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"Mantene s'odiu ka sas occasiones non mancant", dice un brocardo, cioè una massima giuridica del codex barbaricino che ci fornisce lo storico sardo Manlio Brigaglia e che si potrebbe forse tradurre: "La vendetta va servita fredda". Achille Passoni, il senatore spedito qui da Walter Veltroni come commissario per tentare di sedare l'anarchismo eversivo della nomenklatura ex diesse, ex piesseì ed ex diccì, che devasta fin dalla nascita il Partito democratico, è nato a Milano ed è stato eletto in Toscana.

Del codice barbaricino ignora probabilmente la ferocia, se pensa che preveda autentici armistizi, come quello che formalmente è stato siglato per le elezioni regionali che il 15 e 16 febbraio che, tra meno di un mese, certificheranno se il Pd - non solo qui, ma anche il continente - esiste ancora, o se era soltanto una magnifica, impossibile utopia. Se Renato Soru, che con barbaricina ferocia si è dimesso in anticipo da presidente della Regione e ha decapitato con l'aiuto di Passoni la dozzina abbondante di boiardi locali che in un turbinio di cariche comandano da tre lustri e più, vincerà le elezioni contro l'ectoplasma Ugo Cappellacci, figlio del commercialista di Berlusconi che si occupa delle ville sarde, la vendetta del governatore, cultore delle gole della Barbagia, sarà compiuta. Altrimenti, tutti a casa in un crescendo di vendette barbaricine e nazionali. A Cagliari, come a Roma. E tutti se lo saranno forse meritati: l'arrogante vicerè di Sardegna e l'evanescente segretario nazionale.

"Ma siamo onesti - dice il cagliaritano Luigi Zanda, vicepresidente dei senatori del Pd - non posso credere che i miei conterranei tra un sardo vero e un brianzolo catapultato lì a dire che i nuraghe sono magazzini, possano scegliere il brianzolo".

Perché il candidato vero non è quel Cappellacci, ma Berlusconi in persona, tanto che Soru ci annuncia di preparare un ricorso per pubblicità ingannevole, visto che nel simbolo elettorale della destra sulla scheda figurerà la dicitura "Berlusconi presidente". Un falso. Quindici "castosauri", dinosauri della casta, come li ha soprannominati il giornalista Giorgio Melis mutuando la definizione del sociologo Alessandro Mongili, non sono ricandidati al Consiglio regionale, anche ad opera del commissario milanese.

Il presidente uscente, che in questi giorni indossa come per sfida una giacca di velluto verdastro alla maniera dei pastori barbaricini, ha preteso - e Passoni ha ottenuto - che il limite di tre legislature fosse ridotto a due. Lasciano le penne nientemento che il presidente dell'assemblea regionale Giacomo Spissu, il capogruppo Antonio Biancu, il portavoce dei democratici dissidenti Silvio Lai e tanti altri che il candidato Soru considera compartecipi della "sinistra sanitaria" e della "sinistra immobiliare", i quali hanno amareggiato - ed è dir poco - il suo quasi quinquennio presidenziale e anche ingrossato la "questione morale" che ha investito il Pd a Napoli come a Firenze, ma che a Cagliari e in Sardegna non è meno cogente.

Che il decisionismo e l'iracondia fredda di Soru abbiano qualche non trascurabile deriva "dittatoriale" neanche i suoi più sinceri e fedeli sostenitori riescono a negarlo. Tanto che Pietro Soddu, antico padre nobile e ideologo della sinistra democristiana, ormai fuori dai giochi per lasciare il posto in politica al figlio Francesco, invoca un equilibrio politico nuovo, una distinzione di ruoli tra "partito del presidente" e "partito dei consiglieri". Se non fosse che fin qui il partito dei consiglieri ha prodotto i "castosauri". Il loro leader indiscusso si chiama Antonello Cabras, un ingegnere di Sant'Antioco con un importante studio professionale, ex socialista, più volte presidente della Regione, senatore, sottosegretario con Prodi e D'Alema, un numero di cariche che, nell'ultimo ventennio, supera la nostra capacità di compitare. Con Giacomo Spissu, rinviato a giudizio per truffa, ha conquistato con metodi "moderni" le postazioni del vecchio Pci berlingueriano.

E' lui che il 14 ottobre 2007 vinse le primarie per la segreteria del partito. Si narra che la vittoria avvenne con il soccorso fattivo dell'Udc, di An e di Forza Italia, intrusi nell'urna democratica. Sì, perché bisogna capire che qui la ruota del potere è iper-trasversale quando coinvolge gli interessi delle tre "M": Medici, Massoni e Mattoni.

Nasce il Pd e, tra alterne vicende, ne viene nominata segretaria Francesca Barracciu, una giovane signora di vecchia famiglia comunista, sindaco di Sorgono. Il 29 luglio dell'anno scorso, la neosegretaria cerca di prendere possesso del suo nuovo ufficio in via Emilia a Cagliari, ma le viene sbarrato il passo da tale Tore Corona, che le fa: "Francesca, non ti dò le chiavi, non te le posso dare: questi locali sono della Fondazione Enrico Berlinguer e questa è la stanza di Antonello (Cabras-ndr)". Riesce a entrare, Francesca, soltanto ai primi di ottobre - e per poco - quando tutto sta precipitando in un Pd che qui di fatto non esiste. "Il più indietro nel processo unitario, un Pd che più che nel resto d'Italia, ha manifestato un'inerzia totale", secondo Guido Melis, neodeputato sassarese, membro della Commissione Giustizia.

Poi, tra i grandi "castosauri" nuragici, spicca Emanuele Sanna, ex Pci, deputato, ex presidente del Consiglio regionale, praticamente ex tutto, insieme a Paolo Fadda, ex diccì, ex assessore alla Sanità, deputato. Così forse è sommariamente completato l'album di famiglia della sinistra sanitaria, legata agli interessi dei "clinicari", la genia più potente del capoluogo e della regione, insieme a quella dei mattonari.

Nerina Dirindin, valdostana, ex collaboratrice di Rosi Bindi, non è proprio un'icona di simpatia: è l'assessore alla Sanità uscente del governatore Soru, il quale a sua volta simpatia sembra non vada cercandone, che ha proprio rotto le scatole ai signori della sanità, i quali nel Pd - chiedetelo a Paolo Fadda, democratico ex diccì, o Silvio Lai, oltre che all'omologo e sodale di destra Giorgio Oppi - hanno un aggancio d'acciaio. Nerina ha definito restrittivamente i criteri delle Asl, ha demolito gare d'appalto, come quella da 160 milioni destinata alla Siemens, ha revocato il direttore generale della Asl numero 8, Efisio Aste, il più potente dell'isola. Che volevate di più per cementare convergenze d'interessi che non badano agli schieramenti di destra o di sinistra, né alle tessere di partito? "Abbiamo ridotto i tetti di spesa sanitaria - si gloria Soru - e vinto tutti i ricorsi in sede Tar". Ma non gliela hanno perdonata, la sinistra sanitaria e anche quella immobiliare. La seconda quasi sempre si identifica con la prima. Quando Soru chiede a un Consiglio regionale abituato a gestire direttamente l'urbanistica di approvare le sue regole restrittive per le zone dell'agro minacciate dalla speculazione, la maggioranza di centrosinistra si sfalda e il governatore resta solo. Così, da freddo giocatore di poker, si dimette, mettendo in mora gli avversari del suo stesso schieramento.

Cagliari, Teulada, Villasimius, Orrì, Tharros, naturalmente la Gallura. Sono decine nell'isola le cementificazioni piccole e grandi in corso o programmate. A Gualtiero Cualbu è stata bloccata la speculazione sulle rovine cagliaritane di Tuvixeddu. A Sergio Zuncheddu, padrone dell'Unione Sarda, di Videolina e del Foglio, la vendita di palazzi cagliaritani alla Regione, già programmata dalla precedente giunta di centrodestra, guidata da quel Mauro Pili che nel discorso programmatico scambiò la Sardegna con la Lombardia, avendo clonato il discorso d'insediamento a Milano di Roberto Formigoni. A Villasimius un sindaco di sinistra, Tore Sanna, sponsorizza villaggi per 140 mila metri cubi da 100 milioni di euro dello stesso Zuncheddu. Nella Banca di Cagliari la famiglia clinicara di destra dei Randazzo è socia con le cooperative rosse, che non perdono nessun business sanitario o immobiliare regionale, auspici i democratici Silvio Cherchi e Antonio Sardu. Ma ciò che ha indignato di più, qualcuno fino alle lacrime, è stato il segretario "nazionale" di quel che resta del Partito Sardo d'Azione, Efisio Trincas, quel tizio che giorni fa si fece largo tra le guardie del corpo per consegnare a Berlusconi la bandiera dei Quattro Mori. "Quello lì - dice Soru, che si rifiuta persino di pronunciarne il nome - quel personaggio protagonista di quel gesto di incredibile viltà che offende tutta la Sardegna, sta facendo un'operazione immobiliare affaristica per trasformare in ville case agricole nei pressi di Tharros, uno dei luoghi archeologici più interessanti dell'isola".

"La sinistra immobiliare viene da lontano", ridacchia sconsolato Luigi Cogodi, ex assessore regionale all'urbanistica del Pci, oggi "bertinottiano", quello definito "Gigi il Rosso" che negli anni Ottanta fece demolire senza colpo ferire la villa del ministro Antonio Gava costruita abusivamente in Costa Smeralda. "Gava - ci racconta - era ricorso al Tar, che in poche ore prese a cuore la questione della sua villa. Le ruspe erano pronte, ma alle otto e mezza di mattina era fissata l'udienza del tribunale amministrativo. Ci mancava solo la firma di Giampiero Scanu, allora sindaco di Olbia e poi, recentemente, sottosegretario dei democratici nel governo Prodi, che proprio non voleva firmare, nonostante l'evidenza delle violazioni di legge del ministro democristiano. Quando le ruspe entrarono in funzione, il Tribunale sentenziò: "E' cessata la materia del contendere". Per questo dico che la sinistra immobiliare in Sardegna viene da lontano".

Capite ora perché il commissario di Veltroni, Achille Passoni, pur efficiente, non potrà mai fare i conti col codice barbaricino e fatica a capire che, se cade la Sardegna, cade il progetto stesso del Pd? Forse per questo, o perché proprio non li ha, nega contributi alla campagna elettorale sarda contro un avversario dotato di risorse berlusconiane praticamente illimitate. Soru, accreditato di un patrimonio personale di 2 miliardi, di cui nega tuttavia l'ammontare, dice di aver messo di suo 500 mila euro, che sono già finiti, prima ancora dei fuochi d'artificio finali.

Ma, si sa, per i regolamenti di conti "sas occasiones non mancant".

Norma Rangeri

Nel giorno in cui il Parlamento smonta, come fosse uno scaffale Ikea, una commissione parlamentare (la Vigilanza), per sostituire il presidente con un altro più adatto al lodo Veltroni-Letta (il decano Rai Sergio Zavoli), viale Mazzini non vuole sfigurare e manda in scena una performance degna del momento. Il presidente Rai, Claudio Petruccioli, propone un ordine del giorno di censura per l'Annozero di Michele Santoro dedicato a "la guerra dei bambini" vittime della guerra di Gaza. Avrebbe peccato, il programma di Raidue, di «intolleranza e faziosità», mentre per temi così delicati, la bussola del giornalista dovrebbe essere puntata su «responsabilità e attenzione». Una delegittimazione.

Chi ha visto come si è svolta la trasmissione, l'articolazione delle posizioni espresse nello studio, la qualità del reportage da Gaza, e i ripetuti rilievi di Annunziata (l'ospite che fino a quel momento aveva parlato a lungo senza interruzioni, esprimendo le sue valutazioni) semmai poteva avere qualcosa da dire sullo sbilanciamento del dibattito, proprio a favore delle critiche rivolte da Annunziata al suo collega e amico (dagli amici mi salvi iddio...). E infatti Santoro, a sua volta, ha scritto al Cda per ribaltare l'insopportabile conformismo delle reazioni politiche e giornalistiche. E come prova a difesa ha inviato l'articolo di un giornalista de Il Messaggero, Corrado Giustiniani, che racconta la serata di Annozero, dimostrando, in generale e nel particolare, una sacrosanta verità: spesso chi scrive sulla tv, non la guarda. O ne prende alcuni pezzi, quelli più appetitosi per la polemica spicciola, più sfiziosi per la prima pagina, per suffragare una tesi precostituita (Santoro antipatico tribuno del populismo televisivo). Tanto sa che va sul velluto.

Delle lezioni di pluralismo e di giornalismo di questo Cda, di fronte a un'informazione quotidiana volgare (lo splatter della cronaca nera) e schierata (fino alle sottocorrenti dei Pionati di turno) ci sarebbe da ridere se non facesse piangere. E bisognerebbe che tutti si ponessero una semplice domanda, una questione di scuola: una trasmissione, un telegiornale schierato per Israele (come è normale amministrazione), si può e invece un programma o un telegiornale schierato con i palestinesi no?

Sono più di sette mesi che il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi sta cercando di destrutturare l’intero diritto del lavoro. In Parlamento il Testo Unico sulla sicurezza voluto dal governo Prodi è stato già fatto a pezzi. Per avere effetti avrebbe bisogno di 38 decreti e atti attuativi, ma il Governo non ne ha emanati neanche uno. Anzi ha rinviato alla fine di gennaio il termine in cui diventerà obbligatorio redigere il Documento di Valutazione dei Rischi, ha prorogato le norme su antincendio e arbitrati, ha cancellato la sanzione a carico del datore di lavoro (da 2.500 a 10.000 euro) per non aver munito i lavoratori di tessere di riconoscimento nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto e subappalto, ha tolto le violazioni sulla durata del lavoro come causa di sospensione dell’attività produttiva e ha legato lega le mani all’Ispettorato del lavoro che dovrebbe controllare e sanzionare le irregolarità.

Il 18 settembre scorso poi Sacconi ha fatto uscire una direttiva che chiede agli ispettori di non intervenire sulla base di segnalazioni anonime di lavoratori. Con la conseguenza che nessuno denuncerà più la propria impresa correndo il rischio di essere licenziato. Eppure la prevenzione, che il controllo degli ispettori garantisce anche se in minima parte, sarebbe una buona pratica visto che gli infortuni costano il 3% del Pil. E l’attacco continua con una serie di proposte: come la natura privatistica del medico chiamato a controllare la salute dei lavoratori, l’autocertificazione per la valutazione dei rischi per le imprese fino a 50 dipendenti (oltre il 90% delle aziende), il rinvio delle norme sullo stress da lavoro correlato, l’eliminazione di regole per la valutazione del rischio.

Rifare l’America

di Mariuccia Ciotta

«Sappiate che l'America è amica di ciascun uomo donna bambino che cerchi un futuro di pace», in questa frase sta il senso del discorso di insediamento del 44mo presidente degli Stati uniti, Barack Hussein Obama, ieri davanti a due milioni americani al National Mall di Washington e a una platea mondiale partecipe perché non è la potenza a fare grande un paese - «la potenza da sola non dà sicurezza» - ma «l'uguaglianza e la libertà» di «ciascuno e di tutti».

Diciotto minuti che segnano il passaggio all'«era della responsabilità», quella del rifiuto della guerra e dell'apertura al dialogo, a partire da un nuovo rapporto col mondo musulmano «basato sul rispetto». Le false promesse, ha detto, sono finite. «Il mondo è cambiato, dobbiamo cambiare anche noi». Obama ha parlato con le parole di Franklin Delano Roosevelt: «dobbiamo rifare l'America» e il riferimento non è solo alla crisi economica, ma a una rivoluzione culturale che salvi il paese, non più desiderante, sprofondato nella depressione materiale e immateriale. Ed è la memoria dei padri fondatori, il ritorno agli ideali perduti, il leit motiv del suo discorso, così come le parole «umiltà», «fiducia», «solidarietà» e il primato della speranza sulla paura.

Le energie da mettere in moto non sono solo quelle rinnovabili - contro il surriscaldamento del pianeta - ma quelle di una mobilitazione collettiva che guardi a chi ha perso il lavoro, la casa, la vita stessa, ancora echi rooseveltiani per indicare il «bene pubblico», la scuola, la salute. Un altro sguardo non indifferente ai sud del mondo, l'ospitalità verso gli immigrati e gli uomini di ogni religione ed etnia, «unire l'immaginazione per fare delle cose buone»... non è un «messia» che parla ma il catalizzatore di una attesa comune, perché non «dobbiamo chiederci se il nostro paese è grande o piccolo ma se la gente può vivere».

Un'attesa che non è andata delusa. I fan incantati davanti al palco di Capitol Hill, hanno tifato per loro stessi, per l'esodo dalla stagione del lutto. Ma oltre a rievocare per tutti «il diritto a perseguire la felicità», Obama ha toccato un punto che sarà centrale nella sua presidenza. La sua grande sfida sarà quella di infrangere il tabù del «cambio di sistema», che dal dopoguerra ha condizionato la politica americana. Il mercato non è di per sé «buono», non si autoregolamenta, il crack che porta alle perdita di mezzo milione di posti di lavoro al mese non si supererà solo con l'aiuto di denaro pubblico alle imprese. Obama è obbligato a un «new deal», a prendere atto che la crisi non è una malattia transitoria e ricorrente del liberismo, e rischierà come gli scrive Paul Krugman, premio Nobel per l'economia, di sentirsi chiamare «marxista», un presidente che nazionalizza e che minaccia l'american dream. Ma il «sogno» è già cambiato, non è più un sogno solitario, e si accompagna a un «declino» inteso come futuro migliore.

Ieri l'evento all'insegna del «we», noi, «tutti e ciascuno», ha una portata simbolica che va al di là del primo presidente afro-americano della storia, sta nella vittoria degli uguali e diversi, uniti da quell'«emotional intelligence» che ha conquistato il pianeta, sintonia di razionalità ed emozione, un'opera d'arte collettiva che è già un formidabile «change».

L'eredità ritrovata all'uscita dall'infanzia

di Ida Dominijanni

Non è da dio che ci viene la chiamata né dal futuro, diceva Walter Benjamin, ma da chi ci ha preceduto su questa terra. Sono loro, le generazioni passate, che ci chiamano a ereditare e completare la loro opera, a riscattare le ingiustizie che hanno patito, a onorare le promesse che non hanno avuto il tempo di mantenere. Investito di attese messianiche e di transfert salvifici, Barack Hussein Obama manca sapientemente l'investitura dell'onnipotenza divina e parla da umano ad altri umani, indicando nei comuni antenati la stella della via da percorrere e del lavoro da fare. Sta lì, nelle radici e nell'origine, nella memoria e nell'eredità, nei «sacrifici dei nostri predecessori» e nelle parole dei «nostri documenti fondativi», il futuro dell'America. E' da lì, più precisamente, che bisogna «cominciare di nuovo il lavoro di rifare l'America».

