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Il suo ultimo libro, edito da Ediesse, è titolato «Politica della scienza?» ed è quel punto interrogativo ben in vista a spingerci a chiedere a Walter Tocci, direttore del Crs, alcune considerazioni in merito alla questione delle fondazioni.

Sette minuti e mezzo di discussione in aula e la riforma Gelmini-Tremonti è bella che fatta. Che ne pensa?

Siamo di fronte al più grave colpo inferto all'organizzazione del sapere a partire dal dopoguerra. In quei sette minuti e mezzo sono stati sottratti, rispettivamente, otto miliardi di euro alla scuola e 4 all'università. Circa un punto di pil.

Però i due ministri ci indicano una via d'uscita. Le fondazioni.

La questione delle fondazioni sta tutta dentro ad un'ottica classica di privatizzazione che non funziona più neanche a Wall Stree. Figuriamoci da noi. Un'ottica che svela il rapporto sempre più perverso che si va instaurando tra pubblico e privato.

Cosa intende?

Che da un lato si parla di fondazioni, cioè di soggetti di diritto privato e dall'altro si rilancia il centralismo statale.

Scusi Tocci, ma lo stato non dovrebbe limitarsi, rispetto alle fondazioni, ad erogare risorse?

Assolutamente no. Le fondazioni, così come sono concepite, continueranno ad essere oggetto di controllo ministeriale. Anzi, direi, «pluriministeriale»: economia, istruzione e corte dei conti. Vede, è lo stesso meccanismo che sta alla base di un fenomeno come quello delle università private che da un lato godono di assistenza statale e dall'altro riescono ad ottenere finanziamenti indipendentemente dalla valutazione o dal controllo degli obiettivi.

Secondo Tremonti l'interesse privato delle aziende - che lui naturalmente chiama responsabilità sociale - potrebbe aiutare l'università.

Vede, in Italia una linea puramente e autenticamente liberista non esiste. Dirò di più, non esiste un altro paese occidentale dove l'investimento privato in ricerca è inferiore a quello pubblico.

E allora tanto vale trasformare le università in soggetti di diritto privato.

Stiamo attenti. Il progetto delle fondazioni sembra andare nella direzione di una privatizzazione dell'università ma, in realtà, il suo unico scopo è quello di affamarle, le università. E sono certo che si salveranno solo quegli atenei pronti a venire a patti col potere politico. Grazie alle fondazioni il mercato entrerà nello stato e il risultato sarà quello di un controllo maggiore. Detto in altri termini, ad incontrarsi saranno gli aspetti peggiori del pubblico e del privato.

Gran parte della mobilitazione di questi giorni vede coinvolti i ricercatori.

Questa riforma impedisce la possibilità di qualsivoglia cambio generazionale. Questo vale per i ricercatori molti dei quali lavorano in luoghi altamente qualificati e di assoluta utilità per il paese - come l'Istituto superiore di sanità o l'Istat - e vale per i più giovani che sempre di più si troveranno costretti ad andare all'estero. Di fronte a noi ci sono due generazioni che definire maltrattate è dir poco. E questo quando nel mondo la vera competizione è sui cervelli.

Le recessioni sono periodi duri, difficili, soprattutto per un paese come il nostro che proviene da 15 anni di stagnazione, con i redditi delle famiglie italiane rimasti al palo per così tanto tempo. Ma non sempre tutti i mali vengono per nuocere.

Durante le recessioni, infatti, si assiste ad una forte accelerazione dei processi di riorganizzazione e rinnovamento della struttura produttiva. Risorse male utilizzate si spostano verso impieghi più produttivi, nascono molte nuove imprese che prendono il posto di imprese che hanno ormai esaurito la loro spinta propulsiva, contribuendo a creare le condizioni per una forte crescita domani. Questa riorganizzazione è fondamentale per ridurre i ritardi strutturali del nostro paese, quelli alla base della stagnazione degli ultimi 15 anni. Abbiamo bisogno di cambiare radicalmente la nostra specializzazione produttiva per poter crescere almeno quanto gli altri paesi europei, rispetto ai quali continuiamo a perdere inesorabilmente terreno. Abbiamo bisogno di nuovi grandi imprenditori con idee nuove e non necessariamente solo un noto pedigree. Abbiamo bisogno di cambiare il management che in molte imprese famigliari ha una funzione di esecutore, quasi testamentario, delle volontà della famiglia proprietaria piuttosto che di chi deve valorizzare l’impresa. Guai a porre freni allora ai processi di riorganizzazione che avvengono durante le recessioni. Sarebbe come condannarsi ad avere oltre ai danni (di una diminuzione del reddito complessivo di un paese) anche la beffa di non aver approfittato della recessione per rinnovarsi. In questa particolare recessione c’è poi un’altra ragione fondamentale per cercare in tutti i modi di favorire (e certamente non ostruire) gli afflussi di nuovi capitali e investitori verso il nostro sistema produttivo. Il rallentamento della nostra economia è avvenuto sin qui per ragioni largamente indipendenti dalla tempesta in atto sui mercati finanziari. Ma la crisi finanziaria globale rischia sempre di più di metterci del suo nel rendere più acuta e più lunga questa recessione. Il modo con cui la crisi finanziaria si sta trasmettendo all’economia reale avviene attraverso il restringimento dell’accesso al credito da parte delle imprese. Ci sono, purtroppo, indicazioni che sempre più imprese italiane, soprattutto di piccole dimensioni, già oggi faticano a finanziarsi. Fondamentale perciò che trovino fonti di finanziamento alternative. Come pure fonti di finanziamento alternative devono essere disponibili per chi vuole approfittare dei costi più bassi che ci sono durante le recessioni per realizzare i propri sogni. Se chi ha delle buone idee imprenditoriali non è messo in condizione di metterle in atto, trovando finanziatori per i propri investimenti iniziali o per piani industriali di rilancio di imprese già esistenti, la crisi rischia di prolungarsi, di trascinarsi molto a lungo.

Il nostro presidente del Consiglio, tuttavia, sembra convinto che sia meglio ridurre il più possibile i flussi di capitale verso il mondo delle imprese. La scorsa settimana ha proposto di chiudere i mercati finanziari. Fortunatamente nessuno lo ha ascoltato: il vertice europeo di Parigi si sarebbe, infatti, chiuso con un ennesimo nulla di fatto se non fossero arrivate le notizie dalla Borsa di Tel Aviv in caduta verticale. In questa settimana direttamente o per interposta persona (solo così si spiega la sorprendente avversione all’Opa, la vera e propria cardiopatia del Presidente della Consob, Lamberto Cardia) ha proposto di adottare misure per proteggere le imprese quotate da acquisizioni «ostili». «Molte aziende italiane - ha affermato - hanno oggi una quotazione che non corrisponde assolutamente al loro giusto valore. Quindi credo che sono delle ottime occasioni per chi, disponendo di capitali e penso a certi fondi sovrani, volesse proporre delle Opa ostili».

Di qui la proposta di sospendere la cosiddetta passivity rule, quella norma che impedisce al management di società scalate di ostacolare l’acquisto della compagnia per difendere la propria poltrona. Lo possono fare solo su preciso mandato dell’assemblea degli azionisti. Strano che nessun giornalista, presente in quella occasione, abbia posto al nostro premier una semplice domanda: ostili a chi, signor presidente del Consiglio? Quelle che lei vuole evitare sono offerte pubbliche d’acquisto ostili all’Italia o all’attuale management delle imprese? Sono ostili alla nostra economia o alle grandi famiglie che fanno oggi il capitalismo italiano? Sono ostili ai piccoli azionisti che troppe volte sono stati trattati a pesci in faccia da queste grandi famiglie o alle scatole cinesi che hanno ingessato la governance delle nostre imprese? Il dubbio è legittimo. Nei giorni scorsi ci ha invitato tutti a tenere le azioni di società italiane per almeno due anni. Oggi ci chiede di stare attenti a chi le compra queste azioni e non vuole che aumentino di valore in seguito ad offerte pubbliche di acquisto. Vuol dire dunque condannarci a vedere diminuire ulteriormente il prezzo di queste azioni. Ci perdoni dunque l’insistenza: ostili a chi, signor presidente?

Domanda

Una domanda a quanti preconizzano effetti virtuosi sul sistema produttivo (e in generale sull’economia italiana) della crisi mondiale in atto. È noto che le aziende italiane (gli imprenditori? I capitalisti? I manager? Insomma, quelli che decidono sull’uso della proprietà degli strumenti di produzione) hanno spostato, soprattutto negli ultimi decenni, una parte rilevante dei loro investimenti dalle attività suscettibili di creare profitto a quelle capaci di formare rendite, finanziarie e immobiliari. Gli effetti “virtuosi” della crisi aumenteranno o meno questa tendenza?

In una collettività nazionale che non ha mai brillato per spirito e rigore «repubblicani», la scuola pubblica è uno dei rari luoghi in cui si pratica un certo rispetto dei principi costituzionali, in primis il diritto all'istruzione e alla non-discriminazione. È anche una delle poche istituzioni che non hanno chiuso gli occhi di fronte alla pluralizzazione culturale crescente della società italiana, attrezzandosi per affrontarla sul piano educativo e culturale. Oggi tutto questo appare lontano come la luna, di fronte al radicale salto di paradigma costituito dalla mozione approvata dalla Camera. La norma che istituisce le classi differenziali per gli alunni stranieri che non superino test e prove varie è certo la ciliegina sulla torta di una «riforma» dell'istruzione di squisita marca reazionaria.

Discriminare alunni di origine «non autoctona» (e chi di noi lo è?) in base al criterio dell'imperfetta conoscenza della lingua italiana non è solo disconoscere la primaria funzione integrativa della scuola. È un gesto revisionista che cancella la storia che ha fondato la scuola pubblica in Italia: storia d'integrazione e di emancipazione d'innumerevoli generazioni «native» di ragazzi poveri, ignoranti, non-parlanti l'italiano; una storia che tuttora garantisce il diritto all'istruzione anche al ragazzo che parla solo il dialetto di Cassano Magnago o di Vittorio Veneto. In realtà, l'allontanamento, simbolico e reale, dalla scuola pubblica dei figli degli altri è qualcosa di più di una ciliegina sulla torta: è un tassello pesante nella costruzione di un paese del razzismo reale.

Un paese che non corre solo il rischio d'essere percorso da un'endemica e disseminata guerra fra poveri. Questa formula può finire per diventare luogo comune frusto e consolatorio: le guerre fra poveri si ricompongono lavorando «per l'unità della classe», come recita la vulgata marxista, e per un processo così lungo c'è sempre tempo... Può ridursi a luogo comune, se non si comprende che si è già compiuta la saldatura fra il razzismo di Stato e il razzismo popolare. Essa è stata resa possibile non solo dal ruolo svolto dai media, ma soprattutto dagli apprendisti stregoni che, trastullandosi con il paradigma securitario, hanno spalancato le porte dell'inferno del razzismo istituzional-popolare. Continuiamo a confidare nella capacità di ravvedimento della sinistra politica, benché il corteo nazionale dell'«orgoglio comunista», per quanto imponente, non lasci intravedere l'elaborazione di contenuti, né una massiccia inclusione nei suoi ranghi delle vittime reali e potenziali del razzismo. E dunque speriamo che, di fronte a norme che mirano a stravolgere il senso e la funzione di istituzioni-pilastro della democrazia, qualcuno a sinistra cominci a comprendere il senso strategico della battaglia contro il razzismo e per i diritti dei migranti. Va detto chiaro a chi ancora si attarda a fare distinguo: l'Italia governata dispoticamente da Berlusconi e pervertita dall'ideologia nazistoide della Lega Nord, resa più temibile dal culto dell'ignoranza, sta per diventare un paese strutturalmente razzista: un paese del razzismo reale, appunto.

ANDRO' via dall'Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà...", dice Roberto Saviano. "Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. 'Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l'odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me".

La verità, la sola oscena verità che, in ore come queste, appare con tragica evidenza è che Roberto Saviano è un uomo solo. Non so se sia giusto dirlo già un uomo immaginando o pretendendo di rintracciare nella sua personalità, nella sua fermezza d'animo, nella sua stessa fisicità la potenza sorprendente e matura del suo romanzo, Gomorra. Roberto è ancora un ragazzo, a vederlo. Ha un corpo minuto, occhi sempre in movimento. Sa essere, nello stesso tempo, malizioso e insicuro, timidissimo e scaltro. La sua è ancora una rincorsa verso se stesso e lungo questo sentiero è stato catturato da uno straordinario successo, da un'imprevedibile popolarità, dall'odio assoluto e assassino di una mafia, dal rancore dei quietisti e dei pavidi, dall'invidia di molti. Saranno forse queste le ragioni che spiegano come nel suo volto oggi coabitino, alternandosi fraternamente, le rughe della diffidenza e le ombre della giovanile fiducia di chi sa che la gioia - e non il dolore - accresce la vita di un uomo. "Sai, questa bolla di solitudine inespugnabile che mi stringe fa di me un uomo peggiore. Nessuno ci pensa e nemmeno io fino all'anno scorso ci ho mai pensato. In privato sono diventato una persona non bella: sospettoso, guardingo. Sì, diffidente al di là di ogni ragionevolezza. Mi capita di pensare che ognuno voglia rubarmi qualcosa, in ogni caso raggirarmi, "usarmi". E' come se la mia umanità si fosse impoverita, si stesse immeschinendo. Come se prevalesse con costanza un lato oscuro di me stesso. Non è piacevole accorgersene e soprattutto io non sono così, non voglio essere così. Fino a un anno fa potevo ancora chiudere gli occhi, fingere di non sapere. Avevo la legittima ambizione, credo, di aver scritto qualcosa che mi sembrava stesse cambiando le cose. Quella mutazione lenta, quell'attenzione che mai era stata riservata alle tragedie di quella terra, quell'energia sociale che - come un'esplosione, come un sisma - ha imposto all'agenda dei media di occuparsi della mafia dei Casalesi, mi obbligava ad avere coraggio, a espormi, a stare in prima fila. E' la mia forma di resistenza, pensavo. Ogni cosa passava in secondo piano, diventava di serie B per me. Incontravo i grandi della letteratura e della politica, dicevo quello che dovevo e potevo dire. Non mi guardavo mai indietro. Non mi accorgevo di quel che ogni giorno andavo perdendo di me. Oggi, se mi guardo alle spalle, vedo macerie e un tempo irrimediabilmente perduto che non posso più afferrare ma ricostruire soltanto se non vivrò più, come faccio ora, come un latitante in fuga. In cattività, guardato a vista dai carabinieri, rinchiuso in una cella, deve vivere Sandokan, Francesco Schiavone, il boss dei Casalesi. Se lo è meritato per la violenza, i veleni e la morte con cui ha innaffiato la Campania, ma qual è il mio delitto? Perché io devo vivere come un recluso, un lebbroso, nascosto alla vita, al mondo, agli uomini? Qual è la mia malattia, la mia infezione? Qual è la mia colpa? Ho voluto soltanto raccontare una storia, la storia della mia gente, della mia terra, le storie della sua umiliazione. Ero soddisfatto per averlo fatto e pensavo di aver meritato quella piccola felicità che ti regala la virtù sociale di essere approvato dai tuoi simili, dalla tua gente. Sono stato un ingenuo. Nemmeno una casa, vogliono affittarmi a Napoli. Appena sanno chi sarà il nuovo inquilino si presentano con la faccia insincera e un sorriso di traverso che assomiglia al disprezzo più che alla paura: sono dispiaciuti assai, ma non possono.... I miei amici, i miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo essere in guerra con il mondo per colpa tua? Colpa, quale colpa? E' una colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?".

Piacciono poco, da noi, i martiri. Morti e sepolti, li si può ancora, periodicamente, sopportare. Vivi, diventano antipatici. Molto antipatici. Roberto Saviano è molto antipatico a troppi. Può capitare di essere infastiditi dalla sua faccia in giro sulle prime pagine. Può capitare che ci si sorprenda a pensare a lui non come a una persona inseguita da una concreta minaccia di morte, a un ragazzo precipitato in un destino, ma come a una personalità che sa gestire con sapienza la sua immagine e fortuna. Capita anche in queste ore, qui e lì. E' poca, inutile cosa però chiedersi se la minaccia di oggi contro Roberto Saviano sia attendibile o quanto attendibile, più attendibile della penultima e quanto di più? O chiedersi se davvero quel Giuseppe Setola lo voglia disintegrare, prima di Natale, con il tritolo lungo l'autostrada Napoli-Roma o se gli assassini si siano già procurati, come dice uno di loro, l'esplosivo e i detonatori. O interrogarsi se la confidenza giunta alle orecchie delle polizie sia certa o soltanto probabile.

E' poca e inutile cosa, dico, perché, se i Casalesi ne avranno la possibilità, uccideranno Roberto Saviano. Dovesse essere l'ultimo sangue che versano. Sono ridotti a mal partito, stressati, accerchiati, incalzati, impoveriti e devono dimostrare l'inesorabilità del loro dominio. Devono poter provare alla comunità criminale e, nei loro territori, ai "sudditi" che nessuno li può sfidare impunemente senza mettere nel conto che alla sfida seguirà la morte, come il giorno segue la notte.

Lo sento addosso come un cattivo odore l'odio che mi circonda. Non è necessario che ascolti le loro intercettazioni e confessioni o legga sulle mura di Casale di Principe: "Saviano è un uomo di merda". Nessuno da quelle parti pensa che io abbia fatto soltanto il mio dovere, quello che pensavo fosse il mio dovere. Non mi riconoscono nemmeno l'onore delle armi che solitamente offrono ai poliziotti che li arrestano o ai giudici che li condannano. E questo mi fa incazzare. Il discredito che mi lanciano contro è di altra natura. Non dicono: "Saviano è un ricchione". No, dicono, si è arricchito. Quell'infame ci ha messo sulla bocca degli italiani, nel fuoco del governo e addirittura dell'esercito, ci ha messo davanti a queste fottute telecamere per soldi. Vuole soltanto diventare ricco: ecco perché quell'infame ha scritto il libro. E quest'argomento mette insieme la parte sana e quella malata di Casale. Mi mette contro anche i miei amici che mi dicono: bella vita la tua, hai fatto i soldi e noi invece tiriamo avanti con cinquecento euro al mese e poi dovremmo difenderti da chi ti odia e ti vuole morto? E perché, diccene la ragione? Prima ero ferito da questa follia, ora non più. Non mi sorprende più nulla. Mi sembra di aver capito che scaricando su di me tutti i veleni distruttivi, l'intera comunità può liberarsi della malattia che l'affligge, può continuare a pensare che quel male non ci sia o sia trascurabile; che tutto sommato sia sopportabile a confronto delle disgrazie provocate dal mio lavoro. Diventare il capro espiatorio dell'inciviltà e dell'impotenza dei Casalesi e di molti italiani del Mezzogiorno mi rende più obiettivo, più lucido da qualche tempo. Sono solo uno scrittore, mi dico, e ho usato soltanto le parole. Loro, di questo, hanno paura: delle parole. Non è meraviglioso? Le parole sono sufficienti a disarmarli, a sconfiggerli, a vederli in ginocchio. E allora ben vengano le parole e che siano tante. Sia benedetto il mercato, se chiede altre parole, altri racconti, altre rappresentazioni dei Casalesi e delle mafie. Ogni nuovo libro che si pubblica e si vende sarà per loro una sconfitta. E' il peso delle parole che ha messo in movimento le coscienze, la pubblica opinione, l'informazione. Negli anni novanta, la strage di immigrati a Pescopagano - ne ammazzarono cinque - finì in un titolo a una colonna nelle cronache nazionali dei giornali. Oggi, la strage dei ghanesi di Castelvolturno ha costretto il governo a un impegno paragonabile soltanto alla risposta a Cosa Nostra dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio. Non pensavo che potessimo giungere a questo. Non pensavo che un libro - soltanto un libro - potesse provocare questo terremoto. Subito dopo però penso che io devo rispettare, come rispetto me stesso, questa magia delle parole. Devo assecondarla, coltivarla, meritarmela questa forza. Perché è la mia vita. Perché credo che, soltanto scrivendo, la mia vita sia degna di essere vissuta. Ho sentito, per molto tempo, come un obbligo morale diventare un simbolo, accettare di essere al proscenio anche al di là della mia voglia. L'ho fatto e non ne sono pentito. Ho rifiutato due anni fa, come pure mi consigliavano, di andarmene a vivere a New York. Avrei potuto scrivere di altro, come ho intenzione di fare. Sono restato, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce? Forse se avessi una famiglia, se avessi dei figli - come li hanno i miei "angeli custodi", ognuno di loro non ne ha meno di tre - avrei un altro equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Non è così. Io ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo - lo so - ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo, ai carabinieri di Napoli che mi proteggono come un figlio, agli uomini che da anni si occupano della mia sicurezza. Non ho il cuore di dirglielo. Sai, nessuno di loro ha chiesto di andar via dopo quest'ultimo allarme, e questa loro ostinazione mi commuove. Mi hanno solo detto: "Robe', tranquillo, ché non ci faremo fottere da quelli là"".

