottenere tramite il collateralismo politico-bancario e il perpetuarsi dell’economia di relazione.
Nel breve periodo a giovarsene sono settori di classe dirigente abituati a realizzare profitti soprattutto nell’ambito di mercati domestici e protetti. Pare faccia scuola il modello Mediaset, cioè il miraggio di un’economia imperniata su campioni nazionali squilibrati, forti in casa e deboli in trasferta. Del resto gli ostacoli posti alla nascita di un terzo polo televisivo italiano non hanno impedito la penetrazione dell’impero di Murdoch. Pensiamo davvero che farebbe bene all’economia italiana replicare la protezione di altri piccoli monopoli tricolori nei diversi settori di concessione pubblica?
Questa è una visione miope del nostro futuro, un tirare a campare che penalizza i consumatori e le imprese più attrezzate a vincere in campo aperto. Ne scaturisce una ricorrente contrapposizione alle regole comunitarie che non solo ci indebolisce a Bruxelles ma rischia di ostacolare il consolidamento di una potenza economica europea.
Il falso patriottismo giova alla popolarità del governo di destra ma non è in grado di impedire che, nel medio periodo, i nostri piccoli campioni nazionali vengano integrati nei colossi globali. Remare contro è una pessima politica: può arricchire i soliti noti ma impoverisce il Paese.
È giusto che Alitalia rimanga italiana. Soltanto una sostanza collosa e maleodorante come il capitalismo italiano può fregiarsi di un simile simbolo, vantarsi di un'operazione altamente schifosa come il cosiddetto «salvataggio» Alitalia. Mettere i debiti, gli esuberi, le vite di 7mila persone, sul groppone degli italiani è tipico di un capitalismo straccione e vigliacco che tende a socializzare le perdite e a privatizzare gli utili. Cosa sarà di quei 7mila disoccupati (che sarebbero stati 2mila con il piano Air France) non è dato sapere. Prima hanno detto che li spedivano alle poste. Poi hanno ventilato un improbabile riassorbimento sul mercato privato, ma non risulta che alcun imprenditore abbia alzato la mano per dire: ehi, io me ne prendo un centinaio! Ora che c'è da far digerire il piano ai media (tanto digeriscono tutto) si dice che i 7mila espulsi saranno garantiti per 7 anni, ma è ovvio che non sarà così, e se sarà così pagherà il famoso debito pubblico. Un altro astuto colpo dei nostri liberisti dei puffi. Hanno dovuto modificare una legge: Silvio chiede e le leggi si riscrivono quasi da sole, una legge ad aziendam. Divertente assai la mappa dei coraggiosi imprenditori che partecipano alla «cordata». Alcuni vivono di concessioni dello stato: al prossimo rincaro delle tariffe autostradali sapremo chi veramente ha pagato la nuova Alitalia (noi). Altri vengono dal mercato immobiliare (alcuni ci sono entrati ieri), certi che il favore reso al sovrano sulla questione Alitalia si tradurrà in sostanziosi appalti (leggi Expo). Il rischio di impresa viene trasferito sui lavoratori, e gli imprenditori ne sono magicamente immuni: verranno ripagati in favori e privilegi. Al sindacato si punta la pistola alla tempia: o si risolve in un mese o salta tutto ed è colpa tua. Ecco perché Alitalia rimane italiana, perché è un coerente frutto del capitalismo italiano. Quanto a etica, Vallanzasca è messo meglio. Sapete come dice la barzelletta: non dite a mia madre che faccio l'imprenditore in Italia, lei mi crede violinista in un bordello.
Il vertice europeo sulla Georgia che Sarkozy ha convocato per domani a Bruxelles sarà importante non tanto per i risultati che produrrà, ma per le riflessioni che potrebbero iniziare intorno a quel che l’Unione vuol essere in un continente ridivenuto instabile e brutale. L’essenza stessa dell’Unione è infatti malferma, non da oggi ma da anni, e questa è forse l’occasione di ridefinirla, di capire le fonti del disaccordo interno, di vedere se dal chiarimento potrà nascere un modo meno dissonante di vedere le cose e agire. È dai primi Anni 90 che una discussione simile viene elusa, ed è il motivo per cui l’Unione continua a subire gli eventi, lasciandosi dividere da Washington o Mosca. La guerra georgiana e il riconoscimento russo di Sud-Ossezia e Abkhazia hanno lacerato la costruzione europea, strategicamente e anche esistenzialmente. È messa in causa la sua filosofia (alcuni la chiamano postmoderna) fondata sul superamento di Stati sovrani assoluti. È messa in causa l’idea di potenza civile, interessata a fondare i rapporti internazionali su leggi e trattati. La potenza europea non è solo economica. È un modello di relazioni tra Stati che non guerreggiano su territori, che tutelano le minoranze senza più usarle per irredentismi. Ed è un modello di uso della memoria: l’Unione scommette su un futuro comune in memoria del passato, non è fatta per punire gli ingiusti di ieri, regolar conti coi vinti e compiacersi delle loro catastrofi.
