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Se un cittadino dalla pelle non perfettamente candida aspirasse a incarichi politici in Italia, sarà meglio che ci ripensi. «Non vorrei tra cinque anni e un mese trovarmi un presidente abbronzato», ha dichiarato Roberto Calderoli l´altra sera a Treviso.

Il ministro leghista si era già distinto per un´analoga sortita nei confronti della sua concittadina italiana Rula Jebreal. Imitato dal presidente del Consiglio che rivolse la stessa «carineria» a Barack Obama. Tali affermazioni desterebbero scandalo se pronunciate da uomini di governo in qualsiasi altro paese occidentale. E delineano, all´interno della maggioranza di centrodestra, una spaccatura su principi della massima rilevanza per il futuro della nostra democrazia. Chi ha diritto a essere considerato italiano, e quali devono essere le procedure di ottenimento della cittadinanza?

La proposta di legge che divide la destra è stata presentata in Commissione Affari Costituzionali da Fabio Granata (Pdl) e da Andrea Sarubbi (Pd). Le modifiche mirano ad abbreviare da dieci a cinque anni il periodo di residenza continuativa necessario per ottenere il passaporto italiano a un immigrato che dimostri inoltre stabilità di reddito e una sufficiente conoscenza della lingua. Granata e Sarubbi propongono ancora che venga naturalizzato il minore nato in Italia da stranieri, se uno dei genitori vi soggiorna da cinque anni; così come il minore che abbia completato un percorso scolastico nel nostro paese.

Quando poi il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha ribadito la sua idea di attribuire il diritto di voto amministrativo agli stranieri residenti da almeno cinque anni sul territorio nazionale, Umberto Bossi ha reagito dandogli del «matto». Ma più pesante ancora giunge il no di Silvio Berlusconi a concedere la cittadinanza e il diritto di voto amministrativo agli stranieri: «Io difendo la sicurezza di tutti, evitando che la sinistra apra le frontiere, per poi concedere loro la cittadinanza e il diritto al voto, un subdolo stratagemma per garantirsi una futura preminenza elettorale».

È interessante notare che Berlusconi e Bossi non si limitano a definire prematura o frettolosa la revisione delle norme sulla cittadinanza. In più occasioni pubbliche questi leader della destra si sono dichiarati contrari all´idea stessa di una «società multietnica»; come testimonia anche la greve battuta di Calderoli sul pericolo di ritrovarci fra cinque anni e un mese con un «presidente abbronzato». Probabilmente non se ne rendono conto, ma con le loro parole stanno propugnando un ritorno all´indietro dai principi di cittadinanza così come li definì oltre due secoli fa la Rivoluzione Francese. Berlusconi e Bossi rigettano la teoria democratica secondo cui lo Stato-nazione è luogo di attuazione di diritti universali civili e politici. Da secoli a una nazione democratica non si appartiene più per mera discendenza, bensì per cittadinanza. Un passo avanti storico rispetto all´ideologia reazionaria Blut und Boden, «sangue e terra», perché la nazione non può venire ridotta al «pezzetto di terra dove si è nati e cresciuti» teorizzato da Justus Moser.

A furia di inseguire consensi promettendo «meno stranieri», Berlusconi e Bossi rifiutano l´idea che possano esserci «più italiani» e «nuovi italiani». La loro idea di italianità è ferma agli anni Trenta del secolo scorso: l´appartenenza razziale. Lungi dal farsi interpreti di un nuovo patriottismo, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dello Stato unitario, essi paventano come minacciosa l´eventualità che uno straniero possa diventare italiano se non per concessione arbitraria. La divergenza emersa all´interno della destra, quindi, non riguarda solo la volontà o meno di integrare gli stranieri residenti attraverso una politica lineare dei diritti e dei doveri. La prossima discussione parlamentare renderà manifeste due opposte nozioni di cittadinanza. Ma non facciamo finta che siano entrambe compatibili con una democrazia in cui vivono già quattro milioni di immigrati.

Stiamo affrontando un tempo difficile in piena regressione culturale, radice e fondamento d’ogni cattiva politica. Pur sapendo quanto lunga sia la schiera dei detrattori dell’Illuminismo, ad esempio, mai mi sarei aspettato che, nel 2009, fosse definito "bieco", con un ritorno nello spirito e nel linguaggio all’invettiva contro Pio IX che Giuseppe Gioachino Belli mette in bocca al suo popolano romano, nostalgico del "papa morto", Gregorio XVI, "nun fuss’antro pe avé mess’in castello,/Senza pietà, cquela gginia futtuta", per aver imprigionato i biechi "giacubbini". Di quella ingombrante eredità – che continua a parlarci di libertà, eguaglianza e fraternità - bisogna liberarsi nel momento in cui i diritti fondamentali delle persone diventano l’offerta sacrificale per riguadagnare il favore della Chiesa, la libertà d’opinione appare intollerabile e, soprattutto, si insiste sull’investitura elettorale e sul favore dei sondaggi per riproporre un uso del potere della maggioranza che non tollera né limiti, né pudore.

In agosto, il Presidente della Cei aveva messo in evidenza i limiti del principio di maggioranza, al quale non dovrebbero essere sottomessi i valori. L’annuncio di questi giorni del presidente del Consiglio e dei suoi, invece, va nella direzione opposta, per il modo in cui si torna a parlare di testamento biologico, pillola Ru 486, insegnamento della religione, procreazione assistita, unioni di fatto. Sono questi i temi che la maggioranza annuncia di voler sottomettere a quella forza dei "numeri" dalla quale il cardinal Bagnasco, per un momento, sembrava aver allontanato la discussione sui valori. Una maggioranza prepotente proprio sui valori vuole di dire l’ultima parola, dando concretezza alla pretesa di trasformare le istituzioni nel veicolo di un’etica di Stato, nel braccio secolare di convinzioni religiose.

Al presidente del Consiglio vale la pena di ricordare un brano del discorso pronunciato da Aldo Moro nel 1974, all’indomani della sconfitta della Democrazia cristiana nel referendum sul divorzio, mettendo in guardia contro le forzature «con lo strumento della legge, con l’autorità del potere, al modo comune di intendere e disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani»; e si consigliava «di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Una posizione, questa, nella quale si rifletteva anche la consapevolezza dei limiti costituzionali all’ingerenza del legislatore nella vita delle persone.

Ma la questione della maggioranza e dei suoi poteri si pone anche in campi diversi, in primo luogo per la riforma dei regolamenti parlamentari che si annuncia come uno dei temi centrali della prossima stagione politica. Il Governo, fin dal primo giorno di questa legislatura, ha sistematicamente mortificato il Parlamento, usando la propria maggioranza per forzature continue, abusando del voto di fiducia, del decreto legge, dei maxiemendamenti. Ora si avanzano proposte di riforme regolamentari che dovrebbero almeno limitare questi abusi. Ma, considerandone i contenuti, si ha la sgradevole sensazione che, nella gran parte dei casi, si trasformino in procedure formali quelle che oggi sono forzature, spianando la strada al Governo anche con strumenti attinti alla parte più autoritaria (e oggi contestata) della costituzione gollista, come il voto "bloccato" che cancella gli emendamenti agli articoli delle leggi in discussione. In cambio, all’opposizione verrebbe concesso un ingannevole "statuto", che dovrebbe rafforzarne il ruolo. Ma si tratta di concessioni che la maggioranza può sempre vanificare appunto con la forza dei numeri. Ricordo, come ammonimento, quel che accadde diversi anni fa, quando una riduzione dei poteri dell’opposizione venne "compensata" con la concessione del parere di costituzionalità in sede di commissione parlamentare. Bene, maggioranze più o meno blindate hanno sempre dato via libera, a occhi chiusi, anche a provvedimenti di cui la incostituzionalità era evidente, e sarebbe stata poi dichiarata dalla Corte.

