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Ci sono anche sindaci felici. «Il Grand Hotel Marmolada wellness sarà costruito qui, dove c’è il grande parcheggio per la funivia. Gli chalet saranno poco lontano, sulla strada verso la centrale idroelettrica. Ma saranno fatti bene, sembreranno i fienili di una volta». Il sindaco contento è Maurizio De Cassan, 53 anni, albergatore a Malga Ciapela e primo cittadino di Rocca Pietore. «Gli hotel, e anche le seconde case, continuano a pagare l’Ici. Così avremo i soldi per il bilancio comunale».

«È uno scempio ambientale, e non solo» dice Fausto De Stefani, presidente dell´associazione ecologista Mountain Wilderness. «La vita sulle Alpi si difende costruendo un equilibrio fra le comunità. Qui invece arriva una massa di cemento, imposta da interessi imprenditoriali, che rompe ogni equilibrio. L’identità e la storia di Rocca Pietore vengono cancellate. Gli artigiani e i piccoli imprenditori di questa conca avranno purtroppo un solo futuro: andare a fare i camerieri al Grand Hotel».

L’insulto alla Regina delle Dolomiti dura ormai da troppi anni. Strade scavate nel ghiacciaio per costruire i nuovi impianti della funivia, crepacci usati come discariche, silenzio spezzato dagli elicotteri che portano in vetta gli appassionati di eliski. Non si scompone, il sindaco albergatore Maurizio De Cassan. Resiste anche alle critiche dei suoi colleghi della Federalberghi, che hanno definito il progetto «una svendita del territorio, un’eresia, perché non può esistere turismo senza bellezza». «Quelli lì - dice - parlano senza conoscere bene le cose. Qui alberghi a 4 o 5 stelle non ne abbiamo e certi clienti non vengono nei nostri tre stelle. E poi piscine e centro benessere saranno aperti anche ai clienti degli altri hotel che faranno le convenzioni».

Tutto iniziò nel 2005, quando in consiglio comunale venne approvata la cosiddetta «variante Vascellari», pochi giorni prima che la Regione Veneto bloccasse le modifiche ai Prg. Mario Vascellari è presidente della società Tofana Marmolada proprietaria della funivia che porta in cima alla regina delle Dolomiti (ristrutturata nel 2005 con 15,5 milioni di euro, 6 dei quali dati dalla Regione Veneto a fondo perduto). Valentino Vascellari, fratello di Mario, è il presidente dell´Associazione industriali di Belluno (e socio nella società della funivia) che l´altro giorno ha presentato il progetto di Malga Ciapela assieme ad un altro hotel da 180 camere a Sappada. «I fratelli Vascellari - dice il sindaco Maurizio De Cassan - sono anche i soci principali della società che vuole costruire il Grand Hotel resort. Del resto, la variante del 2005, quella che abbiamo approvato in consiglio, l’avevano preparata, e pagata, proprio loro. Così ho risparmiato i soldi della comunità».

Contro il «mostro della Marmolada» si alzarono subito polemiche. «Nonostante le proteste il progetto è rimasto quello iniziale. Il corpo centrale sarà alto 12 metri e mezzo, più qualche torre». Già oggi gli appartamenti non mancano, a Rocca Pietore e frazioni. Secondo il censimento del 2001 per 1.451 abitanti (e 650 famiglie) ci sono 1.887 abitazioni. «Penso che in 5 anni - dice il sindaco - il resort sarà realizzato. Credo che costerà 50 milioni».

Walter De Cassan, presidente della Federalberghi di Belluno, è infuriato con il quasi omonimo sindaco di Rocca Pietore e con chi, come lui, «butta via il territorio». «Il Grand Hotel di Malga Ciapela è una follia. Nel bellunese i letti degli alberghi sono occupati solo per il 40%. Il problema è fare conoscere le nostre Dolomiti, altro che costruire nuovi hotel portando tonnellate di cemento sulla Marmolada».

Per capire la differenza fra un hotel a gestione familiare e l’albergo gestito da una catena nazionale o internazionale, basta entrare all’hotel Principe Marmolada, a Malga Ciapela, che fa parte della Emmegi hotel srl con sede a Milano. Con sette gradi sottozero nel menù del pranzo si offrono riso all’inglese e prosciutto e melone. Nessuna traccia di zuppe o polenta. Acquisti e menù sono decisi a livello nazionale, e la tavola del ristorante davanti alla Marmolada è uguale a quella di un self service milanese. «Il grande complesso alberghiero - dice Luigi Casanova, vice presidente di Cipra, la Commissione internazionale per la protezione delle Alpi - è invadente, cancella l´identità della popolazione locale, frantuma le filiere corte dell’economia che ancora oggi resistono. Cancella l’artigianato, i piccoli albergatori, gli affittacamere».

La battaglia di Mountain Wilderness per difendere «l’ultimo vero ghiacciaio delle Dolomiti» è iniziata nel 1988. «In quell’estate - ricorda Fausto De Stefani - raccogliemmo centinaia di sacchi di immondizie sotto la parete sud. Ci calammo nei crepacci per raccogliere funi, plastiche, prodotti chimici, rifiuti di ogni tipo scaricati dalla società della funivia assieme a oli esausti e carburanti».

Per questo inquinamento la società funivie Tofana Marmolada è stata multata di 100.000 euro, da pagare alla Provincia di Belluno come risarcimento per danni ambientali. Il 4 febbraio 2008, a Cavalese, tre rappresentanti della stessa società sono stati condannati a 8 mesi di reclusione (indultati) per avere costruito senza autorizzazioni una strada di accesso al cantiere della funivia, nel cuore del ghiacciaio. Fra i condannati anche il presidente della società, Mario Vascellari, che assieme al fratello Valentino (il presidente degli industriali bellunesi) ora ha il permesso di costruire il mega resort di Malga Ciapela. Valentino Vascellari non ha certo risparmiato elogi al progetto. «Il turismo bellunese - ha detto - uscirà dall’età della pietra».

Ed entrerà nell’età del cemento ad alta quota. Colato fra i cristalli di ghiaccio della Marmolada.

Nel discorso di Capodanno il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha proposto di fare della crisi un’occasione "per impegnarci a ridurre sempre più le acute disparità che si manifestano nei redditi e nelle condizioni di vita". Supponiamo per un momento che il governo o l’opposizione prendano sul serio le sue parole. Caso mai lo facessero, dovrebbero elaborare una politica rivolta a ridurre in modo stabile le disparità, ovvero le disuguaglianze socio-economiche osservabili nel nostro paese. Il percorso da seguire a tale scopo comprenderebbe diverse tappe. Vediamo quali sarebbero le principali.

Anzitutto, parlando dell’Italia, è poi vero che da noi le disuguaglianze sono maggiori che in altri paesi? Ammesso che lo siano, perché mai il potere politico dovrebbe preoccuparsene? Una risposta alla prima domanda l’ha fornita l’Ocse con un rapporto pubblicato un paio di mesi fa. Sui trenta paesi aderenti all’Ocse, soltanto 5 presentano indici di disuguaglianza superiori all’Italia, mentre ben 24 presentano indici inferiori. D’altra parte i ricercatori della Banca d’Italia forniscono da anni dati analoghi. In Italia il 20 per cento della popolazione più povera percepisce meno del 7 per cento del reddito totale; il 20 per cento più ricco riceve più del 41 per cento. Se si guarda al patrimonio, le disuguaglianze sono anche più grandi: il 10 per cento formato dalle famiglie più ricche detiene la metà della ricchezza reale e finanziaria, mentre la metà formata da quelle più povere possiede appena il 10 per cento della ricchezza totale. Soltanto gli Usa, il Brasile e pochissimi altri paesi mostrano disuguaglianze altrettanto piramidali.

La politica, sostiene la destra, non dovrebbe occuparsi delle disuguaglianze socio-economiche. Perché in fondo, essa dice, sono giuste. Coloro che stanno in alto lo debbono nell’insieme a un impegno nello studio e sul lavoro superiore a quello di coloro che stanno in basso. Se lo Stato interviene in tale processo, sminuisce il riconoscimento dovuto ai primi e compensa i secondi che non se lo meritano. Sostenendo questo la destra commette due errori. Il primo fattuale, perché la spiegazione vale per casi individuali, ma per un fenomeno collettivo come le disuguaglianze socio-economiche non c’è evidenza disponibile che la confermi. Il secondo errore è politico.

Chi si trova nella parte bassa della distribuzione del reddito e della ricchezza ha in media una vita più corta di qualche anno; svolge un lavoro più faticoso; si nutre come può; tende ad ammalarsi più spesso; stenta a mandare i figli all’asilo da piccoli come alle superiori o all’università da grandi; spreca in media un paio d’ore al giorno a fare il pendolare; a suo tempo, avrà una pensione da fame. Soprattutto, chi si trova nelle predette condizioni non conta niente nelle decisioni che vengono assunte dal potere politico giusto in tema di organizzazione del lavoro, salari, sanità, prezzi, costo e disponibilità di asili, scuola, trasporti pubblici, pensioni. Ora, finché si tratta d’una parte modesta della popolazione, un problema politico non si pone per chi sta in cima alla piramide: quelli che stanno alla base sono semplicemente invisibili. Quando invece capita che la base diventi maggioranza, o si affronta la questione delle disuguaglianze sul piano politico, oppure esse corrompono in profondità le strutture della società che le ha tollerate fino a quel punto. Che è il limite al quale l’Italia pare si stia approssimando.

Superata la tappa dell’accertamento dei dati, una politica volta a ridurre le disuguaglianze dovrebbe interrogarsi sulle loro numerose cause. Basta scegliere quelle su cui concentrarsi. La produttività delle imprese italiane, che dovrebbe essere fatta anzitutto di ricerca e sviluppo, prodotti innovativi, organizzazione del lavoro ad elevato contenuto professionale, nonché mezzi di produzione idonei a migliorare la qualità di prodotti e servizi e non soltanto a risparmiare lavoro, ristagna da circa un decennio. Le imprese piccole pagano salari molto più bassi in media che non quelle grandi, e l’Italia ha un numero spropositato di esse. Alle politiche attive e passive del lavoro, intese a facilitare un rapido ritorno al lavoro di chi lo ha perso, l’Italia destina poco più dello 0,5 per cento del Pil; Germania, Francia e Spagna, quasi cinque volte tanto. Infine la finanziarizzazione delle imprese ha dirottato masse di capitali che potevano andare agli investimenti verso impieghi improduttivi, come il riacquisto di azioni proprie e i compensi astronomici ai manager sotto forma di stock option, bonus, paracadute e pensioni d’oro in aggiunta allo stipendio.

In compenso è cresciuto il numero dei miliardari in dollari facenti parte del decimo al top delle persone più ricche del mondo. Quelli italiani formano ora il 7 per cento di tale decimo, appena un punto meno della Germania che ha una popolazione molto più grande, e tra 1 e 3 punti in più rispetto a Regno Unito, Francia e Spagna.

Allo scopo di elaborare una politica diretta a ridurre stabilmente le disparità di reddito, come richiesto dal Capo dello Stato, occorre coraggio e consenso sociale. Il primo, è noto, se uno non ce l’ha non se lo può dare. Quanto al consenso, il governo in carica pensa evidentemente di averlo trovato distribuendo qualche euro una tantum ai poverissimi e ad una frazione minima dei precari. L’opposizione farebbe invece bene a pensare di accrescere il proprio prendendo sul serio l’invito di Napolitano. Tenendo conto che in assenza d’una simile politica l’emergenza salariale di cui scrive l’Oil, con le sue componenti finanziarie, potrebbe notevolmente peggiorare nel corso del 2009.

Spero che i vasti e spinosi problemi dell'Occidente non vi distraggano dai veri drammi della civiltà evoluta e del capitalismo maturo come, per esempio, quello dei mendicanti orizzontali. La città di Firenze, salotto sopraffino, se ne è accorta e passa al contrattacco, ha funzionato per i lavavetri, funzionerà anche per i mendicanti, e la civiltà sarà salva, insieme alle sorti luminose e progressive del «si può fare».

Il problema, naturalmente non è il pietoso gesto di chiedere la carità, ma il fatto di farlo da seduti, sdraiati, orizzontali, e insomma, nello sconveniente modo di diventare un problema alla circolazione. In poche parole un mendicante di Firenze, se decide di non stare in piedi, diventa un intralcio al traffico. Non c'è solo l'insolazione a dare alla testa, ma anche le elezioni. Comunque sia, dice l'assessore Cioni, è urgente «contrastare chi chiede l'elemosina intralciando i pedoni».

Una signora non vedente è inciampata in un mendicante, e lo spiacevole incidente prelude dunque alla cacciata dei mendicanti da Firenze, una cosa che somiglia molto al colpirne cento per educarne uno (quando si dice: più realisti del re). Ma sia: se c'è una cosa che non scarseggia sono i capri espiatori, esauriti i lavavetri (venti temibili eversori armati di spugne che tenevano in pugno la città di Dante), si passa ai mendicanti.

La stagione elettorale aiuta: chissà di quali mirabolanti sondaggi sono in possesso l'assessore Graziano Cioni e il sindaco Leonardo Domenici. Forse c'è qualche studio avanzato, qualche grafico di flussi elettorali che dice che cacciare i poveri rende popolare la sinistra, o quel che ne rimane. Del resto che Cioni e Dominici siano sinistra dura e pura lo sanno tutti. Il primo, ai tempi dei lavavetri attaccò il presidente della camera che criticava il pogrom dicendo: «Questi palazzi allontanano gli eletti dal popolo, dalla gente». E parlava di Bertinotti, mentre lui, il prode Cioni, allontanava quattro straccioni. E quanto al sindaco Domenici, pur di cacciare una ventina di povericristi citava nientemeno che Lenin: «In fondo si tratta di un'ordinanza leninista. Lenin diceva: il problema è l'analisi concreta di una situazione concreta». Testuali parole. Era estate, faceva caldo, sentire un esponente dei Ds, oggi Pd, citare Lenin dava il brivido di una granita alla menta. Usare Lenin come un corpo contundente contro il lumpenproletariat semaforico, nomade e accatone sembrava assurdo, e invece era solo una astuta preparazione dell'oggi.

Come diceva il fortunato slogan di un vecchio congresso pidiessino (1997), «Il futuro entra in noi molto prima che accada». Ecco è accaduto, il futuro sta entrando, dolorosamente simile all'ombrello di Altan. Ora è primavera. Il sindaco è sempre quello, l'assessore è sempre quello, in mancanza di lavavetri, sotto coi mendicanti. Ancora una volta Firenze è all'avanguardia, traccia il solco e poi lo difende, ma soprattutto ci dice chiaro e tondo dove stiamo andando. E che, purtroppo, si può fare.

mercoledì 19 novembre

Castello, accuse di corruzione

agli assessori Cioni e Biagi

Salvatore Ligresti non ha ancora posato un mattone, ma sull´area di Castello destinata ad accogliere un nuovo vasto quartiere di Firenze già aleggia l´ombra della corruzione. Il costruttore di origine siciliana, presidente onorario di Fondiaria Sai, proprietaria dei terreni di Castello, è indagato insieme con il suo braccio destro Fausto Rapisarda, con gli assessori comunali Graziano Cioni (sicurezza sociale) e Gianni Biagi (urbanistica), con due architetti progettisti e con il dirigente di Europrogetti (società del gruppo Fondiaria Sai). Per tutti l´ipotesi di reato formulata dai pubblici ministeri Giuseppina Mione, Giulio Monferini e Gianni Tei è il concorso in corruzione. I carabinieri del Ros hanno perquisito le abitazioni e gli uffici degli indagati e le sedi di Fondiaria Sai, del Consorzio Castello (la società del gruppo che si occupa della operazione immobiliare sulla piana) e di Europrogetti.

La tesi della procura è che il gruppo Fondiaria Sai guidato dal 2001 da Salvatore Ligresti abbia instaurato un «rapporto corruttivo» con i due assessori fiorentini. Un rapporto «connotato di promesse e dazioni» da parte dell´impresa e da «atti contrari ai doveri d´ufficio» da parte dei pubblici amministratori. L´obiettivo, per il gruppo Ligresti, sarebbe quello di ottenere l´avallo e l´esito positivo delle proprie iniziative economiche e imprenditoriali finalizzate, fra l´altro, alla massima valorizzazione dell´investimento immobiliare nell´area di Castello.

Nel caso dell´assessore all´urbanistica Gianni Biagi, gli inquirenti ipotizzano che egli abbia adottato «iniziative e provvedimenti in contrasto con gli interessi pubblici» del Comune di Firenze, in cambio della «promessa... di utilità economiche e non economiche, per sé e per altri, ovvero da conseguirsi da lui direttamente o indirettamente». Fondiaria Sai, fra l´altro, gli avrebbe chiesto indicazioni sui nomi di professionisti cui affidare incarichi di progettazione nell´area di Castello.