Proprio quest’Europa è considerata oggi non più servibile, dalle sue periferie orientali. A esse s’associa l’Inghilterra, da sempre ostile a una Comunità post-nazionale. Parlando in nome di molti orientali, il presidente estone Toomas Ilves è stato perentorio, nei giorni scorsi. In un mondo dove tornano in auge potenze ottocentesche, ha detto, non c’è più spazio per le idee di Monnet e Schuman. Perde senso «l’Europa postmoderna che privilegia incontri e discussioni»; che presuppone «un mondo dove tutti sono buoni e gentili» (Le Monde, 29-8). La Russia è una potenza pre-moderna, e al premoderno di Hobbes tocca tornare, dove l’uomo è lupo per l’uomo. Il dissenso in Europa è acuto, come sull’Iraq. Occorrerà parlarne, per sapere se davvero è al premoderno che urge tornare o se la scommessa comunitaria vale ancora.
In fondo è il momento più adatto per spiegarsi. La forza Usa non è svanita ma le ultime amministrazioni l’hanno indebolita, fino a renderla, in Georgia, irrilevante. Il riconoscimento del Kosovo si è rivelato un boomerang, e l’ultimo Bush è un unico fallimento: dopo la Georgia, intervenire in Iran è impensabile. È sempre più pericolante anche la Nato.
Man mano che s’allarga è meno credibile. A partire dalle guerre balcaniche inoltre ha cambiato natura, divenendo concorrente dell’Onu, ma non ha generato ordine bensì caos. Stefano Silvestri scrive, sul sito dell’Istituto Affari Internazionali: «Questa crisi ha dimostrato chiaramente come la Nato non possa efficacemente sostituirsi all’Unione europea quando la dirigenza Usa è incerta o distratta». Comunque, «la Nato non può essere la chiave di volta della politica nei confronti della Russia».
Per questo oggi è l’ora dell’Europa. L’ora di un «grande e difficile negoziato» con la Russia, ha scritto Arrigo Levi su La Stampa, e l’ora di una spiegazione interna sulla natura dell’Unione. Sarebbe bene se le due cose procedessero con gli stessi tempi, ma se necessario dovrà essere un’avanguardia a negoziare con Mosca un nuovo ordine che sia fondato su una duplice sicurezza: sicurezza degli europei dentro i propri confini, e promessa alla Russia che tali confini non saranno continuamente spostati a Est, dall’Unione o dalla Nato. È difficile dirlo, ma appartenere all’Europa non è appartenere all’Unione. Germania, Francia e Italia potrebbero far proposte, su cui le periferie si pronunceranno aderendo all’iniziativa o rifiutandola. Se le periferie e Londra la boicotteranno complicheranno i lavori dell’avanguardia senza tuttavia ottenere la tranquillità desiderata.
Torneranno ad assaporare il fascino del premoderno, ma - lo si vede oggi - con risultati per nulla promettenti.
Il chiarimento tra europei è stato eluso prima dell’allargamento, ma meglio tardi che mai. Ci sono cose trascurate dai fondatori, e altre che restano incomprese a Est. Quel che i fondatori devono capire è che gli Stati periferici hanno speciali bisogni di sicurezza, ignoti a chi non vive sul confine. Le periferie sono avamposti, non trasferiscono volentieri sovranità. Occorre dunque rassicurarle, altrimenti sarà l’America a farlo con potenza non meno ottocentesca. Manca, nell’Unione, l’articolo 5 che nella Nato garantisce a ogni Stato aggredito l’assistenza di tutti. L’Ueo (Unione dell’Europa occidentale, fondata nel ’48) ha un analogo articolo 5, incluso nel trattato di Lisbona. Sospeso dopo il no irlandese, il trattato potrebbe attuarsi in parte, cominciando proprio da quest’articolo. Un contingente europeo nei Baltici e in Polonia potrebbe essere la prima tappa del chiarimento: i paesi-avamposto, più rassicurati, sarebbero indotti a capire le ragioni dei fondatori, scoprendo che una maggiore autonomia da Washington significa non solitudine ma forse più sicurezza.
