Oggi, a Genova
Aspettiamo con ansia e con speranza la sentenza. Molto dellq soprqvvivenza della democrazia in Italia dipende dalla risposta dei giudici. Il manifesto, 13 novembre 2008
Quelle immagini sono già un giudizio, ciò che manca ora è una sentenza. L'ultimo fotogramma, rimandatoci dalla Bbc, immortala un poliziotto mentre introduce - la notte del 21 luglio 2001 - nella scuola Diaz le due famose molotov poi esibite per giustificare un massacro di ragazzi inermi. E, aggiungendosi ad altre sequenze, chiarisce tutto. Se ce ne fosse stato ancora bisogno.
Scopre il velo di una mattanza messa in atto contro una generazione, per convincerla a starsene a casa per sempre, a lasciar perdere l'impegno pubblico e le passioni comuni - cioè la politica nel senso più alto del termine. Spiega un modo d'intendere il potere e le istituzioni come delega definitiva a una casta di «eletti» indisponibile a ogni messa in discussione e persino a ogni critica. Illumina sulla falsità della polizia e dei suoi vertici che nel corso degli anni si sono sempre più concepiti come apparato indipendente da ogni controllo, braccio armato e giudiziario allo stesso momento. E ci racconta - quell'immagine -, secondo i canoni della banalità del male, cosa abbia significato davvero la messa in mora dello stato di diritto di quelle giornate genovesi. Annuncio estremo di un processo che arriva fino ai nostri giorni.
Oggi, su quei fatti criminosi, si pronuncia un tribunale della Repubblica. Una sentenza impegnativa e difficile, perché sul banco degli imputati ci sono anche alcune figure di vertice della polizia di stato - da Luperi a Gratteri a Calderozzi - accusate di falso, proprio per aver avallato (se non diretto) il tragitto di quelle molotov. E, fuori dall'aula, alle loro spalle la sentenza chiamerà in causa l'operato dell'ex capo della polizia, Giovanni De Gennaro, oggi assurto all'altissimo rango di surpercapo dei servizi segreti. Logica vorrebbe - quell'immagine vorrebbe - che gli imputati fossero condannati e con quella sentenza «condannato» anche il loro ex capo. Non per spirito di vendetta, ma per dovere di razionalità. Per non ridurre il tutto ai soliti capri espiatori da trovare nella «manovalanza» (seppur in divisa). Perché così vorrebbero giustizia e verità. Per rovesciare il parere dell'avvocatura dello stato (cioè di questo governo, che era poi lo stesso di allora) che nonostante tutto li vorrebbe innocenti. Ma soprattutto perché le istituzioni della Repubblica acquisirebbero un minimo di credibilità, sanando - almeno in parte - gli abusi commessi contro persone inermi e, attraverso esse, contro la stessa Costituzione.
In gioco non c'è «solo» il giudizio sui crimini commessi: per quello basterebbero i fatti. Ma c'è anche il futuro di questo paese, se qui da noi sia o meno possibile prendere la parola, essere protagonisti del proprio futuro, agire pubblicamente senza che tutto questo sia sottoposto a un'autorità assoluta e incontrollabile. Insomma la libertà e i suoi diritti, quella democrazia di cui tutti parlano e che in troppi violentano ogni giorno.
Siccome non tutti possono espatriare all'Eliseo come Carla Bruni per sentirsi fieri di non essere italiani, speriamo almeno che qualcuno si vergogni di vivere in un paese che si accalora per il colorito di Obama e per le battute razziste di Berlusconi e poi lascia passare sotto silenzio un disegno di legge sulla «sicurezza» che sembra pensato apposta per far rimpiangere la legge Bossi-Fini.
Lo scandalo delle norme che verranno discusse oggi in Senato, infatti, è inferiore solo all'indifferenza che le circonda. Forse ci siamo distratti, eppure non abbiamo ancora registrato reazioni indignate da parte delle «forze» di opposizione, nessuno che abbia espresso l'intenzione di sdraiarsi sui binari, o magari solo sui banchi di Palazzo Madama. Eppure la nuova disciplina di stampo fascio/leghista che a colpi di emendamenti renderà impossibile la vita agli immigrati richiederebbe una capacità di mobilitazione (o indignazione) straordinaria, perché si tratta di un concentrato di perfidia applicato alla vita quotidiana di milioni di persone che vivono tra noi.
Cominciamo da quello che viene spacciato come un miglioramento, l'aspetto più «soft» e un po' straccione del nuovo razzismo all'italiana. I «clandestini», vivaddio, non verranno più arrestati in massa come voleva il ministro Maroni in un primo momento (anche se l'internamento nei cpt per identificarli viene prolungato fino a un anno e mezzo) ma saranno costretti a pagare «solo» una multa da 5 a 10 mila euro: circa un anno di stipendio in nero di una badante che contribuisce a non far crollare il nostro welfare, o di un muratore rumeno non stupratore che ogni giorno rischia la vita nei nostri cantieri. Per restare ai furti legalizzati, oggi i senatori della Repubblica italiana discuteranno anche dell'introduzione di una nuova tassa: 200 euro per il rilascio o rinnovo di permesso di soggiorno. Non sarà odioso come lo ius primae noctis, ma da domani gli stranieri potrebbero non essere più uguali nemmeno davanti all'altare: sarà vietato sposarsi a chi non ha il permesso di soggiorno. E poteva anche andare peggio. Solo per l'opposizione dell'Ordine dei medici, infatti, non è passata una norma che obbligava i medici a trasformarsi in spioni e denunciare i malati «clandestini». Sulle ronde legalizzate - si discuterà anche di questo - ormai la partita la diamo per persa, se non per una questione di sfumature: come la sicurezza, si sa che non sono né di destra né di sinistra, piaccono a Tosi come a Cofferati. E per finire, hanno anche inventato la pagella del «negro buono», una sorta di patente a punti: penalizza chi passa col rosso o non paga le tasse (roba da italiani veri) e premia chi dà prova di italianità verace, «superando un corso atto a verificare il livello di integrazione sociale e culturale». In un rigurgito di democrazia, oggi il Senato si pronuncerà anche sull'istituto referendario: i rom potranno sostare in un Comune solo dopo l'indizione di un referendum cittadino. Cioè mai, e se non la capiranno, Opera e Ponticelli hanno già fatto scuola.
Sarà battaglia in aula? Forse, anche questa volta, non ci resta che sperare nei cristiani più caritatevoli, gli unici che hanno il coraggio di scrivere che mai i rom hanno rapito bambini in Italia. Un fatto da secoli incontrovertibile, né di destra né di sinistra.
Quest’anno cade il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, a cui ho dedicato il mio discorso all’assemblea annuale del World Political Forum. Nel pieno di una crisi che colpisce tutto il mondo è una data che di per sé ci costringe a ricordare questo punto di riferimento dello sviluppo dell’umanità. Ma ricordare non basta. Oggi dobbiamo discutere di come avvicinarci agli obiettivi esposti in quel documento, nel contesto delle sfide del nuovo millennio e degli elementi che hanno prodotto la crisi in cui versa la politica mondiale.
Credo che gli autori della Dichiarazione Universale si rendessero ben conto che grande è la distanza tra i principi enunciati e la loro realizzazione. Un forte contributo è stato dato dai movimenti che si sono battuti per i diritti civili, contro la discriminazione razziale e i regimi totalitari. E dai loro leader morali, Martin Luther King, Nelson Mandela, Andrej Sakharov.
Ma nel mondo diviso dagli scontri ideologici e dalla guerra fredda gli ideali dei diritti umani venivano sempre messi in secondo piano e travisati. I cambiamenti avvenuti nel nostro Paese, in Europa e nel mondo nella seconda metà degli anni Ottanta ci hanno dato una chance irripetibile: quella di mettere in archivio la guerra fredda e lo scontro, anche in materia di diritti umani. Abbiamo avuto una reale possibilità di farlo, di ridurre tutti i tipi di armi e spostare le risorse per la soluzione di problemi come la povertà, il ritardo, il degrado ecologico.
Uscendo dalla guerra fredda si comprese che non esistono diritti umani in un mondo dove miliardi di persone vivono con un dollaro al giorno, senza accesso all’acqua pulita, all’istruzione e all’assistenza medica. Che essi non possono farsi spazio in un mondo condannato a infiniti conflitti e alla corsa agli armamenti. In certo senso, siamo tornati a Franklin Roosevelt, che dichiarò fondamentali non solo la libertà di parola e di professione religiosa, ma anche la libertà dal bisogno e dalla paura.
Noi abbiamo avuto la possibilità di procedere insieme in questa direzione. Ma bisognava davvero passare dallo scontro alla cooperazione, cancellare le vecchie linee di separazione senza crearne di nuove. Insomma, passare a una nuova politica mondiale. Sappiamo che così non è stato.
La globalizzazione, che avrebbe potuto avvicinare miliardi di persone, ha seguito un altro scenario. I politici non sono stati all’altezza. Così cresce il divario tra ricchi e poveri, la crisi ecologica, il terrorismo e il fallimento della politica, fino alle guerre.
È giunto il momento di parlare anche del rischio di militarizzazione della politica e del pensiero, incompatibile con i diritti dell’uomo. Intanto perché il primo diritto è quello alla vita, e militarizzazione vuol dire morte. Ma anche perché l’uso della forza come soluzione universale dei problemi, come mezzo di democratizzazione e stimolo alla crescita è un’assurdità contro il buon senso e contro l’intera esperienza dell’umanità.
Credo che il vicolo cieco in cui si trova la politica si farà ancor più sentire con la crisi, iniziata come crisi finanziaria, ma che diventerà politica nei vari Paesi e nel mondo. Essa conferma l’interdipendenza dei processi mondiali, in questo caso un’«interdipendenza col segno meno». E le cause vanno ricercate soprattutto nella politica, intimamente legata negli ultimi quindici-vent’anni al modello dell’ultraliberismo, di cui ora capiamo tutta l’inconsistenza e l’amoralità. Un modello che ignora gli imperativi della solidarietà umana, ma anche gli interessi e le necessità della società. Parte indissolubile di quel modello è l’antidemocraticità del sistema economico globale, visto che le decisioni prese in un centro di potere hanno conseguenze fatali per tutti
Si può già prevedere che la crisi colpirà duramente i diritti di centinaia di milioni di persone, soprattutto se, nel tentativo di uscirne, si continuerà a salvare prima i pilastri del sistema finanziario e poi la gente, capitalismo spietato per la maggioranza e "socialismo", aiuto dello Stato, per i ricchi.
Siamo alla nascita di un nuovo sistema economico finanziario sostenuto da un grande gruppo di Stati, non solo quelli del «miliardo d’oro», ma anche altri (Cina, India, Brasile, Sudafrica e Messico). Quali principi verranno messi alla base di questo sistema è un fatto fondamentale, anche dal punto di vista dei diritti umani. Credo che l’esito finale dipenderà da quanto democratica sarà la fase iniziale, se saprà tener conto degli interessi della comunità internazionale. Se avrà, o meno, un fulcro etico, morale.
A suo tempo io posi il problema del rapporto tra politica e morale. Durante la perestrojka cercai di agire partendo dall’assunto che esse sono compatibili e una buona politica non può prescindere dall’etica. Per questo, nonostante tutti gli errori, siamo riusciti a tirare fuori il nostro Paese da un sistema totalitario, per la prima volta nella storia della Russia senza enormi spargimenti di sangue, portando avanti quel processo fino al punto in cui non era più possibile rigettarlo indietro. Ora è il momento di affrontare il nodo del rapporto tra economia e morale. Sappiamo che l’attività economica deve produrre profitto, altrimenti scompare. Ma il motto «l’unico dovere di un uomo d’affari è produrre profitto» confina con un altro motto: «profitto a qualsiasi prezzo». E allora non c’è più spazio per nessun diritto, per l’etica più elementare.
Questo ci porta a riflettere su una nuova architettura politica mondiale. È la grande sfida che abbiamo davanti: inserire il fattore umano e della morale per garantire all’umanità un’esistenza degna nel prossimo futuro. È questa la sfida che per la nuova generazione dei politici.
Amici, chi fra noi non è senza parole? Le lacrime scorrono. Lacrime di gioia. Lacrime di sollievo. Una sbalorditiva, colossale alluvione di speranza in un periodo di profonda disperazione. In una nazione che è stata fondata sul genocidio e poi costruita sulle spalle degli schiavi, questo è stato un momento inatteso, scioccante nella sua semplicità: Barack Obama, un brav´uomo, un uomo nero, ha detto che avrebbe portato il cambiamento a Washington, e la maggioranza del paese ha apprezzato questo concetto. I razzisti sono stati presenti per tutta la campagna elettorale e anche nella cabina di voto. Ma non sono più la maggioranza e vivremo abbastanza da vedere la loro fiamma di odio sfrigolare e spegnersi.
Mai prima d´ora, nella nostra storia, un candidato dichiaratamente contrario alla guerra era stato eletto presidente in tempo di guerra. Io spero che il presidente eletto Obama si ricordi di questo quando ipotizza l´idea di allargare la guerra in Afghanistan. La fede che oggi abbiamo in lui andrà perduta se si dimenticherà del tema che più di ogni altro gli ha consentito di sconfiggere i suoi compagni di partito nelle primarie e poi di sconfiggere un grande eroe di guerra nelle elezioni generali: il popolo americano è stufo di guerre. Stufo marcio. E ieri ha fatto sentire la sua voce in modo forte e chiaro.
Sono passati, imperdonabilmente, 44 anni da quando un democratico in corsa per la presidenza conquistò anche soltanto il 51 per cento del voto popolare. Questo si spiega col fatto che alla maggior parte degli americani i democratici in realtà non piacciono. Li vedono come gente che raramente ha il coraggio di portare a termine un lavoro o di difendere i lavoratori che dicono di sostenere. Beh, ecco la loro occasione. Gli viene offerta, via pubblico votante, nella forma di un uomo che non è un uomo d´apparato, non è un burocrate di Washington nato ricco. Diventerà uno di loro o costringerà loro a essere più simili a lui? Noi preghiamo per questa seconda ipotesi.
Ma oggi celebriamo il trionfo della civiltà contro gli attacchi personali, della pace contro la guerra, dell´intelligenza contro la convinzione che Adamo ed Eva appena 6.000 anni fa se ne andavano a spasso a cavallo dei dinosauri. Che esperienza sarà avere un presidente intelligente? La scienza, bandita per otto anni, farà ritorno. Immaginate, il governo che sostiene le più grandi menti del paese nei loro sforzi per curare malattie, scoprire nuove forme di energia e lavorare per salvare il pianeta. Datemi un pizzicotto, sto sognando.
Potremmo assistere, chissà, anche a un´epoca ristoratrice di apertura, illuminismo e creatività. Le arti e gli artisti non saranno visti come il nemico. Forse l´arte verrà esplorata per scoprire le verità più importanti. Quando Franklin Delano Roosevelt arrivò alla Casa Bianca sull´onda della travolgente vittoria elettorale del 1932, seguirono Frank Capra e Preston Sturgis, Woody Guthrie e John Steinbeck, Dorothea Lange e Orson Welles. Per tutta la settimana sono stato assediato da giornalisti che mi chiedevano «Ehi, Mike, che cosa farai ora che Bush non c´è più?». Ma scherzate? Come sarà lavorare e creare in un ambiente che alimenta e sostiene il cinema e le arti, la scienza e le invenzioni e la libertà di essere qualsiasi cosa tu voglia essere? Guardate mille fiori sbocciare! Siamo entrati in una nuova era, e se potessi riassumere il nostro primo pensiero collettivo di questa nuova era, suonerebbe così: tutto è possibile.
Un afroamericano è stato eletto presidente degli Stati Uniti! Tutto è possibile! Possiamo strappare l´economia dalle mani dei ricchi irresponsabili e restituirla al popolo. Tutto è possibile! Ogni cittadino può avere la garanzia di ricevere cure mediche. Tutto è possibile! Possiamo smetterla di sciogliere le calotte polari. Tutto è possibile! Chi ha commesso crimini di guerra sarà portato di fronte alla giustizia. Tutto è possibile!
Ma che inizio spettacolare! Barack Hussein Obama, 44° presidente degli Stati Uniti. Accidenti. Dico sul serio, accidenti.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
La marea post-televisiva
che rifiuta la fabbrica del consenso
di Benedetto Vecchi
L'onda anomala segue percorsi non prevedibili e può cambiare direzione e produrre esiti inattesi anche dagli stessi partecipanti. È imprevedibile perché miltiforme, talvolta contradditoria perché chi vi partecipa esprime modi d'essere, visioni della realtà che spesso le lenti offuscate dell'interpretazione continua a leggerli con categorie e griglie analitiche appesantite dal tempo. Questa prima e parziale lettura del movimento che sta scuotendo l'università i media l'hanno registrata poco, per metterla subito in archivio. E l'onda risponde anche in questo caso in maniera anomala. Gli studenti e le studentesse non si sentono, né vogliono essere rappresentati da nessuno se non da loro stessi. Diffidano dei partiti (tutti, nessuno escluso), ma anche dei media, che a dare una rappresentazione della realtà sono pur sempre deputati. E qualche dubbio sulle scienze sociali non è è da meno, visto che l'inchiesta sull'«onda anomala» presentata ieri a Roma è stata definita dagli studenti intervenuti a commentarla «un sondaggio».
Un'inchiesta certo parziale, anche per ammissione degli stessi ricercatori e docenti che l'hanno condotta, ma sul rapporto tra questi studenti e studentesse e il sistema dei media alcuni dati li offre per segnalare come i «produttori di opinione pubblica» sono screditati ai loro occhi. Se un qualche azzardo interpretativo è concesso, si potrebbe dire che l'onda anomala è una «generazione post-televisiva», nel senso che preferisce informarsi attraverso canali multipli, anche se Internet è di gran lunga il medium preferito. Quasi il cinquanta per cento dei settecento intervistati dichiara che si informa attraverso la rete, navigando indifferentemente tra siti mainstream e alternativi. Ma come ha tenuto a precisare un giovane del Dams intervenuto, la forma privilegiata della rete sono i blog messi in piedi da studenti e studentesse e «linkati» ad altri blog dello stesso tipo.