Quanto all´assessore Graziano Cioni, i magistrati gli contestano di aver instaurato con Fausto Rapisarda, indicato come «alter ego» di Salvatore Ligresti, «un rapporto corruttivo a carattere continuativo» e di aver garantito al gruppo imprenditoriale il suo costante appoggio politico e amministrativo, quanto meno negli ultimi cinque anni. I magistrati ritengono che l´assessore avrebbe dovuto astenersi dall´approvare la convenzione urbanistica stipulata il 18 aprile 2005 fra il Comune di Firenze e il Consorzio Castello (Gruppo Ligresti), che aveva ad oggetto lo sfruttamento edilizio dell´area di Castello. Avrebbe dovuto astenersi - secondo la procura - perché suo figlio è dipendente di Fondiaria dal 2002. Al contrario, secondo gli inquirenti, l´assessore non solo ha approvato la convenzione ma ha anche ricevuto concreti vantaggi dal gruppo Ligresti. Tramite Fausto Rapisarda ha ottenuto - sostiene l´accusa - la possibilità per una sua conoscente di prendere in affitto un appartamento in viale Matteotti di proprietà di Fondiaria. Gli contestano inoltre una gratifica in favore del figlio dipendente della compagnia di assicurazioni e un contributo di 30.000 euro corrisposto da Fondiaria Sai per finanziare la consegna a domicilio a tutti i fiorentini del regolamento di polizia municipale introdotto da una lettera di presentazione dello stesso assessore.

Oltre che per corruzione, Graziano Cioni è sotto inchiesta anche per violenza privata aggravata in una vicenda che si intreccia, secondo gli inquirenti, con la sua partecipazione alle primarie del Pd per la scelta del candidato sindaco di Firenze. Si tratta in questo caso di fatti recentissimi, risalenti al mese scorso, peraltro smentiti da tutti i protagonisti. Secondo le ipotesi di accusa, l´assessore avrebbe costretto a suon di minacce l´imprenditore Marco Bassilichi a rimuovere la sua dipendente Sonia Innocenti dall´incarico di rappresentante dell´impresa Bassilichi con le pubbliche amministrazioni. Ciò perché - affermano gli inquirenti - Sonia Innocenti intendeva appoggiare nelle primarie un altro candidato. La signora risulta infatti fra i firmatari che hanno sostenuto la candidatura dell´europarlamentare Lapo Pistelli. Secondo le accuse, dopo aver saputo che Sonia non l´avrebbe appoggiato e dopo avere ricevuto la conferma dalla stessa interessata nel corso di una burrascosa telefonata, Cioni si arrabbiò di brutto e fece una sfuriata con Bassilichi, dicendogli che non avrebbe mai più fatto entrare la signora Innocenti nel suo ufficio e che avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per farle chiudere in faccia ogni altra porta. La procura ritiene che in tal modo l´assessore abbia messo Bassilichi con le spalle al muro, prospettandogli guai per la sua attività imprenditoriale se non avesse sostituito l´impiegata. Tanto più che - secondo le accuse - la minaccia sarebbe stata ribadita a Bassilichi tramite il presidente della Provincia di Firenze Matteo Renzi, altro candidato alle primarie in concorrenza con Cioni, con Pistelli e con l´assessore Daniela Lastri. Una brutta faccenda all´ombra della corsa alle elezioni del nuovo sindaco. Urla, sfuriate, accordi trasversali, minacce. Che tutti, però, smentiscono.

mercoledì 19 novembre

Domenici ai magistrati

"Fate presto l´inchiesta"

All´origine dell´inchiesta c´è la convenzione stipulata il 18 aprile 2005 tra il Consorzio Castello e il Comune di Firenze per l´utilizzo dell´area di proprietà dei Ligresti estesa 168 ettari. Con la convenzione la proprietà cedette gratuitamente al Comune 101 ettari (di cui 80 per un parco pubblico) avviando la fase realizzativa dell´intervento del quale a Firenze si parla dal 1983, quando il progetto insisteva su un´area ancora più grande, quella di ´Fiat-Fondiaria´. Nel 1989 fu una famosa telefonata di Achille Occhetto, allora segretario del Pci, a bloccare il via libera che la giunta guidata da Massimo Bogianckino (Psi) si apprestava a dare al progetto presentato in pompa magna pochi giorni prima in Palazzo Vecchio. Il progetto prevede la realizzazione di uffici pubblici e privati (fra i quali le sedi della Regione, della Provincia e un nuovo polo scolastico). Sono poi previste abitazioni, negozi, la scuola carabinieri, due alberghi, strade, piazze, scuole, impianti sportivi. Il completamento era previsto nel 2014. Due mesi fa Diego e Andrea Della Valle hanno presentato un progetto per il nuovo stadio di Firenze e il Comune ha già votato un emendamento al Piano strutturale che prevede la possibilità di realizzare un nuovo impianto in quella zona.

«Mi auguro, nel ribadire piena fiducia nell´autonomo operare della magistratura, che l´inchiesta possa essere chiusa presto anche tenendo conto del delicato momento politico-istituzionale che la città si sta accingendo a vivere, in vista delle prossime elezioni amministrative» ha detto intanto il sindaco Leonardo Domenici. «La situazione non fa venire meno la mia fiducia nei confronti di Gianni Biagi e Graziano Cioni, di cui conosco e apprezzo, oltre alla capacità amministrativa, anche le qualità umane e il cui apporto alla lunga azione di governo di questi anni è stato particolarmente importante».

giovedì 20 novembre

Ecco perché la procura crede

che Ligresti sia stato favorito

Domanda: «Qual è stata la fiammella che ha dato il via all´inchiesta?». Risposta di uno degli inquirenti: «La fiammella è un incendio». Dal che si dovrebbe dedurre che l´inchiesta per corruzione sul progetto di urbanizzazione dell´area di Castello di proprietà Fondiaria Sai è fondata su elementi più vasti e più gravi di quelli abbozzati nelle informazioni di garanzia che hanno colpito il costruttore Salvatore Ligresti, presidente onorario di Fondiaria Sai, il suo braccio destro Fausto Rapisarda, il suo collaboratore Gualtiero Giombini di Europrogetti, gli assessori fiorentini Gianni Biagi (urbanistica) e Graziano Cioni (sicurezza sociale), nonché l´architetto Marco Casamonti (Archea) e il professor Vittorio Savi, docente di storia dell´architettura, consulenti di Fondiaria Sai per il piano di Castello su indicazione (sostiene l´accusa) dell´assessore Biagi. I difensori si apprestano a ricorrere al tribunale del riesame anche per poter conoscere qualcosa di più delle carte in mano ai magistrati.

Ieri Palazzo Vecchio ha ribadito che non sono sotto accusa gli atti amministrativi sui terreni di Castello. E l´assessore Graziano Cioni, indagato per aver instaurato «un rapporto corruttivo di carattere continuativo» con Fausto Rapisarda del Gruppo Ligresti, ha ricordato che era assente il 14 dicembre 2004, quando la giunta approvò la convenzione attuativa del piano urbanistico esecutivo di Castello, poi approvata in consiglio comunale il 17 gennaio 2005 e stipulata il 18 aprile successivo.

Da quella convenzione, in ogni caso, occorre partire per comprendere l´ipotesi della procura secondo cui il Gruppo Ligresti sarebbe stato favorito. L´area ha una superficie di 168 ettari a ridosso dell´aeroporto di Peretola. L´accordo prevedeva che Fondiaria cedesse a titolo gratuito al Comune 130 ettari, di cui 80 destinati a parco urbano, il resto alla Scuola Marescialli dei Carabinieri, a strade, giardini, scuole, piazze. Sui restanti 38 ettari Fondiaria poteva realizzare circa 1500 appartamenti, oltre ad alberghi e a insediamenti commerciali e alla nuova sede della Regione. Allegati alla convenzione uno studio di impatto ambientale in forma semplificata, una valutazione previsionale di clima acustico e uno studio di accessibilità, infrastrutture e traffico.

Dopo la stipula dell´accordo accade però che la parte pubblica accresce i suoi progetti su Castello. Oltre alla Regione si pensa alla nuova sede della Provincia e a un complesso scolastico. Nascono seri problemi perché la convenzione prevede la facoltà per il Gruppo Ligresti di realizzare con le proprie imprese le edificazioni di interesse pubblico, mentre per legge Regione e Provincia non possono non bandire un appalto. La trattativa si conclude con la decisione che la parte pubblica acquisterà i terreni «a prezzo di mercato» (invece di riceverli a titolo gratuito).

A quel punto l´iter di trasformazione dell´area sembra acquistare una doppia velocità. In agosto il Consorzio Castello del Gruppo Ligresti ottiene le concessioni edilizie per costruire i fabbricati per «funzioni private», mentre è ancora in discussione la ulteriore variante sugli insediamenti pubblici, per la quale manca la valutazione di impatto ambientale. Quanto al parco urbano, la convenzione lo definisce «elemento essenziale per assicurare qualità urbana all´intero complesso» e stabilisce che le aree destinate ad accoglierlo siano cedute a titolo gratuito al Comune «sotto la condizione risolutiva che non ne venga modificata la destinazione urbanistica a parco urbano». In base alla convenzione, il parco deve essere realizzato da Fondiaria a scomputo degli oneri di urbanizzazione. Il progetto è di Christophe Girot, ritenuto «il miglior paesaggista del mondo». Ma nessuna concessione è stata finora rilasciata per la sua realizzazione. E la sua sorte è in bilico dopo che Diego Della Valle ha lanciato l´idea (corredata dal progetto firmato Massimiliano Fuksas) di un nuovo stadio e della cittadella dello sport, e il Comune ha inserito, nella bozza di piano strutturale, la previsione del nuovo stadio a Castello. Si presume a spese del parco, che verrebbe drasticamente ridimensionato, con l´ulteriore problema che i terreni non verrebbero più ceduti a titolo gratuito. Ma il sindaco Leonardo Domenici non sembra contrario, visto che ha espresso i suoi dubbi su quegli 80 ettari di verde che, secondo lui, potrebbero divenire «un ricettacolo dell´area metropolitana».

Postilla

Lo scandalo di quella che era la splendida Piana di Sesto, tra Firenze e Prato, era cominciato molto prima. A chi vuole conoscere la storia antica di quel lembo di territorio suggeriamo il bel libro di Daniela Poli (La piana fiorentina. Una biografia territoriale narrata dalle colline di Castello, Alinea editrice, 1999, prefazione di Alberto Magnaghi). La radice dello scandalo e il tentativo compiuto dal segretario nazionale del PCI Achille Occhetto per troncarla la trovate in un capitolo del libro di P. Della Seta ed E. Salzano (L’Italia a sacco. Come nei terribili anni 80 è nata e si è diffusa Tangentopoli , Editori riuniti, 1993). Una ricca storia degli eventi che si sono sviluppati fino a oggi la trovate nell'articolo di Paolo Baldeschi.

Se poi volete vedere che pattumiera è fiventata la Piana, date un’occhiata all'area su Google map o Google earth; e non è finita!

L'immagine si riferisce alla Piana di Sesto, qualche anno fa, ed è tratta da una pubblicazione del Comune di Sesto fiorentino

Il clamore mediatico che ha suscitato l'ordinanza del Comune di Firenze contro i lavavetri ha varie cause. Una è certamente culturale: la «città sul monte», che nel secolo scorso ha animato e nutrito, nell'intero paese e a livello internazionale, la cultura della solidarietà, dell'accoglienza, della pace nella giustizia, grida la propria sconfitta di fronte al montare dell'insicurezza e della paura e si piega fino a diventare apripista e capofila di una politica repressiva e intollerante che suscita ammirazione e bisogno di emulazione nelle stesse amministrazioni più chiuse.

Non potendo aggredire le vere cause dell'insicurezza ci si affida al collaudato meccanismo del capro espiatorio: risorsa potente dell'impotenza politica.

Con questo non voglio dire che l'immigrazione oltre che una risorsa non sia anche un problema. I lavavetri infastidiscono, è vero. Ma nessuna persona razionale e sufficientemente informata può ritenere che davvero la strategia repressiva risolva qualcuno dei problemi sollevati dall'immigrazione. Erigere muraglie nel tempo della globalizzazione totale è come recitar giaculatorie per fermare la pioggia.

In conseguenza dell'appesantimento del controllo repressivo avremo solo una intensificazione del dominio della illegalità e della delinquenza sull'immigrazione. Non è questo che vogliono le strategie repressive, ma questo è lo sbocco inevitabile. Ed è proprio ciò a cui puntano le forze politiche ed economiche irresponsabili che da un lato cavalcano il disagio, la paura e le angosce della gente, mentre dall'altro fanno affari d'oro con gli immigrati irregolari, facendoli lavorare a nero con salari irrisori, senza diritti né sicurezze, oppure utilizzandoli per manovalanza in traffici loschi.

Il problema vero, primario, non è l'immigrazione, ma la globalizzazione liberista. L'economia basata sul valore assoluto e quindi totalitario del denaro e del profitto sfrutta il divario Nord-Sud per annullare gradualmente la società dei diritti, per distruggere lo stato sociale, per portare a fondo la sconfitta della classe operaia e della sua cultura solidale. Al dominio della finanza che regola il libero mercato fa comodo un Terzo Mondo disperato. E gli immigrati servono in quanto assolutamente ricattabili, bisogna quindi che almeno in certa misura siano irregolari, braccati, disperati, impauriti, affamati, pronti a subire tutto per sopravvivere.

Siamo a uno snodo cruciale. Perché la scienza e la tecnologia stanno dando un'accellerazione incredibile e incontrollabile alla globalizzazione mondiale. Ma la cultura resta quella del neolitico. E forse a dir questo manchiamo di rispetto verso l'homo sapiens, che si costruiva armi di selce per la pura sopravvivenza e non per la rapina. La nostra è tutt'ora una cultura di egocentrismo, di contrapposizione, di rapina e in fondo di profonda violenza.

È emblematico che si ergano grandi muraglie contro la mobilità dei dannati della Terra, nel momento della massima esplosione della mobilità globale. E che tanti fiorentini plaudano all'ordinanza contro i lavavetri mentre gnomi senz'anima e senza volto continuano a occupare i crocevia col commercio illegale e mafioso e si comprano Firenze riciclando danaro sporco e spesso anche insanguinato. Ecco lo snodo cruciale. L'unificazione mondiale non può esser affidata alla cultura della superiorità dell'Occidente la cui etica è un'etica di sopraffazione, di contrapposizione e di violenza. È senza sbocchi e senza speranza.

L'associazionismo solidale che tenta giorno per giorno, faticosamente, di risolvere i problemi dell'immigrazione con esperienze concrete e positive di integrazione, che dà forma, visibilità e concretezza a un'anima della città tollerante, accogliente, critica verso le mura che il potere eleva fra «noi» e gli «altri», anche in questa occasione deve assolvere il suo compito ed esprimere la propria contrarietà verso uno strumento puramente repressivo e inefficace che rischia di bruciare un lavoro positivo di anni. La «città sul monte» non merita questo offuscamento della sua immagine internazionale e lo pagherà caro.

Che cosa persegue realmente Israele con i bombardamenti e l'invasione di Gaza? Certo non quello che dichiarano Tzipi Livni e Ehud Barak. Sono troppo intelligenti per farsi trasportare dall'antica paura che i modestissimi missili di Hamas distruggano il loro paese. Quando hanno iniziato la rappresaglia i Qassam tirati da Gaza avevano ucciso tempo fa una persona, ferito alcune, fatto danni minori su Sderot, incomparabili con i cinquecento morti, migliaia di feriti e le distruzioni inflitti da Tsahal alla Striscia in tre giorni, e che continuano a piovere. Né che siano mirati a distruggere le infrastrutture di Hamas, sapendo bene l'intrico che esse hanno con gli insediamenti civili, tanto da impedire alla stampa estera di accedere a Gaza. Né sono così disinformati da creder che si possa distruggere con le armi Hamas, votata da tutto un popolo, come se ne fosse una superfetazione districabile. Sono al contrario coscienti che l'aggressione aumenterà il peso e l'influenza sulla gente di Gaza oggi e in Cisgiordania domani, contro l'indebolito Mahmoud Abbas. Né gli sarebbe possibile ammazzarli tutti, ci sono limiti che neanche il paese più potente può varcare, ammesso che abbia il cinismo di farlo, e tanto meno all'interno del mondo musulmano che circonda Israele e nel quale, dunque con il quale, intende vivere.

Gli obiettivi sono dunque altri.

Primo, battere nelle imminenti elezioni Netanyahu, che si presenta come il vero difensore a oltranza di Israele. Già le possibilità appaiono ridotte; l'assalto a Gaza sembra sotto questo aspetto una mossa disperata. Che sia anche crudelissima è un altro conto, siamo qui per ragionare.

Secondo, usare le ultime settimane di Bush alla Casa Bianca per mettere la nuova presidenza americana davanti al fatto compiuto. Il silenzio assordante di Obama è già un risultato, quali che siano le circostanze formali che gli rendono difficile parlare su questo, mentre si esprime su altri problemi di ordine interno. Non è ancora insediato che si trova nelle mani una patata bollente, causa prima e annosa di quella caduta dell'immagine americana nel mondo che ha più volte detto di voler restaurare. Queste sono le carte che Olmert, Livni e Barak deliberatamente giocano in una prospettiva a breve.

Neanche Hamas si è mossa sulla semplice onda di un giustificato risentimento. I suoi dirigenti hanno visto benissimo in quale situazione il governo israeliano si trovava quando hanno deciso di rompere l'approssimativa tregua, sapendo anche che per modesti che siano i guasti prodotti dai Qassam nessun governo può presentarsi alle elezioni con una sua zona di confine presa di mira tutti i giorni. Anch'essi puntano a far cadere Olmert, già fuori gioco, la Livni e Barak, secondo la logica propria delle minoranze accerchiate di produrre il massimo danno perché la situazione si rovesci. Gaza è stata messa, e non da ieri, agli estremi, periscano Sansone e tutti i filistei.

Si può capire, ma è una logica reciproca a quella di Israele. Non ritenevano certo che quei modesti spari di missili l'avrebbero distrutta e convertita alla pace. E anch'essi puntano a mettere la nuova amministrazione americana davanti a un incendio che non tollera rinvii. Lo sa la Lega Araba, lo sa l'Iran. Obama ha fatto molte promesse di cambiamento, e lo sfidano a mantenerle o a discreditarsi subito.

