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Sardegna, l'ira del mattone

Renato Soru fa votare un decreto che vieta di costruire lungo le coste della Sardegna e fino a 2 km dal mare. Contro la giunta si scatenano comuni di centrodestra, qualche amministratore di centrosinistra e i quotidiani dell'isola. Tutti hanno qualche interesse in campo



C. SA. - CAGLIARI «Un decreto choc», per il quotidiano La Nuova Sardegna. Soru fautore di un'isola «cavernicola», di un turismo di roulotte, tende, camper, per La Repubblica. Sono gli attacchi da sinistra, al neo presidente della regione sarda che alla terza riunione di giunta ha portato e fatto passare dopo qualche ora di discussione, un decreto che impone per sei mesi la salvaguardia delle coste della Sardegna dalla cementificazione, in attesa di una nuova legge urbanistica. Tutto alla luce del sole, al termine di una campagna elettorale vinta dal fondatore di Tiscali con un margine altissimo, e dove la materia della tutela delle coste era centrale, nel programma del centrosinistra, nella sensibilità dell'opinione pubblica. Proponente della legge è un assessore della Margherita, responsabile dell'Urbanistica, Gian Valerio Sanna, consenzienti tutti gli altri assessori, dai Ds all'Udeur, nonostante le spinte di molti amministratori locali di questi partiti sensibili alla lusinga dell'edilizia. La prima reazione è venuta, con la riunione della giunta ancora in corso, da un consigliere regionale di Forza Italia costruttore edile gallurese. E dalla Gallura proviene il coro di no. Sono tutti sindaci di centrodestra, da Olbia ad Arzachena, alla Maddalena. Avevano pronti piani per costruire insediamenti di alcuni milioni di metri cubi, dalla Costa Turchese della figlia di Berlusconi a sud di Olbia, ai piani del miliardario americano Tom Barrack, succeduto all'Aga Khan nella Costa Smeralda.

Insospettati, almeno insospettabili sino a qualche settimana fa, sono invece gli aiuti che vengono in queste ore al fronte del cemento, da La Nuova Sardegna a La Repubblica. Scontato quello dell'altro quotidiano dell'isola, L'Unione Sarda, dell'editore costruttore Sergio Zuncheddu. I due giornali del gruppo Espresso usano toni inusitati nei confronti di Soru. Per La Nuova Soru è «uno sceriffo», che «usa la mannaia». Poco meno di un incosciente che «va in vacanza mentre infuria la polemica», divertito dell'effetto che fanno i suoi primi provvedimenti. Inspiegabile attacco, per chi non conosce i primi atti della giunta Soru, gli altri «colpi di mannaia» del neo presidente. Uno in particolare, la sospensione di un appalto di 48 milioni di euro per l'informatizzazione della Regione, vinto insieme da un'associazione temporanea di imprese formata da Kataweb del gruppo Espresso, dall'Unione Editoriale dell'editore dell' Unione Sarda, e di Accenture, il cui responsabile per la Sardegna è un figlio del ministro degli interni Beppe Pisanu. L' Unione Sarda ha una ragione in più del giornale concorrente per avercela con Soru, responsabile della bocciatura di una delibera presa dalla giunta di centrodestra a quattro giorni dal voto per le regionali, l'8 giugno, che affidava a una società immobiliare appartenuta al suo editore un appalto di 83 milioni di euro per costruire i nuovi uffici della Regione in un'area al centro di Cagliari. Entrambi i giornali hanno gridato al conflitto di interessi. Soru replica: «Tiscali non parteciperà più ad appalti regionali». Ma ogni giorno è un nuovo assalto.

Il neo presidente gode però secondo molti di una popolarità crescente. Mantiene le promesse, ha bloccato la costruzione delle centrali eoliche, ormai proliferanti. Ha bloccato l'attività estrattiva e devastante delle cave di una società americana che cerca l'oro nell'isola. E' netto sulla costa: «Il turismo non è l'edilizia». Critica il modello dei villaggi al mare, strapieni d'estate, villaggi fantasma per dieci mesi all'anno, «i sardi manovali e camerieri quando va bene». I pezzi di Sardegna che il decreto della giunta salva dalla distruzione, dallo choc della distruzione, sono intere oasi verdi, fra Olbia e San Teodoro, fra Arzachena e Olbia, Santa Teresa e Palau. Vengono bloccati villaggi a Villasimius, Chia, Teulada, Cabras. I sardi che respirano, sollevati, anche increduli, non hanno voce sui giornali.

In difesa delle emozioni. E del turismo

di Sandro Roggio

Negli anni Settanta la regione Sardegna decise di salvaguardare una fascia di 150 metri dal mare che negli anni Novanta - sulla base del dibattito culminato con l'approvazione della legge urbanistica e dei piani paesistici - fu estesa a 300 metri. Poi i piani paesistici sono stati annullati e per lungo tempo non è successo nulla di buono. La politica, con rare eccezioni, ha scelto la strada conveniente dell'attesa, nella continua ricerca di espedienti per fare saltare il sistema delle regole.

La giunta Soru ha deliberato un vincolo provvisorio per una fascia di 2 chilometri dal mare: con una tempestività inattesa dopo tanto ritardo e che consente di guardare al futuro con altri occhi. Un atto salutato da molti, anche fuori della Sardegna, con soddisfazione: che in qualche modo decide l'inclusione delle coste isolane tra i grandi beni culturali del paese. Ma sono le argomentazioni dei vari detrattori di questa linea che spiegano la giustezza della misura.

Sindaci di comuni costieri rei di non avere aggiornato i loro piani urbanistici e qualche speculatore che si preparava ad approfittare dei vuoti normativi. Rieccole le tesi contro le norme di tutela «contrarie ai metodi raffinati della pianificazione» e ovviamente «contro lo sviluppo» e ancora (sob!) «contro l'autonomia dei comuni». Anche se nessuno nega che la sottrazione categorica di parti dei litorali alla trasformazione ha scongiurato uno scempio di considerevoli proporzioni.

Non è vero che il ricorso alle misure urgenti di salvaguardia sia operazione astratta e grossolana, specie nei casi in cui vi sia un ampio riconoscimento del valore di un ambiente e sia avvertito il rischio di danni irreversibili. E' già avvenuto per i beni storico artistici. Nessuno si sorprende che grandi parti delle città italiane siano sostanzialmente immodificabili ancora prima di essere state assoggettate a sofisticate analisi urbanistiche (non solo il profilo dei palazzi del Canal Grande a Venezia o quello di piazza di Spagna a Roma ma una miriade di paesaggi urbani consolidati ). Verso i paesaggi naturali il processo di affezione avviene con più lentezza. Ma per stare al caso serve osservare che in questi anni è cresciuta molto in Sardegna l'attenzione verso i suoi paesaggi litoranei e non è prematuro immaginare di ampliare, con gli strumenti della pianificazione, gli ambiti di tutela. Che potrà avvenire anche con molto consenso.

Nessun atto sopraffattore quindi. E' solo successo che la soglia di sopportazione verso le alterazioni dei luoghi più belli dell'isola è stata ampiamente superata, che i sardi dei paesi e delle città della Sardegna - non solo quelli che si affacciano sul mare - guardano con indignazione ai danni, questi si pregiudizievoli per il turismo dei prossimi anni. E nell'interesse di un'ampia comunità translocale che spetta alla regione continuare nella strada intrapresa. Un sistema di vincoli non è nient'altro che il riconoscimento di siti dove le sensazioni di chi si guarda attorno sono più forti e aumentano appunto quanto più ci si avvicina alla riva del mare, come ad un bosco, alla cima di un monte, ad un antico insediamento («tu chiamale se vuoi emozioni» cantava Lucio Battisti). E il valore di intensità emotiva di questi ambiti è confermato guarda caso dal valore di mercato (qui la rendita è molto elevata in caso di trasformazione) che si spiega con l'alta domanda di possesso esclusivo.

Ma sbaglia chi dice che tutto ciò sia contro il turismo nella linea del protezionismo autarchico. Nel piano paesistico (da redigere con un procedimento semplice) si troveranno le soluzioni per rispondere puntualmente alle attese degli operatori turistici che non hanno niente ma proprio niente in comune con faccendieri e palazzinari.

Vi ricordate Villa Certosa di Berlusconi? Eccola qui

Il nostro Paese, oggi, è impegnato in un grande dibattito sul futuro dell’assistenza sanitaria in America. Nel corso di queste ultime settimane, gran parte dell’attenzione dei media si è concentrata sulle voci di coloro che gridavano più forte. Ciò che non abbiamo udito sono le voci dei milioni di americani che silenziosamente lottano ogni giorno con un sistema che spesso avvantaggia più le compagnie di assicurazione che loro.

Sono persone come Lori Hitchcock, che ho incontrato nel New Hampshire la scorsa settimana. Lori, attualmente, è una lavoratrice autonoma e sta cercando di avviare un’attività commerciale, ma a causa di una epatite C non riesce a trovare un’assicurazione che le stipuli una polizza. Un’altra donna mi ha raccontato che una società di assicurazioni non copre le patologie dei suoi organi interni, provocate da un incidente avvenuto quando aveva 5 anni. Un uomo ha perso l’assicurazione sanitaria durante un ciclo di chemioterapia perché la società assicuratrice ha scoperto che aveva i calcoli biliari, di cui egli non era a conoscenza quando aveva stipulato la sua polizza. Poiché la cura è stata sospesa, l’uomo è morto. Ho ascoltato tutti i giorni tante storie come queste, ed è per questo che stiamo lavorando con rapidità affinché la riforma sanitaria possa essere approvata entro quest’anno.

Non devo spiegare ai quasi 46 milioni di americani sprovvisti di copertura sanitaria quanto ciò sia importante. Ma è altrettanto importante per gli americani che sono assicurati. Sono quattro i modi in cui la riforma che proponiamo darà più stabilità e sicurezza ad ogni americano. Primo, se non avete un’assicurazione sanitaria, potrete avere comunque una copertura di qualità ad un costo accessibile, per voi e per le vostre famiglie, copertura che vi seguirà anche se vi trasferirete, se cambierete lavoro o se lo perderete.

Secondo, la riforma metterà finalmente sotto controllo una spesa sanitaria che è alle stelle, il che significa un risparmio reale per le famiglie, per l’economia e per il governo. Taglieremo centinaia di miliardi di dollari di sprechi e di inefficienze che si nascondono nei programmi sanitari federali come Medicare e Medicaid (i due programmi di assistenza pubblica destinati agli anziani e ai poveri, ndt), e nei sussidi ingiustificati dati alle società di assicurazione che non fanno nulla per migliorare l’assistenza e tutto per aumentare i loro profitti.

Terzo, rendendo Medicare più efficiente, saremo in grado di garantire che venga destinato più denaro a favore dell’assistenza agli anziani, anziché per arricchire le assicurazioni.

Infine, la riforma darà ad ogni americano alcuni strumenti di tutela del consumatore che metteranno le assicurazioni nella condizione di rispondere del loro operato. Un’indagine nazionale del 2007, in effetti, dimostra che nei tre anni precedenti, le assicurazioni avevano discriminato più di 12 milioni di americani che avevano malattie o disturbi già in atto. Le società assicuratrici si sono rifiutate di stipulare loro una polizza, oppure hanno fatto pagare un premio più elevato. Noi metteremo fine a questa pratica. La nostra riforma proibirà alle società assicuratrici di rifiutare la copertura a causa della storia medica di un individuo. Né permetteremo loro di revocare l’assistenza in caso di malattia. Non potranno più ridurre la copertura proprio quando se ne ha più bisogno. Non potranno più limitare arbitrariamente il livello di copertura assicurativa che può essere ricevuta in un determinato anno o nel corso della vita. Nessuno in America deve rovinarsi in caso di malattia. Più importante di tutto, chiederemo alle società assicuratrici di coprire anche i controlli di routine, le cure preventive e gli esami di controllo, come le mammografie e le colonoscopie. Non c’è ragione per la quale non dovremmo affrontare queste malattie in via preventiva. È ragionevole, può salvare delle vite e far risparmiare denaro.

Il lungo e acceso dibattito sull’assistenza sanitaria che si è svolto negli ultimi mesi è un segno positivo. L’America è questo. Ma assicuriamoci di parlare gli uni con gli altri, non gli uni sopra gli altri. Possiamo essere in disaccordo, ma dobbiamo esserlo sui temi veri, non su assurdi travisamenti che non hanno nulla a che vedere con ciò che è stato proposto. Questo è un argomento complesso e delicato, e merita un dibattito serio.

Malgrado ciò che abbiamo visto in televisione, credo che in tutte le case americane si stia discutendo con serietà. Negli anni recenti ho ricevuto innumerevoli lettere e domande riguardo all’assistenza sanitaria. Alcuni sono favorevoli alla riforma, altri sono preoccupati. Ma quasi tutti si rendono conto che bisogna fare qualcosa. Quasi tutti sanno che dobbiamo iniziare a rendere le società assicuratrici responsabili e dare agli americani un maggior senso di stabilità e di sicurezza in materia di assistenza medica. Sono certo che quando tutto sarà stato detto e fatto, potremo avere il consenso di cui abbiamo bisogno per raggiungere questo obiettivo. Siamo più vicini ad avere una riforma della copertura sanitaria di quanto sia mai accaduto in passato. Abbiamo dalla nostra parte l’American Nurses Association e l’American Medical Association, perché le infermiere e i medici del nostro Paese sanno bene quanto sia necessaria questa riforma. Abbiamo un largo consenso al Congresso sull’80 per cento di ciò che stiamo tentando di fare. Abbiamo un accordo con le società farmaceutiche per rendere più economiche le prescrizioni mediche per gli anziani. L’AARP (associazione di tutela dei pensionati, ndt) sostiene questa linea politica e concorda con noi che la riforma deve entrare in vigore quest’anno.

Nelle prossime settimane, i cinici e gli oppositori continueranno a sfruttare politicamente i timori e le preoccupazioni. Ma ciò che è veramente spaventoso, e rischioso, è la prospettiva di non fare nulla. Se manteniamo lo status quo, continueremo a vedere ogni giorno 14.000 americani perdere la loro assicurazione sanitaria. I premi continueranno ad aumentare. Il nostro deficit continuerà a crescere. E le società di assicurazione continueranno a fare profitti discriminando chi è malato. Questo non è il futuro che voglio per i miei figli, o per i vostri. E non è il futuro che voglio per gli Stati Uniti d’America. Alla fine, questo non riguarda la politica. Riguarda la vita e la sopravvivenza della gente. Riguarda le attività economiche. Riguarda il futuro dell’America, se saremo capaci, negli anni a venire, di guardare indietro e dire "quello fu il momento in cui abbiamo fatto i cambiamenti di cui avevamo bisogno e abbiamo dato ai nostri figli una vita migliore". Sono convinto che possiamo farlo e che lo faremo.

(Copyright New York Times Syndicate/La Repubblica. Traduzione di Antonella Cesarini)

Il turismo italiano deve puntare su pochi progetti di sviluppo, intorno ai quali raccogliere l'interesse di finanziatori nazionali ed esteri. Lo ha detto Pietro Modiano, direttore generale del gruppo bancario Sanpaolo, intervenendo ieri a Milano a un convegno, organizzato da Banca Imi, sul tema “Turismo: come diventare grandi”.

Del nanismo degli operatori italiani si è detto e scritto fin troppo negli ultimi tempi. La novità è che alcune realtà bancarie e finanziarie si stanno muovendo per promuovere progetti di aggregazione, per cercare di dar vita a un campione nazionale in grado di aggredire il mercato. La riprova è il piano di rilancio della catena alberghiera Jolly, recentemente annunciato da Banca Intesa. Per Modiano, “in Italia si muore di localismo, mentre servono cose grandi e simboliche”. In concreto, occorre individuare due o tre grandi progetti regionali su cui investire e far convergere tutti gli sforzi.

Di più il d.g. del Sanpaolo non ha detto, ma uno studio curato da Banca Imi e dall'università Luiss ha identificato quattro prodotti chiave per lo sviluppo: un resort mediterraneo; un hub crocieristico, con un porto da 5-6 mila passeggeri; Italian lifestyle, un'offerta di arte e cultura intorno alle città; un distretto integrato del golf. La ricerca evidenzia inoltre che, se l'Italia attuerà investimenti di alto profilo, il turismo potrà contribuire alla crescita annuale del pil nell'ordine di mezzo punto percentuale. Intanto, però, emerge nuovamente una grave lacuna: l'assenza, nel ramo alberghiero e dei tour operator, di soggetti in grado di fare numeri importanti.