Lavoro simbolico e materialissimo insieme. Scarno di retorica - assai più scarno di quello della notte della vittoria a Chicago - eppure poetico nella scelta di ogni aggettivo e ogni sostantivo, il discorso inaugurale non evoca solo valori - libertà e uguaglianza, coraggio e fair play, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo - ma è popolato di immigrati, di pionieri, di lavoratori con le mani callose, di madri che sanno nutrire i figli, di tutto ciò che materialmente ha fatto e deve rifare l'America e che simbolicamente l'ha resa grande, prima che venisse, in tempi più vicini a noi, disfatta. Da che cosa? Dall'irresponsabilità economica. Dalla retorica della grandezza, che invece «non è data ma va conquistata». Da «le piccole lagnanze e le false promesse, le recriminazioni e i dogmi scaduti, che per troppo tempo hanno soffocato la nostra politica». Cambio di retorica, cambio di stagione: «Restiamo una nazione giovane, ma è giunto il tempo di lasciare da parte le cose infantili». Uscire dall'infanzia, per l'America, significa abbandonare il falso mito dei primati garantiti e muscolarmente esibiti, e ritrovare la misura. La misura di un paese che rischia il declino ma resta purtuttavia «il più prosperoso e potente della terra», e da questa posizione deve parlare al resto del mondo, ritrovando «la forza delle convinzioni e delle alleanze e non solo delle armi», riaprendo il dialogo con altre culture, offrendo amicizia ai più deboli, mostrando alla minaccia terroristica «che il nostro spirito è più forte», imparando a giocare il proprio ruolo «in una nuova era di pace». Uscire dall'infanzia significa, in una parola, entrare nell'età della responsabilità.

E' una svolta di centottanta gradi dalla retorica del dopo-11 settembre, una data che Obama non cita, dichiarando così implicitamente finita la stagione della grandezza ferita, della revanche, del contrattacco, della rivendicazione identitaria militarmente presidiata. Adesso, bisogna «tirarsi su, togliersi di dosso la polvere», e ricominciare a tessere con il filo «della nostra storia migliore». E se c'è qualcosa da rivendicare non è l'identità monolitica e aggressiva di un primato occidentale, ma l'eredità «patchwork», differenziata e plurale, di «una nazione di cristiani e musulmani, giudaici e indu e non credenti», di una comunità di lingue e culture diverse, che ha assaggiato «l'amaro pasto» della guerra civile e della segregazione, e proprio per averlo assaggiato sa e crede che «gli antichi odi devono passare e le linee tribali devono dissolversi». Il nuovo leader, l'afroamericano che ha giurato sulla bibbia col suo nome musulmano è lì per questo, per mostrare che «il mondo è cambiato e l'America deve cambiare», che la segregazione razziale è alle spalle e le guerre di civiltà sono sospese, che una nuova generazione sa rispondere alla chiamata di chi l'ha preceduta sulla terra, raccoglierne e rilanciarne l'eredità. L'incubo è finito, l'America può ricominciare a vivere.

Qui il video del discorso con i sottotitoli

La Corte europea dei diritti dell'uomo:

“illegittima la confisca dei terreni”

di Luigi Offeddu

Ci sono 3.300 denunce di violenze commesse in Georgia e in Ossezia del Sud, fra i casi di cui si sta occupando ora la Corte europea dei diritti dell'uomo, a Strasburgo. E invece non c'è più il pasticcione dell'«ecomostro », i 300.000 metri cubi di cemento distribuiti su 3 palazzoni, a Punta Perotti in Puglia, abbattuti dalle ruspe nel 2006 perché sfregiavano la costa: la Corte ha bollato come «arbitraria» e senza base legale «ai sensi della Convenzione dei diritti dell'uomo» la confisca dei terreni su cui sorgevano i falansteri, perché non preceduta da una condanna, e perché contrastante appunto con uno dei diritti fondamentali della persona, quello alla protezione della proprietà privata.

In soldoni: i costruttori e proprietari dei terreni, anche se tutto quel cemento era un obbrobrio ambientale (ma non «abusivo», come stabilì una sentenza della Cassazione, che li assolse tutti) avevano il diritto a goderseli. Di più: la stessa Convenzione europea, all'articolo 7, precisa che non può esservi una pena, se non c'è una colpa accertata.

Per tutti questi motivi la Corte ha condannato l'Italia, invitandola ad accordarsi con i costruttori sull'entità del risarcimento: le loro 3 società la Sud Fondi, la Mabar e la Iema - avevano chiesto nel 2001 circa 350 milioni, ora si tratterà. E intanto, la Corte ha imposto all'Italia di rifondere comunque i danni morali: 40 mila euro a ciascuna società (10 mila di danni morali veri e propri, 30 mila di spese). Attraverso i loro legali, i costruttori si sono detti «soddisfatti, fiduciosi e speranzosi».

Ma chi pagherà, alla fine? Il sindaco di Bari Michele Emiliano ha già annunciato che non sarà il suo Comune, «che non è mai stato processato e non può essere condannato ad alcun risarcimento». E lo Stato, per ora, tace.

Nella sentenza, la Corte mette sotto la lente d'ingrandimento le bizantinerie delle norme italiane: e osserva per esempio che «il comune di Bari, responsabile di aver concesso i permessi di costruzione abusiva, è l'organismo che è diventato proprietario dei beni confiscati, il che è paradossale ». La sentenza è «ingiusta», commenta il deputato Fabio Rampelli, dell'esecutivo di An: «L'ecomostro andava abbattuto e mi auguro che si faccia ricorso contro questa paradossale condanna che limita gli Stati membri nella tutela del loro territorio». Per Ermete Realacci, ministro dell'ambiente nel governo-ombra, «l' esproprio dei terreni fu necessario per demolire un edificio costruito aggirando le leggi e che la proprietà non intendeva abbattere».

Bari La sequenza dell'abbattimento dell'ecomostro di Punta Perotti. Il crollo, durato pochi secondi, era stato seguito dalla folla e accompagnato da applausi

Giuliano Urbani - «Firmai io,

rivedo con orgoglio il dvd della demolizione»

di Virginia Piccolillo

«Conservo il dvd della distruzione di Punta Perotti con orgoglio: lo considero una delle cose migliori del mio ministero». Giuliano Urbani, che da ministro dei Beni Culturali dette la parola definitiva per far saltare in aria l'ecomostro, ride alla notizia della bocciatura della Corte dei diritti Europea.

Perché?

«Condannati addirittura per violazione dei diritti umani? Ma andiamo!».

Pensa che la corte abbia preso un abbaglio?

«Convengo che il ginepraio delle leggi regionali, confuse e confusamente applicate, è tale che è davvero difficile capire. Però da ministro dovevo applicare la legge in materia di tutela del paesaggio. Lo considero un mio merito. Anche perché ho indicato una strada».

Mai più percorsa né da altri, né da lei.

«Il coraggio non è diffuso nel nostro Paese, don Abbondio ce l'ha insegnato. Io però la lista degli ecomostri da abbattere l'avevo presentata. E quando ho lasciato la politica alzando la voce, uno dei motivi che mi hanno fatto considerare compiuto il mio lavoro era proprio questo: non c'era la disponibilità alle demolizioni».

Chi si opponeva?

«Soprattutto i poteri locali. Eppure con il codice dei Beni Culturali gli avevamo dato uno strumento per resistere agli appetiti. E questo, ora che si va verso un federalismo più marcato, dovrebbe far riflettere».

Caro Signor Presidente, come FDR (Franklin Delano Roosevelt) tre quarti di secolo fa, Lei sta entrando in carica in un momento in cui tutte le vecchie certezze sono svanite, tutta la saggezza acquisita si è rivelata fallace. Viviamo in un mondo che né Lei né nessun altro si aspettava di vedere. Molti Presidenti devono fare i conti con una crisi, ma pochi sono stati costretti a fare i conti dal primo giorno con una crisi al livello di quella che l'America affronta ora. Perciò, che cosa dovrebbe fare? In questa lettera non cercherò di offrire consiglio su tutto. Per lo più mi atterrò all'economia, o ad argomenti che si basano sull'economia. La misura del successo o del fallimento della sua amministrazione dipenderà in larga misura da che cosa accadrà nel primo anno, e soprattutto, dalla sua capacità o meno di capire come gestire l'attuale crisi economica.

Quanto brutta è la prospettiva economica? Peggiore di quanto la maggior parte di noi possa immaginare. La crescita economica degli anni di Bu­sh, o cosiddetta tale, è stata alimentata dall'esplosione del debito nel settore privato; ora i mercati del credito sono in confusione, le attività commerciali e i consumatori sono in ritirata e l'economia è in caduta libera.

Quello che stiamo affrontando, essenzialmente, è una voragine di disoccupazione. L'economia statunitense ha bisogno di aggiungere più di un milione di posti di lavoro l'anno per tenere il passo con una popolazione in crescita. Anche prima della crisi, sotto Bush la crescita dell'occupazione viaggiava su una media di soli 800 mila posti di lavoro l'anno, e durante lo scorso anno, invece di guadagnare più di un milione di posti, ne abbiamo persi due milioni. Oggi continuiamo a perdere posti di lavoro a un ritmo di mezzo milione al mese.

Non c'è niente, nei dati a disposizione o nel­la situazione sottostante, che suggerisca che il crollo dell'occupazione rallenterà in tempi brevi. Il che significa che verso la fine dell'anno potremmo ritrovarci con 10 milioni di posti di lavoro in meno rispetto a quanti ne dovremmo avere. Ciò si tradurrebbe in un tasso di disoccupazione superiore al 9%. Se poi a questi si aggiungono gli individui che non vengono presi in considerazione dal tasso standard perché hanno smesso di cercare lavoro, più quelli costretti ad accettare lavori part time anche se vorrebbero avere un lavoro a tempo pieno, probabilmente stiamo parlando di un tasso di disoccupazione reale del 15% circa: più di 20 milioni di americani i cui sforzi per trovare la­voro vengono resi vani.

I costi umani di una caduta così grave sarebbero enormi. Il Center on Budget and Policy Priorities ha di recente previsto i possibili effetti di un picco del tasso di disoccupazione al 9%: uno scenario che sembrava il peggiore possibile e che ora sembra fin troppo probabile. Quindi, che cosa accadrà se la disoccupazione salirà, o supererà il 9%? Almeno 10 milioni di americani appartenenti al ceto medio finiranno in povertà, e altri sei milioni saranno spinti in «profonda povertà», lo stato che definisce le severe privazioni alle quali si va incontro quando il salario è pari a meno della metà della soglia di povertà. Molti degli americani che perderanno il lavoro perderanno anche l'assicurazione per le cure mediche, peggiorando lo stato già deplorevole della salute pubblica statunitense, e i pronto soccorso si affolleranno di persone che non hanno nessun altro posto dove andare. Nello stesso tempo, qualche altro milione di americani perderà la propria casa, e le amministrazioni statali e locali, private di buona parte delle loro entrate, saranno costrette a tagliare perfino i servizi più essenziali.

Se le cose vanno avanti seguendo l'attuale traiettoria, signor Presidente, presto dovremo fronteggiare una grande catastrofe nazionale. Ed è suo compito - un compito che nessun altro Presidente ha dovuto svolgere dai tempi della Seconda Guerra Mondiale - fermare questa catastrofe. L'ultimo Presidente ad affrontare un disastro simile è stato Franklin Delano Roosevelt, e Lei può imparare molto dal suo esempio. Questo non significa, tuttavia, che lei dovrebbe fare tutto quello che ha fatto FDR. Al contrario, dovrà stare attento a emulare i suoi successi, evitando però di ripetere i suoi errori. Per quanto riguarda quei successi, il modo in cui FDR ha gestito il disastro finanziario della sua epoca offre un modello molto buono. Allora, come oggi, il governo ha dovuto impiegare il denaro dei contribuenti per salvare il sistema finanziario. In particolare, la Reconstruction Finance Corporation (Società per la ricostruzione finanziaria) inizialmente ha giocato un ruolo simile a quello del Troubled Assets Relief Program dell'amministrazione Bush (il programma da 700 miliardi di dollari che tutti conoscono). Come il Tarp, la Rfc ha irrobustito la situazione monetaria delle banche nei guai usando fondi pubblici per acquisire quote finanziarie in quelle banche.

C'è però una grande differenza tra l'approccio di FDR al salvataggio finanziario foraggiato dai contribuenti e quello dell'amministrazione Bush: in particolare, FDR non era timido nel pretendere che il denaro pubblico fosse usato per servire il bene pubblico. All'inizio del 1935 il governo statunitense possedeva circa un terzo del sistema bancario, e l'amministrazione Roosevelt usò quella quota di proprietà per insistere sul fatto che le banche aiutassero davvero l'economia, facendo su di loro pressioni perché prestassero il denaro che stavano ricevendo da Washington. Oltre a questo, il New Deal uscì allo scoperto e prestò moltissimo denaro: direttamente alle aziende, agli acquirenti di case e alle persone che possedevano già una casa, aiutandole a ristrutturare il proprio mutuo in modo che potessero rimanere nelle loro abitazioni. Può Lei fare qualcosa del genere oggi? Si, Lei può. L'amministrazione Bush potrà anche avere rifiutato di allegare delle clausole all'aiuto che ha fornito agli istituti finanziari, ma Lei è in grado di cambiare tutto questo. Se le banche hanno bisogno di fondi federali per sopravvivere, li fornisca, ma pretenda che le banche facciano la loro parte, prestando quei fondi al resto dell'economia. Dia più aiuto ai proprietari immobiliari.

I conservatori la accuseranno di nazionalizzazione del sistema finanziario, e alcuni la chiameranno marxista (a me succede sempre). E la verità è che in qualche modo Lei sarà davvero impegnato in una nazionalizzazione temporanea. Ma va bene: a lungo termine non vogliamo che il governo gestisca le istituzioni finanziarie, ma per ora è quello di cui abbiamo bisogno per fare ripartire il credito. Tutto questo aiuterà, ma non abbastanza. C'è bisogno di dare una sferzata all'economia reale del lavoro e dei salari. In altre parole, si deve affrontare per il verso giusto la creazione di occupazione, cosa che FDR non ha mai fatto. Questa può sembrare una cosa strana da dire. Dopotutto, quello che ci ricordiamo dagli Anni 30 è il programma Works Progress Administration (Wpa), che al suo apice impiegava milioni di Americani per costruire strade, scuole e bacini artificiali. Ma i programmi di creazione di posti di lavoro del New Deal, seppure abbiano certamente aiutato, non erano né abbastanza grandi né abbastanza sostenibili da mettere fine alla Grande Depressione. Quando l'economia è profondamente depressa, bisogna mettere da parte le normali preoccupazioni che riguardano i deficit di bilancio; FDR non ce l'ha mai fatta.

Di quanta spesa stiamo parlando? Forse è meglio che si sieda prima di leggere quello che segue. Bene, ecco qui: «Piena occupazione» significa un tasso di disoccupazione del 5% al massimo e forse anche meno. Nello stesso tempo, al momento siamo su una traiettoria che spingerà il tasso di disoccupazione al 9% o più. Perfino le stime più ottimistiche indicano che ci vogliono almeno 200 miliardi di dollari l'anno in spesa governativa per tagliare il tasso di disoccupazione di un punto percentuale. Faccia i conti: Lei dovrà probabilmente spendere 800 miliardi di dollari l'anno per ottenere un completo risanamento economico. Qualsiasi cifra al di sotto dei 500 miliardi l'anno sarà davvero troppo piccola per produrre una vera inversione economica. Il più possibile, dovrebbe spendere in cose di valore durevole, cose che, come le strade e i ponti, ci renderanno una nazione più ricca. Migliori l'infrastruttura che sta dietro Internet, migliori la rete elettrica, migliori l'information technology nel settore della salute pubblica, un'area cruciale per qualunque riforma di questo settore. Fornisca aiuti alle amministrazioni statali e locali, per prevenire che taglino le spese in investimenti nel momento più sbagliato. E ricordi, nel momento in cui fa questo, che tutto questo esborso serve a un duplice scopo: serve al futuro, ma aiuta anche nel presente, generando posti di lavoro ed entrate per compensare la crisi.

Tutto questo, tuttavia, non sarà abbastanza per risolvere la profonda crisi nella propensione alla spesa dei singoli. Perciò, sì: ha anche senso tagliare le tasse su base temporanea. Gli sgravi fiscali per le famiglie che lavorano, delineati da lei in campagna elettorale, appaiono un veicolo ragionevole. Ma siamo chiari: i tagli alle tasse non sono lo strumento d'elezione per combattere una crisi economica. Per prima cosa, producono meno ritorni per l'investimento rispetto alle spese per l'infrastruttura.

Ora, il mio onesto parere è che perfino con tutto ciò, lei non sarà in grado d'impedire che il 2009 sia un anno molto brutto. Se riuscirà a far sì che il tasso di disoccupazione non superi l'8%, lo considererò un grande successo. Ma per il 2010 dovrebbe riuscire a ottenere di avere un' economia in via di ripresa. Che cosa dovrebbe fare per prepararsi a quella ripresa?

La gestione della crisi è una cosa, ma l'America ha bisogno di molto più di questo. FDR ricostruì l'America non solo facendoci uscire dalla depressione e dalla guerra, ma anche rendendoci una società più giusta e al sicuro. Da una parte creò programmi di assicurazione sociale, prima su tutti la Social Security, che proteggono i lavoratori americani ancora oggi. Dall'altra si prese a carico la creazione di un'economia molto più equa, dando vita a una società borghese che durò per decenni, fino a quando le politiche economiche dei conservatori condussero alla nuova epoca di ingiustizia che prevale oggi. Lei ha l'opzione di emulare i traguardi raggiunti da FDR, e il giudizio ultimo sul suo governo si baserà su come saprà gestire questa opzione. La più importante eredità che potrà lasciare alla nazione sarà quella di darci finalmente ciò che ogni altro stato avanzato ha: l'assistenza sanitaria garantita a tutti i cittadini. La crisi attuale ci ha dato una lezione obiettiva sulla necessità dell'assistenza sanitaria universale su due versanti: ha evidenziato la vulnerabilità degli Americani la cui assicurazione sulla salute è legata a un posto di lavoro che può così facilmente scomparire; e ha messo in chiaro che il nostro attuale sistema è anche negativo per l'economia - le tre principali case automobilistiche non sarebbero in così grave crisi se non dovessero pagare i conti medici dei vecchi e attuali impiegati. Lei ha un mandato per il cambiamento, e la crisi economica ha appena evidenziato quanto il sistema richieda un cambiamento. Quindi, è giunta l'ora di approvare una legislazione a favore di un sistema che garantisca la sicurezza sanitaria per tutti.