Tanto più colpevole di questo sanguinoso sviluppo, che la gente di Gaza paga atrocemente, è l'inerzia dell'Europa. Essa, che sulla questione ebraica ha responsabilità maggiori di chiunque al mondo, nulla ha fatto per impedire che si arrivasse a questa catastrofe. Ne aveva la possibilità? Certo. Poteva mettere, a condizione ineludibile dell'alleanza atlantica e della Nato, e soprattutto quando con la caduta dell'Urss ne venivano meno le conclamate ragioni, la soluzione del nodo Israele-Palestina, sul quale gli Usa erano determinanti, per adempiere alle disposizioni dell'Onu.

Più recentemente, doveva riparare a costo di svenarsi all'assedio di Gaza, dove non ignorava che la mancanza di mezzi elementari di sussistenza, cibo, acqua, elettricità, medicinali, faceva altrettanti morti di quanti stanno facendo adesso gli aerei e i blindati di Tsahal. Ma neanche questi hanno fatto muovere altro che il presidente francese, a condizione che le sue vacanze fossero finite.

Siamo un continente che fa vergogna.

In via del Podestà 71 A, in un’area collinare che degrada verso le Due Strade, delimitata a monte da via de’ Martellini, in uno scenario che ancora oggi ricorda l’antico contado fiorentino, fra ville storiche circondate da struggenti giardini all’italiana stanno sorgendo due costruzioni lunghe e strette. Gli abitanti della zona le chiamano treni. Ognuna di esse accoglierà una sequenza di casette terratetto, ciascuna con mansarda e un minuscolo giardinetto a fronte. L’insediamento, progettato dagli architetti Riccardo Bartoloni e Miranda Ferrara della Quadra Progetti, sarà costituito da 18 appartamenti di diverse dimensioni, con relative cantine e parcheggi sotterranei. Le nuove costruzioni stanno sorgendo a fianco di alcune casette che vengono ristrutturate e al posto di alcuni edifici, in parte abusivi e condonati, che sono stati demoliti e che erano indicati come ex fabbrica di piastrelle, ma più esattamente utilizzati come depositi di materiali e di scarti edili. Si trattava sostanzialmente di tettoie. Gli abitanti del vicinato giurano che le nuove costruzioni, che dovrebbero avere la stessa superficie complessiva di quelle demolite, sono in realtà molto più estese e più alte. Raggiungeranno infatti l’altezza di 7 metri e 74 centimetri. Il che significherà per alcuni dei vicini la perdita del panorama delle colline e della vista della Certosa del Galluzzo.

L’iter di autorizzazione del nuovo insediamento è stato lungo e complesso, ma ogni difficoltà è stata superata. Il progetto firmato Quadra - la società di progettazione guidata da Riccardo Bartoloni (presidente dell’ordine degli architetti) e dal geometra Alberto Vinattieri, dipendente part time del Comune, e di cui è stato fondatore e socio fino al 23 marzo 2004 l’ex capogruppo del Pd in Palazzo Vecchio Alberto Formigli (tutti e tre indagati per corruzione nell’inchiesta sul complesso Dalmazia) - ha ottenuto l’assenso della commissione edilizia, della commissione per il paesaggio, della soprintendenza ai beni architettonici e paesaggistici, del consiglio di quartiere. Uniche raccomandazioni: «utilizzare, per la copertura, embrici soprammessi in luogo delle marsigliesi» e piantare 44 alberi negli spazi verdi privati. Il piano di recupero con contestuale variante del piano regolatore ha superato indenne il vaglio del consiglio comunale. Il 19 settembre 2005 ventuno consiglieri di centrosinistra hanno votato senza battere ciglio il piano di recupero e la variante. Fra di loro c’era anche Formigli, all’epoca ancora presidente della commissione urbanistica. Gran parte dei consiglieri di opposizione erano assenti dall’aula. Gli unici tre voti contrari furono di Ornella De Zordo, Enrico Bosi e Leonardo Pieri.

Una parte dei terreni interessati al progetto presentato dalla società Praedium e dalla Quadra era inserita in zona A (Centro storico minore), dove di regola si può costruire e modificare molto poco. Nei dintorni molti hanno chiesto invano di aprire una finestra. Un’altra parte dei terreni inclusi nel piano di recupero erano classificati come zone agricole E, sottozona E1, all’interno del parco storico delle colline. Nelle sottozone E1 (aree agricole di particolare interesse culturale) all’interno del parco storico delle colline non si può costruire niente. Proprio niente. Una limitazione non da poco, a cui il consiglio comunale ha posto rimedio il 19 settembre 2005 approvando una variante al piano regolatore che ha tolto le particelle catastali inedificabili dalla sottozona E1 e le ha incluse in zona A (Centro storico minore). Contestualmente il consiglio ha approvato il piano di recupero destinato ad eliminare «le condizioni di degrado» dell’area, ha consentito che i lavori partissero con una Dia (dichiarazione di inizio di attività) e ha autorizzato la monetizzazione degli standard. Ciò significa che, non essendo reperibili all’interno dell’area interessata dal piano di recupero i terreni che per legge devono essere destinati a spazi pedonali e a parcheggi e giardini pubblici, si è scelto di monetizzare «le aree non cedute». Il prezzo, fissato nella convenzione firmata il 19 giugno 2006 fra Comune e Praedium, risulta pari a 300 euro al metro quadro.

Né Provincia di Firenze né Regione Toscana hanno sollevato obiezioni. Fra lo stupore degli abitanti di via del Podestà e di via de’ Martellini la Quadra e il consiglio comunale hanno dimostrato che il parco storico delle colline non è intoccabile e che può accogliere fra le storiche dimore anche un bel po’ di casette a schiera.

Qualcuno li ha contati. Sono quarantasette i comitati cittadini sorti a Firenze negli ultimi anni. Quarantasette, quasi uno ogni isolato. Si battono contro un parcheggio che dovrebbe sostituire un giardino, contro un centro commerciale - l´ennesimo che prende a svettare nella piana - , contro quello che chiamano il Tubone, un tunnel che passerebbe sotto le colline di Fiesole, contro quei complessi edilizi (un po´ residenza, un po´ commercio, un po´ uffici) che sorgono dove un tempo c´era uno stabilimento industriale (per esempio, l´ex panificio militare), ma anche contro il taglio di un boschetto di lecci o contro un ponte sull´Arno che avrebbe dovuto sostituire una passerella pedonale e collegare il parco delle Cascine con il quartiere dell´Isolotto. I comitati sono oggetto di studi e a loro ha dedicato attenzione la politologa dell´Istituto universitario europeo Donatella Della Porta in Movimenti senza protesta scritto per il Mulino insieme a Mario Diani (pagg. 230, euro 20) e in Comitati di cittadini e democrazia urbana, che uscirà da Rubettino.

Dall´inverno scorso si sono dati un coordinamento. Si sono presentati alle elezioni di giugno, sostenendo con Rifondazione comunista e il "Forum per Firenze" la candidatura di Ornella De Zordo, il cui successo (12 per cento) ha costretto il sindaco diessino Leonardo Domenici al ballottaggio con il candidato di centrodestra (che poi ha sonoramente battuto). Il coordinamento è nato per due motivi. Intanto per fronteggiare il nuovo piano regolatore, che in Toscana si chiama piano strutturale e che è stato approvato prima delle elezioni. Per il Comune è un avvenimento storico, che interrompe decenni di immobilità e avvia interventi indispensabili. Secondo i comitati, invece, è una somma di progetti sconnessi che stanno a cuore soprattutto ai privati e non risolvono nessuno dei problemi di Firenze. L´altro motivo del coordinamento è di evitare quello che gli studiosi chiamano "effetto Nimby": fate qualunque cosa - un inceneritore, uno svincolo autostradale - ma non vicino a casa mia (Nimby è l´acronimo di Not in my back-yard, non nel mio giardino).

Ogni comitato è legato a una zona della città: piazza Beccaria, piazza Alberti, San Lorenzo, Santo Spirito, Campo di Marte, Santa Croce. Ma perché tutto questo accada a Firenze non è semplice a dirsi. Il capoluogo toscano è un cantiere di grandi trasformazioni. Arrivano prestigiosi architetti: Norman Foster lavora alla stazione dell´Alta Velocità, Jean Nouvel a un albergo al posto di una concessionaria Fiat, Santiago Calatrava all´ampliamento del Museo della Fabbrica del Duomo. Per non parlare di Arata Isozaki, vincitore del concorso per sistemare l´uscita degli Uffizi, che ancora non sa se la sua pensilina sarà costruita o no.

Ma Firenze, a detta di molti, è anche affetta da un malessere ambientale. Il centro storico, per esempio, si sta svuotando di residenti. Secondo uno studio di Manlio Marchetta, professore di urbanistica all´Università, se nel 1987 era residenza il 30 per cento delle superfici edificate, ora quella quota va dal 10 al 15 per cento. E anche queste case rischiano di diventare alberghi, affittacamere o uffici. Un centro storico che perde residenti, recitano i fondamentali dell´urbanistica, deperisce. Invecchiano i suoi abitanti. Diventa una zona di transito per le macchine, solcata da frotte di turisti e da persone che vanno in ufficio o che, di sera, affollano i ristoranti. Insieme agli abitanti fuggono le botteghe alimentari, le scuole e le farmacie. E arrivano pizzerie, bar, negozi di souvenir e magazzini di abbigliamento. Abbandonano persino le grandi banche, che lasciano liberi palazzi monumentali. Chiudono i cinema (Astra, Supercinema, Edison, Capitol) e le librerie sono minacciate dalle catene di jeans.

Alcune rilevazioni smentiscono tanto pessimismo. Per esempio la classifica annuale del Sole 24 ore, che nel 2003 assegnava a Firenze la palma del "vivere bene". E, inoltre, la malattia non affligge solo Firenze. Ma poche città al mondo vantano quel che vanta Firenze. «Per il centro storico», spiega Marchetta, «non esiste un piano specifico, nonostante lo prescriva una legge regionale. Non sono fissati criteri per la destinazione degli immobili e le regole le detta il mercato, che privilegia interessi speculativi. E tutto peggiorerà quando si libereranno edifici universitari, giudiziari e bancari».

La replica è di Gianni Biagi, assessore all´Urbanistica: «Non è vero che il cambio di destinazione degli edifici sia libero, ma purtroppo l´attività di affittacamere è senza controllo. Il centro ha perso il 12 per cento dei residenti nell´arco di un decennio, ma soprattutto nei primi anni Novanta, poi l´emorragia è rallentata. Il nostro piano strutturale si propone di riportare abitanti nel centro, come è accaduto nell´ex complesso delle Murate, e di spostare fuori dei viali ottocenteschi molte attività che si sono accumulate senza programmazione».

Le macchine intasano il centro. Basta una rassegna di moda alla Fortezza da Basso e la città si paralizza. L´edificio, costruito nel 1534 da Antonio da Sangallo, vedrà raddoppiato lo spazio per le fiere da 30 a 60 mila metri quadrati. «Attrarrà altro traffico», denunciano i comitati, «smentendo le intenzioni del Comune di voler alleggerire il centro». Tutta l´area dei giardini intorno ai bastioni, una prodezza rinascimentale, con le torrette e il rivestimento in bugnato del mastio, è stata ridisegnata. E questo intervento ha scatenato violente polemiche. Oggetto della contesa un parcheggio di due piani con un centro commerciale addossato alle mura. Il parcheggio doveva essere interrato, ma di fatto lo è solo in gran parte, perché lungo una delle cortine la costruzione fuoriesce da terra, compromettendo la percezione dei bastioni. E litigi furiosi ha suscitato anche la sistemazione delle strade intorno alla Fortezza a causa di un sottopasso realizzato con una curva troppo stretta, e che si è dovuto ricostruire daccapo.

«Dove ora c´è il parcheggio, un tempo si fermavano gli autobus turistici, che pure impedivano la vista dei bastioni», replica Biagi. «E sopra il parcheggio ci sarà un giardino», insiste l´assessore, il quale però ammette che forse il progetto poteva essere migliore. Tutto l´intervento è realizzato con il meccanismo del project financing, che da alcuni anni si è diffuso moltissimo e che a Firenze è in gran voga. Consiste più o meno in questo: l´amministrazione pubblica dà in concessione a un privato un bene - un palazzo, un´area - , il privato lo ristruttura o costruisce ex novo creandovi diverse attività e traendo profitto dalla loro gestione.

Il project financing è previsto anche per un intervento a San Salvi, che pure vede fronteggiarsi il Comune e il comitato "San Salvi chi può". Qui in un parco di 32 ettari sorgono i padiglioni di un ospedale psichiatrico costruito nel 1891. Dalla fine degli anni Settanta al posto dell´ospedale ci sono una Usl e alcune cooperative sociali e teatrali. Un progetto prevede numerosi appartamenti e nuovi edifici per uffici, un parcheggio e una serie di zone verdi. La residenza è necessaria, «rende l´area viva 24 ore al giorno ed è il "volano economico" dell´intera operazione di recupero», sostengono gli autori del progetto. Il parco viene smembrato, replicano al comitato, e si avvantaggeranno soprattutto coloro che potranno permettersi una lussuosa casa in mezzo al verde.

Altri due interventi - uno a Novoli, nei 32 ettari dove la Fiat aveva il suo stabilimento, l´altro nei 168 ettari di Castello, a ridosso dell´aeroporto e di proprietà della Fondiaria - vengono considerati di grande rilievo dall´Amministrazione, che sostiene di averli avviati per decongestionare il centro storico. Gli oppositori li descrivono invece come operazioni di lottizzazione privata e di valorizzazione immobiliare che smentiscono l´intenzione del piano strutturale di non consumare altro suolo. A Novoli le costruzioni sono state avviate sulla base di un piano (poi modificato) di Leon Krier, l´architetto amico di Carlo d´Inghilterra. Sono già in funzione una sede dell´università, progettata da Adolfo Natalini, e un centro commerciale, mentre è in fase di completamento il Palazzo di Giustizia, con torri da 32 e 64 metri su disegno di Leonardo Ricci. Verranno poi costruiti appartamenti, studi e sedi di banche, secondo un piano di Aimaro Isola e Francesco Dal Co. Novecentomila metri cubi in totale, al centro dei quali sarà sistemato un parco di 12 ettari che, a detta dei progettisti, avrà effetti sulla qualità dell´aria di tutto il quartiere. Diversa la posizione dei comitati: «Quella zona di Firenze è già stremata e non sopporta altri pesanti carichi urbanistici».

La vasta pianura fra l´aeroporto, Peretola e Castello «è l´ultima consistente porzione non edificata di Firenze, se si escludono le colline», ricorda Marchetta. È un´area depressa e paludosa, a suo tempo sottoposta a una bonifica che ha messo a regime le acque con due reti di canali, in parte pensili. «Questo territorio era destinato a parco territoriale. Se si installassero, come previsto, un milione 400 mila metri cubi, Firenze si salderà con altri paesi della piana, creando un´immensa conurbazione», aggiunge Marchetta. «A Castello ci sono molte cose da definire», replica Biagi, «ma non è lottizzazione privata: lì andranno la Regione, i carabinieri e poi uffici, abitazioni e un parco di 80 ettari».

Su Novoli e Castello si riaccendono le polemiche che divisero la sinistra fiorentina una ventina di anni fa. Il Comune mise in cantiere due insediamenti molto più pesanti di quelli avviati ora. Ma pressato da Italia Nostra e da altre associazioni, intervenne il segretario di Botteghe Oscure, Achille Occhetto. Che costrinse i compagni fiorentini a fare marcia indietro. Da allora, però, molta acqua è passata sotto i ponti dell´Arno.

«Vuoi tramutare i giovani del Mezzogiorno in un popolo di camerieri?». Saranno passati quarant’anni ma ricordo ancora l’insulto sprezzante di cui tanti uomini politici e sindacalisti gratificavano Francesco Compagna, uno dei più intelligenti e vivaci intellettuali meridionali, direttore di Nord Sud, nonché esponente politico repubblicano. La sua colpa consisteva nel sostenere che l’avvenire di Bagnoli, una perla paesaggistica al limite estremo del golfo di Napoli come di Gioia Tauro, il porto affacciato nella splendida piana a sud di Reggio Calabria, non andava individuato nell’ampliamento delle grandi acciaierie o nella costruzione di nuovi impianti siderurgici ma nella programmazione di un compatibile e congeniale sviluppo agroturistico. Analogo il discorso per la Sicilia dove stavano approdando devastanti e inquinanti impianti petrolchimici. Vinse il mito della grande industria come volano della rinascita, con la conseguenza che oggi l’Italsider è affondata, Bagnoli è chiusa, l’impianto siderurgico di Gioia Tauro non è mai nato, la petrolchimica è tramontata con le crisi energetiche ma le devastazioni del territorio sono irreversibili.