Un altro punto ripreso da Banca Imi riguarda la concentrazione delle ferie in agosto. Su questo aspetto è intervenuto recentemente il vicepresidente del consiglio Francesco Rutelli, che ieri ha rilanciato l'idea di distribuire meglio, nell'arco di tutto l'anno, le vacanze degli italiani: sono stati costituiti, a livello governativo, due distinti tavoli per reimpostare il calendario scolastico, insieme ai rappresentanti delle famiglie. Rutelli ha promesso che nel giro di pochi mesi sarà pronta un'iniziativa concreta per favorire la destagionalizzazione delle ferie.

Restano, tuttavia, dei nodi da sciogliere. Vasco Errani, presidente della Conferenza stato-regioni, ritiene indispensabile la creazione di “un cluster di operatori”. Se è vero che “non riusciremo mai a costruire la Tui italiana”, bisogna almeno sforzarsi di dar vita a una rete di imprenditori in grado di presentare un'offerta di migliaia di camere. Ma, con l'aiuto delle banche, è necessario anche stimolare i piccoli albergatori a mettersi insieme, realizzando reti attraverso nuove forme partecipative.

E se Pier Luigi Celli, direttore della Luiss, ha denunciato che il brand Italia “si sta rapidamente logorando”, il presidente dell'agenzia Enit, Umberto Paolucci, ha detto che in queste settimane si sta ridisegnando l'organizzazione dell'ente, partendo dai dirigenti: per esempio, saranno istituite le figure dei product manager. Nel contempo, bisogna puntare sui nuovi mercati, aprendo un ufficio a Pechino. Sempre che si trovino i soldi. Inoltre l'Enit stimolerà gli operatori congressuali a portare avanti il progetto di un convention bureau nazionale.

C’è un concorrente nascosto all’edizione 2007 dell’“Isola dei famosi”.È Astaldi, la seconda società di costruzioni in Italia. A luglio ha firmato il contratto per iniziare i lavori del megaprogetto turistico “Laguna de los Micos”. Il complesso verrà realizzato nella Bahia de Tela, sulla costa caraibica dell’Honduras, a pochi chilometri dalle isole dei Cayos Cochinos, dove il 20 settembre inizia la nuova serie del reality show.La regione è abitata dal popolo afro-indigeno dei garifuna, che vive di pesca in comunità lungo la costa e teme l’impatto sociale e ambientale del turismo di massa.Oggi la Laguna de los Micos è un paradiso di mangrovie, una striscia vergine di spiaggia e vegetazione di oltre 3 km. Il progetto nella Bahia de Tela prevede la realizzazione di quattro hotel di lusso, 256 ville, un campo di golf, un club ippico e un centro commerciale -su una superficie complessiva di oltre 300 ettari-. Il tutto verrà realizzato all'interno del Parco nazionale intitolato a Jeanette Kawas (Pnjk) e di una laguna registrata (con il numero 722) nell'elenco delle paludi protette dalla Convezione internazionale di protezione delle paludi (conosciuta come Ramsar). Perciò il riempimento di gran parte della palude per la realizzazione del campo da golf è illegale. Non ci sono state nemmeno le consultazioni con le popolazioni locali, come vorrebbe l'Accordo n. 169 dell'Organizzazione internazionale del lavoro. Astaldi si incaricherà di realizzare la rete di infrastrutture di base, per un importo complessivo di circa 18 milioni di dollari (il budget complessivo del progetto è di circa 200): l'azienda italiana costruirà le strade, le fognature, il sistema elettrico, quello per la raccolta dei rifiuti solidi e per immagazzinare l'acqua potabile.Il 17 agosto scorso il ministero del Turismo ha posto “la prima pietra” del megaprogetto: presto arriveranno i villaggi vacanze, pronti ad attrarre nel Paese un numero sempre maggiore di turisti occidentali (da Milano ogni settimana parte già un volo charter diretto in Honduras, porta i turisti sull'isola di Roátan, attualmente l'unica “Cancún” del Paese). Non è un caso, perciò, se per il secondo anno consecutivo “i famosi” e l'Isola metteranno per tre mesi le spiagge honduregne in vetrina davanti a milioni di telespettatori italiani (lo scorso anno il programma raccolse il 25% di share). Cosa nasconde l'Isola? Nel dicembre 2006 un'inchiesta della rivista Altreconomia ha rivelato che le isolette dei Cayos, sedi del reality, sono in vendita. In più, il format prodotto da Magnolia e trasmesso dalla Rai sconvolge gli equilibri su cui si regge la vita delle popolazioni locali. Lo scorso anno, ad esempio, la gente del Cayo Chachahuate non poté uscire in barca a pescare per tutto il tempo delle riprese.Il Collettivo Italia Centro America (Cica), impegnato al fianco dei garifuna di Ofraneh, l'Organizzazione fraterna dei popli negri dell'Honduras, lancia domani una campagna internazionale contro Astaldi. Sul blog lisolaeilmattone.blogspot.com dossier e una dettagliata lettera di denuncia (in tre lingue: italiano, inglese e spagnolo) da inviare ai rappresentanti dell'azienda in Italia e in Honduras.

Il Collettivo Italia Centro America (Cica) è un collettivo di base, formato da persone che negli ultimi anni hanno lavorato in progetti di cooperazione popolare in diversi Paesi del Centro America. Lavora per monitorare gli interessi del capitale italiano in America Centrale e denunciare le violazioni dei diritti umani nella regione. (Web: www.puchica.org)

Si consiglia anche di consultare il blog nato per promuovere questa campagna:

http://lisolaeilmattone.blogspot.com/

VENEZIA — «Il turismo veneto ha due nemici. Innanzitutto gli immobiliaristi che riempiono il territorio di seconde case, in particolare sulle coste, ormai solo un costo e non un investimento produttivo. Poi i politici che non capiscono come questo settore non va più valutato in base alle semplici presenze, ma alla loro qualità e redditività». Un attacco duro quello lanciato in piena stagione estiva da Marco Michielli, albergatore veneziano di Bibione, presidente regionale di Federalberghi e di Confturismo, la branca della Confcommercio che rappresenta tutto il comparto. Ma anche la base di una sorta di manifesto per il rilancio del settore a partire dalla regione che in Italia ne detiene il primato. Però anche in Veneto si vedono sempre più evidenti i segnali della crisi complessiva che hanno fatto scivolare il Belpaese al quinto posto della classifica mondiale per visitatori, superata anche dalla Cina, nella quarta piazza, con davanti i capolista Usa, seguiti da Francia e Spagna.

Ma come presidente, l'altro giorno la Regione ha dato le ultime statistiche: nel 2006 le presenze turistiche hanno quasi raggiunto quota 60 milioni, in crescita del 4,6% rispetto all'anno prima...

«Va bene, però quanto rende questa massa? Anche nel nostro ambito i numeri vanno "pesati" più che contati. Quello che conta è quanto ci si guadagna. Per capirci, la Fiat ora ha utili maggiori di quando produceva più automobili. Qualcuno, soprattutto a livello politico, si augura di arrivare a 80 milioni di presenze. Ma lo sanno che un'invasione del genere metterebbe a rischio i fragili equilibri di una regione che è già la più antropizzata d'Italia? Il 15% del territorio, compresi monti, laghi e lagune è urbanizzato. I paesaggi del Giorgione e del Tiepolo sono tempestati di capannoni».

Da imprenditore turistico ad ambientalista?

«No, parlo da chi vive del suo lavoro. I beni naturali e culturali sono la materia prima per la nostra attività che, lo ricordo, è la prima in Veneto per quota di Pil, la ricchezza prodotta e numero di addetti. Ambiente e patrimonio artistico vanno tutelati per garantire il futuro del turismo che, secondo me e tanti analisti, coincide con quello della nostra economia in generale. Tra vent'anni non sarà la manifattura a basso valore aggiunto a trainare il Veneto, ma quella hi-tech. E soprattutto il turismo. Guardiamo cos'è successo in Spagna: partendo da questo settore hanno creato un'economia che ci sta superando».

E invece cosa minaccia l'industria dell'ospitalità veneta?

«Proprio il consumo eccessivo e il saccheggio del territorio avvenuto dagli anni '60 ad oggi. La maggior parte delle vedute dei pittori paesaggisti toscani del '400 è oggi come allora, altrettanto non è possibile qui. Non siamo più poveri e le nostre priorità non sono più quelle degli anni '60. È ora che ci impegniamo a tutelare quanto rimasto per la qualità della vita nostra e dei nostri figli, oltre che per rilanciare il turismo. Questo devono capirlo tutti».

Chi non ci sente?

«Per esempio gli immobiliaristi, non tutti, dediti alla pura speculazione. Alla cementificazione già avvenuta delle coste se ne sta per aggiungere una ulteriore, con milioni di metri cubi edificabili già approvati. E quel che è più grave quasi tutti dedicati ad appartamenti e seconde case in genere, tra l'altro con una crisi in corso da anni delle locazioni balneari. È l'ora di dire basta a queste a nuove costruzioni sulle coste. Con quella tipologia poi significa rovinare il paesaggio e gravare i Comuni di costi per servizi come la nettezza urbana che comunque devono garantire, anche se spesso si tratta di immobili occupati un mese all'anno. D'altra parte i sindaci sono diventati complici, loro malgrado. Per compensare i tagli dei finanziamenti statali agli enti locali concedono licenze edilizie per guadagnarci in oneri di urbanizzazione e introiti del-l'Ici ».

«I politici che devono fare il loro mestiere, cioè programmare senza farsi tirare la giacchetta dagli interessi immobiliari e avvalendosi degli esperti del settore. Devono stoppare i cantieri sulle coste e incentivare le demolizioni degli edifici peggiori e più vecchi sul litorale. Anche concedendo maggiori cubature all'interno, come si fa in Spagna. In Regione l'assessore Zaia è brillante e rapido, ma deve capire che i nodi del turismo veneto non stanno tanto nel

marketing e nella comunicazione. Bensì nella carenza del prodotto che vendiamo su un mercato mondiale sempre più competitivo. Non è integrato, manca la parte d'intrattenimento oggi fondamentale per attirare clientela. Lavoriamo su queste cose, altro che puntare agli 80 milioni di presenze».

«Prendiamo le ville venete. Ce ne sono quattromila, ma solo sette sono visitabili, peraltro in orario d'ufficio. A Grenada l'Alhambra si può visitare anche alle 3 di notte. Le nostre ville, se opportunamente usate e penso al turismo congressuale, si ripagherebbero le spese e magari produrrebbero reddito invece di pesare sulle tasche dei cittadini».

Insomma far ripartire il turismo, veneto e italiano, si può...

«Certo i fattori per essere competitivi li abbiamo, ma non li usiamo. Il governo ripristini il ministero del Turismo per coordinare lo sbando attuale delle strategie di promozione di Regioni. Sul prezzo i Paesi del Sud del mondo ci batteranno sempre. In Veneto si renda l'offerta più appetibile e la si faccia pagare di più. Altrimenti saremo sommersi dall'orda di turisti low cost ».

Marco Michielli è presidente regionale per il Veneto di Federalberghi e di Confturismo

Negli ultimi quindici anni all’Italia sono riusciti alcuni autentici capolavori. I governi hanno tolto fondi ai Comuni incoraggiandoli, in pratica, a "spingere" la sola edilizia di mercato al fine di rattoppare i bilanci.

Gli enti locali hanno autorizzato fra 1995 e 2006 ben 3,1 miliardi di metri cubi di nuove costruzioni, tra residenziali (il 40 per cento) e non. E però, nel contempo, si è acuita la mancanza di alloggi non di mercato, cioè a fitto medio-basso essendo stata compressa a uno scandaloso 0,6-0,7% la quota nazionale di edilizia sociale, quella per i più deboli. Così, sette anni di "boom" edilizio hanno paradossalmente creato una vera emergenza-casa e ferito il paesaggio (grande risorsa nazionale e locale) anche in regioni splendide, Veneto in testa che ha il record di "costruito" e di suoli liberi "mangiati" (oltre 100 chilometri quadrati), con una produzione di cemento e un numero di cave da primato (quasi 600).

IL FAR WEST EDILIZIO

Sull’Annuario dell’Istat 2009 si può leggere che "la coperura dei piani territoriali di coordinamento (competenza delle Province) è quasi completa al Centro-Nord, con le significative eccezioni del Veneto e del Lazio, mentre è quasi assente nel Mezzogiorno". Inoltre il Codice per il paesaggio del 2008 (Settis/Rutelli) è stato congelato dal governo Berlusconi che ha proposto il rinvio della sua entrata in vigore, e quindi l’avvio della co-pianificazione paesaggistica Stato-Regioni, al 2011.

Proprio mentre infuria una sorta di far west edilizio e paesaggistico. Molte Regioni, Toscana in testa, hanno scaricato sui Comuni la tutela del paesaggio con risultati altamente negativi. Sempre l’Istat ci dice che ormai quartieri, case, ville, fabbriche, fabbrichette, capannoni, ipermercati si susseguono senza tregua lungo la pedemontana tra Veneto e Lombardia, una splendida collina ormai distrutta.

UN CONDONO TIRA L’ALTRO

L’effetto dei due condoni edilizi (1994 e 2004, firmati Berlusconi) è stato spaventoso e ancora non se ne conosce fino in fondo l’impatto sul territorio. Sempre l’Istat osserva però che "nel triangolo veneto-lombardo-romagnolo l’edificato invade il territorio extra-urbano". O occupandolo tout court, oppure frazionando le coltivazioni al punto che diventano "enclavi intercluse tra le aree edificate". Di fatto non più libere anch’esse (e non più agricole).

L’EFFETTO PIANO CASA

Ora c’è il Piano casa che, come effetto-annuncio, ha già ridato fiato all’abusivismo presentandosi coi suoi "premi" in cubature (sul già costruito) come una sorta di "condono preventivo". La Conferenza Stato-Regioni, presieduta dal governatore dell’Emilia-Romagna, Vasco Errani, ha bloccato il progetto governativo rivendicando alle Regioni alcune competenze e cercando di migliorare quel primo documento. Il braccio di ferro è ancora in corso. Risulta cancellata in toto la norma che consentiva al proprietario di cambiare la destinazione d’uso, per esempio di un magazzino in una serie di appartamenti, senza limiti di sorta, purché all’interno di quelle mura. Errani sta cercando di strappare un altro risultato importante e cioè il rinvio dell’attuazione del Codice per il paesaggio non al 2011 bensì alla fine di quest’anno, accompagnato da una norma che consenta di finanziare il potenziamento delle Soprintendenze territoriali competenti.

UNDICI REGIONI ALL’ARREMBAGGIO

Mentre a Roma è in corso questa complessa e decisiva partita, ben undici Regioni sono partite per conto loro (in testa il Veneto, la più massacrata dall’edilizia di ogni genere, da cave e altro, e la Toscana, con più limiti) varando o predisponendo piani-casa regionali comunque ispirati alla "filosofia" dei premi del 20 per cento e altro a quanti costruiscono o a quanti demoliscono e ricostruiscono in modo ecologico (più 30 per cento di cubatura). È dell’altro ieri il blitz della Campania, con aumenti fino al 50 per cento. Una corsa sfrenata che ci dice come ormai questo Paese rischi di frantumare la propria unità rinunciando in partenza a leggi-quadro nazionali.

AREE PROTETTE IN PERICOLO

Sono in pericolo pure le aree protette e i centri storici. Non in Toscana dove li si vuole salvaguardare, ma nella grande e già ben cementificata Lombardia, il cui assessore regionale alla pianificazione territoriale Davide Boni (Lega Nord) ha dichiarato che autorizzerà interventi di demolizione/ricostruzione anche nei parchi (già in pericolo sono il Parco Milano Sud e quello del Ticino) e nei centri storici. E le Soprintendenze? Per lui i tempi delle verifiche e delle concessioni non sono garanzia di oculatezza e di trasparenza, ma solo "burocrazia", mentre "la crisi non permette altri ritardi".

I DANNI COLLATERALI

L’ossessione è, secondo l’indicazione di Berlusconi, ridare slancio all’edilizia. Già, ma quale? Quella che serve alla domanda di giovani coppie, immigrati, ceti più deboli, anziani soli?

O quella che serve agli interessi dei costruttori? Quella che si può recuperare nei quartieri già edificati, invecchiati e da ristrutturare? Oppure quell’altra che si mangerà con cemento&asfalto altre decine di migliaia di ettari di terreni agricoli e che ci ha posto in testa alle classifiche del consumo di suolo in Europa? E poi come la mettono con l’articolo 9 della Costituzione secondo cui "la Repubblica", cioè anzitutto lo Stato, "tutela il paesaggio"?