L'assistenza medica universale, quindi, dovrebbe essere la sua massima priorità dopo avere salvato l'economia. Fornire copertura per tutti gli Americani può essere per la sua amministrazione quello che la Social Security è stata per il New Deal. Ma il New Deal ha ottenuto qualcos'altro: ha reso l'America una società borghese. Sotto FDR, l'America ha attraversato quello che gli storici del lavoro chiamano Grande Compressione, un forte aumento degli stipendi per i lavoratori ordinari che ridusse enormemente l'ineguaglianza salariale. Prima della Grande Compressione, l'America era una società di ricchi e poveri; dopo, è stata una società in cui le persone, a ragione, si sono considerate ceto medio. Può essere difficile raggiungere quel risultato oggi, ma lei può, almeno, far muovere il Paese nella giusta direzione. Il futuro è ciò che importa di più. Questo mese festeggiamo il suo arrivo alla Casa Bianca; in un'epoca di grande crisi nazionale, Lei porta la speranza di un futuro migliore. Ora tocca a Lei far materializzare la nostra speranza. Mettendo in atto un piano di rinascita anche più coraggioso ed esaustivo del New Deal, Lei può non solo cambiare il corso dell'economia, può mettere l'America su un sentiero, quello che porta a una più grande uguaglianza per le generazioni a venire.

Oggi è stata scritta una delle pagine più buie della storia della magistratura italiana.

Oggi due magistrati sono stati trasferiti e uno è stato addirittura sospeso dallo stipendio (misura che si comminava prima per condotte – E NON PER PROVVEDIMENTI - gravissime come una ipotesi di corruzione o simili) perché hanno scritto un provvedimento giudiziario che non è piaciuto al potere.

Come questo possa essere ritenuto compatibile con gli articoli 101 («i giudici sono soggetti soltanto alla legge») e 107 («i magistrati sono inamovibili») della Costituzione resta un autentico mistero.

Come una qualunque riforma fatta da Berlusconi possa porre l’indipendenza della magistratura in una condizione peggiore di quella in cui l’ha posta questo C.S.M. è un altro mistero.

L’effetto intimidatorio di questi provvedimenti su tutti i magistrati, che da domani, quando uno dei tanti avvocati/onorevoli in giro per i Tribunali o uno dei tanti capi di uffici giudiziari amici di questo o quel potente uomo politico li minacceranno rispetto al possibile contenuto di questo o quel provvedimento, si vedranno passare davanti l’immagine del Procuratore Apicella privato dello stipendio solo per il contenuto di un atto giudiziario da lui approvato, è evidente.

Cosa abbiano in comune con la maggior parte dei magistrati italiani quelli che stanno al C.S.M. e ai vertici dell’A.N.M. (che hanno applaudito sui giornali all’iniziativa del ministro Alfano) è difficile comprenderlo.

Da oggi, comunque, l’indipendenza dei magistrati, che è sempre stata compressa più di ogni altra cosa, non esiste più neppure formalmente.

Della democrazia in questo Paese non è rimasto più niente. Solo vuote parole per imbonire un popolo di sudditi.

E' una notte profondissima. Abbiamo il cuore a pezzi e un dolore profondo nell'anima.

Non siamo stati capaci di difendere ciò per cui tanti sono morti.

Abbiamo tradito tutti i colleghi assassinati per non essersi piegati all'ingiustizia e Giorgio Ambrosoli e Guido Rossa e Vittorio Bachelet e ogni singolo poliziotto e carabiniere caduto in servizio e ogni onest'uomo che ha sacrificato il proprio interesse a quello di tutti.

Ci hanno consegnato un patrimonio di valori pagato con le loro vite e noi abbiamo permesso che fosse buttato via per le brame di potere di pochi.

La storia si incaricherà, come sempre, di farci pagare a caro prezzo questo tradimento.

da Ansa.it del 19 gennaio 2009

ROMA - E’ contenuto in una ventina di righe il dispositivo della decisione con la quale la sezione disciplinare del Csm ha disposto la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio del procuratore di Salerno Luigi Apicella e il trasferimento dei suoi colleghi Dionigio Verasani e Gabriella Nuzzi, del pg di Catanzaro Enzo Jannelli e del suo sostituto Alfredo Garbati. “La sezione disciplinare del Csm, visti gli articoli 13, secondo comma e 22, primo comma del decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109, in parziale accoglimento della richiesta del pg presso la Cassazione e del ministro della Giustizia dispone: - la sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio nonché il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura del dott. Luigi Apicella, con corresponsione al medesimo di un assegno alimentare nella misura sancita dall’articolo 10, secondo comma del decreto legislativo n. 109 del 2006”; - il trasferimento cautelare provvisorio dei dottori Dionigio Verasani e Gabriella Nuzzi, sostituti procuratori della Repubblica presso il tribunale di Salerno all’attuale sede e dalla funzione requirente; - il trasferimento cautelare e provvisorio dei dottori Enzo Jannelli, procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Catanzaro e Alfredo Garbati, sostituto procuratore generale presso la Corte di appello di Catanzaro, dall’attuale sede e dalla funzione requirente”. La sezione disciplinare inoltre “rigetta la richiesta di trasferimento cautelare provvisorio dei dottori Domenico De Lorenzo, sostituto pg presso la Corte di appello di Catanzaro e Salvatore Curcio, sostituto procuratore presso il tribunale di Catanzaro, applicato alla procura generale presso la Corte di appello di Catanzaro”.

Come prevedibile e come previsto su queste colonne, il furor mediatico di inizio legislatura del nostro ministro dell’Economia, la sua creatività nell’inventarsi ogni giorno nuove tasse e nuovi programmi di spesa dai titoli immaginifici, si sta rivelando un vero e proprio boomerang.

Ha l’unico effetto di scatenare l’ira o la creatività dei suoi alleati nel proporre nuove misure ad hoc, spesso nuove tasse. Un governo che aveva promesso in campagna elettorale una forte riduzione delle imposte, finisce così per riuscire solo ad aumentare la pressione fiscale e a brevettare (con tanto di rivendicazione internazionale) nuovi balzelli, che hanno spesso un effetto ben diverso da quello previsto. E chi aveva accusato Visco di avere introdotto una tassa sull’acqua minerale rischia ben presto di certificare di suo pugno l’entrata in vigore della tassa sull´aranciata. Siamo passati dalle "fiscal suasion" sui banchieri, con tanto di minaccia di tasse sui loro extraprofitti, agli aiuti copiosamente concessi agli istituti di credito con il decreto anticrisi. Dopo esserci abituati (o rassegnati a seconda del punto di vista) alla Robin tax, una tassa che doveva togliere ai ricchi petrolieri per dare ai poveri, stiamo in questi giorni apprendendo che si procederà esattamente al contrario, togliendo ai poveri per dare ai produttori di petrolio. In effetti con un prezzo dell’oro nero sceso da 160 a 30 dollari al barile si può anche capire…

Il fatto è che varando tasse su misura per gli spot televisivi, introducendo sempre nuove arbitrarie asimmetrie di trattamento legate al contingente, non si sa né da dove si parte, né dove si arriva. Gli effetti di queste misure rischiano di essere molto diversi da quelli anticipati e, inevitabilmente, scateneranno nuove richieste di compensazioni altrettanto arbitrarie. Concentriamoci sugli ultimi episodi. Grazie alle indagini condotte da questo giornale abbiamo un quadro più completo dei beneficiari della social card, della carta acquisti di 40 euro mensili attribuita sulla base di una serie di criteri, alcuni dei quali del tutto indipendenti dalle condizioni di bisogno dei cittadini (come l’età, la cittadinanza o il numero di utenze di gas ed elettricità). I dati Inps ci dicono che quasi l’85% dei trasferimenti è andato a famiglie del Centro-Sud. Non sorprende tanto lo squilibrio territoriale nella distribuzione di risorse destinate al contrasto della povertà, quanto l´entità di questo squilibrio. È un prodotto dei criteri arbitrari introdotti dal Governo e del fatto che l’ammontare del trasferimento non varia a seconda delle condizioni di bisogno. Le misure di contrasto alla povertà adottate in altri paesi integrano il reddito dei beneficiari in base alla loro distanza da una data soglia di povertà, portando i beneficiari al di sopra di questa soglia. Un reddito minimo garantito introdotto con regole uniformi su tutto il territorio nazionale, senza restrizioni di età e senza escludere gli immigrati, anche quelli che hanno regolare permesso di soggiorno e che hanno lavorato e pagato le tasse da noi, e tenendo conto del fatto che il costo della vita (dunque anche la soglia di povertà) varia da regione a regione, avrebbe una distribuzione territoriale molto meno svantaggiosa per le Regioni del Nord. In particolare, un terzo delle risorse andrebbe a poveri residenti nelle regioni settentrionali, più del doppio di quanto sta avvenendo con la social card.

Il fatto che la social card benefici solo i cittadini meridionali ha scatenato l’ira della Lega Nord, già insoddisfatta per il trattamento sin qui riservato dal governo ai suoi territori. Ha chiesto come compensazione per i torti subiti dal Settentrione solo un nuovo balzello, tra l’altro destinato ad essere pagato soprattutto da chi risiede nelle Regioni settentrionali. Si tratta di una nuova tassa di 50 euro sul rinnovo del permesso di soggiorno, che si aggiungerà ai 70 euro già oggi versati dagli immigrati che vogliono regolarizzarsi e che ricevono spesso l’agognato (e costoso anche in rapporto ad altri paesi) permesso dopo che questo è già scaduto. È una tassa destinata ad incentivare la residenza illegale nel nostro paese. Peccato perché le recessioni globali, come quella che stiamo attraversando, offrono un’occasione irripetibile per ridurre fortemente l’immigrazione clandestina. Vi sono infatti forti flussi di immigrazione di ritorno e chi rimane ha più incentivi a regolarizzarsi per accedere alle assicurazioni sociali (come i sussidi di disoccupazione). Inoltre la crisi colpisce soprattutto gli Stati Uniti. Questo ci permette di attrarre da noi cervelli che sin qui hanno scelto di lavorare oltreoceano anziché cercare la loro fortuna in Europa. Non saranno contenti nell’apprendere di questa nuova tassa, loro destinata in nome del popolo Padano.

Riassumendo, siamo passati dalla Robin tax alla Padania tax, che tassa i poveri immigrati per dare ai petrolieri. Il paradosso infatti è che questa tassa concorrerà a finanziare il Gheddafi transfer, un pacchetto di trasferimenti alla Libia previsti nell´ambito del Trattato siglato ad agosto dal nostro paese coi nostri vicini produttori di petrolio. Ci scusi il ministro se proviamo a imitarlo nella sua creatività semantica. Non potremmo mai ambire ad essere altrettanto creativi sia nel numero che nella denominazione dei nuovi balzelli. Ma un consiglio al ministro ci sentiamo comunque di darlo: per favore nelle sue lunghe interviste parli anche di economia. Servirà a spiegare a tutti, a partire dai suoi alleati, il perché di scelte che ai comuni mortali appaiono del tutto arbitrarie.

Le grandi speranze riaccese da Obama, alla vigilia della cerimonia inaugurale di martedì che lo insedierà alla Presidenza, somigliano non poco alle Grandi Speranze che accompagnano Pip, il protagonista del romanzo di Charles Dickens. Solo in apparenza il romanzo racconta una promessa di palingenesi personale, sociale: quel che narra è in realtà un faticoso apprendistato, un addestramento alla realtà. Pip, come Obama, deve imparare a camminare da solo, e soprattutto evitare d’esser "tirato su per mano" da tutori invadenti, paternalisti. Pip è figlio d’operai, ha scarpe grosse, mani brutte. La sua vita cambia quando uno sconosciuto benefattore gli lascia i suoi beni dandogli, appunto, Great Expectations. Ma il cambiamento vero dipende da lui, da quel che farà della donazione.

Come ha scritto Kissinger sull’Herald Tribune: la magica ascesa di Obama "definisce un’opportunità, non una politica".

Il mondo che Obama eredita gli s’accampa davanti pieno di rovine, e profondamente equivoco. Anche quello di Bush si nutriva infatti di Grandi Aspettative. Ma erano promesse immateriali, capziose, che non hanno insegnato nulla all’America e anzi l’hanno corrotta, sostituendo alla realtà l’ideologia. È un mondo che ha prodotto una "mescolanza letale di arroganza e ignoranza", scrivono Robert Malley e Hussein Agha sul New York Review of Books del 15 gennaio, nel descrivere la strategia Usa in Medio Oriente. C’è del miracolismo anche nell’attesa di Obama, rafforzato dal fatto che egli è il primo Presidente nero e che corona una storia dentro la storia nazionale, che lo collega non solo a Abramo Lincoln ma a Martin Luther King. Il suo apprendistato sarà duro perché dovrà rispondere alle Great Expectations e al tempo stesso non divenir ostaggio di chi pretende d’averlo fatto re, "tirandolo su per mano". Percepito come messia, egli deve al tempo stesso spezzare i messianesimi che da secoli catturano le menti americane.

L’apprendistato non può avvenire dunque che in solitudine, sotto forma di una vasta disintossicazione che salvi la speranza ma sappia anche spegnerla quando è irrealistica. Sono tante e svariate le sostanze tossiche di cui toccherà depurare l’organismo, e come in medicina urgono terapie radicali: dalla somministrazione di antidoti alla trasfusione del sangue all’inalazione di ossigeno. In politica occorre cambiare i paradigmi, come usano dire gli esperti in finanza; congedarsi dalle illusioni d’onnipotenza e dalle ideologie che dominano la politica estera, militare, climatica. Così poliedrico è il cambiamento richiesto che il paragone con la trasfusione sanguigna non è azzardato.

Le sostanze tossiche non hanno avvelenato solo gli otto anni di Bush. Sono decenni che lo Stato americano fabbrica bolle, ipnotizzato dal miraggio d’una forza autosufficiente e universalmente egemonica. In economia ha immaginato di poter vivere indebitandosi smisuratamente, consumando senza criterio, e fidandosi d’un mercato che magicamente si autoregola; in politica estera e militare ha creduto di poter modellare il pianeta secondo una propria idea del bene e del male, e non secondo l’utilità considerata opportuna dal maggior numero di soggetti. È qui che l’arroganza s’è unita all’ignoranza, impedendo agli Usa di considerare gli interessi di altri Paesi e di nuovi potentati locali; di riconoscere i propri limiti oltre che i limiti, in genere, dello Stato-nazione alle prese con mali e sfide che non è più in grado di padroneggiare da solo.

La stoffa della bolla è antica perché risale all’idea dell’America "faro sulla collina", votata a civilizzare il mondo, dotata di incorrotta supremazia morale e politica. Il continuo parlare di carote e bastoni è parte di questa presunzione, umiliante per i popoli destinatari: nessuno - tranne forse Al Qaeda - parlerebbe così dei rapporti con Washington. Non è vero che Bush s’è disinteressato al Medio Oriente, all’Iran, all’Asia, all’Europa. Secondo Malley e Agha se n’è interessato fin troppo, diminuendo ad esempio in Israele il senso della propria responsabilità, dei confini geografici, del limite: i progressi, Israele tende a compierli quando Washington latita, e a mediare sono magari gli europei o i turchi. Lo stesso dicasi per la Russia: i cui ricatti o soprusi (nel Caucaso, sul gas) sono possibili perché l’America promette un fiancheggiamento e una presenza - in Georgia, Ucraina - del tutto ingannevoli.

È il motivo per cui i realisti, in Israele, chiedono oggi a Obama di cominciare finalmente a parlare con le forze generatrici dei conflitti, anche se nemiche mortali d’Israele come Hamas, Hezbollah, Iran. ("Vada avanti per la sua strada, Presidente, non ascolti nessuna lobby", scrive Yossi Sarid su Haaretz). In un importante articolo sul New York Review of Books, tre autori (William Luers, Thomas Pickering, Jim Walsh) sostengono che l’Europa dovrebbe costruire con Teheran un consorzio, favorito da Obama, che produca uranio arricchito in Iran (la formula multinazionale ha il vantaggio di implicare controlli multinazionali). Obama, intanto, dovrebbe avviare con Teheran colloqui senza precondizioni, dopo le presidenziali iraniane di giugno, tenendo conto degli interessi di ambedue: l’Iran è essenziale per pacificare l’Iraq e anche l’Afghanistan, essendo ostile ai talebani sunniti. Le sanzioni non rischiano di fallire: già son fallite. Così come son fallite le guerre di Bush: perché hanno generato caos nel mondo invece di stabilità, soddisfacendo solo nel brevissimo periodo il desiderio Usa di dominarlo.

I neocon che hanno scommesso su Bush hanno condotto per anni una personale e accanita guerra contro la realtà, creando miti a ripetizione. Un episodio lo prova, raccontato anni fa dal giornalista Ron Suskind. Nel 2002, prima della guerra irachena, un consigliere di Bush (era Karl Rove) gli disse: "Il mondo funziona ormai in modo completamente diverso da come immaginano illuministi e empiristi. Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora" (New York Times, 17-10-04). La reality-based community viveva di fatti, mentre chi vive nello show mistificatorio li trascende, fino a quando la realtà si vendica.

La rottura con la realtà si è rivelata contagiosa: sin d’ora e nei prossimi anni converrà ricordarlo. La chimera dello Stato-nazione autosufficiente, la prepotenza congiunta all’ignoranza, il rifiuto di negoziare, la predilezione del breve termine rispetto al lungo, l’abitudine a violare la legalità internazionale: sono veleni di cui deve disintossicarsi l’amministrazione americana ma anche l’Europa, il mondo. Tanto più prezioso è l’annuncio di Obama: rispetterà le convenzioni internazionali sulla tortura e i prigionieri di guerra; chiuderà Guantanamo.

Sono i civili a pagare infatti chimere e menzogne. Pagano in economia, perché il fondamentalismo del laissez-faire ha colpito la gente comune e non solo Wall Street. Pagano a Gaza e nel Sud d’Israele, col sangue, la morte o il terrore. Pagano in Europa, dove milioni di cittadini gelano perché i nazionalismi russo e ucraino non sono imbrigliati da accordi multilaterali.

Ha scritto lo storico Andrew Bacevich che i grandi americani sono di rado ascoltati in patria, perché dicono cose realiste e per questo sgradite, poco trascinanti (The Limits of Power: The End of American Exceptionalism, New York 2008). Fa parte della disintossicazione riscoprire quella tradizione. È nella solitudine che Obama potrà ritrovare il realismo di Reinhold Niebuhr, il teologo profeta che nel secondo dopoguerra denunciò l’eccezionalismo americano e "il sogno di manipolare la storia, nato da una peculiare combinazione di arroganza e narcisismo: una minaccia potenzialmente mortale per gli Stati Uniti".