Dunque la rete non come il mondo della controinformazione a portata di click, ma come un contesto dove acquisire informazioni, rielaborarle in una presa di parola che, come un tam-tam, ha stabilito un fitto reticolo di blog, siti augogestiti che funzionano come un media «in divenire». Chissà cosa potrebbero dire i fondatori di Indymedia. Il loro slogan - «Non odiare i media, diventa tu stesso un media» - sembra essere diventato il normale accesso all'informazione di questo movimento, ma in una forma sicuramente non prevista, anomala appunto. Non progetti per siti di «movimento», ma blog, racconti in prima persona, il rinvio a altri siti, un «taglia e cuci» in una caotica costruzione di «un punto di vista» che diffida e «decostruisce» tanto le versioni governative che quelle dell'opposizione parlamentare. Solo così si spiega il rapporto episodico con la carta stampata (solo il sei per cento) e quello più frequente, ma tuttavia minoritario, con la televisione (poco più del ventotto per cento usa anche la televisione per acquisire informazioni). Per di più è una lettura e una visione «infedele», nel senso che il tempo passato a leggere giornali o a guardare la tv è poco. Molti sono, infatti, i giovani che leggono il giornale dalle due alle quattro volte a settimana. E se i telegiornali sono visti tutti i giorni, per la televisione la scelta principale va ai film, i telefilm, mentre i programmi di intrattenimento sono «filtrati» attentamente.
Disincanto dunque verso la «fabbrica del consenso». Gli animi, ieri a Roma, si sono scaldati solo nella denuncia della disinformazione fatta dai media su alcuni fatti recenti (Piazza Navona). Ma poi preferiscono sottolineare che la presa di parola di questi giovani uomini e donne post-televisivi è un fatto che ha stabilito un prima e un dopo. Il prima plumbeo del movimento, il dopo della condivisione di una condizione dove il diritto di accesso a un'università pubblica, di massa e qualificata (qui la critica del funzionamento attuale dell'università è radicale) è considerato oramai un diritto sociale di cittadinanza non mediabile.
E sono gentili e cortesi quando ricordano che non vivono sulla luna. Il rifiuto della precarietà è radicale, perché lavorano già precariamente e il futuro non promette un cambiamento di condizione. Una forte consapevolezza della drammaticità della crisi economica, che impedisce di sperimentare una socialità piena al di fuori della famiglia. L'onda anomala vuol continuare a crescere. Sa che le prossime settimane la vedranno di nuovo in azione, ma nessuno prefigura cosa accadrà. C'è stato, appunto, un prima, dove molto era prevedibile, ma c'è stato un dopo considerato il contesto dove, per costruire un futuro, occorre cambiare il presente. Per questo occorre socializzare le esperienze, il proprio sentire.
E già ieri pomeriggio, in rete, il tam-tam dei blog ha detto che l'inchiesta era un sondaggio, più affidabile di altri, ma pur sempre un sondaggio. In fondo, hanno imparato la lezione e si comportano proprio come un media che non delega a nessuno la rappresentazione della propria realtà.
Radiografia dell'Onda
di Stefano Milani
È possibile studiare l'Onda? Prenderne l'essenza, metterla in una provetta ed analizzarla in laboratorio? Se è «anomala» poi, diventa tutto più complicato scomporla, decodificarla, definirla. Ci ha provato Edoardo Novelli, docente di comunicazione politica, insieme agli studenti del Dams di Roma Tre con un'interessante ricerca-sondaggio effettuata su un campione di 700 studenti a cui è stato chiesto di compilare un questionario. Chi sei, cosa fai, come vivi, per chi voti, quali sono i tuoi punti di riferimento, a cosa aspiri e via dicendo. Tutto materiale raccolto durante un'affollatissima assemblea di fine ottobre, mentre gli studenti organizzavano le mobilitazioni fuori dai loro atenei. Una fotografia di quello sterminato esercito del surf che quell'Onda sta cavalcando da settimane contro il decreto Gelmini, ora diventata legge dello Stato.
Il risultato che ne viene fuori è sorprendente, anomalo se vogliamo. Ti aspetti dei «facinorosi», ti ritrovi dei «bamboccioni». Il 75% vive ancora a casa con mamma e papà, «me li dai tu 700 euro per prendere quaranta metri quadri in affitto in periferia», ci dice Luca studente di Lettere. Bamboccioni per necessità, come dargli torto. Ma le sorprese sono altre. Politica? No, grazie. E nemmeno l'ideologia. «Noi ragioniamo sul merito e non per spirito di bandiera», dicono. I valori degli anti-Gelmini sono altri, i sessantottini non crederanno ai loro occhi: famiglia, amore, amicizia. L'impegno politico è solo al settimo posto. Lo dimostra il fatto che la stragrande maggioranza di loro (83,6%) non è iscritto nè a partiti nè a organizzazioni politico-sindacali. Certo, la connotazione vira decisamente più a sinistra, o meglio al centro sinistra. Nelle ultime elezioni uno su due ha messo la croce sul Partito democratico, nel senso che l'ha votato. Segue Sinistra arcobaleno (16,8%), Italia dei Valori (10,1%), Sinistra critica (3%) e poi il "partito" del non voto (9,5%) che tiene insieme astenuti, voti nulli e schede bianche.
E Veltroni è pure il politico più apprezzato, anche se decisamente più in basso (ottavo) nella top ten dei personaggi pubblici a cui i ragazzi «si sentono più vicini e in sintonia» (così recita la domanda). Sul podio c'è chi non ti aspetti: oro a Roberto Benigni, argento a Roberto Saviano (ci può stare), bronzo a Marco Travaglio. Due su tre sono personaggi pubblici, molto popolari e televisivi, in mezzo la figura che più incarna in questo momento l'impegno civico e civile. Seguono Gino Strada e Beppe Grillo, più staccata la strana coppia Jovanotti-Papa Wojtyla, chiudono il terzetto Veltroni, Di Pietro e il presidente della repubblica Napolitano.
Politica in zona retrocessione dunque, ma guai anteporre il prefisso "anti". «Meglio una voglia di una nuova politica, come rifondazione di una politica rappresentativa dei ragazzi che risponde alle loro idee e ai loro valori», come crede Francesca Cantù, preside della facoltà di Lettere e filosofia di Roma Tre. E come confermano molti studenti. «A noi non interessa il gioco destra-sinistra, a noi interessa che la scuola e l'università restino pubbliche, che il precariato sparisca, che i tagli all'istruzione e alla ricerca vengano abbattuti. Non è politica questa?».
E la buona politica è anche quella che combatte la corruzione, che risulta (34,2%) l'urgenza maggiormente percepita dagli studenti, più del lavoro (29,7%) e del costo della vita (24,5%), comunque temi caldi. Decisamente più lontane le urgenze di chi invece li governa, come la sicurezza, la criminalità e l'immigrazione. Dalla ricerca, ha commentato Novelli «sono emersi aspetti conflittuali assimilabili ai valori degli anni '70, '80 e '90, vale a dire l'impegno, la sfera personale e l'antipolitica, che costituiscono un unico soggetto inclassificabile che forma insieme agli altri un'onda anomala». Un mix forse troppo riduttivo per fotografare un movimento la cui forza sta proprio nella «non appartenenza» e «l'imprevedibilità» come ci tiene a sottolineare Anna, studentessa del Dams. Sennò che Onda anomala sarebbe.
Questa crisi non sarà la fine del liberalismo, ma certo di quel che chiamiamo neoliberismo, teoria e pratica «criminale» lanciata da Milton Friedman e i suoi Chicago boys, basata sullo sganciamento del mercato del lavoro da ogni diritto, della finanza da qualsiasi «economia reale», intendendo per questa la produzione d'una merce non fittizia, e prima ancora, nel 1971, dalla fine dello scambio fisso del dollaro che era ancora la moneta di riferimento. Dalla deregulation del lavoro è venuta una crescente fragilità del lavoro dipendente, con il risultato che salari e pensioni rappresentano ora dieci punti di meno nel reddito nazionale, con conseguente indebitamento prima e ormai calo della domanda interna, corsa affannosa e inconcludente dei paesi occidentali a raggiungere la crescita dei famosi Trenta Gloriosi. Su questa base traballante è caduto il vero e proprio furto, praticato dalle banche, avallando e mettendo in circolo una quantità di «derivati», titoli tossici privi di qualsiasi valore, fondati sulla mera credibilità, l'avidità degli azionisti, la miopia degli hedge fund, il livello pazzesco del mercato e del credito immobiliare, la crescita esponenziale del prezzo del petrolio. Tutte scelte «politiche», per nulla oggettive, pura ideologia. Veri e propri furti che per la loro dimensione costituiscono un «crimine contro l'umanità».
Non misura le parole il socialista Michel Rocard su Le Monde di qualche giorno fa, che negli anni Settanta aveva fondato e diretto il Psu, qualcosa di mezzo fra i nostri Psiup e Pdup, ma poi era diventato primo ministro di Mitterrand. Non aggiunge che egli stesso e Mitterrand si arresero al neoliberismo almeno per quanto permetteva la tradizione gaullista. Ma questa resa non la riconosce da noi nessuno fra i socialisti e le varie anime dei Ds. Dunque pace. Rocard dice di avere scritto a Barroso alcuni mesi fa assieme a Jacques Delors e altri, suggerendo di guardare in faccia questa realtà, ma di non aver avuto risposta: «Nessun grande economista ha fatto fino a ora l'analisi della crisi». E propone agli stati di non limitarsi a evitare il fallimento a domino di tutte le banche e assicurazioni, di non regalare nulla, di sottoporne a controllo alcune pratiche, interdicendo i «derivati» e ponendo limiti precisi agli hedge fund. Non solo, ma occorre che si reintroduca la regolamentazione del mercato del lavoro (il contrario di quel che vogliono Marcegaglia, Bonanni, Angeletti e il Pd), di immettere in Europa da tre a quattro milioni di immigrati per riprendere un equilibrio e, per quanto riguarda il petrolio, puramente e semplicemente ridurne il consumo spostando la spesa sulle energie alternative. Insomma, che le iniezioni di liquidità degli stati non siano fatte gratis, che la politica riprenda in mano una qualche direzione dell'economia liberandosi dalla velenosa tesi friedmanniana che più gli scambi sono illimitati più il mercato trova il suo equilibrio.
Questa è socialdemocrazia bella e buona. La quale presuppone uno stato - finora se ne sono occupati solo i governi, sempre più monarchici - che cambi alquanto, a cominciare dalla Commissione della Ue. E non sembra facile. Dove sono le sinistre, chiedo scusa, i liberalsocialisti o democratici, che lo chiedono? Questa politica porrebbe mano non più che a un «salvataggio» del capitalismo, tenendo presente che niente altro in questa fase ne minaccia l'esistenza, perché la crisi rovina i senza mezzi di produzione prima che quelli che li possiedono e i redditieri. (Alcuni di questi, per fortuna, sono in difficoltà ma non poi tanto. Considerata la dismisura del furto subito, si poteva attendersi che l'ultimo dei banchieri fosse impiccato con le budella dell'ultimo degli assicuratori, per usare un'espressione sanguinaria. Ma nulla di simile sta avvenendo. Il tizio che fa fatto fallire la banca Fortis è stato, diciamo così, licenziato in questi giorni con una indennità di 4 milioni di euro e resta «consigliere speciale» della Fortis medesima).
Basta, non ci resta che sperare in Obama, sulle cui intenzioni in merito nulla sappiamo. Ma almeno usciamo dalla spensieratezza dominante. Poche ore fa il Tg1 economia ha osservato che, se è vera la prognosi di Almunia d'una crescita zero, cominceranno problemi per l'occupazione. Cominceranno!
Nadia Urbinati, docente di teoria politica alla Columbia University di New York, è avvilita per quanto sta accadendo in Italia. La prossima settimana la ministra Gelmini presenterà la legge di riforma dell'università e già circolano le prime indiscrezioni, che parlano ancora una volta di tagli e blocco dei concorsi.
È un progetto enorme e orrendo. È esplicita l'intenzione di privatizzare il sistema pubblico universitario. Il governo non sta semplicemente facendo tagli al bilancio, ma siamo di fronte a un evidente processo di privatizzazione. L'università italiana è stata edificata con i soldi pubblici degli italiani ed è un bene di tutti i cittadini, l'esito del lavoro di diverse generazioni. Il governo sta stravolgendo un bene collettivo.
?
A mio modo di vedere essa si inserisce in un progetto ben più vasto. L'attuale governo Berlusconi, rispetto al precedente, ha un'identità ideologica più decisamente di destra. La riforma della scuola e i tagli all'università si collocano all'interno di un progetto volto a trasformare l'identità sociale del paese. Le conseguenze della legge Gelmini si possono riassumere in tre punti: toglie il diritto a un eguale livello di istruzione (tra l'altro creando scuole ghetto per i figli degli immigrati), apre la strada alla diseguaglianza sociale-educativa e usa lo Stato (decurtando risorse per la scuola pubblica) per creare artificialmente un mercato privato della scuola. Questa riforma si colloca all'interno di un'ideologia gerarchica e inegualitaria. Nessun governo aveva finora usato così pesantemente la logica dei costi-benefici per governare la scuola. Il messaggio pare chiaro: la scuola non è un bene importante per i cittadini italiani. Al contrario, essa è l'elemento fondamentale di qualsiasi riforma, sia essa antiegualitaria o progressista. Nel primo caso, come sta ora accadendo in Italia, l'obiettivo è quello di ridurre l'eguale distribuzione del bene scuola con l'esito (a mio parere voluto) di rafforzare un'oligarchia (che si avvarrà di ottime scuole private) e rendere la grande maggioranza a malapena capace di giudicare.
Il governo dice di ispirarsi al modello americano e usa l'argomento della meritocrazia contro la «casta» universitaria.
Il modello americano si regge su un'etica che in Italia è un bene scarso. Negli Usa un caso come quello del figlio di Bossi (bocciato all'esame di maturità e poi riammesso dal Tar, ndr) oppure come quello della stessa Gelmini che, per avere l'abilitazione da avvocato, da Brescia è scesa a Reggio Calabria, finirebbero sotto inchiesta e a entrambi verrebbe chiesto di dimettersi. Sono episodi che denotano tutto fuorché il valore del merito, ma in Italia non destano nemmeno scandalo. Senza controllo censorio non c'è meritocrazia possibile. L'università italiana non ha bisogno di nessuna riforma, ne sono già state fatte troppe. C'è invece bisogno di etica. Si deve scardinare il sistema clientelare e nepotista che ancora resiste in larghi settori dell'università e della ricerca. Occorrerebbe far lavorare insieme un sistema di penalizzazioni e uno di incentivi. Non mi fido di chi in Italia si riempie la bocca con la meritocrazia e poi ignora o finge di ignorare che siamo, con la Russia e la Nigeria, tra gli stati più corrotti al mondo e per molti scienziati politici un modello di «democrazia clientelare». Chi parla di meritocrazia è quindi, se in buonafede, quantomeno superficiale. Inoltre, pensare che la privatizzazione porti meritocrazia è quanto meno superficiale. Chi lo afferma o è impreparato oppure in malafede. L'esempio più mastodontico di corruzione dilagante viene oggi proprio dal privato, come dimostra la crisi di istituti di credito bancari e assicurativi.
Io cerco di tornare, faccio di tutto ma non ci riesco. È molto più facile arrivare alla Columbia University dall'Italia che dalla Columbia tornare in Italia. Si dovrebbero davvero introdurre degli incentivi e degli strumenti di valutazione del merito dei docenti e dei ricercatori. Per esempio si potrebbero diversificare gli stipendi: su una base uguale per tutti coloro che sono allo stesso livello di impiego, si potrebbero ipotizzare maggiorazioni per chi è più produttivo, non in termini di quantità ma di qualità. In Inghilterra è stato introdotto un sistema simile, che distribuisce le risorse in base al merito. Ma non sono certa che in Italia possa funzionare senza essere contaminato da forme di corruzione. Insomma, senza un senso etico del servizio non c'è possibilità di ottenere un sistema meritocratico. Ecco perché diffido di chi pensa che si possa introdurre il merito con una riforma. E poi, sarebbe opportuno smettere di riformare e invece pensare a preservare.
Molto positivamente. Non ha nulla a che fare con il '68, perché vede fianco a fianco studenti, insegnanti, docenti e ricercatori con un obiettivo mirato e specifico, ovvero la preservazione della scuola pubblica. Questo movimento esprime un'esigenza vera, perché la legge Gelmini incide sulla vita reale delle persone. È quindi giustissimo che i cittadini protestino. Il Pd non è stato capace di anticiparlo perché non ha compreso la gravità della politica del governo in materia scolastica. Così i cittadini hanno anticipato l'opposizione. Si è dimostrato ancora una volta che si tratta di un partito statico: un partito di opposizione che segue anziché anticipare l'insoddisfazione dei cittadini dimostra di non essere in sintonia con la società. Ma vorrei concludere facendo io una domanda al nostro governo. I beni pubblici sono continuamente decurtati, ma le tasse restano invariate se non aumentano. Cosa fa il governo con i nostri soldi? In una logica di privatizzazione, che senso ha dover pagare per dei servizi che o non arrivano, o sono scadenti o sono in procinto di essere privatizzati?
CHISSENEFREGA della solita conta, un milione e mezzo, un milione, ottocentomila o fate voi. Roma è per intera paralizzata. E´ impossibile anche entrare in città. Decine di pullman sono "spiaggiati", come balene, sul Grande Raccordo e, nell´impossibilità di raggiungere il centro storico, migliaia di persone se ne vanno in processione, allegre e rumorose, là dove sono: lungo l´anello autostradale, alla Magliana. In centro, chi si è mosso da piazza della Repubblica scende dal Pincio verso piazza del Popolo che il serpente - quieto e colorato di palloncini blu e giallo e rosso - ha ancora la coda nella posta di partenza. Chi con realismo dispera di arrivarci, in piazza del Popolo, cambia strada. La protesta si frantuma e si disperde dilatandosi là dove trova spazio e strade libere da affollare. I cortei diventano tre e si muovono in direzioni diverse, gli universitari e gli studenti dei licei venuti dalla Sapienza e da molte città del Mezzogiorno se ne vanno verso Trastevere e circondano il ministero della Gelmini e le gridano: «Mariastella, arrenditi. Sei circondata!» Quanti saranno? Importa davvero a qualcuno, se non al governo imbarazzato («poche migliaia di persone»), avere un numero? E´ il giorno della realtà, questo, quale che siano i numeri. E´ il giorno della robusta e ostinatissima realtà.