A questo punto si potrebbe aprire alla Russia, analizzando i veri pericoli della sua rinnovata forza. È vero che Mosca ha riaffermato in questi giorni una volontà di potenza trascurata dagli occidentali per oltre un decennio. È vero che Putin e Medvedev hanno per il momento vinto, militarmente. Ma la Russia è molto meno forte di quanto appaia. Non reincarna né l’Urss né lo zarismo. Non ha il grande potere d’influenza (il soft power) che aveva quand’era comunista. Non ha alleati fidati: al vertice dell’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (Sco), riunitosi a Dushambe il 28 agosto, enorme è stata la diffidenza cinese e delle repubbliche centroasiatiche (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan).
L’avventura georgiana e il riconoscimento dei secessionismi spaventano non solo Asia centrale e Cina, non solo Georgia, Ucraina, Moldavia, ma anche Stati amici con forti minoranze russe (Bielorussia). Senza una stabilizzazione negoziata della propria zona d’influenza Mosca è perdente, anche se possiede il petrolio di cui l’Europa (Germania e Italia in testa) non può fare a meno.
Il modello di negoziato già esiste, non bisogna tornare alla vecchia politica di potenza che seduce tanti responsabili americani e dell’Est europeo. La riunificazione tedesca fu negoziata con intelligenza tra Kohl, Gorbaciov e Bush senior: fu un successo, e produsse conquiste cruciali come la moneta unica e il progetto, anche se oggi interrotto, di costituzione. Da quell’esperienza varrà la pena ripartire, mostrandosi fermi con Mosca ma iniziando a comprenderla e a prenderla sul serio. Ignorare risentimenti e paure d’una potenza vinta vuol dire ignorare il reale, e preparare violenze future: già è avvenuto dopo il ’14-’18. Ma anche il Cremlino dovrà scoprire il reale: l’estero vicino che tanto l’inquieta è ormai anche vicinato europeo, e difficilmente potrà pacificarsi se ambedue Unione e Russia non fisseranno i propri confini smettendo di spostarli continuamente. Dopodiché potrebbe nascere una zona di libero scambio, alle frontiere dell’Unione, che includa Russia e Stati ex sovietici e che abbia sue istituzioni e rappresentanti (è la politica di vicinato proposta da Prodi, quando era presidente della Commissione europea). Una comune politica dell’energia potrebbe seguire, evitando che i più forti dell’Unione negozino con il Cremlino escludendo i più deboli.
Questo il compito dell’Europa. Lo assolverà se resterà fedele a Monnet e Schuman. Se saprà agire inventando il futuro, non trasformando la storia presente in giudizio universale e la memoria in un gioco al massacro.
Ilvo Diamanti nel numero di domenica 24 agosto di Repubblica ha restituito un quadro disastrosamente efficace dell´estraneità dei cittadini nel contesto della situazione insediativa che si è verificata negli ultimi anni, descrivendo la colossale espansione delle costruzioni per abitazioni in Italia: con scarsissimo riguardo per quelle dei meno abbienti ovviamente. Il consumo sistematico (ma senza regole) del bene finito del territorio e la distruzione del paesaggio urbano e naturale si accompagna alla scomparsa delle relazioni sociali e dello spazio pubblico a cui fanno riscontro, come egli scrive, «le notti bianche e gli eventi di massa». Tutto questo assume poi il carattere fisico di quella che gli urbanisti chiamano la città diffusa, una sorta di periferia infinita a media densità servita da abbandonanti infrastrutture di trasporto e tecnologiche.
Dentro alla città diffusa, poi, gli spazi aperti come spazi pubblici di relazione, sono considerati in generale luoghi inospitali e sovente pericolosi, tanto che ad essi va sostituendosi il grande interno privatizzato e sorvegliato, luogo di incontro motivato dallo «shopping» sociale: il centro commerciale, lo stadio di calcio, ed in generale i luoghi dove si celebra la competizione o di divertimento.
Qualche architetto ha teorizzato sciaguratamente (ma anche con cinico realismo) che non resta più «nessun qualcosa» di collettivo nella città, anzi che va teorizzata una «città generica» rappresentazione del nuovo populismo mercantile della condizione debole del consumatore e della finanza globale forte. Come è giusto dal punto di vista dello studioso di sociologia, Ilvo Diamanti ci restituisce un ritratto preciso della nostra condizione post-sociale; ma sarebbe giusto che invece, dal mio punto di vista di architetto, si tentasse di individuare anche qualche altra responsabilità: istituzionale (cioè politica) e disciplinare (cioè dei progettisti), oltre a quelle ovvie degli interessi dei proprietari dei terreni, degli immobiliaristi e delle banche alle loro spalle.