Un’ultima notazione: si vogliono rilanciare insieme l’edilizia (purchessia) e il turismo (di qualità), due cose che fanno palesemente a pugni. Se roviniamo ulteriormente i nostri paesaggi (che contengono tutto, centri storici, castelli, siti archeologici, natura, ecc.), avremo sempre meno turismo qualificato. Ora, il Prodotto interno lordo dell’edilizia supera di poco il 10 per cento del totale nazionale. Quello del turismo gli è inferiore di un punto o poco più, e muove una occupazione ben più diffusa. Anche in termini strettamente economici non sarebbe il caso di prestare attenzione a questi dati evitando politiche cieche e individualistiche del tipo quand le bâtiment va, tout va, vecchie e stravecchie in tempi di new, soft e green economy?

L’ultimo documento di grande rilievo internazionale sulla conservazione e il restauro del patrimonio costruito è senza dubbio la Carta Cracovia 2000, che ha raccolto l’adesione di studiosi di 34 paesi europei ed extra europei. Al punto 11, si sottolinea come «il turismo culturale, oltre che per il suo positivo influsso sull’economia locale, deve essere considerato anche come un fattore di rischio». Si parla solo di turismo culturale, non prendendo nemmeno in considerazione quello con altre finalità e dando quindi per scontato l’altissimo rischio per il patrimonio che queste comportano. In un recente incontro culturale all’Ateneo Veneto è stato reso pubblico che nel 1950 vi era, nel centro storico di Venezia, una popolazione di 145 mila abitanti a fronte delle 500 mila presenze annue di turisti. Per il 2004 i dati parlano di 64 mila abitanti e 14 milioni di presenze annue di turismo.

Le cifre parlano da sole e forse non vi sarebbe bisogno di commento se non fosse per un’incredibile, insostenibile assunto che accomuna quasi tutti gli uomini politici che amministrano direttamente o indirettamente la città di Venezia, così come d’altronde altre città d’Europa. Per tale assunto il turismo dovrebbe sempre aumentare, in conformità alla domanda mondiale. Questo mancato senso del limite, che ottant’anni fa si definiva ingenuamente ed entusiasticamente progressista, è oggi del tutto contrario ad ogni concezione umanistica della realtà ed è contrario, qui a Venezia, allo stesso senso o spirito della città, che fu costruita in riferimento a limiti successivi, con territori acquisiti dalla laguna e nella laguna, con profondissimo rispetto di essa, nonché delle situazioni socio-economiche della collettività in tutti i momenti della storia della città.

Il termine sviluppo, ci dice Abbagnano, deve essere inteso come movimento verso il meglio. Dove è qui il meglio? La parola progresso deriva dal latino, mi muovo pro; questo pro non deve necessariamente intendersi solo come oltre, ma anche a vantaggio. A vantaggio di chi nel nostro caso?

A favorire il senso di sviluppo illimitato, vi è una menzogna, fra le tante qui a Venezia, che ha la finalità di voler far «aggredire» la città da più punti, facendo pensare così di «decongestionare» il centro costituito dalle aree attorno a Piazza San Marco, dove la popolazione ha quasi smarrito ogni suo riscontro psicologico con la città. Al contrario, quest’idea non è che un sotterfugio che condurrà e conduce a un intasamento delle aree periferiche così come sono intasate oggi quelle centrali. Una fermata di ciò che si definisce linea sub-lagunare alle Fondamente Nuove, sarebbe, per esempio, in tal senso decisamente devastante. Si parla, in un panorama mondiale, della limitatezza delle risorse e proprio qui a Venezia, in questa città ricca di risorse culturali, che sono però fragilissime, si vuole pervicacemente procedere ad un cosiddetto sviluppo che è in realtà distruzione.

E in nome di un progresso, che non è certamente a vantaggio dei cittadini, non contenti dello stato di degrado culturale e sociale in cui versa una comunità sempre più privata della propria identità, si tende inevitabilmente ad intaccare la stessa esistenza del costruito.

Le legittime aspirazioni anche economiche dei cittadini veneziani non possono realizzarsi a discapito della città, come se essa fosse un «usa e getta».

Parte da Alghero un appello di urbanisti e intellettuali per migliorare la qualità della vita degli abitanti. Edoardo Salzano promotore di un’iniziativa che vuole ristabilire il concetto di «bene comune» opponendolo alle logiche privatistiche del mercato

«Sardegna fatti bella», recitava qualche anno fa lo slogan di un progetto della Regione volto a migliorare lo stato ambientale e la qualità della vita. «Ma non perdere tempo», sembra essere la risposta di un gruppo di intellettuali che proprio da una città sarda, Alghero, lanciano un appello per trasformare, o ritrasformare, le città italiane in un bene comune: città a misura di abitanti invece che «non-citta ad uso turistico». Proprio come Alghero, dicono. L’idea dell’appello, che sinora ha raccolto oltre duecento firme, è venuta a uno dei maggiori urbanisti italiani, Edoardo Salzano, docente all’università di Venezia, durante una delle sue frequenti visite in Sardegna all’amico e collega Arnaldo “Bibo” Cecchini, presidente del corso di laurea in Urbanistica della facoltà di architettura di Alghero, dove è anche vicepreside.

L’obiettivo? Restituire Alghero agli algheresi, o a chiunque voglia abitarci stabilmente, garantendo servizi adeguati per tutto l’anno ai cittadini e invertendo quella marcia di «disneylandizzazione» che sta trasformando la città «in una distesa informe di servizi e di attività rivolte al turismo». Di qui la proposta di riconsiderare la città come «un bene pubblico e non una merce», e fronteggiare l’inevitabile fenomeno della crescita turistica con un’adeguata pianificazione.

Ma perché, tra tutte le devastazioni che ci sono in Italia e altrove in Sardegna, partire proprio da Alghero? I primi firmatari dell’appello (tra loro gli scrittori Giulio Angioni e Giorgio Todde, il giornalista Giacomo Mameli, la sociologa Antonietta Mazzette), fanno presente che «Alghero è il pretesto, il punto di partenza: una città di alta qualità ambientale e storica, che sta soffrendo sotto il peso di un turismo indifferenziato e non controllato e di un’assenza di pianificazione e di strategie, ponendo a rischio il suo futuro di città».

«Non si tratta - proseguono nell’appello che si può leggere integralmente, e volendo firmare, nel sito http://m.lampnet.org/benecomune/ - della città peggio amministrata d’Italia o di quella con i problemi più drammatici, ma proprio per questo può essere un punto di partenza per un ragionamento e un ripensamento sui temi del governo e della pianificazione urbana, realizzando una carta di Alghero che verrà costruita e presentata nel corso di un convegno nazionale nella primavera del 2009».

Edoardo Salzano, classe 1930, veneziano d’adozione, è un urbanista illustre (ha coordinato il comitato scientifico che ha curato i piani paesaggistici della Sardegna) che dal 2001 ha sul web un blog seguitissimo (eddyburg.it), dove accanto ad appelli per la tutela del patrimonio storico e ambientale, trovi ricette di cucina, consigli per viaggiare, persino per sorridere. «L’idea dell’appello - dice - è nata con l’amico Cecchini. Abbiamo pensato che il destino di una città non deve essere unicamente affidato agli urbanisti o agli addetti ai lavori, perché la sua trasformazione interessa tutti e in primo luogo gli altri saperi. Ricordo anni in cui i problemi delle città e dell’urbanistica erano al centro dell’attenzione politica e dell’opinione pubblica. Questo è accaduto sino agli anni Settanta, quando in parlamento si discusse la legge sulla casa e si introdusse l’equo canone. Adesso non se ne parla più, la città è qualcosa che riguarda solo gli specialisti. E gli immobiliaristi. Ecco, noi abbiamo pensato di dare vita, partendo proprio da Alghero, a una discussione che mobiliti anche artisti, antropologi, storici...».

Città bene comune, d’accordo. Ma dove va a finire la «vocazione turistica» di Alghero e del suo territorio? «Intanto chiariamo - dice Salzano - che il territorio non ha alcuna vocazione a essere edificato. Ha delle caratteristiche, è stato costruito nei secoli dal lavoro della natura e dell’uomo ed è da qua che bisogna partire, dal riconoscerne le qualità. Questo è ciò che mi sembra si sia tentato di fare con il piano paesaggistico».

Si parla tanto di turismo come risorsa fondamentale della Sardegna, ma qual è allora il modello da scegliere? «Io abito a Venezia - continua Salzano - che forse è la città turistica per eccellenza. Sa che mi capita spesso all’aeroporto di incontrare persone che non sanno che è costruita sull’acqua? Vedesse quanta gente cammina per le strade senza sapere cosa sta guardando... Ecco, a mio avviso il turismo dovrebbe essere radicalmente convertito, reso ben diverso da quello attuale. Quest’anno sono stato per la prima volta a vedere la Gallura: è sconvolgente tutto ciò che è stato edificato. Ma soprattutto c’è l’importazione di un modo di vivere che non ha niente a che fare con la Sardegna. Accade perché, dalla Emilia Romagna alla Spagna, ormai si impone un modello unico di turismo. E questa tendenza va combattuta. Io vorrei vedere un turista al quale interessa visitare, conoscere, mangiare i cibi di un luogo. Non mi riferisco a un turismo di nicchia, perché credo che ormai ci sia un potenziale umano molto disponibile, specie tra i giovani».

Ma perché partire da Alghero? «A me sembra che la città storica sia bellissima, mentre trovo brutta l’espansione, forse perché gli architetti sono diventati geometri. Voglio dire: non sono loro che decidono, ma i costruttori. Ma i particolari è meglio che li chieda a Cecchini, che ad Alghero vive da tanti anni».

Detto fatto. Perché partire da Alghero per la vostra battaglia?. «Abbiamo pensato - dice Arnaldo “Bibo” Cecchini - che l’ideale fosse appunto scegliere una città media, come dimensione e come problemi, che avesse molti aspetti interessanti, con non troppi problemi, ed enormi potenzialità. Ma una città che, se non viene amministrata in modo strategico, poi produce una bassa qualità. Mi preme sottolineare che, pur ricoprendo un ruolo istituzionale - continua il vicepreside di Architettura -, qui sono un cittadino, che assieme ad amici storici, architetti e scrittori individua un problema, e cioé la l’assenza di una visione di strategia di pianificazione nel governo delle città. O meglio, che vede solo le iniziative private di chi, legittimamente ma dal suo punto di vista, si batte per i proprio interessi. Ciò che chiediamo è che si torni a una gestione pubblica delle città. Che si creino spazi fruibili da tutti. Se il turismo è il motore dell’economia algherese, allora i suoi aspetti positivi non devono esserlo solo per alcuni, ma vanno utilizzati nell’interesse collettivo e nel miglioramento di tutta la città, e non solo delle zone che ne sono in qualche modo favorite. Poi non vogliamo che il turismo sia qualcosa di contrapposto alla vita quotidiana. È giusto che le bellezze del nostro paese siano fruite da tutti, il nostro non è un atteggiamento elitario. Il problema è come avviene: se in modo incontrollato e predatorio o all’interno di un disegno che migliora la vita di tutti».

Sin qui il punto di vista di urbanisti, storici, scrittori, sociologi: insomma, degli intellettuali. Ma chi di turismo ci vive, cosa ne pensa? «Alghero è una città strana - dice Giorgio Macioccu, presidente di Confturismo e di Federalberghi per il Nord Sardegna, algherese - Nasce benissimo come città catalana, si sviluppa bene ma poi esplode come città turistica e secondo il nostro punto di vista ora ha un po’ esagerato, soprattutto per il mercato delle seconde case, che vedo come speculazioni edilizie, investimenti che poi tengono quelle zone della città morte per sette, otto mesi l’annio. Per non parlare degli algheresi che vogliono comprare casa a cifre accettabili e non lo possono più fare. Chiaro che una città che passa da 40 mila abitanti in inverno a 120-130mila presenze estive viene snaturata. Il sindaco ha promesso di ascoltare il nostro parere riguardo al piano urbanistico comunale. Noi vorremmo una città che cresca in modo diffuso. In larghezza, cioé, e non in altezza, come quei palazzoni che sono un chiaro segnale di speculazioni. Un città con molti spazi verdi, anche tra casa e casa, che cresca verso Calabona, verso Fertilia e oltre, verso l’aeroporto. E le seconde case, quelle affittate due mesi l’anno, spesso in nero: va fatto un censimento, servono maggiori controlli. I servizi di una città vanno pagati da tutti». E l’appello? «Per me è un motivo di soddisfazione il fatto che parta da Alghero».

«Grazie per i consigli, ma il piano c’è eccome»

Il sindaco Marco Tedde: uno strumento strategico per governare lo sviluppo

«L’appello? Credo sia un iniziativa utile, se è finalizzata a consentire ai cittadini di vivere meglio e ai turisti e agli ospiti di trovare una città più accogliente». Bastano poche parole al telefono e si capisce che il sindaco di Alghero, Marco Tedde, avvocato cinquantenne, è uno che la sa lunga. Può anche permetterselo, del resto, forte del 64 per cento di preferenze con cui è stato rieletto nel 2007.

- Certo sindaco. Ma loro, quelli dell’appello, dicono che siete voi amministratori a dover migliorare Alghero. Dicono che le trasformazioni della città vanno governate e pianificate, e invece non accade.

«Non sono d’accordo. Ci sono strumenti in itinere sui quali facciamo affidamento. Lavoriamo moltissimo alla pianificazione: dal piano del porto a quello urbanistico comunale che entro gennaio dovrà essere portato in cosiglio».

- L’urbanista Cecchini dice che è proprio la pianificazione che manca.

«Urbanista, ma non era un fisico? Comunque, strano che lo dica proprio lui. Perché noi abbiamo fatto il piano strategico, al quale per inciso ha partecipato anche Cecchini, che di fatto è l’ombrello per tutte le altre azioni di pianificazione: il Puc, che stiamo adeguando al piano paesaggistico, il piano del porto, quello di utilizzo dei litorali o accessi al mare».

- Anche se Cecchini precisa di parlare a titolo personale, quali sono i rapporti tra l’amministrazione comunale e la facoltà di architettura?

«Ottimi, di grande collaborazione. Come dimostra appunto il coinvolgimento nella stesura del piano strategico. E consideri poi che ad Architettura abbiamo dato in uso alcuni tra gli immobili più prestigiosi della città».

Qui la replica di Arnaldo (Bibo) Cecchini

D’ESTATE LE NOTIZIE meno importanti si adeguano alla spensieratezza delle vacanze. Frivole e drammatiche, più o meno sempre le stesse. Vip in spiaggia, 30 morti a Baghdad, sbarco di clandestini, meduse rosse in agguato, pulizia etnica nel Darfur, la casa al mare di Bruno Vespa. E fuoco che continua a bruciare foreste e villaggi. Bel paese che va in fumo. Chissà perché le polemiche dei soccorsi in ritardo trascurano da trent’anni la disattenzione amministrative e le trame politiche che preparano con pazienza queste tragedie. Al primo temporale d’agosto ce ne saremo dimenticati e fino alla prossima estate nessuno parlerà più su come prevenire i disastri. Le spiegazioni di oggi rimandano alle spiegazioni del secolo scorso: vento africano, mancate assunzioni dei forestali ausiliari i quali si fanno sentire col gioco dei piromani. Speculatori che soffiano pianificando le tariffe: la categoria degli incendiatori professionisti ha unificato i prezzi dal nord al sud.

Tremila euro al giorno per incenerire le pinete mettendo in moto la macchina costosissima e tanto attesa della riforestazione, appalti, progetti e giuramenti solenni: nessun terreno svuotato dalle fiamme potrà diventare area edificabile. Ma le promesse volano e le case al mare crescono. Crescono anche in montagna. La parola «verde» resta insopportabile ai costruttori e ai politici raccolti alle loro spalle. E la morbidezza delle cementificazioni si esalta nella elegia delle riviste per signore pronte a decantare la razionalità del palazzone vacanze o l’idillio della casetta-villaggio «7,8 metri quadrati di giardino personale» firmato dall’architetto di grido. Non basta la buona notizia dell’ecomostro abbattuto sulla costa amalfitana. Mille mostri stanno crescendo mentre i giornali del posto battono le mani: editori e imprenditori intrecciano le convenienze mascherando gli affari con bugie provvisorie. Costruire case, alberghi, campi da golf e piscine, dà lavoro a chi non ha lavoro. Non dicono che lo perderà appena le opere della speculazione coprono il tetto oppure chiudono i battenti.