Nel frattempo il turismo, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle Isole, è cresciuto negli interstizi di un ambiente compromesso, fuori da ogni programmazione che collegasse l’offerta alberghiera a quella infrastrutturale, una rete di eccellenza agroalimentare alla valorizzazione del patrimonio artistico, la formazione degli operatori all’offerta culturale. Ma anche nel resto del Paese la consapevolezza delle potenzialità non accortamente sfruttate non è stata pienamente avvertita, se si tolgono le tre città mondiali (Roma, Venezia, Firenze), la riviera adriatica nordorientale e, in una certa misura, l’arco alpino. Abbiamo, quindi, un sistema in cui gli attori si muovono ognuno per conto proprio, senza un disegno d’assieme che ponga al centro dello sviluppo economico un’offerta turistico-culturale complessa, efficiente e concorrenziale. Le varie famiglie politiche ma anche le élite intellettuali e persino gli economisti, da un lato seguitano ad agire e a pensare all’interno dei vecchi stilemi di una cultura industrialista di stampo otto-novecentesco ma, dall’altro, sembrano avere una scarsa percezione della realtà materiale del nostro Paese. Al di là degli effetti della crisi economica in atto, i dati oggettivi danno, infatti, il quadro di una economia reale forte nell’industria manifatturiera piccola e media, nel turismo e nell’agricoltura, tre settori nei quali siamo secondi in Europa (dopo la Germania nel manifatturiero, dopo la Spagna nel turismo, dopo la Francia nell’agricoltura). Nessun altro paese dell’Ue è così forte contemporaneamente in questi tre ambiti di attività (la Germania è solo quarta nell’agricoltura e nel turismo, la Francia è quarta nella manifattura e nel turismo, la Spagna è terza nell’agricoltura e quinta nel manifatturiero). Ma i comportamenti pubblici e lo stesso dibattito economico non sembrano partecipi di questa specifica realtà. Anche se il dato è secondario, non è certo un caso che sia scomparso il ministero del Turismo e Spettacolo e che nelle Regioni e nei Comuni l’assessorato preposto al settore figuri tra quelli meno ambiti nelle spartizioni di giunta.

Il prossimo Quaderno di approfondimenti statistici della Fondazione Edison diretto dall’economista Marco Fortis, è appunto dedicato all’argomento e ci ricorda come nel 1970 il nostro fosse il primo paese al mondo per arrivi turistici internazionali, al vertice della graduatoria dove seguivano Francia, Spagna, Canada e Stati Uniti. Certo, operavamo in un mondo più piccolo, diviso dal muro di Berlino e l’Italia era la "spiaggia" d’Europa. Dopo è seguito il declino e nell’arco di 25 anni siamo scesi al quarto posto, dopo Francia, Spagna, Stati Uniti. Dal 2006 siamo stati superati anche dalla Cina, un paese che ci aspettavamo ci sopravanzasse in tanti settori ma non nell’appeal turistico.

Eppure registriamo ancora grandi possibilità di rilancio. Il flusso dei turisti stranieri negli ultimi anni è raddoppiato, da 22 a 41 milioni di presenze. Le entrate turistiche hanno registrato nell’ultimo anno il record storico di 31,6 miliardi di euro, il patrimonio artistico e paesaggistico unico al mondo non può essere insidiato che da noi stessi. La Spagna con una politica turistica e infrastrutturale più dinamica e intelligente ci suggerisce i termini di una ripresa stabile e vincente. Occorre, però, capire che il turismo del XXI secolo non è l’offerta di un cameriere svogliato che biascica: «Bianco o rosso?».

Postilla

La critica dell'editorialista di Repubblica all'arretratezza culturale della nostra classe politica ed economica, incapace financo di una lettura aggiornata ed adeguata della realtà sociale ed imprenditoriale del paese è pienamente condivisibile.

Così come andrebbe ripreso l'assunto di Francesco Compagna che prefigurava come occasione di riscatto e ripresa per il Mezzogiorno, uno sviluppo mirato sulle vere eccellenze di quell'area: il patrimonio culturale e il paesaggio e quindi, per conseguenza, un uso del territorio radicalmente diverso da quello attuato nel secondo dopoguerra.

E allo stesso modo il richiamo ad un più strutturato e sistemico intervento nel settore turistico appare più che giustificato: a patto di non reiterare ancora una volta le solite classifiche sui primati perduti e sulle posizioni in classifica da recuperare.

Come tante volte ribadito anche su eddyburg, il turismo non è un'industria light, ma implica un'impronta ecologica pesantissima, e spesso è causa prima di degrado urbanistico ed ambientale, così come dimostrano invariabilmente tutti gli esempi "positivi" portati da Pirani dei centri storici di Roma, Firenze e Venezia, della costa adriatica, della montagna: è, insomma, una risorsa da "maneggiare con cura", senza preconcetti puristi che possono sfociare in un elitarismo non più ammissibile, ma anche senza il mito del record a tutti i costi.

Anche in questo caso la quantità mal si sposa con la qualità. Della nostra vita innanzi tutto. (m.p.g.)

Lo Stato della Città del Vaticano ha voluto ridefinire le proprie regole sulle fonti del diritto, dunque sulle norme che costituiscono il suo ordinamento giuridico, e la relativa legge è entrata in vigore all´inizio di quest’anno. L’operazione è di grande importanza, come sempre accade quando uno Stato sovrano stabilisce il perimetro della legalità, e anche perché si tratta di una materia particolarmente rilevante dal punto di vista politico e culturale (al tema delle fonti ha recentemente dedicato una riunione l’Associazione italiana dei costituzionalisti). Ma la mossa vaticana ha suscitato attenzione e polemiche perché contiene una rilevantissima novità nei rapporti tra Stato e Chiesa, tra la legislazione della Repubblica Italiana e quella della Città del Vaticano. Fino a ieri questi rapporti erano fondati sul principio della recezione automatica, che portava con sé l’applicabilità delle norme italiane nell’ordinamento vaticano, recezione «solo eccezionalmente rifiutata per motivi di radicale incompatibilità con leggi fondamentali dell’ordinamento canonico», com’è accaduto per leggi come quelle sul divorzio e l’aborto. Ora, invece, «si introduce la necessità di un previo recepimento da parte della competente autorità vaticana», come sottolinea esplicitamente sull’Osservatore Romano il presidente della Commissione che ha preparato la nuova legge, José Maria Serrano Ruiz. Non più automatismi, dunque, ma un filtro, una valutazione preliminare della compatibilità con l’ordinamento canonico di ogni singola legge italiana.

Questa è una innovazione che non può essere adeguatamente valutata ricorrendo al tradizionale criterio dell´"indebita ingerenza vaticana" o guardando solo alla spicciola attualità politica, e quindi interpretandola solo come una reazione a qualche specifica vicenda italiana, come un avviso a questo o a quel partito. Siamo di fronte ad una strategia impegnativa, che si proietta al di là di questa o quella occasione, e che va compresa e valutata proprio in questo suo orizzonte più largo.

Non risultano convincenti, quindi, i tentativi di ridurre la portata della nuova legge che qualcuno, anche da parte vaticana, ha voluto fare, dicendo che la novità è di poco conto, visto che già prima il filtro vaticano aveva operato nei casi di evidente incompatibilità tra principi della Chiesa e norme italiane. Si passa, infatti, da un regime eccezionale ad uno ordinario, da una valutazione selettiva ad una generalizzata. Prima poteva valere il silenzio, ora bisogna attendere la parola. Peraltro, questi tentativi riduzionisti sono contraddetti da quanto scrive lo stesso Serrano Ruiz, indicando con chiarezza l’obiettivo della legge: la Chiesa non può «rinunciare al suo ruolo di testimonianza unica nel concerto del diritto comparato e nella riflessione sul fenomeno giuridico universale».

Non solo l’Italia, dunque. L’ambizione è planetaria: fare dei principi della Chiesa l’unico criterio di legittimazione di qualsiasi norma, di qualsiasi forma di regolazione giuridica, in ogni luogo del mondo. Un orientamento, questo, che già era ben visibile nelle ripetute prese di posizione dello stesso Pontefice aspramente critiche nei confronti delle Nazioni Unite e di molti documenti giuridici da queste approvati o promossi.

All’Italia, però, sono riservate una attenzione ed una motivazione particolari, anche perché solo per le sue leggi valeva fino a ieri il criterio della recezione automatica. Tre sono le ragioni esplicitamente indicate per giustificare il rovesciamento di quella impostazione: «il numero davvero esorbitante delle leggi italiane»; «l’instabilità della legislazione civile»; «un contrasto, con troppa frequenza evidente, di tali leggi con principi non rinunziabili da parte della Chiesa». Quest’ultimo è l’argomento che, giustamente, ha più colpito e ha suscitato le maggiori polemiche, ma pure gli altri due meritano qualche riflessione.

Si è detto che il riferimento all’inflazione legislativa è pretestuoso, visto che questa esiste ed è ben nota da molti anni. Perché accorgersene oggi, ha protestato il ministro Calderoli, proprio nel momento in cui è stata imboccata la via della semplificazione cancellando 36.100 leggi? Si potrebbe osservare che all’eccesso di legislazione non si risponde soltanto con qualche potatura, ricordando ad esempio la ben diversa esperienza francese in materia. E, d’altra parte, la riforma vaticana prende il posto di una legge del 1929, sì che doveva tener conto di quanto è accaduto tra allora e oggi.

Più significativo, e insidioso, è il secondo argomento. L’instabilità della legislazione civile è giudicata «poco compatibile con l´auspicabile ideale tomista di una lex rationis ordinatio, che, come tutte le operazioni dell’intelletto, cerca di per sé l’immutabilità dei concetti e dei valori». Questa radicale affermazione arriva in un tempo in cui il sistema delle fonti, sotto tutti i cieli, conosce un mutamento profondo, proprio per poter dare risposte adeguate ad una realtà incessantemente mutevole, non solo sotto la spinta delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, ma di profonde trasformazioni sociali e culturali. Si scambia per instabilità la necessaria flessibilità delle regole, la capacità di assumere il nuovo e di incorporare il futuro, che implica anche la necessità di sottoporre a critica concetti e categorie del passato, anche per far sì che valori ritenuti fondamentali, affidati soltanto ad una logica conservatrice, non vengano travolti.

L’argomento dell’instabilità si congiunge così con quello del contrasto con «principi non rinunziabili da parte della Chiesa». Nel modo in cui è formulata quest’ultima critica si coglie una esplicita polemica con la più recente legislazione italiana, visto che si afferma che questo contrasto si sarebbe già verificato «con troppa frequenza». Ma a quale legislazione si allude, poiché proprio le norme più recenti sono piuttosto fitte di compiacenze, per non dire di cedimenti, verso le richieste o le pretese vaticane? Qui siamo in presenza di un ammonimento, e non di una constatazione; di un perentorio invito a non fare più che ad una critica del già fatto.

Un alt così netto alla libertà di determinazione del Parlamento italiano non era stato mai pronunciato, neppure in quegli Anni 70 quando v’erano più fondati motivi di risentimento, non solo per le leggi su divorzio e aborto, ma pure per la riforma del diritto di famiglia, invisa a molti ambienti cattolici perché finalmente realizzava la parità voluta dalla Costituzione tra i coniugi e tra i figli nati dentro o fuori del matrimonio. Si ripeterà, com’è ormai d’uso, che le parole della Chiesa sono legittime. Ma è legittimo, anzi è doveroso, valutarne gli effetti. Si fa così tutte le volte che non si vuole sottostare ad un diktat.

L’annuncio è chiaro. Il mondo è grande, ma l’Italia è vicina. La sua legislazione, da oggi in poi, sarà sottoposta ad un continuo "monitoraggio etico", accompagnato da una sanzione: non entrerà a far parte dell’ordinamento canonico tutte le volte che il legislatore italiano sarà colto in flagrante peccato di violazione dei «principi non rinunciabili da parte della Chiesa». Formalmente tutto può essere ritenuto in regola: uno Stato sovrano deve poter sottrarsi alle logiche altrui. Ma quali possono essere le conseguenze politiche e culturali di questo atteggiamento?

La politica italiana è debole, stremata. Qui la nuova linea vaticana può entrare in maniera devastante, aprendo conflitti di lealtà per i cattolici, stretti tra il loro dovere di legislatori civili e l’annuncio preventivo che leggi ragionevoli e miti, poniamo quelle sul testamento biologico o sulle unioni di fatto, non supereranno il test di compatibilità introdotto dalla nuova normativa vaticana. Per poter reagire dignitosamente, come si conviene ai parlamentari di un paese non confessionale, servirebbe un senso dello Stato che sembra perduto, qui dovrebbe fare le sue prove una laicità che non può ritenersi consegnata al passato. Servirebbe soprattutto la consapevolezza, smarrita, che l’unico filtro ammissibile è quello della conformità alla Costituzione, vero "principio non rinunciabile" in democrazia.

Ma il conflitto di lealtà può andare oltre le mura del Parlamento, devastare una società già divisa, dove già si manifestano impietose obiezioni di coscienza, dove davvero "pietà l’è morta" pure di fronte a casi, come quello di Eluana Englaro, che esigerebbero rispetto e silenzio. E che esigono rispetto perché espressivi di un quadro di diritti che si vuole radicalmente revocare in dubbio. Di questo dobbiamo discutere. Dell’autonomia e della laicità dello Stato, del destino delle libertà.

Nel pantano dell’urbanistica fiorentina l’avvocato Lucibello, difensore del sindaco Domenici, ha dichiarato: «La Procura sta confondendo le contrattazioni giornaliere tipiche dell’urbanistica contrattata, come atti di corruzione che invece non ci sono». Il problema è infatti l’urbanistica contrattata, cui l’avvocato aggiunge un’aggettivo terribile: «quotidiana».

Ricapitoliamo, sulla base delle intercettazionipubblicate, come funziona l’urbanistica contrattata. Il sindaco della città viene invitato a pranzo dal potente di turno che espone le sue esigenze e propone una speculazione immobiliare in aperta violazione dei piani regolatori.

Ilsindaco si mette subito in moto e allerta i suoi fedelissimi, mentre l’altro prende contatti con la proprietà immobiliare. E’ auspicabile che queste due ultime figure appartengano ai due differenti schieramenti nazionali. Così, se Della Valle è collocabile nel fronte progressista, il fatto che la proprietà dei terreni sia di un berlusconiano come Ligresti cade a pennello. Un altro piacevole pranzo a tre e il gioco è fatto.

Così al posto di un parco vedremo uno stadio di calcio, più ipermercato, più fitness e tanto altro, firmato da una delle numerose archistar disponibili. Facilissimo.Volete mettere la fatica che avrebbe fatto il povero sindaco a convincere l’inflessibile moralità di Ornella De Zordo, che al consiglio comunale queste denunce le ha ripetute un’infinità di volte? O i testardi cittadini che si erano perfino arrampicati sugli alberi per non farli tagliare per lo sventurato progetto della tramvia? O i tanti comitati che in questi anni hanno cercato di difendere i beni comuni? Finalmente la modernità: il futuro delle città si decide nel ristorante. Ha ragione l’avvocato Lucibello, non c’è alcuna corruzione: c’è l’accordo di programma a risolvere i nodi in un baleno. Certo, qualche mancia non richiesta arriva, come quella ad esempio che Ligresti ha dato per finanziare l’opuscolo anti-lavavetri del prode assessore Cioni, ma mica è un reato. E’ un’opera di misericordia, perché - così si sono giustificati! - ha fatto risparmiare all’amministrazione comunale qualche soldo.

Gli amministratori- che pure hanno militato nella sinistra – non pensano che quei soldi potevano arrivare nelle casse dei comuni con procedura limpida: con una legge moderna sul regime dei suoli. Siamo l’unico paese dell’Europa occidentale a esserne privo e la sinistra parlamentare non se ne accorge. E’ forse per questo che il Domenici, presidente dell’Anci, si è ben guardato dal fare una battaglia di principio per avere una legge di riforma sul regime dei suoli, o anche per scongiurare la famigerata legge Lupi, la (cosiddetta) riforma dell’urbanistica di Forza Italia che rischia di essere approvata tra breve.

Quella legge abroga infatti gli standard urbanistici, e cioè le quantità minime di aree da destinare a servizi che fu approvata negli anni ’60. E’ l’ultimo tassello che ancora manca. I cittadini di Firenze avrebbero infatti potuto invocarla per scongiurare la costruzione dello stadio e di quant’altro. I parlamentari di opposizione ancora non conquistati dal mito del «mercato» dovrebbero farne una battaglia esemplare. E anzi dovrebbero avere l’ambizione di proporre una legge di riforma del regime degli immobili che faccia tornare alla collettività le gigantesche plusvalenze che gli speculatori ottengono senza il minimo lavoro. Così uscirebbe un nuovo progetto sulle città per ristabilire il primato delle regole e la prevalenza degli interessi della collettività.

C’è una domanda cui bisogna rispondere. Sembra una domanda facile, e il guaio è là. Che il numero dei morti palestinesi per l’offensiva israeliana a Gaza sia così alto, e cresca ancora, è un segno di vittoria di Israele, o di sconfitta, o di che cosa? E una sottodomanda, in apparenza ancora più facile: che i morti palestinesi siano tantissimi, e quelli israeliani pochissimi, è una vittoria o una sconfitta di Israele? Leggo che il generale Yoav Galant, comandante della regione sud, ha dato la sua risposta secca ad ambedue le domande, illustrando il proposito dell’offensiva: "Ributtare indietro di decenni la striscia di Gaza in termini di capacità militare, facendo il massimo di vittime presso il nemico e il minimo fra le forze armate israeliane". Il massimo dei loro, il minimo dei nostri. Noi, i generali, le donne e i bambini, e loro, i bambini, le donne e gli sceicchi. Ah, come sono difficili le domande facili!