A chi appartiene la vita di Roberto? Soltanto a lui che può perderla? Il destino di Saviano - quale saranno da oggi i suoi giorni, quale sarà il luogo dove sceglierà, "per il momento", di scrivere per noi le sue parole necessarie - sono sempre di più un affare della democrazia italiana.

La sua vita disarmata - o armata soltanto di parole - è caduta in un'area d'indistinzione dove sembra non esserci alcuna tradizionale differenza tra la guerra e la pace, se la mafia può dichiarare guerra allo Stato e lo Stato per troppo tempo non ha saputo né cancellare quella violenza sugli uomini e le cose né ripristinare diritti essenziali. A cominciare dal più originario dei diritti democratici: il diritto alla parola. Se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente tutti.

ANCORA una volta la Lega coglie il disagio, ma anziché risolverlo lo aggrava. Nessun altro paese civile ha infatti mandato i figli degli immigrati nelle classi differenziate, nessuno ha mai pensato di creare scuole speciali proprio perché la storia ha insegnato a tutti che le scuole speciali sono topaie dove si parla un unico codice, dove il cielo è basso e forse non è neppure cielo.

E tuttavia il problema esiste e - ripetiamo - ancora una volta è la Lega a segnalarlo, ma ancora una volta a testa bassa, senza cultura, con l´idea di imprigionare i disagiati nel loro disagio, con la ferocia sorridente o se preferite con la misericordia sadica di chi vuole affogare i naufraghi.

E´ sicuramente vero che la presenza di immigrati nei processi formativi rischia di rallentare la realizzazione del progetto didattico. Insomma, tutti capiscono che una scuola dove ci sono livelli molto diversi e lontani tende a modularsi sul livello più basso. E´ il grande problema che in tutto il mondo sta riqualificando l´insegnante, nel senso che nei paesi civili si cerca di mandare il professore migliore nel luogo del disadattamento peggiore.

Gli insegnanti ci sono per risolvere proprio questi problemi, per colmare le distanze. Per un bravo insegnante, i ragazzi sono tutti uguali, tutti bisognosi di informazioni e di formazione anche se ciascuno alla propria maniera. Ebbene, il professore migliore è quello che sa rispondere bene a tutti gli handicap, che sa affrontare ogni genere di ignoranza, sia essa linguistica matematica o filosofica, e conta poco che essa derivi da un impedimento psicologico o da una estraneità al linguaggio istituzionale, alla lingua nazionale. L´insegnante migliore - bisognerebbe spiegarlo alla ministra Gelmini - è quello che ha mille frecce nella sua faretra. Perché solo la quantità di frecce fa di lui un buon arciere. Non stiamo insomma parlando di sensibilità d´animo o di bontà di cuore, ma di formazione e di stipendio, degli strumenti che gli può dare solo l´università pubblica e non le fondazioni private che sono salotti aristocratici per gente danarosa.

E bisognerebbe dire alla Lega che l´Italia, almeno in questo, parte avvantaggiata. Nel nostro Paese, molto più che nel resto d´Europa, le differenze linguistiche non sono una novità. I nostri dialetti infatti erano lingue ben strutturate che tenacemente resistettero alla penetrazione dell´italiano. Il gran lombardo Alessandro Manzoni, uno dei monumenti della cultura nazionale, si dannò l´anima per tutta la sua lunga vita - «saremo salvi se uni» - sulla babele linguistica di un paese che aveva ospitato mille storie, mille culture, normanni e longobardi, aragonesi e papalini, ducati e regni e marchesati, il Piemonte dei Savoia, la Lombardia austriaca, il Borbone napoletano...

Non fu facile, ma ce l´abbiamo fatta. Anche perché nessuna Lega pensò di differenziare i ragazzi. Nessun ministro italiano ha mai immaginato ghetti per dividere i siciliani dai pugliesi o per allontanare i lombardi dai veneti o i toscani dagli abruzzesi. Eppure, quella era un´Italia nettamente divisa in classi, piena non solo di differenze linguistiche ma anche di disuguaglianze sociali. Ed era anche l´Italia delle "razze" a prendere per buono quel Lombroso che con la sua scuola dominò la cultura europea. Ebbene, quell´Italia non fu mai razzista, mai differenziata. Al contrario, mandarono gli insegnanti siciliani nelle scuole lombarde e quelli piemontesi in Calabria e in Lucania. Fu il caos a rendere ricca l´Italia. L´ordine della Lega la impoverirà retrocedendola al caos differenziato.

Forse sarebbe opportuno partire dal fatto che il «premio Nobel per l'Economia» non esiste. Quello che è stato assegnato ieri allo statunitense Paul Krugman, un economista neokeynesiano che insegna a Princeton, diventato celebre come editorialista del New York Times, è lo «Sveriges Riksbanks pris i ekonomisk vetenskap till Alfred Nobels minne» ovvero il «Premio della Banca di Svezia in memoria di Alfred Nobel». Ciò che condivide con i cinque veri premi Nobel (cioè quelli istituiti a suo tempo per volontà di Alfred Nobel) è il fatto che è l'Accademia Reale Svedese delle Scienze, a designare il vincitore. La differenza non è di poco momento perché ha a che fare con lo statuto dell'economia come scienza, anzi come scienza in grado di gettare luce su ogni aspetto della società e del comportamento umano, come sostiene l'economista Gary Becker che ricevette il premio nel 1992.

La Banca di Svezia e l'Accademia Svedese delle Scienze hanno non poca responsabilità nella creazione del clima culturale di adorazione del mercato che si è affermato negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni Settanta ed è poi dilagato nel resto del mondo fino ad oggi. Le loro scelte, amplificate dai media, hanno infatti consacrato come «Nobel» una serie di economisti ferocemente contrari a ogni intervento di regolazione del mercato, di cui il più celebre è Milton Friedman (premiato nel 1976 e deceduto nel 2006) ma il più importante è senza dubbio Friedrich Augustus von Hayek, un economista austriaco emigrato in Inghilterra, dove insegnava alla London School of Economics e poi negli Stati Uniti.

Hayek, premiato nel 1974, era convinto che ogni tentativo di dirigere l'attività economica non può che essere capriccioso e arbitrario e che anche modesti tentativi di pianificazione necessariamente conducono alla distruzione delle libertà individuali e al totalitarismo. La tesi, esposta organicamente nel suo pamphlet del 1944 La via della servitù, riassumeva abilmente le idee sull'economia spontaneamente adottate dagli americani fin dal Settecento, idee che ne fanno un'attività del singolo naturale, spontanea e prepolitica, in cui ogni intervento dello stato non può che essere dannoso. Non stupisce, quindi, che la maggioranza dei deputati repubblicani, solo due settimane fa, abbiano respinto in nome di questa ideologia il piano di salvataggio delle banche americane proposto dal ministro del tesoro Paulson, un loro compagno di partito che aveva semplicemente capito quanto vicina fosse la catastrofe.

La visione bucolica di una società «naturale» dove il cittadino vive del frutto della sua fatica e scambia le uova delle proprie galline con il latte del vicino è tanto profondamente radicata nella cultura americana che i manuali delle università partono spesso da lì, come sa chi ha letto quelli di Samuelson (premiato nel 1970) e Schelling (premiato nel 2005). Negli Stati Uniti, il ricordo della crisi del 1929 dev'essere considerato una parentesi: dopo i premi a Hayek e Friedman praticamente scomparve (fu il ministro del Tesoro di Clinton, Lawrence Summers, a dire che oggi tutti gli economisti «devono essere friedmaniani»). Per puro caso, il governatore attuale della Federal reserve, è uno studioso della Depressione, il che lo ha reso più sensibile ai segnali di pericolo di quanto non fosse la Casa Bianca.

Benché l'Accademia Svedese delle Scienze abbia premiato, negli anni, numerosi economisti neokeynesiani, come Amartya Sen nel 1998 e Joseph Stiglitz nel 2001, la sua responsabilità per il clima culturale di «adorazione del vitello d'oro» non può essere minimizzata, visto che ha attribuito il premio della Banca di Svezia a Robert Lucas (1995) e Robert Mundell (1999) ma, soprattutto a Robert Merton e Myrton Scholes nel 1997, consacrati per aver «sviluppato un metodo per determinare il valore dei derivati». Ora, è proprio la piramide finanziaria creata a partire da cartolarizzazioni, derivati e credit defaul swaps che è all'origine della crisi attuale (non certo finita perché ieri il Dow Jones ha riguadagnato il 7%). Ed è proprio l'impossibilità di attribuire un prezzo ai prodotti creati da Wall Street negli ultimi anni che è all'origine della paralisi dei prestiti interbancari.

Se un merito ha Paul Krugman, premiato ieri per i suoi lavori sugli scambi commerciali internazionali, scritti peraltro parecchi anni fa, è il fatto di aver scritto già nel 2000 che le bolle speculative (prima delle aziende che nascevano per sfruttare internet, le cosiddette dot.com e poi dell'immobiliare) non potevano che scoppiare. Oggi ci appare profetico il suo libro scritto nel 2001 Il ritorno dell'economia della depressione. Stiamo andando verso un nuovo '29?. Nel libro del 2003, The Great Unraveling, ripubblicava i suoi caustici attacchi all'amministrazione Bush, in particolare per il «capitalismo dei compari» che aveva portato allo scandalo Enron, per il taglio delle tasse (enormemente gravoso per il bilancio pubblico) e per la guerra in Iraq.

Occorre sottolineare che Krugman ha usato lo spazio bisettimanale che gli offre il quotidiano di New York per parlare non solo di economia, ma anche di guerra in Iraq, di Guantanamo, di violazione dei diritti costituzionali negli Stati Uniti. Una linea che ha provocato furiose reazioni dell'amministrazione Bush e pressioni sul New York Times (che ha meritoriamente resistito, pur chiedendogli di non scrivere più «Bush è un bugiardo»). In genere, i suoi commenti sul New York Times sono mediamente più a sinistra di quanto non siano il suo giornale e lo stesso Partito democratico americano (che spesso Krugman ha criticato).

Al contrario di quanto sosteneva ieri nel sito di Repubblica l'economista Francesco Daveri, l'Accademia delle Scienze le sue scelte di campo le fa eccome. Krugman è stato premiato perché, come sostiene Daveri, «ha cambiato il modo in cui gli economisti pensavano alla globalizzazione. Dopo le sue pubblicazioni, lo studio dell'economia internazionale non è stato più lo stesso»? Forse, ma quel che è certo è che, con quanto sta succedendo alla finanza mondiale, forse non sembrava opportuno premiare qualche altro teorico dei «mercati in equilibrio perfetto».

Tra gli studiosi progressisti, come John Kenneth Galbraith, Krugman è sempre stato considerato più un economista «alla moda» che non un teorico originale. La sua biografia professionale è rispettabile ma non eterodossa: nelle ultime settimane, per esempio, le sue ricette per uscire dalla crisi sono state molto British (è stato il primo a sostenere che la ricetta giusta era quella di interventi simili a quelli dei governi europei, come la Svezia negli anni Novanta e la Gran Bretagna in questi giorni). Tutto a suo merito, naturalmente.

Krugman è quindi una scelta che sarà apprezzata dalle sinistre nel mondo ma non è una voce nuova. L'Accademia delle Scienze Svedese forse non è più reazionaria ma certo non merita di diventare il nuovo maître à penser dei democratici (americani o italiani che siano).

ANCORA una volta è la Chiesa a ricordarci dove sta il giusto e lo sbagliato e ad ammonirci che l’Italia tradisce i diritti umani. La politica (quella del governo) è non soltanto insensibile al giusto ma è colpevole di non perseguirlo. È colpevole di violare i diritti fondamentali promuovendo una legislazione e un’ideologia che sono razziste nei contenuti e nello spirito, perché escludono e criminalizzano chi ha come unica colpa quella di non essere "uno di noi". La parola razzismo spaventa, ma deve essere pronunciata, ha scritto molto giustamente Stefano Rodotà su Repubblica di qualche giorno fa. Deve essere pronunciata anche perché questa, solo questa, è la parola che riesce a descrivere quello che sta succedendo con sempre più frequenza nelle nostre città. Ovviamente, non è razzista la città di Milano o la città di Roma - razzisti sono gli individui quando usano un linguaggio che offende gli altri, i diversi. Negli anni ‘60 erano razzisti molti italiani del Nord verso gli italiani del Sud - ancora oggi, tra il lessico razzista in uso presso i leghisti, è facile trovare la parola "terrone". Gli italiani del Sud erano allora l’equivalente dei neri di oggi: fatti oggetto di parole offensive e denigratorie.

Non è necessario che al linguaggio segua la violenza perché ci sia razzismo e perché ci sia comportamento violento. Il linguaggio può fare violenza oltre che istigare alla violenza. E il razzismo è un linguaggio violento. È una forma di violenza che è prima di tutto un modo di pensare che riceve energia dalla pigrizia mentale. Il pregiudizio (del quale il razzismo si alimenta), vive della nostra inettitudine mentale e della nostra faciloneria, perché è poco faticoso associare molte persone sotto un’unica idea: tutte insieme senza distinzioni individuali, solo perché nere o asiatiche o mussulmane. Al razzista questi aggettivi dicono da soli tutto quello che egli vuole sapere senza fare alcuno sforzo ulteriore di conoscenza, osservazione, distinzione, analisi. «Sei nero, allora sei anche A, B, C». Questa faciloneria rende il razzismo un codice di riconoscimento: i razzisti vanno d’accordo, si riconoscono e si attraggono; rinforzano le loro credenze a vicenda e accorgendosi che non sono soli a pensare in quel modo concludono che hanno ragione, perché la maggioranza ha ragione. Proprio perché genera emulazione il razzismo è facilmente portato a espandersi; l’atteggiamento razzista non è mai "un fenomeno isolato" perché se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull’appoggio dell’opinione pubblica. Ecco perché quando si legge a commento di un fatto di razzismo che si tratta di "un fenomeno isolato" si resta allibiti (io resto allibita): perché il commento è sbagliato e figlio della stessa faciloneria di chi ha commesso il fatto.

Questa è una osservazione di grande importanza, un’osservazione che si può comprendere prestando attenzione a quello che con superficiale supponenza molti osservatori italiani criticano degli Stati Uniti: il "politically correct". L’idea che ci si debba vergognare di usare un linguaggio razzista in pubblico (questo è il "politically correct") riposa sull’osservazione ben documentata che l’escalation di comportamenti riprovevoli è indotta dal consenso (anche implicito o tacito) da parte degli altri. Se so di essere in minoranza quando dico "sporco negro" mi guardo bene dal dirlo in pubblico. I moralisti tacciano questa strategia educativa di ipocrisia dimostrando così di non capire che molto spesso i vizi privati (e l’ipocrisia è un vizio) sono facitori di virtù pubbliche.

Ha scritto Jon Elster che una delle molle psicologiche che ha reso la deliberazione pubblica possibile (e con essa il radicamento della democrazia) è stata proprio l’ipocrisia, la quale ha per questo, quando esercitata nella sfera pubblica, una funzione civica. Qual è infatti quel deputato che in Parlamento ha il coraggio di dire apertamente di essere lì a rappresentare un interesse fazioso o l’interesse di qualcuno, che vuole fare leggi per se stesso e i suoi interessi? Sappiamo che questi comportamenti sono tutt’altro che rari eppure è raro che vengano così pubblicamente confessati. Anche chi è lì a rappresentare solo se stesso giustificherà le proprie proposte di legge con l’argomento dell’"interesse generale". Certo, è ipocrita; ma è un’ipocrisia che mentre mostra che quel deputato è inaffidabile denota anche un fatto di grande valore: che l’opinione generale ritiene ancora che sia l’interesse generale a dover essere perseguito dai rappresentanti non quello privato o della propria fazione. Insieme alla doppiezza del deputato, l’ipocrisia rivela, se così si può dire, una certa solidità della cultura etica democratica. Il problema sorge quando non c’è più ipocrisia, quando il deputato non ha alcun ritegno a dire apertamente la ragione vera della sua elezione.

L’autocensura del "politically correct" presuppone una società nella quale il razzismo non è un’abitudine mentale della maggioranza. Ma una società nella quale ciascuno sa di poter apertamente essere razzista senza venir mal giudicato o redarguito (punito cioè con la disapprovazione pubblica) è a rischio di barbarie. L’Italia ha di fronte a sé questo rischio. Sarebbe sbagliato mettere la testa sotto la sabbia o rifiutare di vedere. E ancora più sbagliato scegliere la strada assolutoria. Prima che alla violenza, e proprio affinché questa venga scongiurata, è quindi al linguaggio che occorre prestare attenzione, perché esso è il veicolo primo e più potente del razzismo, proprio a causa della natura del linguaggio, un mezzo con il quale costruiamo l’oggetto di riferimento e il suo significato, una costruzione che è condivisa da altri e imitativa, non privata e personale.

Il linguaggio può essere usato per deumanizzare o onorare, per spogliare della dignità o per dare dignità. Per stimolare comportamenti violenti o comportamenti civili. Per questa ragione tutti coloro che svolgono servizi di responsabilità collettiva - dai politici agli insegnanti ai giornalisti agli operatori dello spettacolo - devono sentire tutta la gravità del loro ruolo: perché le loro parole circolano più estesamente e velocemente di quelle di tutti gli altri cittadini e perché essi creano modelli di comportamento. Il fatto gravissimo è che in Italia, sui giornali, in televisione e perfino in Parlamento, si fa a gara per tirar fuori la parola più razzista o l’espressione più volgare e intollerante. E il pubblico ride, senza rendersi conto che ridicolizza se stesso per l’insipienza con la quale questa sua noncuranza trascina la società in una spirale di disunione e violenza, con prezzi altissimi per tutti, anche per i razzisti.

Le società occidentali vivono in una paradossale situazione che ripropone in tutta la sua gravità la lungimiranza del paradigma di Thomas Hobbes secondo il quale, proprio perché difficilmente razionalizzabile, la paura indistinta e generica è la condizione peggiore per l’affermazione della pace sociale. Al tempo di Hobbes erano i profeti religiosi e i fanatici ad alimentare quella paura con l’arma della retorica e del linguaggio apocalittico delle sacre scritture. Oggi è la stessa società liberale che sembra trovare economicamente e politicamente conveniente alimentare una paura indistinta e anonima per nemici che possono essere dovunque e che sono totali. In ogni epoca, la pace civile è stata minacciata da tiranni, dittatori o demagoghi. Si trattava di minacce visibili e identificabili.