Sviluppo senza progresso, ipotesi che Antonio Cederna, difensore del paesaggio italiano degradato dagli appetiti dei mattonari, aveva cercato di contrastare sul Corriere della Sera anni 70. Ma dopo le mani sulle città sono cominciate le mani sulle vacanze; mani sulle discariche; mani sulle sorgenti dell’acqua pubblica che diventa oro nelle bollicine della minerale. Mentre il Gargano bruciava, in fondo alla Puglia si tremava nelle pinete rinsecchite e mai ripulite. Costosissimi canali di irrigazione soffocati dalle immondizie. Anche se l’acqua scorresse abbondante non arriverebbe mai. Anni fa il Claudio Signorile, ministro socialista, si era impegnato a trasformare il meridione nella California del Mediterraneo impreziosita da una storia della quale si conserva memoria attorno ad ogni braccio di mare. La fretta dei costruttori ha trasformato il sogno nel posto-spiaggia per tutti. Il progresso non può essere frenato da quattro muri diroccati. E non importa se le strade restano carraie con un velo d’asfalto. Se mancano depuratori e parcheggi. Se i servizi sono improvvisati. Se i camping dilagano senza regole sicure. Se la professionalità del personale non ricorda la professionalità romagnola: studenti che arrotondano; precari che per due mesi in qualche modo respirano. Gentili ed affettuosi ma alla prima nuvola, tutti a casa. Nel sud la solidarietà negli affari attraversa i partiti, da destra a sinistra: non è diversa dal nord se non nel perbenismo delle forme. La sostanza non cambia. E neanche i soldi.

Mancano testimoni in grado di mettere le mani sotto la realtà, mancano perché demonizzati alla prima manifestazione di indipendenza. Guai analizzare l’onore di certi protagonisti, ondivaganti da un partito all’altro, dipende dalle convenienze. Cosa possono fare i cronisti che lavorano in tv o in giornali dalle proprietà meticce, mezzi affari e mezza politica locale? La professionalità resta ideale quando chi cerca può scrivere su giornali nazionali più complicati da imbrigliare. Non sempre, ma succede. È successo a Carlo Vulpio: racconta il Sud per il Corriere della Sera. Ed è successo ai giornalisti de Il resto, periodico di Matera, e a Carbone della Rai. Gli agenti hanno perquisito per sette ore la casa di Vulpio portando via sei computer: anche i computer di moglie e figli. Non si sa mai. Vulpio l’ha saputo dal telefono: stava raccontando i fuochi del Gargano. È accusato di concorso morale in associazione a delinquere per le cronache che raccolgono le indagini della procura di Catanzaro sulle toghe lucane. La denuncia viene da Emilio Nicola Buccio, ex membro del Csm, senatore di Alleanza Nazionale iscritto (assieme ad altri) nel registro degli indagati. Vulpio ne ha raccontato per primo la storia. La meraviglia è che i suoi articoli non appaiono fra i documenti d’accusa. Un modo per intimidire: o metti la testa a posto o la vita diventa difficile. Non è la prima volta che gli succede.

Il sud e il nord dei signori degli affari prediligono il silenzio o l’applauso mentre i loro piccoli e grandi mostri stanno crescendo. Querelano per fermare le inchieste degli uomini liberi di un libero giornalismo. Lontani dagli occhi della curiosità civile moltiplicano le nefandezze.

Il cimitero di Otranto è un bell’esempio. Dietro la sigla dell’agriturismo a volte si nascondono speculazioni ruspanti. Ibridi di strutture precarie e parcheggi al di là del consentito. La legge 447 permette a regioni, province e comuni di favorire poli di sviluppo per occupare braccia senza lavoro in deroga alla pianificazione urbanistica. Varianti autorizzate a fin di bene. Bene di chi? La filosofia della legge è sensata, dipende da cosa si intende per «deroga». Attorno alle pinete di Otranto sta crescendo un agriturismo che sembra un cimitero. Non è un paragone forzato: d’istinto ci si fa il segno della croce. Bungalow cappelle di famiglia, miniabitazioni, una sull’altra, tetto spiovente come nel Tirolo che fa scivolare la neve. Cappelle in fila nel malinconico camposanto per spensierati masochisti. 600 posti letto così. La bruttezza non è il solo problema. L’agriturismo nasce nella prospettiva di dare una mano alla piccola agricoltura che traballa. Grande successo quando è seria. Ma non trasforma i contadini in affittacamere. Li obbliga a servire in tavola solo i prodotti che raccoglie. Di fianco al cimitero di Otranto (località Frassineto) un altro agriturismo funziona proprio così: 70 posti letto dove gli ospiti mangiano e bevono le cose che il contadino fa in casa mentre il cimitero ricopre quasi per intero i tre ettari di orti disponibili. Resta lo spazio per un fazzoletto di prezzemolo. Sparisce la campagna, strade impossibili per le auto che non si possono incrociare stravolgono l’identità di una zona che affascina il turismo: il Comune l’ha abbandonata. Decisione presa da un sindaco Forza Italia con l’incoraggiamento della regione Puglia quando Fitto regnava. La stessa giunta si è impegnata con fervore nella creazione di un altro ecomostro. Attorno a Otranto è sbarcato Enea. Ipogei e tracce archeologiche lasciate dai monaci di San Basilio in viaggio da Oriente verso Roma, raccolti in un monachesimo ascetico al quale si rifà San Benedetto. L’insediamento nel Salento precede di due secoli la costruzione della cattedrale (1080): lo sterminato mosaico ricorda Aquileia intrecciando misteri greci, normanni e bizantini. Il tessuto incantato della città ha richiamato nel tempo un turismo non banale che le ruspe di un gigantesco albergo stanno sgretolando. Banalizza il cammino dei monaci nel nome scelto dai proprietari del resort: “I Basiliani”. 350 posti letto nella valle delle Memorie. Si annunciano straordinarie comodità: centro benessere e centro estetico. E il mare in bocca. Insomma, paradiso da rotocalco che qualcosa doveva pur sacrificare. Pazienza per il passato. Aggrapparsi al nome di un protagonista o dei monumenti trascurati non è solo debolezza pugliese. Leggendo i nomi di caffè e risoranti, i viaggiatori che attraversano Praga hanno l’impressione di visitare una città beatificata da Kafka. Scrittore amatissimo anche se in passato soffocato dalle repressione nazista perché ebreo, dalla censura sovietica perché piccolo borghese. È stato pubblicato timidamente nove anni fa. «La metamorfosi», tanto per cominciare. L’editore non ha azzardato un secondo libro: del primo capolavoro ha venduto 1890 copie. Pacchi di rese si impolverano nel magazzino. I Basiliani di Otranto (intesi come albergo) ripropongono lo stesso meccanismo: luce al neon come ricordo del passato, ma le memorie che lo rappresentano sepolte sotto il piano bar.

Per fortuna Maria Corti, nata da queste parti, è morta prima dello scempio. Ha dedicato uno dei suoi romanzi più belli («L’ora di tutti») al massacro turco dei cristiani di Otranto: non avrebbe sopportato la banalizzazione della storia tanto amata. Inutilmente Lega Ambiente denuncia la distruzione ambientale, paesaggistica e archeologica. Muri e grotte tagliare; cripte rupestri deturpate, rocce e verde impacchettati. Il Comune di Forza Italia ha approvato il progetto e la regione di Fitto lo ha benedetto. Una volta firmato il via ai lavori si è dimesso un assessore azzurro, farmacista nella vita e proprietario del terreno nella concretezza. Improvvisamente la politica gli è venuta a noia. Nessuna inchiesta, nessun trasalimento giornalistico. Le voci dell’architetto Fernando Miggiano e di qualche volonteroso sono rimaste proteste isolate. Voci redarguite pubblicamente: ma di cosa ti impicci? Da oggi alla prossima estate bisognerebbe tenerne conto. In un paese civile il turismo comincia a bruciare bruciando la memoria.

mchierici2@libero.it

170 mila maxi evasori

Befera (Entrate): il crollo dell'Iva non c'entra nulla

di Sara Farolfi

Sono 170 mila i cittadini italiani nel mirino dell'Agenzia delle entrate nell'ambito delle indagini contro i paradisi fiscali. Dopo averne dato notizia, ieri il direttore delle Entrate, Attilio Befera, ha voluto rassicurare i paperoni: «L'obiettivo non è quello di perseguire i miliardari, ma di intensificare l'azione nei confronti di tutti coloro che hanno capitali detenuti illegalmente all'estero». I quali, per riportare in Italia senza conseguenze giuridiche i capitali illecitamente detenuti all'estero, potranno servirsi dello scudo fiscale ter (il terzo di Tremonti) che il governo ha inserito nel pacchetto anticrisi. I 'grandi' evasori potranno cioè rimpatriare i loro capitali pagando un'aliquota più che amica del 5% e con la garanzia che il loro rientro non verrà accompagnato da misure investigative e di controllo. Ma i 170 mila grandi evasori in questione potranno utilizzare lo scudo se le Entrate notificheranno gli atti entro ottobre (a partire da quando lo scudo entrerà in vigore). «Stiamo facendo il possibile per riuscire a notificarli nel più breve tempo possibile», dice al manifesto Attilio Befera.

Della lotta ai paradisi fiscali, come capitolo di una più generale battaglia per l'etica contro gli animal spirits del mercatismo, Tremonti vorrebbe fare la sua bandiera. Non lo aiutano provvedimenti come lo scudo, appunto, che molti commentatori hanno definito, non solo come l'ennesimo condono ma anche come una sorta di amnistia (perché estinguerebbe il reato). Tanto più se si considera - come fanno gli economisti de Lavoce.info - che «solo una parte trascurabile dei capitali rientrati in Italia con gli scudi fiscali dei primi anni Duemila si sono diretti verso investimenti nell'economia, mentre del terzo potrebbero ora approfittare le holding mafiose».

Non è tutto: dichiarare guerra ai paradisi fiscali senza la stipula di accordi bilaterali - come quelli siglati da Obama negli Usa - che impegnino i paesi in questione alla pubblicizzazione di dati, altrimenti coperti da segreto, sarà operazione ardua. Sollecitato, così risponde Befera: «La Svizzera e San Marino stanno dando segnali di collaborazione, quanto agli accordi noi siamo in Europa e gli Usa sono in un altro continente. Su questo comunque stiamo lavorando e sta lavorando soprattutto il ministero».

Ha spiegato ieri Befera che le Entrate sono in possesso di «una lista di nominativi sequestrati a un avvocato svizzero arrestato di recente dalla procura di Milano, una lista di conti presenti presso Ubs Italia e che si presume abbiano qualche riferimento con Ubs Svizzera e una lista di detentori di capitali nel Liechtenstein». Questo per quanto riguarda i «grandi», ma l'Italia come si sa è un paese fatto soprattutto di piccoli e medi evasori, un paese, per dirla con l'ex ministro delle finanze Vincenzo Visco, «dove l'evasione è fenomeno di massa». «I dati - dice al manifesto l'ex ministro - dicono che c'è un crollo micidiale dell'Iva, e questo è da ricondurre direttamente a un aumento dell'evasione». Befera d'altro canto contesta questa lettura e risponde: «Se così fosse allora paesi come la Spagna, la Gran Bretagna e la Francia, dove il calo Iva è stato decisamente più marcato, dovrebbero avere tassi di evasione di gran lunga più alti che da noi. A diminuire è stata l'Iva sugli investimenti, che è al 20%, e questo non significa affatto evasione fiscale».

Certo, le dichiarazioni dei redditi 2008 (relative ai guadagni 2007) rese note poche settimane fa dal dipartimento delle finanze, dicono tutt'altro. Ristoratori che dichiarano redditi da pensionati, metà paese sotto i 15 mila euro, una società di capitali su due che ha dichiarato di essere in perdita e solo lo 0,2% dei contribuenti italiani a dichiarare guadagni superiori ai 200 mila euro. Non sarà un caso se, come certificano i dati della Banca d'Italia, l'economia irregolare viene stimata in 230 mila miliardi di euro. Oltre il 15% del Pil.

Il PD Fassina: smantellati tutti gli strumenti

«Non conosceremo mai i nomi dei trasgressori»

di Antonio Sciotto

«Il governo intensifica i controlli fiscali? Più verifiche ci sono, meglio è, certo: ma in realtà è pura propaganda. Perché dall'altro lato l'esecutivo ha smantellato, sin dal suo insediamento, tutti gli strumenti per una vera lotta all'evasione, e questa è aumentata: lo dicono i dati sul gettito Iva». Stefano Fassina, responsabile Finanza pubblica del Pd, ha lavorato a lungo con l'ex ministro Vincenzo Visco, e conosce a fondo i provvedimenti adottati dal passato governo di centrosinistra, come i problemi legati al fisco. Boccia senza mezze misure il comportamento del governo verso gli evasori, e spiega che l'annuncio dell'accertamento sui 170 mila conti esteri, è motivato dal «rassicurare l'opinione pubblica interna dopo le cifre sul calo del gettito diffuse da Bankitalia, due giorni fa» e, dall'altro lato, «serve a giustificare il nuovo condono operato con lo scudo fiscale». Mentre «dall'estero l'Agenzia delle entrate non potrà avere in realtà i nomi degli evasori, per il semplice fatto che non ci sono accordi politici analoghi a quelli realizzati da Obama con le banche svizzere, o dalla Germania e dal Regno Unito con il Liechtenstein».

Insomma, non ci può consolare il fatto che questa lista di 170 mila nomi è in mano all'Agenzia delle entrate... Secondo voi hanno le armi spuntate.

Credo che sia solo propaganda. Ci sono due modi per combattere l'evasione, entrambi importanti e da attivare insieme. Se è bene che ci siano i controlli, dall'altro lato in un paese come l'Italia, con 40 milioni di contribuenti e 150 miliardi di euro di evasione, non puoi basarti solo sulle verifiche: per quanto le potenzi, al massimo potrai arrivare allo 0,5% dei contribuenti. Serve anche innalzare la cosiddetta «adesione spontanea», cioè tutti quegli strumenti che spingono chi evade a denunciare prima che ci sia un controllo. Con il governo Prodi avevamo creato un sistema che è stato smantellato del tutto da Berlusconi, appena si è insediato: con il decreto del giugno 2008, e poi con la finanziaria triennale del luglio 2008.

Ma l'evasione secondo i dati in vostro possesso è aumentata nell'ultimo anno?

Sì, dalla seconda metà del 2008 a oggi si sono persi circa 10 miliardi di gettito Iva, pari a un calo di circa il 10%. Al contrario, la base imponibile su cui principalmente questo gettito si forma, cioè i consumi delle famiglie, è lievemente aumentata. E attenzione: stiamo parlando di aumento effettivo dei consumi e di gettito Iva, dunque sono dati al netto della crisi. Ebbene: se aumenta la base imponibile e diminuisce il gettito corrispondente, non è forse un chiaro segno di evasione? Inoltre, all'Iva evasa, corrisponde anche un tot di Irpef evasa, dato che parliamo di reddito nascosto al fisco.

Quali strumenti ha smantellato il governo Berlusconi?

Quelli principali sono tre: 1) l'obbligo per le partite Iva di fornire l'elenco clienti-fornitori: permetteva di incrociare i dati sulle fatturazioni; 2) la tracciabilità dei corrispettivi e l'innalzamento del limite per emettere assegni circolari e pagare in contanti: noi lo avevamo fissato a 5 mila euro, l'attuale governo lo ha portato a 12.500 euro; 3) l'accertamento con adesione: sono state abbattute le sanzioni a un livello tale per cui conviene non dichiarare e aspettare l'eventuale comunicazione di accertamento; a quel punto dichiari e paghi la sanzione, che tanto è molto bassa. Comunque sui controlli dico: se è vero, come dice il direttore dell'Agenzia delle entrate Befera, che il gettito da controlli è salito da 600 milioni a 1 miliardo, dall'altro lato va considerato che sull'Iva perdiamo 10 miliardi.

Ma almeno adesso ci saranno gli accertamenti sui 170 mila evasori con i conti esteri.

Lo ripeto: è propaganda. Nei paradisi fiscali resta in vigore il segreto bancario, per cui finché non hai ottenuto, con precise negoziazioni e accordi, la possibilità di accedere agli elenchi - come di recente gli Stati Uniti con le banche svizzere, o il Regno Unito e la Germania con il Liechtenstein - è perfettamente inutile che inasprisci le sanzioni o inverti l'onere della prova sul contribuente, come ha fatto il governo. Tanto i nomi non te li danno: l'attuale esecutivo non ha raggiunto accordi precisi con i paradisi fiscali, non ci ha lavorato come gli altri Paesi.