È il giorno della concretezza della vita quotidiana di studenti e insegnanti, delle compromesse speranze di futuro dei più giovani e delle loro famiglie. È il giorno della tangibilità di una sdegnata rabbia per il presente che - con la voce e il corpo di centinaia di migliaia di uomini e donne, ragazze e ragazzi che nella scuola e nelle università ci vivono, ci lavorano, ci studiano, ci sperano - mette finalmente in un canto, per un´intera mattinata, le formule vuote e le verità rovesciate che avvelenano il discorso pubblico.
Dice un´insegnante in piazza della Repubblica - non sono ancora le nove, la pioggia è intensa e tutti sono già zuppi d´acqua e non se ne curano -: «È come se mi avessero messo davanti allo specchio. Io ho i capelli neri e loro mi dicono che sono biondi. Li ho corti e quelli dicono che ho i capelli lunghi. Dicono che sono strabica, incartapecorita dagli anni e sdentata e invece io so di essere giovane con gli occhi e i denti giusti. Dicono che sono depressa e io invece so di essere energica e decisa. Quel che dicono di me, non mi racconta, non mi descrive. Quella non sono io. Questa non è la scuola che abito e conosco. Hanno bisogno di trasfigurarla per poterla distruggere in silenzio e nel disinteresse dei più. Ecco perché sono qui. Sono qui perché non voglio vedere distrutta la scuola pubblica che è la mia scuola e la scuola di tutti. Vorrei fare io una domanda a tutti: chi ne parla, conosce davvero la scuola?».
* * *
È un leit motiv: davvero conoscete la scuola, signori? Davvero la conosce il governo? Di quale scuola parlano, parlate? Di quella che ogni giorno, con i suoi ritardi e le sue eccellenze, con i suoi sacrifici e pigrizie, con i suoi piccoli sconosciuti eroismi, apre i battenti? O di quella che immaginano o lasciano immaginare per poterla schiacciare? Sono domande - spiegano in una singolare coincidenza di opinioni, studenti e professori, bidelli e maestri, sindacalisti e ricercatori - che impongono di chiamare le cose con il loro nome, finalmente.
Così, anche se negli slogan Mariastella Gelmini è protagonista e trasfigurata in santa, «Santa Ignoranza», nei colloqui, nei capannelli, nelle discussioni che si accendono qui e lì il decreto diventato ormai legge dello Stato non ha una madre, ma soltanto un padre: Giulio Tremonti.
Dice uno: «La Gelmini, di suo, avrebbe dovuto proporre un disegno, un progetto educativo, un documento da discutere, un percorso riformatore per passare dalle criticità di oggi - che ci sono e non trascurabili - a un assetto più soddisfacente nel futuro. Non lo ha fatto. La sua è una presenza muta. È una comparsa. Il primattore è l´altro, è Tremonti. Suoi sono i tagli e questa riforma - che è una falsa riforma - non è altro che tagli al personale docente, amministrativo e tecnico; risparmi per il bilancio dello Stato; riduzione dell´orario scolastico e fine del tempo pieno; tagli al Fondo di finanziamento delle università e trasformazione degli Atenei in Fondazione private. Noi abbiamo bisogno di più riforma e invece ci danno meno risorse e nessuna riforma».
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È il giorno della realtà, questo. Non è il giorno dei «grembiulini», del «cinque in condotta», del maestro che da «unico» diventa per magia, per conformismo e obbedienza dei media, «prevalente». In una parola non è il giorno dei codici comunicativi e vuoti che, con sapienza, Berlusconi ha messo in campo per nasconderla e manipolarla, la realtà.
L´«avviso ai naviganti» del mago di Arcore puntava ad accendere il solito dispositivo, a innescare un riconoscimento identitario della società con la sua leadership, a indicare un ostacolo da rimuovere: i «fannulloni», gli «ignoranti», il «potere dei sindacati», gli «insegnanti pagati troppo per quel che fanno e danno», una scuola che è soprattutto o forse soltanto «spreco».
In una parola, un´«infezione» che minaccia la salute del Paese. La protesta contro la riforma della scuola - suggeriva il premier - compromette il diritto allo studio. Pregiudica il futuro dell´educazione che invece la riforma assicura. Le proteste danneggiano la formazione dei più operosi. Quindi, la loro stessa libertà.
Berlusconi ha voluto indicare alla sua gente - «la maggioranza silenziosa» come va dicendo la Gelmini - un terreno di conflitto, quasi una chiamata alle armi, un nuovo ambito di ostilità di un´Italia: la sua Italia, contro l´altra che non lo ama o che vuole giudicarlo senza pregiudizio per quel che fa. Non ha esitato a minacciare l´arrivo dei Reparti Celere nelle scuole e università «okkupate» perché sempre un «diritto di polizia» si affaccia quando «lo Stato non è più in grado si garantirsi gli scopi empirici che intende raggiungere ad ogni costo».
A quanto pare, se si guarda questa piazza e queste vie, Berlusconi per una volta ha sbagliato i suoi calcoli. Clamorosamente. Per la prima volta, in questa legislatura. Come dicono lungo via Sistina, «il governo è riuscito nel miracolo di mettere insieme tutte le sigle sindacali», che solitamente intrattengono tra di loro i rapporti che il cane ha con il gatto.
Ha consentito a un´intera generazione, distratta, disillusa, spettatore passivo distante dal luogo comune, di scoprire che la politica non è appartenenza a un partito o a un gruppo, a una fazione o a un´ideologia, ma che è politica soltanto la volontà di opporsi e resistere a un progetto di ordine sociale che esplicitamente rinuncia a una concezione dello Stato «garante legale dell´eguaglianza» per disegnare esclusioni e differenze, creare privilegi e divisioni.
Non c´è chi in questo corteo, che ora affolla piazza del Popolo e via Ripetta e via del Babuino fino a piazza Augusto Imperatore e piazza di Spagna, non abbia letto il decreto e toccato con mano che «i grembiulini» sono soltanto polvere negli occhi che acceca. Lo studente universitario ti spiega pignolissimo come «il Fondo di finanziamento ordinario delle università viene progressivamente ridotto di 63,5 milioni per il 2009, di 190 milioni per il 2010, di 316 milioni nel 2011, di 417 milioni per il 2012 e di 455 a partire dal 2013, un risultato che si otterrà vietando di assumere personale oltre il 20 per cento dei pensionamenti dell´anno precedente. Una morta lenta che ucciderà tutti, i buoni e i cattivi senza alcun discernimento: chi ha disperso le sue risorse e chi le ha utilizzate al meglio; chi ha valorizzato il merito e chi ha inaugurato un insegnamento inutile per dare una cattedra all´amante o al figlio. Dicono: quel che non darà più lo Stato lo forniranno le Fondazioni, ma quali, ma come? Il governo non lo dice perché o non lo sa o non può dire che vuole un´università privatizzata».
È la trama della realtà che fa capolino. È il suo giorno. Per una volta, la «comunicazione» può attendere. I trucchi non funzionano. Quell´indifferenziazione tra reale e fittizio che sempre Berlusconi riesce a costruire appare sgonfia come una ruota bucata. La gente che è qui, che ancora non riesce a raggiungere piazza del Popolo, sembra che ancora riesca a distinguere ciò che accade davvero da quel che la politica e i suo cantori raccontano.
Madri di famiglia ti spiegano come cambierà concretamente la loro vita e la vita del figlio con la fine del «tempo pieno», con il «maestro unico» e l´orario settimanale di ventiquattro ore. «Che cosa è più educativo la strada, la televisione o la scuola?», chiedono.
La realtà. Ha il fiato corto Berlusconi quando si lamenta della «scandalosa capacità di mentire su cose di buonsenso» o quando nega che ci siano tagli. Qui se ne vanno in giro con nella borsa o in tasca il decreto e, sollecitati, sono pronti a squadernartelo sotto gli occhi. «I docenti a tempo determinato che voleranno via come stracci saranno 87.341 in tre anni. Nel 2009/10, 42.105; 25.560 nel 2010/11; 19. 676 nel 2011/2012. Questo per gli insegnanti. Per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario sono previsti 42.500 posto in meno, il 17 per cento in meno. Come si fa a dire che non ci sono tagli?».
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In piazza del Popolo, un´orchestrina intona l´inno di Mameli. È bizzarro, e di certo non consueto, che prima sottovoce, poi con sempre maggiore forza e convinzione, quel canto dilaghi in ogni angolo della piazza. A pensarci meglio, non è fuori posto «Fratelli d´Italia». Anzi, quel canto appare coerente. Forse può essere addirittura il senso della giornata. Le persone che sono qui, quale che sia il loro numero, sembrano sapere che è in gioco «un´idea di Italia» a cui non vogliono rinunciare. Sanno che «la scuola pubblica, la scuola di tutti», quell´idea la custodisce. Anche con i suoi deficit.
Aveva l´aria di una mattina tranquilla nel centro di Roma. Nulla a che vedere con gli anni Settanta. Negozi aperti, comitive di turisti, il mercatino di Campo de´ Fiori colmo di gente. Certo, c´era la manifestazione degli studenti a bloccare il traffico.
«Ma ormai siamo abituati, va avanti da due settimane» sospira un vigile. Alle 11 si sentono le urla, in pochi minuti un´onda di ragazzini in fuga da Piazza Navona invade le bancarelle di Campo de´ Fiori. Sono piccoli, quattordici anni al massimo, spaventati, paonazzi. Davanti al Senato è partita la prima carica degli studenti di destra. Sono arrivati con un camion carico di spranghe e bastoni, misteriosamente ignorato dai cordoni di polizia. Si sono messi alla testa del corteo, menando cinghiate e bastonate intorno. Circondano un ragazzino di tredici o quattordici anni e lo riempiono di mazzate. La polizia, a due passi, non si muove.
Sono una sessantina, hanno caschi e passamontagna, lunghi e grossi bastoni, spesso manici di picconi, ricoperti di adesivo nero e avvolti nei tricolori. Urlano «Duce, duce». «La scuola è bonificata». Dicono di essere studenti del Blocco Studentesco, un piccolo movimento di destra. Hanno fra i venti e i trent´anni, ma quello che ha l´aria di essere il capo è uno sulla quarantina, con un berretto da baseball. Sono ben organizzati, da gruppo paramilitare, attaccano a ondate. Un´altra carica colpisce un gruppo di liceali del Virgilio, del liceo artistico De Chirico e dell´università di Roma Tre. Un ragazzino di un istituto tecnico, Alessandro, viene colpito alla testa, cade e gli tirano calci. «Basta, basta, andiamo dalla polizia!» dicono le professoresse.
Seguo il drappello che si dirige davanti al Senato e incontra il funzionario capo. «Non potete stare fermi mentre picchiano i miei studenti!» protesta una signora coi capelli bianchi. Una studentessa alza la voce: «E ditelo che li proteggete, che volete gli scontri!». Il funzionario urla: «Impara l´educazione, bambina!». La professoressa incalza: «Fate il vostro mestiere, fermate i violenti». Risposta del funzionario: «Ma quelli che fanno violenza sono quelli di sinistra». C´è un´insurrezione del drappello: «Di sinistra? Con le svastiche?». La professoressa coi capelli bianchi esibisce un grande crocifisso che porta al collo: «Io sono cattolica. Insegno da 32 anni e non ho mai visto un´azione di violenza da parte dei miei studenti. C´è gente con le spranghe che picchia ragazzi indifesi. Che c´entra se sono di destra o di sinistra? È un reato e voi dovete intervenire».
Il funzionario nel frattempo ha adocchiato una telecamera e il taccuino: «Io non ho mai detto: quelli sono di sinistra». Monica, studentessa di Roma Tre: «Ma l´hanno appena sentito tutti! Chi crede d´essere, Berlusconi?». «Lo vede come rispondono?» mi dice Laura, di Economia. «Vogliono fare passare l´equazione studenti uguali facinorosi di sinistra». La professoressa si chiama Rosa Raciti, insegna al liceo artistico De Chirico, è angosciata: «Mi sento responsabile. Non volevo venire, poi gli studenti mi hanno chiesto di accompagnarli. Massì, ho detto scherzando, che voi non sapete nemmeno dov´è il Senato. Mi sembravano una buona cosa, finalmente parlano di problemi seri. Molti non erano mai stati in una manifestazione, mi sembrava un battesimo civile. Altro che civile! Era stato un corteo allegro, pacifico, finché non sono arrivati quelli con i caschi e i bastoni. Sotto gli occhi della polizia. Una cosa da far vomitare. Dovete scriverlo. Anche se, dico la verità, se non l´avessi visto, ma soltanto letto sul giornale, non ci avrei mai creduto».
Alle undici e tre quarti partono altre urla davanti al Senato. Sta uscendo Francesco Cossiga. «È contento, eh?» gli urla in faccia un anziano professore. Lunedì scorso, il presidente emerito aveva dato la linea, in un intervista al Quotidiano Nazionale: «Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand´ero ministro dell´Interno (...) Infiltrare il movimento con agenti pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto della polizia. Le forze dell´ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti all´ospedale. Picchiare a sangue, tutti, anche i docenti che li fomentano. Magari non gli anziani, ma le maestre ragazzine sì».
È quasi mezzogiorno, una ventina di caschi neri rimane isolata dagli altri, negli scontri. Per riunirsi ai camerati compie un´azione singolare, esce dal lato di piazza Navona, attraversa bastoni alla mano il cordone di polizia, indisturbato, e rientra in piazza da via Agonale. Decido di seguirli ma vengo fermato da un poliziotto. «Lei dove va?». Realizzo di essere sprovvisto di spranga, quindi sospetto. Mentre controlla il tesserino da giornalista, osservo che sono appena passati in venti. La battuta del poliziotto è memorabile: «Non li abbiamo notati».
Dal gruppo dei funzionari parte un segnale. Un poliziotto fa a un altro: «Arrivano quei pezzi di merda di comunisti!». L´altro risponde: «Allora si va in piazza a proteggere i nostri?». «Sì, ma non subito». Passa il vice questore: «Poche chiacchiere, giù le visiere!». Calano le visiere e aspettano. Cinque minuti. Cinque minuti in cui in piazza accade il finimondo. Un gruppo di quattrocento di sinistra, misto di studenti della Sapienza e gente dei centri sociali, irrompe in piazza Navona e si dirige contro il manipolo di Blocco Studentesco, concentrato in fondo alla piazza. Nel percorso prendono le sedie e i tavolini dei bar, che abbassano le saracinesche, e li scagliano contro quelli di destra.
Soltanto a questo punto, dopo cinque minuti di botte, e cinque minuti di scontri non sono pochi, s´affaccia la polizia. Fa cordone intorno ai sessanta di Blocco Studentesco, respinge l´assalto degli studenti di sinistra. Alla fine ferma una quindicina di neofascisti, che stavano riprendendo a sprangare i ragazzi a tiro. Un gruppo di studenti s´avvicina ai poliziotti per chiedere ragione dello strano comportamento. Hanno le braccia alzate, non hanno né caschi né bottiglie. Il primo studente, Stefano, uno dell´Onda di scienze politiche, viene colpito con una manganellata alla nuca (finirà in ospedale) e la pacifica protesta si ritrae.
A mezzogiorno e mezzo sul campo di battaglia sono rimasti due ragazzini con la testa fra le mani, sporche di sangue, sedie sfasciate, un tavolino zoppo e un grande Pinocchio di legno senza più una gamba, preso dalla vetrina di un negozio di giocattoli e usato come arma. Duccio, uno studente di Fisica che ho conosciuto all´occupazione, s´aggira teso alla ricerca del fratello più piccolo. «Mi sa che è finita, oggi è finita. E se non oggi, domani. Hai voglia a organizzare proteste pacifiche, a farti venire idee, le lezioni in piazza, le fiaccolate, i sit in da figli dei fiori. Hai voglia a rifiutare le strumentalizzazioni politiche, a voler ragionare sulle cose concrete. Da stasera ai telegiornali si parlerà soltanto degli incidenti, giorno dopo giorno passerà l´idea che comunque gli studenti vogliono il casino. È il metodo Cossiga. Ci stanno fottendo».
Com'è stato da più parti osservato, la legge 133 sull'Università non è un provvedimento di riforma. E' un pesante intervento di sottrazione di risorse finanziarie, senza alcuna altra pretesa che di far cassa, come se l'Università fosse qualche vecchio ente del Parastato. Eppure, in quel provvedimento, apparentemente dimesso e puramente finanziario, è contenuto forse il principio più gravemente sovvertitore dell'ordinamento universitario che sia mai stato concepito sinora. La possibilità - formulata nell'art. 16 della legge - di trasformare le università pubbliche in fondazioni di diritto privato è infatti la corda che viene offerta ai vari atenei, senza più risorse, per impiccarsi definitivamente vendendosi al migliore offerente.
Occorre svolgere almeno due considerazioni in merito a questa straordinaria novità storica che non ha avuto neppure l'onore di un dibattito parlamentare e su cui poco sono intervenuti anche i commentatori abituali delle cose italiane. Come ha osservato un docente di diritto comparato, Alessandro Somma, nella legge ci sono elementi evidenti di incostituzionalità. Ad esempio l'articolo 16 si apre con un inciso tanto perentorio quanto falso: la trasformazione in fondazione attua l'art. 33 della Costituzione (art. 16 comma 1). Ma in quell'articolo la Costituzione afferma il contrario: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». E qui siamo di fronte, più che alla costituzione di un istituto di educazione privato, alla trasformazione di un ente pubblico in ente privato, con notevoli oneri per lo Stato. Infatti la legge 133 stabilisce che le università fondazione «subentrano in tutti i rapporti attivi e passivi e nella titolarità del patrimonio dell'Università» e che «al fondo di dotazione delle fondazioni universitarie è trasferita, con decreto dell'Agenzia del demanio, la proprietà dei beni immobili già in uso alle Università trasformate» (art. 16 comma 2). E aggiunge: «Gli atti di trasformazione e di trasferimento degli immobili e tutte le operazioni ad essi connesse sono esenti da imposte e tasse» (art. 16 comma 3).
Perfetto! Il patrimonio storico dell'università, talora costituito da beni architettonici di pregio, mobilio antico, biblioteche uniche e preziose, eccetera può essere acquisito da privati e questi sono esentati dal pagare le tasse di trasmissione! Altro che oneri per lo Stato, questa è spoliazione! Se volevamo avere qualche altro segno dell'arroganza e della rozzezza del legislatore odierno siamo stati serviti.