Questo povero paese è ormai prigioniero di continue rotture della legalità, che decompongono un tessuto civile sempre più debole, e violano gli stessi diritti fondamentali delle persone. Vittima sacrificale, una volta di più, è Eluana Englaro, alla quale la prepotenza governativa nega quel diritto di morire con dignità che le era stato definitivamente riconosciuto da limpidissime e rigorose decisioni della magistratura.

Prepotenza è la parola giusta, e lo conferma il sincero comunicato con il quale la clinica di Udine ha fatto sapere di non poter dare a Eluana Englaro l’assistenza necessaria per l’interruzione dei trattamenti che da diciassette anni la mantengono in uno stato vegetativo persistente. E’ il timore della revoca della convenzione, minacciata dal ministro della Salute, ad aver determinato la decisione della clinica, che dice francamente di non poter correre il rischio della perdita del posto di lavoro per centinaia di suoi dipendenti e di quanti collaborano con essa dall’esterno. Il ricatto dell’occupazione, mai forte come in questi tempi, dà forza ad una brutale imposizione politica.

Eluana Englaro è vittima di un accanimento ideologico che nega la sua umanità, incrina la fiducia con la quale i suoi familiari hanno sempre creduto nello Stato di diritto, non si preoccupa della stessa grammatica giuridica.

All’origine vi è quel nebuloso provvedimento del ministro Sacconi, "un atto di indirizzo" rivolto alle regioni senza sufficiente base giuridica, specchio fedele di una politica che si mette al servizio di insostenibili posizioni ideologiche.

La rottura della legalità è netta. Vi è una sentenza passata in giudicato di cui il governo impedisce l’attuazione. Il fatto già in sé grave, lo diviene ancora di più alla luce di un precedente: il tentativo delle Camere di bloccare l’esecuzione della sentenza, sollevando un conflitto di attribuzione tra il Parlamento e la magistratura respinto duramente dalla Corte costituzionale.

Dove aveva fallito il Parlamento, che pure aveva cercato un simulacro di rispettabilità giuridica, rischia l’aver successo un governo che impugna come una clava un puro potere di intimidazione.

Così è, perché gli argomenti giuridici alla base dell’atto di indirizzo del ministro sono praticamente inesistenti. Si fa riferimento a un parere del Comitato nazionale di bioetica privo di ogni valore giuridico vincolante e per di più approvato a maggioranza. Si invoca la convenzione dell’Onu sui diritti dei disabili che, da una parte, non è ancora pienamente operativa in Italia e, dall’altra, dice cose che non riguardano il caso di Eluana Englaro.

L’articolo 25 di quella convenzione infatti dice che non si possono interrompere i trattamenti di idratazione e alimentazione forzata, ma questo divieto riguarda solo il fatto che non si può imporre l’interruzione. Cosa ovvia, ma assolutamente diversa dal fatto che quei trattamenti possono sempre essere rifiutati, come ha riconosciuto la Cassazione nel caso di Eluana Englaro, dando attuazione ad un principio presente nella nostra Costituzione in vari documenti internazionali, che attribuiscono alla persona il potere di disporre liberamente della propria vita. E non si dica che la vita è un bene indisponibile. Ancora pochi giorni fa una donna ha rifiutato un’amputazione, ed è morta. "Contro la forza, la ragion non vale", dice un rassegnato proverbio.

Oggi dobbiamo concludere che non vale neppure il diritto dichiarato nelle sedi e nelle forme proprie. In Italia, come sta accadendo in Francia, si sta consolidando l’orientamento secondo il quale la sola legittimazione politica può cancellare ogni altro potere o garanzia. I familiari di Eluana dovranno continuare la loro civile lotta, e nei prossimi giorni il Tar dovrà pronunciarsi sulla legittimità della decisione della Regione Lombardia che ha vietato alla clinica di dare esecuzione alla sentenza della Cassazione.

Ma, di fronte ad una prepotenza che è tutta politica, bisogna chiedersi se da chi non condivide l’orientamento del governo, e ha precisi ruoli e responsabilità politiche, sia stato fatto tutto quello che era necessario per difendere diritto umanità civiltà. L’opposizione si è espressa solo attraverso prese di posizione personali, prigioniera solo di paure interne, visto che più di un’indagine ha dimostrato che l’opinione pubblica è nella maggioranza a favore dell’interruzione dei trattamenti, anche in significativi ambienti cattolici. Una opposizione silenziosa, che non comprende il senso della difesa dei diritti e della civiltà giuridica, ha poco futuro davanti a sé.

Documentare una bravata: di solito sono i ragazzini a farlo, e la rete pullula di questo genere di vanterie piccine e tristi.

Questa volta è un gruppo di adulti, per ragioni davvero non facili da capire, a dare di sé una così scadente testimonianza. Pubblici ufficiali, polizia municipale di Parma. E il ragazzino non è l’attore ma appena un oggetto di scena: neanche un trofeo da mostrare all’obiettivo, piuttosto un reperto da archiviare.

Scomodare Abu Ghraib e altri luoghi di tortura organizzata e cosciente è decisamente troppo. Non torture, non l’efferato dominio fisico e psicologico su un essere umano istituzionalmente assoggettato. A partire dall’espressione tranquilla dell´uomo bianco, e di quella rassegnata del ragazzo nero, si capisce che questa - purtroppo - è routine. È il normale pregiudizio, la normale discriminazione, il normale incidente. È avere trovato il ragazzo africano Emmanuel in un giardino pubblico e avere pensato ciò che non si sarebbe mai pensato di un ragazzo bianco: sarà certamente uno spacciatore o un poco di buono, comunque qualcuno da tenere a bada. È non avere creduto a quello che diceva, avere preso le sue parole per niente, averlo portato "al sicuro" e pestato quel tanto che basta per fargli capire chi comanda e chi obbedisce. È mostrarlo all’obiettivo di un collega per sancire non si sa quale diritto di dominio su uno che non aveva fatto un bel nulla ma, in quanto nero, potrebbe averlo fatto o potrebbe farlo in futuro. È - soprattutto - la totale incoscienza di stare attuando un sopruso, e di farlo, come dice l’accusa, con l’aggravante del pregiudizio razziale: anch’esso certamente non compreso, forse neppure adesso, da quei vigili urbani di una città ricca e tutto sommato tranquilla, non una banlieu ribollente, non un sobborgo americano dove da generazioni il colore della pelle è ragione di antagonismo e di acredine.

Il razzismo in Italia c’è. Nonostante le affettate oppure distratte ragioni di chi lo nega, c’è. Non è organizzato e non conclamato, anche se alcuni sintomi politici già ci sono. È nel localismo meschino e ringhioso. È nella diffidenza per lo straniero, che intorbida lo sguardo e predispone alla discriminazione. È nell’impreparazione di troppi uomini dello Stato, spesso i più vicini alla strada, che nell’ansia di fare ordine rischiano di ottenere quel supremo disordine che è la negazione dei diritti. È in questa fotografia, che espone su una scrivania il "negro" catturato come il pescatore che mostra il pesce, che ritrae la "scimmia" (così una voce demente lo apostrofò, quella sera del 29 settembre) domata con un paio di schiaffoni.

Troppi commenti (anche sul sito del nostro giornale) si accaniscono con eccessiva virulenza contro il gruppo di vigili di Parma - quattro dei quali agli arresti domiciliari - finiti nei pasticci soprattutto grazie alla indignata e coraggiosa reazione del padre di Emmanuel, un operaio che di "marginale" o "deviante" non ha proprio nulla. Un lavoratore giustamente infuriato per una soperchieria inflitta a un figlio innocente. Quei vigili, lavoratori anche loro, vanno puniti ma non insultati, ricondotti alla legge ma non maledetti. Si sono comportati molto male, ma sono anch’essi vittime di un deterioramento ambientale che è il vero imputato di questa e altre brutte storie. Sono vittime della paura sociale, dell’ignoranza ottenebrante sulla quale soffia la demagogia razzista. Vanno aiutati a capire il loro errore, che non è veniale, che è mortale per il diritto: avere obbedito al pregiudizio razziale anziché al solo criterio che governa un paese libero e civile, che è quello della responsabilità personale. Emmanuel è una persona, non una particola in sé insignificante di quel vago insieme che chiamiamo "stranieri" o "immigrati" o "neri". Basterebbe che capissero questo, il fotografato e il fotografo: Emmanuel è una persona. E cambierebbe, decisamente in meglio, il loro punto di vista su quanto di brutto è accaduto a Emmanuel, e per fortuna anche a loro.

Chi stabilisce le regole della democrazia planetaria? Quali poteri si dividono il governo del mondo? Queste domande possono sembrare eccessive. In realtà riflettono problemi concreti e inquietudini sul futuro di cui si discute intensamente nelle più diverse sedi internazionali, e sarebbe opportuno che qualche eco giungesse anche nel povero cortile italiano. Stanno cambiando volto i diritti delle persone e il rapporto tra tecnologia e democrazia, si fa più acuto il conflitto tra eguaglianza e esclusione, libertà antiche e nuove sono sfidate da mille prepotenze.

Per la prima volta nell’Internet Governance Forum dell’Onu, svoltosi nel dicembre scorso a Hyderabad, la maggioranza delle sessioni è stata dedicata al tema dei diritti, monopolizzando quasi l’attenzione degli intervenuti. è il segno d’una maturità raggiunta o d’una crescente preoccupazione? Forse la vera ragione di questo mutato atteggiamento va cercata nella consapevolezza ormai diffusa dell’insostenibilità di un "ordine privato del mondo", affidato alla sola logica del mercato, accompagnato dal rafforzarsi di un ordine "securitario" e da inquietanti presenze della sovranità nazionale. Tutti fenomeni unificati da un dichiarato disprezzo per ogni controllo, da una deliberata eclisse dei diritti.

La forza delle cose, con gli effetti devastanti della crisi economica e finanziaria, ha messo in discussione una ideologia, ha posto fine ad un’epoca in cui l’unica parola d’ordine era "deregolazione". E’ crollata un’intera architettura planetaria, s’invocano regole dove prima si pretendeva che i privati avessero le mani completamente libere. Stiamo così assistendo ad un singolare ritorno del diritto, come spesso accade nei tempi di transizione. Era avvenuto all’indomani della caduta del Muro di Berlino, quando si pensava appunto che un condiviso sistema di regole dovesse prendere il posto dell’"equilibrio del terrore" (e si è detto, poi, che il disordine della Russia post-sovietica, e il suo esito autoritario, sono derivati proprio dall’aver affidato tutto alle pure dinamiche di mercato, senza preoccuparsi di una adeguata costruzione istituzionale). Oggi la questione è di nuovo all’ordine del giorno. Ma che cosa dev’essere regolato, e come?

Se il mondo dell’economia e della finanza è stato pervertito dal fatto che non si negoziava più "all’ombra della legge", pesantissimo invece è stato l’intervento degli Stati con norme repressive delle libertà individuali e collettive, giustificate con l’argomento, o il pretesto, della lotta al terrorismo e alla criminalità. Identico, però, il risultato. Sacrificio dei diritti, poteri fuori controllo, uso spregiudicato della dimensione globale. Se le operazioni speculative percorrevano il mondo e si delocalizzavano selvaggiamente le imprese, la stessa tecnica è stata utilizzata per il ricorso alla tortura, con la "delocalizzazione" delle persone da Stati che si proclamavano esportatori di democrazia a Stati che accettavano il ruolo di torturatori, i veri "Stati canaglia" del nostro tempo. Se l’ordine interno e internazionale dev’essere riportato alla regola della democrazia, del rispetto dei diritti e del controllo d’ogni forma di potere, questo deve avvenire in ogni caso. I diritti non sono divisibili, non possiamo vivere in un mondo in cui si ripristina un po’ di legalità nell’ordine economico e si continua ad accettare la compressione delle libertà civili, anche perché vi sono intrecci che non possono essere sciolti se non si agisce su tutti e due i versanti.

Leggiamo le conclusioni di un recentissimo rapporto commissionato dal Consiglio d’Europa. Dopo aver sottolineato che spesso il riferimento al terrorismo è solo una "giaculatoria" di comodo, si rileva che "in troppi casi le leggi e le azioni politiche adottate sono sproporzionate e sono state usate in maniera abusiva, non per tutelare la sicurezza pubblica, ma piuttosto gli interessi politici dei governi. Gli organismi internazionali hanno messo a punto strumenti non equilibrati e che non garantiscono adeguatamente i diritti fondamentali. E ciò è dovuto, almeno in parte, al fatto che i peggiori governi sono stati i più convinti sostenitori di una espansione di questi strumenti internazionali per giustificare i loro abusi interni". Il rapporto è in buona parte dedicato alle limitazioni della libertà di espressione, e consente di cogliere bene gli intrecci tra compressione di diritti fondamentali e interessi di mercato. Il caso più clamoroso è quello delle grandi società di Internet - Google, Microsoft, Yahoo - che accettano richieste censorie da parte di Stati autoritari giustificandosi con il fatto che, altrimenti, si vedrebbero precluso l’accesso a mercati che, come quello cinese soprattutto, sono economicamente importantissimi.

Nasce così una censura di mercato, il governo del mondo digitale viene assoggettato ad una inquietante mezzadria che ha come protagonisti grandi imprese e Stati autoritari, in un perverso intreccio tra globale e locale. Così, la Cina chiede che cada il velo dell’anonimato per rintracciare un giornalista che aveva mandato negli Stati Uniti una notizia "sgradita" al regime, Yahoo lo fa, il giornalista viene arrestato e condannato a dieci anni di carcere; Google gestisce i rapporti con Stati sovrani come la Turchia o la Tailandia, che chiedono la rimozione da YouTube di video "sgraditi". Al di là dei singoli episodi, si coglie così, con nettezza, il modo in cui si sta strutturando la vera "catena di comando" del sistema planetario della comunicazione, che ha uno dei suoi più importanti terminali a Mountain View, in California, nella sede di Google, dove si decidono le sorti della libertà d’espressione, stabilendo anche regole più restrittive per "pubblicare" alcune categorie di video su YouTube. Sono temi di questi giorni, con le polemiche sull’uso di YouTube da parte dei fans dei mafiosi e del personale di un ospedale di Torino.

"Google è un giudice?", si è chiesto il New York Times, e questa domanda è rimbalzata a Parigi nella conferenza internazionale sulla libertà d’espressione promossa dal Governo francese e dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali. La risposta è nelle cose. Google si presenta come il "decisore globale finale" in materie che riguardano libertà e diritti, esercita un potere non soggetto a alcun controllo, che suscita serie inquietudini, tanto che un gruppo di parlamentari democratici e repubblicani ha presentato al Congresso americano una proposta, il Global Online Freedom Act, per obbligare tutte le società operanti su Internet a comunicare ad un nuovo ufficio del Dipartimento di Stato tutti i casi in cui hanno "filtrato" materiali su richiesta di Stati esteri. Si cerca così di creare almeno una situazione di trasparenza, di bilanciare con una regola istituzionale un potere altrimenti incontrollabile, di cominciare a spostare qualche parte del governo del mondo in sedi democraticamente responsabili.

E´ significativo che queste vicende si intreccino con le celebrazioni di YouTube come strumento chiave della nuova democrazia, come un mezzo che ha contribuito in modo significativo alla vittoria di Obama, creando una nuova sfera pubblica, più aperta e libera dai condizionamenti ai quali sono soggetti i media tradizionali. Qui si coglie una contraddizione, che apre un problema ineludibile: si possono affidare i luoghi e i mezzi di una democrazia in trasformazione soltanto alle logiche imprenditoriali e alle volontà di governi non democratici? E´ vero che i grandi attori di Internet, Google in primo luogo, si mostrano consapevoli di questa realtà e propongono codici di autoregolamentazione per fornire qualche garanzia. Ma si sta pure avverando una facile previsione. Sotto la pressione di richieste di sicurezza e di interessi economici, Internet perde progressivamente la sua natura di spazio libero, il maggiore che l’umanità abbia conosciuto, e si avvia ad essere uno spazio "normalizzato", dove sia ridotto al minimo il rischio di imbattersi in opinioni dissenzienti, sgradite ai diversi poteri o ritenute dannose da chi è preoccupato soprattutto del fatturato pubblicitario e dell´incentivo ai consumi.

E’ una partita ancora aperta. Anche qui è tempo di regole, e il vecchio slogan "giù le mani da Internet", in cui si manifestava la fiducia in una irriducibile natura libertaria della rete, oggi deve fare i conti con la realtà di un mondo globale di cui Internet è la grande metafora e dove è in atto un visibilissimo scontro di poteri. Servono regole "costituzionali", dunque di garanzia della libertà, secondo lo schema di un Internet Bill of Rights, nato da una intuizione italiana che si è poi diffusa, ha avviato un processo al quale partecipano diversi soggetti, si svolge a diversi livelli, e può così valorizzare esperienze diverse, dalle "coalizioni" di cittadini alle iniziative del Parlamento europeo e del Congresso americano, fino ad una attenzione dell’Onu che si spera sempre più intensa.

Le prove di un governo democratico del mondo passano anche attraverso l’attenzione per questi problemi e queste esperienze, tutt’altro che settoriali. E’ prematuro parlare di modelli, e soprattutto serve il radicarsi di una adeguata cultura politica. E, allora, una domanda finale. Sarebbe possibile, nell’Italia mitridatizzata, una reazione dell’opinione pubblica simile a quella che, in Francia, ha obbligato Sarkozy a rinunciare ad un progetto di schedatura di tutti coloro che hanno un ruolo in campo politico, sindacale, economico, religioso?

La sicurezza delle donne per la destra non conta

Maria Zegarelli

Ieri la maggioranza, durante la discussione sul ddl sulla sicurezza ha respinto tutti gli emendamenti presentati dal Pd sullo stalking. Mantovano ha spiegato che è meglio aspettare il testo Carfagna.

La violenza contro le donne e i minori non è questione di sicurezza nazionale. Non per la maggioranza, non per il governo. Sono stati respinti tutti gli emendamenti agli articoli 1 e 2 presentati dal Pd contro lo stalking (l’atto di perseguitare, in inglese)e i reati ai danni di donne e minori.

Malgrado l’aumento del numero di donne uccise per mano di ex o attuali mariti, conviventi, corteggiatori. Ogni giorno ne leggete nelle cronache: per numero di vittime l’equivalente di un campo di battaglia. Respinti ieri anche gli emendamenti che perseguivano l’adescamento di minori via Internet: un altro tema non ritenuto urgente. Si può aspettare l’esame del testo presentato dalla ministra Mara Garfagna, ora alla Camera: così ha detto il sottosegretario Antonio Mantovano. «La Camera si sta già occupando del ddl Carfagna, è scorretto che un ramo del Parlamento affronti un tema che ancora deve essere approfondito dall’altro». Ogni Camera ha un suo ordine del giorno, va rispettato. C’è tempo. Sono anni di attesa, ogni giorno nuove vittime, ma non è urgente.