Mi auguro che l’opposizione se ne renda conto, e non si lasci intrappolare da questo diversivo, che avrebbe come unico effetto quello di rendere rispettabile ciò che oggi ha il carattere di una forzatura. Un diversivo doppiamente pericoloso, perché distoglie l’attenzione da quelli che oggi sono i veri punti critici di una riforma del Parlamento, non riducibile al solo superamento dell’attuale bicameralismo (che tuttavia, in tempi di prepotenze e di ignoranze, ha almeno reso più difficile qualche forzatura, come sta accadendo ad esempio per la legge sulle intercettazioni telefoniche). Da tempo scrivo che, con l’avvento della democrazia "continua", segnata da una presenza sempre più variegata e costante dei cittadini, dev’essere ripensato il rapporto tra il Parlamento e la società, dando così nuovi fondamenti sia al principio maggioritario che al rapporto tra maggioranza e opposizione. Molte sono le vie percorribili.

Rivitalizzare l’iniziativa legislativa popolare, prevedendo presenze dei promotori nell’esame parlamentare in commissioni e vincoli temporali per la discussione delle proposte. Cogliere l’indicazione del Trattato di Lisbona, che accompagna la democrazia rappresentativa appunto con il diritto di proposta da parte di un milione di cittadini europei. Sviluppare questa indicazione nel senso reso visibile dalla strategia di Barack Obama, che non ha ridotto il ricorso alle tecnologie della comunicazione alla logica del marketing politico, ma sta integrando la sfera della democrazia rappresentativa con quella delle reti sociali. Solo così è possibile una riforma che non sia un gioco sterile all’interno delle attuali istituzioni parlamentari.

Ma, per imboccare questa strada, è indispensabile uscire da una forma di schizofrenia che percorre la discussione politica. La forza delle cose ci mette di fronte alla concentrazione personale del potere, all’affossamento della separazione dei poteri, alla distruzione dei controlli, all’infeudamento del sistema della comunicazione, alla disunione del paese, in sintesi a quello che è stato chiamato lo sfascio dell’Italia. E, tuttavia, mai ci si pone una domanda, che pure dovrebbe essere ineludibile: come è potuto accadere, quali sono state le condizioni istituzionali che hanno contribuito a rendere possibile tutto questo? La domanda viene elusa perché esigerebbe una riflessione sul modo in cui è stato realizzato il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario. Una politica debole, incapace di immaginare il proprio futuro, si è consegnata ad una modellistica costituzionale che, a destra come a sinistra, esaltava il solo momento della decisione e per ciò scioglieva la maggioranza da ogni vincolo che non fosse il giudizio pronunciato dagli elettori alla fine della legislatura, aprendo la strada alla democrazia d’investitura e al potere personale.

Senza ammortizzatori costituzionali e senza le forme di mediazione fino a quel momento assicurate dai partiti di massa, la politica è fatalmente degenerata in conflitto personale, in scontri oligarchici, in una ricerca del consenso senza esclusione di colpi .

Non per nostalgie del passato, ma per fronteggiare il presente e costruire il futuro, abbiamo bisogno di questa consapevolezza. È venuto il momento di abbandonare l’ingegneria costituzionale e di tornare ad una politica costituzionale capace di riportare la maggioranza alla sua giusta funzione, in un quadro di principi che essa stessa non può violare.

Ieri mi è arrivata una e-mail di protesta di un telespettatore: mi accusava di aver descritto una Novellara stile «Mulino Bianco».

Poi nel pomeriggio sono stato ospite a Fahrenheit, la bellissima trasmissione di RadioTre ed è riuscita fuori, per tutt'altra strada, la stessa argomentazione : «Talmente siamo poco abituati a vedere gli aspetti positivi, le cose buone della presenza degli stranieri in Italia, che quelle scene sembravano finte. Che ne pensa Iacona ?», mi ha chiesto il conduttore.

E ho risposto, sì che questo è precisamente il risultato dell'aver schiacciato il dibattito politico sull'immigrazione solo sul terreno militare, dell'aver trasformato la presenza degli stranieri quasi esclusivamente in una questione che riguarda la «sicurezza»: se di stranieri si parla solo e sempre così i venti minuti di racconto della «normale integrazione» che abbiamo fatto a Novellara ti colpiscono come se fossero scene girate in un altro Paese.

Eppure di «Novellara» ce ne sono centinaia in tutta Italia: basta entrare in qualsiasi scuola elementare di una grande città che vede la presenza di stranieri per rendersene conto; bambini stranieri e bambini italiani crescono insieme, arricchendosi l'uno con l'altro; le differenze sembrano improvvisamente annullarsi di fronte ad un processo di integrazione che è veloce e forte come la vita, e nel quale sono proprio i genitori stranieri ad investire di più. L'ho toccato con mano quando sono andato l'anno scorso a Bologna a raccontare le conseguenze della riforma Gelmini sulla scuola del tempo pieno: le mamme e i papà dei bambini stranieri non mancavano ad una riunione, ad un colloquio, ad una inziativa della scuola, un attaccamento anche commovente se pensiamo che spesso sono gli stessi figli ad insegnargli l'italiano che stanno imparando sui banchi delle elementari.

Gli stranieri hanno capito subito che la scuola è la porta principale per la quale passa l'integrazione e la promozione sociale dei loro figli e i loro figli fanno di tutto per essere all'altezza della scuola e delle aspettative dei genitori. Ma è la stragrande maggioranza degli stranieri che vivono in Italia ad avere questa forte voglia di integrazione! Del resto come potrebbe essere altrimenti se i loro figli nascono e crescono nel nostro Paese?

Tutti gli stranieri, poi, aspirano a vivere in Italia con una piena cittadinanza che consenta loro, per esempio, di votare e di partecipare alla vita politica del Paese. Poi ci sono i delinquenti, anche quelli, che riempiono le carceri italiane. Quanto pesa l'una e l'altra considerazione? Sul piatto della bilancia del nostro futuro la quota di piccola e grande criminalità legata alla loro presenza può cancellare la forza straordinaria dell'integrazione, con tutta l'energia che si porta dietro, fatta di persone che lavorano, producono, assimilano il nostro modo di vivere e ci consegnano come un regalo i loro figli, i cittadini del futuro? Io penso di no. Perché la delinquenza si può combattere se solo si vuole, la voglia di integrazione invece, una volta persa, è molto più difficile ricostruirla.

A Novellara non c'è stato tempo per riflettere: in meno di dieci anni si è passati da duecento stranieri a quasi duemila. Immaginate che rivoluzione in un paese di neanche dodicimila abitanti! Allora si son detti: lavoriamo in modo che tutti abbiano lo stesso accesso ai servizi, che siano trattati cittadini come tutti gli altri e in cambio chiediamo rispetto delle regole e legalità.

Ha funzionato. Lo leggi negli occhi sorridenti delle ragazze e dei ragazzi che in pochi anni si sentono più italiani che pakistani o indiani. La politica della «faccia feroce» del «finalmente cattivi», oltre ad essere poco efficace nel contenere veramente l'immigrazione clandestina, rischia di creare conflitti al nostro interno e di spegnere quei sorrisi. Siamo sicuri che ci conviene?