Ma che cosa dobbiamo aspettarci dalle Fondazioni private che dovrebbero garantire la prosecuzione dell'insegnamento universitario? Se questa trasformazione si dovesse effettivamente verificare, quale imprenditore privato sarebbe disponibile, in Italia, a finanziare, poniamo, letteratura italiana, storia greca, lingua latina? Non parliamo di etruscologia o delle varie lingue e civiltà dell'Oriente antico in cui, peraltro, gli studiosi italiani vantano eccellenze universalmente riconosciute. Ma che cosa succederebbe, nel giro di qualche decennio, a tutti i nostri saperi umanistici ? E davvero l'Italia può liquidare l'intero suo patrimonio di civiltà per far cassa oggi, o per seguire gli ultimi cascami di una ideologia finita nella vergogna del tracollo finanziario e degli aiuti di Stato?
C'è un altro aspetto poco considerato in questa provinciale e pacchiana volontà modernizzatrice che crede di strizzare l'occhio alla grande America. Non ci divide da quel Paese - peraltro così incomparabilmente generoso con gli studi e la ricerca - soltanto una diversa storia del capitalismo industriale. Ma anche una diversa storia delle rispettive classi dirigenti. Da noi lo Stato ha fondato l'industria moderna, organizzato il credito, guidato e promosso la costruzione delle grandi infrastrutture (ferrovie, telefonia, autostrade), salvato l'industria quando la Grande Crisi l'ha travolto attraverso l'Iri, pensato al petrolio come risorsa strategica attraverso l'Eni. Si può avere una controprova storica del ruolo giocato dallo Stato considerando le perdite gravi subite dall'industria italiana in questi ultimi 25 anni di furore liberistico e di abbandono di una politica economica qualunque. E a imprenditori che hanno alle spalle una storia di cosi scarsa lungimiranza nell'intravedere i bisogni del sistema-Paese dovremmo affidare la gestione degli studi universitari?
Ricordo infine un aspetto poco noto dell'organizzazione degli studi italiani. E' ancora lo Stato a sostenere - in forma indiretta - perfino alcuni dei più prestigiosi atenei privati, come la Bocconi e la Luiss. Qui, infatti, insegnano docenti il cui stipendio intero è pagato dalle Università pubbliche, mentre gli atenei privati pagano una modesta integrazione. Dunque è ancora lo Stato che - in questo liberismo maccheronico - finanzia la concorrenza. Credo che sia venuto il momento, nel nostro Paese, di rammentare con più coraggio quanta ideologica arroganza si manifesti, anche per ignoranza, nell'elogio della scuola e dell'Università privata.
La Stampa, 26 ottobre 2008
Riaprire il futuro
di Barbara Spinelli
C’è qualcosa che stona, nello stupore contrariato con cui si reagisce alle occupazioni di scuole e università. Come se la mente non fosse più capace di cercare le cause, negli effetti che ci si accampano davanti. Come se la storia e la realtà si esaurissero interamente nella parte terminale, e alla sorgente non ci fosse nulla. Come se avessimo disimparato ad agire calcolando le conseguenze, presenti e passate. L’occupazione di un’università è una violenza, certo. Si impedisce a chi partecipa in modi diversi alla vita pubblica di farlo, perché gli spazi comuni non lo sono più. Ci si prende un diritto togliendolo a altri. Spetta tuttavia a chi pensa e governa capire perché questo accade. Se non lo fa, non sentirà attorno a sé che lo strepito degli Uccelli di Hitchcock, e non troverà né i mezzi né le parole dell’azione autorevole.
Ben più intelligibile apparirà la realtà, se non ci si ferma all’ultimo tratto della storia. La rabbia degli studenti non è senza rapporto con l’autunno delle finanze e con il crollo, brutale, di certezze ostentate per decenni sulle virtù autoregolatrici del mercato.
Negli interstizi delle rovine nascono fiori neri che riflettono drammi di ieri e di oggi: sono una nemesi, una sorta di giustizia che colpisce le ingiustizie dei progenitori. Ogni nemesi è poco sottile e corre il rischio di farsi usare da difensori di uno status quo che va comunque mutato; ma essa dice anche che non esiste impunità, né nel pensiero né nella prassi.
Non si può impunemente parlare per anni dell’enorme debito lasciato ai figli, e stupirsi che uno degli slogan studenteschi sia: «La vostra crisi non la pagheremo noi». Una classe politica non può impunemente infrangere la legalità, condonare falsi bilanci o conflitti d’interesse, screditare magistrati, e poi meravigliarsi che la cultura della legalità ovunque si sfibri. Non bastano i grembiuli e il 7 in condotta a restaurare la legge lungamente vilipesa. I manifestanti dell’opposizione, ieri, hanno citato le parole di un grande, Vittorio Foa: «Sono un po’ scettico sul linguaggio dei valori che sento in giro: vorrei vedere degli esempi perché è dagli esempi che può nascere qualcosa». La manifestazione è stata un successo imponente: anche questo non stupisce.
Più fondamentalmente: non si può per decenni ripetere il motto di Margaret Thatcher - There is no alternative, non c’è alternativa alle sregolatezze del mercato - e poi fare subitanei dietrofront senza mettere in questione un’ideologia sfociata in disastro: disastro per tanti, specie per gli studenti che il precariato sentono di doverlo proiettare in un avvenire più buio. Fino a oggi, solo l’ex governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, ha riconosciuto «errori nati da ideologie liberiste» durate quarant’anni.
Il ministro Gelmini ha ragione quando dice agli studenti: «Non bisogna creare illusioni che producono poi cocenti disillusioni»; «Non vogliamo vendere promesse che non possiamo mantenere». Non ci sono soldi nelle casse statali per i sogni: né quelli degli studenti né quelli venduti in campagna elettorale, ed è vero che gli studenti vivono in una bolla. Ma cos’è stata la vita delle generazioni dei padri, se non un succedersi prodigioso di bolle e dottrine indifferenti ai fatti? Perché questo sguardo feroce sull’ultima bolla, senza ricordare le rovinose penultime? È qui che salta il nesso tra causa ed effetto, tra chi ha il futuro alle spalle e chi ce l’ha davanti, ma chiuso.
Non sono i tagli alle spese che colpiscono, nella legge Gelmini. È chiaro che urge spender meglio, creare università d’eccellenza, premiare il merito: molti soldi inutili son stati sperperati. Quel che colpisce è il vuoto di pensiero, su quel che significano per il domani italiano e occidentale l’istruzione come la ricerca. Quel che scandalizza è il parlare dell’istruzione più come spesa che come investimento nelle generazioni nuove. Manca un discorso riformatore che annunci: ho questo futuro da edificare per voi, oltre a tagli alla cieca, grembiulini e 7 in condotta.
Manca poi l’uso appropriato delle parole. Guardando agli atenei occupati, il presidente del Consiglio non vede che facinorosi, e con volto torvo (perché così torvo?) prima comunica l’invio della polizia, poi ritratta. Nel frattempo il governo parla di terroristi e fa salire le angosce, prepara al peggio, resuscita l’incubo di Bolzaneto (secondo governo Berlusconi). Il modello non è Greenspan ma i vocaboli eversivi di Cossiga, un ex capo di Stato, sul Quotidiano Nazionale: «Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco le città (...) Dopodiché, forti del consenso popolare, (...) le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano» (il corsivo è mio).
La strategia non è nuova: far montare la tensione, creare un’ennesima paura che gonfia i sondaggi di popolarità. È da anni che governanti senza bussola usano la paura come dottrina e come prassi. Non si è sentito mai, ultimamente, un politico che magari rimprovera le occupazioni ma dica: il futuro comunque è nella scuola, nei professori. Non s’è sentito perché tempi lunghi e futuro non sono nel suo dizionario. Anche qui, dopo un dominio sì assoluto del presente, non può che esserci nemesi.
Frank Furedi, che studia da anni la paura, sostiene che questa volta la sua natura cambia. Dopo l’11 settembre ci fu paura, ma essa restò in fondo personale, solitaria. Oggi è panico da orda in Borsa, ed è «la prima vera paura collettiva, globale». Gli individui hanno più che mai bisogno di comunità, di non esser soli. Il crollo finanziario sfregia fondamenti esistenziali come la fiducia, il debito, la speranza. Il paradosso è che quando crolli non hai molto da perdere, e smetti la paura. I contestatori italiani sentono questo.
Da due secoli, gli studenti in tumulto sono una premonizione e un cimento per tutti. Confermano contraddizioni spaesanti: tutto è al tempo stesso più connesso e più sconnesso di quanto immaginavamo. Che lo vogliano o no, essi sono la futura classe dirigente, l’avvenire che s’impersona. Hanno la speranza, dunque non considerano la società come statica, fatale. Dicono no pregiudizialmente, ma intanto s’allenano a intervenire sulla realtà. Così nasce l’educazione civica, sostiene Michael Walzer. Così ci si abitua a «pensare alla cittadinanza come a un incarico politico»: a pensare se stessi «come futuri partecipanti nell’attività politica, non meramente come spettatori bene informati» (La Stampa 23-10).
Nelle aule occupate è stato visto lo slogan di Obama: yes we can. Obama ha successo perché spezza i recinti della paura e ristabilisce il nesso tra cause e effetti, ieri e oggi, padri e figli. Al famoso Joe, l’idraulico arricchito ostile alle tasse, ha detto: «Tu una volta eri tra i meno ricchi, bisognoso della solidarietà dei più abbienti. Prova a pensare al Joe che sei stato».
La novità è qui, nell’invito a vedere nel futuro il nostro ieri. Obama dice alla società civile: sei una risorsa politica solo se scopri quel che in te è statico, immemore, non responsabile; quel che non funziona in te, oltre che nei governi. Gian Enrico Rusconi dice cose simili, su La Stampa del 24 ottobre, quando rammenta che la società civile, sempre e disordinatamente invocata, contiene il meglio e più spesso il peggio. Gli studenti italiani sono attratti dai giovani americani che dopo anni d’apatia si iscrivono in massa a votare. Pare che quel che piace loro in Obama sia il ragionamento difficile, non la semplificazione. È una novità su cui vale la pena riflettere.
La Stampa, 28 ottobre 2008
Gli studenti non c’erano
di Lucia Annunziata
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Il manifesto, 29 ottobre 2008
Studenti e consensi in libera uscita
di Ida Dominijanni
L'osservatorio di Renato Mannheimer sul Corriere della Sera di domenica annunciava che nelle ultime settimane il consenso per l'operato del governo Berlusconi è sceso di ben venti punti (dal 60% di giudizi positivi degli inizi di settembre al 40% di oggi), ma che questo calo non si traduce in un aumento del consenso per l'operato dell'opposizione, che scende anch'esso, dal 24 % di giudizi positivi di luglio al 20 % di settembre al 16 % di oggi. Va da sé che, la data della rilevazione essendo quella del 23 ottobre, il sondaggio non registra eventuali variazioni di tendenza che la manifestazione di sabato scorso potrebbe aver provocato nelle ultime quarantott'ore, e che non sono da escludere. Ma il segnale merita di essere preso sul serio, tanto più se ha un senso tentare di leggere nell'insieme e non per segmenti separati i fatti degli ultimi giorni: ad esempio, la mobilitazione degli studenti, la manifestazione del Circo Massimo, lo stato dell'opposizione.
La lettura per segmenti separati è quella prevalente sui media, dove un sempre più asfittico linguaggio del politico non si incrocia con una sempre più opaca percezione del sociale. La curiosità per il movimento degli studenti - somiglia o no al Sessantotto, fa o non fa a botte con la polizia, è fatto di sognatori astratti o di meritocratici concreti - o lo lascia nell'impolitico, o lo riporta al politico tradizionale trattandolo come un possibile serbatoio di voti per il centrosinistra, ma si guarda bene dal chiedersi se e quanta politica sorgiva, imprevista e fuori schema esso contenga. Analogamente, anche la curiosità per la piazza del Circo Massimo si arresta sulla giaculatoria del palazzo - supera o non supera il record di Cofferati, è compatibile o no col riformismo di un Pd di governo, fa o non fa il gioco di Veltroni - senza interrogarsi granché sulle domande che quella piazza esprime, in consonanza o magari anche in dissonanza con il palco. Ma siamo sicuri che funzioni così? Che sia il linguaggio del politico tradizionale a dettare la misura e le regole, e che sia lo specchio rotto della rappresentanza a dover riflettere prima o poi tutto ciò che si muove nel sociale, dopo due decenni di crisi conclamata della politica e della rappresentanza? O quel linguaggio e quello specchio ci impediscono di vedere e di capire che cosa nasce fuori dai loro perimetri e non vi si lascia ricondurre? E' precisamente il caso del movimento degli studenti (e dei docenti). Sulla Stampa di ieri, Lucia Annunziata ha già osservato come la sua assenza dal corteo di sabato sia sintomatica della situazione descritta dal sondaggio di Mannheimer. E sempre sulla Stampa, il giorno prima, Barbara Spinelli ha scritto quanto sia incomprensibile la meraviglia di chi non vede che la protesta degli studenti non è senza rapporto con l'autunno delle finanze e con il crollo brutale della religione del mercato. Aggiungo io che è incomprensibile la meraviglia di chi non la mette in relazione con due decenni di crisi e di perdita di legittimità e credibilità della politica e della sinistra. Chi oggi abita l'università è nato nella seconda metà degli anni Ottanta, e da allora ha visto, della politica istituzionale e della sinistra, solo macerie, e delle ideologie novecentesche solo cascami o negazioni. E dunque giustamente oggi prende le distanze da quella politica e prova a inventarsene un'altra, dopo le macerie e dopo le ideologie («non siamo né di destra né di sinistra»). E' un miracolo che questo accada. Ed è un miracolo che accada nella forma di una riappropriazione della cultura, della formazione e della ricerca, in un paese in cui Silvio Berlusconi ha costruito il suo impero mediatico e il suo comando politico sulla sistematica svalorizzazione della cultura, della formazione e della ricerca, incontrando, su questo piano specifico, più imitatori che ostacoli. Di tutti gli slogan del movimento, "Un popolo di ignoranti è un popolo manipolabile" è quello che meglio sintetizza lo stato del paese, compreso il rischio di regime che tutti si affannano a negare. Ed è anche lo slogan massimamente politico, che non trova rappresentanza in alcuna sigla - salvo che si possa onestamente sostenere che cultura, formazione e ricerca siano state nel ventennio passato delle bandiere della sinistra italiana.
Sono questi vuoti - di politica, di sinistra, di cultura - che spiegano i sondaggi come quello da cui siamo partiti: meno consensi al governo, meno consensi all'opposizone. Alla faccia della giaculatoria del bipolarismo, «o di qua o di là», tertium datur. E' politica? Sì, è politica, o può diventarlo. E' sinistra? Forse. Certamente è una vendetta della storia, per non dire della demografia, sulal politica. Eravamo abituati a pensare che, nella lotta eterna fra storia e politica, la ripetizione stesse dalla parte della storia, l'innovazione dalla parte della politica. Ma se è la politica che diventa stanca ripetizione, è la storia a saltare, mettendo in prima fila i più giovani e i più distanti da quello che c'era. Sta accadendo negli Stati uniti, può accadere anche da noi. Se accade, anche la scenografia del Circo massimo rischia di rivelarsi troppo stretta per quel serpentone democratico che sabato ci si è raccolto dentro.
Qualche volta, quando non ne posso più della mia vita blindata, sento Raffaele Cantone perché vive costantemente sotto scorta non da due anni, ma da molti di più. Cantone ha scritto un libro che racconta il suo periodo alla Dda di Napoli, intitolato Solo per giustizia. Diviene magistrato quasi per caso, dopo aver cominciato a fare pratica come avvocato penalista. Diviene magistrato per amore del diritto. Ed è proprio quel percorso che lo porta a divenire un nemico giurato dei clan. Non lo muove nessuna idea di redimere il mondo, nessuna vocazione missionaria a voler estirpare il cancro della criminalità organizzata. Lo guidano invece la conoscenza del diritto, la volontà di far bene il proprio lavoro, e anche il desiderio di capire un fenomeno vicino al quale era cresciuto. A Giugliano. Un territorio attraversato da guerre di camorra che ricorda sin da quando era ragazzo.
«C’erano periodi in cui i morti si contavano anche quotidianamente, spesso ammazzati in pieno giorno e in presenza di passanti terrorizzati. Le nostre famiglie avevano paura. Per timore che potessimo andarci di mezzo anche noi, ci raccomandavano di non andare in giro per il paese, di uscire solo quando era necessario. Quindi gran parte del tempo libero la si trascorreva a casa di qualcuno dei ragazzi della comitiva. Ma quando si spargeva la voce di un omicidio, anche noi "bravi ragazzi" spesso non resistevamo alla tentazione di andare nei paraggi per sentire chi era la vittima, a che gruppo apparteneva e soprattutto se era qualcuno che conoscevamo. Perché capita così, nella provincia: anche se si appartiene a mondi diversi, finisce che ci si conosce almeno di vista o di fama. E fu proprio un ragazzo conosciuto solo di vista una delle vittime innocenti di quella faida che sembrava eterna. Era un po’ più grande di me e i sicari lo avevano scambiato per un affiliato della parte avversa, perché gli somigliava vagamente e soprattutto perché aveva un’auto di colore molto simile. Solo dopo avergli sparato si erano accorti dell’errore e si erano fermati. Ma alcuni colpi avevano raggiunto la colonna vertebrale e paralizzandolo in tutta la parte inferiore, avevano reso il giovane invalido per il resto della vita. Ancora oggi mi capita talvolta di incontrarlo, spinto sulla sua sedia a rotelle dalla moglie che all’epoca era la sua giovanissima fidanzata».
Un uomo che si forma in una situazione del genere comprende che il diritto diviene uno strumento fondamentale per concedere dignità di vita. Una dignità basilare, quella di vivere, di lavorare, di amare. Dove la regola non soffoca l’uomo ma anzi è l’unico strumento per concedergli libertà.