Si tratta del capriccio con cui il libero mercato fissa il pregio delle diverse vite umane. Avete visto a che ritmo vertiginoso è cresciuto da noi l’impiego del termine: Bioetica. L’impiego, e gli impiegati. La bioetica ha a che fare coi progressi spettacolosi della medicina, della biologia, dell’ingegneria genetica, gli inseguimenti trafelati della filosofia e del diritto, e le supervisioni delle chiese. Una sua esemplare dichiarazione è che "la vita umana è sacra e va difesa dal concepimento alla morte". La cito non per ridiscuterla qui, ma per osservare che la nostra fresca sensibilità bioetica si concede il lusso di concentrarsi sui due poli, il concepimento, o almeno la nascita, e la morte, il capo e la coda, riservando un’attenzione minore a quello che sta fra l’inizio e la fine, cioè alla vita nella sua durata, che poi è la vita.

Così, benché le innovazioni che la scienza introduce e la filosofia insegue col fiato corto e la religione rilega in pergamena, valgano per tutte le disgrazie che investono l’intermezzo fra nascita e morte - la fame, le malattie, le guerre - ce ne commuoviamo meno. La nostra guerra (di religione) sulla trovata secondo cui la vita è così sacra da essere "indisponibile" alla stessa singola persona vivente sta ai luoghi in cui la vita viene mietuta all´ingrosso, come i nostri botti di Capodanno, adorati da tutti tranne i cani i bambini e chi ha conosciuto una sola notte di guerra, stanno ai bombardamenti su Gaza. Così vicino, oltretutto - due sponde dirimpettaie- che si potevano sentire reciprocamente, e raddoppiare l’allegria degli uni e lo spavento degli altri.

Io resto affezionato a Israele come a quella che potrebbe essere, "per un pelo", la miglior madrepatria di un cittadino della terra di oggi, così come lo sarebbe stata l’Atene del V secolo - per un pelo, la questione degli schiavi. Siccome voglio così bene a Israele, e ne taccio da un bel po’ di tempo, dirò come si è andato incupendo il mio stato d’animo settimana per settimana. Ogni settimana, la rivista "Internazionale" pubblica una rubrichetta di poche righe, intitolata "Israeliani e palestinesi", che aggiorna il numero dei morti dell’una e dell’altra parte a partire dalla seconda Intifada, cioè dal settembre del 2000.

Piano piano, ma inesorabilmente, la sproporzione è cresciuta, e se i morti israeliani erano sempre stati meno numerosi, a un certo punto arrivarono a essere solo la metà di quelli palestinesi, e già questo provocava un turbamento complicato; poi il divario ha continuato ad accrescersi, finché all’inizio di dicembre, ben prima dell’attacco a Gaza che fa impennare le cifre, il totale dei morti palestinesi superava di più di cinque volte quello dei morti israeliani (5.301 a 1.082). Complicato, il turbamento: perché si è involontariamente indotti, come di fronte a ogni sproporzione eccessiva, a desiderare che la forbice si riduca, ciò che può avvenire riducendo le morti degli uni o moltiplicando quelle degli altri...

Descrivo qualcosa che assomiglia più a un riflesso condizionato che a un pensiero. Del resto il mondo, benché secondo molti e benevoli suoi passeggeri continui a progredire, è platealmente pieno di smisuratezze, a cominciare dalla differenza fra ricchi e poveri, e fra vite medie che si allungano spettacolosamente e vite medie dimezzate.

La popolazione ottuagenaria e passa dell´Europa potrebbe protestare di non avere colpa nella popolazione sì e no quarantenne dello Zimbabwe: ma non sarebbe del tutto vero. E non è vero, certo non del tutto, che gli israeliani non c’entrino con la mortalità di guerra cinque volte superiore dei loro vicini. La sproporzione si riproduce e si moltiplica in una quantità di circostanze. Negli scambi di prigionieri, che Israele rilascia a centinaia in cambio di uno o due propri, o anche di due salme, com’è appena successo con gli hezbollah libanesi. Israele ha pressappoco undicimila prigionieri palestinesi, la Palestina, cioè Hamas, uno solo, il povero Gilad Shalit.

Negli ultimi otto anni, se non sbaglio, dalla striscia di Gaza sono stati lanciati sulle città del sud di Israele migliaia di razzi sempre più micidiali (l’ultimo ha colpito una scuola per fortuna evacuata di Beersheva, aveva dunque una gittata di 40 km) facendo in tutto 18 morti. L’offensiva aerea su Gaza ne ha fatti oltre 400 in pochi giorni, contro 4 dalla parte israeliana: in ragione di più di 100 a uno. E’ vero che il conto dei morti non dice tutto. Ad Ashkelon, Sderot, Ashdod, Gan Yavne, è un decimo della popolazione di Israele a vivere sotto la minaccia quotidiana dei missili. Tuttavia quel complicato turbamento resta, e anzi si fa sempre più pungente. Dunque, la domanda: più morti palestinesi facciamo, più vinciamo? E la sottodomanda: più forte è la differenza fra "il massimo dei morti loro" e "il minimo dei morti nostri", più vinciamo?

C’è un argomento forte in favore di Israele. Israele fa tesoro della vita dei suoi figli. Guarda con orrore il fanatismo islamista che addestra i figli al suicidio assassino, e si inebria del loro "martirio". E’ appena successo un episodio esemplare e agghiacciante. Nizar Rayan, sceicco invasato, già mandante di un figlio kamikaze e reclutatore per amore o per forza di scudi umani, nemico feroce di Israele come di Fatah, bersaglio prelibato della caccia israeliana, si trovava in un edificio al quale è arrivata la telefonata di avvertimento dello Shin Bet: sarebbe stato bombardato di lì a poco. Rayan "non è scappato", dicono i suoi. Ha voluto morire da martire, e si è tenuto stretti qualcuno dei dodici figli, qualcuna delle quattro mogli: proprietà sue, vite consacrate non alla vita, ma alla morte. Ma gli invasati, o i farabutti, non rendono un popolo correo del loro fanatismo: nemmeno quella metà del popolo che li ha votati in un’elezione.

Tanto meno i bambini, e le sorelle e i fratelli ammazzati insieme dalle incursioni, com’è inevitabile in uno zoo così fitto di umani e così prolifico. Ci sono madri che non trionfano per la morte da shahid delle loro creature, e invece rinfacciano al cielo e alla terra la doppia misura. La madre delle cinque sorelline di Jabaliya ammazzate: "Se venisse ucciso anche un solo bambino israeliano, il mondo intero si indignerebbe... Ma il sangue dei nostri bambini non conta niente per il mondo". Non importa nemmeno da che parte sia venuta la strage, come per le due sorelline di Beit Lahya, ammazzate dal razzo kassam di Hamas, "per errore". Dice quel padre: "Non s’è scusato nessuno. Siamo poveri".

La bioetica, dunque. Se davvero un’azione militare mirasse al "massimo di vittime nel nemico", l’ideale sarebbe lo sterminio. Se la confermasse, il generale che ha pronunciato una frase del genere andrebbe messo ai ferri. Ma resterebbero sempre gli altri. Quelli - quasi tutti, fra le autorità, e a gara di sondaggi e di voti- che dicono amaramente: "E’ la guerra. La guerra esige le vittime civili. Noi facciamo di tutto per ridurne il numero". Non è un buon argomento, non più. Non è "la guerra". E’ qualcosa di più, per il soffocante odio di vicinato, e di meno, per la sproporzione delle forze. Di quella sproporzione (provvisoria, peraltro, con l’Iran che incombe) Israele non dovrebbe avvalersi per proclamare preziose le vite dei bambini palestinesi come quelle dei proprii, e agire di conseguenza? Utopia? Certo, bravi, continuiamo così. Se l’utopia troverà mai un luogo, sarà in quel pezzetto di terra in cui il Dio di tutti gli eserciti ha deciso da sempre (dalla strage degli innocenti, che nessun angelo avvertì, sospira Massimo Toschi) di togliere il senno alle sue creature. Continuiamo così. Il sangue dei martiri è il seme della cristianità ? diceva Tertulliano. Il sangue dei martiri, anche di quelli equivoci e abusivi, è seme di qualunque pianta. Si vuole cancellare Hamas? Sarebbe bello.

Ma i bambini e i ragazzi di Gaza che sopravviveranno ai bombardamenti aerei (l’esperienza più paurosa) non avranno un futuro ragionevole e gandhiano. L’ammasso di profughi e figli e nipoti di profughi che è Gaza ha un’età media, ho letto, di 17 anni. Quanto al resto del mondo, dei razzi su Ashkelon ha sentito sì e no parlare. Ma le immagini di questi giorni le ha viste. Israele sembra aver smesso da tempo di badare all’opinione del mondo. E’ vero che il mondo, quando gli ebrei erano al macello, applaudì o guardò dall’altra parte. Appunto. Tzipi Livni si è industriata di spiegare al mondo le sue buone ragioni, poi è bastata una frase ?"A Gaza non c’è una crisi umanitaria"- per cancellarne ogni effetto.

Mi dispiace delle parole rassegnate di Yehoshua: "Non avevamo altra scelta". Non è possibile che Israele, cioè gli israeliani, pensino e sentano di "non avere altra scelta" ? dunque di non avere scelta. Ce l’hanno, sanno anche qual è: tutti, o quasi. Sanno qual è, e vanno da un’altra parte. In cielo e, tanto peggio, in terra. Nel giorno della strage nella moschea - ci sarà la battaglia di propagande sul fatto che fosse un deposito di armi, o un deposito di umani, o le due cose insieme, ma non cambia – l’ingresso dei soldati israeliani fa temere che tutta la macabra contabilità della morte stia per impazzire. Soldati bravi, ben equipaggiati e risoluti ad andare avanti si troveranno di fronte, oltre a nemici votati alla morte, una gente disperata ed esasperata, in cui i bambini sono la maggioranza. I carri armati dovranno decidere che cosa fare quando si troveranno davanti una folla di bambini. Poi, comunque vada, dovranno chiedersi ancora una volta come tornare indietro.

Dalle inchieste e dagli scandali comunali, veri o presunti, emergono almeno un paio di dati difficilmente contestabili: il poco o nullo controllo “dal basso” su delibere di giunta invece di grande peso economico; la debolezza, anzitutto culturale, quasi di “status, del ceto politico rispetto a quello imprenditoriale. Affiora una sorta di identificazione antropologica, di compenetrazione dei ruoli. Con l’interesse pubblico assai indebolito rispetto agli interessi privati. Berlusconi fa scuola: certi grandi immobiliaristi o imprenditori dei servizi diventano essi “una risorsa” per la città. Non il contrario.

Un lettore di questo giornale ha scritto che tutto il male è cominciato con la legge per la elezione diretta di sindaci e presidenti, con la nomina da parte loro degli assessori (in realtà più che mai spartiti fra le correnti politiche), e col conseguente svuotamento di poteri delle assemblee elettive. Sarà stato anche troppo drastico e però ha posto un problema serio. L’elezione diretta dei sindaci ha certamente assicurato stabilità, ma ha sottratto al vaglio pubblico del dibattito consigliare decisioni di grande portata. Ieri i consigli comunali contavano fin troppo. Oggi contano ben poco, sono casse di risonanza delle giunte. Ho fatto per cinque anni, fra ’90 e ’95, il consigliere comunale in una città piccola e però carica di patrimonio storico e di problemi, ed ho sperimentato quanto potere avessimo, allora, noi consiglieri. Per lo meno di provocare accese discussioni pubbliche che potevano durare anche giorni, con un pubblico folto a partecipare.

Con la nuova legge si è passati all’estremo opposto: da un assemblearismo forse eccessivo allo svuotamento delle assemblee che sono chiamate a ratificare (come le Camere coi decreti legge). Da qui una maggiore opacità delle decisioni più importanti e un non meno evidente stato di frustrazione dei consigli e dello stesso pubblico, ormai rado. Ne scrisse molto bene Gianfranco Pasquino, sul “Sole 24 Ore”, perché non tornarci su? L’elettore di sinistra è “sconvolto e sopreso” (Yards Byrds, dazed and confused), non vede aprire dibattiti, neppure in caso di batoste elettorali come quella, sempre più dolorosa, di Roma. In un altro Paese i responsabili sarebbero andati a casa, in modo automatico e tranquillo. Qui non c’è stata nemmeno una analisi che aiutasse a capire, a correggere, e quindi a reimpostare una prospettiva con iscritti e simpatizzanti. I quali, così, scelgono una silenziosa astensione. Fra l’altro per le elezioni politiche generali è stata loro tolta pure la piccola arma della preferenza: tutto è già preconfezionato. E questa è democrazia?

Con cosa possiamo impastare il pane di domani? Quali ingredienti ci lasciano e quali ci consigliano gli eventi dell’anno che si conclude? C’è un lievito cui possiamo affidarci per il cibo solido che nutrirà i giorni dell’anno che viene? Sono domande spontanee a ogni volgere di calendario, ma forse ancor più cogenti al termine di un anno che pare identificarsi con il termine crisi, non solo in campo economico. Per il nostro impasto potremmo cominciare da un sano ripensamento sugli errori commessi.

Bush ha ammesso che la guerra in Iraq è stata un errore: del resto non è quello che si dice dopo ogni guerra? La si intraprende sempre facendola apparire come il male minore, il ristabilimento di un diritto infranto, la via per giungere a un nuovo equilibrio più giusto. Poi, una volta avviata, è la logica stessa della guerra a prevalere su ogni altra logica.

Il diritto, la giustizia, la solidarietà, la libertà, tutto viene messo tra parentesi, soffocato in attesa della fine delle ostilità. Ma dalle macerie fumanti sale solo nuovo odio, nuova violenza, nuovi pretesti per ricominciare un’altra guerra, anch’essa «giusta», naturalmente. Ora, tra i potenti che hanno dato fuoco alla polveriera in Iraq vi è chi ha chiesto scusa, chi ha affermato di essere stato ingannato, eppure nessuno di quanti nel nostro paese avevano sostenuto a spada tratta la giustezza di quell’errore si è sentito in dovere di riconoscerlo come tale. Senza riconoscimento degli errori come possiamo pensare che il futuro non ce ne riservi di analoghi e di più gravi?

Anche in campo economico non emerge con chiarezza un riconoscimento degli errori: sembra anzi che si preferisca rincarare la dose di anfetamine invece di trarre lezione dall’abuso di mercato senza regole. Invitare al consumo anche se non se ne hanno i mezzi né tanto meno la necessità, spingere verso un tenore di vita costantemente superiore alle proprie possibilità, oltre a condurre verso un precipizio ancor più profondo, cancella ogni senso del limite, eccita e inebria con il mito della crescita inarrestabile infinita, come fosse un diritto acquisito. Non è solo questione di ritrovare una certa sobrietà nel vivere e una maggiore solidarietà nel condividere bensì, a un livello ancor più radicale, di aderire alla realtà, di prendere coscienza che noi stessi, la nostra terra, abbiamo dei limiti: il tenerne conto non significa tarparci le ali ma, al contrario, irrobustirci per affrontare le sfide che il futuro ci riserva.

Ecco allora un ingrediente fondamentale per il pane quotidiano di domani: ridestare nella società, a cominciare dai giovani, la cultura dei valori. Anche qui dobbiamo interrogarci su cosa siamo stati e siamo capaci di trasmettere, quali modelli culturali veicoliamo con i nostri comportamenti e le nostre scelte, quali miti dominanti, quali aspirazioni sollecitiamo nelle nuove generazioni. A cosa aneliamo, in cosa crediamo, c’è qualcosa per cui vale la pena spendere ed eventualmente dare la vita? Se non siamo capaci di narrarlo con le nostre vite, se lasciamo che sia percepito come «reale» quanto di più artificiale si può creare nei «laboratori» di ogni tipo, non possiamo poi stupirci se la «connessione» sociale si rivela fragile quanto un segnale digitale. Ripartire da alcuni principi fondamentali che le generazioni che ci hanno preceduto hanno saputo trasmetterci - anche grazie alla loro capacità di ripensare agli orrori di due guerre mondiali - è condizione indispensabile per ridare futuro al nostro presente. La Carta universale dei Diritti dell’uomo, i principi fondamentali della nostra Costituzione, le regole basilari della convivenza civile devono diventare elementi «vitali» delle nostre società: elementi cioè capaci di ridare vita perché vissuti nel quotidiano.

Sì, occorre una grande consapevolezza degli errori commessi, ma anche delle enormi potenzialità nascoste nel cuore e nell’agire di ciascuno. Occorre per domani il lievito della fiducia nell’umanità: credere nell’uomo, nella sua grandezza, credere che possiamo umanizzare e rendere migliore la nostra convivenza, se solo accettiamo di guardare oltre il nostro interesse immediato, di tendere lo sguardo verso un orizzonte comune, verso una speranza che è tale solo se giunge a essere condivisa. Il pane di domani sarà allora ancor più gustoso perché intriso del sapore di ieri.

Uno dei siti più frequentati tra quelli classificati come «culturali» è www.eddyburg.it, tra i primi cinque nella graduatoria redatta dal servizio Internet ShinyStat. Sorprendente il numero di contatti (anche mille al giorno), visto che il sito è decisamente specialistico. E' rivolto infatti a chi si occupa di politiche del territorio. I più assidui frequentatori sono certamente «urbanisti democratici», delusi però da come i partiti della sinistra hanno trattato in questi anni la questione ambientale. Il sito è curato da un piccolo staff coordinato da Eduardo Salzano che lo ha fondato alcuni anni fa per dare conto delle sue riflessioni e che via via si è arricchito del contributo di visitatori «regolari» e lettori «saltuari».

Salzano è un intellettuale molto noto specie tra gli urbanisti: docente allo Iuav, autore di esemplari strumenti di pianificazione, saggista, presidente dell'Istituto nazionale di urbanistica (da cui è preso le distanze in polemica sulla linea dell'Istituto ).