Oggi è il sistema sociale stesso che genera panico e minaccia la pace. Scrive Jaume Curbet in un libro sulla insicurezza in uscita presso Donzelli che espressioni generiche come "insicurezza urbana", "criminalità organizzata", "disastro ecologico", infine "terrorismo" creano un tipo di paura che molto più di quella per i tiranni del passato tocca le corde più ancestrali ed è quindi più estrema e meno risolvibile. Questo rende il bisogno di sicurezza un bisogno mai appagato tanto che neppure lo Stato riesce a trasmettere sicurezza attraverso la paura della legge. L’indistinta paura si traduce in soluzioni che sono altrettanto indistinte - che mirano più a colpire l’immaginazione dei cittadini che a risolvere la loro insicurezza. In effetti, una volta che la paura è associata a un oggetto indistinto, è al contingente che si presta più attenzione. Questo spiega la richiesta da parte dei cittadini di interventi immediati o del "qui e ora"; richiesta di provvedimenti di emergenza e di decisioni esemplari; soluzioni effimere (e poco in sintonia con le procedure e la deliberazione democratiche) che servono essenzialmente a tenere sotto controllo i sintomi dell’insicurezza. La politica della sicurezza nell’era dell’insicurezza indeterminata e globale, dove tutti subiscono l’influenza di tutti, ha una funzione essenzialmente sedativa.

Chiamiamo sicurezza lo stato psicologico che ci viene dal credere di vivere in un ambiente immutato, uguale a se stesso. Quindi ogni turbamento dell’ordinario status quo è visto come fonte di sicurezza. Questo spiega il paradosso descritto da Zygmunt Bauman: sebbene le nostre siano tra le società più sicure, ciò nonostante, molti di noi si sentono più minacciati, insicuri e spaventati, e sono quindi più propensi a cadere in preda al panico e ad entusiasmarsi di tutto ciò che è relativo alla protezione e alla sicurezza. In un mondo nel quale il rischio prende i contorni dell’imprevedibile e dell’indefinito, ai cittadini non importa sapere che le cause del pericolo sono complesse e non riducibili a una; desiderano soltanto che i rimedi siano semplici, immediati e soprattutto vicini nel tempo e nello spazio; esperimentabili nella quotidianità. Per esempio, la globalizzazione dei mercati e delle speranze di benessere porta milioni di immigrati a cercare una vita migliore nel nostro continente e nel nostro Paese. La trasformazione multietnica di molti quartieri delle nostre città basta da sola a mobilitare la paura, una paura senza una causa specifica; la prima condizione per domarla è che gli immigrati siano pochi o che siano e restino invisibili; che infine, o soprattutto, contro di loro si mobiliti lo Stato (e i privati cittadini se necessario) con tutti i mezzi disponibili, anche se arbitrari e anche se incostituzionali. Purché se ne vedano alcuni esiti immediati, anche se minimi.

Ma un aspetto nuovo di questa "ossessione per la sicurezza" consiste nel fatto che essa è anche un business sotto molti punti di vista. Esiste un mercato della insicurezza il quale, come ogni altro mercato, deve per poter prosperare e quindi alimentare il bisogno di sicurezza. Ecco il circolo vizioso del quale sono vittima le società democratiche mature: la paura generica alimenta il bisogno di sicurezza ed è a sua volta alimentata da questo bisogno. In cima a questa catena vi è la sicurezza come affare (politico prima di tutto, ma non solo, perché le "aziende" che offrono sicurezza sono sempre di più). Alimentare la paura artificialmente, dunque: questa è l’arte delle agenzie che si occupano della sicurezza. Ma come produrre insicurezza artificialmente? Se è vero che la paura anonima e indistinta è all’origine del panico dell’insicurezza, non c’è modo migliore per tenerla viva che creare capri espiatori. La storia è prodiga di esempi: la caccia alle streghe, la caccia agli ebrei, la caccia ai sovversivi. L’odierna insicurezza urbana è alimentata artificialmente dalla retorica dalla paura del diverso: zingaro, nero, extra-comunitario, musulmano. È certo che l’origine della nostra criminalità (causa tangibile e documentata di giustificata paura) non sta per nulla qui: l’Italia ha una criminalità organizzata e spietata che strangola metà o forse più del suo territorio nazionale, eppure giornali e televisioni ci parlano quasi soltanto degli episodi di violenza che coinvolgono gli "altri".

La politica dell’insicurezza trova un naturale alimento nelle politiche neoliberali, quelle che oggi godono di maggiore stima presso i nostri governi, politiche orientate principalmente a rispondere alle richieste di sicurezza di una popolazione spaventata più che a risolvere i problemi e i diversi conflitti che stanno all’origine delle varie manifestazioni di delinquenza. Le politiche della sicurezza hanno preso il posto delle politiche sociali. La filosofia dei governi di destra, come quello italiano, è che se disagio si dà questo non è un segno di ingiustizia sociale, ma invece di cattiva sorte e disgrazia, oppure di incapacità personale o mancanza di merito. In ogni caso, la carità umanitaria e religiosa può meglio dello stato sociale curare queste piaghe. Spetta quindi alle associazioni civili, alla famiglia (alle donne in primo luogo, potente surrogato dello stato sociale in ritirata) e alle parrocchie occuparsi della povertà. Lo Stato dovrà al massimo dispensare tessera di povertà ai bisognosi e sostegno economico a chi li soccorre. Ma il suo compito è un altro: quello di occuparsi dell’insicurezza generata dalla paura. Il neoliberalismo libera lo Stato dall’impegno di promuovere politiche sociali (questo è il significato della sussidiarietà) per occuparlo intensamente nel compito repressivo. Dissociando il disagio sociale dalla sicurezza viene messa in atto un’interessante divisione del lavoro tra società civile e Stato: la prima si occupa del disagio, il secondo della sicurezza.

Il paradosso è che, vivendo della insicurezza lo Stato sarà naturalmente portato a alimentare la percezione della insicurezza. Esso ha bisogno di cittadini impauriti per essere legittimato nel proprio ruolo. Lo fa moltiplicando esponenzialmente le sue polizie perché, come si è detto, è l’azione esemplare che colpisce l’immaginazione; quindi il territorio più vicino deve essere soprattutto curato e pattugliato - i quartieri, le città (questo spiega il favore che incontra la retorica federalista). Insieme alle polizie di Stato nascono e si moltiplicano piccole polizie private, in un crescendo di offerte di sicurezza, la quale è, come ha scritto Ulrich Beck, «come l’acqua o l’elettricità, un bene di consumo, amministrato sia pubblicamente che privatamente per ottenere benefici». In ogni caso, le frontiere apparentemente forti tra sicurezza pubblica e sicurezza privata sembrano svanire e quella che è una paura indistinta per il non consueto e il diverso diventa una formidabile merce: venduta dai governi per tenere alta la tensione e quindi incrementare consensi, amplificata dai media che sono comunque un prodotto di mercato, recepita dai cittadini nella solitudine dei loro quartieri che una paura generica alimentata ad arte sta desertificando.

Smontato lo statuto dei lavoratori

L'ultima sorpresa del ddl Tremonti

di Sara Menafra

Sottotraccia, senza grandi clamori, la camera dei deputati si appresta a stravolgere ancora un po' il diritto del lavoro. E, già che siam lì, a limitare le competenze dei giudici del lavoro.

Il colpaccio è contenuto nel Disegno di legge 1441 quater, ultimo erede di quell'enorme disegno di legge (il 1441, appunto) che il governo aveva presentato a giugno, collegandolo alla finanziaria, per poi trovarsi costretto a spacchettarlo in quattro tronconi. Ognuno con un frutto avvelenato, compreso questo, a sua volta geometricamente smontabile in quattro pessime mosse.

La prima, contenuta nell'articolo 65, alla voce «Clausole generali e certificazione», ha l'obiettivo, neppure nascosto, di limitare l'azione del giudice del lavoro alla sola valutazione di legittimità. Il testo è piuttosto chiaro: «In tutti i casi in cui le disposizioni di legge contengano clausole generali il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente».

Vuol dire, a farla breve, che il giudice del lavoro, non potrà andare oltre il controllo di legittimità. Lo spiega bene Claudio Treves, coordinatore del Dipartimento Politiche attive del lavoro nella Cgil: «Se prima un giudice, davanti ad un contratto a tempo determinato stipulato per l'aumento di produttività poteva valutare ed eventualmente sanzionare un contratto stipulato con un titolo inadeguato, adesso - chiarisce - dovrà valutare solo i requisiti formali del contratto».

Al comma due il quadro non migliora: «Il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro», così come previsto dalla legge Biagi. E ancora - e siamo al comma 3 - «nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento, il giudice fa riferimento alle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi ovvero nei contratti di lavoro stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione», di cui parla sempre la legge 30. Tradotto, vuol dire che il magistrato dovrà limitarsi a controllare che il contratto stipulato concordi col patto su cui si basa. E, quindi, non sarà sottoposto solo alla legge, ma pure ad un accordo che in astratto (ma, a sentire i sindacalisti, anche in concreto) potrebbe contenere parecchi problemi di legittimità.

Infine, negli articoli successivi, il testo si propone di «incentivare» l'arbitrato per risolvere le controversie di lavoro. E ai lavoratori licenziati, precari o no, lascia come unica strada 120 giorni di tempo per proporre ricorso al giudice, chiudendo la strada alle richieste «non giuridiche» che in molti casi risolvevano il problema grazie alla mobilitazione sindacale.

Il Partito democratico ieri pomeriggio ha firmato comunicati di fuoco. L'ha fatto il ministro della giustizia ombra Lanfranco Tenaglia - «si fa carta straccia dello statuto dei lavoratori, si torna indietro a trenta anni fa» - e quello del Lavoro, Cesare Damiano - «è grave che il governo tenti in modo surrettizio di cambiare radicalmente il processo del lavoro».

Si sa già come andrà a finire. Anche se la legge dovesse subire qualche scivolone, come è già capitato alla riforma del processo civile cascata in aula grazie alle assenze dei parlamentari Pdl, queste norme rischiano di volare all'approvazione del senato. E chiudere il cerchio che in pochi mesi ha fatto fuori la stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione e, se non fosse stato per una modifica ottenuta dal pd in commissione, rischiava di limitare il diritto ai permessi retribuiti. Una riforma del lavoro vera e propria. Spacchettata e confezionata per un consumo rapidissimo.

Contratti, il triplo inganno di Marcegaglia

di Loris Campetti

Lavorare in pochi, lavorare tanto, cioè più di prima, per guadagnare se va bene come prima. E prima - meglio dire adesso - i salari dei lavoratori italiani erano i più bassi d'Europa. E' questa, in due parole, la ricetta alla base dell'ipotesi di accordo presentata dalla Confindustria a Cgil, Cisl e Uil. I contratti nazionali vengono ridotti al puro recupero di una sola parte dell'inflazione, e quelli di secondo livello vincolati da un legame totale e indissolubile degli eventuali aumenti salariali alla produttività, all'utile d'impresa. Il tutto accompagnato dalla detassazione degli straordinari -per renderli addirittura più convenienti del normale costo orario della prestazione lavorativa - e dei premi di risultato, cioè degli aumenti conquistati nei contratti integrativi di secondo livello.

La proposta, come ha risposto all'unanimità il direttivo nazionale della Cgil, è irricevibile. Lo è in assoluto, perché riduce il lavoro a pura merce, variabile dipendente dai profitti. Lo è nello specifico, per la peculiare struttura produttiva italiana, frantumata in decine di migliaia di piccole imprese in cui non solo non si contratta, ma dove molto spesso il sindacato neppure riesce a metter piede. Dire che sia il recupero di una parte dell'inflazione che gli aumenti salariali sono demandati alla contrattazione di secondo livello, vuol dire discriminare i lavoratori e condannarne la maggioranza a un ulteriore impoverimento.

C'è una terza ragione che rende intollerabile, prima ancora che inaccettabile, la pretesa degli industriali, in piena coerenza con le politiche del governo (che è anche il padrone pubblico) e con il consenso di Cisl e Uil: con l'attuale precipitazione, la crisi finanziaria si estende all'economia reale, riducendo conseguentemente i consumi e dunque la domanda. In prospettiva, ciò significa esplosione della cassa integrazione nelle grandi imprese e licenziamenti in quelle più piccole. In questo contesto, quanti saranno i lavoratori in grado di conquistarsi il contratto integrativo?

Che effetto vi farebbe se vi dicessero che su tutto il territorio del Lazio e dell’Abruzzo non esiste più un solo filo d’erba, neanche un orto; che le due Regioni sono state completamente, e dico completamente, cementificate? Sono sicuro che la maggioranza degli italiani inorridirebbe. Forse avrebbero una reazione un po’ diversa tutti quelli che a vario titolo sono invischiati in speculazioni edilizie. O gli amministratori che devono fare cassa con gli oneri di urbanizzazione, ma credo, anzi spero, che non siano i più.

Se invece siete tra i più, sentite questa: negli ultimi 15 anni, se si fa un confronto tra i censimenti agricoli del 1990 e del 2005, in Italia sono spariti più di 3 milioni di ettari di superfici libere da costruzioni e infrastrutture, un’area più grande del Lazio e dell’Abruzzo messi insieme. Poco meno di 2 milioni di ettari erano superfici agrarie. Però nessuno sembra inorridire. Forse sarà a causa di una mentalità diffusa secondo la quale se non si costruisce non si fa, non c’è progresso economico. E questo lo dimostrano i programmi elettorali e la composizione delle liste stesse, soprattutto quelle relative alle elezioni amministrative: fateci caso, sono sempre infarcite di soggetti con evidenti interessi nell’edilizia. Sarà un caso?

Dal 1950 a oggi abbiamo perso il 40% dei territori liberi nel nostro Paese, negli ultimi anni il consumo medio annuo è addirittura cresciuto rispetto agli anni passati, quelli del boom economico (ed edilizio). Non ci sono solo gli "eco-mostri", tanti, che urlano con violenza tutta la loro protervia (sintomo di grande ignoranza) nel deturpare paesaggi e luoghi incantevoli lungo coste, colline e montagne del nostro Paese. Ci sono tanti "eco-mostriciattoli", e c’è tutta una tendenza a fuggire dall’ambiente urbano, sempre più brutto, caotico e poco salutare, per riparare in campagna, a colpi di villette che mangiano terreno utile alla produzione di cibo e tirano pugni in quegli occhi che ancora cercano bellezza. Prendiamo poi in considerazione l’edilizia per le attività produttive, dalle schiere di scatoloni di cemento che si snodano ininterrotte lungo molte nostre strade, fino al piccolo capannone isolato che abbagliati imprenditori ergono alle pendici (se non proprio in cima, perché nella mia Langa succede anche questo) di una collina particolarmente bella.

L’Italia è al primo posto in Europa per la produzione e il consumo di cemento armato, 46 milioni di tonnellate l’anno: le cave legali e abusive hanno un impatto paesaggistico tremendo, e i cementifici inquinano molto, mangiandosi vigne, campi coltivati, boschi, o compromettendo l’ecosistema di quelli viciniori che gli sopravvivono. Il tutto per foraggiare la costruzione selvaggia di villette a schiera, outlet, depositi e quant’altro. Non posso che sottoscrivere le parole di Giorgio Bocca quando, trovatosi a percorrere l’autostrada tra Milano e Firenze, scrive: «Il primo tratto tra Milano e Lodi si merita questo titolo: la scomparsa del paesaggio. La pianura del Po, "la più fertile e ricca regione d’Europa", come diceva quel re di Francia di nome Enrico, illustre invasore, la pianura dei pioppi e delle marcite, dei fontanili che sgorgano nei prati di erba medica, il paese di Bengodi, delle montagne di cacio e di ravioli, dei campanili svettanti nel verde, delle abbazie e delle cattedrali, dei battisteri policromi, degli Stradivari e dei culatelli è scomparso, sommerso da una distesa ininterrotta di fabbriche e fabbrichette».

Non c’è limite al brutto, al volgare, ed è giusto paragonare l’inghiottimento di un battistero policromo alla scomparsa di un prodotto gastronomico tradizionale. Riporto un’altra volta il dato: quasi 2 milioni di ettari di suolo agricolo sono spariti, come dire l’intero Veneto. Se da una parte ci scandalizziamo giustamente perché sparisce il bello - e viva le iniziative meritorie, come ad esempio quelle del FAI e di Legambiente, che ci documentano con regolarità le brutture peggiori e sanno coinvolgere i cittadini nella denuncia - la morte dei suoli agricoli sembra invece non interessare. È uno dei più grandi mutamenti che il nostro Paese ha subito nel secondo dopoguerra e non accenna a diminuire: sparisce la campagna, insieme ai contadini, si perdono spesso i terreni più fertili in pianura e in prima collina. Gli appezzamenti che resistono sembra che stiano lì, in attesa che qualcuno ci speculi su, perché diciamolo pure: non c’è bisogno di nuove case, l’edilizia è soltanto un’opportunità di investimento per chi già possiede bei capitali.

Il suolo, se non muore a colpi di fertilizzanti e pesticidi, sparisce: se la sua tutela non entrerà presto a far parte dell’agenda politica delle amministrazioni sarà ora che ci sia una mobilitazione popolare in sua difesa. È uno scempio senza fine, che pregiudica la qualità delle nostre vite in termini ecologici e anche gastronomici. Sì: gastronomici, perché ne va anche del nostro cibo, della sua qualità, della sua varietà e della possibilità di poterlo comprare senza che provenga da un altro continente, con tutti gli enormi problemi che ne conseguono.

L’ambiente è un diritto garantito dalla nostra Costituzione e non può esserci tutela dell’ambiente senza tutela del mondo rurale, sia per quanto riguarda la sua produttività, sia per quanto riguarda la sua bellezza. Gli enti locali fanno poco, anzi proprio loro vedono nell’edificabilità dei terreni agricoli e dei suoli liberi una via per fare quadrare i propri bilanci. La politica di Palazzo non se ne cura, e se pare normale da parte di chi governa e ha costruito le sue fortune proprio sull’edilizia, il silenzio dell’opposizione sulla tutela dei terreni agricoli diventa sempre più assordante. Il problema infatti è più che mai politico, oltre che etico e culturale.

Mancano delle politiche di territorio, come per esempio accade invece in Germania, dove per legge si cerca di riutilizzare aree già consumate e dimesse piuttosto che invadere nuovi campi, nuovo suolo, nuova agricoltura, paesaggi. Inoltre, i tedeschi, cercano di compensare nuove occupazioni andando ad agire su altre aree, con interventi di permeabilizzazione o naturalizzazione (contro il dissesto geologico, piantando nuovo verde). Tutto questo lo fanno senza rinunciare all’occupazione in edilizia, e certo senza aumentare il numero dei senzatetto. È solo questione di organizzazione, di razionalizzazione, e soprattutto di sentire il problema, che è gravissimo.

So che anche in alcune Regioni ci sono stati alcuni isolati interventi normativi tesi a migliorare la situazione ma bisogna per forza fare di più. Che si favorisca con incentivi la distruzione di obbrobri costruiti negli anni ?60 e già fatiscenti per riedificarci sopra qualcosa di bello, che si realizzino recuperi dell’archeologia industriale o di quelle aree urbane fortemente degradate: il lavoro per i costruttori non mancherebbe di certo. Che si tutelino per legge le aree rurali più importanti, come fossero Parchi Nazionali.

Lasciate stare i suoli agricoli, sono una risorsa insostituibile, pulita, bella e produttiva. Sono il luogo che ci fa respirare, che riempie gli occhi, che ci dà da mangiare e che custodisce la nostra memoria, la nostra identità. Continuare a distruggerli, dopo tutto lo scempio che è già stato fatto, non è da Paese civile e un Paese civile dovrebbe predisporre i giusti strumenti di tutela per dare più scuse a chi lo fa.

Postilla

Argomentare cause giuste con cifre sballate è un regalo che si fa all’avversario. Anche Petrini commette l’errore di confondere la riduzione della superficie agraria con l’aumento delle aree urbanizzate. È un errore grave, simmetrico rispetto a quello di calcolare l’aumento dell’urbanizzazione basandosi sulle quantità misurate con il programma Corine di rilevamento satellitare.