Poco prima era stata uccisa una ragazza di poco più di diciotto anni, figlia di un collega di suo padre. L’unica sua colpa era stata quella di essere uscita di casa nel momento sbagliato. Morì al posto di un delinquente in soggiorno obbligato che più tardi sarebbe diventato uno dei capi del clan dei Casalesi, uno dei più feroci: Francesco Bidognetti, detto "Cicciott’ ‘e mezzanotte". Quel caso non ha mai avuto soluzione giudiziaria. E lentamente il ricordo si è sbiadito. I genitori sono morti entrambi di crepacuore. Anche il penultimo omicidio dei Casalesi è avvenuto proprio a Giugliano, non lontano da dove Cantone è tornato ad abitare con la sua famiglia. Quando si sono trasferiti nella casa nuova, i vicini e i negozianti hanno organizzato una raccolta di firme per mandarli via. Qualcuno ha persino lasciato una valigia al posto dove sosta la pattuglia di vigilanza: era vuota, ma doveva simulare un ordigno.
Il libro è la storia di questa quotidianità, la quotidianità di un magistrato in terra di camorra e delle ripercussioni pesantissime che questo pone anche sulla vita dei suoi famigliari. Come quando un maresciallo che in quel periodo faceva il capo scorta vuole portarlo a vedere la partita del Napoli. Cantone, sempre attentissimo a non accettare favori, continua a rimandare sino a quando l’invito viene espresso quando c’è pure suo figlio di cinque anni che è già tifosissimo. «"Papà, mi ci porti? Andiamo a vedere la partita? Ti prego…!". E allora accettai, a condizione che non piovesse». La domenica il maresciallo si presenta con una persona sconosciuta che a sua volta ha portato il figlio. «Questa sorpresa mi seccò a tal punto che fui tentato di dire che avevo cambiato idea. Ma come facevo con Enrico? Non avrebbe più smesso di piangere per la delusione».
Il giorno dopo, in Procura, chiamano Cantone chiedendogli con imbarazzo se è stato allo stadio e con chi. Perché l’amico del maresciallo è stato intercettato nell’ambito di un’inchiesta sugli affari dei Casalesi mentre assicurava uno degli indagati che a questo punto il pm sarebbe stato «avvicinabile». Non ne consegue nessun danno all’indagine, ma Cantone è furioso e sconvolto. L’unica volta che per amore di suo figlio si è sforzato di abbandonare la diffidenza che il mestiere gli ha fatto divenire seconda natura, scopre che la passione innocente di un bambino è stata strumentalizzata e abusata.
La diffidenza ha dovuto impararla presto, anni prima di entrare in antimafia. È una lezione che si iscrive nella sua carne e dentro la sua anima. «Un giorno d’inverno stavo tornando a casa nel primo pomeriggio, con l’intenzione di chiudermi nello studio e guardare con calma alcune carte. Come al solito, prima di salire, mi fermai alla cassetta delle lettere per prendere la posta. Quella volta ci trovai soltanto un foglio piegato, senza busta. E ancora adesso, quando penso al gesto automatico con cui lo aprii e vidi cosa c’era scritto, risento i brividi che mi assalirono in quel momento. Era una sorta di volantino, composto da ben due pagine. In alto c’era una mia fotografia […] Il testo era spaventoso. Un congegno osceno orchestrato con dati reali della mia vita e con calunnie gigantesche […] Nel volantino c’era posto per tutti i miei familiari». Cantone corre a metterne al corrente il procuratore Agostino Cordova, capendo che l’attacco è gravissimo. Però non riesce ad immaginare la portata di quella campagna di diffamazione. Il giorno dopo il volantino arriva a tutti i colleghi, a carabinieri e polizia, a molti avvocati e politici campani, a tutte le redazioni dei giornali, al Csm, persino a Giancarlo Caselli e Saverio Borrelli. Migliaia di volantini mandati ovunque. Per distruggere un semplice sostituto procuratore che stava svolgendo un’indagine su un’immensa truffa assicurativa, seguendone le tracce per mezza Europa.
Sono pagine impressionanti perché evidenziano con estrema limpidezza come funziona la diffamazione. Non ti si attacca frontalmente, a viso aperto. Cercano di isolarti mettendo in circolazione il virus della calunnia, certi che da qualche parte l’infezione attecchisca e il contagio si propaghi. E che a quel punto il danno sarà irreparabile. «"Meglio una calunnia che un proiettile in testa" era una frase che mi fu detta come sincero incoraggiamento da più di un collega. Ma di questo, sebbene sia un’affermazione di buon senso, non ero e non sono tanto certo. Io mi sentivo come se cercassero di farmi una cosa anche peggiore che eliminarmi fisicamente. Perché si può distruggere un uomo, annientarlo, senza nemmeno torcergli un capello. E paradossalmente è molto difficile che questo accada quando si uccide veramente». È questo uno dei punti più dolenti. La diffamazione ti lascia vivo fisicamente, ma annienta tutto quello che hai fatto. Come una sorta di bomba a neutrone che lascia intatte le cose mentre cancella ogni forma di vita. La vita morale di un uomo non può mai essere distrutta così radicalmente come dalla calunnia. Per questo anche chi è abituato a uccidere spesso la preferisce al piombo.
Quando entra alla Direzione distrettuale antimafia e gli viene assegnato il Casertano, c’è chi commenta: «Come al solito, Raffae’, t’hanno fatto…». Il che in italiano si tradurrebbe con "fregato" o forse ancora meglio con "ti hanno rifilato un pacco". «La camorra casalese veniva vista come qualcosa di molto feroce e impegnativo e al tempo stesso provinciale, di scarso prestigio».
Ma il processo Spartacus aveva segnato una svolta e il libro è un omaggio a tutti i magistrati che l’avevano istruito e a tutti quelli che, come Cantone stesso, hanno successivamente portato avanti un impegno difficilissimo: Di Pietro, Cafiero de Raho, Greco, Visconti, Curcio, Ardituro, Conzo, Del Gaudio, Falcone, Maresca, Milita, Sirignano e Roberti.
Perché in certi territori la lotta per la legalità e la giustizia è una battaglia combattuta ad armi terribilmente impari. I clan hanno danaro, armi, uomini, coperture e collusioni a non finire. Dall’altra parte i mezzi sono limitati, la mole di lavoro è talmente enorme che bisogna essere disposti a fare straordinari che per molti non sono nemmeno pagati. Tutto il successo è sulle spalle di chi continua a voler far bene il proprio lavoro: magistrati, carabinieri, poliziotti, finanzieri. Uomini che rischiano la vita per senso del dovere e magari anche per lealtà verso i superiori che hanno saputo conquistarsi la loro fiducia, una lealtà primaria da soldati in trincea, e che non vengono ricordati quasi mai. E invece il libro di Cantone gli rende omaggio e gli concede visibilità. Uomini che spesso in territori marci sono il vero argine per contrastare lo strapotere delle mafie. Cantone si sente uno di loro: non un eroe, semplicemente un magistrato che ama il suo lavoro perché ama il diritto, crede nell’accertamento della verità.
Questo per i boss è incomprensibile. Non riescono a concepire che un magistrato persegua solo la giustizia, non personalmente loro. Che non tutti gli uomini sono uguali a loro. I boss sanno che non tutti ammazzano e che non tutti resistono al carcere. Ma sono certi che tutti vogliono danaro, fama, donne e potere. E chi non lo ammette, sta dissimulando, mentendo, imbrogliando. Così la pensa Augusto La Torre, il ferocissimo quanto intelligente capo del clan di Mondragone che l’impegno di Cantone ha messo in ginocchio. È il primo a pianificare un attentato contro di lui ed è anche uno dei primi a pentirsi. Durante gli interrogatori indulge con particolare precisione sui dettagli degli omicidi che ha commesso: la prima strage di extracomunitari a Pescopagano, il gesto con cui tappa col dito lo zampillo di sangue che esce dal buco sulla fronte dell’autista di un capozona dei Casalesi, lo strangolamento con un filo della luce di un piccolo affiliato soltanto sospettato di essere un «infame», mentre il boss continua a ripetergli «non ti faccio niente, non ti faccio niente».
Eppure, ragiona Raffaele Cantone con amarezza, il clan che pareva sconfitto si riforma. Meno potente, ma il territorio riprende a sottomettersi. La camorra non è possibile sconfiggerla soltanto con indagini e processi, sequestri e arresti. Raffaele Cantone oggi non lavora più alla Dda, è diventato giudice al massimario della Cassazione. Ma ha voluto dare un altro strumento per sconfiggere le mafie. Un libro in cui si racconta come si arriva a diventare uno dei principali nemici dei clan e come è fatta la vita di chi li combatte: solo per giustizia.
(© 2008 by Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency)
«Visto quanti siamo? Se la prossima volta vinciamo ci tocca scappare in Svizzera». In questa frase - un po' scherzosa, ma neanche tanto - raccolta al Circo Massimo ci sono tutti i problemi del Pd che ieri ha rinunciato all'idea dell'autosufficienza: la soddisfazione per il successo numerico e la vaghezza della proposta politica, l'aver raccolto (almeno ieri) il gran bisogno di opposizione che c'è nel paese che ha dato vita a una bella giornata di democrazia e la grande difficoltà di renderla concreta, quell'opposizione. E l'incertezza per il futuro. Perché dietro all'orgoglio veltroniano dell'Italia migliore e possibile c'è una proposta che resta al di sotto della sfida necessaria, non all'altezza della terribile ricetta che il nazional-populismo berlusconiano getta addosso a una realtà che la recessione montante può rendere spettrale.
Walter Veltroni e tutto il gruppo dirigente del Pd possono essere soddisfatti (per un giorno), ma questo successo li carica di responsabilità e si devono alquanto preoccupare per il futuro prossimo. Perché se è pacifico che non si va da nessuna parte senza chi è sceso in piazza ieri a Roma, molti dubbi ci sono sulla ricetta che viene proposta a questo «popolo». È giusto, naturale e doveroso denunciare tutti i guasti causati ogni giorno dal governo in carica, fino a esplicitarne il carattere eversivo. Ma individuarne il contrappeso in un progetto nazional-riformista offre scarse possibilità di soluzione.
Di fronte al degrado politico, sociale e culturale rappresentato «benissimo» dal governo di centro-destra, proporre la serenità di un'azione parlamentare da «tempi normali» sembra inadeguato; appellarsi alla responsabilità di un'altra Italia in attesa di tempi migliori per renderla diversa rischia di gettare al vento le energie di quanti si sono ritrovati per cercare al più presto una via d'uscita. L'evidente contraddizione tra la forza numerica della manifestazione di ieri (sicuramente più radicale di chi parlava dal palco) e la debolezza del suo sbocco politico era del tutto evidente, ad esempio, sul tema della formazione: a un movimento di massa - del tutto nuovo e originale - che fa saltare i nervi al potentissimo presidente del consiglio, è stato detto «vi appoggeremo nelle vostre lotte», ma poi è stato proposto di partecipare a un confronto politico - magari anche aspro - tra maggioranza e minoranza. Un confronto reso impossibile in partenza dalla violenza di chi sta al governo.
Che faranno ora le migliaia di persone convenute al Circo Massimo? Questa è la vera domanda cui dovrebbe rispondere chi li ha chiamati a raccolta. Perché il 25 ottobre non passi alla storia come una semplice prova di «esistenza in vita», o la testimonianza di una generosa volontà che può solamente attendere tempi migliori. Se verranno, tra quattro anni e mezzo, mentre «quello» non retrocede di un centimetro.
Il giorno in cui H., cittadino tunisino con regolare permesso di soggiorno, chiese di partecipare al bando comunale da sessanta licenze per taxi, scoprì che tassisti, qui da noi, si diventa solo se cittadini italiani. Il giorno in cui F. ed L., coppia nigeriana residente in Veneto, risposero a un annuncio per cuochi, scoprirono che l’albergo che li cercava, di neri non ne voleva. E «non per una questione di razzismo», gli venne detto dalla costernata direttrice della pensione, «perché in giardino, ad esempio», lavoravano «da sempre solo i pachistani». Il giorno in cui S., deliziosa adolescente napoletana, finì nella sala d’attesa di un pediatra di base di Roma accompagnata dal padre, alto dirigente del Dipartimento della pubblica sicurezza, realizzò che insieme a lei attendevano soltanto bambini dal colore della pelle diverso dal suo. E ne chiese conto: «Papà, perché da quando ci siamo trasferiti a Roma siamo diventati così sfigati?».
Il Razzismo italiano è un «pensiero ordinario». Abita il pianerottolo dei condomini, le fermate dell’autobus, i tavolini dei bar, i vagoni ferroviari. "Negro", una di quelle parole ormai pronunciate con senso liberatorio nel lessico pubblico, non nelle barzellette. Volendo, da esporre sulle lavagne del menù del giorno di qualche tavola calda, per allargare a una parte degli umani il divieto di ingresso ai cani.
L’Italia Razzista è la geografia di un odio di prossimità, che nei primi dieci mesi di quest’anno ha conosciuto picchi che non ricordava almeno dal 2005. Un odio «naturale», dunque apparentemente invisibile, anche statisticamente, fino a quando non diventa fatto di sangue. Il pestaggio di un ragazzo ghanese in una caserma dei vigili urbani di Parma; il linciaggio di un cinese nella periferia orientale di Roma; il rogo di un capo nomadi nel napoletano; la morte per spranga, a Milano, di un cittadino italiano, ma con la pelle nera del Burkina Faso; l’aggressione di uno studente angolano all’uscita di una discoteca nel genovese.
Dunque, cosa si muove davvero nella pancia del Paese?
Al quinto piano di Largo Chigi, 17, Roma, uffici della presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per le pari opportunità, lavora da quattro anni un ufficio voluto dall’Europa la cui esistenza, significativamente, l’Italia ignora. Si chiama «Unar» (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale). Ha un numero verde (800901010) che raccoglie una media di 10 mila segnalazioni l’anno, proteggendo l’identità di vittime e testimoni. È il database nazionale che misura la qualità e il grado della nostra febbre xenofoba. Arriva dove carabinieri e polizia non arrivano. Perché arriva dove il disprezzo per il diverso non si fa reato e resta "solo" intollerabile violenza psicologica, aggressione verbale, esclusione ingiustificata dai diritti civili.
Nei primi nove mesi di quest’anno l’Ufficio ha accertato 247 casi di discriminazione razziale, con una progressione che, verosimilmente, pareggerà nel 2008 il picco statistico raggiunto nel 2005. Roma, gli hinterland lombardi e le principali città del Veneto si confermano le capitali dell’intolleranza. I luoghi di lavoro, gli sportelli della pubblica amministrazione, i mezzi di trasporto fotografano il perimetro privilegiato della xenofobia. Dove i cittadini dell’Est europeo contendono lo scettro di nuovi Paria ai maghrebini.
In una relazione di 48 cartelle ("La discriminazione razziale in Italia nel 2007") che nelle prossime settimane sarà consegnata alla Presidenza del Consiglio (e di cui trovate parte del dettaglio statistico in queste pagine) si legge: «Il razzismo è diffuso, vago e, spesso, non tematizzato (�) La cifra degli abusi è l’assoluta ordinarietà con cui vengono perpetrati. Gli autori sembra che si sentano pienamente legittimati nel riservare trattamenti differenziati a seconda della nazionalità, dell’etnia o del colore della pelle». Privo di ogni sovrastruttura propriamente ideologica, il razzismo italiano si fa «senso comune». Appare impermeabile al contesto degli eventi e all’agenda politica (la curva della discriminazione, almeno sotto l’aspetto statistico, non sembra mai aver risentito in questi 4 anni di elementi che pure avrebbero potuto influenzarla, come, ad esempio, atti terroristici di matrice islamica). Procede al contrario per contagio in comunità urbane che si sentono improvvisamente deprivate di ricchezza, sicurezza, futuro, attraverso «marcatori etnici» che si alimentano di luoghi comuni o, come li definiscono gli addetti, "luoghi di specie". Dice Antonio Giuliani, che dell’Unar è vicedirettore: «I romeni sono subentrati agli albanesi ereditandone nella percezione collettiva gli stessi e identici tratti di "genere". Che sono poi quelli con cui viene regolarmente marchiata ogni nuova comunità percepita come ostile: "Ci rubano il lavoro", "Ci rubano in casa", "Stuprano le nostre donne". Dico di più: i nomadi, che nel nostro Paese non arrivano a 400 mila e per il 50% sono cittadini italiani, sono spesso confusi con i romeni e vengono vissuti come una comunità di milioni di individui. E dico questo perché questo è esattamente quello che raccolgono i nostri operatori nel colloquio quotidiano con il Paese».
L’ordinarietà del pensiero razzista, la sua natura socialmente trasversale, e dunque la sua percepita "inoffensività" e irrilevanza ha il suo corollario nella modesta consapevolezza che, a dispetto anche dei recenti richiami del Capo dello Stato e del Pontefice, ne ha il Paese (prima ancora che la sua classe dirigente). Accade così che le statistiche del ministero dell’Interno ignorino la voce "crimini di matrice razziale", perché quella "razzista" è un’aggravante che spetta alla magistratura contestare e di cui si perde traccia nelle more dei processi penali. Accade che nei commissariati e nelle caserme dei carabinieri di periferia nelle grandi città, il termometro della pressione xenofoba si misuri non tanto nelle denunce presentate, ma in quelle che non possono essere accolte, perché «fatti non costituenti reato». Come quella di un cittadino romeno, dirigente di azienda, che, arrivato in un aeroporto del Veneto, si vede rifiutare il noleggio dell’auto che ha regolarmente prenotato perché - spiega il gentile impiegato al bancone - il Paese da cui proviene «è in una black list» che farebbe della Romania la patria dei furti d’auto e dei rumeni un popolo di ladri. O come quella di un cittadino di un piccolo Comune del centro-Italia che si sveglia un mattino con nuovi cartelli stradali che il sindaco ha voluto per impedire «la sosta anche temporanea dei nomadi».
La xenofobia lavora tanto più in profondità quanto più si fa odio di prossimità (è il caso del maggio scorso al Pigneto). Disprezzo verso donne e uomini etnicamente diversi ma soprattutto socialmente «troppo contigui» e numericamente non più esigui. Anche qui, le statistiche più aggiornate sembrano confermare un’equazione empirica dell’intolleranza che vuole un Paese entrare in sofferenza quando la percentuale di immigrazione supera la soglia del 3 per cento della popolazione autoctona. In Italia, il Paese più vecchio (insieme al Giappone), dalla speranza di vita tra le più alte al mondo e la fecondità tra le più basse, l’indice ha già raggiunto il 6 per cento. E se hanno ragione le previsioni delle Nazioni Unite, tra vent’anni la percentuale raggiungerà il 16, con 11 milioni di cittadini stranieri residenti.