La prima di queste responsabilità riguarda l´ideologia della deregolazione che coinvolge insieme, in modi diversi, istituzioni e progettisti da più di una ventina di anni. I modi sono diversi anche nelle relazioni tra i due aspetti, relazioni spesso gestite da chi ha l´effettivo potere economico sulle realizzazioni. Basterebbe osservare lo sviluppo delle periferie delle città grandi e piccole che, al di là di qualche rara eccezione, muovono perfino con entusiasmo verso lo «sprawl». Si tratta di una iniziativa molecolare rapidamente organizzata e sospinta dall´ossessione della casa singola in proprietà non meno che dagli alti costi dell´abitazione nei centri urbani. Ma si tratta anche della ideologia del privato e dello sviluppo senza pianificazione e ragionevolezza collettiva. È questo ciò che sembra aver spento ogni senso del dovere dei gestori delle comunità, di formulare ipotesi (sia pure flessibili) sul futuro dei propri territori soprattutto nella scala vasta, al di là dei divergenti e soventi astratti confini comunali. L´insensato consumo del ben finito dei suoli, che quando sono rimasti liberi divengono solo resti in attesa di occupazione, è anche colpevole degli altissimi costi di infrastrutturazione a causa dei contraddittori indirizzi delle amministrazioni territoriali e della distruzione per inglobamento di quella straordinaria ricchezza (specie nel caso della tradizione europea), che è la fittezza dei piccoli insediamenti storicamente dotati di identità urbana, saggiamente distanziati e che proprio le tecniche delle comunicazioni immateriali potrebbero rendere altamente produttivi nella rete delle loro singolarità.
Tutto questo non assolve naturalmente le colpe numerose che possono essere attribuite ad una pianificazione che a sua volta è stata sovente ideologica e progressivamente sempre più burocratica, che ha mostrato gravi difficoltà a divenire flessibile ai mutamenti delle condizioni pur tenendo saldi principi ed obiettivi (i principi dell´urbanistica contrattata richiedono un´alta consapevolezza sociale del bene collettivo che è andata, come scrive giustamente Diamanti, del tutto smarrita o puramente condominiale) costruendo sempre più forti cesure nei confronti dei problemi del disegno dell´architettura della città.
E qui si rileva l´altro aspetto delle responsabilità degli architetti, concentrati sugli aspetti di novità formale del singolo prodotto molto sovente alla ricerca della novità come bizzarria, che hanno dimostrato un progressivo disinteresse per il disegno dello spazio abitabile tra le cose, sospinti anche dalla esasperante lentezza burocratica e dalla cesura in uso tra piani (quando ci sono) e progetti, e premiati invece dal valore di immagini di marca (politiche o private) rappresentate dallo spettacolo dell´architettura trasformata in oggetto ingrandito.
Ma qui, per capirne le ragioni, è necessario tornare alle riflessioni di Diamanti sullo stato di omogeneità disgregante che le nostre società stanno attraversando.
Se a Lampedusa si pensa di recintare il Cpt con il filo spinato, nella locride gli immigrati sono diventati una risorsa. Impegnati in laboratori tessili e di ceramica e perfettamente integrati con la popolazione. L'esperienza di un'immigrazione possibile a Riace, Caulonia e Stignano I sindaci di tre paesi: «Accogliamo gli immigrati»
Lem Lem fila la ginestra per farci i tessuti, un'antica arte della Calabria jonica che sta rifiorendo anche grazie a lei e ad altre come lei. Ha 25 anni, è bella, capelli e occhi scuri, vive a Riace da quattro anni con sua figlia Anna e suo nipote Thomas che lei considera un altro figlio e Anna un fratello, tutti e due hanno sette anni e tutti e due, mentre la madre lavora nel laboratorio di tessitura, frequentano con un'altra dozzina di bambini la scuola estiva in un antico palazzotto ristrutturato poco più in là, imparano l'italiano, giocano e hanno l'aria felice. Lem Lem sbarcò con i due bimbi in Sicilia nel 2004, viaggio per mare dalla Libia per 900 dollari, ma era in fuga dal Sudan e dalla guerra già nel 2000, e ora che vive a Riace non va tanto male: 400 euro al mese li guadagna al laboratorio la mattina, altrettanti li tira su facendo la colf nel pomeriggio. Di fronte a lei, al telaio, c'è un'eritrea di 23 anni, statuto di rifugiata, tre figli anche loro alla scuola estiva, sono qui da otto mesi; anche lei, come Lem Lem, è ortodossa, altre ospiti di Riace invece sono cattoliche, altre islamiche. Issa invece di anni ne ha 37, non lavora nel laboratorio tessile ma in quello di ceramica, nel 2001 scappò da Gazine, piccolo centro afgano a cinquanta minuti da Kabul, dove i taliban volevano arruolarlo per forza, venne in Italia attraverso la Turchia, due mesi nel Cpt di Crotone, poi il centro di prima accoglienza di Venezia dove gli consigliarono di stabilirsi a Riace. Adesso che fa il ceramista guadagna 800 euro al mese, ne paga altrettanti all'anno per l'affitto e dell'Afghanistan dice, scuotendo la testa, che va sempre peggio.