Altri grandi paesi europei non celebrano la loro unità. Per alcuni è troppo remota per avere un significato attuale. Altri come la Francia preferiscono celebrare il loro più grande conflitto storico: la rivoluzione. Tutti considerano l´unità come un fatto acquisito che non ha bisogno di essere celebrato. Per noi non è così. Perciò finiremo per celebrarla controvoglia.

Il fatto è che l´unità italiana è scarsamente sentita dagli italiani. Lo testimonia la svogliatezza con la quale l´attuale governo, pur pressato dal Presidente della Repubblica, ha abbandonato le celebrazioni ormai prossime del centocinquantesimo anniversario alla fantasia burocratica e dissipatrice di Regioni e Comuni. Né maggiore interesse è dimostrato dall´opposizione.

Solo una minoranza politica, diciamo la verità, coltiva il mito del Risorgimento. Per la maggioranza Mazzini e Garibaldi fanno parte del folklore domestico, non certo di una salda coscienza patriottica. C´è anche chi, come un giovane e intelligente studente, addirittura se ne vergogna pubblicamente. E in effetti ragioni, se non di vergogna, di grande perplessità non mancano sul modo in cui quell´unità fu raggiunta: tra l´altro, in forme impreviste e persino indesiderate dai suoi protagonisti.

Tra questi il suo massimo artefice, Cavour, l´aveva fin quasi al suo compimento definita una "sciocchezza" restando all´ipotesi del "Belgio grasso" al Nord e di un Regno del Mezzogiorno al Sud, con una mediazione pontificia al centro: il tutto nell´ambito, al massimo, di una lasca confederazione.

È vero dunque che l´unificazione politica del Paese fu il risultato di una conquista sabauda, non di una patriottica intesa. Se poi si vuole infierire, fu anche il risultato di umilianti sconfitte militari. Ma due cose non sono vere.

La prima è che manchi all´unità del Paese la sua base storica. L´Italia si riconosce non solo nella pizza, nel gioco del pallone e nell´autocompiacenza amatoria, ma in una grande lingua e in una grandissima civiltà. La seconda è che il Risorgimento non fu soltanto conquista effimera e frutto di fortunose sconfitte. Fu anche movimento di popolo. Ci fu certamente il Risorgimento freddo, ma ci fu anche un Risorgimento caldo, fiammeggiante nelle giornate di Milano e di Brescia, nella repubblica romana, nella resistenza di Venezia, nell´avventura garibaldina.

Non soltanto. Contrapposto alla storia che inopinatamente si realizzò, il Risorgimento fu anche un grande disegno alternativo fallito ma ancora oggi carico di significato. Fu il progetto di una Federazione nella quale le realtà storiche del Paese, così ricche di irriducibile "personalità", costruissero, sulla base di una loro gelosa autonomia, una cangiante e meravigliosa unità.

Questo era il grande disegno di Cattaneo, di Salvemini, di Dorso. Un federalismo unitario, come tutti gli autentici federalismi vittoriosi, da quello americano a quello svizzero a quello tedesco. Unitario e patriottico. Niente da spartire con un leghismo protezionistico, tendenzialmente separatista e desolantemente, caro ragazzo, bigotto.

Questo grande disegno alternativo risultò sconfitto con grave danno dell´intero Paese al quale veniva a mancare la dorsale di sostegno: l´integrazione tra il Nord e il Sud d´Italia.

Ciò che ancora i "belgi" del Nord non hanno capito è la diversità sostanziale tra la questione meridionale e quella settentrionale. Quest´ultima è la sacrosanta espressione di interessi locali e di culture specifiche da tutelare. La prima invece è la colonna vertebrale dell´intero Paese.

Ecco perché i grandi meridionalisti hanno sempre mantenuto le distanze da un sudismo becero: hanno parlato non a nome di Palermo e di Napoli, ma dell´Italia e dell´Europa.

La prima vittima della soluzione unitaria-autoritaria è stato proprio il meridionalismo. All´ombra di quella la questione meridionale si è sbriciolata in una poltiglia di pretese locali; la classe politica si è decomposta in una serie di consorterie clientelari; il disegno dell´intervento straordinario, concepito inizialmente come grande progetto unitario di scala nazionale si è sminuzzato in una serie di interventi particolari esposti alle sollecitazioni e pressioni "private".

La tremenda minaccia che si addensa oggi sul Mezzogiorno non è più, come Gramsci denunciava, l´asservimento del Sud agli interessi dominanti del Nord. La depressione politica del Mezzogiorno non si identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa e nello scambio elettorale tra la garanzia politica che essa assicura al governo centrale e le risorse finanziarie che ne riceve e che gestisce come un gigantesco "pizzo" attraverso i governi locali.

La "tremenda minaccia" è che il governo di quelle risorse sfugga anche a quella intermediazione e cada direttamente nelle mani delle grandi reti della criminalità internazionale.

Non accade già in certe regioni del Sud?

Queste domande ripropongono a centocinquant´anni di distanza il problema dell´unità d´Italia. Non è mai troppo tardi.

Una guerra mentale è in corso in Italia, condotta dall’esecutivo per tacitare, intimidendola, il controllo esercitato dalla stampa e per neutralizzare ogni sorta di contropotere. Nei confronti della stampa assistiamo a vere rese dei conti, e per capire quanto sta accadendo è più che mai urgente distinguere tra due attività: la diffusione di dicerie, e l’accertamento dei fatti. La guerra non ha come soli protagonisti l’élite politica e giornalistica: ogni cittadino - se vuol restar cittadino - è chiamato a distinguere l’opinione dal fatto, la calunnia dal disvelamento di reati. L’offensiva di Berlusconi contro la stampa libera è predisposta per accentrare ancor più il potere esecutivo ma è al contempo guerra mentale, per conquistare il cervello degli italiani e creare in essi uno stato confusionale diffuso.

All’origine del dispositivo bellico c’è una sensazione di debolezza acuta: l’esecutivo ha l’impressione di non poter fare politica senza un’opinione pubblica che non solo approvi i suoi programmi ma esalti il capo considerandolo legibus solutus, non soggetto alla legge.

Manuel Castells, studioso dell’informazione, si sofferma sui metodi delle guerre mentali nei media. Il termine fu coniato a proposito del conflitto in Vietnam da Paul Vallely, analista di Fox News: «Se perdemmo la guerra - così Vallely - non è perché fummo sconfitti sul campo ma per la guerra psicologica dei media», e perché il potere non seppe contrapporre una sua «guerra mentale» (Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi 2009). È simile la guerra mentale di Berlusconi, e simili sono gli strumenti, da lui maneggiati con perizia e risorse sovrabbondanti prima ancora di entrare in politica: sin dall’inizio la sua battaglia fu di trasformare i mezzi televisivi d’informazione in mezzi di distrazione, infotainment, gossip. «Per questo è così importante - prosegue Castells - che i magnati dei media non diventino leader politici, come nel caso di Berlusconi». Per questo è legittima la domanda del direttore di Famiglia Cristiana, don Sciortino: «Quello che accade non riguarda solo il giornalismo. Quando in un Paese è in discussione la funzione del giornalismo, la sua libertà di esprimersi, di criticare o di commentare le azioni di un potere che non è solo potere di governo, ma pervasivo controllo del sistema mediatico, possiamo parlare di vera democrazia?».