Spray al peperoncino

Gianni Alemanno sulla violenza (il rischi, il pericolo, le donne aggredite, la paura) aveva costruito la sua campagna elettorale per il Campidoglio. Adesso l’emergenza sembra essere scomparsa, svanita. Le donne, mentre aspettano che il Parlamento voti una legge contro lo stalking, possono difendersi con le bombolette di spray al peperoncino. Non è uno scherzo: è la misura approvata dalla maggioranza, con forte sollecitazione del governo. L’emendamento lo ha presentato la senatrice Cinzia Bonfrisco. Oggi l’uso delle bombolette può essere perseguito perché alcune sentenza le hanno definite armi da guerra, altre armi al pari dei fucili, altre ancora armi di difesa personale. Da ieri la maggioranza ha chiarito una volta per tutte che sono lecite, purché non contengano agenti chimici dannosi per la salute. L’’approvazione dell’emendamento Bonfrisco l’ha dedicato proprio «alla signora Reggiani. Se avesse avuto lo spray al peperoncino nella borsetta forse non sarebbe andata così».

Un fatto privato

«È gravissimo - commenta Anna Finocchiaro, capogruppo Pd - che siano state respinte tutte le norme che avevamo proposto e che riguardano il contrasto alla violenza sulle donne e sui bambini. si trattava di un progetto organico: il testo presentato dalla Carfagna riproduce integralmente il testo che noi avevamo presentato qui in Senato. E’ come se al fondo ci fosse l’idea che la violenza sulle donne e sui bambini, soprattutto quando maturi ad opera di mariti, conviventi, padri, non sia proprio un fenomeno da sicurezza pubblica, della nazione, ma in qualche modo ancora un fatto privato».

«È chiaro che per il governo la sicurezza sulle donne non è una priorità», aggiunge la senatrice Vittoria Franco.

Marilena Adamo ricorda: «Per la terza volta si respingono i nostri emendamenti, tratti dai due testi di legge presentati dall’inizio della legislatura». Soltanto 5 senatrici Pdl hanno votato sì.

E’ un’emergenza ancora più grave di quella mafiosa

Elena Doni intervista Giuliano Amato

Giuliano Amato, da ministro dell’Interno, stupì il mondo politico con una dichiarazione-bomba: ogni anno in Italia 1,2 milioni di donne sono vittime di violenze: cifra che risultava elaborando il numero delle violenze denunciate ed il fatto che solo il 6% delle italiane denuncia, anche perché quasi sempre i fatti avvengono nell’ambito familiare.

Perché le violenze contro le donne sono in continuo aumento?

«Ho detto più di una volta che nell’ambito dei delitti gravi quelli contro le donne sono più preoccupanti di quelli commessi dalla criminalità organizzata. Le ragioni non sono chiare. Possiamo solo fare alcune ipotesi. Forse oggi c’è una reazione del maschio contro la parità uomo-donna. Prima si sentiva unico padrone in seno alla famiglia, ora deve fare i conti con un essere umano paritario di sesso femminile».

Pensa che l’aumento del fenomeno faccia parte di un generale incremento di aggressività che si riscontra in altri settori della vita, dal bullismo alla prepotenza stradale?

«In una società in cui si sono allentati i vincoli sociali si assiste alla crescita dell’homo homini lupus. E se si allentano le regole sono sempre i più deboli, quindi le donne, a rimetterci».

D’altronde oggi in Italia il modello vincente è quello di un uomo che non ama le regole…

«Questo non basta a spiegare tutto. La nostra è una società in cui l’assorbimento dei valori collettivi e del rispetto dell’altro è sempre stato difficile. In un paese di debole sentimento nazionale l’azione delle comunità intermedie – i partiti, la scuola, la famiglia – costituiva un antidoto alla violenza. Poi è avvenuto un cedimento delle comunità intermedie: i partiti, come scuola di educazione civica, hanno cessato di esistere, la scuola ha svolto egregiamente la sua funzione formativa finché è stata una scuola di élites. Poi, con gli anni sessanta e i grandi numeri della scolarizzazione di massa, la scuola non ha retto. E si è trovata di fronte a famiglie povere, o distratte dai bisogni della vita. La famiglia stessa è diventata un problema. E non è neppure giusto addossare alla scuola troppe responsabilità. Spesso le classi sono affidate a giovani professoresse precarie, costrette a correre da una scuola all’altra per fare punteggio. C’è un ottundimento dei valori tra i ragazzi: filmare con i cellulari le botte ai più deboli dimostra la drammatica solitudine».

Ma esistono antidoti a questa violenza diffusa, in particolare alle violenze contro le donne?

«Non basta predicare l’amore per l’altro, è necessario indurre la paura delle conseguenze. In Italia lo Stato ha da sempre scelto di limitare il proprio intervento nell’ambito famigliare. Si dice che spesso, forse soprattutto in passato, davanti alle denunce delle mogli picchiate, il pubblico ufficiale assumeva un ruolo paterno piuttosto che quello di tutore della legge. Ma il “lasciamo correre” non va sempre bene: in certi casi è necessario intervenire e ci deve essere inflessibilità da parte dell’apparato sanzionatorio».

Quale consiglio può dare alle donne oggi?

«È necessario privare il maschio della convinzione di avere davanti una creatura debole. Una “lei” che non protesta può apparire consenziente e i giudici dovrebbero essere attrezzati a capire certi silenzi».

Cosa pensa di quello che è accaduto ieri al Senato?

«Spero che sia raccolta la sfida alla Camera».

Anticipiamo un brano del saggio di "La legge e la sua giustizia" (il Mulino, pagg. 419, euro 30)

La giustizia costituzionale è un’acquisizione recente del diritto costituzionale. Eppure l’esigenza e i tentativi di difesa della Costituzione sono antichi come la riflessione sui problemi dell’umana convivenza politica. Possiamo assumere come archetipo le considerazioni di Platone sui custodi delle leggi fondamentali, i nómoi della città, ch’egli considerava non come strumenti del potere dei più forti (come facevano i sofisti), ma come scienza e filosofia applicate alla società bene ordinata. Nello Stato perfetto, nel quale sorgesse «un re quale s’ingenera negli alveari, uno che di corpo subito appaia superiore e d’anima», a questo re occorrerebbe affidarsi, alla sua scienza e saggezza, e non a rigide leggi, che non sanno adattarsi all’irriducibile varietà della vita:

«Sotto un certo riguardo senza dubbio è chiaro che la legislazione è parte dell’arte regia; meglio di tutto però non è che abbiano vigore le leggi, ma che lo abbia l’uomo il quale per la sua intelligenza sia regio. E sai perché? Perché la legge non può mai, abbracciando ciò che è ottimo e giustissimo, prescrivere nello stesso tempo con precisione ciò che è il meglio per tutti. Giacché le disuguaglianze degli uomini e delle azioni e il non rimanere giammai, per così dire, in quiete nessuna delle cose umane, non permettono che alcun’arte possa per alcuna cosa indicar nulla di semplice che serva a tutti i casi e in tutti i tempi (...) Ora, la legge, noi vediamo che suppergiù tende proprio a questo, come un uomo prepotente e ignorante e che a nessuno non lascia far nulla senza il suo ordine, anzi non permette nemmeno che altri lo interroghi, nemmeno se a qualcuno venga in mente un partito nuovo, migliore e differente dalla disposizione che egli aveva imposta».

Poiché, però, accade che un simile re-filosofo, dotato di virtù politiche, non sempre, anzi quasi mai, esiste, «è pur necessario che i cittadini adunatisi scrivano delle leggi, seguendo le tracce della forma di governo più vera tra tutte». Da qui, dall’imperfezione dei governanti, deriva la necessità delle leggi e, per conseguenza, la necessità che le leggi siano rispettate: le forme di governo - monarchia, aristocrazia e democrazia - saranno tanto migliori quanto più sarà garantito questo rispetto. Proprio al termine e quasi a coronamento delle Leggi, leggiamo:

«Nel nostro Stato ci deve essere un Consiglio formato di dieci custodi delle leggi, sempre i più anziani, coi quali devono adunarsi tutti quelli che hanno ottenuto il premio di virtù; v’interverranno inoltre coloro che sono andati all’estero allo scopo di apprendere qualche cosa che possa essere utile all’opera di vigilanza esercitata sulle leggi, e che, ritornati salvi in patria, saranno ritenuti degni di partecipare al Consiglio, in seguito ad esame a cui saranno sottoposti dagli altri membri; abbiamo aggiunto che ciascuno deve prendere con sé un giovane, d’età non inferiore ai trenta anni, e proporlo agli altri, dopo che egli stesso avrà giudicato che il giovane è meritevole, per indole e per educazione, d’essere ammesso; e se anche agli altri parrà tale, lo ammetteranno; in caso contrario, il giudizio dato deve rimanere celato così agli altri come, e soprattutto, a colui che è stato respinto; che infine le riunioni devono tenersi di buon mattino, quando ognuno è maggiormente libero dagli altri affari, sia privati che pubblici (...) Se facciamo di questo Consiglio come l’ancora di tutto lo Stato, questa ancora, fornita di tutto ciò che si conviene, ci conserverà tutto quello che noi vogliamo».

Chi, a qualunque titolo, ha a che fare con la giustizia costituzionale deve conoscerne le antichissime e profonde radici di storia spirituale, delle quali il passo appena citato, ricco di dettagli e sfumature, è una testimonianza.

Continuiamo ancora un poco con le Leggi di Platone:

«Se la costituzione del nostro paese deve essere compiuta e perfetta, bisogna che tra i suoi istituti ve ne sia qualcuno che sia in grado di conoscere, in primo luogo, questo scopo, di cui parliamo, quale sia, cioè il fine politico che noi ci proponiamo; in secondo luogo, in qual modo questo scopo si debba raggiungere, e quali siano innanzitutto le leggi e poi le persone che potranno a tal fine riuscire utili o no. Se uno stato manca di questo, nessuna meraviglia se, essendo privo di intelligenza e di sensi (riferimento a un passo precedente in cui si parla di intelligenza e sensi come elementi di conservazione degli esseri viventi), procederà ogni volta a caso in tutte le sue azioni (...) Bisogna che questo Consiglio, come il presente nostro discorso sta a dimostrare, possieda tutte le virtù, delle quali principale è quella di non andar vagando, prendendo di mira molte cose, ma di guardare a una sola, rivolgendo sempre, per così dire, tutti i dardi verso di essa».

Questa virtù politica somma è la sintesi di «fortezza, temperanza, giustizia, prudenza», tutte attitudini a garanzia di «ciò che vogliamo conservare». Le garanzie della Costituzione che nel corso dei secoli sono state immaginate esprimono in tutti i contesti la radicata aspirazione a stabilizzare le regole fondamentali della convivenza politica (l’ancora dello Stato) e a difenderle dalla minaccia che viene dalla decisione abnorme imprevista. Per apprestare questa difesa, occorrono uomini dotati di fortezza, temperanza, giustizia e prudenza.

Queste proposizioni indicano la vocazione della giustizia costituzionale: la conservazione dell’essenziale. La sua prima realizzazione pratica sembra essere stata quella della nomothesía, un’istituzione dell’Atene del IV secolo a. C., che si fa risalire, però, a Solone, di cui v’è menzione in Demostene, Eschine e Andocide. La critica storica è incerta su numerosi aspetti di questa istituzione, in particolare circa il suo rapporto con l’assemblea popolare legislativa, ma c’è concordia nel ritenere che i nomoteti, nominati ad hoc con deliberazione dell’assemblea, avessero un potere di controllo sulle proposte di leggi innovative (psephísmata), per la difesa delle leggi antiche (nómoi). Il loro potere di controllo si esercitava quando si trattava di modificare o di abrogare una legge esistente, o di introdurne di nuove, e consisteva nel valutarne la compatibilità con il diritto precedente. Era dunque una funzione di freno e stabilizzazione, una funzione che appartiene all’essenza della garanzia costituzionale. Del resto, una funzione di questo genere si svolgeva anche nell’assemblea legislativa, espletata da un comitato di cinque sinègoroi (avvocati pubblici, difensori della legalità), eletti allo scopo di preservare il diritto tradizionale. Nel procedimento legislativo, dunque, trovava un suo posto definito il dibattito circa il rapporto fra antico e nuovo, al fine di difendere il primo contro gli attacchi scriteriati del secondo. In questa dialettica, il nómos prevaleva non tanto in quanto «superiore», ma in quanto «anteriore»: oppure, se così si vuol dire, la sua stessa durata lo rendeva venerabile agli occhi dei contemporanei e, perciò, in questo senso, superiore.

Se si parla di «funzione conservatrice» di queste procedure, si deve però precisare che questa non deve essere intesa nel senso politico odierno, come nella contrapposizione corrente conservatori-riformatori. La «conservazione» del nómos, di per sé, non significa nulla, a questo riguardo: la conservazione che difende un contenuto innovativo è innovazione dal punto di vista politico, mentre la sua eliminazione può significare un’involuzione conservatrice. Conservazione del nómos significa, dal punto di vista costituzionale, la difesa di quella continuità che è un aspetto della Costituzione stessa, in quanto norma di durata, e che consente di guardare a ogni desiderata condizione futura, che la legge volesse perseguire, con la garanzia e la tranquillità che ciò che è essenziale sarà mantenuto e su questo non si apriranno controversie distruttive. Conservatore e riformatore, applicati alla funzione di garanzia costituzionale oppure alla legislazione, non hanno dunque lo stesso significato.

Entriamo verso le 14.00 con il bus egiziano scalcagnato dal posto di frontiera a Rafah. C'è un'atmosfera tesissima, Israele per tutta la mattina ha bombardato i tunnel lungo il confine. I caccia nel cielo, il fischio, lo scoppio, profondo, terrificante. Alcune bombe sono cadute poche decine di metri da qui, infrangendo parte delle vetrate al terminal egiziano. Sul bus siamo in due. L'altro passeggero è un dottore palestinese che rientra a casa. Dall'altra parte, in «Hamasland », non ci sono sentinelle armate, solo un paio di uomini barbuti con vestiti bruni impolverati che parlano al walkie talkie.

Per lasciare il terminal ci si muove in ambulanza: tutti, indistintamente. Le strade sono vuote. Solo tre vecchie Mercedes lungo i quattro chilometri che portano all'ospedale europeo nella zona palestinese di Rafah. Qui è la regione dei tunnel, la più colpita dagli israeliani. Chi può se ne sta ben lontano. Molte case sono abbandonate, alcuni capannoni sono chiusi, serrati. Si notano invece molti carretti tirati da muli, non utilizzano benzina (ora costa un dollaro e mezzo al litro, il triplo di un mese fa). La maggioranza dei negozi è chiusa, ma dicono che qui le scuole sono aperte di mattina e a ogni tregua i contadini tornano a lavorare nei campi, anche quelli più a rischio.

L'entrata all'ospedale è accompagnata dal grido corale « shahìd, shahìd » (martire). Sono due barelle arrossate di sangue e sopra due morti. Uomini, giovani, il cervello che cola dalla testa. Alcune donne vestite di nero, il volto scoperto, invocano Allah, piangono. Quando vedono un giornalista occidentale inveiscono contro Israele e i suoi «crimini nazisti ». Seguono alcuni feriti, almeno sei. Uno è scosso da tremiti continui. Anche lui ferito alla testa. Il volto è irriconoscibile, il naso aperto, gli occhi sbarrati.

Oggi Israele ha colpito duro i villaggi della zona sud orientale, quelli che guardano al deserto del Negev. Risuonano continuamente i nomi di due località: Abasan e Kuza, rispettivamente 25.000 e 16.000 abitanti. «Praticamente tutte le vittime gravi delle ultime ventiquattro ore vengono da quei due villaggi. Il nostro ospedale manda i casi più difficili all'ospedale più importante, il "Nasser" di Khan Yunis », spiega Kamal Mussa, direttore amministrativo dell'istituto.

Qui regna il caos. I guardiani lasciano entrare tutti al pronto soccorso. I medici appaiono professionali, molti di loro hanno studiato all'estero, al Cairo, ma anche in Italia, Francia e negli Stati Uniti. Non mancano medicinali, né macchinari. Pure la folla è troppa, il pronto soccorso ne è sommerso. «Gli israeliani non hanno umanità, sparano nel mucchio, non distinguono tra soldati e civili, mirano ai bambini, sparano sulle case», gridano i membri dei clan tribali più colpiti, i Qodeh e Argelah.

Un dato sembra evidente, almeno per il sud di Gaza: non c'è malnutrizione. Nonostante l'aumento dei prezzi, la mancanza di alcuni generi alimentari, il blocco dei movimenti, a Gaza nessuno muore di fame. «La situazione è molto peggiore nei grandi campi profughi più a nord, come quello di Jabaliah. Ma qui nel sud il cibo non manca», dice Saber Sarafandi, dottore internista di 30 anni. Lui e il suo collega infermiere, Mohammad Lafi, appena tornato da un lungo corso di perfezionamento negli Stati Uniti, a New Orleans, sono evidentemente dei moderati. Hanno ben poco da spartire con la cultura della guerra santa e del fondamentalismo islamico propagandata da Hamas. Anzi, guardano con un certo fastidio ai ragazzi dalla barba lunga e l'uniforme nera che si muovono nell'atrio dell'accettazione. Eppure di un fatto sono convinti: «E' vero che Hamas ha rotto la tregua e ha fatto precipitare l'inizio dei combattimenti il 27 dicembre. Ma Israele ci stava prendendo per il collo, non avevano alternativa. I fatti gravi non sono neppure tanto gli omicidi mirati, perpetrati da Israele anche ai tempi della tregua. Sono piuttosto il sigillare Gaza come una grande prigione. La scelta di Hamas è stata tra l'essere uccisi a fuoco lento, oppure velocemente nella guerra. E hanno giustamente scelto lo scontro subito, un grido al mondo. E così facendo sta catturando le simpatie della popolazione. Hamas è oggi più forte che mai tra la nostra gente». Alle sette di sera cala il buio. Non c'è illuminazione pubblica. Le finestre delle abitazioni sono serrate. E' allora che un'ambulanza nuova fiammante, appena arrivata dall'Egitto, offre un passaggio per l'ospedale centrale di Khan Yunis. Il viaggio nella notte più nera prende meno di venti minuti. Le strade sono semivuote, ma comunque più popolate del pomeriggio. Si vedono soprattutto giovani uomini, apparentemente disarmati. Per un secondo il mezzo si ferma a raccogliere un medico che porta con sé un bambino di quattro giorni. Vicino c'è una botteguccia che vende bombole di gas da cucina. «Sono diventate una rarità — spiega Amal, l'ambulanziere —. Prima costavano 35 shequel israeliani, adesso superano i 400». Così ci si industria a cercare legna da ardere per cucinare sul pavimento.