Come abbiamo più volte scritto in eddyburg, nel primo caso si sommano alle superfici urbanizzate tutte quelle che corrispondono all’abbandono colturale, alla progressiva sparizione delle aziende agricole marginali da agricole sono diventate incolte o restituite al “selvatico”. Nel secondo caso non si contano le aree che sono urbanizzate dalle infrastrutture e dall’insediamento sparso, che occupino con continuità superfici inferiori a 25 ettari.

Che il consumo di suolo, utile solo ai cementificatori parassiti, sia gigantesco è indubbio; che sparare cifre sbagliate contribuisca a consolidare i cementificatori lo è ugualmente.

A una delle figlie del presidente del Consiglio è sfuggita qualche giorno fa una dichiarazione singolare e parecchio infelice: forte della sua esperienza di imprenditrice e militante politica, Marina Berlusconi ha vantato le virtù di un governo che finalmente fa quello che gli italiani chiedono, cioè decide, aggiungendo «che di governi che decidono non c’è mai stato tanto bisogno come adesso, con questo tsunami che sta scuotendo l’economia mondiale e la speculazione che ha messo nel mirino anche le nostre banche».

È a questo punto che stupefatta si è domandata: come mai, se così stanno le cose, l’opposizione invece di criticare questo o quel provvedimento «tira ancora in ballo il rischio di regime»? Il mondo è troppo burrascoso e vasto, per indugiare su questioni marginali. È come mettersi a spolverare un comodino, mentre le pareti ti cascano addosso. Come mai tanto spreco d’energia, tanta passione per l’irrilevante? Molti ragionano come l’imprenditrice: in effetti certe lentezze della democrazia, certe sue puntigliose regole, son vissute come ostacoli alla decisione lesta che s’impone.

John McCain, candidato alla presidenza Usa, voleva addirittura sospendere la democrazia e interrompere la competizione con Obama, a causa della frana finanziaria. Fare le due cose insieme - salvare l’economia e preservare il conflitto che della vita democratica è il sale - sembra impresa non solo difficile ma inopinata.

Dichiarazioni simili sono singolari perché del tutto prive di memoria: le crisi economiche, a cominciare dal grande crollo del 1929 e dal successivo decennio di depressione, hanno inaugurato epoche in cui le istituzioni liberali hanno più vacillato, in alcuni casi naufragando. Gli Stati veramente liberali non hanno mai cessato di funzionare, uscendone invece rafforzati. Non è dunque ozioso discutere sui rischi di regime, in presenza della scossa finanziaria, per il semplice fatto che gli esecutivi tendono a irrigidirsi, in queste circostanze. Certe volte non si sa neppure bene cosa venga prima: se l’emergenza vera, o l’uso antidemocratico del discorso emergenziale. Il ricorso a vocaboli catastrofici come tsunami è significativo: l’inondazione è come un’orda che irrefrenabile avanza. S’apparenta alla guerra, e in guerra non c’è spazio per gli ingredienti liberali classici: separazione dei poteri, controllo dell’esecutivo e decentramento decisionale, indipendenza della giustizia, rispetto della Costituzione e della legalità, critica esercitata dai giornali.

L’esempio della repubblica di Weimar è tra i più istruttivi. Il governo di Franz von Papen restrinse le regole democratiche prima ancora che Hitler prendesse il potere, e nonostante i nazisti avessero già cominciato a calare nelle elezioni del novembre ’32. L’invocata forza di causa maggiore era anche allora l’economia. In suo nome fu eliminata l’autonomia della Prussia, e fu annunciato (in un libro del pubblicista Walther Schotte con la prefazione di von Papen, nel ’32) un «Nuovo Stato» decisionista: riordinato in maniera autoritaria, capace di decidere perché affrancato dal ricatto dei partiti, con un Parlamento esautorato. Nel settembre 1932, quattro mesi prima dell’ascesa di Hitler, furono abolite conquiste rilevanti dello stato sociale, introdotte da Weimar.

Esistono poi esempi più recenti. A partire dall’11 settembre e dalla guerra in Iraq, la Casa Bianca ha svuotato la democrazia accampando l’emergenza bellica: ha aggirato la Costituzione e le convenzioni internazionali, ha accentrato i poteri dell’esecutivo, ha tolto poteri ai giudici, ha cercato di piegare la stampa. Cheney alla vice presidenza teorizzò la «flessibilità» della Costituzione - un argomento ripreso da Sarah Palin, candidata alla vice presidenza - e facilitò la doppia deriva di Bush: la manipolazione della realtà che precipitò la guerra in Iraq, e l’impunità d’un esecutivo sottratto alle procedure di controlli e contrappesi (check and balance) che fondano il liberalismo politico.

Gli tsunami - siano essi naturali, militari, economici - non inaugurano tempi in cui interrogarsi sulla democrazia diventa meno importante. Diventa più che mai importante, e per questo la domanda di Marina Berlusconi oltre che immemore è infelice. Quando l’esecutivo non è disciplinato da altri poteri («Perché non ci sia abuso di potere, occorre che il potere arresti il potere», secondo Montesquieu) l’errore di decisione diventa più probabile, non meno. Il leader può avere il carisma del capo (il carisma «dell’azione e dell’esempio», dice Max Weber) ma può svegliare spettri che poi non controlla più, se non con misure illiberali estreme. L’Italia auspicata ultimamente da Berlusconi (essendoci troppo conflitto si vieterà a giornalisti e magistrati l’uso delle intercettazioni; l’esecutivo deciderà sempre più con decreti ed eviterà contraddittori in tv) è un Paese dove per forza ci si chiederà: è un regime? È un Paese dove le crisi saranno meno governabili, perché informazioni e controlli son mancati?

La crisi scoppia quando la realtà viene manipolata o occultata, e quando la decisione è magari veloce ma poggia su tale manipolazione o nascondimento: nascono così le bolle, i mondi paralleli che sembran veri senza esserlo. Nel 2005 avremmo ignorato i rischi economici che gli italiani correvano, se non fossimo stati informati sugli abusi di furbetti e Banca d’Italia. Ci saremmo trovati davanti a un male non curato in tempo, perché non visto. La trasparenza delucida e può prevenire le crisi. Non le provoca, contrariamente a quel che sostiene Cheney quando evoca il Watergate.

Parlare di tsunami finanziario in questi termini è proporre, ancora una volta, la logica emergenziale: una logica che mette in risalto i difetti della democrazia, che in essa non vede altro che clasa discutidora, classe chiacchierona, come nelle requisitorie ottocentesche di Donoso Cortés. Una logica che favorisce la nascita del Führerprinzip, il principio di comando assoluto fatto proprio non solo da Hitler ma da von Papen. Che spinge i governi a chiudersi nell’illusione di fare da sé: anche per questo è cruciale il vertice finanziario che Sarkozy ha convocato ieri a Parigi per metter fine a autarchiche chimere. La politica della paura ha finito col generare l’economia della paura, e non a caso la crisi finanziaria è paragonata all’11 settembre. Anche in Italia è così: stessa economia della paura, stessa paura non solo dell’opposizione ma del diverso, dello straniero. Berlusconi, il decisionista che vorrebbe rincuorare la nazione, accentua negli italiani le «tendenze alla chiusura autarchica e all’arroccamento sociale», e ha in realtà «poca memoria e pochissima speranza»: lo scrive con lucide parole don Vittorio Nozza sull’Osservatore Romano del 27 settembre.

Chi invoca l’emergenza dice che pensa a Main Street più che a Wall Street, al cittadino più che agli speculatori. Ma Main Street ha bisogno di una democrazia con poteri suddivisi e autonomi, ha bisogno di responsabilizzarsi sapendo come si è arrivati a questo punto e in seguito a quali menzogne. Se attorno a sé vedrà sprezzo delle leggi e magistrati inermi accetterà il caos per infine scoprire che sarà lei, comunque, a pagare. Lo si vede in America e in Italia. Per non aver detto la verità ai cittadini, il governo ha salvato l’Alitalia affidando a una cordata di industriali solo la parte buona della compagnia, e lasciando che gli italiani paghino debiti finanziari, prestito ponte, debiti con fornitori, ammortizzatori sociali, tutela degli azionisti. Secondo Carlo Scarpa e Tito Boeri la somma pagata dallo Stato - dal contribuente - oscilla fra 2,9 e 3 miliardi di euro (www.lavoce.info). Verità, separazione dei poteri, libera informazione: in tempi di tsunami, vigilare sulla società aperta e i suoi nemici interiori non è secondario, ma vitale.

Che deve pensare una cittadina come me, sprovveduta di teoria e pratica economica e perseguitata da vent'anni dal coro «meno stato più mercato», quando legge che la Camera dei rappresentanti e il Senato degli Usa stanno decidendo di stanziare 700 miliardi di dollari pubblici per coprire il gigantesco buco che banche e assicurazioni private hanno fatto? Prima di tutto, che vuol dire? Che con questi 700 miliardi di dollari lo stato federale si fa carico, cioè fa carico ai contribuenti, dell'immenso buco scavato da banchieri e assicuratori senza avere nulla in cambio, soltanto perché le macerie non precipitino su tutti, tipo 1929? Oppure che in cambio mette un guinzaglio su quelle proprietà, stabilendo quel che possono o non possono continuare a fare, alla faccia della libertà di impresa, sacra fino all'altro ieri? O che addirittura le hanno nazionalizzate, nel senso che sono diventati proprietari diretti di banche e assicurazioni?

Idem per l'Europa. Negli Stati uniti il congresso aveva emesso qualche lamento e prima di votare il Senato ha imposto degli emendamenti, mentre nel vecchio continente qualcuno ha deciso in meno di 24 ore di salvare Fortis e Texia e il presidente francese, nonché attualmente della Ue, Sarkozy, doveva annunciare ieri che la Ue istituiva un fondo di 300 miliardi di euro per salvare banche e assicurazioni europee in eventuale emergenza? Senonché Angela Merkel, che di questo non era stata informata, sta lanciando alte strida: «La Germania non ci metterà un soldo», per cui allo stato dei fatti Sarkozy rinunciava ad annunciare, e domani si vedrà. Intanto, l'opposizione vuol sapere perché la Francia, che dichiara vuote le sue casse, ha salvato con soldi suoi una Texia, che è di proprietà belga e della quale non detiene che una non significante minoranza. Nelle stesse ore l'ex cervello socialista e faro della sinistra, Attali, propone che i governi facciano, e subito, senza divulgare né prima né poi le cifre sennò i cittadini si spaventano, ritirano i depositi e patatrac. Ma l'Irlanda, rinvigorita grazie ai fondi europei, concorre e compete spudoratamente garantendo al cento per cento e in ogni caso chiunque depositi nelle banche sue. Sempre nelle stesse ore, il nostro premier, simile a San Michele Arcangelo, garantisce che difenderà con la spada ogni correntista italiano e più in generale che l'Italia non sarà toccata dal cataclisma. Tremonti rincalza assicurando che tutto è sotto controllo e nel contempo la Bce informa che la crescita è sotto zero. Va a capire, povera cittadina.

Mi dessero lumi gli economisti di sinistra, quelli marxisti ma anche soltanto i keynesiani di una volta, davanti allo sconquasso del sistema liberista e dunque democratico. Perché - ha ragione Valentino Parlato - non possiamo esultare: avevamo ragione nel dire che il neoliberismo è insensato e alquanto criminale, mentre tutto precipita e come sempre saranno gli stracci a volare. Che faremmo se fossimo al governo? Che chiederemmo di fare a Prodi se non fosse stato rovesciato? Prima di tutto occorre iniettare liquidità, ci ammoniscono da tutte le parti, giacché così chiamano questa colossale espropriazione di denaro pubblico per guasti di unaminoranza di malfacenti coperti dall'ideologia generale. Nient'affatto economica ma politica, come ha scritto giovedì Ezio Mauro e figuriamoci se non siamo d'accordo. Ma cosa bisognerebbe fare subito e a medio termine, questo è il problema numero uno della sinistra. Il mio amico Mario Tronti ammonisce che essa deve essere grande e non solo esprimere i lavoratori ma «parlare ai lavoratori». Appunto. Il problema è che cosa dire. Che cosa hanno detto ieri e dicono oggi i Veltroni e i D'Alema, i Bertinotti e i Ferrero, e noi stessi? Andiamo a vedere e prendiamo il toro per le corna.

Lo dico anche a noi stessi, che non abbiamo imbrogliato nessuno, a differenza di molta stampa e siamo spesso rimproverati perché i nostri avvertimenti sono sgradevoli. Meno sgradevoli di quel che sta succedendo. Tanto per ricordare che se chiediamo dei soldi per tirare avanti, non conviene soltanto a noi, ma a un minimo di senso comune che il manifesto non sia azzittito.

È auspicabile che i presidenti della Camera e del Senato siano lesti nel cogliere gli scricchiolii della pacifica convivenza e promuovano un osservatorio parlamentare sul razzismo che ormai tracima dalla greve licenza verbale in troppi episodi di violenza fisica. Lo stesso governo della “tolleranza zero” ha interesse a far suo un allarme che non riguarda più solo il diffondersi dell’inciviltà, ma anche l’ordine pubblico.

Episodi come il pestaggio del giovane Samuel Bonsu Foster a Parma o l’umiliazione inflitta alla signora Amina Sheikh Said all’aeroporto di Ciampino - quali che siano gli esiti delle indagini - evidenziano un’impreparazione culturale di settori della forza pubblica nella pur necessaria opera di vigilanza e prevenzione anticrimine. Problemi simili esistono nelle polizie di tutto il mondo, il cui aggiornamento professionale deve tenere conto delle mutate condizioni ambientali. Ma ancor più inquieta l’ormai lunga collezione di aggressioni, squadristiche o individuali, che si tratti di pogrom incendiari contro gli abitanti delle baraccopoli o di sprangate sulla testa del malcapitato di turno. Tale esasperazione è stata spesso giustificata dagli imprenditori politici della paura come legittima furia popolare. Minimizzata tributando demagogicamente lo status di vittime ai “difensori del territorio”. Fino a quando c’è scappato un morto: Abdoul Salam Guiebre. Ma nella stessa città di Milano la guerra tra poveri ha riproposto il bis martedì al mercato di via Archimede. Stavolta non per un pacco di biscotti: Ravan Ngon è stato pestato con una mazza da baseball dal venditore di frutta e verdura alla cui bancarella si era avvicinato troppo con la sua merce abusiva. Lo stesso giorno, nella borgata romana di Tor Bella Monaca, una banda di teppisti adolescenti pestava, così, a casaccio, Tong Hongshen, colpevole solo di aspettare l’autobus. Abdoul Salam Guiebre, Tong Hongshen, Ravan Ngon: nomi difficili da pronunciare, figure giuridiche differenti (un cittadino italiano, un immigrato con permesso di soggiorno, un altro che vive qui da cinque anni senza essere riuscito a regolarizzarsi), ma innanzitutto persone. Nostri simili che stentiamo a riconoscere come tali, di cui preferiamo ignorare le vicissitudini e i diritti.

Nelle interviste trasmesse da Sandro Ruotolo a “Annozero”, abbiamo udito i parenti dei camorristi accusati dell’eccidio di Castel Volturno manifestare indignazione: la polizia si muove “solo quando i morti sono neri”! Che si trattasse di una vera e propria strage, sei omicidi, passava in second’ordine. Temo che quell’infame, velenoso rovesciamento delle parti tra vittime e carnefici, rischi di diventare in Italia senso comune, se le istituzioni non interverranno per tempo.

Di certo non aiutano i pubblici elogi di Maroni al vicesindaco di Treviso, che sul suo stesso palco si riprometteva di cacciare i musulmani “a pregare e pisciare nel deserto”. Come se non fossero già centinaia di migliaia i nostri concittadini di fede islamica. Non aiutano i giornali filogovernativi che attribuiscono all’intero popolo zingaro una congenita propensione al furto. Non aiuta il cortocircuito semantico che equipara il minaccioso stigma di “clandestino” a un destino criminale. La regressione culturale di cui si è detto preoccupato anche il presidente dei vescovi italiani, Angelo Bagnasco, ha tra i suoi responsabili gli spacciatori di stereotipi colpevolizzanti che nel frattempo promettono l’impossibile: un paese in cui, grazie alla mano forte delle nuove autorità, i cittadini siano esentati dalla fatica della convivenza.

Così come si è rivelato fallace ? inadeguato all’offensiva reazionaria ? l’espediente retorico di una sicurezza che non sia “né di destra né di sinistra”; altrettanto insulso rischia di apparire oggi il richiamo al binomio “diritti e doveri” degli immigrati. Giusto, certo. Ma astratto, fin tanto che non verrà indicato loro un percorso praticabile d’integrazione e cittadinanza. O preferiamo forse che si organizzino separatamente per farci sentire la loro protesta, esasperando una contrapposizione separatista fino allo scontro con le istituzioni?

Tra i sintomi della regressione culturale c’è anche la miopia con cui le forze democratiche del paese, a cominciare dal Pd, finora hanno ignorato la necessità di dare rappresentanza politica agli immigrati. Sarà forse poco redditizio elettoralmente, ma è decisivo per il futuro della nostra società che si affermino leadership responsabili, organizzazioni accoglienti, punti di riferimento alternativi ai capiclan e ai propagandisti dell’integralismo religioso. Persone che hanno avuto l’intraprendenza di emigrare per sfuggire a una sorte infelice, e che spesso hanno conseguito traguardi culturali e professionali significativi dopo essere approdati senza un soldo sulle nostre coste, possono contribuire anche al rinnovamento della politica italiana, bisognosa di ritrovare idealità e speranza.

«Un esempio di cattiva politica, un classico esempio di politica asimettrica». Stefano Rodotà non ricorre certo a giri di parole per definire il decreto Tremonti sull'editoria, quel decreto «taglia fondi» che sta mettendo a repentaglio l'esistenza stessa della stampa indipendente.

Professor Rodotà, a cosa si riferisce quando parla di politica asimmetrica?

Ad una politica che, incapace di selezionare, tende a considerare alla stessa stregua situazioni differenti così disattendendo, peraltro, un principio di rango costituzionale. Mi spiego. E' vero che ad oggi il capitolo dei finanziamenti pubblici ha registrato numerosi abusi ma questo argomento viene utilizzato come puro pretesto per cancellare del tutto la presenza pubblica e così impedire qualsiasi forma di pluralismo democratico.

Una sorta di pulizia etnica che non risparmia neanche le cooperative.

Anche qui vale lo stesso discorso. Non che il mondo della cooperazione sia esente da ambiguità ma è sempre compito della politica individuare e denunciare tali ambiguità intervenendo caso per caso. Per restare all'editoria, ci sono cooperative la cui esistenza è garanzia di pluralismo e altre, viceversa, che esistono solo per accedere alla finanza pubblica. E i parametri per attuare una selezione rigorosa , come su queste pagine ha ricordato il Gruppo di Fiesole, ci sono.

Selezione qualitativa a parte, l'asimettria riguarda anche aspetti più specificatamente economici: salvaguardia dei contributi indiretti destinati ai grandi gruppi editoriali e taglio di quelli diretti di cui beneficiano le testate indipendenti.

L'operazione è palese e, se mi permette, ha ben poco di economico e molto di politico.

Cosa intende dire?

Intendo dire che alla grande stampa vengono garantiti presenza sul mercato e, dunque, profitto mentre sulla stampa cosiddetta minore si interviene al fine di eliminarne la possibilità stessa di esistenza. Come si fa, sulla base di queste condizioni, a restare sul mercato?

Professore, non lo dica a noi! Quanto al governo, qualcosa almeno ci guadagnerà...

Diciamolo con chiarezza. Il costo economico di questa operazione è assai modesto, le sue "grandezze" economiche sono modeste. Lo ripeto, ci troviamo di fronte ad una operazione che è tutta e soltanto politica. E questo, dal mio punto di vista, costituisce un'aggravante.