Allora perché dichiarano di essere avanti su questo fronte?

Per rassicurare l'opinione pubblica dopo i dati diffusi da Bankitalia sul calo del gettito. Ma anche per spingere questi 170 mila evasori - di cui possono pure avere i nomi, ma che non possono accertare con la collaborazione delle banche dei paradisi fiscali - ad aderire allo scudo fiscale. Uno strumento, quest'ultimo, immorale e anche inefficace. Innanzitutto renderà al massimo il 2% del capitale rientrato: perché tutti dichiareranno di avere evaso solo nell'ultimo anno. E pensiamo che quei capitali, tassati normalmente, renderebbero il 40-45%. Poi è anonimo: dunque permette il rientro anche a capitali frutto di attività illecite o criminali. Infine è l'ennesimo condono, quindi alimenta inevitabilmente nuova evasione futura.

«Segnali di ripresa? Non ne vedo. A parte che un +0,3 di Pil non è una gran cosa, anche se ci si aspettavano valori negativi, non è certo a una cifra trimestrale puramente contabile che bisogna guardare. Il vero indicatore è la disoccupazione, e questa è disastrosa, in Europa come in America». Jean-Paul Fitoussi, uno dei più prestigiosi economisti europei, professore a Parigi e alla Luiss di Roma, non è per niente convinto che si stia imboccando la via virtuosa di uscita dal tunnel. «Le dirò di più: si stanno ripetendo gli stessi errori che hanno portato alla crisi: squilibri mondiali, disavanzo di bilancio americano, surplus della Cina, e via dicendo».

Eppure la stessa Bce ha fatto un’inconsueta professione di ottimismo.

«Sono sorpreso. La crisi non è passata, né in America né in Europa né in nessun paese. Il dato del Pil trimestrale non significa nulla. Primo, perché è destinato ad essere continuamente rivisto, e diventa affidabile ben cinque trimestri più tardi. Secondo, perché è composto di elementi palesemente forzati come i sussidi pubblici che non si sa quando finiranno ma non potranno essere eterni. Terzo, perché non tiene conto dell’indicatore principale, appunto il tasso di disoccuazione, che è sotto gli occhi di tutti. E non voglio parlare delle banche».

Le banche?

«I loro bilanci entrano nel Pil, e questo è il paradosso più irritante. A parte i contributi pubblici, le banche hanno bilanci fantastici solo perché prestano soldi alle imprese, che hanno disperate esigenze di finanziamento, a condizioni durissime».

Ma la politica della Bce e della Fed non tiene sotto controllo l’insieme degli interessi?

«Macché, il prime rate non lo applicano per nessuno. Riescono sempre per un motivo o l’altro ad applicare dei "risk premium" da capogiro. Altrimenti non si spiegherebbe perché le aziende ricorrono in misura crescente al mercato obbligazionario, emettendo titoli che costano loro il 6 o 7% ma sono sempre più convenienti del credito bancario».

Sta di fatto che la Germania ha ripreso ad esportare. Non è un segno di buona salute?

«No, è uno degli squilibri di cui parlavo all’inizio. La Germania esporta solo perché ha ridotto i costi in modo spietato, comprimendo di fatto la domanda interna perché ha un mare di disoccupati e di sottopagati, fenomeno che inevitabilmente si allarga all’intera comunità europea».

Fin quando continueranno, allora, le difficoltà?

«Ripeto, fin quando non cesserà di aumentare la disoccupazione, il che non è in vista. In Europa ci siamo assuefatti ad una disoccupazione di massa, ma è inaccettabile».

Servirebbero grandi investimenti pubblici, ma le risorse?

«Un po’ più di coraggio sull’indebitamento pubblico non guasta. L’America avrà anche spalle più forti, ma a fine anno avrà un rapporto deficit/Pil del 12%. E l’Europa?»

«I senzatetto non sono una falla del sistema, ma la condizione del suo funzionamento». Questa citazione, tratta da uno dei suoi libri, decora le pareti dell'ufficio newyorchese di Peter Marcuse, figlio del «filosofo del '68» Herbert e professore di pianificazione urbana alla Columbia University. Oggi potremmo sostituire i senzatetto con le migliaia di americani che si trovano in mezzo a una strada in seguito alla crisi dei mutui. Cambiano le forme, ma non il meccanismo che regola il sistema. Per questo con Marcuse, e con Neil Brenner, professore di sociologia e di metropolitan studies alla New York University, proviamo a discutere della crisi attuale e dei suoi effetti sulla geografia delle città, delle nazioni e del mondo. E degli spazi che questa potrebbe aprire per le sinistre e i movimenti sociali.

In che modo la crisi può costituire un'opportunità per la sinistra e i movimenti sociali?

Peter Marcuse: Il punto da cui partire per capire quali sono i limiti e le possibilità per la sinistra in questa crisi economica è la situazione attuale del mercato immobiliare, in particolare quello cittadino. Negli Stati Uniti c'è grande solidarietà verso coloro che perdono la propria casa e si moltiplicano i tentativi di evitare i pignoramenti. Tra i più radicali, vi è un movimento di occupazione delle case sequestrate, attivo in varie zone: a New York prende il nome di Picture the Homeless, a Miami si chiama Take Back the Land. Gli attivisti aiutano le persone a occupare le case rimaste vuote, conquistando così molta simpatia da parte della popolazione. Alla domanda su quale fossero i loro obiettivi, hanno tuttavia spesso risposto che sono coscienti che le loro azioni sono illegali e che le famiglie occupanti dovranno prima o poi andarsene. Quello che cercano di fare è solo rendere pubbliche le tragedie di chi è sbattuto fuori dalla propria abitazione. Il passo seguente, a rigor di logica, dovrebbe essere il riconoscimento che il libero mercato è lo strumento sbagliato per distribuire le case e che gli edifici occupati dovrebbero essere messi in modo permanente al servizio di chi ne ha bisogno. Questo ragionamento però non viene fatto. La recente formazione e crescita di movimenti sociali radicali è indubitabile. Al tempo stesso, non riescono a esplicitare il carattere politico delle loro rivendicazioni.

Neil Brenner: Se le persone capissero che questa è la logica inevitabile del capitalismo si arriverebbe ad una critica sistemica e ad una soluzione. Non si tratta infatti di correggere alcuni «casi isolati» di espulsione di persone che si sono trovate in «circostanze sfortunate». La situazione attuale è infatti il risultato di oltre un decennio di una speculazione di un mercato immobiliare orientato a trarre profitto dalle fasce più deboli della popolazione.

Quali sono dunque gli effetti della crisi economica sulle metropoli statunitensi?

Peter Marcuse: Per il momento, non vi sono cambiamenti significativi nel modo in cui il capitalismo interviene sulle città. Ma le gerarchie di potere potrebbero risultarne modificate, anche se non è ancora chiaro in quale direzione. È forte la possibilità che accada qualcosa sul fronte politico, il che influenzerebbe il governo cittadino. Con l'elezione di Obama c'è stato uno spostamento generale verso sinistra, anche se certamente non in modo radicale. Si è così diffuso il bisogno di un ruolo più forte delle istituzioni pubbliche e di una maggiore regolazione dell'economia di mercato. Inoltre, non c'è più un'accettazione acritica del ruolo centrale della finanza nel settore dello sviluppo urbanistico. Allo stesso tempo, l'uso che si sta facendo degli aiuti di stato suggerisce però l'importanza continua se non crescente del settore finanziario.

Neil Brenner: La domanda che la sinistra si deve porre non è «crisi o stabilità» ma cosa distingue questa crisi dalle altre. Questa, infatti, è un'occasione per politicizzare la finanziarizzazione dell'economia in generale e dell'economia urbana in particolare. Il ruolo della finanza come meccanismo centrale del capitalismo è stato dato per scontato, mentre sottende decisioni e rapporti di forza che decidono della distribuzione delle risorse pubbliche. Con questo oggi ci dobbiamo confrontare in modo molto esplicito e a tutti i livelli: locale, nazionale e globale.

Peter Marcuse: La parola chiave è «politicizzare». Non è ancora accaduto. La sfiducia nel settore finanziario non è molto distante dal diventare una critica del capitalismo, ma questa possibilità resta ai margini della discussione pubblica. Il che mette in evidenza i limiti nel funzionamento della democrazia rappresentativa. Suggerisce che l'unidimensionalità prodotta dal sistema è molto profonda. Quando Obama parla nei campus universitari, le questioni sollevate riguardano però la necessità di prevenire gli aborti piuttosto che limitare il potere di Wall Street.

Si può dunque parlare di una distanza se non di una frattura tra il livello della rappresentanza democratica e quello dei fenomeni sociali che si manifestano nelle metropoli?

Neil Brenner: Una delle risposte potrebbe essere questa: le istituzioni rappresentative garantiscono un certo livello di diritti civili propedeutici al perseguimento di altre forme di democrazia radicale. Il punto è però un altro, cioè se i movimenti globali operano per affermare un progetto di democrazia popolare, o di autogestione, più radicale delle procedure elettorali sulle quali si basa la democrazia parlamentare. Ci si deve dunque chiedere se i processi di ristrutturazione economica globale negli ultimi due decenni, oltre a limitare i movimenti sociali, abbiano anche contribuito a far sorgere nuove strategie in questa direzione nelle città di tutto il mondo.

Peter Marcuse: Io vedo una situazione di grande ambiguità. Il luogo in cui la democrazia diretta è possibile sono le città, il livello locale, perché è lì che vivono gli uomini e le donne. Il malcontento nei confronti di questa crisi si esprime nelle città e, in una certa misura, nelle politiche cittadine. Però il fenomeno non è locale, ma nazionale e globale. Quindi abbiamo delle risposte ambigue: l'indignazione si esprime a livello locale ma il suo obiettivo è sovralocale. Una conseguenza negativa della crisi sulle politiche locali è la subordinazione dei problemi relativi alla qualità della vita o ai salari e alla distribuzione delle risorse alle misure per la crescita economica. È quello che sta succedendo a New York, dove l'amministrazione sta investendo in infrastrutture nel lower Manhattan per ottenere maggiore sviluppo economico invece di investire nelle scuole pubbliche, nella sanità. In questa situazione di crisi, il perdurare del dominio della sfera economica avrà effetti negativi sui movimenti sociali progressisti a livello locale.

La globalizzazione, in tutte le sue forme, mette in gioco il rapporto tra il capitale e la trasformazione spaziale del mondo. Che relazione c'è oggi tra lo sviluppo capitalistico e la creazione di nuovi spazi?

Neil Brenner: La trasformazione spaziale è al centro dell'accumulazione di capitale, perché l'estrazione del plusvalore implica la creazione di una rete globale di infrastrutture per facilitare l'accumulazione. Questi temi sono il cuore del nostro progetto «città per le persone, non per il profitto». Da una parte vi sono i processi di accumulazione e di mercificazione che producono vari modi di appropriazione dello spazio orientati al profitto. Dall'altra vi sono lotte per appropriarsi dello spazio per uso popolare, per la riproduzione sociale. Ma il confine tra mercificazione e riproduzione sociale è fluttuante. La crisi ha evidenziato l'estensione crescente della mercificazione del mercato immobiliare e l'opposizione che ha incontrato. È, questa, un conflitto sulla produzione dello spazio. Prende forme diverse rispetto a trenta, cinquanta o centocinquanta anni fa, ma è endemico al capitalismo come il conflitto per estrarre plusvalore dal lavoro.

Peter Marcuse: La crisi attuale è stata prodotta dalla ricerca di luoghi ulteriori per l'investimento di capitale: i salari non erano sufficienti per far fruttare il settore immobiliare in termini di investimenti, dunque si è deciso di estendere il credito per produrre profitto. Quando i salari non sono abbastanza alti per ripagare il credito si ha una crisi come questa.

Negli Stati Uniti la teoria critica non si manifesta più negli ambiti del pensiero politico o della scienza politica, ma negli studi di geografia e di urbanistica critica. Perché? Ha a che fare con i processi di globalizzazione e denazionalizzazione?

Neil Brenner: A partire dagli anni Ottanta abbiamo assistito a una significativa riarticolazione dello spazio politico-economico. Alcuni studiosi ne hanno parlato in termini di globalizzazione, deterritorializzazione o denazionalizzazione. Io preferisco parlare di rescaling,, di ridefinizione delle scale spaziali. Una delle sfide oggi è dare un senso a queste nuove geografie. Penso che il termine «denazionalizzazione» sia problematico. La dimensione nazionale è significativa in termini strutturali e politici come lo era in passato, ma è inserita in un contesto geografico mutato. Quindi, è necessario comprendere la riarticolazione del livello nazionale con il livello locale e quello globale dell'autorità politica. L'Unione europea è un case study molto importante per comprendere questa nuova configurazione dello spazio politico e dell'autorità politica a partire dal nuovo sistema di relazioni tra nazionale, subnazionale e sovranazionale. Si tratta di un ridimensionamento dello spazio politico nazionale più che la sua dissoluzione

Peter Marcuse: La geografia ha un rapporto mediato con il politico. Se si deve analizzare cosa sta accadendo negli Stati Uniti con la crisi utilizzando gli strumenti di una buona scienza politica, la conclusione sarebbe immediatamente che serve una rivoluzione. Se si prende in considerazione il sistema spaziale, bisogna fare alcune inferenze ulteriori prima di giungere alla stessa conclusione, perché, introducendo il livello spaziale, si produce una formulazione mediata della crisi. Sono stupito dal fatto che la geografia sia oggi più radicale della scienza politica o dell'economia, perché è in un certo senso illogico. La crisi sottostante riguarda le relazioni economiche e politiche nella società e lo spazio è uno strumento per influenzarle e strutturarle, ma ne è un riflesso.

Caro direttore, da vent’anni le urla roche di Bossi costruiscono l’immaginario geografico e la mappa costituzionale dell’Italia. Performano la sua intelaiatura territoriale. Ora spostano il gioco direttamente sui simboli. Un dispositivo semiotico dall’intento sfacciatamente separatista per marcare differenze, frantumare la faticata unità, giustificare le gabbie, gli sbarramenti culturali, le xenofobie. Icone inventate, sconosciute, pure finzioni. Sulle identità regionali, qui sta il paradosso.

Tutta la geografia delle regioni è inventata. Eppure esiste dall’atto costituente. Le regioni costituzionali potrebbero infatti rientrare a pieno diritto tra i falsi storici. Non sono mai esistite prima del 1948. Quelle che noi chiamiamo regioni, e sulla cui istituzione in organi di governo periferico i costituenti hanno discusso lungamente, erano in realtà i "compartimenti statistici" che vennero ritagliati per l’organizzazione del primo censimento del Regno. Ribattezzati con noncuranza "regioni" a inizio Novecento senza che ne fossero mutati fisionomia e significato. Partizioni disegnate per la raccolta dei dati ma prive di altre implicazioni, se non per qualche vago e impreciso riferimento a denominazioni tramandate (come tante altre toponomastiche locali che pure non hanno avuto medesimo riconoscimento: perché non anche una Daunia o una Lunigiana, di cui pure si discusse in Assemblea?).

Un equivoco che ai costituenti poco importava, il problema vero era la natura della statualità. Il reticolo astratto dei compartimenti statistici, forse proprio perché non intriso di sentimenti di appartenenza, alla fine è sembrato il modo migliore per maturare il compromesso tra centralismo e autonomismo che arroventavano gli schieramenti. Non a caso si attueranno solo nel 1970, in clima politico ed economico ben diverso (avvisaglie della crisi economica, crisi di consenso dei partiti, del centralismo, ecc.) con la finalità di presiedere alla programmazione economica, nel tentativo di controllare la crisi frantumando e decentrando il dissenso – operazione mal riuscita come sappiamo.

Si commette però il primo degli scivoloni, cadendo in un’ambiguità mai sanata sulla forma dello stato. Ambiguità perdurante, sul cui terreno Bossi si è sempre mosso con destrezza, giocata sulle mille, diversissime, opposte accezioni attribuite al federalismo (ogni volta evocando il fantasma dolente di Cattaneo). Ma se il regionalismo dei costituenti (la regionalizzazione, avrebbe precisato Gobetti) è stata la sconfitta del federalismo alto scaturito dalla critica al centralismo fascista, il federalismo voluto dalla Lega segna la sconfitta del regionalismo. Quando con regionalismo si intenda una visione condivisa di identificazione territoriale – che pure è esistito in alcuni (rari) momenti e situazioni.