La guerra mentale ha fini e mezzi specifici. Il fine è il pensiero dell’uomo della strada («questa creatura mitologica che ha rimpiazzato la cittadinanza nel mondo mediatico», scrive Castells). Il mezzo è la confusione dei concetti, il caos nell’uso delle parole. Si parla molto, in questi giorni, di killeraggio o imbarbarimento generale: concetti perversi oltre che diseducativi, perché escogitati per rendere appunto confondibili, in un magma indistinto, i due comportamenti radicalmente diversi che sono la diceria e l’accertamento dei fatti. Tutti sarebbero killer: il giornalista che interroga criticamente il Premier (rapporti di suoi collaboratori con la mafia, corruzione di testimoni e magistrati, coinvolgimento in giri di prostituzione) e quello che costringe alle dimissioni il direttore dell’Avvenire Dino Boffo, usando veline anonime. Proviamo dunque a distinguere quel che viene confuso.

Una cosa è la diceria. Nella Russia di Putin si chiama kompromat, materiale che compromette e può anche spedirti in Siberia. È la calunnia che insinua fabbricando prove, e mira a distruggere il carattere dell’avversario politico (character assassination, in inglese). In genere la diceria ha come obiettivo la vita privata del politico, non il suo programma o la cura che egli ha della repubblica e dei suoi vincoli.

Altra cosa è l’indagine sui comportamenti dei politici (comprese le massime cariche dello Stato) e sulla verità dei fatti. L’oggetto della ricerca sono condotte che hanno rilevanza pubblica. Da questi comportamenti può derivare un carattere personale più o meno ostico, ma il bersaglio non è il carattere.

Ambedue i procedimenti, è vero, si propongono di indebolire chi è preso di mira, di delegittimare il leader. Sono ambedue guerre mentali, volendo persuadere chi l’uomo della strada, chi il cittadino, ma il funzionamento della democrazia è influenzato in modi ben diversi dai due operati.

La democrazia accetta il conflitto, esige e stimola la ricerca del vero, anche se il vero è scomodo per il potente. E l’accetta continuativamente, non solo il giorno del voto, perché democrazia non è Unzione dell’Eletto ma un arcipelago di poteri che si frenano l’un l’altro affinché nessuno commetta abusi. Questo gioco di equilibri è garantito dalle costituzioni e da poteri autonomi, tra cui campeggiano la stampa e la televisione. È in tale ambito che la differenza fra accertamento dei fatti e calunnia diventa cruciale. La verità sul comportamento del politico è il fine di chi esercita un contropotere, e l’effetto che si vuol ottenere è la correttezza e l’autolimitazione del potere. Non vuol distruggere, ma correggere. Può darsi che la verità si riveli falsa. È per questo che il cercatore del vero raduna prove, fatti, sentenze di tribunale.

La diceria vuole non salvaguardare ma abolire l’equilibrio dei poteri: personalizzando-privatizzando la politica, accentrando tutti i poteri. La sua guerra mentale è distruttiva: nella testa degli elettori, dei telespettatori, dei lettori, va lacerato tutto quel che li lega alle norme costituzionali, alla politica, allo Stato, alle istituzioni, ai giornali, alla chiesa stessa. È uno strumento antico, è l’anti-Stato teorizzato nelle stagioni terroriste. Fruga, non cerca. La diceria ha un rapporto singolare con la verità, non più fine ma mezzo di scambio utile a sganciare il principe dalle leggi: se tu dici una verità amara su di me, io ne dirò una peggiore su di te. Da tempi immemorabili la calunnia viene usata in tempi di torbidi, non quando lo Stato è forte ma quando vacilla (Rivoluzione francese, uscita dal Terrore nel Termidoro).

Se tutto è diffamazione privata, anche la ricerca della verità pubblica scade al rango di diceria, di assassinio di carattere. Perfino chi condanna l’attacco al direttore dell’Avvenire, perfino chi chiede più prudenza alla Chiesa (un direttore gay è ricattabile se dirige il quotidiano della Cei, scrive Vittorio Messori sul Corriere della Sera), dimentica che la parola chiave nella questione Boffo non è l’omosessualità, ma le minacce a un privato cittadino: un decreto penale di condanna, nel 2004, lo giudicò colpevole di molestie telefoniche, nei confronti di una giovane donna, durate 6 mesi. L’omosessualità non c’entra niente: quel che conta è un comportamento (l’intimidazione) di rilevanza pubblica. Patteggiamenti o risarcimenti aboliscono la pena, non il fatto.

La cosa più grave per i giornalisti sarebbe reagire all’offensiva contro alcuni giornali e reti televisive dividendosi. Accusandosi l’un l’altro di temerarietà o codardia, a seconda. Sostiene Berlusconi che alle dieci domande risponderebbe, se fossero altri giornali a porle. Dicendo questo, egli ammette che domandare è lecito e che rispondere è doveroso. Motivo di più perché tutti continuino a porre domande al premier.

Ricordiamo quel che accadrebbe in Francia e Germania, in simili circostanze. In entrambi i paesi è ben raro che i giornalisti si aggrediscano l’un l’altro (tranne in presenza di reati). Ma se una o più testate sono attaccate per la determinazione con cui indagano sui potenti, tutta la professione fa quadrato. È come se valesse, non scritta, una legge simile all'articolo 5 del Patto Atlantico: «Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse... sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti». Fare lo stesso in Italia aiuterebbe a preservare l’arcipelago di poteri di cui è fatta la democrazia.

Liquami in mare. Un deplorevole incidente: è la formula elegante usata nella curiosa propensione a minimizzare il “fenomeno” ( proprio così: “fenomeno” hanno detto, sostantivo buono a indicare ogni evento che la natura ci riserva). Ma per precisione: non è un acquazzone che ha fatto nera l'acqua cristallina, ma l' insipienza degli uomini che credono ad altri uomini: quelli che la tecnologia “tutto può”, anche fare scomparire nelle condizioni più estreme la sporcizia dei vacanzieri. Basta un un filtro in più. E ci si crede come alla crema che toglie il sovrappeso in tempo per mettersi in mostra nella spiaggia alla moda.

Ci piacerebbe quella sola faccia luccicante della medaglia. Quella che consente di dire, a metà di luglio, con toni trionfali, di navi e aerei a pieno carico, di ingorghi di auto e di barche, di surplus di veline e vip in costa che non bastano sei pagine di giornale per raccontarlo ogni giorno. E invece c'è anche l'altra faccia, i risvolti maleodoranti di un uso del territorio eccedente la soglia di sopportazione. La calca attorno alla mercanzia per una settimana richiede un apparato smisurato di attrezzature che non reggono. Così ti svegli una mattina e vedi il fiume nero. Finita la festa. Il paesaggio mozzafiato non è più una metafora.

Si potrebbe ironizzare sulle vanterie del turismo a cinque stelle. E invece la prudenza induce a pensare al danno che patiscono gli operatori turistici seri da queste cose.

Pensando anche a quelli che si chiamano consumatori (e produttori di sporcizia) che hanno 72 ore di ferie (perché la crisi si ha mangiato pure le vacanze) e si trovano senza mare per un pezzo delle brevi ferie nel mare trasparente (?) di Sardegna. Danno grave “d'immagine”( si dice così, come Briatore per chiedere i danni da plebeo pic-nic nel suo Rubacuori).

Ma chi tiene al futuro della Sardegna dovrebbe avere meno fretta a rubricare i liquami tra i contrattempi estivi (gli screanzati, i vandali fracassoni, i conti abnormi, ecc.)

E contenere il blabla su efficienza della tecnologia, ricerca dei responsabili tra i gestori degli impianti, task force per studiare il caso e così via. Perchè il tema è un altro. Non piace sentirlo ma è il modello di sviluppo senza limitazioni che è una follia. La disseminazione di attrezzature per l'accoglienza dovunque e comunque. Tutto esaurito? Mai! Serve volume per altra ricettività un mese all'anno? Pronto. Da qui il danno, altro che immagine.