Un decreto per mettere a tacere il dissenso da qualsiasi parte esso provenga?

Molto di più. Proviamo ad allargare il discorso e a non soffermarci solo sul mondo dell'editoria. Ciò che è in atto è il tentativo di impedire - o comunque di ridurre al minimo e a tutti i livelli la produzione, la circolazione e la diffusione delle idee. Prova ne siano la situazione drammatica in cui versa l'università e la costante minaccia di smantellamento sotto cui vive l'intero sistema dell'istruzione.

Parliamo, naturalmente, della pubblica istruzione visto che di quella privata sinanco il pontefice non manca di farsi quotidianamente carico.

Anche qui, sono sbalordito e le mie propensioni laiche, contano assai poco. Il papa si esprime a favore di una sostanziale parità tra scuole pubbliche e private ma poi chiede maggiori finanziamenti per quelle non statali. E già non ci siamo: tutti sanno che l'articolo 33 della Costituzione, pur garantendo alle scuole private il sacrosanto diritto di esistere, specifica che tale diritto deve essere "senza oneri per lo stato".

Diciamo che il pontefice fa il suo dovere...

E infatti a lasciarmi sbalordito sono più le reazioni del ministro ombra all'istruzione che ci chiede di prestare la massima attenzione al richiamo del papa. E lo fa senza traccia di critica alcuna. Altro che 'senza oneri per lo stato'. Qui, al contrario, degli oneri si chiede che vengano aumentati proprio mentre la scuola pubblica viene fatta oggetto di tagli sconsiderati. Si tratta di una contraddizione enorme perché in momenti di crisi economica, compito primo e dovere dello stato dovrebbe essere proprio quello di destinare alla scuola pubblica tutte le risorse finanziarie disponibili.

Editoria, università, scuola. Mi pare di capire che la vera posta in gioco sia la democrazia.

E' così. Se è vero che la democrazia è il 'luogo' che consente a tutti di essere esposti al maggior numero di opinioni possibili, allora la scuola e l'intero sistema di formazione e di informazione devono essere in grado di fornire a tutti i cittadini la medesima possibilità. E la scuola, sotto questo aspetto, è il punto nevralgico della formazione civile, è il 'luogo' in cui si impara ad accettare gli altri. Se noi costruiamo ghetti all'interno delle scuole non facciamo altro che gettare le basi di una società del conflitto, di un conflitto permanente.

Con buona pace della coesione sociale.

L''essere esposti' è, appunto, la condizione necessaria della coesione sociale. Se non vedi l''Altro', la società si impoverisce e ciò che si determina sono solo fenomeni di esclusione.

Eppure c'è chi sostiene che anche il privato possa contribuire a produrre democrazia e cultura.

Si tratta di affermazioni dietro cui si nascondono ignoranza o ipocrisia. In Italia non c'è senso sociale dell'impresa e il mondo della cultura è costretto a cercare finanziamenti dalle fondazione bancarie. Questo non è arricchimento ma impoverimento della democrazia.

A proposito di impresa, non le sembra eccessivo il ruolo giocato dal mercato pubblicitario nel destino dell'informazione?

Anche qui siamo di fronte ad una vera e propria anomalia. In altri paesi non esiste la possibilità da parte del sistema televisivo di drenare risorse pubbliche. Da noi c'è addirittura un presidente del consiglio che detiene, insieme, il controllo del settore televisivo pubblico e privato. Settore che 'guida' l'80% delle scelte dell'opinione pubblica. E' al restante 20% che dobbiamo pensare, garantendo non un astratto pluralismo ma l'opportunità di essere esposti al maggior numero di opinioni possibili..

Postilla

Nel dare notizia oggi del contributo al manifesto raccolto nell’ambito della Scuola di eddyburg 2008, il giornale riporta il messaggio con il quale abbiamo accompagnato il versamento scrivendo, tra l’altro, che la nostra “ci è sembrata un'iniziativa egoistica, perché saremmo tutti disperati se in Italia la critica e l'informazione indipendente si spegnessero e, soprattutto, se il manifesto dovesse chiudere”.

L’intervista a Rodotà ci stimola ad affermate che la decisione del governo, se confermata, renderebbe ancora più intenso e pervasivo quel processo di annullamento della capacità critica degli italiani che le cronache, e le esperienze personali ogni giorno rivelano. Dominio delle pulsioni e degli interessi individualistici, scomparsa della solidarietà, sgomitamento per prevalere sugli altri, evasione fiscale, disprezzo della legalità, adeguamento al più becero senso comune, infantilizzazione del linguaggio, e poi giù giù fino al razzismo. Questo è il prezzo che abbiamo già pagato. Risalire la china sarà impossibile se riusciranno a spegnere quel poco di spirito critico e di informazione libera che sopravvivono.

Il razzismo che riemerge. La rivalutazione di Salò. La caccia al rom. Il consenso totale al Capo. Siamo al nuovo fascismo? No, rispondono storici e intellettuali. Ma la democrazia è in pericolo

Esagerato? Forse. Ma c'è un intellettuale che, viste le camicie nere e i saluti romani in Campidoglio, sommati i discorsi del nuovo sindaco Gianni Alemanno e quelli di Ignazio La Russa, ha deciso che l'Italia non fa più per lui.

Predrag Matvejevic, l'autore del fortunato Breviario mediterraneo, a Roma ci ha vissuto, e bene, dal 1994 all'altro ieri e ha insegnato letterature slave alla Sapienza. Adesso risponde da Zagabria col tono tra il battagliero e la delusa nostalgia: “Ho fatto le valigie. Se devo lottare contro il neofascismo lo faccio dove sono nato”.

L'Italia è stata (con la Francia) la sua isola felice in una vita apolide. Figlio di un russo menscevico di Odessa, nato a Mostar nel 1932, vissuto ragazzo sotto l'occupazione italiana, fuggito dai Balcani quando, dopo i comportamenti “fascistoidi” di Tudjman e Milosevic, si è ritrovato con la cassetta della posta crivellata di proiettili, ora ha deciso per un nuovo trasloco. Ha conosciuto tutti i totalitarismi del Novecento e confessa di “avere paura” per noi. Spende, per definirci, il termine già usato per certi regimi dell'Est, di “democratura”, crasi tra democrazia e dittatura. Non pensa al manganello e all'olio di ricino, però è preoccupato che “tanti discorsi parafascisti che ho sentito anche tra la gente”, coniugati con la crisi finanziaria internazionale, inducano gli italiani ad affidarsi a una “mano forte”.

Certo: per Matvejevic scatta il riflesso condizionato della sua storia personale. Però, se si mettono in fila una serie di fatti, certi interrogativi su una deriva autoritaria diventano almeno legittimi. I roghi nei campi rom, sindaci che seppelliscono il politicamente corretto per annunciare che “i negri puzzano anche quando si lavano”, Borghezio che va al raduno neonazista di Colonia, l'invocazione securitaria, la rilettura benevola del fascismo e persino della sua degenerazione lacustre (Salò) a opera di ministri e capipopolo.

La ridicola disputa sul male assoluto tra politici e storici dilettanti tracima sui media come fosse una discussione tra Karl Jaspers e Hannah Arendt. Come si definisce tutto questo? E se 'neofascismo' è troppo, quale termine pescare dal vocabolario? Serve un nuovo conio? L'Italia è il laboratorio di un 'nuovo' indefinibile al momento? Potrebbe venire in soccorso la parola 'barbarie'. Rotte le convenzioni, anche quelle ipocrite, il profluvio verbale non conosce limiti. Ma le parole definiscono il mondo, anche quando vengono ritirate il giorno dopo. Resta il fatto che non c'è nessun paese occidentale nel quale un premier può andare in tv senza contraddittorio con miss e medagliata di turno. E in nessun paese le veline della censura d'antan diventano culto mediatico.

La sbornia di consenso attorno al governo e al presidente Silvio Berlusconi possono essere la concausa della rottura di freni inibitori. Permette al trucido sepolto di venire a galla grazie all'investitura popolare. Sorride un po' delle nostre paure uno che ci conosce bene come il professore francese Marc Lazar, storico della politica italiana e a Roma stabile, per lavoro, da più di un anno: “La voglia dell'opinione pubblica di avere qualcuno che decide non significa che ci sia il fascismo”, dice. Semmai è successo qualcosa di diverso: “Da una quindicina di anni la destra è riuscita a vincere culturalmente dopo un lungo periodo caratterizzato dalla dominazione culturale della sinistra”.

Le grandi dottrine politiche sono finite. L'appiglio per definirsi diventano i valori “e la destra ha saputo imporne alcuni che le sono propri, in sintonia con la società”. Ha usato, per ripetere una convinzione diffusa, le televisioni per far giungere il proprio messaggio? “A livello di massa senza dubbio. Ma non si è fermata lì. Funzionano think tank e fondazioni bene organizzate”. Gli italiani, conclude Lazar, non hanno voglia di fascismo, “però la paura è cattiva consigliera. Recentemente ero a Firenze e mi sono reso conto che, nel centro, ci sono videocamere dappertutto È come se ti dicessero: siete sorvegliati per la vostra sicurezza. Avete questa ossessione e un governo che cavalca il consenso potrebbe essere tentato di prendere misure che restringono diritti umani e libertà”.

Anche per Mario Isnenghi, cattedra di storia contemporanea a Venezia, 'fascismo' è termine da maneggiare con cura. Non si stupisce, tuttavia, che riaffiori nel dibattito, “è un logico paradigma storico”, ma propone piuttosto “democrazia autoritaria”. Pensa a Berlusconi più che ai postfascisti o ai leghisti: “Per Fausto Coppi si usava l'espressione 'un uomo solo al comando'. Non è fuori luogo riproporla per il premier”. Coglie alcune analogie tra il Mussolini comunicatore di massa e l'imprenditore moderno della comunicazione e del virtuale e si premura di aggiungere: “Non c'è nulla di pregiudiziale in questo riscontro”.

Semmai l'equivoco deriva dal fatto che 'fascismo' riporta al passato, mentre qui siamo nella modernità e oltre. Berlusconi e non solo. Lui sarebbe il demiurgo di atteggiamenti mentali che, 'per li rami', scendono nei quadri intermedi. Dove ognuno porta un suo specifico. I leghisti la frammentazione antistatuale, i postfascisti una strisciante rivalutazione del ventennio. Isnenghi considera segno dei tempi che, in occasione del bicentenario di Garibaldi, si sia dato spazio persino a qualche nostalgico dei Borboni e del Papa Re: “Con questa finzione pluralista si rimescola la storia e si sottintende che non c'è nulla di vero e provato, ma tutto è negoziabile”.

Tutto diventa lecito. Commemorare per Porta Pia i caduti papalini, ad esempio: è appena successo. O rileggere con la lente dei vincitori di oggi anche le pagine di storia assodate. Con quale scopo? O meglio,ricordare quelli del battaglione Nembo assieme ai partigiani a cosa serve? Giovanni De Luna, storico dell'Università di Torino, prova a mettere ordine. “Sgombriamo il campo da alcuni equivoci”, dice, “e cominciamo col distinguere tra storia e memoria”. La confusione tra i due generi aiuta e nutre coloro che la nostra storia la vogliono manipolare per ridefinire i valori della Repubblica. “La memoria è individuale: quindi carica di emozioni e di rancore”. E la storia invece? “È pacata, perché frutto di ricerche, perché fatta da chi se ne intende”.

E qui De Luna fa una precisazione e un'autocritica: “La Russa può rivendicare il patriottismo dei soldati del Nembo perché viviamo in un abisso di ignoranza della storia. Perché nessuno sa che quei soldati erano inquadrati organicamente nella Wehrmacht, non difendevano la patria (neanche quella fascista), ma il Terzo Reich. La colpa di questo stato di cose è di noi che insegniamo la storia, sia nelle scuole, che come me, nelle università”. La scuola è ferma ai vecchi manuali che gli studenti non vogliono leggere, incapace di usare mezzi audiovisivi, raccontare ciò che si vede nelle foto e nei filmati”, mentre quella che viene raccontata nelle trasmissioni tv “è una storia usa e getta, che rifiuta la complessità: appiattita al presente consumista”.

La parola storia evoca polverosi archivi, biblioteche e dispute tra iniziati. Ma proprio ciò che sta succedendo dovrebbe ribaltare questo cliché. Perché da una storia rivista e corretta si cerca una legittimità per le scelte politiche che si andranno a compiere. “La destra”, è la tesi di De Luna, “si approfitta dell'ignoranza e della confusione per ridefinire lo spazio pubblico della memoria”. A questo scopo serve riaprire (o mai chiudere) le controversie. Anche in Francia c'è la memoria di chi stava dalla parte di Dreyfus e chi era antisemita, tra chi stava con Vichy e chi con la resistenza, male questioni sono chiuse. “Da noi questioni analoghe sono aperte perché la destra non ha il coraggio di dire direttamente di voler cambiare le fondamenta del nostro vivere civile”, fondamenta antifasciste, o se vogliamo, i valori della Costituzione. La manipolazione del passato è una scappatoia a chi manca il coraggio di dire apertamente come si immagina un futuro, basato su valori diversi da quelli della Repubblica. “Per loro (a eccezione di Fini) l'antifascismo non è un valore. Ma non osano dirlo esplicitamente”. Quando lo fanno, invocano le attenuanti di non essere stati bene intesi (le solite colpe dei giornalisti) e le ritrattano parzialmente. Intanto il dado è tratto.

Non succede altrove. Non succede in Germania. A Berlino a due passi dal Bundestag (l'ex Reichstag) c'è un gigantesco monumento alle vittime della Shoah: un popolo ha posto al centro della sua capitale il segno della propria vergogna, per posare una pietra sul passato, per non riaprirlo mai più. Del resto 'mai più Auschwitz, mai più il fascismo' uniti alla consapevolezza della colpa, sono le basi dell'identità della Repubblica federale.

E da noi, quali sono le basi della legittimità della nostra Repubblica? E la destra le sta cambiando? La destra in realtà si può permettere il revisionismo perché l'Italia, come ha sostenuto tra gli altri Emilio Gentile, non ha mai voluto affrontare la sua realtà totalitaria. L'ha semplicemente rimossa. E allora, indigerita, può tornare a galla. Anche per colpe dell'altra parte politica. Le individua Massimo Cacciari, filosofo e sindaco di Venezia: “La Costituzione è stata interpretata dalle sinistre in un modo miope, non presbite. Continuano a ripetere: resistere, resistere, resistere. Anziché: sviluppare, sviluppare, sviluppare [sic – n.d.r.]. Machiavelli scriveva che un modo sicuro per portare allarovina la città è fermare le sue leggi. Noi abbiamo bisogno urgente di aggiornare la nostra carta dei valori. Dobbiamo arrivare a un ripensamento radicale”. La Costituzione si basa sull'antifascismo, ma la legittimità del governare dipende da altro: “Dalle urne. Dunque il problema è politico. La destra italiana non è un'eccezione. Si muove nel solco di un trend europeo di revisionismo culturale mentre nell'ambito mondiale è parte della corrente neoconservatrice generale”.

La catastrofe semmai la rischiamo, secondo il sindaco, perché “c'è un intero ceto medio, base di ogni democrazia, che ha paura di essere travolto dalla crisi. In una situazione così si va alla caccia del nemico, alla ricerca del capro espiatorio”. Viviamo in tempi in cui la democrazia “sta diventando mera procedura e allora si apre tutto lo spazio per il populismo”. Berlusconi, andando in tv, entra nei salotti di chi lo guarda e “dà l'impressione di farti partecipare alle sue decisioni. Ma è demagogia. Per combatterla dobbiamo trovare un modo perché ci sia la responsabilità diffusa delle decisioni, la sovranità plurale (che risponde alla voglia di partecipazione cui i partiti sono incapaci di dare una risposta), il federalismo”. Il fascismo così come lo si intende, è morto. Ma la democrazia non sta molto bene. E la barbarie quotidiana avanza.

Un paesaggio in via d'estinzione. Devastato da metastasi di villette, infettato dal cemento, soffocato da indigestioni di seconde case. Per il lago di Garda, ormai, non resta che cercare di salvare il salvabile. Come la ventina di ettari di terreni, un tempo parte del comune monastico, attorno all'abbazia di Maguzzano (Lonato), scelta da Italia Nostra per una tavola rotonda, in programma oggi («Dal mito all'offesa del mito»), nell'ambito di «Paesaggi sensibili», giornata nazionale dell'associazione ambientalista.

Un consulto attorno al capezzale del morente? Forse. O forse no. Perché l'intossicazione da mattone potrebbe anche regredire. Almeno a giudizio di Luca Rinaldi, soprintendente ai bene architettonici e paesaggistici di Brescia.

«Ai sindaci voglio dire: abbiate il coraggio non solo di non aggiungere altro cemento, ma di tagliare volumetrie».

Ma davvero si può fare? «In diversi Comuni ci sono strumenti urbanistici che già prevedono nuove costruzioni in aree molto delicate. Nel caso non ci fossero ancora i progetti, si potrebbe convincere i proprietari a non costruire più lì, accettando in cambio altre aree come compensazione».

Certo, anche senza scomodare le minacce arrivate allo scrittore Vittorio Messori per la sua battaglia a favore di Maguzzano, è evidente che i sin-daci di coraggio dovrebbero averne parecchio. Forse troppo. Tanto che, per dare coraggio anche a chi non ce l'ha, Rossana Bettinelli, vicepresidente nazionale di Italia Nostra, ha una proposta: «II problema di fondo è che i sindaci vendono, anzi svendono il loro territorio perché hanno bisogno di soldi. E, allora, perché lo Stato non pensa a come ricompensare economicamente i Comuni che si impegnano a salvaguardare determinate aree, rinunciando ai conseguenti oneri urbanistici o all'ICI sulle seconde case?»

Su una cosa, però, Rinaldi e Bettinelli concordano: che, anche per salvare il Garda morente, la prevenzione sarebbe la migliore delle terapie. «Il nodo — spiega Rinaldi — sono i Piani di governo del territorio dei Comune (che hanno sostituito i piani regolatori, ndr).

Le Regioni dovrebbero mettere dei paletti precisi e lo stesso dovrebbero fare le Province con i Pctp. Perché, anche per le Soprintendenze, lavorare con i singoli Comuni è faticosissimo. Purtroppo, un discorso pianificatorio che coinvolga più enti manca. E, anzi, negli ultimi anni mi sembra stia venendo meno l'entusiasmo sui temi del paesaggio. Noto, ad esempio, una corsa dei Comuni ad approvare i Pgt prima del nuovo anno, quando entrerà in vigore il nuovo codice dei beni culturali, che da più potere pianificatorio alle Soprintendenze».

«il mio sogno — aggiunge l'architetto Bettinelli — sarebbe di avere un referente di Italia Nostra in ogni Comune, che possa seguire le vicende dei Pgt e segnalarci le situazioni a rischio prima e non dopo che si inizi a costruire». Per questo Italia Nostra terrà a battesimo, oggi, un Osservatorio che, per un anno, censirà le parti ancora sane del grande malato: tutti i beni paesistici da salvaguardare sul Garda.

E, visto che a volte la storia può essere maestra di vita, Emilio Crosato, presidente del Comitato per il parco delle colline moreniche, annuncia un' altra iniziativa: «Dalla primavera del 2009, una mostra fotografica, in gran parte di foto aeree, mostrerà come è cambiato il Garda dal 1860 a oggi».

Anche Crosato la sua medicina ce l'ha: «Servono regole precise per il governo del territorio. Se non volete chiamarlo parco, chiamatelo in un altro modo. Ma i vincoli sono necessari».

Di deregulation si può anche morire.