Di storie come quella di Lem Lem e di Issa, a Riace se ne contano una sessantina: tanti sono gli immigrati, perlopiù rifugiati, eritrei, etiopi, afgani, rumeni, palestinesi, che hanno trovato accoglienza in questo piccolo borgo appeso sulle colline della costa jonica, da dove l'altro ieri è partita la proposta, d'intesa con gli altri due comuni vicini di Caulonia e Stignano, di aprire le porte ai migranti che le trovano chiuse a Lampedusa. Riace è un centro della Locride noto più degli altri per via del ritrovamento dei Bronzi, ma come gli altri segnato da un passato novecentesco di emigrazione di massa in America e in Nord Europa e come gli altri destinato a un futuro di decadenza e di spopolamento, finché a qualcuno non è venuto in mente che quel piccolo borgo, oltre a ridare vita agli immigrati, poteva riceverne. Quel qualcuno è l'attuale sindaco, Mimmo Lucano, meno che cinquantenne, militanza nei movimenti e nella «sinistra antagonista» come la chiama lui, mai una tessera di partito però, e un'idea lucida sul suo territorio, questa: tutta quella gran corsa allo sfruttamento turistico del mare, con tanto di massacro edilizio della costa jonica, non serve proprio a niente se non si rivitalizzano gli antichi paesi della collina, con i loro tesori artistici (la cattedrale di Stilo è a un passo da qui), la montagna incontaminata alle spalle e una vista da sballo sul golfo di Squillace. Così nel '98, quando da queste parti cominciarono gli sbarchi di esuli curdi e i primi esperimenti di accoglienza a Soverato e Badolato, Lucano non ci vide una jattura ma una risorsa, umana ed economica. Mise su un'associazione, «Città futura», un centro culturale ed etnografico in uno dei più bei palazzi di Riace, e un progetto integrato di accoglienza dei migranti e di turismo equo e solidale, con l'idea di ripopolare l'antico borgo desertificato. Si trattava di riaprire le case abbandonate, nel corso del 900, dagli emigrati in America e in Nordeuropea e di riusarle in parte per gli immigrati che arrivano a ondate dal mare, in parte per creare un «albergo diffuso» per turisti in cerca di natura e sapori autentici. Così l'amministrazione del 2001 si convinse ad aderire subito al primo programma di protezione per i rifugiati, e il resto è venuto dopo l'elezione a sindaco di Lucano, nel 2004, con la lista civica «Un'altra Riace è possibile», un nome un programma. Adesso i migranti - più donne che uomini - diventati stanziali sono 60, i posti letto dell'albergo diffuso 120, vengono scolaresche in gita da tutta Italia a vedere l'esperimento e capita che si coronino matrimoni fra turisti francesi e tedeschi con le bomboniere fatte a mano da Issa.
Non c'è dunque solo un istinto di generosità, ma anche un esperimento oliato alle spalle, dietro la proposta di accoglienza avanzata da Lucano ha avanzato assieme ai suoi colleghi di Caulonia, Ilario Ammendolia, e di Stignano, Piero Sasso. Fra le case abbandonate dei tre paesi, una scuola dimessa di Caulonia e la Casa del pellegrino della diocesi di Locri, affidata in comodato d'uso al comune, si arriva a più di trecento posti: un messaggio civile e mediatico potente da una zona abituata a ricevere gli onori della cronaca solo in caso di mattanze mafiose. Non c'è nemmeno omogeneità di campo politico: se Ammendolia è un sindaco Pd che viene dal Pci e volentieri racconta e rivendica i fatti della «Repubblica rossa» di Caulonia del '43, Sasso viene da An e guida una giunta di centrodestra. Tutti e tre però sono convinti che non si può continuare ad assistere agli sbarchi - gli ultimi, proprio fra Riace e Stignano, l'8 luglio e il 22 agosto - gridando continuamente all'emergenza. E che non è solo disumano, ma anche antieconomico continuare a imbottire i Cpt: «Una giornata di un immigrato in un Cpt costa allo stato 70 euro, una giornata di un rifugiato coperto da un programma di protezione ne costa 22», dice Lucano. Se Lampedusa rammenda i fili spinati - «ma bisogna anche capire che quell'isola non ce la fa più», dicono i tre - qualche altro è pronto a strapparli.