E per stare alle opere di urbanizzazione, occorre dirlo che è roba da matti immaginare dotazioni misurate per il picco di gente a Ferragosto. Il tempo breve nel quale si mette in moto un sistema frammentato in mille nuclei. Nulla di più squilibrato, squilibrante, energivoro, dissipatore, oneroso, ecc.

Della discussione per ridare efficienza al sistema inefficiente ( per colpa di chi?) interessa ora l'aspetto economico. A proposito di obsolescenza di impianti, sarebbe bene sapere chi pagherà gli adeguamenti. Capire le convenienze: cosa ci torna da un investimento pubblico.

Esiste la regola che impone alle imprese che trasformano i suoli per farli diventare case da vendere o da affittare, di pagare le opere di urbanizzazione. Tanto più nel caso di villaggi distanti da insediamenti si pone la necessità di provvedere -non solo con denaro pubblico - alla realizzazione di quanto occorre per tenerle in efficienza. E non è serio immaginare di accollare a una comunità povera i costi di un modello che esibisce lo spreco. Le cinque stelle, le bandiere blu, non dipendono dal pregio dei pavimenti di una suite.

In architettura sembra che, nei nostri anni, la saggezza (quando non sia solo mediocrità) sia diventata una qualità molto sottovalutata. È invece proprio sotto questo segno che è cresciuta in poco meno di una quarantina d’anni Milton Keynes, una «new town» inglese di seconda generazione che ha raggiunto oggi i 220 mila abitanti, con un invidiabile equilibrio anche economico tra le attività e la vita quotidiana, tanto da dare almeno l’impressione di una città relativamente agiata o quanto meno senza la presenza di un evidente sottoproletariato pur con un elevato numero di immi­grati extraeuropei.

Dopo il celebre piano di Abercrombie per la grande Londra degli anni Quaranta — che già prevedeva una cintura verde di limitazione dell’espansione e una serie di insediamenti nella forma di una costellazione di «new town» al di là della cintura, ben connesse con l’area centrale di Londra, che permettessero di riequilibrare con la loro realizzazione dopo il conflitto mondiale l’espansione senza limiti della capitale —, negli anni Sessanta fu presa la decisione di rendere tali «new town» più robuste e autonome collocandole a una maggiore distanza da Londra, anche distribuite strategicamente nel territorio dell’intero Paese.

A partire da questa nuova strategia, nel 1967 fu deciso di collocare una «new town» a una settantina di chilometri a nord-est di Londra, nel Buckinghamshire, in una località tangente all’autostrada M1, il principale asse stradale nord-sud della Gran Bretagna, accanto al piccolo villaggio di Milton Keynes e strategicamente localizzata a un’ora di distanza da Birmingham, Oxford, Cambridge (ma con un’autonomia di servizi universitari) e ad altrettanta distanza dagli aeroporti di Luton e di Heathrow.

Il paesaggio, lievemente ondulato, era sgombro di insediamenti e facilmente espropriabile, soprattutto ai tempi del London County Council, l’importante struttura che guidava la cultura della pianificazione pubblica con cui aveva cominciato a lavorare nel dopoguerra la generazione dei migliori architetti britannici, poi eliminata dal primo ministro Thatcher.

Visitando dopo quarant’anni Milton Keynes, si può constatare come siano stati ragionevolmente rispettati una serie di principi: opportunità e libertà di scelta, equilibri e varietà, efficiente e immaginativo utilizzo delle risorse naturali. L’insediamento è cioè in relazione con un paesaggio naturalistico opportunamente modificato; è favorita la mescolanza funzionale tra le parti: uffici, abitazioni, servizi distribuiti ad attività industriali compatibili; sono presenti più di mille chilometri di ciclopiste. Il centro, sempre affollatissimo, è costituito da una grande piastra a un solo piano densamente frequentata a ogni ora del giorno dove sono presenti i diversi esercizi commerciali a varie scale ma anche una grande biblioteca e sale di spettacolo. La densità edilizia per ettaro è assai bassa e permette una netta prevalenza del verde e delle acque; la varietà degli schemi insediativi è così alta da rendere secondarie e poco riconoscibili le parti e il privato è tanto importante da prevalere sul principio della prossimità urbana.

Niente di più lontano dalla città consolidata europea tanto che i bordi della città stessa sono difficilmente riconoscibili. I temi della flessibilità, della libertà personale delle scelte, forse influenzati dalla sociologia americana di Melwin Webber che raccomandava in quegli anni Los Angeles come modello di città, ma anche dal neoempirismo nordico così come da una tradizionale inclinazione verso il pittoresco sono anche alla base dell’insediamento di Milton Keynes e della sua stessa modesta ma civile architettura. Anzi, le qualità delle architetture e i loro diversi stili sembrano contare assai poco. Ciò che conta sembra essere la mescolanza e la varietà.

L’ascendenza delle «garden cities» degli anni Venti e delle esperienze delle prime «new town» è a Milton Keynes combinata con una dilatazione delle dimensioni tanto ampie da proporsi come il regno dell’auto privata anche se perfettamente regolata, tanto da far pensare a una influenza di alcuni modelli di periferie organizzate della città americana.

Ai nostri occhi abituati alla città europea della tradizione e alla sua attuale degenerazione Milton Keynes appare così doppiamente strana; nello stesso tempo una città fantasma ma anche il fantasma buono della città dove i contrasti sembrano minimizzarsi, forse appiattirsi rispetto alle aspettative, positive o negative, del nostro modo di pensare la vita urbana. Una città comunque, almeno all’apparenza, altamente civile dove drammi e contrasti sembrano interiorizzati per minimizzare il disturbo, all’insegna di un’efficienza complessiva non esibita. Forse non si tratta di un modello facilmente esportabile, né certamente perfetto o attuale, che la «supermodernità » dei nostri anni può considerare poco avventuroso, ma con la cui saggezza dei concreti risultati le nostre istituzioni farebbero bene a confrontarsi.

L'immagine è una foto aerea della città, cortesemente fornita dal Milton Keynes Council

Lo scenario politico degli ultimi anni sta arrivando a consunzione. Non sarà facile metterne alla luce uno più decente tanta è la bassezza, istituzionale e culturale, in cui siamo per responsabilità di molti, forse di tutti, nell'inseguire una transizione verso una seconda repubblica che, in assenza di un progetto di qualche spessore, si è risolta soltanto nel tentativo di minare lettera e spirito della Costituzione del 1948 - largo a un mercato da Far West, concessioni illimitate a una proprietà senza coraggio, abbattimento, e possibilmente fine, di ogni diritto sociale. Risultato, un decisionismo cialtrone sommato alla tradizione nazionale di evadere il più possibile la legge e il fisco.

In questo quadro, l'ascesa folgorante di una figura come quella di Silvio Berlusconi ha la sua logica. Non è solo per le sue imprese sessuali - ciliegina sulla torta della legge sulla sicurezza più indecente d'Europa - che si ride di noi, perduto quel rispetto che nel dopoguerra eravamo con fatica riusciti a conquistarci. Tale è l'imbarazzo che circonda l'Italia che siamo usciti perfino dalle abituali statistiche, non siamo neanche un'anomalia, siamo da non prendere sul serio.

Gli scricchiolii si avvertono a destra e a sinistra. Sulla sinistra è perfino superfluo tornare, è detta estrema solo perché ha una certa attenzione alle sofferenze del lavoro e una certa sensibilità allo scombussolamento delle coscienze, ma non è in grado di uscire dalla ripetitività di formule da una parte, Ferrero e Diliberto, e dall'altra dal troppo silenzio di un Vendola diventato oggetto di tiro regionale al bersaglio.