Franco Pittau, filosofo, tra i maggiori studiosi europei dei fenomeni migratori e oggi componente del comitato scientifico della Caritas che cura ogni anno il dossier sull’Immigrazione nel nostro Paese (il prossimo sarà presentato il 30 ottobre a Roma), dice: « È un cruccio che come cristiano non mi lascia più in pace. Se la storia ci impone di vivere insieme perché farci del male anziché provare a convivere? Bisogna abituare la gente a ragionare e non a gridare e a contrapporsi. Non dico che la colpa è dei giornalisti o dei politici o degli uomini di cultura o di qualche altra categoria. La colpa è di noi tutti. Rischiamo di diventare un paese incosciente che, anziché preparare la storia, cerca di frenarla. Si può discutere di tutto, ma senza un’opposizione pregiudiziale allo straniero, a ciò che è differente e fa comodo trasformare in un capro espiatorio. Alcuni atti rasentano la cattiveria gratuita. Mi pare di essere agli albori del movimento dei lavoratori, quando la tutela contro gli infortuni, il pagamento degli assegni familiari, l’assenza dal lavoro per parto venivano ritenute pretese insensate contrarie all’ordine e al buon senso. Poi sappiamo come è andata».
Se Pittau ha ragione, se cioè sarà la Storia ad avere ragione del «pensiero ordinario», l’aria che si respira oggi dice che la strada non sarà né breve, né dritta, né indolore. I centri di ascolto dell’Unar documentano che nel nord-Est del paese sono cominciati ad apparire, con sempre maggiore frequenza, cartelli nei bar in cui si avverte che «gli immigrati non vengono serviti» (se ne è avuto conferma ancora quattro giorni fa a Padova, alle «3 botti» di via Buonarroti, che annunciava il divieto l’ingresso a «Negri, irregolari e pregiudicati»). E che nelle grandi città anche prendere un autobus può diventare occasione di pubblica umiliazione, normalmente nel silenzio dei presenti. Come ha avuto modo di raccontare T., madre tunisina di due bambini, di 1 e 3 anni. «Dovevo prendere il pullman e, prima di salire, avevo chiesto all’autista se potevo entrare con il passeggino. Mi aveva risposto infastidito che dovevo chiuderlo. Con i due bambini in braccio non potevo e così ho promesso che lo avrei chiuso una volta salita. L’autista mi ha insultata. Mi ha gridato di tornarmene da dove venivo. E non è ripartito finché non sono scesa». T., appoggiata dall’Unar, ha fatto causa all’azienda dei trasporti. L’ha persa, perché non ha trovato uno solo dei passeggeri disposto a testimoniare. In compenso ha incontrato di nuovo il conducente che l’aveva umiliata. Dice T. che si è messo a ridere in modo minaccioso. «Prova ora a mandare un’altra lettera», le ha detto.
«Attenti a voi, ragazzi». Così, ieri, il quotidiano Libero traduceva nel lessico dell'avvertimento mafioso, o dei bulli di periferia, l'«avviso ai naviganti» del capo del governo. E per chiarezza aggiungeva: «Studente avvisato...». Linguaggio incredibile, per tanto che si sia fatto il callo all'imbarbarimento in atto, che la dice lunga su quali umori velenosi debbono maturare nei retrobottega del governo, e voglia di menar le mani nell'ebbrezza di un consenso espugnato. E nel delirio di onnipotenza di chi sente di non avere avversari politicamente rilevanti.
Poche ore più tardi, dall'altra parte del mondo, con raro sprezzo del ridicolo, il Grande Proclamatore si rimangiava tutto, negando quello che i giornalisti di tutta Italia avevano ascoltato, qui, con le proprie orecchie, e i quotidiani di ogni colore avevano pubblicato in prima pagina: «Mai pensato alla polizia nelle scuole». Esempio ineguagliato di cattivo maestro della menzogna. Modello di quella pedagogia dell'inganno che guida l'«opera riformatrice» di questo governo che pretenderebbe di riscrivere la sintassi elementare del nostro sistema formativo.
Certo da uno che ha, come luoghi simbolo del proprio «stile», la discoteca e il Bagaglino non ci si aspettava altro che la voglia di riempire scuole e università di uomini in divisa. Ma da un Capo dello Stato che invece la cultura alta la conosce e - lo sappiamo - la rispetta, ci saremmo attesi una parola più esplicita. Una difesa più limpida. Perché, in fondo, la natura di questa protesta che scuote le scuole di ogni ordine e grado è tutta qui: una difesa quasi disperata, un ultimo tentativo di salvare un residuo di dignità culturale di fronte alla marea montante dell'incultura, sociale e di stato. Una resistenza intergenerazionale e transpolitica - o metapolitica - contro l'ignoranza di governo che minaccia di abbattere e di travolgere quel poco di serietà professionale e di possibilità formativa che sopravvive nello spazio pubblico italiano.
Erano cinquant'anni che non si vedeva, nelle università, un'unità così ampia, dai rettori alle matricole, dai professori ordinari ai precari. E nelle scuole genitori, insegnanti, studenti, personale tecnico... Qualcosa vorrà ben dire: è ciò che si manifesta solo quando si avverte che è in gioco qualcosa di vitale. Che si è sotto una minaccia mortale. Non è il Sessantotto. O una sua ennesima replica, come ottimisticamente o all'opposto minacciosamente si dice. Quello vedeva - in uno scenario gioioso e giocoso - il conflitto tra studenti e autoritarismo accademico. Dava per scontata l'esistenza di un contesto scolastico garantito. Pretendeva di mutare la cultura ossificata dell'istituzione scolastica. Questa sommossa pacifica, invece, in un clima fattosi rigido, un po' plumbeo, sa di dover garantire la sopravvivenza stessa del proprio habitat scolastico. Di dover salvare un ruolo e uno spazio per la cultura in quanto tale.
Il Sessantotto poteva permettersi il lusso della battaglia politica. Questo pezzo di paese a rischio di naufragio sa di dover giocare una struggle for life più «originaria» ed elementare, che riguarda questioni come il rispetto di sé, la dignità collettiva, la serietà del sapere, la non negoziabilità di valori primari. A cominciare dal mantenimento in vita di un sia pur danneggiato e minacciato residuo di «spazio pubblico». Per questo non sarà facile metterlo a tacere.
Davanti a una protesta per la riforma della scuola che si allarga in tutt´Italia e coinvolge studenti, professori, presidi e anche rettori, il Presidente del Consiglio ha reagito annunciando che spedirà la polizia nelle Università, per impedire le occupazioni. La capacità berlusconiana di criminalizzare ogni forma di opposizione alla sua leadership è dunque arrivata fin qui, a militarizzare un progetto di riforma scolastica, a trasformare la nascita di un movimento in reato, a far diventare la questione universitaria un problema di ordine pubblico, riportando quarant´anni dopo le forze dell´ordine negli atenei senza che siano successi incidenti e scontri: ma quasi prefigurandoli.
Qualcuno dovrebbe spiegare al Premier che la pubblica discussione e il dissenso sono invece elementi propri di una società democratica, non attentati al totem della potestà suprema di decidere senza alcun limite e alcun condizionamento, che trasforma la legittima autonomia del governo in comando ed arbitrio. Come se il governo del Paese fosse anche l´unico soggetto deputato a "fare" politica nell´Italia del 2008, con un contorno di sudditi. E come se gli studenti fossero clienti, e non attori, di una scuola dove l´istruzione è un servizio e non un diritto.
Se ci fosse un calcolo, le frasi di Berlusconi sembrerebbero pensate apposta per incendiare le Università, confondendo in un falò antagonista i ragazzi delle scuole (magari con il diversivo mediatico di qualche disordine) e i manifestanti del Pd, sabato. Ma più che il calcolo, conta l´istinto, e soprattutto la vera cifra del potere berlusconiano, cioè l´insofferenza per il dissenso.
Lo testimonia l´attacco ai giornali e alla Rai fatto da un Premier editore, proprietario di tre reti televisive private e col controllo politico delle tre reti pubbliche, dunque senza il senso della decenza, visto che a settembre lo spazio dedicato dai sei telegiornali maggiori al governo, al suo leader e alla maggioranza varia dal 50,17 per cento all´82,25. Forse Berlusconi vuol militarizzare anche la libera stampa residua. O forse "salvarla", come farà con le banche.
Una società immobile e classista, dove i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sono sempre di più e la speranza del grande salto verso un gradino più alto della piramide sociale è ridotta al lumicino. Con tutto il parlare di caste, in Italia, si rischia di perdere di vista la fondamentale frattura nelle strutture sociali che dà il conto in banca, con i suoi annessi e connessi. Uno strato sottile di ricchi da una parte, le schiere dei poveri dall’altra, con il vuoto che si allarga in mezzo, dove un vasto smottamento segna la fine di un’epoca e risucchia le classi medie verso il basso. In buona misura, già lo sapevamo. Le indagini della Banca d’Italia ci avevano già detto che 5 milioni di italiani (il 10 per cento più ricco) incassa ogni anno il 28 per cento del reddito totale (al netto delle tasse) prodotto nel paese. Soprattutto, che gli stessi 5 milioni hanno in tasca il 42 per cento della ricchezza nazionale (case, auto, titoli, depositi bancari), lasciando gli altri 50 milioni a spartirsi il 60 per cento che resta. Uno studio della Banca dei regolamenti internazionali ci aveva avvertito del gonfiarsi dei profitti a danno dei salari: la quota delle buste paga sul valore aggiunto delle aziende, in Italia, è scesa rapidamente dal 68 al 53 per cento. Uno studio pubblicato ieri dall’Ocse - l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati - adesso ci consente di aggiungere sia una prospettiva geografica che una prospettiva storica.
E’ tutto l’Occidente industrializzato, dice l’Ocse, a registrare un brusco aggravamento delle distanze fra ricchi e poveri. In vent’anni, l’ineguaglianza fra i redditi delle diverse classi è cresciuta in media del 12 per cento. La faglia inizia ad aprirsi nei primi anni ‘80, in coincidenza con la rivoluzione Reagan-Thatcher e le nuove politiche neoliberiste che concludono la lunga fase del keynesismo e del welfare state. Ma, in Italia, il fenomeno è assai più brusco e devastante. In vent’anni, il golfo fra ricchi e poveri si è allargato del 33 per cento, quasi il triplo di quanto avvenuto nell’insieme dei paesi Ocse: all’inizio degli anni ‘90 la nostra struttura sociale era più o meno simile a quella dei paesi del Nord Europa. A fine anni ‘90 eravamo scivolati ai livelli di Grecia e Portogallo. E anche più in giù. Oggi solo 5 dei 30 paesi Ocse hanno una struttura sociale più squilibrata della nostra: i ricchi italiani hanno da invidiare solo quelli di Messico, Turchia, Portogallo, Usa e Polonia. E nel G7 siamo secondi solo agli Stati Uniti. Non sono i poveri ad essere sprofondati di più nella miseria: dopo un decennio durissimo (fra metà anni ‘80 e metà anni ‘90) il 20 per cento più povero ha recuperato negli ultimi 10 anni. I tassi di povertà restano più alti della media Ocse, ma sono scesi, in particolare per quanto riguarda i bambini.
L’implosione è avvenuta nel 60 per cento di popolazione che può essere definita classe media e che vede allargarsi il divario con i ricchi, in sostanza quelli con un reddito superiore a 40 mila euro l’anno. Prendiamo il più semplice degli indicatori disponibili. Il reddito medio italiano è più basso della media Ocse. In particolare, quello dei poveri è inferiore di un terzo ai, per così dire, pari categoria della media degli altri paesi. Per le classi medie, lo scarto con la media Ocse è del 15 per cento. E i ricchi? Sono appena sopra la media dei ricchi degli altri paesi. E guadagnano dodici volte quello che ricevono i più poveri.
I grafici dell’Ocse offrono uno scorcio affascinante della nostra storia recente. Negli anni ‘80, l’ineguaglianza (al lordo delle tasse) cresce sull’onda mondiale, ma la politica fiscale e sociale la contrasta, frenando l’erosione del reddito disponibile. La vera impennata c’è all’inizio degli anni ‘90, con la crisi della Prima Repubblica e la svalutazione della lira. La spaccatura si riduce (al netto delle tasse) nell’ultima parte del decennio e il governo di centrosinistra. Per riprendere ad allargarsi, ma in misura
Chiedo ai «climalterati» ministri, Brunetta, Scajola e Prestigiacomo di astenersi dalla quotidiana dichiarazione in difesa delle imprese italiane, che andrebbero in rovina se costrette a spendere soldi per applicare la direttiva Ue sul clima. Le vostre dichiarazioni emanano un fetore insopportabile dopo la notizia che, a Taranto, un tredicenne, Patrizio Sala, sta morendo di cancro per le emissioni di diossina, di una di quelle aziende che voi difendete. Quella che in questi anni ha ricattato lavoratrici e lavoratori, il sindacato, l'intera popolazione di Taranto obbligandoli a scegliere fra occupazione e risanamento ambientale. La stessa musica che ci fate ascoltare contro la direttiva sul clima: se obbligate a ridurre i gas serra le aziende chiudono e se ne vanno. A tornado e scioglimento dei ghiacciai, all'aria e all'acqua avvelenate ci si penserà.
Oggi fate silenzio, ascoltate la protesta di una città avvelenata e magari interrogatevi sul perché un uomo di destra come voi, Sarkozy, denuncia l'irresponsabilità della vostra posizione.
Anche noi, «tifosi» dell'Europa, che godiamo quando bacchetta Berlusconi - visto che noi non ci riusciamo - domandiamoci: è sufficiente sperare che sia l'Europa a piegare Berlusconi e il suo «pattino di Varsavia», oppure serve far crescere qui una mobilitazione sociale su un progetto di politica economica, energetica e industriale capace di realizzare le famose «3x20» su emissioni, efficienza e rinnovabili? Limitarsi al tifo ci lascia solo guai e macerie e tanti Patrizio Sala da sacrificare sull'altare della «competitività».
Ci sono le condizioni politiche e sociali per costruire questa mobilitazione? Le difficoltà sono enormi, quotidianamente questo giornale ne parla. Proviamo anche a dire cosa serve per uscirne. Almeno due fatti: uno politico uno sociale.
Il nodo politico sul clima è la scelta del Pd: è prevalente, nel principale partito di opposizione, la posizione espressa da Fassino, attenta alle posizioni di Confindustria, oppure quella dei suoi ambientalisti che stanno con l'Europa? La manifestazione del 25 è una buona occasione per comunicare al paese quale delle due il Pd intende scegliere. E, poi: la sinistra, che ha fatto il corteo dell'11 ottobre, affida la verifica della sua ritrovata vitalità contribuendo alla mobilitazione in difesa della direttiva sul clima?
Sul piano sociale invece determinante è ottenere dai sindacati l'indisponibilità a subire il ricatto di Confindustria. Difesa dell'occupazione, migliori condizioni di lavoro e salario si ottengono assumendo la riconversione industriale che la direttiva sul clima sollecita e non rifiutandola.
Altrettanto decisivo è contaminare la lotta degli studenti se si vuole realizzare una mobilitazione sul clima, ma anche ottenere il coinvolgimento in essa di ricercatori, scienziati, intellettuali per risanare i «pozzi avvelenati» dal consumismo dissipativo.
Non è facile, ma proviamoci per non essere cos
Durante la conferenza stampa che ha concluso il vertice europeo della scorsa settimana sulla crisi finanziaria, Nicolas Sarkozy ha affermato che i dirigenti delle banche che hanno provocato lo sconquasso finanziario dovranno pagarla. Vaste programme, avrebbe detto il suo predecessore Charles De Gaulle. A cominciare dai numeri in gioco. Lo sconquasso è stato infatti provocato dalle strategie di mercato d’alcune migliaia di istituzioni finanziarie americane, europee e asiatiche. L’elenco comprende banche di deposito e banche d’affari (sebbene non sempre sia facile distinguerle), fondi speculativi, fondi comuni di investimento, compagnie di assicurazione, buon numero di fondi pensione che negli anni 2000 hanno scoperto il fascino dei mercati dei titoli, e vari altri tipi di enti privati e pubblici. Supponendo che i top manager siano una dozzina per ente, si arriva a una quantità di persone su cui fare indagini fiscali e contabili, civili e penali, dell’ordine di decine di migliaia. Aspettiamo di vedere chi e come ci metterà mano, a tali indagini.
Vastità del programma a parte, accusare della crisi i dirigenti delle istituzioni finanziarie, come han fatto autorevoli personaggi anche prima di Sarkozy, è del tutto fuorviante per cercar di capire le cause del disastro, quando non si tratti di un vero e proprio depistaggio. Non c’è dubbio che tra i dirigenti delle istituzioni finanziarie vi siano stati dei disonesti, e che sarà giusto colpirli. Ma bisognerebbe cercar di evitare di ripetere la commedia del 2000-2003, quando in Usa crollarono Enron e WorldCom, Adelphia Communications e Tyco International, e in Europa, tra gli altri, Vivendi e Parmalat. Il presidente Bush definì "mele marce" i dirigenti coinvolti, presto condannati a pene severe, e fece passare di corsa la legge Sarbanes-Oxley del 2002, che accresceva le responsabilità dei manager e doveva restaurare la fiducia nel sistema. Il fatto è che il marcio stava nella legislazione fino ad allora in vigore, assai più che nelle persone. Alcuni dirigenti avevano sì commesso delle frodi, ma fino a qualche giorno avanti erano stati oggetto di lodi iperboliche per le loro capacità manageriali. Da esse, si diceva, era nato un nuovo modello di impresa giuridico-telematica, un nesso iperflessibile di contratti e comunicazioni che generava profitti fantasmagorici. Un modello che nel caso Enron si fondava, tra l’altro, sulla modifica per dubbie vie della legislazione di una ventina di stati Usa al fine di consentirle di operare come un fulmine senza freni sul mercato dell’energia.