La vicenda regionale italiana ha sempre marciato sul filo del rasoio: chi vuole e ha voluto le regioni? Come in Assemblea costituente, dove il balletto delle posizioni ha visto un ribaltamento diametrale degli schieramenti, anche dopo l’attuazione, poi il perfezionamento in chiave di sussidiarietà e ora di nebuloso federalismo fiscale, il gioco avviene sempre su posizioni sfuggenti. Si è sempre preferito, per tatticismi politici del momento (il più eclatante la Bicamerale), rimanere nel vago e strappare di volta in volta qualche concessione. L’identità regionale, in tutto questo mercanteggiare tra potere centrale e potestà decentrate, è l’ultimo dei paraventi.

La pretesa di attribuire personalità (nazionalità?) alle regioni stride con la sterilizzazione delle identità avvenuta negli ultimi decenni. La loro fisionomia è da sempre pallida – salvo alcune che hanno voluto emergere dal panorama piatto di un decentramento rappresentato come meramente amministrativo, esecutivo, e mostrare invece capacità di autodeterminazione; un’epoca anche questa tramontata. Neppure sul piano funzionale le regioni si presentano come autonomi sistemi territoriali. Al punto che alla fine degli anni ‘90 un’indagine della Fondazione Agnelli arrivava a proporre aggregati multiregionali, "mesoregioni". Anche in quel caso dopo la provocazione di Miglio e Bossi sulle "macroregioni": Nord-Centro-Sud. Siamo di nuovo qui a parlarne, lungo la strada intanto abbiamo perso il Centro.

Le metafore territoriali sono ballerine, come ritagli di carta volano al primo soffio. Alcune sono più eteree, altre si stabilizzano se ispessite di narrazioni, di conferme. In questa nostra era dominata dalla capacità affabulatoria e mediatica, creare rappresentazioni territoriali e fissarle nel palinsesto comunicazionale con marcatori simbolici può diventare pericoloso, attualizzante. La Padania è una figura nuova, ma resta lì, ben inchiodata dai segni cari al popolo leghista, tanto più efficaci quanto più rudimentali. Uno dei travestimenti della cosiddetta questione settentrionale, tanto insistita da scatenare analoga richiesta di visibilità, attenzione - e traduzione in privilegi - da parte del Sud.

Cambiano insomma le formule ma non la sostanza del contendere: le relazioni di potere tra centro e periferia. Il federalismo ibrido e incompiuto entro cui vivono le istituzioni locali avrebbe bisogno di ben altri contributi. La governabilità territoriale è ingolfata da un apparato pletorico, sovraffollato, obsoleto. Anche la sola mappa dei reticoli confinari riproduce uno scenario intricato e contorto di competenze sovrapposte che attendono semplificazione e ri-forma. Ma per questo bisogna sfuggire alle comode scappatoie della retorica identitaria, ai tranelli della governance, alle contraddizioni della sussidiarietà e ripensare il territorio come soggetto della decisione politica.

La recessione ridisegna l’universo del gioco d’azzardo. A farlo è l’ingresso in massa in questo settore delle classi medie e medio basse, quelle colpite dall’aumento della disoccupazione. Mentre sprofondano nella povertà sognano di salvarsi vincendo la lotteria o ottenendo il cosidetto jackpot, i tre simboli identici alle slot machines che producono una pioggia di monetine. Non si gioca più per divertimento ma per disperazione, questo il messaggio che arriva dai paesi anglosassoni, da sempre all’avanguardia nel gioco d’azzardo. Questo è quel che ci racconta “The Millionaire”, il film pluripremiato agli Oscar in cui la febbre per la «ruota della fortuna» diventa la malattia e la cura di milioni di disperati negli slum di Mumbai. Di questo, anche di questo, parla la corsa collettiva al Superenalotto che in Italia accomuna classi sociali e categorie, suore preti e immigrati, poveri e amministrazioni comunali, classe media, tutti: l’ultima carta, la carta della fortuna.

I giocatori incalliti sono stati duramente colpiti dalla recessione, ecco perchè i grandi casinò sono ormai semivuoti; se non ci fosse il crimine organizzato che li usa ancora per riciclare il denaro sporco molti sarebbero costretti chiudere. La recessione sembra schivare quel settore del gioco d’azzardo non frequentato dai professionisti: lotterie e bingo. Ecco spiegato perchè mentre Las Vegas, tempio dei piaceri proibiti degli adulti, è ormai semideserta, i piccoli casinò disseminati nelle riserve indiane dell’Ovest pullulano di gente che tenta la sorte al Kino, una specie di lotteria permanente. Uno studio della società britannica Global Betting and Gambling Consultants (GBGC) descrive la crisi come la tempesta perfetta per il gioco d’azzardo tradizionale. Il settore sta mutando profondamente perché la recessione cambia le motivazioni del gioco. Tentare la sorte diventa un modo per esorcizzare la disperazione di una classe che sa benissimo di non essere più in grado con il proprio lavoro di ottenere la mobilità sociale dei propri genitori.

La distanza tra le classi medie e medio basse e i ricchi è talmente tanta che solo un colpo di fortuna può colmarla. In questo mondo che tanto assomiglia al nostro passato remoto, quella antecedente alla nascita della classe operaia, un mondo senza coscienza politica né identità di classe, il fato è tornato di moda. Tutti si affidano alla sorte e tutti giocano. Una sorta di tassa sulla perdita di speranza nei propri mezzi. In netto aumento il gioco d’azzardo online, quello che si fa seduti comodamente in casa, lontano dagli occhi degli altri. Costa poco e crea una dipendenza quasi immediata. A detta di GBGC gran parte della crescita prevista nei prossimi anni nel settore dell’azzardo proverrà proprio dai casinò virtuali.

Nonostante la crisi, dunque, le proiezioni per il settore sono molto ottimiste: dai 345 miliardi di dollari del 2001 si passerà a 433 miliardi nel 2012. Ne basterebbe una piccolissima percentuale per iniziare a finanziare la riconversione industriale verde dei paesi occidentali e interrompere la crescita della disoccupazione. Ma nessun governo ha pensato di tassare pesantemente il piccolo azzardo.

L´Egocrate è ossessionato. Diventa isterico, quando lo si contraddice con qualche fatterello o addirittura con qualche domanda. Se non parli il suo linguaggio di parole elementari e vaghe senza alcun nesso con la realtà; se non alimenti le favole belle e stupefacenti del suo governo; se non chiudi gli occhi dinanzi ai suoi passi da arlecchino sulla scena internazionale; se non ti tappi la bocca quando lo vedi truccare i numeri, il niente della sua politica e addirittura le sue stesse parole, sei «un delinquente», come ha detto di Repubblica qualche giorno fa.

O la tua informazione è «giornalismo deviato»: lo ha detto di Repubblica, ieri. Che al Prestigiatore d´affari e di governo appaia «deviato» questo nostro giornalismo non deve sorprendere e non ci sorprende. È "naturale", come la pioggia o il vento, che il monopolista della comunicazione giudichi il nostro lavoro collettivo una «deviazione». Lo è in effetti e l´Egocrate non sa darsene pace: ecco la sua ossessione, ecco la sua isteria. Deviazione – bisogna chiedersi, però – da quale traiettoria legittima? Devianza da quale "ordine" conforme alla "legge"? E qual è poi questa "legge" che Berlusconi ritiene violata da un giornalismo che si fa addirittura "delinquenza"? La questione merita qualche parola.

Il potere e il destino di Berlusconi non si giocano nella fattualità delle cose che il suo governo disporrà o ha in animo di realizzare, ma soltanto in un incantato racconto mediatico. Egli vuole poter dire, in un monologo senza interlocutori e interlocuzione e ogni volta che lo ritiene necessario per le sue sorti, che ha salvato il mondo dal Male e l´Italia da ogni male. Esige una narrazione delle sue gesta, capace di creare – attraverso le sinergie tra il "privato" che controlla e il "pubblico" che influenza – immagini, umori, riflessi mentali, abitudini, emozioni, paure, soddisfazioni, odi, entusiasmi, vuoti di memoria, ricordi artefatti. Berlusconi affida il suo successo e il suo potere a questa «macchina fascinatoria» che si alimenta di mitologie, retorica, menzogna, passione, stupidità; che abolisce ogni pensiero critico, ogni intelligenza delle cose; che separa noi stessi dalle nostre stesse vite, dalla stessa consapevolezza che abbiamo delle cose che ci circondano. Mettere in dubbio questa egemonia mediatica che nasconde e, a volte, distrugge la trama stessa della realtà o interrompere, con una domanda, con qualche ricordo il racconto affascinato del mondo meraviglioso che sta creando per noi, lo rende isterico.

È una «deviazione» – per dire – ricordare che non si ha più notizia dei mutui prima casa e della Robin tax o rammentare che dei quattro "piani casa" annunciati, è rimasto soltanto uno, e soltanto sulla carta. È una «deviazione» ripetere che non è vero che «nessuno è stato lasciato indietro», come non è vero che i nostri «ammortizzatori sociali» siano i «migliori del mondo». È "criminale" chiedere conto a Berlusconi della realtà, delle sue menzogne pubbliche, delle sue condotte private che disonorano le istituzioni e la responsabilità che gli è stata affidata. Lo rende ossessivo che ci sia ancora da qualche parte in Italia la convinzione che la realtà esista, che il giornalismo debba spiegare «a che punto stanno le cose» al di là della comunicazione che egli può organizzare, pretendere, imporre protetto da un conflitto di interessi strabiliante nell´Occidente più evoluto.

Nessuna sorpresa, dunque, che l´Egocrate ritenga Repubblica un giornale di «delinquenti» indaffarati a costruire un´informazione «deviata». Più interessante è chiedersi se, ammesso che non l´abbia già fatto, il governo voglia muovere burocrazie sottomesse – queste sì, nel caso, «deviate» – contro questa «deviazione» – e deviazione deve apparirgli anche una testimonianza contro di lui di una prostituta che ha pagato o l´indagine di un pubblico ministero intorno ai suoi comportamenti. È un fatto che Berlusconi esige e ordina che la Rai si pieghi nei segmenti ancora non conformi, come il Tg3, a quel racconto incantato della realtà italiana.

Ancora ieri, Berlusconi – mentendo a gola piena e manipolando le circostanze – ha tenuto a dire che «è inaccettabile che la televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, sia l´unica tv al mondo ad essere sempre contro il governo». Sarà questa la prossima linea di frattura che attende un paese rassegnato, una maggioranza prigioniera dell´Egocrate, un´opposizione arrendevole. Lo si può dire anche in un altro modo: accetteremo di vivere nel mondo immaginario di Berlusconi o difenderemo il nostro diritto a sapere «a che punto siamo»? Se questa è la prossima sfida, i dirigenti i lavoratori della Rai, del servizio radiotelevisivo sapranno mettere da parte ambizione, rampantismo, congreghe e difendere la loro "missione" pubblica, la loro ragione di essere? Per quanto riguarda Repubblica, Berlusconi può mettersi l´anima in pace: faremo ancora un´informazione deviata dall´ordine fantastico, mitologico che vuole imporre al Paese.

Misura perversa Vanno contro la Costituzione e provocano effetti negativi a catena - Il Meridione sconta già stipendi più bassi e un Pil pro capite considerevolmente inferiore

Più che uno studioso qui ci vorrebbe un comico. Eh sì, perché questa storia delle gabbie salariali è un perfetto esempio di umorismo nero. Il Meridione se la passa male? Si può anche riuscire a farlo stare peggio... Insomma, se Berlusconi ha deciso di dare retta ad una delle ultime richieste strampalate della Lega il motivo può essere individuato nella politica, non certo nella ricerca del bene comune». Professore emerito dell’Università di Torino, il sociologo Luciano Gallino è persona dall’esposizione pacata, che però questa volta non può esimersi dall’utilizzare toni forti. Troppo squinternato il progetto governativo dell’Agenzia per il Sud, con i suoi annessi e connessi, per consentire una riflessione asettica.

Il premier, come al solito, celebra le sue iniziative in pompa magna. Per il piano destinato al Mezzogiorno si è evocato nientemeno che il New Deal di roosveltiana memoria.

«Che dire? Visto che l’architrave del progetto consta, appunto, nel differenziare i salari fra Nord e Sud, oppure, usando il linguaggio edulcorato di questi giorni, parametrare le buste paghe al costo della vita, è bene sottolineare che si tratta di un’idea che non sta in piedi da qualunque prospettiva venga considerata».

C’è il risvolto etico-politico...

«Che è assolutamente insostenibile. La nostra Costituzione spiega che ad uguale lavoro dovrebbe corrispondere uguale compenso, il che, usando un eufemismo, mi sembra una cosa un po’ diversa dalle gabbie salariali».

Ci sono poi le conseguenze economiche e sociali.

«Che sarebbero semplicemente devastanti. Pagare delle retribuzioni più basse nel Meridione provocherebbe una catena di effetti negativi. Basti pensare all’ammontare delle pensioni, che dopo le micidiali riforme succedutesi a partire dagli anni Novanta si sono già impoverite arrivando a scendere fino al 40% dell’ultimo salario corrisposto. E che ne sarebbe della domanda, del livello dei consumi, a fronte di stipendi ancora più bassi? Il tutto in un territorio che sconta già un cospicuo arretramento rispetto al Nord del Paese. Insomma, con le gabbie salariali verrebbe alimentato una sorta di circolo perverso della diseguaglianza. Senza contare i paradossi pratici che sarebbero causati da una tale iniziativa».

Vale a dire?

«Di fatto, a parità di impiego, gli stipendi nel Sud dell’Italia sono già più bassi rispetto a quelli pagati al Nord, in media inferiori del 15% per quanto riguarda gli operai e del 22% per impiegati e quadri intermedi. E allora che cosa si vuol fare? Non applicare a questi sfortunati lavoratori i prossimi contratti, o magari tagliargli da subito gli emolumenti? Il tutto in un’area del Paese dove, è sacrosanto ricordarlo, il Pil pro capite è gia inferiore del 40% rispetto a quello prodotto nel Settentrione, 18.000 euro contro 30.000».

Per i sindacati sarebbe ancora possibile gestire dei rinnovi nazionali dei contratti?

«Non credo proprio, se già consideriamo le attuali difficoltà da parte delle forze sociali nel restare unite e tenere tutti i lavoratori dentro i contratti. In realtà, con l’introduzione delle gabbie salariali diverrà ancor più frenetico un fenomeno drammatico: l’esodo di massa verso le zone più benestanti. Del resto i numeri parlano chiaro: negli ultimi 10/11 anni sono partiti verso il Nord qualcosa come 700.000 persone, molte delle quali in possesso di laurea o diploma. Per le regioni del Mezzogiorno si tratta di una colossale perdita di capitale umano, ma anche di soldi e servizi, qualcosa come 70 miliardi di euro che hanno attraversato il Paese dal basso verso l’alto».

Nel giorno in cui in questo paese la condizione di clandestinità diventa reato Fini e Napolitano onorano la memoria degli italiani morti a Marcinelle, emigrati in cerca di lavoro e sepolti nella tomba di una miniera cinquant’anni fa. È una piccola Italia questa che dimentica Little Italy, Rocco e i suoi fratelli, Pane e cioccolata. Da Sud a Nord, da Est a Ovest. Stranieri siamo tutti, lo siamo stati - additati per strada - appena ieri. Scrive oggi nel blog una lettrice, Concetta: «In Svizzera gli italiani li chiamano “tschinke”. Pare derivi da “cinque” perché i primi immigrati giocando a dadi invocavano l’uscita del 5, venivano perciò identificati col suono di quella parola. Per gli svizzeri equivaleva a “zingari”, “pezzenti”. Ma non a “delinquenti” perché i delinquenti fanno paura e quelli veri venivano solo denunciati, non aggrediti. I semplici “tschinke”, invece, venivano offesi e maltrattati e anche picchiati (in gruppo, di solito). Gli italiani - del Nord (quanti veneti!), del Sud e delle Isole - le hanno subite queste cose e se le ricordano. Ma avevano sempre un atteggiamento dignitoso, onesto ed erano alla lunga affidabili. Gli svizzeri se ne sono accorti anche se periodicamente, ogni due tre anni, c’era il Bossi della situazione (Schwarzenbach, si chiamava) che proponeva un referendum per cacciarli. Andava in tv in cravatta nera. Aveva argomenti del tipo “bisogna aprire le porte, ma non abbattere le staccionate” e una volta disse che bisognava tenere i laureati (aveva molto a cuore i medici, mi ricordo) e rimandare in patria gli altri». Noi teniamo le badanti, abbiamo molto a cuore loro.