Il «Nasser» è presidiato da centinaia di ragazzi. Tanti perdono tempo, si sentono importanti a contare i morti. Tanti altri sono però palesemente militanti di Hamas, che guardano con un misto di sospetto e curiosità ogni occidentale che entra. E' il direttore amministrativo del «Nasser», We'am Fares, a fornire nel dettaglio le cifre della guerra. Sul muro dietro la sua scrivania c'è la foto di Yasser Arafat e frasi del Corano incorniciate. Tutti i 350 letti dell'ospedale sono occupati. «Solo oggi abbiamo ricevuto 12 morti e 48 feriti di età comprese tra i 13 e 75 anni. Dal 27 dicembre i morti da noi sono stati 680, i feriti curati 183, tra tutti almeno il 35 per cento sono bambini minori di 14 anni ».

Appare invece difficilissimo trovare risposte certe all'uso delle bombe al fosforo. Gli israeliani le hanno utilizzate o no, è possibile vedere qualche ferito?

«Certo che le hanno usate, contro tutte le convenzioni internazionali. Qui a Khan Yunis abbiamo contato almeno 18 feriti e 7 morti», dicono all'unisono medici e infermieri. C'è un problema però: «Non si possono vedere. Tutti i feriti da armi al fosforo sono già stati trasferiti all'estero, specie in Egitto e Qatar». Resta vago anche Christophe Oberlin, un chirurgo di Parigi arrivato 3 giorni fa per conto del governo francese: «Io personalmente non ne ho visti di feriti da fosforo e non so se potrei davvero distinguerli dagli altri feriti, non sono un medico di guerra». Però di un fatto è sicuro: «Gli israeliani dicono che solo il 30 per cento delle vittime palestinesi sono civili. Questa è una palese menzogna, sono pronto a testimoniarlo davanti a qualsiasi tribunale internazionale. È vero il contrario: almeno l'80 per cento delle vittime sono bambini, anche piccolissimi, donne, anziani. Qui si sta sparando contro la società civile senza porsi troppi problemi. E le ferite che ho visto sono orribili. Moltissimi dei pazienti muoiono sotto i ferri». Verso le dieci di sera arrivano altre ambulanze cariche di feriti. Una scena carica di dolore, alleviata solo dal grande sorriso di Asma, una bambina di 10 anni ferita al torace, ma che parla veloce, quasi allegra e promette che da grande andrà all'università.

L'unica cosa certa è che è partita. Ma una compagnia aerea, per stare in aria, ha bisogno di molte cose: una management competente, dipendenti orgogliosi di esserci, uno stato e una classe politica affidabili. Alla «nuova Alitalia» difettano tutte e tre le condizioni.

Tra gli addetti ai lavori, la previsione comune - in Italia e soprattutto all'estero - vede Colaninno e soci prendere al volo la prima occasione per cambiare lo statuto di Cai e anticipare la cessione dell'intero pacchetto ai francesi. Ne siamo convinti anche noi. Così come siamo convinti che in aprile, quando Spinetta lasciò il tavolo alla prima obiezione dei sindacati, lo fece perché giudicava quelle condizioni di vendita - 2,4 miliardi di euro, debiti compresi - più onerose di quelle che avrebbe potuto strappare qualche mese dopo, a crisi aziendale ben macerata.

La crisi globale sta colpendo tutto il trasporto aereo. Tra qualche mese «gli gnomi italiani» gli chiederanno in ginocchio di «lasciarli andar via». Tanto i loro guadagni se li attendono da Expò 2015 o dalle concessioni statali. Nel frattempo hanno distrutto la credibilità di alcuni sindacati, ridotti a dependance dell'ufficio del personale e l'agibilità politica di altri (sia «di base» che «di mestiere»). Per riuscirci non hanno guardato per il sottile. Sono state fatte leggi ad hoc, favoriti imprenditori amici (questa operazione è un salvataggio di AirOne, non dell'Alitalia), vilipesi persino gli alleati di governo (Lega, Moratti, Formigoni).

Berlusconi voleva vincere in un esperimento di «nuove relazioni industriali». Voleva creare un precedente che potesse fare da format per la revisione del «modello contrattuale» e per tutte le grandi vertenze, da ora in poi. Ha potuto contare su una stampa così monocorde da esser peggio di una «di regime». Solo dal quotidiano di Confindustria, non per paradosso, sono tracimate analisi critiche e perplessità ben documentate. Lo hanno assecondato sindacati «complici» (Sacconi dixit!) come Cisl, Uil e Ugl. Cui si è assurdamente accodata una Filt in patente distonia con il resto della Cgil.

Il prezzo dell'operazione è spaventoso. Non tanto, come ripetono tutti, per i 4 miliardi di debiti scaricati sui conti pubblici. E non solo per l'imbarbarimento delle relazioni industriali, che preannuncia anni durissimi per tutto il lavoro dipendente. E' immenso il costo in termini di capacità industriali bruciate allegramente, di competenze professionali che avevano fatto di Alitalia una compagnia di riferimento globale (settima nel mondo, a un certo punto). Un patrimonio costuito in 50 anni di attività e programmazione, distrutto in 10 anni di consapevole demolizione bipartisan.

Se ce n'era ancora bisogno, Berlusconi conferma d'essere un impresario, non un imprenditore. Come nel caso della Standa, quando mette le mani su un'azienda «fisica» è capace solo di distruggerla. «A me gli occhi, please» può riuscire solo in tv. E non per sempre.

Bilancio di una delle peggiori presidenze della storia degli U.S.A. Da il manifesto , 13 gennaio 2009 (m.p.g.)

Giunto per fortuna degli Stati uniti, nostra e di tutto il mondo all'ultimo atto della sua rovinosa presidenza, George W. Bush riesce ancora una volta a non deluderci con la sua beata incoscienza, o falsa coscienza. Lui sì che è deluso: proprio così, «deluso» dal mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa in Iraq, neanche fosse un bambino che giocava alla caccia al tesoro e non è arrivato al traguardo. Errori? No, semplicemente qualche volta «le cose non sono andate come pianificato»; ma lui ha fatto sempre quello che gli sembrava giusto fare e tanto basta, la buona fede è quella che conta. Era in buona fede anche quando s'è inventato il campo di Guantanamo? Certo che sì, in mala fede sono quei paesi che l'hanno contestato ma quand'è stato il momento si sono rifiutati di accollarsi qualche detenuto. Abu Ghraib? Non c'è problema, la tortura «non ha danneggiato la reputazione morale dell'America»: «la gente sa che America significa libertà», basta la parola. L'Europa, quella sì che è un problema, quella sì che ha una bassa reputazione morale: s'è permessa di dire che la guerra in Iraq era senza mandato, e si permette di sindacare sulle gerarchie mediorientali: «In certe parti d'Europa si può essere popolari addossando a Israele la responsabilità di ogni problema del Medio oriente, e si può diventare popolari partecipando al Tribunale criminale internazionale». Lui invece la popolarità facile la rifiuta: «Avrei potuto diventare più popolare accettando Kyoto. Ma sentivo che era un trattato ingiusto».

Il presidente ammette solo, bontà sua, di avere usato talvolta un linguaggio aggressivo: questione di toni; problema di carattere. Adesso promette che lascerà intera la scena a Obama e si occuperà solo di portare il caffé la mattina a Laura, e a noi non resta che da sperare che mantenga davvero la promessa.

Quanti sono i danni lasciati sul campo da otto anni di presidenza Bush?Due guerre, la riabilitazione della tortura e l'attivazione di Guantanamo, i diritti di libertà gravemente lesionati all'interno, una crisi finanziaria ed economica gravissima, la disoccupazione galoppante....fin qui siamo agli effetti misurabili. Ma quelli non misurabili? La devastazione della «reputazione morale dell'America» non sarebbe niente se non fosse accompagnata dalla devastazione del termine Occidente, diventato l'ascia di guerra per lo scontro di civiltà, del termine democrazia, diventato la bandiera delle spedizioni di conquista, del termine libertà, diventato sinonimo di mercato e imprenditorialità. La lotta al terrorismo internazionale condotta in modo guerrafondaio e controproducente sarebbe reversibile, se non fosse che nel frattempo siamo diventati «terroristi» presunti in troppi, dai musulmani che manifestano per Hamas e a cui l'ineffabile Giovanardi, qua in Italia, vuole negare il permesso di soggiorno all'ex ministro degli esteri D'Alema che si permette di dire che con Hamas prima o poi bisognerà obtorto collo trattare se si vuole riaprire una possibilità d'esistenza alle forze arabe moderate anti-Hamas. La paranoia securitaria sarebbe un trauma elaborabile degli Stati uniti post-11 settembre se non fosse diventata ideologia e tecnica di governo planetaria e cemento della disgregazione sociale. Non per caso è questo l'unico testimone che Bush tenta di passare a Obama: «la più grave minaccia che il nuovo presidente dovrà affrontare sarà il rischio sempre esistente di un attacco terrorista contro il territorio americano». Tradotto: lasci stare la speranza e continui a governare con la paura. Un'eredità mortifera, una tazzina di caffé avvelenata che speriamo che Obama rifiuti di bere.

Non molto tempo prima dell’offensiva contro Gaza, il premier israeliano Ehud Olmert pose a se stesso e al proprio popolo una domanda gelida, senza precedenti. Una domanda non concernente i valori e la morale, ma la pura utilità.

Era il 29 settembre, e in un’intervista a Yedioth Ahronoth denunciò quarant’anni di cecità: quella d’Israele e la propria. Disse che era arrivato il momento, non rinviabile, in cui lo Stato doveva mutare natura e scegliere come vivere e sopravvivere: se guerreggiando in permanenza, o cercando la pace coi vicini.

Non negò le colpe di Hamas e di molti Stati arabi, ma invitò i connazionali a concentrarsi sul "proprio fardello di colpa". Il fardello consisteva negli automatismi del pensiero militarizzato: "Gli sforzi di un primo ministro devono puntare alla pace o costantemente aspirare a rendere il paese più forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?".

Aggiunse che personalmente non ne poteva più di leggere i rapporti dei propri generali: "Possibile che non abbiano imparato assolutamente nulla? Per loro esistono solo i carri armati e la terra, il controllo dei territori e i territori controllati, la conquista di questa e quella collina. Tutte cose senza valore". L’unico valore da ritrovare era la pace, perseguibile a un’unica condizione: liquidando le colonie, restituendo "quasi tutti se non tutti i territori", dando ai palestinesi "l’equivalente di quel che Israele terrà per sé". Alla Siria andava reso il Golan, ai palestinesi parte di Gerusalemme. Così parlò il primo ministro d’Israele, non un preconcetto nemico dello Stato ebraico e del suo popolo.

Da queste parole sembra passato un tempo enorme e oggi non sono che fumo e fame di vento, come nel Qohèlet. Allora l’opportunità era imperativa, vicina. Nemmeno tre mesi dopo, la guerra è decretata "senza alternative". Allora Olmert pareva ascoltare gli intellettuali contrari alle soluzioni belliche: da Tom Segev a Gideon Levy a Abraham Yehoshua che tra i primi, su La Stampa, ha invocato negli ultimi giorni la tregua. Tre mesi dopo il pensiero militarizzato si riaccende e il dissenso si dirada. Non restano che Segev, Gideon Levy, Yossi Sarid. Perfino Yehoshua considera vana una reazione proporzionata ai missili di Hamas "perché la capacità di sopportazione e resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani". La domanda gelida di Olmert, a settembre, era la seguente e resta valida: "Che faremo, dopo aver vinto una guerra? Pagheremo prezzi pesanti e dopo averli pagati dovremo dire all’avversario: cominciamo un negoziato".

Secondo Olmert, Israele era a un bivio: "Per quarant’anni abbiamo rifiutato di guardare la realtà con occhi aperti (...). Abbiamo perso il senso delle proporzioni".

Non poche cose s’intuiscono, anche se ai giornalisti è vietato il teatro di guerra. Quel paesaggio che da giorni vediamo sugli schermi, alle spalle dei reporter, è praticamente tutta Gaza: non più di 40 chilometri di lunghezza, 9,7 chilometri di profondità. Con 360 chilometri quadrati, Gaza è più piccola di Roma e abitata da 1,5 milioni di palestinesi.

Inevitabile che in un lembo sì minuscolo i civili abbattuti siano tanti (metà degli uccisi, secondo alcuni). Inevitabile chiedersi se i governanti israeliani non persistano nella cecità, quando negano che la loro guerra sia contro i civili e un disastro umanitario.

Israele ha serie ragioni da accampare: i missili di Hamas sulle città del Sud, da anni e malgrado il ritiro unilaterale voluto da Sharon nel 2005, generano angoscia e collera indicibile, anche se i morti non sono molti. Ma ci sono cose non dette, in chi giustamente s’indigna: cose che questi ultimi nascondono a se stessi, dure da ammettere, non vere.

Non è vero, innanzitutto, che lo Stato israeliano reagisca senza voler penalizzare i civili.

Bersagliando i luoghi da cui partono i missili di Hamas, esso sa che subito Hamas e i missili si sposteranno altrove, e che in quei luoghi non resteranno che i civili: vecchi, donne, bambini. Lo dicono essi stessi, ai giornalisti: "Quando parte un missile vicino alle nostre case, scuole, moschee, sappiamo che non Hamas sarà colpito, ma noi". La domanda è tremenda: come spiegare agli abitanti di Gaza la differenza con rappresaglie che, come a Marzabotto, sacrificarono centinaia di civili al posto di introvabili partigiani?

Secondo: non è vero che non esistessero alternative all’attacco aereo e terrestre. Se la tregua con Hamas non ha funzionato, è perché mai iniziò veramente. Perché i coloni avevano evacuato la Striscia ma Israele manteneva il controllo dei cieli, del mare, dei confini. Il cessate il fuoco negoziato a giugno prevedeva la fine del lancio di missili palestinesi ma anche la rimozione del blocco di Gaza, imputabile a Israele. I missili son diminuiti, anche se non scomparsi: ne cadevano a centinaia tra maggio e giugno, ne son caduti meno di 20 nei quattro mesi successivi. Nulla invece è accaduto per il blocco.

Questo è il "fardello di colpe" israeliane, non piccolo, e ancora una volta la geografia aiuta a capire. Dice il governo d’Israele che dal 2005 Gaza appartiene ai palestinesi, ma che non è servito a nulla. È falso anche questo, perché Gaza essendo priva di autonomia non è messa alla prova. Non le manca solo il controllo dell’aria, del mare. Ci sono sei punti di passaggio che dovrebbero consentire il transito di cibo, acqua, elettricità, uomini (lungo la frontiera con Israele il valico Erez a Nord, i valichi Nahal Oz, Karni, Kissufim, Sufa a Est; ai confini con l’Egitto il valico Rafah) e tutti sono chiusi. Per una briciola come Gaza è impossibile vivere senza rapporti coll’esterno, ed essi sono bloccati da quando Hamas ha vinto le elezioni e rotto con Fatah. Anche in tal caso un’intera popolazione paga per i politici, e quando il cardinale Martino parla di campo di concentramento (altri parlano di prigione a cielo aperto) non s’allontana dai fatti. I tunnel servono a contrabbandare armi, è vero. Ma anche a trasportare cibo, medicine, pezzi industriali di ricambio. Il disastro umanitario a Gaza non comincia oggi. E quel milione e mezzo è lì perché cacciatovi dall’esercito israeliano nel ’48.

La punizione è parola chiave, in numerose guerre israeliane. Ma la punizione en masse dei civili non punisce in realtà nessuno, e accresce ire omicide nei contemporanei e nei discendenti. È una sorta di vendetta esibita. È guerra terapeutica che libera da inibizioni morali, guerra fatta per roteare gli occhi, scrive Yossi Sarid (Haaretz, 9 gennaio). È non solo feroce, ma vana. I missili di Hamas continuano a colpire e hanno addirittura allungato la gittata: ormai colpiscono Beer Sheva (36 chilometri dalla centrale atomica di Dimona) e la base di Tel Nof (27 chilometri da Tel Aviv).

Gaza e Cisgiordania sono più che mai interdipendenti. Quel che accade in Cisgiordania ha pesato amaramente su Gaza, e pesa ancora. In questo caso sì: non c’è alternativa alla decolonizzazione e al ritiro. Anche Israele, come tanti imperi, deve passare di qui. Deve smettere di separare i teatri d’azione: di edificare nuove colonie ogni volta che negozia o ogni volta che guerreggia su altri fronti, in Libano o a Gaza. È quello che teme anche oggi Dror Etkes, coordinatore dell’associazione israeliana Yesh Din (volontari per i diritti umani): "Posso certificare che proprio in queste ore stanno spianando terre in Cisgiordania per una nuova colonia presso Etz Efraim, e per un avamposto presso Kedumim". In un libro di Idith Zertal e Akiva Eldar (Lords of the Land, New York 2007) è scritto che la pace è irraggiungibile se non si riconosce che ogni singola colonia, e non solo i cosiddetti avamposti illegali, viola la legge internazionale; se non ci si spoglia dell’ossessione delle armi e delle terre idolatrate, che Olmert stesso ha denunciato poche settimane fa.

Architetto e urbanista, ex direttore generale del ministero dei lavori pubblici, Vezio De Lucia è stato amministratore pubblico ma anche impegnato in politica, assessore all’urbanistica a Napoli, oltre che consulente di amministrazioni comunali, provinciali e regionali.Un osservatorio speciale, il suo, dentro e fuori l’amministrazione pubblica.

Come mai nelle più recenti inchieste giudiziarie sule amministrazioni pubbliche è proprio l’urbanistica il cuore della corruzione? Il controllo e il mutamento del territorio non dovrebbe invece essere dominato dall’interesse pubblico, collettivo?

«In parte non è una novità. Non c’è dubbio però che la situazione si sia aggravata in questi anni. Certo da quando si è consolidata l’urbanistica contrattata, che la prima legittimazione l’ha avuta dall’amministrazione comunale di Milano. Ora è ormai cosa ordinaria: un avvocato che si occupa del caso di Firenze ha recentemente dichiarato che “La procura sta confondendo le contrattazioni giornaliere tipiche dell’urbanistica contrattata con atti di corruzione che invece non ci sono”. Può darsi benissimo che l’urbanistica contrattata non sia corruzione, certo è una sua parente stretta».

Perché?

«Perché affida le scelte sull’uso del territorio - che dovrebbe essere un primario interesse collettivo - agli interessi della proprietà fondiaria. Sarebbe uno scandalo, ma sta per diventare legge della repubblica: alla Camera è tornata in discussione - senza gran scandalo - la famigerata legge Lupi, che prevede esplicitamente che gli atti «autoritativi» della pubblica amministrazione siano sostituiti dagli atti «negoziali». Il ché significa rendere obbligatoria la contrattazione. Il governo del territorio, il suo sviluppo, non sarà dunque guidato dai bisogni e dall’interesse pubblico, ma dall’interesse fondiario».