La soluzione dell’"affaire" Alitalia (che è stata formalizzata ieri) non è una bufala. Si chiama con questo termine figurato la vendita di una patacca, una truffa in piena regola. Invece la soluzione Alitalia è un’altra cosa: un imbroglio politico che cerca di far passare con una diversa apparenza e in condizioni peggiori la stessa sostanza che era stata già concordata nello scorso mese di marzo con Air France.
Insomma un’operazione d’immagine che costerà ai contribuenti italiani un miliardo di euro come minimo, più il costo sociale degli esuberi, cioè dei licenziamenti che saranno più del doppio e poco meno del triplo di quanto sarebbe avvenuto in marzo.
Cinque mesi fa l’ipotesi accettata dal capo di Air France, Jean-Cyril Spinetta, ma furiosamente osteggiata da Berlusconi, da Fini e dai sindacati, prevedeva duemila esuberi, altri quattromila dipendenti sarebbero stati parcheggiati in una società di proprietà dello Stato con la prospettiva che almeno metà di loro sarebbe stata riassorbita entro cinque anni. La società si sarebbe fusa nel gruppo Air France-Klm conservando il suo marchio, gran parte del personale e gran parte delle rotte e acquisendone altre per destinazioni internazionali. La flotta sarebbe stata rinnovata gradualmente poiché la consistenza della flotta Air France-Klm insieme agli aerei Alitalia era in grado di far fronte ai previsti incrementi di passeggeri e di merci nei prossimi anni.
All’epoca in cui queste trattative erano sul punto di chiudersi il prezzo del petrolio, già molto alto rispetto ad un anno prima, quotava 80 euro al barile. Sono stati persi cinque mesi da allora ed oggi la trattativa si è svolta con il barile di greggio a 115 euro. Alitalia era sostanzialmente fallita già cinque mesi fa ma si poteva risollevare senza commissariamento e a condizioni migliori per il Paese e per il Tesoro.
Oggi dovrà inevitabilmente passare per il commissariamento, le condizioni per la nascita della "nuova Alitalia" costeranno inevitabilmente di più alla collettività senza cambiare di un ette la sostanza: una compagnia di fittizia bandiera che si avvia a diventare una branca di un gruppo controllato e gestito da una compagnia di altra nazionalità.
A quest’operazione d´immagine partecipano una decina di imprenditori italiani e tre o quattro banche tra le quali Banca Intesa e forse Mediobanca. Non si tratta però di "capitani coraggiosi" come alcuni giornali li hanno affrettatamente chiamati. Si tratta di capitalisti che sanno il fatto loro e che hanno patteggiato il loro ingresso nel capitale di Alitalia con contropartite di notevole interesse.
Ho detto che non è una bufala ma un imbroglio. Non saprei definirlo diversamente.
La prima constatazione (non si tratta di un’opinione ma di un fatto) è la situazione patrimoniale della "bad company" cioè della vecchia Alitalia, del vecchio e logoro osso che resterà in mano al Tesoro, cioè allo Stato, cioè a tutti noi contribuenti. Come è noto il patrimonio si compone di poste attive e di poste passive. Queste ultime ammontano nel caso Alitalia ad oltre un miliardo di euro perché tanti sono i suoi debiti. Ma in più ci saranno da gestire da cinque a seimila esuberi e forse più. Questa gestione ha un costo sociale e un costo finanziario. Quello sociale riguarda le persone e le famiglie che passeranno dallo stipendio alla Cassa integrazione e poi al licenziamento. Per di più si tratta quasi interamente di persone e famiglie concentrate a Roma, il che rende ancora più pesante l’impatto sociale della crisi.
Il costo finanziario dipenderà da eventuali "finestre" di pre-pensionamenti e dalla possibilità di alcune categorie di creditori di sottrarsi agli effetti del commissariamento pretendendo e ottenendo il pagamento integrale di quanto ad essi dovuto. Tra questi i fornitori di carburante i quali potranno adire il tribunale e ottenere una posizione privilegiata minacciando altrimenti di non rifornire la flotta Alitalia impedendone in questo modo il decollo.
C’è poi da considerare la sorte dei 300 milioni che nello scorso aprile furono conferiti dal Tesoro all’Alitalia per assicurarne la sopravvivenza. Quei soldi furono poi messi a patrimonio con la clausola che sarebbero stati restituiti al Tesoro nei tre mesi successivi all´avvenuto risanamento della società.