È una piccola ipocrita Italia quella che finge di concedere l’accesso ai regolari e poi li truffa e li costringe alla clandestinità, come accade a San Nicola Varco - ci racconta in una bellissima inchiesta Gabriele Del Grande - ma anche nelle periferie e nelle campagne del Nord. Si fa così: un’azienda chiede di assumere immigrati dalle “quote”, li chiama attraverso intermediari (il servizio ha un prezzo, l’immigrato paga), loro arrivano in aereo e con le carte in regola, quando sono a destinazione si accorgono che la ditta che li ha chiamati non esiste. Vuoto, niente: non c’è. Otto giorni e diventano clandestini, sfruttabili per la raccolta di pomodori, per l’edilizia e certo per la manovalanza del crimine, se disperati, davvero a poco prezzo. Basterebbe andare a vedere, controllare, avere, anziché ronde in costume, un servizio pubblico di polizia messo in grado di lavorare con dignità in modo capillare: sarebbe facile allora sapere cosa accade davvero attorno a noi, dietro e oltre il terrore per lo straniero che ogni giorno si instilla. Alessandro Dal Lago, sociologo, racconta di quel che già succede a Genova e profetizza che il reato di clandestinità avrà il solo effetto di far nascondere i clandestini. Un popolo invisibile, braccato e ricattabile. Preda di chi voglia servirsene. A volte sarebbe sufficiente ascoltare la lingua del popolo: Anna Finocchiaro ci racconta dei «cristiani» di Sicilia, cristiani che vuol dire persone, cristiani bianchi e neri. Musulmani, comunque cristiani. Parlando di cinema, del Padrino e di Sacco e Vanzetti, Alberto Crespi conclude che sì, abbiamo esportato in America sia mafiosi che anarchici. I mafiosi sono stati trattati molto meglio.

Il premier sulle escort: "Non sono ricattabile". Il Pd: pronti a mobilitarci

Un uomo politico che di criminali se ne intende, come provano le condanne inflitte per reati molto gravi ad alcuni dei suoi più stretti amici, ieri si è permesso di attaccare i cronisti politici di Repubblica, indicandoli così: «Quelli sono dei delinquenti».

Bisogna risalire a Richard Nixon nei nastri del Watergate per trovare un simile giudizio nei confronti di un giornale. Oppure bisogna pensare alla Russia dove impera a carissimo prezzo la verità ufficiale di Vladimir Putin, non a caso amico e modello del nostro premier.

Questa isteria del potere rivela la disperazione di un leader braccato da se stesso, con uno scandalo internazionale che lo sovrasta mandando a vuoto il tallone di ferro che schiaccia le televisioni e spaventa i giornali conformisti, incapaci persino di reagire agli insulti contro la libertà di stampa.

Quest´uomo che danneggia ogni giorno di più l´immagine del nostro Paese e toglie decoro e dignità alle istituzioni, farà ancora peggio, perché reagirà con ogni mezzo, anche illecito, al potere che gli sta sfuggendo di mano, un potere che per lui è un fine e non un mezzo.

Noi continueremo a comportarci come se fossimo in un Paese normale. In fondo, questo stesso personaggio ha già cercato una volta di comperare il nostro giornale e il nostro gruppo editoriale, ed è stato sconfitto, dopo che – come prova una sentenza – con i suoi soldi è stato corrotto un magistrato: a proposito di delinquenti. Non tutto si può comperare, con i soldi o con le minacce, persino nell´Italia berlusconiana.

Il discorso pubblico sull’Unità d’Italia è rapidamente scivolato nel discorso sulla sua disunione. Non c’è da meravigliarsene: si parla sempre del medesimo oggetto, del ruolo che la politica ha, o non ha, nella vita del nostro Paese.

Alla sua origine l’Unità fu l’esito di un’azione politica, non di una necessità storica: nonostante le grandi narrazioni delle intelligenze più generose e progressiste, da Mazzini a Manzoni, non vi era un’Unità in potenza, un popolo unito dalla storia, pronto a diventare una realtà effettuale. Quando l’Italia fu fatta, fu chiaro ai suoi stessi artefici che si trattava di una arrischiata scommessa, di uno Stato nazionale senza Nazione.

Fatta l’Italia, toccò alla politica fare anche gli Italiani. Il che avvenne – al prezzo di dolorosissime esclusioni (i milioni di emigranti) – attraverso le istituzioni (dal Parlamento nazionale ai Regi Licei al Regio Esercito), ma anche con la nazionalizzazione delle masse (indotta dalle mitologie patriottiche postrisorgimentali, e dalla Grande Guerra), col nazionalismo sociale e imperialistico del fascismo, e infine con la democrazia. Nella quale la forza civile di una cittadinanza pensata finalmente per tutti si è combinata con la formidabile potenza inclusiva del capitalismo, in un rapporto di dura competizione ma anche di collaborazione con le rappresentanze politiche del lavoro (sindacati e partiti di sinistra), sotto la garanzia della Democrazia Cristiana.

È da questa modernizzazione democratica – all’insegna dello Stato sociale, della produzione, e dei consumi – che sono risultati gli Italiani: che sono oggi una società di massa occidentale, e quindi relativamente omogenei quanto a cultura, lingua, stili di vita, esperienze, aspettative. Ma mentre, durante la Prima Repubblica, venivano fatti gli Italiani, era scarsamente manutenzionata l’Italia politica: la sua esistenza veniva data per scontata, e non era un vero problema. Anche il suo funzionamento pareva accettabile: dopo tutto, le istituzioni democratiche e l’Unità d’Italia sembravano avere retto bene o male, le prove del dopoguerra: i separatismi, le contrapposizioni ideologiche, i terrorismi, le rivoluzioni di costume (anche le Mafie, benché mai sconfitte, parevano entità parassitarie, in fondo subalterne, rispetto alla forza della democrazia).

Che dietro agli Italiani ci fosse in realtà poca Italia – che l’omogeneità della società di massa fosse percorsa da contraddizioni e da scomposizioni che sempre meno trovavano sintesi politica – è apparso chiaro quando, dopo la paralisi dei partiti costituzionali negli anni Ottanta, e dopo le inchieste giudiziarie degli anni Novanta, su questa Italia si è abbattuta una politica giocata sulla forzata contrapposizione e sulla strumentale mobilitazione permanente di una parte degli Italiani contro l’altra (dei ‘liberali’ contro i ‘comunisti’): la politica di Berlusconi. Cioè, paradossalmente, di un uomo che molto ha contribuito con le tv commerciali all’unificazione, e all’omologazione, degli Italiani, a renderli ciò che oggi sono; e che all’Italia – trasfigurata in uno slogan sportivo – ha intitolato il proprio partito, e dedicato la dichiarazione d’amore con cui ha iniziato la sua carriera politica ("l’Italia è il Paese che amo").

Fino a quando Berlusconi ha conservato il suo potere politico, l’italianità fittizia – di cui egli produceva la rappresentazione con le sue televisioni, e con la sua stessa persona, dilatata a icona in cui gli Italiani si immedesimavano – compensava, apparentemente, le divisioni che egli creava, o che acuiva, fra gli Italiani; e col suo populismo egli in parte copriva, o almeno lo pretendeva, anche l’indebolimento delle istituzioni democratiche, il deficit di spirito pubblico e di patriottismo costituzionale dell’Italia politica, che il suo stile di lotta e di governo produceva o accelerava.

Ma oggi il suo potere si è parecchio affievolito, tanto per le sue vicende private (che egli stesso ha da sempre voluto far valere come pubbliche, e che ora gli si rivoltano contro, in patria e all’estero) quanto per la crescente difficoltà che egli incontra a supplire con la sua fittizia immagine unitaria d’Italia le lacerazioni reali che la crisi economica, poco governata, induce e amplifica fra gli Italiani. I quali restano sì uniti dallo stile di vita, dalla cultura, dalla lingua, ma si dividono per redditi, per interessi sempre più parziali e confliggenti, secondo linee di frattura sia sociali sia locali.

Mentre barcolla la sua capacità di produrre identificazione simbolico-emotiva per gli Italiani, Berlusconi si trova di fatto a inseguire i suoi alleati che scommettono sulla frammentazione e sulla divisione d’Italia: ovvero tanto la Lega Nord, alle cui assurde provocazioni su dialetti e territori non ha saputo opporre una risposta dignitosa (e del resto l’incalzante offensiva leghista sulle gabbie salariali e sul tricolore fa parte di una calcolata strategia di disunione), quanto l’embrione della Lega Sud, ricettacolo di antiche e nuove clientele notabilari e frustrazioni popolari, che egli ha per ora tacitato elargendo denari virtuali.

È dunque l’attuale estrema debolezza della politica – prima di tutto del governo e del premier, ma anche dell’opposizione, tutta presa dalle sue interne difficoltà – a far dire che oggi esistono sì gli Italiani, ma che nel frattempo, cosa impensabile ai tempi dell’Italietta del cinquantenario (nel 1911) e dell’Italia del boom del centenario (nel 1961), l’Unità d’Italia è tornata a essere un problema politico, serio e incombente.

Stagione terribile per il lavoro. Ogni giorno l'elenco delle società che chiudono i battenti si allunga, accompagnato dallo scempio di professionalità, che si tratti di ricercatori o di operai. Eppure, c'è chi ci racconta che il peggio della crisi è passato, magari perché quelle banche che tanta responsabilità hanno nella crisi, salvate con i soldi dalla collettività, riprendono a girare con gli stessi meccanismi taroccati di sempre. Pazienza se gli effetti sociali dello tsunami finanziario e industriale stiano cominciando a precipitare proprio ora. Ebbene, se in una stagione come questa arrivano delle mezze buone notizie, siano le benvenute.

La prima mezza buona notizia è che per la Innse una soluzione produttiva esiste, grazie a un'offerta d'acquisto avanzata da una società italiana di reindustrializzazione. Dunque, non è vero che l'unico modo per rendere produttiva quella fabbrica consista nella svendita delle macchine a un rottamatore, e dell'area in cui sorge, una volta «liberata» dagli operai, agli speculatori. È una mezza buona notizia, perché fino al momento in cui scriviamo questa proposta non è stata presa sul serio dalle istituzioni locali, quelle che fanno le gradasse con la lombarditudine e poi sottostanno agli input leghisti e romani. Come se la proposta d'acquisto della Innse minacciasse di rovinare le vacanze a presidenti e consiglieri accaldati che avrebbero preferito mettere una croce sopra la vecchia Innocenti e i 49 combattenti che la difendono. Cosicché, la polizia al servizio del rottamatore non è ancora stata tolta dai cancelli. È normale che i cinque operai arrampicati sul piano ponte proseguano la battaglia, insieme ai loro compagni ai cancelli.

La seconda mezza buona notizia viene da Torino: al termine di una lotta durata 5 anni, fatta di sacrifici e persino di rinuncia alla liquidazione per pagarsi l'amministrazione straordinaria, 1.137 operai dello storico marchio del carrozziere Bertone potranno tornare al lavoro. Sotto un altro padrone, la Fiat di Marchionne. Anche questa notizia, pur nella sua straordinarietà, è buona per metà: la Fiat compra a Grugliasco e vuole chiudere a Imola la Cnh e la produzione di automobili a Termini Imerese. E ancora, se è vero che a Grugliasco Marchionne intende produrre per il «suo» nuovo marchio, la Chrysler, le vetture che usciranno dalle linee di montaggio saranno modelli ecologici, oppure suv?

La terza buona notizia arriva dall'isola di Wight. Da giorni oltre 600 lavoratori occupano un impianto di produzione di energia eolica che una multinazionale danese, colosso europeo del settore, vorrebbe chiudere. La parte buona di questa storia è data dal fatto che, insieme agli operai, stanno presidiando l'impianto gli ambientalisti inglesi. Segno che il conflitto tra ambiente e lavoro può essere evitato e la solidarietà è ancora possibile. La parte negativa della storia sta nel fatto che un esito positivo della lotta non è ancora arrivato.

Morale? L'unica possibile è che, invece di affidarsi al destino o al buon cuore dei padroni dell'economia e dei loro delegati in politica, bisogna battersi per riprendersi in mano il futuro. Qualche volta si può anche vincere.

Le favole sono sovente metafora della realtà od anche lettura mascherata dell’inconscio. Ce lo fa venire in mente Angelo Panebianco ("Corriere" del 3 u.s.) quando ripropone la versione di una sinistra sovrastata "dall’ingresso in politica dell’Uomo Nero Silvio Berlusconi", paralizzata "di fronte all’Orco, simbolo di tutti i vizi e le turpitudini del Paese", tanto infantile da raccontare da quindici anni questa fiaba ai propri elettori. Così precipitando nella rovina, ingannata per sovrappiù dai "giornali di riferimento", alias "la Repubblica", che in questo scenario svolge evidentemente la parte del Lupo, con le sue astute lusinghe intento ad adescare la sperduta bambina nel bosco, l’innocente Cappuccetto Rosso.

Può spiacere - e a me personalmente spiace - che uno studioso di scuola liberale sostituisca i fratelli Grimm ad Hayek e Popper, ma cosa non si farebbe al giorno d’oggi nel regno degli struzzi, pur di non porsi il problema di Berlusconi, del significato del suo agire politico, della sua concezione dell’etica pubblica? Riluttanti, quindi, nel riconoscere l’incolmabile antinomia, creata tra comportamenti, pulsioni, proponimenti del Cavaliere e principi irrinunciabili di uno stato liberale: la separazione dei poteri e il loro dialettico rapporto, l’indipendenza della magistratura, il rispetto dei diritti dell’uomo, come individuo e come cittadino, come credente e come ateo, la libertà dell’informazione, sia pur spiacevole ai governanti, la gelosa custodia dei diritti delle minoranze, evitando ogni dittatura della maggioranza.

Basta scorrere le cronache dell’ultimo quindicennio per percepire quanto siano lontane e avverse a tutto ciò la concezione e la pratica berlusconiana del potere. Questo non fa del premier un Orco o un Uomo Nero ma un "monstrum", nel senso latino della definizione (vedi dizionario Georges-Talonghi). Cioè una figura che può essere mostruosa in quanto diversa, ma altresì vista come "strana", "prodigiosa" e persino "meravigliosa", tutti aggettivi che i tanti fans possono, dunque, tranquillamente attribuire al loro Capo: ferma restando la piena attinenza del giudizio espresso da quanti, per contro, paventano il picconamento dello stato liberale e, senza abbandonarsi ad affabulazioni, percepiscono e giudicano il Demolitore come un personaggio alieno alla nostra vicenda nazionale quanto avverso ai valori sui quali, dalla Destra storica alla Repubblica democratica e solidale, era venuta tessendosi la trama dell’unità d’Italia.

C’è bisogno di una casistica per rammentare che Berlusconi, "scendendo in campo", segnò l’avvento al governo della Repubblica dell’uomo più ricco d’Italia, le cui fortune erano in primo luogo determinate dal controllo pressoché monopolistico delle televisioni private e, ben presto, pubbliche, una lesione gravissima che anziché suturata è stata col tempo vieppiù aggravata? Sono ben conscio, ripetendo queste cose ormai vetuste, d’incorrere nella conclamata noia di quanti amerebbero esistesse una decorrenza dei termini anche per la denuncia giornalistica delle pubbliche indecenze, Ma questo benefit mediatico, se è entrato ormai nell’uso di tante anime prudenti, seguita pur sempre a scontrarsi con la testarda reiterazione della denuncia da parte di qualche residuo manipolo di spiriti critici, vocati ad infastidire i potenti.

Così, sotto analoga rampogna, cade chi ancor rammenta le infinite vicende giudiziarie di un premier sfuggente a ogni processo, ed elenca le sentenze abortite per decorrenza dei termini o per prescrizione, per patteggiamento o per sospensione del giudizio (legge Alfano), per intervenuta legislazione ad personam o per indulto. E che sequela di campagne contro la magistratura, indicata al popolar ludibrio, e quanti fendenti alla giurisdizione e quante riforme tese a soggiogare l’indipendenza di giudici e procuratori.

Insomma, Silvio Berlusconi non è - e ha dimostrato di non saperlo, e di non volerlo neppure diventare - un normale leader della destra democratica europea. Non è un Sarkozy, una Merkel, tanto meno un David Cameron, il distinto conservatore, capo dell’opposizione di Sua Maestà, la regina Elisabetta. Per questo non è l’opposizione ad aver le traveggole e ad inventarsi l’Uomo Nero, ma l’aliena natura politica e morale del Cavaliere a rendere la contesa politica italiana simile alla commedia greca (o all’opera dei Pupi?) con personaggi contrapposti, inchiodati a un ruolo e a una maschera fissi, senza variabili all’orizzonte.