La situazione odierna è molto simile. Chi ha deviato tra i dirigenti va colpito. Ma incomparabilmente più grave è il guasto insito nelle leggi che hanno favorito, incentivato, premiato il comportamento di decine di migliaia di dirigenti che si sono limitati ad applicarle e, comprensibilmente, a sfruttarne ogni remota piega. Sono in primo luogo leggi Usa, e visto che perfino il presidente Bush ha ammesso che la crisi è partita da loro, su di esse occorre soffermarsi. Il cammino verso il disastro odierno è segnato da due principali leggi. La prima, la legge Gramm-Leach-Bliley del 1999, aboliva la legge Glass-Steagall del ‘33 e permetteva da capo ogni sorta di attività speculative tanto alle banche commerciali che alle banche di investimento � una delle cause del crollo del ‘29. Il primo firmatario, il senatore Phil Gramm, che avrebbe lasciato il Senato nel 2003 ed è oggi consigliere economico di McCain, era considerato uno dei più attivi portavoce degli interessi di Wall Street che si siano mai visti nel Congresso Usa. Un anno dopo Gramm colpiva ancora. Poco prima della pausa natalizia, con il presidente uscente Clinton ormai privo di effettivo potere, il Congresso stava discutendo una legge finanziaria che distribuiva tra un’infinità di soggetti quasi 400 miliardi di dollari. Il testo della legge era smisurato: circa 10.000 pagine. Il senatore Gramm riuscì all’ultimo momento a introdurre un emendamento di 262 pagine denominato Commodity Futures Modernization Act (Cfma). Il presidente Clinton lo firmava, trasformandolo in legge, il 21 dicembre 2000.
Il Cfma sottraeva quasi per intero i prodotti finanziari derivati alla regolazione ed alla sorveglianza sia della Commissione Titoli e Borsa (la famosa Sec), sia della meno nota Commissione per il Commercio dei Titoli Future. In tal modo apriva la porta alla demenziale moltiplicazione dei derivati finanziari trattati al di fuori delle borse. Dal 2000 a fine 2007, va ricordato, essi sono balzati, come valore nominale ovvero di sottoscrizione, da 100 trilioni a 600 trilioni di dollari, una cifra equivalente a 11 volte il Pil mondiale. Al riguardo, il presidente (1987-2006) della Federal Reserve Alain Greenspan ebbe a dichiarare in più di un’occasione che si era dinanzi a un nuovo sistema finanziario, che da un lato migliorava in misura super il livello di vita dei paesi che lo adottavano, dall’altra rendeva evidente che per raggiungere sicurezza e solidità la regolazione finanziaria doveva ormai affidarsi all’auto-sorveglianza delle istituzioni private. Come più di un commentatore ha scritto, in tal modo la custodia del pollaio veniva affidata alle volpi.
Ci si può chiedere perché mai dovremmo preoccuparci, noi della Ue, di un paio di leggi Usa. Due semplici risposte vengono alla mente. Anzitutto il sistema finanziario sortito da quelle leggi, ora sconvolto da una crisi senza precedenti, è stato magnificato per anni, sino ad un paio di mesi fa, come un modello di straordinaria modernità ed efficienza, che si doveva assolutamente trasferire nei nostri paesi. In tal senso si sono adoperati politici e imprenditori, associazioni di categoria ed economisti, quotidiani economici e banchieri. Non sembra, per fortuna, che vi siano riusciti del tutto. Ma resta vero che la legislazione e la normativa delle autorità di sorveglianza hanno fatto in questi anni, seppur con differenze di rilievo da un paese all’altro, lunghi passi in direzione d’una estesa adozione di quel modello. Per evitarlo, e imboccare la strada inversa, bisogna conoscerlo.
La risposta numero due è che un certo numero di trilioni di dollari di derivati non registrati dal mercato borsistico e quindi invisibili alle autorità di sorveglianza, sono stati presumibilmente acquistati anche da istituti finanziari della Ue, Italia compresa, per essere poi scambiati e rivenduti attraverso mille canali. Fino a ieri sono stati anch’essi glorificati quali capolavori di gestione del rischio, parti geniali della matematica finanziaria. V’è da sperare che il loro peso di mele marce non si riveli eccessivo per gli istituti finanziari e i risparmiatori. Ma forse potrebbe bastare per convincere qualche attore in più, in sede politica ed economica, che cacciare qualche dirigente va pure bene, ma solo una radicale reimpostazione delle regole del sistema finanziario mondiale ci porranno al riparo da catastrofi anche peggiori di quella attuale.
L'Italia blindata nei suoi confini, autarchica e nazional-popolare, è stata smascherata ieri a Lussemburgo. Il pacchetto clima non sarà rinviato ha stabilito il vertice dei ministri europei dell'ambiente. Bocciato lo stop di un anno chiesto dal governo Berlusconi per valutare «costi e benefici» dell'iniziativa, che non ha ragione di essere posticipata, secondo il commissario Ue, Stavros Dimas. Risponde patriotticamente Stefania Prestigiacomo, che parla a nome della sua Confindustria, «non ci arrenderemo», e minaccia «se non ci saranno modifiche importanti» di disertare l'appuntamento di Copenhagen 2009 e allearsi con i paese dell'Est, improvvisamente diventati modello di riferimento e, in un paradosso storico, additati dall'opposizione come figli di un dio minore («Non siamo mica la Bulgaria!»).
Opposizione frastornata e morbidissima quando ci sarebbe da gridare contro un sistema produttivo provinciale e ottocentesco che vede nella spesa per l'ambiente solo un costo, e che per bocca di Fassino (mentre Realacci dice il contrario, il Pd si decida) invita alla prudenza perché l'apparato industriale italiano avrebbe le sue «specificità», tante piccole fabbrichette da riconvertire a un'energia pulita.
Non basta l'arretratezza abissale dell'Italia, indietro sui paesi europei che hanno diminuito le emissioni tossiche in applicazione del protocollo di Kyoto mentre noi le abbiamo aumentate. Non basta l'allarme mondiale sul disastro del pianeta che moltiplica catastrofi climatiche da oriente a occidente. Impera il «buon senso» tradotto in nobile battaglia per gli interessi locali di stati che in nome della crisi si barricano dietro frontiere inesistenti. Se il crack della finanza passa i confini nazionali, figuriamoci i fumi inquinanti e climalteranti fermati alla dogana. Ma in gioco non è solo la riduzione della Co2 (il gas «di serra» che altera il clima) c'è una riconversione mentale e sociale dello sviluppo, che mantiene uno spirito coloniale, a danno del resto del mondo.
L'opinione pubblica è chiamata a condividere la posizione del governo, che si pone a difensore dei livelli di consumi nazionali, giù le mani dalle nostre tasche, come se la crisi non avesse una dimensione globale e le ricette per superarla altrettanto. Il «no» all'Europa viene spacciato per un no alla pretesa verde di comprimere le risorse, di vietare, negare benessere - aprendo lo scontro tra lavoro e ambiente - mentre al contrario è l'investimento in un futuro, già presente, che può rilanciare l'Italia nella società internazionale, fuori da vecchie concezioni industrialiste.
La «clausola di revisione» pretesa da Prestigiacomo, che insiste sui costi troppo alti del pacchetto clima (18, 2 miliardi di euro contro i 9-12 di Dimas) illustra la politica tutta populista e isolazionista del paese, la risposta di destra al terremoto economico, tra caccia xenofoba, protezionismo e aiuti di stato alle banche e alle imprese, non certo a una ricerca del «bene pubblico». Come diminuire le emissioni? Ecco pronto il rimedio, un piano «salva aziende», rottamazione di automobili ed elettrodomestici a spese dello stato, è l'ultima idea del ministro dello sviluppo economico Scajola. L'Europa ci guarda e le viene da ridere.
Dobbiamo prendere atto di una realtà: l’analfabetismo civile della società italiana è un fenomeno gravissimo. E non è per caso che lo scontro sociale si sta riaccendendo intorno alla scuola. I giovani, le famiglie, gli insegnanti stanno prendendo coscienza di quello che li aspetta: una scuola pubblica pesantemente impoverita nei servizi, nel personale, negli edifici e nelle attrezzature. A cui si aggiunge una università di infimo livello, fabbrica di lauree ridicole e di docenti senza qualità. Il tempo è giudicato maturo da chi comanda per liquidare la pesante struttura della scuola pubblica e per affiancare all’università pubblica in via di smantellamento fondazioni private capaci di velocizzare la fornitura del personale tecnicamente preparato e civilmente incolto richiesto dal sistema produttivo.
La giustificazione che regge la proposta è quella dello stato di crisi delle finanze pubbliche, aggravato oggi dalla tempesta mondiale delle banche. Ma la voce che si leva dalle piazze e che trova la via dei fax e delle mail per raggiungere il Quirinale dice che, accanto alle banche, prima e più delle banche, c’è ancora chi vuole salvare la formazione dei giovani e la qualità del nostro sistema della ricerca universitaria. È urgente affermare che qui si gioca una partita strategica essenziale. Prenderne coscienza è fondamentale. Lo stanno facendo le famiglie, gli studenti, i docenti, con proteste e richieste di interessi diversi, non sempre componibili tra di loro. Alle famiglie la riforma minacciata per decreto renderà più complicato raggiungere scuole accorpate, più ridotto il tempo dell’affidamento dei figli, più povera l’offerta culturale. Agli scolari e agli studenti toccherà in sorte un luogo di rafforzata disciplina esteriore negli abiti, nella condotta, e di inadeguata offerta per la crescita civile e culturale. Queste economie tagliate con l’accetta sul sistema scolastico ricordano quel Procuste che segava le gambe ai clienti per adattarli alla dimensione dei suoi letti.
La scuola è il pilastro fondamentale della società civile in una democrazia vitale, il luogo della socializzazione e dell’avvio a una cittadinanza consapevole, l’unico mezzo efficace per eliminare le discriminazioni di religione e di etnia, per assorbire l’impatto dei flussi migratori mondiali abituando a crescere negli stessi ambienti coloro che, da adulti, si troveranno fuori dalla scuola a convivere nella stessa società. La rivelazione della stupefacente crescita numerica della popolazione italiana ci ha fornito i numeri di quel che è accaduto negli ultimi anni, ma ha fatto anche di più: ha dimostrato implicitamente quello che i risentimenti, le chiusure, i pregiudizi e le paure seminate a piene mani cercano di nascondere, il fatto cioè che ciascuno di noi conta per uno e che tutti insieme facciamo la somma paese. Democrazia e demografia debbono andare di pari passo. L’idea di istituire classi differenziate è sorella di quell’altra balorda idea delle impronte digitali da prendere ai bambini rom.
Riuscirà la protesta degli studenti a frenare la deriva italiana? La giovinezza e la speranza di cambiare in meglio il mondo sono sorelle. Speriamo, dunque. Quanto ai compagni di strada che i giovani in agitazione e le loro famiglie stanno incontrando, la loro solidarietà non potrà esimerli da qualche esame di coscienza. Sulla protesta dei sindacati gravano quei limiti corporativi che tanto hanno pesato in passato nell’ostacolare l’avanzata dei docenti migliori e la rimozione dei peggiori e nel sostituire pressioni e contrattazioni alla logica del concorso pubblico senza limitazioni, senza fasce protette o categorie riservate. Ma è ai docenti e al sistema che governa l’università come luogo di insegnamento e di ricerca che oggi si chiede una prova speciale di credibilità. Ne saranno, ne saremo capaci? C’è da dubitarne. Un fatto recente rafforza i dubbi.
Se il clan dei casalesi compie una strage in un centro abitato in pieno giorno, nessuno vede, nessuno denunzia, nessuno testimonia. Precisiamo: nessun italiano. La "vittoria dello Stato" di cui nel caso di Castel Volturno si è gloriato il ministro dell’Interno è dovuta a un immigrato, l’unico salvatosi dalla strage. Un uomo solo, terrorizzato, sfuggito alla morte, ma capace di un atto di coraggio elementare, di una domanda di giustizia che non è giunta da nessun’altra parte. Ma parliamo dell’università. Qui le stragi ci sono ma non si vedono. Sono stragi di speranze e di intelligenze. Ogni anno in questa stagione il saldo demografico dell’università si chiude in negativo: i giovani migliori vanno all’estero, i pochi che vengono in Italia da fuori vi arrivano da paesi più poveri e più incolti del nostro. Anche qui è stato un immigrato, un raro esempio di "ritorno dei cervelli" a fare una radiografia impietosa e documentata del sistema universitario. Il professor Roberto Perotti, già docente alla Columbia University di New York, oggi alla Bocconi, ne L’Università truccata (edizioni Einaudi) ha denunziato le malattie dell’Università e ha avanzato proposte. Pagina dopo pagina leggiamo nomi e cognomi. Una tabella a pagina 22 ricostruisce il sistema di parentela che domina la facoltà di economia dell’Università di Bari come pure quelle di Medicina e Chirurgia di Bari e della Sapienza di Roma. E una tabella fittissima di ben cinque pagine illustra il meccanismo dei "concorsi dei rampolli". Le regole della parentela sono elementari nelle popolazioni primitive studiate dal grande antropologo Claude Levi-Strauss. Lo sono anche nelle tribù accademiche italiane. Qui basta un padre Magnifico Rettore a determinare l’irresistibile entrata dei membri della sua famiglia nell’università che governa e nel suo stesso dipartimento. Naturalmente il problema non è la consanguineità dei professori ma il blocco degli studi e la penalizzazione dei giovani migliori che la logica mafiosa dominante nei concorsi ha prodotto con la scomparsa tendenziale delle università italiane dalla parte alta della comunità scientifica internazionale.
Le pagine di Perotti fitte di nomi e cognomi potevano scatenare una tempesta di querele e di proteste, riempire le aule dei tribunali di dignità offese. Non è accaduto niente. Le toghe infangate e svergognate hanno continuano a coprire magnificenze fasulle abbarbicate a cattedre e rettorati. Si diceva una volta: "Calunniate, calunniate, qualcosa resterà". Viene voglia di dire oggi: criticate, criticate, niente resterà. Resta solo uno stato d’animo di invidia e di rancore, diffuso tra le famiglie soccombenti e nella poltiglia umana che dallo spettacolo dell’ignoranza trionfante e prevaricante ricava solo una spinta alla maldicenza anonima e indifferenziata e può consolarsi così delle proprie frustrazioni. Ma lo scandalo vero è la sordità delle istituzioni e dei poteri. In un’altra cultura avremmo visto probabilmente manifestazioni pubbliche, esibizioni delle vergogne su lenzuolate di nomi, proteste di associazioni e di sindacati, inchieste di magistrati, interrogazioni parlamentari. Nel libro di Perotti c’è quanto basterebbe in un paese dotato di un vero governo e di una vera opposizione per mettere in movimento almeno una inchiesta parlamentare. Anche perché gli intrecci osceni che avvengono nei concorsi non sono fatti solo di dinastie familiari. Come tutti sanno, il vigente principio dello "ius loci" affida al potere delle cosche accademiche localmente prevalenti la selezione delle nuove leve di docenti attraverso il paravento di finti concorsi. Su questa materia è stato detto tutto. Non è stato fatto nulla. Quel che è stato fatto è un disastro bipartisan che negli ultimi anni, col sistema del tre per due e con la regola concorsuale dello "ius loci" ha svenduto le residue energie dell’università italiana, ha riempito le scuole di ignoranti e ha moltiplicato le etichette di fantasia per fare posto agli asini obbedienti al potere del capocosca locale.
Ora siamo arrivati al rendiconto finale. Lo sforzo degli studenti in agitazione per coinvolgere i docenti e di riceverne pacche sulle spalle è patetico. Ci fa misurare la distanza dalle aspre e irridenti satire del ‘68, quando l’apparizione di un professore in un’assemblea studentesca faceva scattare cori di derisione. I giovani di allora oggi sono vecchi. Molti di quelli che allora dominarono le assemblee studentesche occupano o hanno occupato cattedre, ministeri seggi parlamentari. Pesa sulle loro spalle un fallimento che non hanno saputo evitare, che hanno spesso contribuito ad accelerare. Il loro eventuale appoggio andrebbe esorcizzato come una minaccia da chi vuole veramente che la scuola e l’università italiana riprendano la loro funzione di cuore pulsante della società. Lo tengano presente i giovani che oggi, timidamente, cominciano a uscire dal torpore di un paese gravemente malato.
Ambiente, l'Italia contro l'Europa:
«Salvare la terra è fuori mercato»
di Rina Gagliardi
Secondo l'ultimo rapporto dell'"Arctic Report Card", redatto annualmente dai maggiori climatologi di dieci Paesi, il Polo Nord si sta sciogliendo a velocità crescente - intanto quest'autunno ha registrato una temperatura superiore di cinque gradi a quella dell'anno scorso. Una "notiziola" di un certo interesse, tra un delitto e l'altro, tra un'uscita di Brunetta e l'altra. Eppure, diciamoci la verità, la sensibilità di massa all'ambiente e al rischio di una (non lontanissima) catastrofe climatica è oggi, in Italia, in caduta libera - decenni di "pensiero unico" neoliberista hanno prodotto anche questa specifica, drammatica regressione. Alle classi dominanti, ad una imprenditoria dedita, nel migliore dei casi, al profitto a breve, dell'ambiente, del destino della specie umana, della sorte delle generazioni future, non gliene importa nulla - e comunque non ci crede, vuoi per indifferenza vuoi per cecità vuoi per abissale ignoranza. In più, ci si mette, se così si può dire, la crisi dei mercati finanziari e anzi dell'economia capitalistica: invece di usare l'occasione - quasi strepitosa - per rimettere in discussione il modello di sviluppo che ha generato la crisi, o almeno per cominciare a rifletterci su, si fa l'esatto opposto. Se ne trae la conclusione che, ora, è il momento di rilanciarlo "alla grande", quel modello, con generosi e pochissimo liberisti aiuti di Stato.
Diamine, come dice Renato Schifani, vi sembra il caso di dilettarsi con questi "lussi" del rispetto dell'ambiente, quando domina l'emergenza economica? Così la seconda carica dello Stato si fa sberleffo della prima, Giorgio Napolitano, che un momento prima aveva provato a spezzare una pur timida lancia a favore dell'ecologia. Così, c'è da giurarci, cresce nel senso comune la convinzione che quelle dell'Europa son tutte balle, sciocchezze, ubbìe - "politica", come ormai viene spregiativamente definito tutto ciò che esula dall'apparenza immediata, tutto ciò che va oltre l'istantaneità del presente.. Non è forse vero, come scriveva ieri il Finacial Times, che il governo Berlusconi gode di un consenso massiccio e di un sostegno da parte di alcuni media di natura che l'autorevole quotidiano conservatore chiama "nordcoreano"?