Saranno restituiti? Sarebbe una partita di giro, dalla "bad company" al Tesoro stesso. Quindi impraticabile perché inutile. Oppure non saranno restituiti, nel qual caso assumerebbero la natura di un aiuto di Stato e come tale impugnabile dalla Commissione europea dinanzi alla Corte di giustizia dell´Ue. Oppure ancora qualche banca o fondazione compiacente dovrebbe assumersi l’onere di rimborsare il Tesoro. Un samaritano che porti la croce. Ce ne sono in giro? Io non ne vedo. Se ci fossero sarebbero pazzi. Oppure furbi di quattro cotte che darebbero trecento per ottenere di ritorno in altri modi almeno il doppio. Staremo a vedere. Il nostro compito di giornalisti è appunto quello d’informare il pubblico. Non mancheremo di farlo.
I capitani coraggiosi. Vorrei cominciare dal gruppo Benetton per una ragione molto semplice: il responsabile operativo della famiglia e del gruppo di Ponzano Veneto rilasciò tempo fa un’intervista assai significativa, virgolettata e rivista dall’intervistato. Il giornalista che l’intervistava affacciò il dubbio che la contropartita d’una partecipazione dei Benetton al salvataggio Alitalia fosse già stata ottenuta con le ottime condizioni alle quali lo Stato aveva rinnovato la concessione delle autostrade al gruppo di Ponzano. Ma l’intervistato replicò che no, la partita delle autostrade non aveva alcun nesso con il salvataggio dell’Alitalia; le condizioni della concessione rinnovata non erano affatto un favore ma un’equa pattuizione. E va bene, sarà certamente così.
Il caso Alitalia era invece diverso. I Benetton non hanno alcun interesse a partecipare ad una compagnia di trasporto aereo. Possono metterci qualche spicciolo se proprio serve a salvare l’immagine politica, ma il loro interesse è un altro. I Benetton sono da tempo diventati costruttori di opere pubbliche: l’attuale aeroporto di Fiumicino l’hanno fatto le loro imprese. È un sito studiato per ospitare 30 mila passeggeri al giorno. Ma ora le previsioni per i prossimi vent´anni richiedono un aeroporto da 60 mila passeggeri in transito giornaliero. Perciò bisogna ricostruire Fiumicino nell´ambito di un progetto che ne faccia un "hub" mediterraneo. Ecco: i Benetton puntano su questo obiettivo. Non sono mica molliche.
Naturalmente, se la previsione d´un aeroporto da 60 mila transiti è corretta, non c´è assolutamente nulla di male a mettere in gara l´opera pubblica. Una trattativa privata senza concorrenti sarebbe uno strappo non da poco. Ma Tremonti è capace di questo e di altro nell´ambito di una strategia di Stato-padrone e di primazia della politica.
Però c´è un altro problema che lo stesso Benetton sollevò in quell’intervista: le tariffe da applicare alle compagnie di trasporto per utilizzo dell’aeroporto e, tra queste, in particolare le tariffe della compagnia di fittizia bandiera. Mi domando se non ci sia un conflitto di interessi tra un Benetton gestore dell´aeroporto e un Benetton azionista di Alitalia.
Di Ligresti si sanno molte cose e molte altre si intuiscono. Costruirà non so quanti milioni di metri cubi connessi (insieme alle circostanti aree) con l’Expo di Milano. Guida un gruppo gigantesco, immobiliare, finanziario, assicurativo. Sta nel sindacato di Mediobanca e come tale allunga l´occhio anche sul Corriere della Sera. Metterà una cinquantina di milioni anche in Alitalia. Per lui sono spiccioli e possono venir buoni con tanta terra al sole. E poi la sua banca di riferimento non è Intesa-Sanpaolo? È opportuno rendersi utili a chi finanzia i propri affari, accade da che mondo è mondo.
Conosco poco gli altri neo-azionisti della nuova Alitalia e quindi mi guardo bene dal formulare su di loro pensieri maliziosi. Ma una cosa va detta e vale per tutti: questi capitani coraggiosi giocano in realtà sul velluto perché hanno giustamente messo come condizione "sine qua non" la presenza nella combinazione d’un grande vettore internazionale. Poiché hanno ora accettato che i loro nomi siano resi pubblici se ne deve dedurre che l’accordo con il vettore straniero sia già stato fatto o sia comunque in avanzata trattativa.
Sappiamo che quando l’accordo sarà ufficializzato risulterà che lo "straniero" avrà il controllo azionario e la gestione della compagnia. È immaginabile e verosimile.