Né è possibile attendersi dal Partito democratico almeno un aggiornamento del keynesismo a livello 2009 - la crisi è tornata tutta nelle mani di chi l'ha provocata e a pagarne le spese sono i ceti più deboli e i lavoratori di ogni tipo, per il calo continuo dell'occupazione. Questo non è solo un problema nostro, anche Obama è in pericolo, incastrato com'è fra il corporativismo della società americana e l'eredità sempre più avvelenata del Medio Oriente.

Insomma "sinistra", parola che credevamo impraticabile per mollezza, è diventata addirittura simbolo di estremismo, neanche il Pd la pronuncia senza scusarsi, cosa che non succede neppure alla Spd, per non dire della Linke. Di Bersani non ricorderemo certo i voli di pensiero, noioso com'è a forza di buon senso emiliano, e di Franceschini ci rimarrà in mente lo sforzo d'un democristiano perbene per tenere assieme ai ds un settore cattolico lusingato da sirene da tutte le parti.

Questa inaffondabilità dei cattolici è il solo processo che emerga con qualche chiarezza assieme alla crisi del ciclo berlusconiano. Come succede con i personaggi del suo tipo, sarà una fine agitata, a colpi di coda, ma il suo blocco si è rotto.

La scelta del cavaliere per la Lega - unica vera tendenza di fascismo localista e in abiti nuovi - ha posto Fini in posizione di challenger, in nome di una destra meno turpe che non gli sarà facilissimo rappresentare; certo ce la mette tutta. Se l'ex Forza Italia non sa bene dove guardare, An è divisa fra lui e un Gasparri che lo sfida. Lega e Pdl sono entrati in conflitto con la Chiesa (s'erano tanto amati!) per le intemperanze del cavaliere e di Feltri: così pieni di sé che la prudenza è andata a farsi benedire.

Così sotto traccia riappare la voglia di un partito cattolico, sia in chi sta scomodo nel Pd sia in chi sta scomodo nel Pdl, via Casini. L'Italia continua a replicare la partizione tricolore, con un rosso sempre più sbiadito, un bianco sempre più sporco e un verde da giocare non con la Lega, ma con il Vaticano.

Verrebbe da dire "tanto rumore per nulla", se il suicidio del Pci e del Psi non avesse spostato a destra l'asse del centro. È curioso che il paese dove più lunghe sono state le code del sessantotto sia destinato a diventare di nessuna, o scarsa, importanza per l'Europa.

Il delitto è compiuto

di Giuseppe D’Avanzo

Dino Boffo, direttore dell’Avvenire, si è dimesso e non tiene conto discutere del sicario. È stato pagato per fare il suo sporco lavoro, se l’è sbrigata in fretta. Ora se ne vanta e si stropiccia le mani, lo sciagurato. Appare oggi più rilevante ricordare come è stato compiuto il delitto; chi lo ha commissionato e perché; quali sono le conseguenze per noi tutti: per noi che viviamo in questa democrazia; per voi che leggete i giornali; per noi che li facciamo. Dino Boffo è stato ucciso sulla pubblica piazza con una menzogna che non ha nulla a che fare - né di diritto né di rovescio - con il giornalismo, ma con una tecnica sovietica di disinformazione che altera il giornalismo in calunnia. Il mondo anglosassone ha un’espressione per definire quel che è accaduto al direttore dell’Avvenire, character assassination, assassinio mediatico.

Il potere che ci governa ha messo in mano a chi dirige il Giornale del capo del governo - una sorta di autoalimentazione dell’alambicco venefico a uso politico - un foglio anonimo, redatto nel retrobottega di qualche burocrazia della sicurezza da un infedele servitore dello Stato. C’era scritto di Boffo come di «un noto omosessuale attenzionato dalla Polizia di Stato». L’assassino presenta quella diceria poliziesca come un fatto, addirittura come un documento giudiziario. È un imbroglio, è un inganno. Non c’è alcuna «nota informativa». È soltanto una ciancia utile al rito di degradazione. L’assassino la usa come un bastone chiodato e, nel silenzio degli osservatori, spacca la testa all’errante. L’errore di Boffo? Ha criticato, con i toni prudentissimi che gli sono propri e propri della Chiesa, lo stile di vita di Silvio Berlusconi. Ha lasciato che comparissero sulle pagine del quotidiano della Conferenza episcopale l’amarezza delle parrocchie e dei parroci, il disagio dei credenti e del mondo cattolico più popolare dinanzi all’esempio di vita di Quello-Che-Comanda-Tutto.

Ora che c’è un morto, viene il freddo alle ossa pensare che anche una prudente critica, una sorvegliata disapprovazione può valere, nell’infelice Paese di Berlusconi, il prezzo più alto: la distruzione morale e professionale. Ma soltanto le prefiche e gli ipocriti se ne possono meravigliare. Da mesi, il presidente del Consiglio ha rinunciato ad affermare la legittimità del suo governo per mostrare, senza alcuna finzione ideologica, come la natura più nascosta del suo potere sia la violenza pura. Con l’assassinio di Dino Boffo, prima vittima della "campagna d’autunno" pianificata con lucidità da Berlusconi (ha lavorato a questo programma in agosto dimenticando la promessa di andare all’Aquila a controllare i cantieri della ricostruzione), questa tecnica di dominio politico si libera di ogni impaccio, di ogni decenza o scrupolo democratico. Berlusconi decide di muovere contro i suoi avversari, autentici e presunti, tutte intere le articolazioni del multiforme potere che si è assicurato con un maestoso conflitto d’interesse. Stila una lista di nemici. Vuole demolirli. Licenzia quelli tra i suoi che gli appaiono pirla, fessi, cacaminuzzoli. Vuole sicari pronti a sporcarsi le mani. È il padrone di quell’industria di notizie di carta e di immagini. Muove come vuole. È anche il presidente del Consiglio e governa le burocrazie della sicurezza (già abbiamo visto in un’altra stagione i suoi servizi segreti pianificare la demolizione dei "nemici in toga"). Il potere che ci governa chiede e raccoglie nelle sue mani le informazioni - vere, false, mezze vere, mezze false, sudicie, fresche o ammuffite - che possano tornare utili per il programma di vendetta e punizione che ha preparato. Quelle informazioni, opportunamente manipolate, sono rilanciate dai giornali del premier nel silenzio dei telegiornali del servizio pubblico che controlla, nell’acquiescenza di gruppi editoriali docili o intimiditi. È questo il palcoscenico che ha visto il sacrificio di Dino Boffo ordinato da Quello-Che-Comanda-Tutto.

È la scena dove ora salmodiano il coro soi-disant neutrale, le anime fioche e prudenti in cerca di un alibi per la loro arrendevolezza, gli ipocriti in malafede che, riscoprendo fuori tempo e oltre ogni logica la teoria degli "opposti estremismi" mediatici, accomunano senza pudore le domande di Repubblica alle calunnie del Giornale; un’inchiesta giornalistica a un rito di degradazione sovietico; la vita privata di un libero cittadino alla vita di un capo di governo che liberamente ha deciso di rendere pubblica la sua; la ricerca della verità all’uso deliberato della menzogna. È questa la scena che dentro le istituzioni e nel Paese dovrebbe preoccupare chiunque. Per punirlo delle sue opinioni, un uomo è stato disseccato, nella sua stessa identità, da una mano micidiale che ha raccolto contro di lui il potere della politica, dello Stato, dell’informazione, dei giornali di proprietà del premier usati come arma politica impropria. Nei cromosomi della democrazia c’è la libertà di stampa e, come si legge nell’articolo 21 della Costituzione, «il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero». È questa libertà che è stata umiliata e schiacciata con l’assassinio di Dino Boffo. Lo si vede a occhio nudo, anche da lontano. «Un giornalista è l’ultima vittima di Berlusconi», scrive il New York Times. Chi, in Italia, non lo vuole vedere e preferisce chiudere gli occhi è un complice degli uccisori e di chi ha commissionato quel character assassination.