Detto tutto questo, però, resta abbastanza incredibile quel che sta succedendo in questi giorni, nello scontro - durissimo - che oppone il governo italiano all'Europa. Non era forse mai accaduto che questo Paese fosse rappresentato, fuori dai confini nazionali, da posizioni tanto scandalose: ora, la proposta italiana, che certo troverà il caloroso sostengo della (sola) Polonia, è addirittura, quello di rinviare sine die - di un anno, di quindici mesi, di due anni - ogni applicazione del piano "20-20-20" (la riduzione entro il 2020 del 20 per cento delle emissioni di biossido carbonio e la contestuale espansione al 20 per cento delle fonti di energia rinnovabile). Non era mai successo, forse, che un Governo fosse ridotto a puro tappetino delle "rivendicazioni" di Confindustria - anche la cancelliera tedesca Angela Merkel ha il suo da fare con l'opposizione della Bdi (la Confindustria tedesca), ma regge lo scontro con dignità. Non si era mai visto un ministro, anzi una ministra dell'ambiente così spudoratamente contro l'ambiente, come appare oggi la signora Prestigiacomo (per altro, i ministri "contro" sono una specialità di questo Governo: la Gelmini non è forse all'opera, alacremente, contro la scuola? Sacconi non sta pianificando la distruzione di quel che resta del Welfare? Angelino Alfano non è un avvocato rampante che ce l'ha a morte con la giustizia?).
In verità, sta succedendo qualcosa che va perfino oltre la pur cruciale questione ambientale: la esplicita, arrogante, quasi trasparente rivendicazione dei disvalori. Abituati come eravamo all'ipocrisia (e anche all'equilibrio) democristiano, non abbiamo visto (in tempo) la trasmutazione regressiva delle nuove "classi dirigenti": ora, nel momento storico che stanno vivendo, non si nascondono più. Proclamano apertamente la disuguaglianza, sociale e giuridica. Appoggiano senza infingimenti banchieri e industriali. E così via. E affermano, appunto, che l'emergenza ambientale non esiste - e se per caso esiste, è irrilevante, o è l'invenzione di qualche scienziato pazzo, in cerca di pubblicità. In altre epoche avrebbero detto che è tutto nasce da un complotto comunista - adesso, con Barroso e Sarkozy alla guida della Ue, usano altri e più pedestri argomenti. Quando un ministro che di ambiente visibilmente non sa nulla, come Renato Brunetta, arriva a dichiarare che "il piano Ue è una follia", quando si snocciolano cifre spropositate per dimostrare che inquinare meno (pochissimo meno di quanto oggi si inquina, in un Paese, il nostro, che viola da anni i mitissimi protocolli di Tokyo e paga per questo multe salatissime) uccide l'industria e le famiglie, quando, insomma, i palazzi del potere rivestono la loro politica reazionaria di agitazione nazionalistica e "antipolitica" (antieuropea), vuol dire che la storia si è rimessa a girare all'indietro molto più di quanto abbiamo pensato e immaginato.
Aveva proprio ragione Carlo Marx, quando, nel lontano 1857, scriveva che quando "il valore di scambio cessa di essere la misura del valore d'uso la produzione basata sul valore di scambio crolla". La mercificazione di tutto è la folle risposta che il capitale dà alla sua crisi epocale - fino al punto da mettere in discussione la sopravvivenza della civiltà e della stessa specie umana. Il dibattito sull'emergenza ambientale è tutto dentro questo quadro in fondo classico: la contraddizione insanabile che si sta producendo tra forze produttive e rapporti di produzione. Non crediate che siano esagerazioni, o previsioni apocalittiche. E' quasi solo marxismo spicciolo.
Brunetta: «I vincoli ambientali
dell'Europa? Sono una follia»
di Sara Volandri
Il ministro della pubblica amministrazione Renato Brunetta, come del resto l'intero governo Berlusconi, non gradisce affatto le bacchettate dell'Unione europea alle nostre blande politiche ambientali. Anzi, alle nostre politiche inquinanti. In particolare sembra pronto a innalzare vere e proprie barricate pur di non rispettare i vincoli per le emissioni di Co2 stabiliti dai governi dell'Ue (tranne Roma e Varsavia). Lo dimostra l'imbarazzante vicenda dei rapporti truccati e presentati a Bruxelles per esentare l'Italia dal rispetto dei vincoli. Cifre «fasulle» come aveva fatto notare il Commissario all'Ambiente Stavros Dimas, definendosi «allibito» dalle argomentazioni del governo italiano.
Lo dimostrano anche i toni accesi di Brunetta che si è rivolto con queste sprezzanti parole ai partner comunitari e alla stessa Commissione: «L'Europa ha poco da bacchettare, perché il 20-20-20 è una follia». Il 20-20-20 è un pacchetto che impone alla produzione industriale il 20% di fonti rinnovabili, il 20% di risparmio energetico e il 20% riduzione Co2; misure sottoscritte sanza problemi da Francia, Germania e Gran Bretagna solo per citare i paesi più grandi, ma che evidentemente rappresentano un intralcio alle politiche confindustriali del centrodestra. D'altra parte era stata proprio Confindustria la prima a scagliarsi contro i parametri dell'Ue, rifiutando qualsiasi compromesso sull'innovazione energetica e la riduzione di gas serra.
Troppo onerose per le nostre imprese, per la nostra competitività, troppo estranee alla cultura di un governo che in questi giorni è prodigo di affermazioni che la dicono lunga sulla sua sensibilità ambientalista; dal ministro per le infrastrutture Altero Matteoli, il quale in un impeto "bushista" afferma che «bisogna rinegoziare il protocollo di Kyoto», al capogruppo del Pdl all'Europarlamento Fabrizio Cicchito per cui «l'Italia sta soltanto difendendo il proprio sistema imprenditoriale».
Brunetta prova a spiegare il motivo, alludendo a una specificità italica che farebbe dello stivale un'eccezione: «Per un paese manifatturiero come il nostro che ha una densità e intensità di imprese superiore alla media europea i costi sarebbero altissimi. Dei quattro grandi solamente l'Italia trarrebbe svantaggi. Abbiamo fatto bene a non accettare un pacchetto che costerebbe venti milioni di euro fino al 2020. Questo non ce lo possiamo permettere perché ucciderebbe le nostre imprese e le nostre famiglie». Uno strano argomento: se le imprese italiane sono le più diffuse sul territorio e dunque con un impatto ambientale superiore rispetto alla media europea, perché mai dovrebbero essere le sole a sfuggire ai vincoli europei? In teoria, poiché sono più inquinanti, dovrebbero semmai averne di più di restrizioni.
Domani in Lussemburgo ci sarà una nuova tornata di colloqui per provare a uscire dall' impasse . Malgrado il visibile conflitto con Roma, il portavoce della Commissione Jens Mester sembra ottimista: «Ci incontreremo con i rappresentanti dell'Italia al Consiglio Ue. Per il commissario Dimas sarà un occasione di discutere sul pacchetto clima e sull'impatto economico delle sue misure. Siamo consapevoli che alcune nazioni sono preoccupate, ma ci sono ancora margini per trovare una soluzione costruttiva che porti a un'accordo complessivo entro il mese di dicembre».
Il Consiglio di domani è la prima riunione dei ministri dell'Ambiente sotto la presidenza francese e, con un Sarkozy che almeno a parole ha sempre messo del clima al centro dei suoi programmi, non sarà facile trovare un'intesa con Italia e Polonia. Sicuramente il testo finale verrà modificato; tutto però starà nei tempi del negoziato. Roma chiede 12-15 mesi mentre Bruxelles vuole concludere per la fine del 2008. Due posizioni apparentemente inconciliabili.
Non è la prima volta che gli italiani s’interrogano su propri difetti e chiusure, pur credendo d’essere un popolo per natura buono, aperto al forestiero e innocente. L’innocente spesso è attratto dal male - specie dai vizi contrari alle proprie virtù - perché certi mali li ha magari patiti, ma non vedendoli in sé non li conosce. È quel che succede oggi, con il moltiplicarsi di xenofobie e violenze. Dopo la caduta di Prodi i vizi si sono dilatati, e non solo a causa di dispositivi come le impronte digitali ai bambini rom o il reato di clandestinità, ma perché in concomitanza con quella caduta son svaniti d’un tratto un gran numero di tabù e inibizioni.
La volontà di creare classi separate per i bambini immigrati che non padroneggiano l’italiano, manifestata dalla Lega, nasce in questo clima, già torbido. Sul New York Times del 12 ottobre, Rachel Donadio osserva che la xenofobia è particolarmente forte in Italia, «trasformatasi solo di recente in Paese d’immigrazione». Ragionare sull’integrazione è difficile quando il multiculturalismo cessa di essere una possibilità diventando un fatto, e dai cieli dell’ideologia tocca atterrare sul pavimento del reale. Il razzismo è bestia strana: a volte esiste prescindendo dalle razze (l’antisemitismo senza ebrei in Est Europa o Asia), altre volte è diffuso pur essendo condiviso da pochi (il razzismo senza razzisti in America).
Tanto più importante è quello che accadrà negli Stati Uniti, il 4 novembre. Se Barack Obama dovesse vincere, molte cose cambierebbero nei Paesi europei tentati dalla chiusura allo straniero, non solo nella politica ma nel costume e nella conversazione cittadina. Per forza il ragionamento sulla mescolanza di culture incorporerebbe le scosse d’Oltreoceano.
Come nella finanza mondiale, anche queste scosse hanno le caratteristiche della tempesta perfetta, del perfect storm raccontato dallo scrittore Sebastian Junger. Così son chiamate le tempeste i cui effetti sono massimizzati dal concorrere imprevisto di circostanze diverse, che mutano non solo l’agire ma il pensare. Analoga tempesta potrebbe scompaginare le nostre società, qualora Obama vincesse.
Sono decenni che intellettuali e politici s’ingegnano a denunciare il politicamente corretto, che negli Anni 70 impedì di analizzare seriamente le differenze fra culture o generi, e addirittura negò tali differenze. Questa idealizzazione produsse un’ideologia contraria non meno astratta, fautrice del politicamente scorretto, che senza speciali patemi condona la xenofobia. Anche nel rapporto col diverso, come nella finanza, i paradigmi dominanti sono inciampati sulla realtà, fallendo.
Naturalmente il razzismo - come il fascismo - non è lo stesso di ieri. Mutano le parole, gli atti. Ma se un politico consapevole come Fini comincia ad allarmarsi, c’è da stare attenti. Il fondatore di An conosce bene il lato buio dell’innocenza italiana. Se dice, come giovedì alla sinagoga romana, che «razzismo e xenofobia sono una sorta di mostro che può risorgere in forme e modalità diverse»; se aggiunge che «in Italia ci sono troppe, troppe dimostrazioni di ignoranza, paura, avversione», e che questi fenomeni, «se non affrontati nei modi dovuti, possono diventare razzismo», vuol dire che qualcosa di marcio c’è.
Meglio chiamarlo xenofobia, perché il razzismo si concentra sulla natura genetica del diverso. Ma all’origine è sempre la diversità che incollerisce, e nascondersi dietro distinguo linguistici non aiuta. Perfino la religione può divenire un diversivo: il giornalista Nicholas Kristof sostiene che le voci su Obama musulmano sono in realtà surrogati della calunnia razziale (New York Times, 21 settembre). Non sarà razzismo quello che abbiamo davanti, ma di certo è il sentimento che l’antropologo Claude Lévi-Strauss descrisse nel ’52 e nel ’71 (Razza e Storia. Razza e cultura, Einaudi 2002): è paura dell’ibrido culturale. Questo sentimento, unito a ingredienti come l’ignoranza citata da Fini e alla diseguaglianza mondiale che accentua le migrazioni di popoli, sfocia in razzismi moderni spesso sottovalutati anche dai liberali.
Proprio perché sta trasformandosi, l’Italia deve fabbricarsi con urgenza un pensiero e una politica lungimiranti sulla società multiculturale. Isolare dalle classi i bambini stranieri, schedare i rom: sono mosse emotive non solo pericolose ma sterili, come la storia di molti Paesi europei insegna. Lo ricorda il linguista Tullio De Mauro: «Più le classi sono eterogenee, migliori sono i risultati degli alunni. Dei più bravi e dei peggiori» (Corriere della Sera, 17 ottobre). Chi lascia passare simili idee accetta che l’integrazione avvenga in tali modi: sbrigativi, brutali, e infruttuosi. Lévi-Strauss descrive le trappole di un’integrazione che accorpa il diverso odiando la varietà: «è in pericolo la civiltà», la sua capacità di preservarsi mutando. Il progresso avviene solo «quando si creano coalizioni di culture»: solo in tal caso, scrive, non si ha storia stazionaria, solitaria, ma storia cumulativa come nel Rinascimento o nel Neolitico. L’avversione al meticciato espressa da Marcello Pera, il 21 agosto 2005, fu un contributo non minore alla tempesta odierna: sinonimo di bastardo, il meticcio era sospettato di aprire le porte «all’immigrazione incontrollata», al declino demografico, «e così via, di allarme in allarme».
Il discorso sulla razza che Obama ha tenuto a Filadelfia il 18 marzo è decisivo anche per l’Italia che sta divenendo melting pot, crogiolo dove varie culture formano la nazione. L’editore Rizzoli ha avuto l’ottima idea di pubblicarlo, con una prefazione di Giancarlo Bosetti (Sulla razza, 2008). Conviene leggerlo, perché aiuterà a capire meglio presente e futuro. Ci si renderà conto che molto resta da fare, per eliminare non solo i pregiudizi dei bianchi ma anche dei neri. Ambedue sono chiamati a una rivoluzione mentale, da Obama. I bianchi devono scoprire che esiste ormai un razzismo senza razzisti, come spiegato da importanti sociologi (Eduardo Bonilla-Silva, Racism without Racists, 2003; Michael Brown, Whitewashing Race, 2005). Ma anche le minoranze nere, accecate da pregiudizi, devono trasformarsi.
Il fatto è che dal dopoguerra esiste una sorta di consenso progressista, a proposito delle minoranze, modellato sulla storia israeliana e sull’idea che ogni minoranza oppressa o discriminata, cominciando dai neri americani, ha da compiere un Esodo dalla schiavitù. L’Esodo è il nuovo mito planetario, e in genere si combina con il rigetto dell’assimilazione avvenuto nell’ebraismo europeo. Ambedue - mito e rigetto - vanno oggi rimeditati: la frammentazione identitaria non può divenire il modello d’ogni minoranza, pena l’impossibilità di quella coalizione delle culture cui accenna Lévi-Strauss quando invoca una storia cumulativa, non statica. L’assimilazione va rinominata, ma da essa occorrerà ripartire.
È come se Obama avesse appreso da Lévi-Strauss le insidie delle solitudini storiche che fossilizzano. Quando dice che l’Unione creata dai fondatori americani non è compiuta ma da compiere, quando ricorda al reverendo Wright della Chiesa Nera che «la società non ha nulla di statico» ma può cambiare, migliorare, smaschera gli stereotipi bianchi e anche la fuga dei neri nell’identità chiusa e nella disperazione. L’audacia della speranza è possibile perché le società vive non sono immobili. Vale anche per l’Italia.
L’uomo xenofobo ha le passioni tristi descritte da Spinoza: risentimento, paura che svuota il futuro, incapacità di sperare e perfino desiderare. Acchiappa salvagenti con gesti di naufrago, pensando che la vita sia un gioco a somma zero, in cui guadagniamo se l’altro perde. Una vittoria di Obama farebbe bene non solo all’America, e non perché sia un candidato nero o di sinistra. Perché confuterebbe la storia stazionaria in cui ogni civiltà stagna e perisce.
Una bella giornata. Ieri Roma ha accolto con un acquazzone dispettoso qualche centinaia di migliaia di giovani, aspiranti precari - gli studenti - precari in essere, lavoratori dei servizi. Una nutrita rappresentanza di milioni di italiani e italiane a cui è negato un futuro e a cui si vuol negare anche il diritto di scioperare e protestare contro l'odiosa condizione imposta da un liberismo straccione e stracciato, mentre ai loro fratelli minori si vuol negare persino il diritto alla conoscenza. Erano tantissimi, sono riusciti a cambiare il clima, almeno quello atmosferico, facendo tornare il sole.
Che qualche generazione di giovani e giovanissimi reagisca agli attacchi del governo tornando in piazza e non rifugiandosi in casa, è una bella notizia. Va dato il merito ai protagonisti delle mobilitazioni che da settimane scuotono un paese afono, schiacciato tra un decisionismo autoritario e populista e un assenteismo di minoranza colpevole, ora lamentoso ora complice. Va reso onore anche a quelle forze sindacali di base che, un po' responsabili un po' supplenti, hanno dato luoghi e voce al disagio diffuso in una società largamente berlusconizzata, con una sua parte sconfitta culturalmente ma non ancora pacificata.
Si può essere d'accordo con i Cobas e le rappresentanze di base, si può criticare il loro modo d'essere politico e sindacale, ma di sicuro bisogna rapportarsi a esse con rispetto e, da parte di quella forma particolare della politica che è l'informazione, con curiosità. Nel nostro piccolo, è quel che proviamo a fare. Nel farlo non possiamo non interrogarci sul fatto che intere fette del nostro piccolo mondo vivano, soffrano e lottino, se non nella solitudine, senza una rappresentanza politica e sociale. È normale, e positivo, che studenti, precari e una parte dei lavoratori dei servizi siano scesi in piazza con chi ha scelto di ascoltarli e dare loro voce. Che avrebbero dovuto fare, studenti, maestre, professori, ricercatori, non docenti, stare calmi in attesa che Cgil, Cisl e Uil decidano la data dello sciopero generale del settore? E i precari, che la loro condizione divenga centrale nell'agenda del Partito democratico?
Le centinaia di migliaia di persone in piazza a Roma e in tante altre città possono essere un'occasione, per la sinistra e per le forze non berlusconizzate. Rappresentano, scuola in testa, la più forte opposizione sociale alla politica del governo. Lo sa la Cgil, ma la sua pratica è troppo distante dalle condizioni materiali di chi non sa se domani vedrà rinnovato il suo contratto, o se qualcuno lo prenderà in affitto per un lavoro che ben poco ha a che fare con il suo diploma. Chi ha una laurea, poi, ha già fatto le valige per passare le Alpi. Non perché minacciato dalla camorra ma perché espulso dalla politica. I precari possono diventare, in parte già sono, un esercito del lavoro di riserva. Come i migranti. Non dovrebbe essere la Cgil per prima a porsi il problema della riunificazione delle forze di lavoro e non lavoro, prima che la rimossa lotta di classe si trasformi in lotta nella classe?