Obiettano, peraltro, Panebianco e molti altri che il popolo è con Lui.

Lo vota, lo plaude e quando pronuncia quattro paroline magiche - «non sono un santo» - anche di fronte "alla sua disordinata e sconsiderata vita privata", gli fa l’occhiolino e si sente complice. Una volta ancora la sovrapposizione tra pubblico e privato provoca stravolgimenti di giudizio. Un uomo politico, tanto più un leader, non può non aver presente il pubblico giudizio anche quando agisce privatamente. Da questo punto di vista, il suo diritto alla privacy risulta affievolito. Berlusconi avrebbe dovuto saperlo in partenza, ma anche in questo caso la sua "alienità" o "anti-politicità" che dir si voglia, lo ha assai mal consigliato. Se fosse rimasto solo un tycoon della Tv commerciale e avesse voluto trascorrere le notti nelle sue ville e palazzi tra escort, ballerine, ruffiani e attricette, sarebbe stato affar suo e solo la moglie e i figli avrebbero avuto diritto a protestare.

Come ricca di precedenti sarebbe apparsa la promessa alla favorita del momento di un provino o di una particina. Ma così non è: un presidente del Consiglio che trasforma la sue dimore ufficiali, vigilate in permanenza da carabinieri e servizi segreti, in rutilanti set dove si sfiora l’orgia collettiva e dove la fiction erotica si trasforma in reality, promette seggi a Strasburgo, partecipa a ludici incontri in una capitale della camorra per festeggiare un protetta che compie la maggiore età, rivela di considerare l’etica pubblica alla stregua di un satrapo asiatico dotato di potere assoluto.

Del tutto ignaro della prudenza di comportamento e di rapporti propria dell’uomo di stato occidentale. Per cui, se un rimprovero si può muovere alla opposizione in questo caso, è di essersi attenuta ad una timidezza eccessiva, ai limiti del timore. Altro che di aver cavalcato il moralismo. Aggiungo, a scanso di equivoci, che tutto quello che son venuto fin qui elencando non cancella affatto il giudizio critico sulla insipienza tante volte analizzata delle confuse e contraddittorie velleità della minoranza riformista, sulla sua incapacità di sfuggire al populismo dipietrista, sulla sua carenza di proposte autonome anche in materia di giustizia.

Per contro, di fronte alla noncuranza di certi commentatori liberali, c’è da chiedersi se considerino accettabile il concetto berlusconiano di maggioranza, come potere sottratto a vincoli, norme, contrappesi ed efficaci istituti indipendenti di garanzia e, soprattutto, dominus della Tv. Eppure proprio questa è la filosofia di questo singolare imprenditore che ha trasformato la sua Mediaset in un partito politico. Di qui la convinzione che lo Stato altro non sia che una azienda, più o meno con le stesse regole di governance: fino a quando è lui il padrone, è lui che comanda. Gli avversari, se vogliono sostituirlo, lancino una Opa ostile, se ce la fanno si prendono il pacchetto di maggioranza con quel che segue. Se no, se ne vadano con le pive nel sacco.

Ha un senso in questa situazione suggerire un riformismo di ricasco, che si accodi alla maggioranza, contrattando su qualche briciola di benevolenza padronale? O anche contrapporre il consenso di cui gode il leader alle inutili velleità di una opposizione destinata a restare minoritaria? A chi sostiene una simile arrendevolezza val forse la pena ricordare che anche Mussolini godette per lunghi anni del consenso degli italiani ma l’esigua opposizione non avrebbe mai conosciuto il giorno della rinascita se si fosse rifugiata in un silenzio senza futuro. Paragone forse azzardato perché Berlusconi non è Mussolini e l’opposizione vegeta nei dintorni del Palazzo e non in esilio, ma per favore non spieghiamo tutto ciò con la sindrome dell’Uomo Nero e dell’Orco mangiabambini.

Non poteva esserci più singolare coincidenza nella vicenda della Innse, la storica fabbrica meccanica milanese della quasi contemporanea approvazione da parte della regione Lombardia del cosiddetto piano casa. Nella vicenda da una parte ci sono persone in carne ed ossa che tentano di difendere il proprio lavoro, il proprio sapere, la propria dignità. Dall'altra parte il proprietario, uno dei tanti esponenti della "classe dirigente" cui sarebbero affidati i destini del futuro dell'Italia. Anzi, un esponente molto rappresentativo, poiché ha venduto alla chetichella i macchinari e ora vuol farci una delle infinite speculazioni immobiliari cui siamo abituati in questi anni di delirio del cemento.

Ma nella vicenda c'è anche il "potere pubblico", comune e regione Lombardia, quello che ai sensi della Costituzione repubblicana dovrebbe tutelare gli interessi della collettività. Il primo, il comune assiste senza intervenire sperando che dalla consueta valorizzazione immobiliare arrivi qualche soldo nelle sempre più esangui casse pubbliche. La regione, invece interviene. Eccome. Ha approvato il 16 luglio scorso il piano per il rilancio del settore dell'edilizia. Prevede, tra le altre sconcezze, che i proprietari di immobili produttivi possano aumentare la volumetria esistente (nel caso delle vecchie fabbriche è enorme!) del 35% e cambiare la destinazione d'uso da produttiva a residenziale. Per farlo basta soltanto una semplice deliberazione del consiglio comunale che lo consenta (comma 5 dell'articolo 3). E, dati i rapporti di dipendenza della politica dall'economia, c'è da giurare che tutti i comuni si precipiteranno a consentire la dismissione degli impianti produttivi. La regione Lombardia così silenziosa nella vicenda Innse, è stata invece molto efficiente nel tutelare gli interessi degli speculatori.

Altri palazzi, allora, per la felicità degli energumeni del cemento. Come dare torto al proprietario, al secolo Silvano Genta, se manda a casa gli "esuberi" e si mette a fare speculazione immobiliare? Fare impresa significa investire, innovare, essere in grado di valutare opportunità di mercato. Un mestiere difficile in cui si rischia continuamente. Molto più comodo e senza rischi fare speculazione edilizia. Del resto era stato il piano casa del governo nazionale serviva soltanto a questo, a premiare le grandi proprietà immobiliari; le grandi catene dei supermercati sempre più in difficoltà; le grandi catene di alberghi; i proprietari di grandi fabbriche dismesse.

Ma ancora non bastava. I famelici "imprenditori" nostrani non erano evidentemente soddisfatti ed hanno imposto e ottenuto un altro enorme regalo per la rendita. I primi due scudi fiscali, e cioè il ritorno dei capitali illegalmente esportati all'estero, furono preparati dal ministro Tremonti a partire dal 2001. Rientrarono circa 80 miliardi di euro e non furono utilizzati per investimenti produttivi. Lo disse anche un berlusconiano di ferro come Vittorio Feltri. Ecco un passo dell'editoriale di Libero del 10 aprile 2005: «Berlusconi e Tremonti hanno agevolato il rientro dei capitali dall'estero imponendo una tassa ridicola. I capitali sono rientrati, ma non erano certo i soldi della signora Maria, bensì dei ricchi. E non sono servito a rilanciare l'economia, semmai ad incrementare gli investimenti immobiliari, sicché gli immobili sono aumentati vertiginosamente di prezzo, rendendo impossibile l'acquisto ai non miliardari». Parole sante, ma oggi che si è varato il terzo scudo fiscale tutti zitti. Come sulla vicenda Innse. Un altro fiume di denaro sarà indirizzato verso gli investimenti immobiliari. Mentre l'Europa cerca di costruire un'uscita produttiva dalla crisi, l'Italia berlusconiana è preda della rendita speculativa immobiliare. Un paese senza futuro.

La lotta dell'Innse è un'anomalia. Dice che esistono ancora degli operai che amerebbero continuare a fare gli operai, non sognano di aprire un bar o di farsi scritturare dal grande fratello. Rimette in discussione il nostro sguardo sugli operai. Il professor Ichino, invece, resta catafratto nelle sue certezze. Giuslavorista di vaglia, docente stimolante, uomo coraggioso, senatore non assenteista. Anche chi non condivide le sue idee e le sue ricette - e noi siamo tra questi - riconosce delle qualità a Pietro Ichino.

Ma della vicenda Innse, sia detto fuori dai denti, il professore non ha capito un tubo. Il suo commento, pubblicato ieri sul Corriere , brilla per ottusa insensibilità. Ichino riduce la lotta dei 49 operai dell'Innse a caso qualsiasi tra altri mille. L'interpreta come mera (e pigra, ai suoi occhi) lotta per non perdere il salario e un posto di lavoro qualsiasi. Gli sfugge che i 49 non resistono da 14 mesi perché vogliono assicurarsi un «posto» purchessia. Vogliono mantenere il loro di lavoro, quello che per anni hanno dimostrato di saper fare bene, in quella fabbrica lì, a Lambrate. Una fabbrica che, nonostante la ruggine sul cancello, potrebbe ancora avere commesse, se solo si trovasse un padrone un gradino sopra il livello di rottamaio. I tre mesi di autogestione gli operai di via Rubattino non li hanno fatti per tenersi in allenamento, ma per dimostrare la loro professionalità e il loro attaccamento a impianti da cui sono usciti pezzi che hanno portato il marchio Innse nel mondo. Per bloccare lo smontaggio di quegli impianti, e non per sport, in cinque sono saliti martedì sul carroponte.

Gronda di soggettività operaia e di storia industriale il caso Innse. Il senatore del Pd non vede né l'una, né l'altra. Lui vede solo «riti stanchi», lo «stesso logoro schema», un sindacato che spinge i lavoratori in «un vicolo cieco», costringendoli a «rimanere attaccati a tutti i costi a un padrone» incapace e inaffidabile. Perché tanto accanimento, argomenta Ichino, quando sarebbe facilissimo, persino in condizioni di crisi, «ricollocare altrove» quei 49 lavoratori? Basterebbe che il sindacato invece di mettersi di traverso, accettasse i licenziamenti, subordinandoli però a serie politiche di outplacement a carico dell'imprenditore che chiude un'azienda o la ristruttura. La parola inglese, che significa «ricollocazione», è un prezzemolo che non manca mai negli accordi di ristrutturazione. Anni dopo, quando si fanno i bilanci, si scopre che i «ricollocati» si contano sulle dita di una mano. E che nei rari casi in cui avviene, la ricollocazione si fa sempre al ribasso: chi era un operaio provetto finisce a mettere le scatole di biscotti sugli scaffali di un supermercato.

I 49 dell'Innse rifiutano questa prospettiva. Rifiutano un «altrove» dove la loro professionalità sarà inutile e «rottamata». Stupisce in questa epoca di operai senza identità il loro orgoglio e la loro cocciutaggine. Ma è tutta farina del loro sacco. Non è stato il sindacato, come a Ichino fa comodo credere trattandosi della Fiom, a fargli il lavaggio del cervello. Sfugge qualcosa anche ad alcuni lettori intervenuti sul nostro sito a proposito del caso Innse. Chi suggerisce ai 49 di Lambrate di «fare come in Francia», di ricorrere a metodi di lotta più «incisivi» e «violenti» dimentica una differenza sostanziale. L'obiettivo di quasi tutti i sequestri di manager in Francia è stato quello di spuntare più consistenti buone uscite, non di evitare la chiusura delle fabbriche. In via Rubattino non si lotta per ottenere qualche migliaia di euro per rimpolpare il magro assegno di mobilità. Si lotta per tenere in vita la fabbrica. Sempre sul nostro sito, qualcuno ha il dente avvelenato con gli operai diventati in massa berlusconiani o leghisti. «Vadano a farsi difendere da loro». Detto che anche gli operai leghisti meritano di essere difesi, se hanno ragione, la contumelia non si attaglia ai 49 dell'Innse. Di leghisti tra loro non ce ne sono, sono mosche bianche (o meglio rosse) anche in questo. Nel loro presidio gli zingari e i migranti sono sempre stati sempre benvenuti. Nell'Italia del rancore, della paura, dell'egoismo via Rubattino è uno dei rari luoghi in cui ultimi e penultimi si sono trovati dalla stessa parte della barricata.

La vicenda della Innse di Lambrate dimostra quali sviluppi drammatici possono presentarsi quando un numero crescente di persone vede violato a proprio danno un fondamentale diritto umano. E cioè il diritto ad una ragionevole sicurezza socio-economica. È l’esperienza di chi perde il lavoro senza averne alcuna responsabilità. Chi sia costretto a tale esperienza è colto anzitutto dall’angoscia per l’immediato futuro. Come farò, si chiede, a pagare le rate del mutuo e dell’auto, le cure odontoiatriche per i figli più piccoli, il costo della scuola superiore o dell’università per i più grandi. In secondo luogo la stessa persona si sente vittima di una grave ingiustizia, di un inganno che qualcuno ha ordito alle sue spalle e che improvvisamente si rivela come tale. Quando si colpisce il diritto a una giusta sicurezza socio-economica, sono queste le emozioni che si diffondono come un incendio boschivo sia tra i diretti interessati, sia tra coloro - molto più numerosi - che pensano domani potrebbe toccare a me.

Il punto critico non è quindi se i lavoratori della Innse abbiano esagerato o no nel salire su una gru per impedire lo smantellamento dei macchinari da parte del nuovo proprietario, ovvero se non avrebbero potuto trovare forme di protesta o di contrattazione meno trasgressive. Il punto è se il nostro paese possa ancora permettersi a lungo l’assenza di una politica della sicurezza socio-economica.

Dire che una simile politica non esiste da almeno vent’anni significa in verità dire troppo. Le politiche del lavoro di tale periodo non ignoravano certo la questione.

Semplicemente partivano dall’assunto, rivelatosi poi totalmente sbagliato, che in una economia dinamica, con elevati tassi di sviluppo, la sicurezza sarebbe stata assicurata agevolmente dal gran numero di veloci compensazioni che si svolgono sul mercato del lavoro: chi perda il lavoro il venerdì, si postulava, ne troverà sicuramente un altro il lunedì successivo. La moltiplicazione infinita delle occupazioni flessibili è stata fondata precisamente su tale assunto, che non ha alcuna base nemmeno negli Stati Uniti. Figuriamoci in Italia.

Al presente il problema, se possibile, si è ulteriormente complicato. Non soltanto l’economia crea nuovi posti di lavoro a un ritmo molto basso, ma è possibile che per un lungo periodo ne crei assai meno di quanti se ne stanno perdendo. E per accrescere la sicurezza dei milioni di individui che l’hanno già persa, o che temono di perderla tra breve, non basteranno né la ripresa - posto che questa arrivi nel 2010, o nel 2011, o ancora dopo - né un potenziamento dei cosiddetti ammortizzatori sociali. Sarebbero assolutamente necessarie politiche industriali realmente innovative rispetto ai modelli precedenti, che in altri paesi a partire dagli Stati Uniti, si cominciano a intravedere. Ci vorrebbero inoltre interventi radicali di sostegno al reddito, quale sarebbe ad esempio un reddito di base o reddito di cittadinanza che sia, nonché una redistribuzione del lavoro disponibile che non abbia paura di quello che fu in passato uno slogan - lavorare meno per lavorare tutti - ma che potrebbe rivelarsi come una ricetta indispensabile per il prossimo futuro. Bisognerebbe anche impedire che operazioni apparentemente razionali sotto il profilo industriale come il trasferimento di rami d’azienda, la vendita in blocco di imprese piccole e medie, o la cessione di impianti a terzi, non fossero usati semplicemente per licenziare d’un colpo centinaia di lavoratori senza giusta causa.

Per i lavoratori della Innse una soluzione dovrà essere comunque trovata in tempi rapidi. Senza ignorare che le imprese piccole e medie in difficoltà, da qui all’autunno, sono e saranno parecchie migliaia. Tuttavia a quei lavoratori va riconosciuto in ogni caso il merito di aver attirato l’attenzione, con il loro comportamento estremo, sulla necessità di riprendere a ragionare in merito all’economia e al lavoro come a strumenti che devono essere impiegati primariamente per assicurare al maggior numero di persone il diritto a un livello accettabile di sicurezza socio-economica. Non sarebbe nemmeno una novità.

Per almeno trent’anni, tra gli anni ‘50 e gli anni ‘80, quello che fu definito il compromesso capitale-lavoro funzionò efficacemente proprio nel produrre e diffondere in Europa tale forma essenziale di sicurezza e di diritto.

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