A chi ha seguito le polemiche sulla Biennale di Architettura (Lucia Tozzi e Emanuele Piccardo sul «manifesto», Vittorio Gregotti su «Repubblica») pare di cogliere l'eco di un dibattito che si è aperto a giugno con il XXIII congresso internazionale di Architettura di Torino. Se i risultati della esposizione veneziana sembrano oggettivamente modesti, come non sono parsi entusiasmanti i contributi alla kermesse torinese, è tuttavia interessante per un sociologo urbano sentire echeggiare una certa inquietudine nel mondo dell'architettura, e assistere al riaprirsi di una serie di questioni storiche: che cosa devono fare gli architetti? Esiste un futuro per la professione, e quale dovrebbe essere la relazione tra l'architetto e la società? Giustamente Gregotti segnala il pericolo della riduzione dell'architettura a «fatto ornamentale», ma forse sarebbe utile investigare maggiormente la «politicizzazione dell'estetica», non solo come componente costitutiva delle soggettività postmoderniste, ma più semplicemente per comprendere come determinate scelte ad effetto servano a coprire operazioni discutibili e a volte vere e proprie speculazioni. Nelle mutate condizioni della produzione l'estetica diviene un terreno di potenziali conflitti che non sempre trovano adeguata espressione. Forse ha avuto ragione Rem Koolhaas a contrabbandare per etica la provocatoria scelta della bigness : dietro le apparenze dei grandi contenitori «buoni per tutto» sempre più si giocano partite costitutivamente politiche. L'epoca è difficile: appare comprensibile che uno zoccolo duro di architetti si arrocchi su alcune tautologie, prima tra tutte quella per cui «gli architetti devono fare gli architetti» - una cosa bellissima, se solo fosse vera. In realtà gli architetti fanno di tutto, oggi più che in passato. Non avrà tutti i torti Gregotti a scagliarsi contro il pasticciaccio artistoide, magari taroccato, ma è evidente che la professione non è più quella d' antan e i suoi confini tendono a diluirsi in una dimensione di «progettista generico». Nel migliore dei casi l'architetto è un ideatore, ma molte volte finisce per essere l'esecutore di «spartiti» scritti altrove, in una condizione del tutto analoga a quella di altri lavoratori delle «industrie creative». È chiaro che in una simile situazione l'«artistismo» è una menzogna, ma questo non tanto per una «contaminazione» del campo architettonico, peraltro sempre meno definito, quanto per l'assoluta mancanza di una componente artistica tradizionalmente intesa nell'atto del produrre. D'altra parte è vero, come ha notato Piccardo, che chi si occupa di architettura tende sempre più ad attingere ai saperi del sociologo e dell'antropologo, talora con la presunzione di potersi sostituire ad esso - ma anche in questo caso mi pare di scorgere più una necessità imposta dai tempi che una «svolta sociale» significativa. Quella consapevolezza politica che Gregotti a più riprese pare auspicare si comincia solo timidamente a prospettare, a causa di limiti in parte storici, in parte strutturali. E non è solo questione della imbarazzante presenza delle archistar, che in fondo rappresentano nient'altro che l'esasperazione della figura dell'architetto che fa l'architetto, è il dibattito generale sui grandi problemi che stenta a decollare. Forse quello che Lucia Tozzi intendeva sottolineare nella sua lettura della Biennale era proprio un accenno di apertura, di cui attesta per esempio la presenza a Venezia di un lavoro controcorrente come quello di Giovanni Caudo. Insomma con il vecchio calembour si potrebbe concludere che la crisi dell'architettura ha finora generato solo un'architettura della crisi, ma che i tempi richiedono prese di coscienza più coraggiose, in grado di riverberarsi su un contesto sociale in mutamento che ha ormai le dimensioni del pianeta. Ma possono queste prese di posizione emergere unicamente dall'ambito delle discipline architettoniche? Per ora pare proprio di no. Forse allora aprire il dibattito sulla crisi dell'architettura ai saperi delle scienze umane, avviare un confronto con sociologi, filosofi e antropologi potrebbe rendere il dibattito più ricco.

la Repubblica

Don Antonio Sciortino

Il passo breve verso l´autoritarismo

La semplificazione del quadro politico alle ultime elezioni e l´ampia investitura popolare ottenuta dal Pdl (e di conseguenza dal governo del presidente Berlusconi) ha posto nel paese la questione del rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia di opinione. Il dibattito può assumere anche toni drammatici quando, invocando l´estesa legittimazione popolare al governo in carica, si mette in dubbio la possibilità altrui di esprimere opinioni e critiche sull´operato del governo. Quando poi gli attacchi vanno dritti contro un giornale e si dissente sul diritto all´opinione diversa e alla critica (non verso le istituzioni, ma verso le idee e le azioni che uomini delle istituzioni esprimono), è legittimo chiedersi se non sia in atto un ritorno all´autoritarismo, che disprezza il principio dell´uguaglianza delle idee, almeno nella loro possibilità di esprimersi.

Ciò che è accaduto di recente nei confronti di Famiglia Cristiana per le sue critiche ad alcuni provvedimenti del governo, è esattamente questo. Chi governa con ampio mandato popolare ritiene, forse, che è suo compito anche spalmare il paese di un pensiero unico e forte, senza ammettere alcun diritto di replica? In realtà, da sempre noi non abbiamo mai risparmiato critiche a governi e opposizioni, usando sempre lo stesso metro di giudizio, che è una visione solidale della realtà. Famiglia Cristiana si è comportata così con tutti i governi, anche quelli democristiani, quando ci sembrava giusto e cristiano farlo. Fedele al mandato del suo fondatore, il beato Giacomo Alberione, che diceva di «parlare di tutto cristianamente». Avverbio, questo, che connota la nostra missione di comunicatori, e ci spinge a giudicare la realtà alla luce del Vangelo. Solo così un giornale trova interlocutori, stimola il dialogo, aumenta il tasso di democrazia di opinione nel paese.

E´ stato assai singolare che, dopo le nostre prese di posizioni sulla questione dei rom e sul cosiddetto «pacchetto sicurezza», il governo si sia scagliato con insolita veemenza contro Famiglia Cristiana. Già questo denota quanto il nostro paese sia poco normale. Quando si mette il coprifuoco alle idee, quando un governo ritiene di doversi scagliare contro le critiche di un giornale, forse qualcosa non va nella nostra democrazia rappresentativa.

In realtà, in Italia la gente ha una concezione sempre più leggera della democrazia rappresentativa. Sembra che basti solo assolvere al dovere del voto. E i politici (soprattutto quelli «nuovi», quelli che non provengono da una lunga formazione, ma dalle scuole del marketing), ritengono che i cittadini abbiano firmato loro una delega in bianco. Si sentono legittimati a fare tutto ciò che le regole della soddisfazione dei desideri impongono, quasi che l´esercizio nobile dell´arte della politica, sia definita dalla migliore e scintillante soluzione dei desideri di ognuno. Siamo al paradosso che, proprio oggi, quando la politica sembra aver preso il sopravvento su molte altre attività (al punto che tutti ci si buttano), la partecipazione invece cala. E´ vero che la democrazia rappresentativa si risolve nella delega. Ma essa è intesa in maniera così forte dall´attuale classe politica (al governo e all´opposizione), che ha relegato in soffitta la democrazia di opinione. Siamo così all´antipolitica, che non è quella di Grillo o dei girotondi, ma quella della politica intesa come mercato della soddisfazione dei desideri. La classe politica italiana, ma anche gli intellettuali, hanno gravi responsabilità.

L´eterna transizione cui è costretta l´Italia almeno da 15 anni e la promessa reiterata di riforme che non arrivano mai, hanno tolto credibilità alla politica e rafforzato chi, nella politica, vede un teatro da calcare con le sue truppe ordinate e ubbidienti a ogni ordine, senza discutere. Vale a destra come a sinistra. In un quadro simile, la partecipazione e, dunque, la democrazia di opinione spariscono.

Né il riconoscimento maggiore del leader serve ad aumentare la partecipazione. Lo dimostrano le continue incursioni di Berlusconi nelle piazze tra la gente che vive drammaticamente problemi seri, quasi volesse non tanto rassicurarla, ma rassicurare se stesso di averla (la gente) sempre vicina. In realtà, nessuno sa veramente quel che pensano i cittadini, al di là del vecchio e, talora, obsoleto metodo dei sondaggi. Neppure a livello amministrativo c´è più passione per la «cosa pubblica». Non ci si interessa nemmeno del proprio marciapiede o dell´autobus che non passa. Quando un giornale come il nostro suona la campanella d´allarme, che segnala la distanza tra la politica e le attese concrete della gente, e insiste sulle politiche familiari, su un fisco equo, o critica le ossessioni per la sicurezze e la giustizia. dice semplicemente che in democrazia le opinioni devono contare. Infatti, se cala la partecipazione e, al tempo stesso, non si ammettono critiche, il rischio di scivolare verso una forma oligarchica e autoritaria è davvero grande.

Fa scalpore che tutte queste cose, corredate di esempi concreti, le abbia scritte un giornale cattolico? E´ un´altra delle anomalie italiane. In Francia nel corso dell´estate il quotidiano cattolico La Croix ha criticato la nuova grandeur francese di Sarkozy sulla scena internazionale. Ma nessun membro del governo s´è sognato di rivolgersi al cardinale di Parigi o al Vaticano. Ciò che spesso difetta al nostro paese è l´idea che i cattolici (giornalisti e non) siano cittadini come gli altri, e abbiano il diritto di partecipare al grande gioco della democrazia di opinione.

La rivista francese Esprit (che, certo, non può essere bollata di «cattocomunismo» o di «criptocomunismo») si domandava questa estate se non ci stiamo avviando verso la fine del ciclo democratico. La scomparsa delle ideologie non ha assolutamente semplificato il quadro politico. Ha solo prodotto maggiore difficoltà nella comprensione e nell´elaborazione del pensiero politico, che sembra debba inseguire solo i desideri della gente.

Oggi si tende a semplificare cose complesse, con risposte ai bisogni che saranno necessariamente inefficaci sul medio e lungo periodo, anche se al momento sono allettanti.

Ciò che accade attorno al pacchetto sicurezza, alla questione immigrazione, ma anche sui temi della giustizia, lo dimostrerà. La parola più indicata per definire tutto ciò è populismo, che insegue e accarezza i desideri. Una dimostrazione è l´ultima finanziaria, vada per tre anni e assai pesante, approvata in una manciata di minuti dal governo. Oggi la consapevolezza di tutto ciò sembra essere presente solo nel dibattito di opinione, mentre non trova casa (o ne trova una assai ristretta), nella classe politica e nelle istituzioni parlamentari. Ed è per questo che la classe politica, forte dell´investitura, tende a spazzar via il dibattito. Oggi, forse, non corriamo alcuni rischi del passato, ma c´è un allarme circa un progetto di Stato e di convivenza democratica, che non dà voce a chi non ha voce, a cominciare dalle famiglie e dai più poveri.

Non è questione, questa, che riguarda e preoccupa solo i cattolici, ma tocca il paese intero. Quando Famiglia Cristiana bussa all´Italia bipolare, ricordando che i costi sociali di operazioni che semplificano eccessivamente la realtà possono essere altissimi, non fa altro che il suo dovere, a favore del «bene comune». Il passo dal populismo all´autoritarismo può essere, fatalmente, breve.

il manifesto

Giorgio Bocca

«Sento puzza di fascismo e stampa di regime»

Intervista di Loris Campetti

Non usa mezze parole per raccontare l'esistente, Giorgio Bocca. Un esistente brutto che lascia poco spazio all'ottimismo. L'abbiamo cercato per avere un'opinione sullo stato dell'informazione in Italia, sulla sua concentrazione in poche mani e sul tentativo del governo di chiudere le voci libere, fuori dal coro. Non serve dire che l'abbiamo trovato ben preparato in una materia «che ha direttamente a che fare con la democrazia e la libertà d'espressione». Bocca non è soltanto uno dei padri del nostro giornalismo, è da sempre un occhio attento puntato sulla società, sulla politica e sui poteri.

Chi non ha partiti e padroni alle spalle e per giunta si permette di dissentire deve tacere. È questo il messaggio che arriva dal governo Berlusconi? E se è questo, quale natura e quali esiti sottende?

Ho appena finito di leggere una lettera sul Foglio dove si sostiene che la colpa della ferocia attuale è dell'antifascismo, da cui sarebbero nate tutte le tragedie del secolo. A me sembra vero il contrario: l'antifascismo è stata una battaglia per garantire a tutti, tra l'altro, la libertà di avere idee e poterle esprimere. Ne deduco che, se oggi si impongono manovre come quella che punta a chiudere le testate indipendenti dal potere e dalle sue direttive, questa è la conferma che la preoccupazione di chi teme un ritorno al fascismo non è poi così campata in aria.

Forse in altre forme, con altri mezzi?

Io conosco per esperienza diretta e per lo studio della storia il fascismo, e oggi percepisco nuovamente il ritorno di quella minaccia. Come allora, di fronte a una sventura la gente resta sorda, non si accorge dei rischi che corre la democrazia. Aggiungo che anche parte della sinistra e delle forze democratiche ritiene che si può andare d'accordo con chi oggi ha in mano la politica, il potere. Non so se le forme del ritorno di una cultura fascista siano così diverse da quelle di ieri, so che l'esito è lo stesso: prepotenza, repressione, magari anche galera. Diceva Benjamin Disraeli (scrittore e uomo politico, primo ministro inglese nella seconda metà dell'800, ndr ) che con la giustificazione della necessità si compiono i delitti più spaventosi. Anche ora, in nome delle difficoltà, certo quelle economiche dello stato, ma anche in nome dell'esigenza di razionalizzare e modernizzare l'informazione, liquefanno la democrazia e stanno uccidendo l'informazione. Si sbandiera l'idea di progresso per introdurre ogni nuovo mezzo, che automaticamente si trasforma in strumento nelle mani dei padroni e non certo dei dipendenti. Così la libertà sfuma, e a questo processo si accompagna il taglio dell'ossigeno all'informazione libera e democratica.

La stampa democratica perde copie, quella di sinistra rischia il collasso. La controriforma della legge dell'editoria che cancella il diritto soggettivo al sostegno pubblico può rappresentare il colpo di grazia. Almeno per il manifesto . Come mai tutto questo non fa scandalo?

Perché l'opinione pubblica è sensibile nei confronti di chi ha in mano il potere, e l'informazione rafforza, deve rafforzare questo potere. È un circolo vizioso pericolosissimo il rapporto tra un potere autoritario come quello che oggi ci schiaccia e un'informazione di regime che «forma» l'opinione pubblica. Berlusconi sostiene di avere il consenso del 70% degli italiani, forse esagera, ma il 60% ce l'ha dalla sua. Non vorrei essere nuovamente pessimista, ma temo che dovremo adattarci a forme di resistenza e lotte di minoranza.

Ma le minoranze restano mute, se i mezzi di informazione liberi vengono soppressi con lo strumento della manovra economica del governo.

È ovvio, bisogna salvare le voci libere. Ma non posso non chiedermi se sia ancora possibile riuscirci. Certo non vorrei accodarmi a una marea generale portatrice di disastri. Vedo davanti a noi un lungo periodo di crisi democratica perché vedo crescere, nell'Italia di oggi come avvenne in quella che ho conosciuto e combattuto da ragazzo, l'idea che i problemi debbano essere risolti d'autorità da qualcuno lassù. Questa idea, che ieri invocava il Duce, ha ancora successo tra gli italiani.

Se a questo siamo, c'è una responsabilità collettiva. È difficile tener fuori la sinistra.

Sì, ci sarà pure una responsabilità collettiva. Ma in una situazione in cui la sinistra e una storia comune vengono attaccate da tutti i fronti, non me la sento di sparare sulla mia parte, non ho alcuna intenzione di accodarmi alle crociate di Pansa. Per chiudere con l'informazione, non mi rassegno all'esistente ma pavento un futuro in cui i giornali schifosi camperanno mentre quelli liberi saranno crepati.

C´è un solo vizio ideologico che riesca a essere più ridicolo e irritante del politicamente corretto. È il politicamente scorretto, che nella sua smania polemica, nella sua fregola riparatoria, raggiunge capolavori di incongruenza storica, politica e perfino logica come quello perpetrato a Roma (anzi, ai danni di Roma) nelle celebrazioni del 20 settembre.

Come le cronache hanno riportato, il Comune della capitale d´Italia ha solennemente commemorato i caduti di Porta Pia. Ma non i bersaglieri del Regno, che aprendo quella breccia hanno fatto di Roma la capitale degli italiani. Bensì i loro stremati ed esitanti oppositori, i soldati papalini, che nonostante le raccomandazioni delle stesse autorità vaticane riuscirono, poveri cristi, a farsi ammazzare per la più anacronistica delle cause (il potere temporale della Chiesa, oggi rinnegato dallo stesso Papa Ratzinger) e nella più inutile delle battaglie, non per caso commemorata in tempi recenti dal solo Fantozzi in una memorabile ricostruzione che la defalca da vera e propria battaglia a una sorta di incidente edilizio.

Da parte papista caddero diciannove uomini, della cui memoria siamo oggi depositari tanto quanto di quella di qualunque vittima di guerra, compresi i lanzichenecchi, i tigrotti della Malesia, i caduti alle Termopili o i guerrieri ittiti. Ma della cui specifica vicenda, francamente, ci si era inevitabilmente dimenticati, a parte il manipolo di cattolici integralisti del gruppo "Militia Christi" (tutto un programma) che hanno accolto estasiati, e forse suggerito, la goffa commemorazione papista del vicesindaco di Roma Mauro Cutrufo. Il quale ha nominato con commozione rituale, uno per uno, i diciannove caduti anti-italiani, in presenza di autorità militari non si sa quanto costernate e quanto distratte, e ovviamente dei bersaglieri, i cui caduti a Porta Pia riposano in pace in archivi storici evidentemente molto impolverati.

Ora, si sa che in questo Paese lo spirito nazionale è così incerto e sfocato da essere affidato soprattutto alle imprese sportive. Nelle quali è facilissimo individuare il "comune sentire" in un grido strozzato davanti alla televisione, o in un carosello serale di motorini. Proprio per questo, però, episodi grotteschi come quello di Roma, oltre a indurre al riso, fanno mettere le mani nei capelli. Che il Municipio di Roma festeggi, centotrentotto anni dopo, i propri osteggiatori in armi, è un mistero spiegabile solo con l´indiscriminata ostilità a tutto quanto odora di Repubblica e, su per li rami, di unità d´Italia, di Risorgimento, di emancipazione laica da un potere temporale che fu il principale ostacolo storico e politico al disegno di Cavour e Garibaldi. Solo una destra intrinsecamente antiliberale poteva inventarsi il rovesciamento della cerimonia di Porta Pia.

Uno scherzo di natura (di natura reazionaria) che germina dal rimpianto, in ogni sua forma, per l´Ancien Régime, più in quanto ancien che in quanto régime. Ai laudatori dei Borboni, ai rivalutatori del brigantaggio, agli austriacanti di ritorno, si affiancano i papisti in armi (ossimoro, ma vai a spiegarglielo) che con un secolo e mezzo di ritardo provano a contare quante divisioni aveva il Papa. Ci piacerebbe dire che si tratta di eccentrici, perfino simpatici quando collezionano soldatini in uniforme o si impancano in "dibattiti" dalla struttura molto precaria. Ma se questa eccentricità diventa cerimonia ufficiale nella capitale del Paese, con tanto di bandiere e autorità schierate, forse significa che qualcosa di meno pittoresco, e di più sostanzialmente politico, sta accadendo o è già accaduto. No alla Resistenza perché "comunista", no al Risorgimento perché borghese, massonico e anticlericale, il tappeto della storia si riavvolge pian piano, secolo dopo secolo. A quando la commemorazione del Papa Re, con l´aristocrazia nera in prima fila e un signore con la fascia tricolore che, anche in rappresentanza nostra, commemora i mercenari caduti contro i ghibellini?

È vero che la crisi dell’Alitalia è un bruscolino rispetto a quanto sta accadendo sui mercati mondiali, ma è pur sempre un fatto che ci riguarda molto da vicino, mette in gioco il trasporto aereo d’una nazione, il prestigio d’un governo che è il nostro governo, la rappresentatività d’un movimento sindacale che discute e firma contratti in nome di milioni di lavoratori.