Don Sciortino: una pagina triste della storia italiana

"La democrazia scricchiola ma non ci fermeranno"

di Conchita Sannino

Massa LUBRENSE - «Gli attentati possono procurare ferite e sgomento, ma non possono cancellare la verità odiata, anzi qualche volta avviene che la esaltino. I sicari non hanno fermato la voce della Chiesa, della sua dottrina sociale, in tanti secoli. Non la fermeranno ora». Don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, già finito nel mirino dei media di casa Berlusconi per le posizioni espresse contro i provvedimenti sulla sicurezza e gli stili di vita del premier, commenta quasi in diretta le dimissioni del direttore di Avvenire. «È una pagina triste della storia italiana. La nostra democrazia sta scricchiolando». Da una terrazza sospesa sulla costiera sorrentina, a Massa Lubrense, don Sciortino presenta il suo libro («La Famiglia Cristiana») di fronte a centinaia di persone, la luce ispira quiete, i Faraglioni di Capri quasi troppo vicini. Ma il sacerdote indica le ombre. Non solo la crisi che falcidia le famiglie, l’emergenza povertà, gli immigrati «di cui vorremmo prenderci solo le braccia e buttare il resto», i precari. «Non sono tempi buoni. Il Paese si interroghi. Quello che accade non riguarda solo il giornalismo. Quando in un Paese è in discussione la funzione del giornalismo, la sua libertà di esprimersi, di criticare o di commentare le azioni di un potere che non è solo potere di governo, ma pervasivo controllo del sistema mediatico, possiamo parlare di vera democrazia?»

Don Sciortino interviene sulle azioni civili promosse contro i giornalisti. «Da noi, già fatto. Il ministro Maroni ha querelato "Famiglia Cristiana" per le critiche al pacchetto sicurezza». E ancora. «Siamo al pensiero unico, non c’è un’opinione pubblica, si vuole istituzionalizzare questa mancanza nel Paese. Perciò il giornalismo indipendente è minacciato». Sul caso Boffo, il direttore annota ancora: «Se un giornale di casa Berlusconi sferra un attacco di questa gravità contro il giornale dei vescovi, si può credere davvvero alla sua dissociazione? Se fosse vero, dovrebbero esserci conseguenze su chi ha compiuto il killeraggio».

Concita De Gregorio, Natalia Lombardo, Federica Fantozzi, Maria Novella Oppo, Silvia Ballestra. Sono tutte donne le colleghe e amiche dell'Unità citate per danni dal presidente del consiglio per "lesa dignità". E' un caso e non lo è. Perché fin dall'inizio dell'affaire che lo sta coprendo di ridicolo, in Italia e nel mondo, sono soprattutto donne, a partire da Veronica Lario, quelle che si sono prese la libertà di dire "vedo" di fronte al poker delle sue performance da "vero uomo". Vedo e non credo.

Basta questo per mandare in briciole il mito del grande seduttore a cui nessuna resiste. Vediamo, non crediamo, resistiamo. La libertà di stampa brucia. Se è libertà femminile brucia il doppio, perché per un vero uomo è doppiamente insopportabile. Lesiva non della sua dignità ma del suo narcisismo. E va doppiamente punita.

Come è stato per Veronica, data per "nervosa" («capita talvolta alle donne di essere un po' nervose», commentò suo marito: questione ormonale), inaffidabile e manipolabile, e triturata dalla stampa del principe come "velina ingrata" (quel gentiluomo di Feltri) nonché moglie infedele. Com'è stato per Patrizia D'Addario, manovrata e pagata da chissà chi. Com'è stato per altre che si sono impicciate di altri affari del premier, a cominciare da Nicoletta Gandus, giudice sul caso Mills (qualcuno ricorda la faccia di Ghedini in tv mentre commentava la sua sentenza?).

Il premier e la sua corte hanno un'idea precisa di dove deve stare una donna e di come la si possa "utilizzare". Se una, due, cinque, cinquanta, cinquantamila in quel posto non ci stanno sono guai. Per lui, perché questo è l'ennesimo segnale di dove sia finito il mitico fiuto di Silvio Berlusconi che pareva metterlo sempre dalla parte del senso comune. In quel posto non ci stiamo, il senso comune stavolta dice questo. Il fiuto del grande comunicatore è svaporato.

Fa davvero piacere vedere il premier riconciliato con le virtù di quella giustizia che per anni ha denigrato, appellarsi pieno di fiducia a quegli stessi magistrati per i quali un tempo invocava test attitudinali e prove di stabilità psicologica. Aveva ragione. Ci vuole effettivamente molto equilibrio per decidere di questioni tipo questa: Luciana Littizzetto avrà leso o no l'onore del premier con le sue battute "sull'utilizzo di speciali accorgimenti contro l'impotenza sessuale"? Avrà leso o no «la sua identità personale presentando l'onorevole Berlusconi come soggetto che di certo non è, ossia come una persona con problemi di erezione»? Non invidiamo i magistrati, e nemmeno i periti di parte. Neanche per sorridere indagheremmo mai su quel "di certo": non ci serve. Di certo, quando un "vero uomo" mette sul tavolo l'evidenza letterale della sua potenza, è perché traballa quella simbolica.

Silvio Berlusconi è di certo un "vero uomo", di quelli che affidano alla mascherata sessuale la certificazione della loro misura. Altrettanto di certo è un uomo politico finito: nella miseria, nella rabbia, nella dismisura.

Mai come oggi, i caratteri del "male italiano" sono il conformismo, l’obbedienza, l’inazione. Anche ora che un assassinio è stato commesso sotto i nostri occhi. Assassinio.Con quale altra formula si può definire – in un mondo governato dalla comunicazione – la deliberata e brutale demolizione morale e professionale di Dino Boffo, direttore dell’Avvenire, "reo" di prudentissimi rilievi allo stile di vita di Quello-Che-Comanda-Tutto? Un funzionario addetto al rito distruttivo – ha la "livrea" di Brighella, dirige il Giornale del Padrone – «carica il fucile». Così dice. Il proiettile è un foglietto calunnioso, anonimo, privo di alcun valore. Si legge che Boffo è un «noto omossessuale». La diceria medial-poliziesca ripetuta tre o quattro volte assume presto la qualità di un prova storica. Non lo è. Non lo è mai stata. Brighella è un imbroglione e lo sa, ma è lì per sbrigare un lavoro sporco. Gli piace farlo. Se lo cucina, goloso. Colto con le mani nel sacco delle menzogne, parla ora d’altro: qualcuno gli crede perché sciocco o pavido. Non è Brighella a intimorire. È Quello-Che-Comanda-Tutto. È lui il mandante di quel delitto. È lui il responsabile politico. Contro Silvio Berlusconi ci sono quattro indizi. Già in numero di tre, si dice, valgono una prova.