La pausa nella corruzione, dopoTangentopoli, è durata un paio d’anni, dice Gerardo D’Ambrosio. In quegli anni lei era assessore a Napoli, qual’ è la sua esperienza?

«A Napoli l’urbanistica continua a essere impeccabile. Quando si imposti bene e si organizzi le strutture pubbliche con idee forti, competenza e trasparenza, le difese ci sono. Nessuno sembra accorgersi che a Napoli ci sono mille guai, una corruzione diffusissima: ma l’urbanistica è pulita, nessuno scandalo ha finora sfiorato l’amministrazione comunale».

Più che sui politici, D’Ambrosio punta il dito sui tecnici, i funzionari che preparano i bandi delle gare e i testi delle delibere...

«Ha perfettamente ragione. Infatti, l’ho appena detto, è indispensabile che le amministrazioni abbiano strutture trasparenti, leali, garantite; persone eticamente motivate. Senza, nulla regge. Nemmeno il migliore amministratore del mondo può governare limpidamente senza funzionari e strutture competenti e trasparenti; gli interessi fondiari sono fortissimi...».

Tito Boeri sostiene che il Parlamento è un luogo dove si coltivano interessi molto privati. Voti in cambio di gare d’appalto su misura.

«È corretto, è la conseguenza del modo in cui sono eletti i parlamentari che non hanno più da dar conto al proprio collegio, ma solo ai dirigenti del loro partito. La nuova legge elettorale ha prodotto un sistema che riduce il controllo e la partecipazione dei cittadini e degli elettori. Ai quali spesso si rassegnano e, come dice D’Ambrosio, la rassegnazione favorisce la corruzione».

È come fosse cessata ogni sanzione sociale sulla corruzione. Non sarà, come dice Achille Serra, che siamo un paese troppo qualunquista e individualista? Eppure sembrava forte la tradizione – comunista ma anche liberale, repubblicana, azionista - dei Cederna e dei Tafuri, di Antonio Iannello e di Danilo Dolci...

«Credo sia conseguenza della scomparsa dei partiti di massa. Un esempio: la sconfitta elettorale a Roma del centrosinistra è stata accolta con rassegnazione dall’elettorato. Chi ha vissuto la sconfitta della sinistra nell'85 ricorda quel che avvenne nel Partito comunista. Ci fu una rivolta, assemblee senza fine, capri espiatori, fu preteso il rinnovamento...Questa volta, invece non è avvenuto nulla, a nessuno si è chiesto conto. Senza quel partito, quel dibattito che arrivava fino in borgata, a Roma le denuncie di Antonio Cederna avrebbero avuto certo meno peso. Sono le contraddittorie conseguenze del dopo Tangentopoli: la maggior libertà di manovra che si sono conquistati i partiti e la degradazione dei meccanismi politico elettorali. Una strada pericolosa,come avrebbe dovuto insegnare la parabola del Psi, che aveva trasformato la corruzione da fenomeno marginale a componente organica della politica».

A complicare le cose,l’abusivismo edilizio.

«Il territorio, da Roma in giù, è in mano all’abusivismo. Come hanno accertato molte indagini giudiziarie, l’abusivismo è una delle attività della malavita organizzata. In Campania, non solo in Campania, l’intero ciclo della produzione abusiva è controllata dal clan dei catanesi. A contrastare questo fenomeno non c’è alcun autentico impegno. Certo, c’è sempre il sindaco impegnato, il magistrato, la Guardia di Finanza, le forze dell’ordine... Ma lo Stato è assente. Per l’ultimo condono a Roma sono state presentate 85.000 domande; segno che il territorio è allo sbando. E oggi, con Alemanno, anche quel tanto di repressione dell’abusivismo che era stata messo in campo sembra sia stato messo in discussione».

Scomparsa la questione morale? La tensione etica?

«A volte mi sembra residuale, di nicchia. È scomparso Antonio Cederna, che veniva definito sprezzantemente “l’indignato speciale”. Ma quando scriveva non era solo: i suoi articoli avevano eco fin nelle borgate, c’era un sentimento diffuso, a volte organizzato, la sua indignazione veniva raccolta dalle associazioni ambientaliste. Ora anche l’indignazione è confinata in circoli sempre più ristretti. Sono molto pessimista, è vero. A volte penso, facendo gli scongiuri del caso, che ci vorrebbe uno shock forte, uno scatto di indignazione analogo a quello che si provocò dopo la frana di Agrigento nel 1966. Sull’onda di quell’indignazione fu non solo vincolata la valle dei Templi,ma il Parlamento varò la legge ponte del 67: un testo illuminato che ha assicurato almeno dieci anni di buona urbanistica».

La ribellione della giovane generazione greca, la rivolta di Malmö e quella di Copenhagen dello scorso anno, i movimenti studenteschi di Italia, Spagna e Francia testimoniano l'affermarsi di una Next Left, postcomunista e postnovecentesca, che porta a maturazione i fermenti dei movimenti che da Praga-Genova in poi hanno scosso la società europea. Nella Grande recessione che, volenti o nolenti, ci precipita tutti nel XXI secolo, la Next Left raccoglie il testimone della New Left del tardo XX secolo. Oggi, gli epigoni della vecchia stagione militano in partiti di sinistra orientati al riformismo sociale e all'opposizione parlamentare (Die Linke, Syriza, SP olandese ecc.). Al di là del massimalismo verbale e della bandiera rossa che sventolano, queste formazioni hanno abbandonato ogni velleità anticapitalista, mentre l'iniziativa è passata ai movimenti che dal 2000 a oggi hanno agitato le città dell'Unione europea e oltre.

L'insorgenza della generazione esclusa dal welfare e discriminata sul lavoro, perseguitata da una politica di sicurezza razzista e classista, apre una nuova fase nella politica europea. Con dirompenza e coraggio, ad Atene come a Colonia (dove gli antifa europei hanno mandato via a gambe levate Lega, Vlams Blok e altri mostri della xenofobia europea), a Malmö (dove giovani arabi e svedesi hanno occupato un'ex moschea e affrontato per tre notti la polizia venuta a sgomberarla nel quartiere di Rosengård) come a Roma (dove collettivi e centri sociali sono intervenuti per porre fine alla violenza dei gruppi neofascisti contro il corteo studentesco), i giovani sono insorti denunciando la violenza di uno stato sempre più di polizia e opponendosi al tentativo di risolvere la crisi con altri tagli alla spesa sociale, proprio mentre migliaia di miliardi vengono versati per salvare i banchieri. La giovane generazione europea si ribella alla tentazione dell'eurocrazia e dei governi dei maggiori stati europei di affrontare la crisi in chiave di austerità, autoritarismo e sostegno ai profitti e alla rendita, ma espone anche in tutta la sua inconsistenza la battaglia in difesa dello stato-nazione condotta dalla sinistra «rossa» nei referendum francesi, olandesi e irlandesi.

I movimenti di oggi sono il frutto del ciclo di lotte che da Seattle va a Rostock: sono irriducibilmente transnazionali e orientati all'azione diretta, si mobilitano e organizzano in rete, sono creativi e imprevedibili. Propendono per l'anarchia, in senso più pratico e subculturale che ideologico. La combinazione di democrazia radicale e lifestyle anarchy produce effetti sorprendenti, come si è visto a Seattle e Buenos Aires. Di fronte all'assassinio di Alexis Grigoroupolos, freddato con tre colpi da un poliziotto in un sabato come tanti nel quartiere di Exarchia, ha preso corpo uno spontaneo riot di massa dell'intera gioventù del paese. Si sono sollevati tutti, dagli studenti radicalizzati ai giovani immigrati albanesi, macedoni e bulgari che sono stati i primi a subire i colpi della crisi. Il governo Karamanlis ha portato avanti una politica di tagli simile a quella che Tremonti e Brunetta vogliono imporre in Italia e a cui si è opposta l'Onda anomala. Diversamente dalla situazione italiana, dove la sinistra esistente sembra più preoccuparsi di contenere la rabbia sociale che di fare opposizione, esiste un'ampia fascia della società greca che appoggia le manifestazioni studentesche. Per domani è già convocata un altro corteo di studenti, i sindacati restano sul piede di guerra, in particolare dopo l'accecamento di una sindacalista bulgara ad Atene, gli scontri con la polizia e l'occupazione di radio e televisioni continuano.

In un recente articolo, l'Independent si è chiesto: perché la gioventù europea è in rivolta? E ha concluso: Atene e Malmö mettono in luce lo stesso disprezzo per le autorità e le aziende e vedono scendere in campo la stessa coalizione di giovani autonomi e immigrati di seconda generazione che condividono la certezza di essere parte di una generazione sacrificata. Perché la ribellione di Atene accende la rivolta dei liceali di Parigi e dei giovani arabi e autonomi di Malmö? Per rispondere, bisogna guardare alle subculture sovversive delle metropoli europee e al contenuto delle pratiche radicali messe in campo dal 2000 a oggi, che a nostro parere mettono in luce il consolidamento di una nuova sinistra eretica.

Dopo Seattle, a mostrarsi vitali sono soprattutto le due grandi eresie della sinistra: autonomia e anarchia. I graffiti firmati con l'A cerchiata oppure con il cerchio con la saetta riempiono i muri delle città greche e di tutta Europa. La politica dello squatting e dell'autogestione, l'antirazzismo e l'antimilitarismo, l'anarcosindacalismo e l'anarcofemminismo, la cultura queer e transgender, l'animalismo e il veganesimo, la sperimentazione con tecnologie digitali e/o ecologiche, il rifiuto della proprietà immateriale così come di quella immobiliare sono l'anima della Next Left in tutte le città europee (...).

Ma sarebbe riduttivo considerare la politica del riot come l'unica o principale componente della Next Left. Di fatto, le correnti dell'autonomia e dell'anarchia si sono fecondate con il femminismo e l'ecologismo. Forse ancora più del black, il pink è il colore emergente dalla sinistra eretica europea. La pink samba a Londra, il pink block a Genova, il clown army a Gleneagles e Rostock, il proliferare di queer barrios nei campeggi di azione contro vertici e basi, frontiere e discriminazioni, l'estetica del carnevale e delle drag queen, simboleggiano uno stile di azione diretta nonviolenta che spesso ottiene maggiori risultati dello scontro diretto con le forze dell'ordine. (...)

L'altra tonalità emergente è il radical green. Nella misura in cui i partiti verdi si sono rassegnati alla gestione dell'esistente e a fronte dell'emergere di un capitalismo verde sulla spinta dell'Oscar-Nobel a Gore fino ad arrivare all'elezione di Obama, si afferma l'urgenza dell'azione collettiva per smascherare i palliativi di mercato strombazzati da governi e compagnie. Questi temi si sono posti con forza grazie ai campi di azione climatica che dall'Inghilterra alla Germania si stanno diffondendo in Europa, catalizzando una grande alleanza ecologista che va da Greenpeace a Rising Tide e Klimax, in vista del nuovo patto sul clima in sostituzione di Kyoto che sarà discusso a Copenhagen nel dicembre 2009.

Per concludere, la nuova opposizione in Europa è autonoma, anarchica, meticcia. I partiti ex comunisti o socialisti di sinistra farebbero bene a trovare esiti istituzionali alle spinte della sinistra eretica, invece di cercare di arginare o peggio sconfessare la turbolenza creatrice dei giovani delle città europee. Soprattutto, si devono impegnare a difendere i movimenti dalla repressione poliziesca e giudiziaria, e iniziare a riaversi dalla subalternità sociale e culturale che in questi anni li ha ripetutamente condannati a farsi dire dagli «altri» che cosa è male e che cosa è bene, che cosa si può fare e che cosa non si può fare.

Vedere le piazze antistanti antiche cattedrali gremite di musulmani in preghiera dovrebbe suggerire alcune riflessioni più articolate di un semplice stupore, di una polemica di bassa lega, di una veloce nota di costume. Innanzitutto per il luogo fortemente simbolico: da secoli in Italia la piazza su cui si affaccia la chiesa principale di una città riveste un carattere emblematico: affermazione forte della presenza del cristianesimo al cuore dell´abitato urbano e, nel contempo, faccia a faccia esplicito tra religione e società. L´agorà, il luogo del dibattito civico, del convergere di interessi e attività sociali profane fronteggia il sito per eccellenza della presenza del religioso nella vita quotidiana: cattedrale e palazzo di città, l´una sovente di fronte all´altro, sono lì a ricordare la mai risolta dialettica tra Dio e Cesare, tra città di Dio e città degli uomini.

Ma nei giorni scorsi piazze abituate ad accogliere manifestazioni e cortei, oltre che il quotidiano andirivieni dei centri storici, si sono riempite di oranti, rendendo manifesto un intreccio di preghiera e protesta. Ora, è innegabile che in uno stato democratico e in una società civile lo spazio pubblico debba essere e restare disponibile per la manifestazione pacifica del dissenso, per la protesta o la pressione, anche dura ma sempre nei limiti della legge, di componenti dell´opinione pubblica o di organizzazioni politiche o sindacali. Tuttavia l´immettere nell´esercizio di questo diritto alla libertà di espressione, anche collettiva, una così esplicita connotazione religiosa mi pare metta a rischio sia la natura laica delle contese socio-politiche sia l´essenza stessa della preghiera

E questo, indipendentemente dalla religione confessata di quanti trasformano una manifestazione di protesta in momento di preghiera collettiva. Non dovremmo dimenticare, infatti, l´antichissima e mai sopita tentazione di arruolare nelle proprie schiere la divinità, di identificare i propri nemici con quelli di Dio, di far splendere gagliardetti e insegne militari in mezzo a paramenti sacri, di benedire armi da guerra e strumenti di morte: caratterizzare come religioso uno scontro sociale o etnico significa accrescere le potenzialità distruttive del conflitto e innescare una deriva di cui finiscono vittime la convivenza civile e il confronto democratico in uno stato laico.

Ma anche la qualità autentica della preghiera esce mortificata dalla commistione con la lotta politica. Nel 1965 il grande teologo poi cardinale Jean Daniélou scriveva un libro memorabile, L´oraison, problème politique, in cui poneva il problema della preghiera divenuta sovente evasiva nei confronti dei problemi della polis. Pur con qualche nostalgia della cristianità, l´opera poneva il problema serio del rapporto tra storia, politica e preghiera, problema che riguarda tutte le fedi perché in qualsiasi religione la preghiera non può non accogliere dentro di sé ansie, sofferenze, grida e invocazioni di giustizia, perché cessino il male e l´oppressione e il persecutore venga disarmato. Ma al contempo la preghiera non può essere strumentalizzata fino a renderla una delle armi con cui si conduce una battaglia per una pur giusta causa.

Nel Vangelo di Matteo, Gesù ha ammonito severamente i suoi discepoli: "quando pregate non fate come quelli che con un comportamento nascondono le loro vere intenzioni e pregano sulle piazze per essere visti dagli uomini" (Mt 6,5). Questo non significa confinare il religioso nel privato, negando una dimensione pubblica del culto, ma fuggire un´ostentazione di ciò che è più intimo e autentico nella vita di un credente per piegarlo ad altri scopi. Ogni credente ha diritto alla libertà di manifestare, vivere, proclamare, far conoscere la propria fede, ha diritto ad avere un luogo per la preghiera anche comunitaria e chi oggi in Italia nega questo ai fedeli di altre religioni, in particolare ai musulmani, non solo ferisce la democrazia, ma compie un gesto estraneo alla logica cristiana, la quale può chiedere ma non pretendere o porre come condizione la reciprocità.

Vi è inoltre un aspetto delicato della preghiera, difficilmente spiegabile a chi non è credente: la preghiera, infatti, è altra cosa dal grido spontaneo che sale dall´angoscia, non è il ricorso a un Dio tappabuchi che interviene e toglie al credente ogni responsabilità e dovere di azione. La preghiera è ascolto di una presenza invisibile che il credente riconosce in Dio, un operare discernimento, un decidere, un trovare ispirazione per la vita quotidiana concreta. Nulla è estraneo alla preghiera e tutto ciò che è umano può in essa trovare posto: gioia e lamento, pianto ed ebbrezza, fiducia e protesta... Chi conosce i Salmi, la preghiera che ebrei e cristiani continuano a cantare ogni giorno da millenni, sa che in essi c´è intimità e storia, vicende personali ed eventi politici del popolo di Dio e degli altri popoli.

In questo senso nel cristianesimo si è sempre avuta la percezione che la preghiera è anche una componente della storia, cioè una forza efficace che fa storia con l´umanità, capace di compiere il bene ma anche di commettere il male. Se infatti pregare è "decidere con Dio", se la preghiera fa sì che l´agire sia sotto la guida dello Spirito, se porta a "intercedere", cioè letteralmente a "compiere un passo tra" due situazioni, allora proprio il suo indirizzare la responsabilità umana diventa componente della storia. Agli occhi di chi non la conosce e non la pratica può apparire operazione vana, stolta o addirittura arrogante, ma per chi ha fede la preghiera è davvero efficace.

In questa situazione non si dimentichi che la preghiera cristiana trova la sua connotazione più autentica nell´essere preceduta dalla riconciliazione: il monito evangelico ad astenersi dal presentare l´offerta a Dio prima di essersi riconciliati con quanti hanno qualcosa contro di noi, l´impegno a rimettere i debiti ai propri debitori per poter invocare il perdono da Dio, l´invocazione della pace come dono di Dio e profezia inverata nella storia sono tutte dimensioni che rendono la preghiera cristiana "disarmata", libera da ogni coercizione, impossibilitata a essere difesa con le armi, sull´esempio della preghiera di Gesù al Padre nell´ora della prova decisiva. è questa l´espressione genuina della preghiera capace di muovere le vicende della storia, come testimoniano figure come Francesco d´Assisi: invocazione a essere nel mondo strumenti disarmati, pacifici e pacificatori della volontà di Dio che è volontà di bene, di vita piena per ogni essere umano.

Viviamo un´ora difficile, una stagione in cui si oscilla tra negazione del dialogo interreligioso e desideri di ripresa di una cristianità che escluda l´altro eletto a nemico, un´ora in cui vi è anche chi, logorato da questo contenzioso espresso con la religione, finisce per avversarla o per pensare che tutte le religioni siano uguali e incapaci di offrire qualsiasi messaggio di umanizzazione. Per questo è fondamentale che la preghiera sia mai politicizzata, non venga mai messa al servizio della violenza né dalla violenza si faccia servire: sia invece voce dei senza voce, orecchio teso ad ascoltare il grido dei poveri e degli oppressi, mani levate a invocare quella giustizia che esse stesse plasmano giorno dopo giorno, ma nella mitezza di chi cerca di vincere il male con il bene e nella franchezza di chi sa rendere a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.