Quindi ci occuperemo anzitutto di quella crisi al punto in cui ora è giunta e di quanto potrà accadere nei prossimi giorni, fin quando la flotta di bandiera potrà ancora volare.

La cordata tricolore e il piano industriale redatto da Banca Intesa si fondavano sul concetto della discontinuità. Al di fuori di esso il tentativo di Colaninno e di Passera non sarebbe mai nato e nessun altro tentativo analogo avrebbe mai potuto nascere.

Discontinuità a 360 gradi: nell’organizzazione delle rotte aeree, degli aeroporti, dei velivoli, dei debiti, del personale di terra e di volo e dei rispettivi contratti.

Discontinuità sommamente sgradita ai creditori di Alitalia, ai suoi azionisti privati, ai suoi dipendenti, cioè a tutti coloro che avrebbero dovuto pagare il conto di un dissesto annunciato da molti anni.

Non starò qui a ripetere quali siano state le responsabilità di quel dissesto, ma debbo ancora una volta ricordare che gli anni terribili sono stati soprattutto gli ultimi cinque dal 2003 al 2008, dalla gestione Mengozzi all’affondamento del piano Air France. Un disastro che porta ben chiari i nomi dei responsabili: in testa l’associazione dei piloti e Silvio Berlusconi. Anche Prodi ebbe le sue colpe: incertezza, indecisione; ma senza l’opposizione aggressiva dei piloti e di Berlusconi la via della soluzione era stata finalmente trovata e si sarebbe realizzata.

Un progetto basato sulla discontinuità dipende in gran parte dalle modalità del negoziato e dalle capacità del negoziatore. Colaninno questa capacità l’ha dimostrata in precedenti occasioni ma in questo caso la sua presenza al tavolo è stata minima. È entrato in scena il penultimo giorno e ne è uscito subito.

Anche il ruolo di Gianni Letta è stato molto modesto. Berlusconi praticamente non s’è mai visto salvo per pochi minuti. Tremonti, diretto azionista dell’Alitalia, assente anche lui. L’unico negoziatore al tavolo è stato il ministro Sacconi. Una frana.

Sacconi ha impostato l’intera trattativa sugli ultimatum e su una scelta discriminatoria degli interlocutori. Sapeva fin dall’inizio che il nocciolo duro da convincere sarebbe stato il personale di volo e le associazioni autonome che lo rappresentano. Sapeva anche che il tempo utile a disposizione era breve a causa della pessima situazione patrimoniale e finanziaria della società.

Sacconi trattava cioè sull’orlo del baratro ma era evidentemente convinto che spingere il dramma verso il suo punto culminante avrebbe facilitato l’accordo. Perciò perse volutamente tempo. Si contentò di ottenere il beneplacito di Bonanni, Angeletti, Polverini che non contavano niente in questa vertenza; tenne fuori dalla porta i piloti dell’Anpac e le altre associazioni autonome; scelse come bersaglio la Cgil che accusò fin dall’inizio di ideologismo politico e di una strategia del «tanto peggio».

I piloti dell’Anpac hanno molte responsabilità come abbiamo già ricordato, ma ci sono anche alcuni punti fermi che vanno tenuti ben presenti e cioè:

1. Guadagnano meno dei loro colleghi di Air France, British, Lufthansa. Guadagnano invece di più dei piloti di Air One.

2. Hanno una produttività più bassa dei colleghi di quelle tre società a causa della cattiva organizzazione dei voli e degli equipaggi; tuttavia su questo punto avevano dato subito la loro positiva disponibilità.

3. Sia Sacconi sia il commissario Fantozzi hanno posto il negoziato sotto scadenze ultimative di 48 in 48 ore pena la messa immediata in mobilità di tutto il personale e, ovviamente, la sospensione dei voli. Ma poiché le 48 ore passavano e gli aerei continuavano regolarmente a volare l’effetto è stata la perdita di credibilità sia del ministro sia del commissario.

Ma l’errore di fondo è stato un altro e porta il nome di Silvio Berlusconi. Il "premier" aveva assunto in campagna elettorale l’impegno di favorire una cordata tricolore e questo ha determinato la strategia del governo producendo però un gravissimo vizio di forma nella procedura: ha vincolato il commissario Fantozzi a privilegiare come controparte la cordata Colaninno.

È vero che la legge Marzano, appositamente riscritta per l’occasione, prevede la trattativa privata, ma non prevede l’esclusiva. Fantozzi è stato tuttavia insediato con la condizione di preferire almeno in prima battuta la cordata Colaninno la quale a sua volta, forte di questo privilegio, ha fissato le condizioni pensando che su di esse sarebbe stato relativamente facile acquisire il consenso dei sindacati confederali.

Il tema del contratto col personale di volo è stato completamente sottovalutato sia da Colaninno sia da Sacconi. E quando Epifani ha fatto presente la verità e cioè che la rappresentatività dei sindacati confederali era pressoché nulla per quanto riguarda il personale di volo questa onesta ammissione è stata ritenuta segno di tradimento e di irresponsabilità sia da parte del governo sia da parte della Cisl e sia dalla quasi totalità dei «media» giornalistici e televisivi.

* * *

Ancora ieri il presidente del Consiglio ha ribadito che le soluzioni sul tappeto sono soltanto due: accettare il piano industriale di Colaninno o il fallimento.

Ma non è così. La procedura impone a Fantozzi di sollecitare altre offerte di acquisto per l’Alitalia, in blocco senza discontinuità oppure soltanto per una parte degli asset. Se il commissario di Alitalia si sottraesse a questo suo urgente e inderogabile compito verrebbe meno ai doveri del suo ufficio e sarebbe passibile d’esser messo sotto accusa da parte della Corte dei conti per aver causato grave danno erariale alle casse dello Stato.

È ben comprensibile che una soluzione di questo genere, l’arrivo d’un cavaliere bianco che a questo punto non potrebbe essere altri che uno dei grandi vettori stranieri, sarebbe una penosa sconfitta d’immagine per il "premier", ma non è comunque in sua facoltà bloccare una procedura prevista dalla legge. Salvo di nazionalizzare l’Alitalia, magari temporaneamente, seguendo le procedure imposte in analoghi casi dalla Commissione di Bruxelles.

Gli esempi che proprio in queste ore vengono dagli Usa ci dicono che in casi estremi la politica, in mancanza di alternative e per evitare guai peggiori, può e anzi deve ricorrere a estremi rimedi.

* * *

Il rimedio adottato - tardivamente - da George W. Bush è chiaro ed è stato già ampiamente descritto ieri dai giornali di tutto il mondo: creare un apposito veicolo federale che si assuma l’onere di acquistare tutti i titoli-spazzatura che ingombrano i portafogli del sistema bancario americano, pagabili al 65 per cento del loro prezzo nominale. Il costo dell’intera operazione è di 700 miliardi di dollari, cifra iperbolica alla quale il Tesoro farà fronte emettendo titoli propri e/o addirittura stampando carta moneta.

Un provvedimento analogo fu preso nel 1932 in piena depressione americana e mondiale con la creazione della Reconstruction Finance Corporation. Come si vede le analogie con la crisi iniziata nel 1929, che raggiunse il suo culmine anche in Europa a tre anni di distanza, sono molto forti con la situazione attuale pur nelle ovvie differenze.

In sostanza si tratta d’un salvataggio senza limiti di cifra dell’intero sistema bancario americano e mondiale perché non solo americano ma anche mondiale è stato l’inquinamento provocato sui mercati finanziari dai titoli-spazzatura.

Sarà sufficiente quest’intervento colossale a ridare fiducia e stabilità ai mercati? Probabilmente sì, ma ci saranno altri effetti che sono fin d’ora prevedibili. Stabilizzare il sistema e salvarlo da un crac totale è un risultato non solo utile ma necessario. Pensare che sia indolore e privo di conseguenze sgradevoli sarebbe però illusorio e sbagliato.

* * *

Il costo di questa gigantesca operazione si scaricherà inevitabilmente sul bilancio federale Usa, già oberato da un antico e ampio disavanzo. Le previsioni più attendibili (riportate da Federico Rampini nel suo articolo di ieri) calcolano che il costo dell’intervento sarà del 7 per cento del Pil degli Stati Uniti. L’inondazione di liquidità avrà effetti cospicui sul tasso d’inflazione americana.

Più difficile è prevedere quale sarà il comportamento del dollaro sul mercato dei cambi. La ripresa in grande stile dei valori delle Borse potrà provocare un afflusso di capitali esteri e quindi un rialzo del tasso di cambio della moneta Usa, ma la prospettiva di inasprimenti fiscali e le dimensioni del disavanzo di bilancio potranno a loro volta provocare uno spostamento di capitali dal dollaro ad altre monete. Non dimentichiamo che il sistema finanziario Usa ha vissuto e vive sul paradosso d’esser finanziato non già dal risparmio interno ma dal risparmio internazionale. La crisi in atto può attirare capitali speculativi a breve ma può anche indirizzare altrove il risparmio internazionale. Del resto il vero e proprio crollo delle riserve della Fed avvenuto in questi mesi è un segnale in questa direzione.

Complessivamente ci sembra di poter dire che le forze di stagnazione economica siano maggiori delle forze di sviluppo per la semplice constatazione che lo sforzo di stabilizzare da parte del Tesoro serve a ripianare i debiti e non a rilanciare gli investimenti e la domanda.

Se questi effetti si produrranno sarà difficile scommettere sulla locomotiva americana e sui suoi effetti tonici verso il resto del mondo.

Post Scriptum. Ha fatto sensazione leggere il nome di Marina Berlusconi nel nuovo consiglio di amministrazione di Mediobanca, nella sua qualità di rappresentante di Fininvest, presente con l’uno per cento nel patto di sindacato di Piazzetta Cuccia.

La presenza di Marina Berlusconi è pienamente legittimata dalla presenza della Fininvest nel capitale di Mediobanca; non toglie che rappresenti un’altra anomalia del sistema Italia. Fininvest ha amici potenti e collaudati nel cda di Piazzetta Cuccia: Mediolanum, i francesi di Tarak Ben Ammar, Ligresti, Tronchetti Provera, Geronzi. Per quel tanto che conta in Mediobanca, c’è anche Banca Intesa.

La famiglia Berlusconi si muove da tempo per stabilire rapporti intrinseci con le banche e l’establishment assicurativo e finanziario italiano oltre che con quello industriale. Sono passati i tempi del Berlusconi che sparava sulla grande impresa e sulla grande finanza sostenendo gli interessi e le aspettative delle partite Iva e delle piccole imprese.

È finita la caccia alle allodole ed è cominciata quella al cinghiale. La stessa operazione Alitalia mira a questo risultato. Dietro la bandiera tricolore c’è sempre un sottofondo di interessi politici ed economici, ma questo lo sappiamo da un pezzo e accade in tutto il mondo.

Resisto alla tentazione del famoso discorso di Antonio e di cominciare scrivendo: Ezio Mauro è uomo d'onore. Ma, certamente Ezio Mauro è persona colta e per bene, ottimo direttore di Repubblica dove ha preso il posto di Eugenio Scalfari, ma proprio per tutto questo sorprende il suo editoriale di ieri dal titolo «Tornare al mercato», spiegabile solo con un accesso di nostalgia di un mercato che non c'è mai stato e tanto meno c'è in questi nostri tempi; come dire il mondo prima che Adamo ed Eva mangiassero la mela. L'amico Ezio Mauro chieda al suo editore, l'ingegner Carlo De Benedetti, qualche autorevole parere sullo stato del mercato della libera concorrenza. «L'interesse del Paese è che il mercato prenda il posto dell'ideologia» questo chiede il direttore della democratica e autorevole Repubblica . E qui siamo al massimo della confusione poiché quella del mercato è la peggiore e più falsa delle ideologie. E, quanto all'Alitalia, il mercato chiederebbe solo e soltanto il fallimento. E, sempre a proposito del dio mercato, suggerirei all'amico Ezio Mauro la lettura del Conflitto epidemico di Guido Rossi; una lettura utile di questi tempi di crisi. Ma vorrei richiamare l'attenzione dei lettori del manifesto e possibilmente di Repubblica su questo appello al mercato salvifico. Il mercato non c'è, basta leggere sui giornali le notizie delle crisi e dei fallimenti e dei salvataggi. Di conseguenza quando ci si appella - e da parte di un quotidiano autorevole come Repubblica - al mercato, vuol dire che massima è la confusione e massimi sono i pericoli di una deriva autoritaria. Non solo di qualcuno che dica: comando io, ma anche (purtroppo è sempre stata così) di un popolo che chiede un capo-padrone. In Italia abbiamo avuto un'esperienza, che in forme diverse, con la bandana invece che con il fez, potrebbe ripetersi. Grande è il disordine sotto il cielo e la situazione non è affatto eccellente. Così, in questo contesto, la questione Alitalia (compagnia di bandiera), il suo fallimento diventano sintomatici dei pericoli della democrazia nel nostro paese e l'appello al mercato di Repubblica conferma, a mio parere, l'attuale stato di crisi e i suoi pericoli. In questa situazione bisogna affermare che, se c'è ancora uno stato responsabile, dovrebbe intervenire, salvare e riformare l'Alitalia, dare un segno di vita. Insomma, se il direttore di Repubblica è ridotto ad appellarsi all'ideologia del mercato stiamo proprio messi male. Se c'è ancora una sinistra dovrebbe dare un segno. Aspettiamo. L'allarme c'è e risuona nelle orecchie di tutti. L'allarme, spesso, sollecita sogni e illusioni di salvezza. Sogni e illusioni (pensiamo all'Aventino) che mettono olio sulle rotaie dell'autoritarismo. Quello che non fa chiacchiere, ma fatti. Il ministro Giulio Tremonti, quello che ha scritto cosa terribili sul mercato, si dichiara contro ogni possibile nazionalizzazione dell'Alitalia. In questo modo non lascia la partita al mercato, al quale non crede, ma a chi è più forte. Anche lui si rassegna a subire, in cambio di qualche benevolenza elettorale. Se la sinistra c'è ancora (forse) batta un colpo. Ma Eugenio Scalfari che ne pensa?