Eddyburg è uno strumento agile, quotidianamente e puntigliosamente aggiornato, senza mai cadere nelle trappole della supponenza e della noia. L'idea è che Eddyburg conosca (e assecondi) l'inclinazione dei suoi lettori a trovare, oltre le strettoie delle discipline della progettazione urbanistica e territoriale, spiegazioni e risposte al degrado dei luoghi a cui ha in buona parte contribuito una malintesa idea di sviluppo urbanistico e economico. L'obiettivo dichiarato del sito è dunque di offrire analisi e informazioni utili per la tutela dei beni comuni.

Ma la «redazione» del sito non nasconde di ampliare l'orizzonte del suo intervento, affrontando anche il nodo di come è organizzato lo spazio metropolitano, un argomento centrale nelle discussioni passate degli urbanisti e poi, pian piano, rimosso dalla discussione pubblica.

Il lavoro di Salzano ha contribuito a segnalare e a rafforzare alcune battaglie sui temi ambientali di primo piano (ponte sullo stretto di Messina , Mose a Venezia, coste sarde, autostrade padane ecc.), sempre in evidenza con informazioni tecniche che non eccedono nella pedanteria. Il proposito di potenziare il giornale, deciso anche sulla scorta del successo di pubblico, è una buona notizia: servirà non poco nei prossimi tempi per contraddire e contenere le pratiche di governo del territorio delle destre.

Ora è più chiaro, anche se c’erano pochi dubbi. Le brutte storie che tempestano i governi locali c’entrano molto con il governo del territorio, giacimento d’interessi grandi. Dietro ogni brutta storia si nasconde un guasto ai luoghi, una catena di alterazioni ai paesaggi, botte ai beni culturali. Se si tratta di reati si vedrà. Intanto i casi controversi si ampliano costantemente, come si è visto in questo scorcio del 2008, ma in modo occasionale e convulso si propongono all’opinione pubblica. Sono trattati dagli organi d’informazione a traino di una indagine giudiziaria, sull’onda curiosa di confuse intercettazioni, ma senza curarsi di spiegare il quadro, salvo lamentare genericamente la bruttezza delle città costruite in questi decenni. C’è grande attenzione alle decisioni che riguardano economia, sanità, giustizia, dalle quali certamente dipendiamo. Eppure sono scelte reversibili (lasciando strascichi serissimi, si capisce, e numerose vittime). Ma le scelte sbagliate che si riflettono nella forma del territorio, occorre riconoscerlo, sono più resistenti e direi irrimediabili.

La domanda che occorre riproporre, nello sfondo di fatti recenti, come quelli di Napoli, Firenze, ecc., è se nelle scelte i governi locali, anche quelli di sinistra, siano stati attenti a non cedere, oltre la soglia raccomandabile, agli interessi di pochi nel nome della modernizzazione. La risposta è agevole. Anche perché l’impressione è che nel frattempo le cose siano peggiorate proprio in linea con l’idea di mediare al ribasso su tutto. Che a qualche buon principio nei programma corrisponda la spregiudicatezza dell’ azione locale faidate è ormai evidente. Altrimenti non ti spieghi il discredito dei partiti. E rieccoci a discutere della superiorità morale della sinistra. Sempre meno sicuri, questa è una novità, che da destra non ci possa essere prima o poi un’attenzione inedita su questi temi. Non mi sorprenderei se accadesse.

Stare a sinistra ha significato per molti di noi la scelta di sostenere un progetto a vantaggio dei gruppi sociali più sfortunati a vivere meglio. E non per garantire l’interesse di pochi. Nell’epoca del craxismo si chiese che i vincoli morali fossero recisi di netto per andare spediti verso la liberta e la ricchezza, con spregiudicatezza e cinismo a volta riconoscibili negli atti amministrativi (quelli urbanistici si prestano assai). Ora si capisce quanto quel messaggio sia penetrato, fino ad incrinare la diversità di sinistra, nonostante Berlinguer e il suo richiamo all’austerità (non caso tempestivamente associato all’urbanistica nel titolo di un libro). Che quel messaggio sia sembrato troppo di sinistra soprattutto a sinistra?

Anche l'immagine è tratta dal giornale online il manifesto sardo, di cui consigliamo la lettura

Dalle intercettazioni telefoniche dell'inchiesta emerge anche il ruolo positivo dei «resistenti», consiglieri e dirigenti comunali, considerati dall'immobiliarista arrestato un ostacolo al raggiungimento dei propri obiettivi. Tra questi figura il consigliere del Pd Vincenzo Russo definito dall'ex assessore Di Mezza «un pazzo, inavvicinabile». Si è difeso per cinque ore dalle accuse l'imprenditore Alfredo Romeo, arrestato mercoledì scorso nell'ambito dell'inchiesta sugli appalti di Comune e Provincia di Napoli: «Non esiste alcun sistema Romeo, con gli assessori avevo solo rapporti istituzionali ».

Roberto Giannì, Enzo Russo e Sandro Fucito. Li definivano «matti, inaffidabili, rompiscatole» - Ad opporsi al presunto disegno criminale di Romeo ci furono alcuni consiglieri e tecnici del Comune di Napoli

NAPOLI — «Secondo me stiamo facendo tutto con prudenza. Poi se il segretario generale rompe il cazzo là, lo devi bloccare tu». A parlare è Alfredo Romeo, l'immobiliarista arrestato nell'ambito dell'inchiesta sugli appalti per il Comune e la Provincia di Napoli. Il suo interlocutore telefonico è l'(ormai ex) assessore al Patrimonio e manutenzione immobili Ferdinando Di Mezza, finito agli arresti domiciliari. Destinatario dell'invettiva, invece, probabilmente l'ex segretario generale del Comune Angelo Parla, ora in pensione, o forse il suo vice Vincenzo Mossetti, che ha sempre avuto un ruolo di primo piano all'interno della Segreteria generale. Comunque, una persona che dava fastidio.

Nella Napoli dove ci si ci vende per un piatto di lenticchie, dove per far chiudere un occhio o magari tutti e due a chi avrebbe il dovere di tenerli aperti può bastare una trasferta gratis ad una manifestazione all'estero, è bello apprendere che c'è anche chi dice no.

Dileggiati

Soprattutto, che c'è già stato chi non si è mostrato disponibile, compiacente, premuroso, addirittura prono di fronte alla sfacciata insistenza di Romeo. Anche i nomi dei "resistenti", di chi magari ha semplicemente compiuto il proprio dovere, di chi ha agito secondo coscienza sono rigorosamente annotati nelle seicento pagine dell'ordinanza che ha comminato le misure cautelari e che, al di là delle conseguenze giuridiche, offre uno spaccato non certo lusinghiero dei rapporti tra il palazzo (politici e tecnici) e il potentissimo imprenditore. Questi esempi positivi, per scelta etica ma spesso anche per caso, sono citati dallo stesso Romeo e dai suoi interlocutori telefonici, definiti con epiteti dispregiativi, considerati «pazzi» o «rompiscatole », proprio perché sollevavano obiezioni, ponevano questioni, pensavano, in altre parole perché erano fuori dal controllo della presunta associazione a delinquere. Un altro esempio è rappresentato dal consigliere comunale Vincenzo Russo del Pd, che viene tirato in ballo durante un'altra telefonata del 19 marzo 2007 tra l'immobiliarista e Di Mezza. Era la vigilia di una seduta della commissione che avrebbe dovuto esprimersi sul Global service. Di Mezza relaziona a Romeo sui componenti dell'organismo. «I nostri (della Margherita, ndr) — dice — è un guaio, perché ci sta Vincenzo Russo (...), eh ma Russo è proprio pazzo, è inavvicinabile».

Durante l'iter per la definizione dell'appalto per la concentrazione della gestione della manutenzione e refezione scolastica, sponsorizzato dall'allora assessore comunale Giuseppe Gambale, il gip evidenzia il tentativo «di sostenere una prevalenza funzionale dei servizi (manutenzione scolastica) rispetto alle forniture (distribuzione del cibo nelle scuole cittadine) benché nella specie l'importo da destinare alla manutenzione degli edifici scolastici fosse pari a 6 milioni di euro mentre quello da destinare ai pasti ammontasse invece a ben 20 milioni di euro».

Il rifondarolo

Ebbene questo disegno aveva degli oppositori. Tra questi «Alessandro Fucito, assessore comunale di Napoli (di Rifondazione comunista, ndr) che non mancava di denunciare anche pubblicamente, con inequivoche interviste rilasciate ad organi di stampa locali, il progetto dell'assessore Gambale».

Tanti dubbi

Ma è lo stesso Fucito a raccontare il perché della sua contrarietà all'accentramento in un unico soggetto della manutenzione scolastica e della fornitura di cibo alle scuole. «Quel progetto — chiarisce il consigliere in una dichiarazione resa ai pm — destava le mie perplessità anche per un'altra ragione: si assumeva la prevalenza dei servizi rispetto alle forniture, nonostante che l'importo da destinare alla manutenzione fosse di gran lunga inferiore rispetto alla fornitura dei pasti. Ed inoltre trovavo anomalo che a decidere non fossero i consigli municipa-li, a mio parere gli unici organi competenti. Infatti, non erano sufficienti, ritengo, i pareri favorevoli dei presidenti delle municipalità espressi con la sottoscrizione di quel protocollo. Infine ritenevo che la ditta aggiundicataria non sarebbe stata in condizione di fornire pasti di qualità adeguata, in considerazione dell'elevata qualità da fornire».

Dirigente onesto

Un altro osso duro si è rivelato il dirigente del dipartimento di pianificazione urbanistica del Comune di Napoli Roberto Giannì, il cui nome ricorre spesso nelle intercettazioni e nelle parole del gip. In particolare, Romeo manifesta senza mezzi termini, e in più riprese, il suo fastidio per l'atteggiamento del dirigente a Roberto Mostacci, consulente dell'Anci al quale «sarebbe stato affidato l'incarico da parte del Comune di redigere un documento per la gestione e il recupero degli edifici pubblici a scopo residenziale, di proprietà comunale». Un primo riferimento risale al 19 aprile. «Secondo me — si sfoga Romeo — abbiamo fatto una cazzata, per accontentare quel coglione di Giannì abbiamo inserito questa cosa senza dare evidenza, ma praticamente è caduto il movente principale dell'intera operazione». Cinque giorni dopo un'altra sparata, sempre con Mostacci. «Ma io,— tuona l'immobiliarista — mi sono rotto il cazzo , provvedere di pensare, è che tutto sia subordinato a Giannì. Ma facesse quello che cazzo vuole lui, io non ci sto, se non ci devo stare non ci devo stare, non ci sto».

Zona grigia

Ma in alcuni casi l'attività di resistenza si rivela solo strumentale. Lo si deduce da altre intercettazioni che spingono il giudice a conclusioni sconfortanti. «Di qui — si legge — l'ennesima amara conferma sulle modalità di gestione della cosa pubblica: l'opposizione politica ad un progetto lungi dall'essere sussumibile nella fisiologica dialettica delle parti, ad altro non mira che al perseguimento di utilità o profitti per la parte rappresentata e viene tacitata attraverso la promessa di soddisfare quella determinata esigenza». Siamo, in questo caso, in una zona grigia, in una sorta di terra di mezzo, dove l'etica lascia puntualmente il posto alla convenienza, dove la prospettiva di poter vantare un credito diventa l'argomento più convincente in grado di neutralizzare anche l'ultimo sussulto della coscienza.

In bicicletta Roberto Giannì, direttore del dipartimento di Pianificazione urbanistica del Comune di Napoli

Eccolo il candidato presidente della Sardegna: si chiama Ugo Cappellacci. Quarantotto anni, è nato sotto il segno del Biscione.

«Sagittario, precisiamo».

Ugo è figlio di Giuseppe Cappellacci, commercialista molto noto a Cagliari, curatore dei tributi e delle sette ville berlusconiane sull´isola. Ugo ha ricevuto in dote dal papà lo studio commerciale e l´amicizia di Silvio.

«Mi ero appena diplomato al liceo e già varcavo il cancello di Arcore. Ho una frequentazione antica col presidente al quale sono legato da affetto autentico».

Il presidente l´ha incoronata: dunque sfiderà Soru.

«Cinque mesi fa era una prospettiva fuori dalla mia portata».

Cappellacci, un bel cognome sardo.

«Sardi da almeno tre generazioni, glielo assicuro».

Trasparente e volitivo.

«Lo dicono in tanti».

L´ha detto Berlusconi.

«Ah! Ehm, ritengo di essere soprattutto affidabile».

Senza i grilli di Floris per la testa (sindaco di Cagliari e mancato candidato ndr).

«Con Floris abbiamo appena tenuto una bellissima conferenza stampa. Grande comunione d´intenti, e se ci sono stati attriti già sono alle nostre spalle».

Dottor Cappellacci: si rende conto di essere un fior di raccomandato?

«Mi sta dicendo che sono figlio di papà?»

Esattamente.

«Ho goduto delle relazioni di mio padre, non sarei sincero se lo negassi. Penso comunque di aver dato prova delle mie capacità, della voglia di innovare, di costruire qualcosa per la mia Isola, dell´onestà».

Assessore per cinque mesi in Regione, poi trasferito di peso al comune di Cagliari. Quindi nominato coordinatore di Forza Italia.

«L´impegno, la dedizione, la profonda fede nella cultura dell´innovazione».

Parla già da sperimentato uomo politico.

«Alcune paroline tendono a scapparmi di bocca».

Vorrebbe aprire un tavolo, per esempio.

«Aprire il tavolo: adesso che mi ci fa pensare, credo di averlo detto anch´io».

È impossibile aprire un tavolo, vero?

«La politica consegna un vocabolario diverso. Io provengo dalla società civile e là vorrei ritornare».

Ma ha fatto di tutto per lasciarla.

«In cinque anni mi è cambiata la vita».

Quanta carriera!

«Non lo nego. E tante altre cose vorrei ancora fare».

Ha meno di due mesi di tempo per farsi conoscere dai sardi.

«Sarà un´impresa dura».

Berlusconi dovrà accompagnarla mano nella mano.

«Stasera vado da lui e parliamo di queste cose».

Speriamo che trovi il tempo.

«Sarebbe un guaio altrimenti».

Vedrà, sarà bellissimo: ad ogni angolo di strada le adagerà lo spadone della libertà sulla spalla.

«Tutto il movimento ha investito tanto su questa candidatura».

Anche soldi.

«Penso di sì».

Servirà pure un suo assegnino, un gesto personale gradito.

«Non mi tirerò indietro».

Ci mancherebbe.

«Ci mancherebbe».

In effetti ha promesso di dare fondo a tutte le sue risorse.

«Fisiche. Ho famiglia anch´io!».

Un appunto, se mi è permesso.

«Prego».

Va in giro troppo spesso senza cravatta. Lei sa che a Berlusconi?

«?ma la cravatta è la compagna della mia vita. Blu, camicia bianca (o anche celestina) e un bel completo blu a dare forma e tono. Solo che a volte stufa».

È pure pelato.

«Avevo un bel caschetto biondo. Purtroppo è andato via».

Peccato.

«Peccato, sì».

Lui, comunque, fa miracoli.

«Sto per andare proprio da lui».

«TUTTO ciò che è improvviso è male, il bene arriva piano piano». Così pensava nella sua saggezza Mendel Singer, l’impareggiabile "Giobbe" di Joseph Roth. Magari ne serbassero memoria gli israeliani, esasperati da un assedio senza fine ma tuttora accecati dal mito della guerra-lampo risolutiva che nel 1967 parve durare sei giorni appena e invece li trascina, dopo oltre 41 anni, a illudersi nuovamente: bang, un colpo improvviso bene assestato, e pazienza se il mondo disapprova, l’importante è che il nemico torni a piegare le ginocchia.

Solo che al posto dei fanti straccioni del panarabista Nasser ora c’è l’islamismo di Hamas e Hezbollah. Al posto del generale Dayan e del capo di stato maggiore Rabin, c’è il ministro Barak, pluridecorato ma già politicamente logoro. E alla guida provvisoria del governo c’è un dimezzato Olmert che non crede fino in fondo in quel che fa, dopo aver condiviso negli ultimi anni l’autocritica strategica di Sharon.

Il bene arriva piano piano. Tutto ciò che è improvviso è male. Non sono massime buone solo per deboli ebrei diasporici come quel Giobbe di un’Europa che non c’è più. È la sapienza antica d’Israele che ci ammonisce ? da Davide e Golia in poi ? come la superiorità militare non basti a dare sicurezza. Perché la forza non è tutto, anzi, può trascinare alla sconfitta le buone ragioni.

Tre minuti di bombardamento micidiale preparati da mesi di lavoro d’intelligence possono schiacciare l’apparato visibile di Hamas ma non disinnescano il suo potenziale offensivo clandestino. Così i minuti si prolungano in giorni, mesi, anni. Seminando un odio tale da rendere sempre meno probabile che tra i palestinesi recuperi legittimità la componente moderata dell’Anp, destinata a soccombere dopo Gaza anche in Cisgiordania.