(l´autore è priore della comunità monastica di Bose)

«Levolpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo», spiega Gesù nel Vangelo di Matteo. Eppure non passa giorno nel nostro (sedicente) cattolicissimo Paese senza che tanti (sedicenti) cattolici con la bocca piena di parole bellicose in nome delle tradizioni cattoliche mostrino un quotidiano disprezzo verso chi «non ha dove posare il capo». Un esempio? L'altolà della polizia ai volontari che portavano tè caldo ai clochard rifugiati nella stazione di Mestre: «Non avete l'autorizzazione».

Ferocia burocratica. Degno cesello all'ottusa resistenza opposta dalla società Grandi Stazioni al Prefetto che in questi giorni di neve e gelo, segnati dalla morte di un clochard a Vicenza, ha dovuto fare la faccia dura per ottenere che gli androni delle due stazioni veneziane non fossero più chiusi e sbarrati dall'una di notte alle cinque di mattina. Quello della città serenissima, dove la Regione ha drasticamente tagliato negli ultimi due anni gli aiuti ai senzatetto (ai quali destina un quarto della somma stanziata per le feste di compleanno della Repubblica del Leon) è però soltanto l'ultimo di una catena di episodi che marcano una continua e progressiva indifferenza, se non proprio insofferenza, nei confronti degli «ultimi tra gli ultimi». Basti ricordare la morte di «Babu» sotto i portici del Teatro Carlo Felice di Genova dopo la sbrigativa operazione di «pulizia» (o «polizia»?) con la quale alla vigilia di Natale erano state buttate via le coperte «sporche» regalate ai senzatetto dalla Caritas. O la bravata criminale dei quattro teppisti riminesi che hanno dato fuoco a un clochard «per noia». O ancora la motivazione surreale della multa di 160 euro data a fine dicembre da certi poliziotti fiorentini a poveracci che passavano la notte all'addiaccio: «Dormiva in modo palesemente indecente».

«Il decoro! Il decoro!». Questa è l'obiezione che si leva. La stessa che ha spinto il Comune di Verona, guidato da Flavio Tosi, a pretendere che la carta d'identità dei «barboni» venisse cambiata. Prima, alla voce «indirizzo », c'era scritto: «Via dell'Accoglienza ». Un piccolo eufemismo, un po' ingenuo, per non marchiare il titolare del documento. Adesso no: «Senza indirizzo ». Per carità: ineccepibile. Però, «dietro», c'è tutta una filosofia. Sempre più tesa a tenere ben separati «noi» e «loro».

Sempre più allergica a chi «rovina» l'immagine delle città. Sempre più sbuffante verso gli emarginati. Fino a spingere tempo fa l'allora sindaco di Vicenza Enrico Hullweck a vietare l'accattonaggio ai medicanti affetti da «deformità ributtanti». Una definizione che, al di là delle colpe di certi truffatori (da colpire: ovvio), suonava oscena e offensiva per ogni disabile.

Eppure, quei «barboni» che oggi danno tanto fastidio a una società spesso indecente ma ringhiosa custode del feticcio della «decenza», sono una parte della nostra vita. Da sempre. Della vita religiosa, come ricorda la scena di San Francesco che dona il mantello a un povero nel ciclo di affreschi di Assisi attribuiti a Giotto. Della vita musicale, come ci rammentano le storie del suonatore di organetto che cammina scalzo nella neve, ne Il viaggio d'inverno di Franz Schubert, senza incontrare chi gli metta un centesimo nel cappello oppure della Frugola che ne Il tabarro di Giacomo Puccini, è «perennemente intenta a rovistare tra i rifiuti».

Fanno parte della nostra vita letteraria, dal barbone Micawber nel David Copperfield di Charles Dickens all'Andreas Kartack de La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth fino a Il segreto di Joe Gould, il brillante intellettuale laureato ad Harvard che aveva deciso di vivere da clochard per scoprire l'essenza dell'uomo «tra gli eccentrici, gli spostati, i tubercolotici, i falliti, le promesse mancate, le eterne nullità» e insomma tutti quelli senza casa: «gli unici tra i quali mi sono sempre sentito a casa». Per non dire del cinema, dall'irresistibile Charlot il vagabondo al tenerissimo Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, da Archimède le clochard con Jean Gabin al Bodou salvato dalle acque di Jean Renoir fino a La ricerca della felicità, di Gabriele Muccino, benedetto da trionfali successi al botteghino. Prova provata di come in tanti riusciamo a palpitare e commuoverci e fare la lacrimuccia per le sventure di Copperfield o di Will Smith, costretto dalla corte a vivere come un barbone. E usciti dal cinema scansano l'ubriacone a terra sul marciapiede: «Dio, quanto puzza! ». Eppure, le cronache di questi anni ci hanno insegnato a conoscere un po' di più, i nostri «santi bevitori». Finiti spesso sotto i ponti, dicono i dossier, magari solo perché lo Stato, dopo aver abolito l'orrore dei manicomi, si è dimenticato di trovare delle alternative decenti per coloro che non ce la fanno ad affrontare da soli l'esistenza e non hanno una famiglia in grado di farsi carico del fardello. Oppure perché travolti da rovesci della vita. O sconvolti dal tradimento delle persone in cui credevano. O schiacciati da un dolore troppo grande.

Persone come Luigi Pirandello, che aveva capelli lunghi e barba, era omonimo dello scrittore di cui il padre era cugino, aveva studiato, parlava inglese e francese ma girava nel centro di Roma spingendo un carretto dove raccoglieva cartoni. O Filippo Odescalchi, figlio di don Alessandro Maria Baldassarre, principe del Sacro Romano Impero, discendente di papa Innocenzo XI, che abbandonò all'inizio degli Ottanta il palazzo di famiglia in piazza Santi Apostoli per andare ad abitare sotto il colonnato di Palazzo Massimo insieme con una donna e un barbone che indossava sempre il frac e il papillon, si presentava come «Ele D'Artagnan, attore cinematografico, figlio del grande Toscanini» e chiedeva a tutti un appuntamento con Federico Fellini: «Deve darmi una buona parte nel prossimo film perché poi ho deciso che mi ritiro».

Persone come Eugenia Bobbo, che in gioventù era stata una bellissima ragazza di Chioggia e aveva fatto perdere la testa a un erede di José Echegaray y Eizaguirre, matematico, drammaturgo, politico, ministro spagnolo, insignito nel 1904 del Nobel per la letteratura. Rimasta vedova, si era lasciata andare. Quando morì, i giornali scrissero che «per trent'anni aveva vissuto da barbona sotto i portici di palazzo Ducale, tra una panchina di marmo e la quinta finestra al pianterreno », che «parlava quattro o cinque lingue, aveva una cultura impressionante e in trent'anni non aveva mai chiesto l'elemosina» e viveva delle premure di un po' di nobildonne, prima fra tutte la spagnola Duchessa di Alba e raccontava: «A teatro, quand'ero giovane, tutti i binocoli erano puntati su di me».

Persone che, per i motivi più diversi, si lasciano alle spalle tutto. E alle quali, oltre a qualche coperta in questi giorni di gelo, una cosa almeno la dobbiamo: un po' di rispetto.

Postilla

Volete comprendere perché riteniamo che i “non luoghi” (le stazioni ferroviarie, i centri commerciali, gli aeroporti), ben lungi da essere “superluoghi” e strutture moderne capaci di sostituire le piazze, ne siano l’esatto contrario? Volete comprendere perché sosteniamo che essi siano l’esatto corrispondente della riduzione del cittadino a cliente, dell’uomo a consumatore di merci spesso inutili? Volete comprendere perchè abbiamo sostenuto che l’operazione dei manager delle ferrovie italiane “cento stazioni - cento piazze” sia stata una pericolosa campagna di mistificazione? I primi due capoversi dell’articolo di G. A. Stella vi aiuterànno a comprenderlo. È una testimonianza lucida ed efficace del disastro che la cattiva urbanistica compie, della degradazione dell’uomo e nella società di cui è veicolo. Nell’inconsapevolezza dei decisori: sia di quelli tecnici che di quelli politici.

Appena lanciato un appello che denuncia il massacro di Gaza- quello promosso a caldo da Acli,Arci, Lega Ambiente - le adesioni sono arrivate subito e a migliaia. Così già avviene per il documento più elaborato proposto ora dalla Tavola della Pace (che aggrega un arco di associazioni anche più esteso, con la convocazione di una appuntamento ad Assisi il prossimo 17) e che invita all'azione e ad una riflessione strategica. Vuol dire che la gente ha voglia di schierarsi, di esprimere il proprio sdegno, di fare qualche cosa almeno per far cessare il fuoco e ottenere il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia. E infatti una serie di iniziative locali stanno partendo un po'ovunque.

E tuttavia non possiamo non rilevare che fino ad oggi la risposta dell'Italia democratica è stata del tutto inadeguata rispetto all'enormità dell'attacco. Tanto più stridente in Italia, il paese dove la protesta è stata finora più limitata, e dove invece tradizionalmente la questione palestinese era stata sempre molto sentita da un'opinione pubblica assai vasta. Questa volta sono stati invece soprattutto i direttamente colpiti - i palestinesi e gli arabi immigrati - ad animare le manifestazioni, in una dolorosa solitudine, accompagnati da qualche insensato incendio di bandiere.

Non possiamo non chiederci seriamente perché. Ancora fino a pochi anni fa, quando l'Iraq fu aggredito, la reazione fu vasta e forte, coordinata a livello mondiale. Non è così oggi.

E' troppo facile rispondere che dipende dal fatto che i movimenti non ci sono più, che le forze messe in moto dai Forum sociali sono ormai cosa del passato, inghiottite dal berlusconismo. Certo, un indebolimento indubbio c'è stato, anche una vera involuzione politico-culturale. Ma se oggi nessuno scende in piazza come prima è soprattutto perché da molto tempo il movimento non solo non vince, ma non ottiene alcun riscontro politico. Non dal governo, e - che è ancora più grave - nemmeno dalle forze che dovrebbero essere di opposizione. Il senso di inutilità della lotta produce inesorabilmente paralisi, disimpegno. Rassegnazione e casomai solo la rabbia dell'impotenza, o sfogo nell'agorà virtuale del web che certo ha un suo peso, ma non è, non può essere, sostitutiva della mobilitazione fisica.

Che fare, allora? Il segnale che viene da queste giornate di relativo silenzio è preoccupante ben al di là della vicenda di Gaza. Indica ancora una volta quanto profonda sia oramai la crisi politica, la sfiducia nella politica. Quanto forte sia ormai l'antipolitica.

Pensare di risolvere il dramma mediorientale ormai incancrenito con qualche corteo in effetti appare a tal punto irreale che si capisce come non si abbia voglia nemmeno più di provarci. L'atonia delle forze politiche crea un vuoto che fa passare a tutti la voglia di scuoterle.

E tuttavia bisogna reagire. Vi sembrerà patetico questo richiamo al volontarismo e forse lo è. E però ci sono alcune fondamentali ragioni per cui occorre farlo: perché se lasciamo i palestinesi soli, e con loro chi condivide quel disgraziato territorio mediorientale, non faremo che accendere ancor più la tentazione di atti disperati, una tendenza del resto già sempre più diffusa; perché lo dobbiamo anche a quel drappello di coraggiosi israeliani che si stanno ribellando alla politica del loro governo e che sarebbe tragico se lasciassimo senza eco.

E perché anche se non saranno le nostre manifestazioni a sciogliere il nodo israelo-palestinese, dichiararsi a priori impotenti equivale a far passare la tendenza più pericolosa: quella che consiste nel sostenere che non c'è ormai più soluzione.

So che le parole appaiono ormai tutte vane. Ma per difficile che sia occorre continuare a dire almeno una cosa: che con questa politica Israele si condanna a una prospettiva senza pace, perché ogni vittoria strappata con il sopruso della forza militare verrà pagata duramente con l'insicurezza permanente, perchè la diffusione del terrorismo sarà incontenibile e così l'odio di coloro che abitano la stessa regione nella quale il popolo israeliano ha deciso di vivere. Serve a spingere gli stessi palestinesi, di cui pure è comprensibile una politica spesso dettata dalla disperazione, a ricercare strade più efficaci per la propria liberazione. Serve a noi - la sinistra- per ricostruire la nostra soggettività, ridare senso ai nostri valori, per non sentirci vermi che strisciano a terra schiacciati dai potenti. Vorrei aggiungere: a non doverci vergognare.

Nel frattempo al Tg1 Gaza è già passata terza notizia, preceduta dal dramma dei milanesi con la neve e degli europei minacciati di dover ridurre il riscaldamento. È naturale: il dramma dei palestinesi è ormai minore, camion delle Nazioni unite possono infatti transitare per tre ore per andare a soccorrere i sopravvissuti (pochi) dell'ultimo bombardamento che dell'Onu ha distrutto una scuola. Allo scadere del termine, non un minuto di più, le bombe ricominceranno a cadere, ma domani - state tranquilli - potrà passare nuovamente chi va a raccogliere i feriti e i cadaveri che nel frattempo quelle bombe hanno mietuto.

La striscia insanguinata di Gaza è l'ultima testimonianza di una tragedia senza ritorno, ormai avviata verso la soluzione finale. In questi giorni migliaia di feriti e centinaia di morti, vittime dei bombardamenti e dell'attacco terreste della grande potenza nucleare israeliana, si sono aggiunti alle decine di migliaia di persone in condizioni disperate a causa della miseria, delle malattie, della fame. I ricatti finanziari e l'embargo imposto da Israele alla popolazione di Gaza non intendevano colpire soltanto il movimento di Hamas.

Né si può minimamente pensare, nonostante i fiumi di retorica versati dagli opinionisti occidentali, che l'operazione «Piombo fuso» fosse stata progettata per replicare ai razzi Qassam. In dieci anni questi rudimentali strumenti bellici non avevano provocato più di una decina di vittime israeliane.

Gaza deve scomparire, soffocata nel sangue: questo è l'obiettivo strategico delle autorità israeliane dopo il fallimento del «ritiro» voluto da Sharon nel 2005. Gaza verrà falciata come entità civile e come struttura politica autonoma: non a caso i missili e i carri armati israeliani stanno distruggendo accanitamente le sue strutture civili, politiche e amministrative. Gaza verrà ridotta a un cumulo di macerie e scomparirà come sta scomparendo la Cisgiordania, che ormai sopravvive come un relitto storico, come una sorta di discarica umana differenziata, dopo quarant'anni di illegale occupazione militare.

Quello che rimarrà del popolo palestinese sarà sottoposto per sempre al potere degli invasori in nome del mito politico-religioso del «Grande Israele». Rispetto a questo mito il valore delle vite umane è uguale a zero, nonostante il «diritto alla vita» di cui ha fabulato la Dichiarazione universale dei diritti umani nel 1948. Il 1948 è proprio l'anno dell'auto proclamazione dello stato d'Israele e della feroce «pulizia etnica» imposta dai leader sionisti al popolo palestinese, oggi rigorosamente documentata da storici israeliani come, fra gli altri, Ilan Pappe, Avi Shlaim e Jeff Halper.

In questi anni l'idea di uno stato palestinese è stata l'ultima impostura sionista, sostenuta dal potere imperiale degli Stati uniti, con la complicità dell'Unione europea. L'inganno è servito non solo a coprire un processo di occupazione sempre più invasiva dell'esigua porzione di territorio - il 22 per cento della Palestina mandataria - rimasta al popolo palestinese dopo la guerra di aggressione del 1967. L'inganno è servito soprattutto per avviare una progressiva e irreversibile colonizzazione dell'intera Palestina. Oggi non meno di 400 mila coloni sono insediati in Cisgiordania e le colonie si espandono senza sosta.

A Gaza e in Cisgiordania i leader politici palestinesi sono stati costretti all'esilio, incarcerati o eliminati con la tecnica feroce degli «omicidi mirati». Decine di migliaia di case sono state demolite e centinaia di villaggi devastati. Centinaia di pozzi sono stati distrutti e le riserve idriche sotterranee sequestrate e sfruttate per irrigare le coltivazioni delle colonie e dei territori israeliani. Migliaia di olivi e di alberi da frutta sono stati sradicati. Un fitto intreccio di strade che collegano le colonie tra di loro e con Israele - le famigerate by-pass routes - sono state interdette ai palestinesi e rendono ancora più difficoltose le comunicazioni territoriali, già ostacolate da centinaia di check point. A tutto questo si è aggiunta l'erezione della «barriera di sicurezza» voluta da Sharon, il muro destinato a stringere in una morsa la popolazione palestinese, relegandola in aree territoriali sempre più frammentate e dislocate. Nel frattempo Gerusalemme è stata trasformata in un'immensa colonia ebraica che si espande sempre più verso oriente, cancellando ogni traccia della presenza arabo-islamica e dei suoi millenari monumenti.

L'etnocidio del popolo palestinese si consuma nell'indifferenza del mondo, con la complicità delle cancellerie occidentali, l'omertà dei grandi mezzi di comunicazione di massa, il servilismo degli esperti e dei giuristi «al di sopra delle parti», il fervido sostegno del più ottuso e sanguinario presidente che gli Stati uniti d'America possono vantare. Per quanto riguarda il popolo palestinese, il diritto internazionale è un pezzo di carta insanguinata, mentre le Nazioni unite, dominate dal potere di veto degli Stati uniti, macinano acqua nel mortaio e lasciano impuniti gli infiniti crimini internazionali commessi da Israele. La triste vicenda di Richard Falk ne ha offerto in questi giorni l'ennesima prova. Ciò che sicuramente riprenderà vigore in un futuro molto prossimo - e sarà per tutti la tragedia più grave - sarà il terrorismo suicida dei giovani palestinesi, la sola replica «economica» al terrorismo di stato. E altissimo sarà il rischio di un allargamento del conflitto nell'intera area della mezzaluna fertile.

Che senso storico e umano ha tutto questo? Qual è il destino del Medio Oriente? Che funzione svolge la strage di uomini, donne e bambini palestinesi? Come si giustifica la spietatezza del governo Olmert e la complicità delle autorità religiose israeliane?

Una cosa sembra certa e è la funzione sacrificale di un lembo di terra tra i più densamente abitati poveri e disperati del pianeta. Chi persegue un obiettivo assoluto e si crede portatore della giustizia e della verità, si attribuisce un'innocenza assoluta e è sempre pronto, come ci ha insegnato Albert Camus, a imputare agli avversari una colpa assoluta e a spegnere la loro vita negando loro ogni speranza. Gaza è ormai un immenso patibolo dove si celebra di fronte al mondo una condanna a morte collettiva. L'umanità assiste allo «splendore del supplizio», per usare una celebre espressione di Michael Foucault. La pubblica esecuzione della condanna a morte dei propri avversari è uno strumento essenziale di glorificazione di un potere che si sente più che umano.

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