Dal 3 al 14 dicembre 2007, Bali ha ospitato oltre 10.000 rappresentanti di governo e della società civile per una conferenza della Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici, un trattato ambientale internazionale nel cui ambito è stato negoziato il Protocollo di Kyoto. Il protocollo scade nel 2012 e Bali aveva il compito di dare avvio alle trattative per lo scenario post-Kyoto. Nel 2008 nessuno può ormai negare che sia in atto un cambiamento climatico causato dall'uomo. Tuttavia, l'impegno a mitigarne gli effetti e ad aiutare le aree vulnerabili ad adattarvisi non corrisponde alla consapevolezza del disastro. La mitigazione dei cambiamenti climatici richiede sostanziali cambiamenti nei modelli di produzione e di consumo. La globalizzazione ha spinto la produzione e il consumo mondiali ad incrementare le emissioni di anidride carbonica. Le regole per la liberalizzazione commerciale della Omc, l'Organizzazione mondiale del commercio, sono in realtà leggi che costringono i paesi a seguire la via delle alte emissioni. In modo analogo, la Banca Mondiale, che concede prestiti per la costruzione di superstrade ad alta circolazione e di centrali termiche, per l'industrializzazione dell'agricoltura e per la realizzazione di sistemi di distribuzione organizzata, forza i paesi a emettere maggiori quantitativi di gas a effetto serra. Poi ci sono le società colossi, come la Cargill e la Walmart, principali responsabili della distruzione di economie locali e sostenibili, che spingono le società, una dopo l'altra, alla dipendenza da un'economia globale ecologicamente distruttiva. La Cargill, che svolge un ruolo importante nella diffusione di coltivazioni di soia in Amazzonia e di piantagioni di palma da olio nelle foreste pluviali dell'Indonesia, incrementa le emissioni sia incendiando le foreste che distruggendo gli enormi bacini carboniferi presenti nelle foreste pluviali e nelle torbiere. Il modello del commercio centralizzato a lunga distanza di Walmart è una ricetta per aumentare il carico di anidride carbonica dell'atmosfera. Il primo passo verso la mitigazione richiede che si fissi l'attenzione sulle azioni reali degli attori reali. Le azioni reali sono azioni come l'abbandono dell'agricoltura ecologica e dei sistemi alimentari locali. Fra gli attori reali ci sono l'agribusiness globale, la Omc e la Banca Mondiale. Le azioni reali comportano la distruzione di economie rurali a bassa emissione in favore di un'espansione urbana incontrollata, ideata e progettata da imprenditori e società edili. Le azioni reali comportano la distruzione di sistemi di trasporto sostenibili basati sull'energia rinnovabile e del trasporto pubblico a favore degli autoveicoli privati. Gli attori reali coinvolti in questa transizione verso la non-sostenibilità nella mobilità sono le compagnie petrolifere e le società automobilistiche. Kyoto ha evitato di trattare la questione difficile e significativa dell'interruzione di quelle attività che sono causa di elevate emissioni, ha eluso anche la sfida politica alla regolamentazione degli inquinatori e all'imposizione di sanzioni nei loro confronti, in conformità ai principi adottati dal Summit della Terra di Rio. Ciò che ha fatto, invece, è stato mettere in atto un meccanismo di commercio di emissioni che, in realtà, ricompensa gli inquinatori, assegnando loro diritti sull'atmosfera e permettendo che questi diritti all'inquinamento diventassero oggetto di contrattazione. Oggi, il mercato delle emissioni è arrivato a 30 miliardi di dollari, ma ci si aspetta che raggiunga il trilione. Le emissioni di anidride carbonica continuano ad aumentare, mentre crescono anche i profitti da «aria fritta». La chiamo «aria fritta» in senso letterale, in quanto aria calda che porta al riscaldamento globale, e in senso metaforico, perché è aria fritta che si basa su un'economia finanziaria fittizia che ha sopraffatto, in dimensioni e nella nostra percezione, la vera economia. Un'economia d'azzardo ha permesso alle società e ai loro proprietari di moltiplicare il patrimonio senza limite e senza alcuna relazione con il mondo reale. Eppure, questi patrimoni sempre insaziabili cercano di prendere possesso delle risorse reali delle persone - la terra e le foreste, le aziende agricole e il cibo - per trasformale in denaro contante. Senza tornare al mondo reale non si possono trovare le soluzioni che aiuteranno a mitigare il cambiamento climatico. Un altro falso rimedio al cambiamento climatico è la promozione di biocarburanti a base di mais, soia, olio di palma e jatropa. I biocarburanti, combustibili ottenuti dalle biomasse, continuano ad essere la principale fonte energetica per le popolazioni povere del mondo. L'azienda agricola ecologica e biodiversa, ossia biologicamente varia, non è solo una fonte di cibo, è anche fonte di energia. L'energia per cucinare deriva dalle biomasse non commestibili, come sterco bovino essiccato, steli di miglio e gambi di leguminose, da specie agroforestali presenti sui terreni boschivi di proprietà dei villaggi. Gestite in modo sostenibile, le comunanze dei villaggi sono da secoli fonte di energia decentralizzata. I biocarburanti industriali non sono i combustibili dei poveri, ma sono il cibo dei poveri trasformato in calore, elettricità e trasporti. I biocarburanti liquidi, soprattutto l'etanolo e il biodiesel, sono uno dei settori di produzione in maggiore crescita, stimolato dalla ricerca di risorse alternative ai carburanti fossili, da un lato, per evitare la catastrofica impennata di prezzo del petrolio, e dall'altro, per ridurre le sostanze ricche di amido, come mais, orzo e grano. L'etanolo viene mescolato con il petrolio. Il biodiesel si produce solo con sostanze vegetali, come l'olio di palma, l'olio di soia e l'olio di semi di colza. Il biodiesel viene mescolato al diesel. (...) Il settore dei biocarburanti è cresciuto rapidamente in tutto il mondo. Gli Stati Uniti e il Brasile hanno creato industrie per la produzione di etanolo e anche l'Unione Europea si sta mettendo di fretta al passo per esplorare il mercato potenziale. I governi di tutto il mondo incoraggiano la produzione di biocarburante con politiche a sostegno. Gli Stati uniti stanno spingendo le altre nazioni del terzo mondo ad introdurre la produzione di biocarburante in modo da soddisfare i propri fabbisogni energetici, anche se questo significa svaligiare le risorse altrui. È inevitabile che questa massiccia crescita della domanda di cereali si risolverà a scapito della soddisfazione dei bisogni umani, con i poveri incapaci di competere economicamente e tagliati fuori dal mercato alimentare. Nel febbraio dello scorso anno il Movimento dei Senza Terra brasiliano ha rilasciato una dichiarazione in cui nota che «l'espansione della produzione di biocarburanti aggrava la fame nel mondo. Non possiamo mantenere i serbatoi pieni mentre gli stomaci si vuotano». La deviazione delle risorse alimentari a risorse per produzione di carburante ha già innalzato il prezzo di granturco e soia. In Messico si sono verificate rivolte per l'aumento di prezzo delle tortillas. E questo non è che l'inizio. Immaginate quanta terra è necessaria per produrre il 25% del combustibile utilizzando le risorse alimentari. Una tonnellata di granturco produce 413 litri di etanolo. 35 milioni di galloni di etanolo richiedono 320 milioni di tonnellate di granturco. Nel 2005 gli Stati uniti hanno prodotto 280,2 milioni di tonnellate di granturco. Con la stipula del Nafta, gli Stati Uniti hanno distrutto tutte le piccole aziende agricole messicane, rendendo il Messico dipendente dal granturco Usa. È stato proprio questo il motivo alla base della rivolta zapatista. Oggi nel paese, in seguito alla conversione del granturco in biocarburante, il prezzo del granturco ha subito un forte rialzo. I biocarburanti industriali vengono promossi come fonte di energia rinnovabile e mezzo per ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Tuttavia, ci sono due inoppugnabili ragioni ecologiche che spiegano perché la conversione di colture come soia, granoturco e palma da olio in carburanti liquidi possa aggravare il caos climatico e il carico di CO2. In primo luogo, la deforestazione causata dall'espansione delle piantagioni di soia e di palme da olio sta portando a un aumento di emissioni di CO2. Secondo le stime della Fao, ogni anno vengono rilasciati nell'atmosfera 1,6 miliardi di tonnellate di gas a effetto serra provenienti dai disboscamenti, tra il 25 e il 30% dei gas totali. Entro il 2022 le piantagioni per la produzione di biocarburante potrebbero avere distrutto il 98% delle foreste pluviali indonesiane. (...) In secondo luogo, la conversione di biomassa in carburante liquido comporta l'impiego di quantitativi di carburante fossile maggiori rispetto a quello che sostituisce.La produzione di un gallone di etanolo richiede 28.000 Kcal. Un gallone di etanolo fornisce 19.400 kcal di energia. Un rendimento energetico pari al 43%. Gli Stati Uniti si serviranno del 20% del proprio granturco per produrre 5 miliardi di galloni di etanolo, che sostituiranno l'1% dell'uso di combustibile. Se si dovesse impiegare il 100% del granturco, si sostituirebbe solo il 7% del petrolio totale. Non è certo una soluzione questa, non per controbattere i prezzi record del petrolio, e né per mitigare il caos climatico. (David Pimentel alla conferenza IFG sulla "Triplice crisi", Londra, febbraio 23-25, 2007) Ed è fonte di altre crisi. Per produrre un gallone di etanolo vengono usati 1700 galloni di acqua. Il granturco necessita di più azoto fertilizzante, insetticidi ed erbicidi di qualsiasi altra coltivazione. Questi falsi rimedi finiranno per accrescere la crisi climatica, aggravando e acuendo al contempo la diseguaglianza, la fame e la povertà. Esistono, tuttavia, soluzioni reali che possono mitigare il cambiamento atmosferico ed anche influire sulla riduzione della fame e della povertà. Secondo il Rapporto Stern, l'agricoltura è responsabile del 14% delle emissioni, lo sfruttamento del terreno (con riferimento soprattutto alla deforestazione) lo è del 18% e il trasporto del 14%. All'interno di questo computo rientra il crescente fenomeno del trasporto di derrate fresche, che potrebbero essere coltivate in loco. L'agricoltura che fa uso della chimica industriale, nota anche come Rivoluzione Verde (Green Revolution) quando venne introdotta nei paesi del Terzo Mondo, è la fonte principale dei tre gas a effetto serra: anidride carbonica, ossido di azoto e metano. L'anidride carbonica viene emessa quando si utilizzano carburanti fossili per i macchinari e per il pompaggio dell'acqua dai pozzi, per la produzione di fertilizzanti chimici e pesticidi. I fertilizzanti chimici emettono azoto ossigeno che, come gas serra, è 300 volte più letale dell'anidride carbonica. Infine, l'allevamento di animali a granaglie è la fonde principale di metano. Gli studi indicano che un passaggio da una dieta a base di granaglia a una dieta biologica a base erbacea potrebbe ridurre fino al 50% l'emissione di metano attribuibile al bestiame. Non tutti i sistemi agricoli contribuiscono, tuttavia, alle emissioni di gas serra. L'agricoltura ecologica e biologica diminuisce le emissioni sia riducendo la dipendenza da combustibili fossili, da fertilizzanti chimici e da alimentazione intensiva, sia assorbendo un maggiore quantitativo di carbonio nel terreno. I nostri studi dimostrano un aumento di sequestro di carbonio fino al 200% nei sistemi biologici biodiversi. Quando «ecologico e biologico» si combinano a «diretto e locale», le emissioni vengono ulteriormente ridotte, grazie alla riduzione del consumo energetico per il trasporto del cibo, l'imballaggio e la refrigerazione. Il sistema alimentare locale ridurrà la necessità di incrementare l'agricoltura nelle foreste pluviali di Brasile e Indonesia. Con una transizione tempestiva, potremmo ridurre le emissioni, aumentare la garanzia e la qualità del cibo e migliorare la resistenza delle comunità rurali nell'impatto col cambiamento climatico. Optare per una transizione dal sistema alimentare industriale globalizzato, imposto da Omc, Banca Mondiale e Agribusiness globale, a sistemi alimentari ecologici e locali, rappresenta una strategia di mitigazione e di adattamento al cambiamento climatico. Protegge i poveri e protegge il pianeta. Lo scenario post-Kyoto deve necessariamente includere l'agricoltura ecologica come soluzione climatica.

Traduzione di Laura Pagliara

La produzione teorica di Jonathan Simon ruota attorno a quella secolare «guerra al crimine» che i vari governi statunitense stanno combattendo. Docente all'Università della California, ne ha ricostruito la storia in alcuni libri, purtroppo non tradotti in Italia, eccetto questo Governo della paura (Raffaello Cortina, pp. 403, euro 29), nel quale Simon concentra la sua attenzione sulle politiche della sicurezza statunitensi in quanto politiche di controllo sociale contro gruppi specifici della popolazione, dagli afro-americani ai latinos, dai poveri a uomini e donni di origine araba. E di come la privatizzazione del sistema penitenziario assieme alle politiche di «tolleranza zero» costituiscano appunto aspetti della trasformazione del «penale» in un dispositivo di uno stato di sicurezza nazionale. Così, mentre la tolleranza zero ha solo relegato ai margini delle metropoli gli «scarti umani» prodotti dal neoliberismo, le campagne mediatiche sulla diffusione delle droghe pesanti, della pornografia, della piccola criminalità alimentano una vera e propria settore economico, che combina tecnologie della sorveglianza, vigilantes, sviluppo di quartieri blindati (le cosiddette gated communities) e costruzione di penitenziari «privati». Nell'intervista che segue Jonathan Simon ha mostrato interesse anche su ciò che sta accadendo in Europa sulle politica della sicurezza e la militarizzazione della repressione contro i migranti. Per Simon, in Europa come negli Stati Uniti, la retorica sulla assenza di sicurezza non ha nessun riscontro empirico.

Negli Stati Uniti le politiche sulla sicurezza e contro la criminalità sono spesso motivate dalla convinzione che il criminale ha sempre un volto colorato: gli afro-americani, i latinos, gli asiatici. Si potrebbe dire che tutte le politiche contro la criminalità sono anche anche politiche di controllo sociale contro le minoranze etniche. Una sorta di riedizione razziale delle «classi pericolose» ottocentesche. Lei che ne pensa?

Sì, negli Stati Uniti le politiche contro la criminalità sono sempre state parte integrante delle politiche di controllo sociale delle minoranze. Questo emerge con più forza da quando esistono le cosiddette «prigioni in affitto», cioè quella privatizzazione del sistema penitenziario che ha caratterizzato spesso gli stati del sud, dove la popolazione carceraria è in stragrande maggioranza di origine afro-americana. Lo stesso si può dire di molte norme sulla sicurezza interna, laddove hanno ripristinato forme di segregazione razziale, in maniera esplicita sempre nel Sud, informalmente negli stati del Nord. Ciò che nei miei studi ho però voluto sottolineare è la continuità della politica statunitense nella «guerra al crimine» che ha sempre combinato repressione e retorica sui diritti civili dei detenuti. Una combinazione che non è venuta meno nemmeno durante la cosiddetta la «rivoluzione dei diritti civili». Negli anni Quaranta del Novecento, la componente «liberal» del Congresso, chiedeva repressione e al tempo stesso sosteneva anche che il «crimine dei negri» era il sintomo di un diffuso malessere sociale che richiedeva un massiccio intervento federale contro la povertà. Eppure furono emanate leggi molto repressive che colpirono duramente gli afro-americani. Negli anni Ottanta, il partito democratico aveva la maggioranza nel congresso. Eppure, con l'appoggio di molti leader della comunità afro-americana, ha proposto e fatto approvare leggi che prevedevano pene durissime sulla produzione e vendita di droga. L'obiettivo era contrastare la diffusione del crack e della cocaina, ma si tradussero in un aumento indiscriminato delle pene inflitte agli afro-americani. Sono questi gli anni in cui la retorica dei diritti delle vittime del crimine cerca e trova legittimazione negli anni Sessanta, quando le associazioni per le libertà civili sostenevano che le vittime di una qualche ingiustizia erano titolari di particolari diritti e che lo stato doveva intervenire per tutelarli. Non sostengo che il movimento sociale degli anni Sessanta sia responsabile di questa combinazione infernale di discriminazione razziale e politica dei diritti civili. Ciò che ho constatato nelle mie ricerche è che molti americani hanno appoggiato repressive politiche contro la criminalità utilizzando, cambiandogli di senso, l'ordine del discorso sui diritti inalienabili delle vittime di un'ingiustizia. E che erano esponenti politici e della società civile che facevano riferimento si al partito democratico che a quello repubblicano. L'obiettivo di imporre una supremazia bianca nel paese è largamente screditato, sebbene quella fosse l'aspirazione di molti elettori di entrambi i partiti almeno fino alla fine degli anni Sessanta. Tuttavia, l'obiettivo di garantire la sicurezza delle comunità - obiettivo che ha una lunga e contraddittoria storia negli Stati Uniti - è diventato egemone come obiettivo politico di entrambi i partiti, nutrendosi anche di contenuti razziali, visto che i nemici venivano individuati in questa o quella minoranza a seconda di chi parlava.

Alcuni studiosi sostengono che il governo della paura è in realtà una politica contro i poveri. Cosa ne pensa di questo punto di vista? la politica

Una volta con Michel Foucault discutemmo a lungo della tendenza in atto tra gli studiosi di porre l'attenzione sulla repressione esercitata dal potere, dimenticando però il modo di produzione del potere. In quell'occasione concordavamo sul fatto che se uno si concentra sulle politiche repressive è ovvio che giunge alla conclusione che la guerra al crimine è in realtà una guerra ai poveri. Ma questo, allora come oggi, è solo un aspetto di quelle che lei chiama governo della paura. Se infatti concentriamo l'attenzione anche sui dispositivi del potere come formalizzazione di determinati stili di vita, possiamo affermare senza essere smentiti che le politiche sulla sicurezza hanno al centro la difesa dello stile di vita della middle-class. D'altronde, è il ceto medio che, in nome della sicurezza, alimenta la costruzione delle comunità recintate negli Stati Uniti. Ed è il ceto medio che domanda alle imprese high-tech la produzione di programmi informatici e microprocessori che filtrano l'accesso a Internet, inibendo la connessione ad alcuni siti considerati «rischiosi». Ed è sempre il ceto medio che manda i propri figli a scuole dove la sicurezza è il marchio d'origine della vita scolastica.

La politica della sicurezza contribuisce allo sviluppo delle tecnologie della sorveglianza, dalle videocamere disseminate nelle metropoli al software per il «controllo» della rete o per il morphing, cioè il riconoscimento facciale. Per gli attivisti dei diritti civili o alcuni studiosi sono tecnologie che limitano la democrazia e rappresentano un attacco alla privacy. Cosa ne pensa?

Non ci sono dubbi che il «panopticon» della modernità che lei descrive è pagato dalla middle-class in nome della sicurezza. È stato chiesto che ci fosse un «Grande fratello» e chiunque mette in discussione la sua autorità è guardato con sospetto. Il segreto dell'iniziale successo della presidenza di George W. Bush è stato proprio l'insistenza sulla sicurezza e sulla necessità di uno stato forte che la salvaguardasse con ogni mezzo necessario. Le prigioni che dovrebbero tenere segregati i «nemici della società» sono però un luogo oscuro dove il potere non riesce a esercitare il controllo su chi ci vive.

Tanto negli Stati Uniti che in Europa la politica sulla sicurezza ha come obiettivo anche i migranti e altri gruppi della popolazione come i giovani, prendendo a pretesto il fenomeno delle bande giovanili. Negli Stati Uniti alcuni giornalisti e studiosi parlano di una strisciante guerra culturale contro le controculture perché considerate devianti. Perché, secondo lei, la polizia o il potere politico considerano i giovani dei nemici della società?

Da una parte i comportamenti giovanili sono definiti devianti come atto preventivo e sono colpiti per evitare che si trasformino in comportamenti criminali. Anche questa è una vecchia storia. Molti criminologi, da Cesare Lombroso in poi, hanno sostenuto che i giovani sono potenzialmente disponibili a intraprendere attività criminali. Sono quindi i bersagli potenziali nella guerra alla droga, perché la consumano o la spacciano; inoltre sono dei potenziali criminali economici economiche, perché scaricano illegalmente musica, film e software dalla rete. La legislazione antimmigrazione è invece motivata dal fatto che i migranti sono anch'essi potenzialmente dei criminali, perché è la loro condizione sociale che li predispone al crimine. Inoltre, i migranti, in quanto stranieri, mettono in discussione la «sovranità» di un governo di esercitare il potere all'interno della propria nazione. In tutto il ventesimo secolo, i vari governi americani hanno guardato all'immigrazione come un problema di gestione del mercato del lavoro. C'era una domanda di forza-lavoro che veniva soddisfatta regolando l'accesso sorvegliato alla cittadinanza. Più recentemente, invece, i migranti sono diventati un problema di sicurezza nazionale. Non c'è dubbio che l'attuale regime di governo della paura abbia le sue radici negli anni Sessanta, quando appunto i migranti sono stati affrontati come un problema di criminalità, perché vivevano, in quanto clandestini, nell'illegalità. È stato un cambiamento di toni, di dettaglio se vediamo che le leggi che regolano l'immigrazione non hanno avuto grandi riscritture. Da allora, piano piano, l'equazione tra migrante e criminale è entrata nel senso comune. Tanto negli Stati Uniti che anche da voi in Italia c'è stata ed è tutt'ora vigente una politica repressiva contro i migranti. Ma è importante sottolineare che sono politiche che oltre a configurarsi come repressione della criminalità legittimano l'uso della discrezionalità da parte del governo e dell'amministrazione nel governare la popolazione. E la discrezionalità nega qualsiasi possibilità di controllo sull'operato del governo, perché la discrezionalità non prevede nessuna pubblicità sull'azione dei pubblici poteri. Il governo della paura deve essere quindi al riparo da sguardi indiscreti. Il contrario cioè dello stato di diritto.

Con la vicenda Alitalia e con l'ormai prossimo epilogo della trattativa sul modello contrattuale, entrambi recanti il sigillo dell'aquila confindustriale, si materializza il progetto di un nuovo paradigma economico, sociale, politico, il cui tratto distintivo è quello di una indiscussa egemonia del capitale sul lavoro. E si cementa un blocco politico-sociale che proietta definitivamente l'Italia fuori dalla sua Costituzione, stracciandone anche quel titolo III che disciplina le relazioni economico-sociali, fissando nel primato e nella tutela della dignità e della sicurezza del lavoro il limite invalicabile dell'iniziativa privata. Da una parte, c'è una cordata di avventurieri che rappresentano la versione affaristica, speculativa e usuraria del capitalismo italiano, clientes del governo e in sodalizio parassitario con esso. Costoro, nulla rischiando in proprio, impongono per Alitalia una soluzione che prevede il ricorso ai licenziamenti di massa, bilanciati da più lavoro e meno salario per i sopravvissuti alla mattanza, in cambio di un progetto di rilancio industriale che ha lo spessore di un foglio di carta. Mentre la sorte di 4.000 precari non è neppure oggetto di negoziato.

Dall'altra parte, Confindustria consegna ai sindacati un documento che spazza via la già tremebonda piattaforma sindacale, resa ancor più volatile dall'esser priva di qualsiasi mandato dei lavoratori. Con l'arroganza di chi pensa che ormai tutto le sia possibile, Confindustria mette a tema la liquidazione del contratto nazionale e, con esso, del sindacato. Il manifesto ha dato puntualmente conto, nei giorni scorsi, della luciferina coerenza del disegno. Quello che si delinea è il modello di un sindacato collaborativo, la cui funzione essenziale è di immolare i lavoratori al dogma della competitività, tutta costruita sulla flessibilità assoluta del mercato del lavoro e della prestazione. I lavoratori sono ridotti a combustibili del processo di accumulazione o, per usare le parole di Emma Marcegaglia a «complici» dell'impresa e delle sue ragioni. La rivendicazione di un'alterità, di una soggettività culturale e politica del lavoro è messa al bando come un'anacronistica velleità.

All'eutanasia del sindacato di classe corrisponde tuttavia un premio: la proliferazione di una pervasiva rete di commissioni bilaterali che sostituiscono la contrattazione, inibiscono il conflitto, assicurano al sindacato la sussistenza economica grazie alle quote di servizio obbligatorie che rendono via via ininfluenti quelle associative, volontarie. Il sindacato, dunque, sopravvive, ma come corpo burocratico, «parastatalizzato», gestore di servizi a domanda individuale, ingranaggio del potere costituito e di quella comunità solidale che è l'impresa. Un sindacato al quale è estraneo qualsiasi rapporto democratico con i lavoratori. Ciò di cui la Cgil discuterà nei prossimi giorni è dunque l'avvenire del sindacalismo italiano. La speranza è che prevalga in essa la forza (e la lungimiranza) di sottrarsi al ricatto di un finto negoziato che, nel perimetro dato, produrrà danni irreversibili. Dev'essere battuta l'idea nefasta secondo cui anche il peggior accordo è meglio che nessun accordo, perché qui non si tratta di arretrare i confini di una trincea difensiva: qui c'è la richiesta di capitolazione, la dichiarazione sottoscritta di subalternità del lavoro all'impresa. La grande responsabilità che la Cgil non può disattendere consiste nel rompere questa coazione suicidiaria e dedicarsi alla faticosa ricostruzione di una propria identità strategica. Ma intanto da qui, sull'orlo del baratro, è indispensabile fare un passo indietro.

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