Il risultato sarà un Israele che riesce a mettersi dalla parte del torto e del disonore pur avendo ragione nel denunciare la sofferenza delle sue contrade meridionali bombardate e, di più, la ferocia del regime imposto dagli sceicchi fondamentalisti alla popolazione di Gaza che tengono in ostaggio con la scusa di proteggerla. La competizione elettorale israeliana del prossimo 10 febbraio non offrirà più l’alternativa del 2005: di qua la coalizione che prospettava la pace in cambio di sacrifici territoriali, di là l’oltranzismo di chi considera gli arabi capaci d’intendere solo le bastonate. Ora tutti i contendenti gareggiano nel mostrarsi inflessibili, a costo di sacrificare le trattative con l’Anp e la Siria. L’opinione pubblica si rassegna all’inevitabilità della guerra, ma non per questo ritrova fiducia e combattività. All’indomani dell’attacco riaffiorano le divisioni. Gli stessi celebri scrittori, rappresentativi di un’intellighenzia minoritaria, dapprima hanno confidato che la rappresaglia di Tsahal rimanesse limitata, ma ora già chiedono un cessate il fuoco. Sono i primi ad avvertire, nel loro profetico distacco dalla politica, come il disonore possa trascendere nella perdizione d’Israele. Esprimono il malessere di una comunità frantumata cui riesce sempre più difficile riconoscersi in una cultura nazionale unitaria.

L’affievolirsi della solidarietà esterna costringe Israele a guardarsi dentro, sottoponendo a autoanalisi pure le sofferenze indicibili, come il trauma della generazione ebraica sterminata. Si misurano i danni dell’ultimo lascito velenoso di Hitler, cioè il transfert nelle generazioni successive dei "sopravvissuti per procura". È il richiamo terribile con cui scuote Israele l’ex presidente del suo parlamento, Avraham Burg: non hai un futuro di nazione come "portavoce dei morti della Shoah"; noi dobbiamo diventare altro che un’insana, dubbia rappresentanza delle vittime. Il nostro futuro pensabile è di compenetrazione con l’Oriente nel quale di nuovo gli ebrei provenienti da regioni lontane si sono fra loro mescolati; è di relazione con le altre vittime di questa terra.

Perfino l’unico obiettivo politico realistico - due popoli, due Stati - come notava ieri Bernardo Valli, viene rimesso in discussione da un orizzonte storico in cui si registra il declino parallelo dei due nazionalismi (sionismo e panarabismo) in lotta da un secolo. Quanto al rimpianto per le innumerevoli occasioni perdute, la guerra lo confina in un ambito letterario e cinematografico. Si legga il bel romanzo dell’ebreo irakeno Eli Amir, immigrato in Israele nel 1951, Jasmine (Einaudi). Racconta l’incapacità di trarre frutto dalla consuetudine con gli arabi degli ebrei orientali, che pure sarebbe stata preziosa quando si cercava una soluzione per i territori occupati nella guerra-lampo. Invano zio Khezkel, reduce da una lunga detenzione per sionismo nelle prigioni di Bagdad, liberato dopo la vittoria del 1967, cerca di convincere una platea laburista di Gerusalemme: "Noi dobbiamo prestare ascolto al loro dolore, non ignorare la Nabka, la loro tragedia, ricordare che anche loro hanno una dignità. Dobbiamo ricordare che il debole odia il forte e chi oggi è sull’altare domani potrebbe ritrovarsi nella polvere". La leadership ashkenazita non poteva intendere l’appello di zio Khezkel, i giovani gli danno del codardo.

Mi ha fatto impressione domenica sera vedere al telegiornale il migliaio di musulmani convenuti di fronte al Duomo di Milano per pregare Allah dopo il bombardamento di Gaza. Ho ricordato la notte del 1982 in cui, per protestare contro la strage di Sabra e Chatila, ci ritrovammo in quella piazza arabi ed ebrei insieme, laicamente, non certo a genufletterci verso la Mecca. Oggi pare impossibile, costretti ad appartenenze irriducibili da un fondamentalismo che inferocisce la guerra nei suoi connotati religiosi. Hamas all’epoca non esisteva. Nasceva in Israele il movimento "Pace adesso" che avrebbe spinto al dialogo con i palestinesi. La rivoluzione iraniana degli ayatollah, nei suoi primi tre anni di vita, non era ancora riuscita a contagiare d’odio (suicida) l’islam globale.

Oggi viviamo il pericolo di un conflitto che si estende e si assolutizza dall’una all’altra sponda del Mediterraneo, bersagliando Israele come tumore da estirpare. Distruggere Hamas, cioè l’islam fondamentalista penetrato fino a immedesimarsi nella causa nazionale palestinese, appare obiettivo difficilissimo da conseguire. Dubito che il governo di Gerusalemme, dichiarandolo, creda davvero che sia questa, chissà perché, la volta buona. Il rischio, al contrario, è che si consegni all’obbligo di combattere una guerra senza fine.

Solo qualche settimana fa Ehud Olmert , un leader che non ha più niente da perdere e quindi s’è preso la libertà di dire le verità scomode, raccomandava ben altro futuro agli israeliani. Dobbiamo ripensare ciò in cui abbiamo creduto per una vita, anche se è doloroso. Rinunce territoriali, un lembo di Gerusalemme capitale palestinese. Olmert ha usato perfino una parola terribile, "pogrom", per sanzionare le violenze messe in atto dai coloni contro i palestinesi di Hebron. Era prossimo a raggiungere un accordo con la Siria quando Hamas, rompendo la tregua e scatenando l’offensiva missilistica, ha trascinato l’establishment israeliano nella coazione a ripetere di questa guerra dei cent’anni.

Spero di sbagliarmi, ma temo che i più entusiasti sostenitori dell’operazione "Piombo Fuso" saranno i primi a squagliarsi, quando si avvicineranno le ore fatali d’Israele.

Milano "conosciuta sulle gambe", battuta palmo a palmo, notte per notte. Milano "dove la vita c’era sempre", nelle trattorie e nei crocicchi di strada, nei circoli e nelle case accese dalla politica, nei suoi teatri febbrili. Nel minuscolo Gerolamo (ora defunto) cantò la Piaf, alla Magolfa mangiavano Fortini e Vittorini, al Giamaica andava a bere e giocare a carte chiunque rifiutasse di finire la notte dormendo nel suo letto.

"Sono anche io un luogo di Milano", dice di sé Ivan Della Mea, cantautore, scrittore, intellettuale, etnomusicologo, agitatore politico, sessantottino non senza essere stato anche cinquattottino e forse quarantottino, ex presidente della più grande e bella bocciofila per anziani dell’universo (l’Arci-Corvetto), campione di scopa, perdigiorno e perdinotte. Come quasi tutti i milanesi significativi - Jannacci, Celentano, Gaber, Fo, Walter Chiari - immigrato nel dopoguerra, prima da Lucca poi da Bergamo. Circola quasi come un samizdat, nella semiclandestinità in cui il mercato ha relegato tanti scampoli d’arte, di memoria, di ostinata differenza, una sua notevole antologia-biografia (Antologia, Ala Bianca, euro 14,90): un cidì con molte delle sue canzoni più importanti, in dialetto e in lingua, e un magnifico divudì, realizzato da Isabella Ciarchi, che quasi strappa il cuore per quanto riesce fortemente a rivivificare la Milano dal dopoguerra fino ai Settanta, quella dove Della Mea crebbe e "cantò la classe".

La classe era il popolo, allora non solo integro mito della sinistra, ma carne della città, e lingua viva. Ivan, nel solco di ricercatori come Gianni Bosio e Roberto Leydi e degli artisti del Nuovo Canzoniere, è artista militante in senso fisiologico prima che ideologico. Raccoglie la voce del popolo, la frequenta, la vive, non ha bisogno di tradurla perché la esprime naturalmente come esperienza propria. Gli capita di dormire sulle panchine come sui divani della borghesia rossa, e mentre Eco e Leydi discutono della sua maniera di cantare (con una "attiva indifferenza all’intonazione", dice il musicologo Luigi Pestalozza) lui riposa le ossa, finalmente al caldo, nella supersignorile via Cappuccio.

Nelle sue ballate, specie se riascoltate adesso, impressiona la spontanea con-fusione tra il dibattito politico della sinistra di almeno un paio di epoche (dalla rivoluzione cubana agli anni di piombo) e l’epica di strada, libertà e violenza, emarginazione e sogno, una easy rider urbana e navilica, gatti e affamati, matti e operai, scioperanti e orfani di qualche amore. Quasi scioccante, con il senno di poi, è questa convivenza tra scrittura e popolo, tra intellettuali e classe. Più ancora della nostalgia per quella città insonne a austera, ben più creativa allora piuttosto che quando divennero di moda i "creativi", ascoltando Della Mea, le sue canzoni, il suo racconto ragionato, viene da pensare che la vera perdita - secca, irrimediabile, davvero epocale - è proprio il rapporto tra sinistra e popolo. Una luce zavattiniana illumina il tragitto "di classe" di Della Mea, un saldo e caldo vincolo tra chi pensa e chi lavora, tra lo sbocco politico e la gente di fabbrica e di strada che lo alimenta. Utopia, sì, e populismo forse: ma che abbia perduto, la sinistra nostra coeva, quel profondo tramite di carne, quell’anima di strada, di popolo, di rabbia attiva (non la mugugnante e depressa rabbia di adesso), è un fatto. Eccome.

La distanza abissale, ormai neanche più dolorosa per quanto lungo è il tempo passato, tra quella Milano e quella sinistra, e questa Milano e questa sinistra, descrive perfettamente ciò che chiamiamo il "declino della politica". La sua perdita di giovinezza, il suo ritrarsi impaurita dal territorio, come qualcuno che non esce più di casa per paura di non reggere l’impatto con il sociale, con i paesaggi mutati, con gli umori imperscrutabili del popolo domato dalla televisione, e fatto a fette dai sondaggi.

Per vie traverse, e certamente intellettuali (Elio Vittorini) il giovane Della Mea ebbe in regalo un cappotto appartenuto a Hemingway. Prima di regalarlo a sua volta, lo trascinò per osterie e partite a carte, perché "alto" e "basso" non avevano neanche il tempo di definirsi, tanto intensa e promiscua era la vita "di classe" di quegli anni. Oggi gli intellettuali milanesi si vedono solo tra loro, il censo e più ancora la stanchezza levano la voglia di misurarsi in campo aperto con la città, se non nelle accademie e nei salotti dove la città è poco più di un grafico sul quale discettare. E certamente non esiste più neanche "il popolo", men che meno la classe, e niente è peggio, per un eventuale neo-populista, che frequentare i localini glamour, zeppi di fichetti e fichette, che hanno preso il posto delle trattorie, delle taverne, delle bocciofile. Ma qualunque cosa esista, là fuori, ci vorrebbe un giovane Della Mea che provasse a raccontarcela, e prima di raccontarla, come è buona prassi, a viverci in mezzo fino al collo.

Con una suggestiva immagine notturna, sul manifesto del 20 novembre, Rossana Rossanda così rappresenta l’afasia attuale delle « sinistre critiche» di fronte alla crisi economica mondiale:« sembriamo il gatto nella notte, abbacinato dai fari di un camion di cui preconizzavamo l’arrivo ma che ci prende di sorpresa.» E’ una amara constatazione, che descrive una condizione generale, non solo italiana. Ma è anche un’esortazione ad afferrare il momento, a utilizzarne le potenzialità. Oggi chi ha voce pubblica( sindacati, partiti) si limita ad alzare la posta delle rivendicazioni immediate in termini di misure di soccorso congiunturale destinate alle famiglie e ai ceti popolari. Chiede un pò di più rispetto a ciò che governo e ceto imprenditoriale sono disposti a dare. E’ dunque una voce che rimane timidamente dentro l’orizzonte del presente disordine del mondo. Eppure la portata della crisi è di tale ampiezza e radicalità da reclamare apertamente nuove architetture istituzionali, nuovi strumenti permanenti con cui rovesciare o quanto meno raddrizzare le inique gerarchie che hanno condotto alla catastrofe presente. Perché questa crisi è figlia primogenita delle iniquità con cui il capitalismo tardonovecentesco ha plasmato la società mondiale, non solo l’esito di un imbroglio finanziario, come credono le menti semplici.

Ma occorre intervenire ora - mentre colossi economici e finanziari, che hanno spadroneggiato per decenni, implorano il soccorso pubblico - perché la politica possa riprendersi quel potere di regolazione che essa stessa ha ceduto ai privati nel trentennio del delirio neoliberista. Del resto, proprio il New Deal messo in campo da Roosevelt negli anni della Grande Crisi – oggi così ripetutamente richiamato a proposito dei programmi presidenziali di Obama – fu tutto un fiorire di nuove istituzioni che spostarono decisamente il potere a favore della classe operaia, dei ceti popolari, dei sindacati. E stupisce non poco oggi riscoprire la creatività progettuale del capitalismo di allora di fronte all’opaca e spenta gestione quotidiana dei dirigenti dell’Unione Europea. I quali testimoniano desolatamente quanto il conformismo totalitario del pensiero unico abbia lavorato nelle menti dei nostri contemporanei. Ricordo che nel 1933, in un ramo del Parlamento USA, venne approvata la legge che istituiva le 30 ore di lavoro settimanale, poi accantonata per le pressioni padronali. Ma nel 1938 divenne legge definitiva il Fair Labor Standard Act, che introduceva le 40 ore. Una conquista che si estenderà all’Europa del dopoguerra. Così come si estenderanno gran parte delle istituzioni fiorite negli anni della crisi e che regaleranno all’Occidente la stabilità e la prosperità del primo ventennio postbellico.

Ebbene, oggi è il momento del lavoro, del suo riscatto. Rammento che negli ultimi decenni una delle più grandi rivoluzioni tecnologiche dei tempi moderni, l’informatica, è andata quasi tutta a vantaggio del capitale. Una gigantesca sostituzione di lavoro vivo che in altre condizioni storiche poteva tradursi in una progressiva riduzione dell’orario di lavoro, in liberazione sociale, in un assetto più avanzato delle società industriali, si è trasformato nello strumento di una inedita oppressione antioperaia. Ristrutturazioni, subcontratti, outsourcing, flessibilità, delocalizzazione, tutti gli strumenti della nuova organizzazione industriale resa possibile dall’informatica sono stati usati nell’ultimo trentennio per rendere più produttivo il lavoro e più emarginata la classe operaia. La nuova mobilità è servita a rendere più completa e lacerante la divaricazione segnalata da Ulrich Beck, tra la «mobilità globale del capitale» e il vincolo locale del lavoro. E tale squilibrio, la possibilità del capitale di giocare sui grandi spazi planetari per collocare le imprese, non solo gli dato la possibilità di utilizzare a man bassa la forza-lavoro sindacalmente più indifesa nei Paesi poveri. Ma gli ha consentito di tenere puntata alla tempia dei lavoratori dell’Occidente la pistola della minaccia del licenziamento. Gli operai sono stati così messi in un angolo, costretti ad accettare di volta in volta tutte le condizioni che l’avversario decideva di imporre all’interno di un agone intercapitalistico sempre più aspro. Ma la mortificazione e l’impotenza dell’avversario storico non ha solo compresso gli standard salariali, e quindi la domanda. Essa ha ridotto drammaticamente quel grande regolatore delle società industriali che è stato il conflitto operaio, la sua spinta redistributiva di reddito, potere, capacità di controllo, spazi di libertà. Sulla scena sociale non ci sono stati più due contendenti, ma un dominatore incontrollato. L’arroganza distruttiva del capitale, negli ultimi decenni, è incomprensibile al di fuori dell’emarginazione storica della classe operaia e delle sue organizzazioni.

Oggi, si può incominciare a voltare pagina. Si può ad esempio regolamentare la delocalizzazione. Non certo con misure di protezionismo nazionale. Queste sono le vie che normalmente vengono scelte dai liberali, quando la realtà rende difficile la coerenza del loro pensiero. Essi infatti osannano la libera circolazione del danaro e delle merci , ma quando a muoversi sono le persone si rammentano dell’esistenza dei confini nazionali. E accade facilmente che chi viene da un altro Paese, se non si presenta come forza-lavoro immediatamente utilizzabile, cioè come merce, viene bollato come clandestino. Al contrario, noi non abbiamo dimenticato l’esortazione e la sfida della chiusa del Manifesto dei comunisti, «proletari di tutto il mondo unitevi». Le soluzioni sono globali, l’avvenire è cosmopolita. E allora lo strumento regolatore potrebbe essere un organismo internazionale in cui si stabiliscono degli standard universali relativi a salario minimo, orario giornaliero, protezioni, condizioni di lavoro, ecc. I vari Stati riuniti nell’organismo internazionale dovrebbero impegnarsi a conseguire queste condizioni di tendenziale parificazione, modulata ovviamente sulle diverse condizioni economiche dei loro rispettivi Paesi. Una sorta di Protocollo di Kyoto applicato al lavoro o, se vogliamo, l’equivalente del WTO, che oggi regola la «libera» circolazione delle merci.

Oggi gli Stati inviano in quest’organismo i loro rappresentanti per regolamentare la circolazione mondiale delle loro produzioni. Non dovrebbero poter inviare i rappresentanti dei lavoratori che quelle merci producono con il loro lavoro quotidiano ? Certo, non è semplice. La diversità delle singole situazioni nazionali è grande. Ma è semplice il Protocollo di Kyoto, naviga senza tempeste l’imbarcazione del WTO ? E tuttavia non debbono sfuggire i potenziali vantaggi che ne seguirebbero, per i lavoratori del Sud, ma anche per quelli delle società postindustriali. Anche quella sorta di « guerra intercapitalistica» (J.Ziegler) che è diventata la competizione mondiale ne verrebbe calmierata. E gli operai di tutto il mondo avrebbero un organo universale di rappresentanza a cui rivolgersi, unificando così, tendenzialmente, su scala planetaria, le loro aspirazioni rivendicative, il loro sentirsi parte non marginale ma decisiva nel processo di produzione della ricchezza mondiale.