Secondo le informazioni che ho in proposito gran parte dei capitani coraggiosi si propongono di vendere allo "straniero" o sul mercato le loro quote azionarie quando l´accordo sarà diventato operativo. Dal che deduco che una rete di sicurezza i capitani coraggiosi ce l´hanno.
Arriva all’ultim’ora la notizia che Air France ha convocato il suo consiglio d´amministrazione per giovedì ed ha riaperto il dossier Alitalia. Spinetta chiederà anche di incontrarsi con Passera.
A pensarci bene è stato proprio un gioco dell’oca. Cinque mesi dopo torna l’ipotesi di tornare al punto di partenza in condizioni assai peggiori di prima.
Poiché in quest´operazione compare più volte il nome di Mediobanca, converrà spendere qualche parola su questo leggendario istituto che ha movimentato la storia finanziaria d’Italia dal 1947 ad oggi attraversando anche in casa propria alcune agitate, vicende come del resto accade nelle migliori famiglie. Finora le vicende "domestiche" di piazzetta Cuccia sono sempre finite bene e ci auguriamo che sia sempre così. Non altrettanto si può dire di quelle che Mediobanca ha patrocinato. Alcune a lieto fine altre a fine triste o tristissimo, a cominciare dalla guerra chimica ai tempi della Edison e della Bastogi per arrivare alla Montedison di Cefis e a quella dei Ferruzzi e dei Gardini e per finire con Pirelli e Telecom.
Che sta accadendo adesso a Mediobanca?
È in corso uno scontro molto duro. A volerlo personalizzare i protagonisti sono tre: Geronzi, Profumo, Nagel. Il primo è il presidente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca dopo aver guidato per molti anni il Banco di Roma che si fuse circa due anni fa con Unicredit; il secondo è l’amministratore delegato di Unicredit; il terzo è l’amministratore delegato del consiglio di gestione dell´Istituto di piazzetta Cuccia (un tempo si diceva via Filodrammatici perché Enrico Cuccia era ancora vivo).
Al momento della fusione del Banco di Roma con Unicredit si pose il problema di trovare una posizione adeguata per Cesare Geronzi che altrimenti sarebbe rimasto disoccupato. Geronzi non è uno che vada in pensione; si può tranquillamente scommettere che morirà (spero il più tardi possibile) lavorando. Banco di Roma e Unicredit possedevano circa il 9 per cento ciascuno del capitale di Mediobanca, in totale il 18 per cento, cioè la maggioranza assoluta nel patto di sindacato. A quel punto Profumo decise di vendere metà della partecipazione restando con il 9 per cento. Decise anche di affidare a Geronzi la presidenza dell´istituto ma per non essere troppo generoso optò per una "governance" duale, dando all´ex presidente del Banco di Roma la guida del consiglio di sorveglianza e insediando alla testa del consiglio di gestione il capo del management di piazzetta Cuccia, Nagel.
Un equilibrio perfetto, almeno sulla carta. Ma non era pensabile che Geronzi si contentasse a lungo di fare il padre nobile. Passato poco più di un anno è entrato infatti in agitazione chiedendo che la governance di Mediobanca tornasse dal sistema duale a quello "monale" e rivendicandone la presidenza operativa.
Profumo non è d’accordo ma è molto prudente, anche lui ha i suoi guai e non da poco. Nagel non è d’accordo neppure lui, ma Geronzi è in maggioranza nel sindacato e nell’assemblea degli azionisti. Dalla sua parte c’è Mediolanum, Ligresti, Generali, i francesi, insomma il grosso degli azionisti. Soprattutto ha l’appoggio politico di Berlusconi.
Ma Nagel e Profumo sono tuttora contrari. Se decideranno di battersi possono raggruppare un terzo dei voti nel sindacato azionario: una minoranza di blocco che riproporrebbe una conduzione duale all´interno di una "governance" unificata.
Infine c’è un’ultima incognita. Geronzi è stato rinviato a giudizio e addirittura condannato in primo grado per alcuni reati di cospicua gravità in materia finanziaria e bancaria. In tempi normali tutto ciò avrebbe determinato automaticamente le dimissioni del rappresentante legale di una banca e in tal senso esiste da tempo una circolare di indirizzo della Banca d’Italia. Ma oggi, lo sappiamo, non siamo in tempi normali. Mi domando però se questa posizione resterà ferma anche nel momento in cui il processo avrà inizio. Ogni previsione è azzardata ma una cosa è certa: la scelta dipenderà in larga misura da Draghi. È una partita cui sarà molto interessante assistere per raccontarla a dovere.