La direzione del partito democratico ha retto bene allo shock. Con una relazione del Segretario non reticente e ben motivata. Con un dibattito serrato e dignitoso. Tento di individuare quelli che a me sembrano i nodi cruciali emersi in quel dibattito.

Il primo riguarda, ovviamente, la "questione morale". Non si tratta della replica di "mani pulite". Quella riguardava il finanziamento dei partiti a partire dal loro centro e si diramava nelle loro articolazioni. Il partito socialista ne fu la principale vittima. Era stato investito da una ondata di immorale volgarità prima, e fu travolto poi dalla "vendetta fraterna" comunista. Questa attuale nasce alla periferia del sistema, nelle amministrazioni regionali e comunali che hanno accumulato, specie in alcuni settori, come quello sanitario, un enorme potere autonomo, gestito in modo arbitrario e incontrollato da dirigenti di partito locali. È il problema che Scalfari denuncia, ricordando Berlinguer, dell´invadenza dei partiti nella società, il quale va affrontato in due modi: recidendo i conflitti di interesse tra responsabilità politiche e gestioni amministrative, restituite alla normale selezione professionale; e esercitando all´interno del partito una rigorosa selezione morale nella scelta dei propri dirigenti. Mi pare che il problema sia stato posto correttamente in questi termini. Ma, come si dice, the proof of the pudding is in the eating: per sapere se la minestra è buona bisogna mangiarla.

Il secondo è il problema dei rapporti tra giustizia e politica: che si condensa ma non si esaurisce per il Pd nei rapporti con un alleato scomodo. È essenziale per i democratici distinguere nettamente la legalità dal giustizialismo. Nel furore delle tricoteuses, quelle storiche e quelle contemporanee, c´è sempre stato il germe di un autoritarismo di sinistra, simmetrico a quello populista di destra. Qui, la questione è rimasta sospesa a metà.

La terza è la questione socialista europea. Il partito democratico si afferma europeista e riformista. Ora, la sinistra riformista europea si identifica essenzialmente con lo schieramento socialista. I partiti socialisti europei comprendono in grande parte, anche quelle istanze di riformismo liberale e cristiano che in Italia rivendicano una loro rappresentanza autonoma. E accettano di riconoscerle in una ridefinizione ampliata del gruppo socialista nel Parlamento europeo. Al rischio di morire socialisti corrisponde, per gli irriducibili che si oppongono anche a questa soluzione, quello di morire in un poco splendido isolamento in Europa. La questione non è stata risolta.

La questione federalista. C´è chi rimpiange, secondo me a ragione, che l´unità d´Italia sia stata compiuta non nel segno del federalismo di Carlo Cattaneo, e, aggiungo io, neppure in quello dell´unità repubblicana di Giuseppe Mazzini, ma in quello dell´annessionismo sabaudo. La storia non ammette repliche. Ma correzioni e riforme, sì. Ora, la peggiore riforma sarebbe quella di un federalismo separatista, ridotto al tema della ripartizione della fiscale: mentre l´essenza del federalismo sta in un patto nazionale unitario, da cui derivare spazi di autonomia, e impegni di solidarietà. Mi sembra che questa sia la posizione prevalente nel Pd. Ma sono emerse anche tentazioni di istituire sub-partiti territoriali, fatti apposta per complicare con nuove strutture di accentramento intermedio la già complicata rete di comunicazione interna.

La questione mercatistica. È stata unanimemente riconosciuta la natura strutturale di quella che appare sempre più una crisi capitalistica mondiale. Ma a questo riconoscimento non segue l’impegno a una risposta di livello corrispondente: e ciò non riguarda solo il Partito democratico, ma tutta la sinistra. Si chiede oggi allo Stato, soprattutto da quelli che lo denunciavano non come la soluzione ma come il problema, di risolvere il problema, pagando il conto della crisi per poi togliere subito il disturbo. Poiché questi squilli non si odono solo a destra, ma anche a sinistra è lecito chiedere al partito democratico se, oltre all’intimazione di non morire socialisti, sia anche previsto l’impegno a vivere liberisti. Oppure prevalga la autentica risposta riformista: un mercato davvero libero (da monopoli e da corporativismi) in uno Stato non gestore ma programmatore. Una risposta sembra rinviata alla prossima Conferenza programmatica del Pd.

La questione laica. Il conflitto tra popolari e socialisti, che ha radici storiche, ha strascichi perduranti nel partito democratico. L’offensiva integralista della Chiesa di Benedetto XVI non è fatta per attenuarli. Non saranno definitivamente superati se non sarà chiara la distinzione tra questioni attinenti alla morale religiosa, sempre oggetto di doverosa attenzione, e comandamenti del Vaticano inammissibili dalla sovranità nazionale. La questione è ancora aperta.

C’è infine il problema del rapporto con l’opposizione. Da tante parti si leva il monito a smetterla con l´antiberlusconismo. Bisogna chiarire. Se per berlusconismo s´intende la vulgata macchiettistica (corna, barzellette, gallismo) la si può impunemente relegare nel folklore. Ma l´essenza del berlusconismo sta nel gigantesco intreccio di potere (non semplice conflitto di interesse) tra pubblico e privato. Questo è un pregiudizio fondamentale della democrazia che è colpa gravissima della sinistra di avere a suo tempo trascurato. È un problema aperto. Anche e soprattutto per il partito democratico.

Stefano Rodotà, giurista dal cursus honorum sterminato, ricorda bene «Tangentopoli». All'inizio degli anni '90 era presidente del Pds, il «partito nuovo» di allora.

Più che di scuse a Craxi - dice con una battuta seria - suggerirei al Pd di chiedere scusa a Berlinguer».

Per non aver visto la centralità della «questione morale»?

Certamente. Chiedere scusa a Craxi vuol dire che tanto siamo stati tutti uguali. E invece vorrei suggerire alla sinistra che Berlinguer la caduta drammatica della moralità pubblica l'aveva vista come uno dei grandi problemi politici della società italiana. Ora sulla politica di Berlinguer si possono dire molte cose, tuttavia aveva cercato di far diventare un fatto politico la consapevolezza della diversità di un partito e della sua pratica amministrativa.

Una consapevolezza, dice, che si è persa?

Negli anni '90 quando venne fuori «mani pulite» io ero presidente del Pds. Nel marzo 1991, un anno prima dell'arresto a Milano di Mario Chiesa, scrissi una prefazione molto dura a un libro di Gianni Barbacetto ed Elio Veltri intitolato «Milano degli scandali». Scrivevo che quelle cronache di ordinaria corruzione riflettevano non la patologia ma la fisiologia dell'intero sistema politico-amministrativo dell'Italia repubblicana. Lo ricordo perché allora i leader del Pds milanese mi denunciarono alla commissione di garanzia presieduta da Chiarante, che ovviamente gli diede una bella lezione. Il mio ultimo atto politico prima di dimettermi da presidente del Pds fu la proposta al partito di convocare le assise contro la corruzione. Un appuntamento in cui affrontare il tema frontalmente e pubblicamente. Lo feci non perché ritenessi il Pci-Pds prigioniero di quella logica corruttiva che pure l'aveva ferito in punti nevralgici come Milano e Torino, ma perché ritenevo che quello era un tema politico di prima grandezza, che doveva diventare l'asse portante dell'allora nuovo partito. La proposta fu respinta, Occhetto chiese scusa per le deviazioni di alcune amministrazioni e la partita finì lì.

E' una proposta che oggi rinnova al Pd?

Assolutamente sì. Come dicono in America, «la luce del sole è il miglior disinfettante». In tutti questi anni i pericoli erano chiari, nonostante chi li denunciasse, per esempio Diego Novelli, venisse denunciato come moralista. I mali sono chiari: la progressiva cancellazione dei partiti, la trasformazione della democrazia in un'oligarchia ristretta, fatta di gruppi che negoziano tra loro e con il mondo degli affari in un connubio che ha infettato tutto. Invece il rapporto con il mondo degli affari non può avvenire a scapito di una trasparenza assoluta, di una moralità pubblica impeccabile e della consapevolezza che la politica non si affida al gioco reato-non reato. I reati esistono ma ci sono comportamenti che senza essere reati sono inammissibili per un politico.

Per esempio?

Ma guardi, ormai è la regola. Non si possono più offrire coperture, il tema della moralità pubblica è un grande tema politico ed è il fondamento capitale della politica. Segna un campo. Anche se ovviamente non tutto il corpo politico è infettato, un'ondata di arresti come questa non è mai accaduta nella sinistra. Dopo una lenta deriva alla fine ci siamo.

Pensa che faccia parte della moralità politica dimettersi in caso di sconfitta come accade in tutto il resto del mondo? Lo dico a destra e a sinistra.

Un establishment politico sa che sopravvive finché ha la fiducia dei cittadini. Perché negli Usa ci si dimette per una colf irregolare o per una leggera infedeltà fiscale quando in Italia tutto il centrodestra ha difeso un ministro come Cesare Previti? Questi sono i comportamenti con cui un ceto politico diventa una casta invisa ai cittadini.

Ma in fondo per la sinistra non dovrebbe essere più facile essere diversi da uno come Berlusconi?

Penso di sì. Invece in questi anni c'è stato troppo timore a prendere le giuste distanze da un certo modo di fare politica. Ha preso il sopravvento l'idea che si dovesse essere «pragmatici». Ed era inevitabile che questa logica scoppiasse di fronte a debolezze personali o dove il controllo democratico è più debole. Le oligarchie sono autoreferenziali per definizione. Parlare di moralità non è moralismo. Ora serve una reazione forte.

Ma non c'è un nesso tra la crisi morale e la crisi di contenuti di questo Pd?

La cattiva politica è sempre figlia di cattiva cultura. Con la resa all'ideologia del turbocapitalismo poi c'è stata una caduta verticale. Quando si è pensato che una certa forma di diversità comunista dovesse essere sottoposta a revisione radicale si sono buttati via anche tutti quegli aspetti di solidarietà, moralità, trasparenza e modestia dei costumi che le si accompagnavano.

Professore, non le sfugge che l'ennesimo scontro tra politica e giustizia è una tentazione forte per portare a termine le riforme contro la magistratura.

Negli anni Berlusconi ha portato avanti un attacco alla magistratura mettendo sempre in secondo piano il tema dell'efficienza della giustizia e la tutela della legalità. Ma sono questi i veri problemi dei cittadini. E garantirli non ha nulla a che fare con i veleni del dibattito politico come la separazione delle carriere e l'obbligatorietà dell'azione penale. Certamente: tra i giudici ci sono sempre stati atteggiamenti scorretti. Già durante il terrorismo ci battemmo da garantisti contro certi teoremi assurdi e contro metodi discutibili usati dalle procure. La stessa Magistratura democratica è figlia di quella stagione. Ma l'abbiamo sempre fatto con critiche puntuali e non ci siamo mai sognati di mettere a rischio l'autonomia e l'indipendenza della giustizia. Così si deve fare. Invece la politica usa lo scontento diffuso per allontanare da sé l'attenzione dei giudici. E' un disegno che va rovesciato senza tentennamenti.

Oggi è il giorno della resa dei conti dell’ «Obama di Sanluri», come gli avversari della sua stessa parte politica, a loro volta bollati come «Sinistra immobiliare», hanno acidamente soprannominato Renato Soru. Alle 17 si riunisce il Consiglio regionale, al termine del quale il governatore della Sardegna comunicherà se conferma o ritira le dimissioni date a causa delle imboscate cementizie alla legge per la difesa delle coste dalla speculazione.

Presidente, allora confermerà le dimissioni?

«Deciderò sulla base del dibattito in Consiglio. Quel che per ora confermo è che è il momento della chiarezza, non è più il tempo delle decisioni pasticciate, degli accordi poco trasparenti, dei giochetti di pochi e delle camarille».

Con la conferma delle dimissioni quando si andrà al voto?

«Il 15 o il 22 febbraio».

Mi pare che lei si sia già preparato a candidarsi subito per il secondo mandato, sanando in tutta fretta il suo conflitto d’interessi con la nomina a fiduciario per le sue aziende del professor Racugno.

«Sì. Ed è la prima volta che capita in Italia. E’ un blind trust secondo le norme che la Regione Sardegna si è recentemente data sul modello canadese, messo a punto anche dal professor Guido Rossi, che molti in Italia potrebbero applicare pur senza obbligo di legge: ne guadagnerebbero tutti in trasparenza».

Mario Segni dice però che è un modello lassista e qualcuno ironizza dicendo che Racugno a Tiscali è come «Fedelu Confalonieru» a Mediaset e suo fratello all’Unità è come «Paolu Berlusconu» al Giornale.

«Sciocchezze. Io vengo sostituito in tutto dal professor Racugno, persona di specchiata onestà e moralità. Egli mi sostituisce come socio a pieno titolo, non può parlare con me delle società, non può prendere direttive, non può scambiare qualsivoglia informazione, deve assumere tutte le decisioni aziendali in piena autonomia. Mio fratello è stato nel consiglio dell’ Unità per pochi giorni e si è già dimesso. Nessuno in buona fede può scambiare il fiduciario Racugno con Fedele Confalonieri. Egli parla col suo azionista, si consulta, lo informa e ne viene informato, in un dialogo che presumo continuo. Il contratto fiduciario prevede invece il divieto di scambiarsi anche solo informazioni. Racugno ed io dovremmo eventualmente parlarci soltanto di nascosto e contravvenendo a un preciso obbligo di legge. Questo le sembra possibile?».

Direi di no, se c’è etica da tutte le parti, ma ormai ne vediamo di tutti i colori. E comunque il contratto di blind trust è revocabile in qualunque momento.

«Ma perché dovrei revocarlo. Se revocassi il blind trust, diventerei incompatibile come presidente della Regione».

Lei, presidente, ha dato le dimissioni per gli attacchi cementizi della sua stessa maggioranza alla difesa delle coste pochi giorni prima che venisse giù il diluvio della questione morale, o meglio immorale, in tutta Italia: Napoli, Firenze, Roma, l’Abruzzo, la Basilicata. Il diluvio di scandali deriva, come qualcuno dice, dalla forma «liquida» dei partiti?

«Guardi, la questione morale fu posta per primo da Enrico Berlinguer nel 1980, quando i partiti non erano liquidi. Anzi erano superstrutturati, erano presenti in ogni dove, occupavano tutti i gangli delle istituzioni, del potere e della società. Forse è cambiato il quadro, ma oggi la situazione morale è persino peggiore: la mancanza di una comunità di valori e di programmi causa la perdita di fiducia e di legittimazione da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni, ciò che rischia di portarci presto in una deriva autoritaria o all’amara considerazione del si salvi chi può».

Prima si rubava per il partito, o almeno così si diceva, ora per sé e la propria cordata?

«Non è solo questione di furti, pur deprecabili, ma dello spreco di risorse, di disinteresse per il bene comune come l’ambiente, la scuola, la sanità pubblica. E’ il problema dell’indecisionismo, della difficoltà nel governare di fronte a scorrerie di bande che cercano di mantenere il potere. E’ altrettanto grave che rubare impedire che si facciano gli inceneritori, o trasformare la scuola in una merce, con un’istruzione migliore per chi può pagare di più. O delegittimare la sanità pubblica per rafforzare quella privata».

Più che i partiti oggi imperversano i cacicchi, come li chiama D’Alema, o i capibastone, come li ha definiti Veltroni?

«Forte ed esemplare nella sua crudezza la definizione di Veltroni, come pure quella di D’Alema. Di fronte al dilagare dei capibastone bisogna riaffermare la funzione dei partiti come luogo di partecipazione politica, come sono previsti dalla carta costituzionale. O si cercano la partecipazione e il consenso sui programmi e i comportamenti, o si baratta una spiaggia per cento voti».

Prego?

«Sì, penso alla questione sarda, ma vale per tutte le questioni. Anche dalla nostra parte c’è chi pensa: meglio cento voti oggi svendendo una spiaggia o un altro pezzo di paesaggio, e conservando un potere che dura lustri interi, che restituire alle future generazioni un ambiente nel quale sia bello vivere un paesaggio intonso. I partiti sono necessari, perché la politica deve accogliere la partecipazione dei cittadini rispetto alla logica dei capibastone. Ma a certe condizioni».

La prima?

«Devono essere partiti ben radicati nel territorio, aperti, effettivamente rappresentativi dei bisogni e delle aspirazioni delle comunità, capaci di una discussione ampia, piuttosto che dedicarsi alla perpetuazione eterna delle stesse dieci o venti persone che da troppo tempo incarnano tutti i ruoli e decidono per tutti. Non è più tempo di nomenklature».

Magari senza cadere nella sindrome «dateci Obama»: nel Partito Democratico, che D’Alema giudica senza amalgama, non sarà l’Obama di Moncalieri, quello di Bettola e neanche quello di Sanluri, a risolvere i problemi dell’amalgama e dei cacicchi che a livello locale fanno come vogliono in assenza dell’autorità di partito.

«Certamente. E’ necessario ricostituire una comunità di valori e di programmi. Soltanto così si neutralizzano i ras e le loro scorrerie».

Scusi, presidente, lei dà l’impressione di essere un buon giocatore di poker, ma se porta la Sardegna al voto tra poco più di due mesi, lei sa che i rischi sono altissimi, mentre imperversa a sinistra anche la questione morale. Alcuni sondaggi danno la destra 10 punti sopra.

«Altri danno noi in vantaggio. Ma non credo alle tattiche sondaggistiche preelettorali. Credo invece nella necessità di mantenere il patto con gli elettori. O questo patto lo posso portare avanti in modo compiuto, senza derogare e scantonare, o non m’interessa governare purchessia».

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