Il primo indizio ha un carattere professionale. Qualsiasi editore che si fosse trovato tra i piedi un direttore che, con un indiscutibile falso, solleva uno scandalo che mette in imbarazzo Santa Sede, Conferenza episcopale, comunità cattoliche gli avrebbe chiesto una convincente spiegazione per l’infortunio professionale. In caso contrario, a casa. A maggior ragione se quell’editore è anche (come può accadere soltanto in Italia) un capo di governo che tiene in gran conto i rapporti con il Papa, i vescovi, l’opinione pubblica cattolica. Non è accaduto nulla di tutto questo. Gianni Letta ha dovuto minacciare le dimissioni per convincere Berlusconi a mettere giù due righe di «dissociazione». Può dissociarsi soltanto chi è associato e tuttavia nei giorni successivi, mentre il lento assassinio di Boffo continua, non si ode una parola di disagio dell’editore-premier a dimostrazione che il vincolo dell’associazione è ben più stretto di quella rituale presa di distanza: Berlusconi vuole far sapere Oltretevere che non ammette né critici né interlocutori né regole.

Il secondo indizio è documentale. Il 21 agosto, Mario Giordano, direttore del Giornale, è costretto a lasciare la poltrona a Brighella. Ne spiega così le ragioni ai suoi lettori: «Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (…) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove». Giordano non poteva essere più chiaro: mi è stato chiesto (e da chi, se non dall’editore-premier?) di fare del mio quotidiano una bottega di miasmi, per decenza non me la sono sentita e lascio l’incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo. Che il Giornale sia diventato un’officina di veleni lo conferma un redattore in fuga. Luca Telese, sul suo blog, racconta di dossier e schifezze già pronte al Giornale contro «giornalisti o parenti di giornalisti di Repubblica». L’indiscrezione è confermata in Parlamento da «uomini vicini al premier» (la Stampa, 29 agosto)

Il terzo indizio è, diciamo così, politico e cronachistico. Berlusconi, incapace di governare nonostante i numeri in eccesso e un’opposizione fragile, ha «rinunciato al suo profilo riformatore» (Il Foglio, 31 agosto). Non ha più alcun "fine". Difende soltanto "i mezzi", il suo potere personale. Lo vuole assoluto. Conosce un unico metodo per tenerselo ben stretto nelle mani: un giornalismo pubblicitario e servile che consenta di annullare ciò che accade nel Paese a vantaggio di una narrazione fatta di emozioni e immagini composte e ricomposte secondo convenienza; un racconto che elimina ogni criterio di verità; un caleidoscopio mediatico che produce un’ignoranza delle cose utile a credere in un’Italia meravigliosa senza alcun grave problema, in pace con se stessa, governata da un «Superman». Per questa ragione Berlusconi ingaggia l’obbediente Augusto Minzolini al telegiornale del servizio pubblico Rai. Per la stessa ragione, ma di segno opposto, liquida in un paio di mesi tre direttori di giornale. 2 dicembre 2008. Il Corriere della sera (direttore Paolo Mieli) e la Stampa (direttore Giulio Anselmi) rilevano il conflitto d’interessi dietro la decisione di inasprire l’Iva per Sky, diretto concorrente di Mediaset. Da Tirana, Berlusconi lancia il suo «editto»: «I direttori di giornali, come la Stampa e il Corriere dovrebbero cambiare mestiere». 10 febbraio. Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e anchorman di Matrix, non riesce a ottenere uno spazio informativo da Canale5 per raccontare la morte di Eluana Englaro. Protesta. L’Egoarca lo licenzia su due piedi. In aprile l’editto di Tirana trova il suo esito. Il 6, Mieli lascia il Corriere. Il 20, tocca ad Anselmi. Mentana non è più tornato in video. Anselmi e Mieli non fanno più i giornalisti. Hanno davvero cambiato mestiere.

Il quarto indizio contro Berlusconi è concreto, diretto e recente. Quando non può licenziare o far licenziare i giornalisti che hanno rispetto di se stessi, Quello-Che-Comanda-Tutto organizza contro di loro intimidazioni: trascina in tribunale Repubblica colpevole di avergli proposto dieci domande e l’Unità per gli editoriali – quindi, per le opinioni – che pubblica. O dispone selvagge aggressioni. È il responsabile politico dell’assassino morale di Boffo preparato da Brighella. La maschera salmodiante combina campagne di denigrazione contro l’editore e il direttore di questo giornale. Poi l’editore-premier – come utilizzatore finale – si incarica di far esplodere quelle calunnie con pubbliche dichiarazioni rilanciate al tiggì della sera dall’obbediente Minzolini, che tace su tutto il resto.

Questa è la scena del delitto perfetto della realtà e del giornalismo. Sono in piena luce gli assassinii, gli assassinati, gli uccisori, il mandante. Vi si scorge anche un coro soi-disant neutrale. Vi fanno parte politici di prima e seconda fila che dicono: basta, torniamo alla realtà dei problemi del Paese. È proprio vero che «la pratica del potere ispessisce le cotenne». Queste teste gloriose, soffocate nella propria autoreferenzialità, non comprendono che è appunto questa la posta in gioco: la possibilità stessa di portare alla luce la realtà, di evitarne la distruzione, di raccontarla; di non fare incerta la distinzione tra reale e fittizio come Berlusconi pretende dai giornalisti anche a costo di annientare chi non accetta di farsi complice o disciplinato. Il dominio di Quello-Che-Comanda-Tutto passa, oggi e prima di ogni altra cosa, da questa porta. La volontà di tanti giornalisti "normali" che chiedono soltanto di fare il proprio lavoro con onestà e dignità ne esce umiliata. La loro inazione oggi non ha più una ragion d’essere di fronte alla brutalità dei "delitti" che abbiamo sotto gli occhi. La prudenza che induce tanti, troppi a decidere che qualsiasi azione o reazione sia impossibile, non li salverà. Il conformismo non li proteggerà. Il mandante dei delitti è un proprietario che conosce soltanto dipendenti docili e fedeli. Se non lo sei, ti bracca, ti sbrana, ti digerisce.

La guerra ingaggiata dai paesi totalitari contro la libertà di informazione su Internet costituisce la manifestazione ultima e spettacolare di un conflitto secolare, di una insofferenza di tutti i poteri costituiti nei confronti di chi agisce per rendere trasparente e controllabile il loro operato. È una vicenda lunga, accompagna la nascita dell’opinione pubblica moderna, che riesce a strutturarsi e a far crescere la sua influenza proprio grazie al ruolo della stampa. Qui è la radice di un processo che, insieme, dà senso alla democrazia e fa progressivamente emergere la stessa stampa come potere, il "quarto potere", al quale ne seguirà un "quinto", identificato nella televisione: poteri oggi unificati dal riferimento comune al sistema della comunicazione.

Non dimentichiamo che la democrazia è anche, e forse soprattutto, governo "in pubblico". Una caratteristica istituzionale affidata per lungo tempo quasi esclusivamente al parlamento, la cui funzione "teatrale" significava appunto che la politica doveva svolgersi su una scena visibile al pubblico. Una funzione prima accompagnata, poi appannata, infine spesso cancellata dal trasferimento della politica sulla scena televisiva: non è un caso che una trasmissione come "Porta a porta" sia stata definita "una terza Camera". Sono così cresciuti ruolo e responsabilità del sistema informativo. E la definizione della stampa come quarto potere significava proiettarsi al di là della tripartizione di Montesquieu, rafforzando proprio la funzione di garanzia che, nel dilatarsi del ruolo dello Stato e nell’ampliarsi della sfera pubblica, non poteva essere pienamente assicurata nell’ambito delle tradizionali strutture istituzionali. La stampa prima, e l’intero sistema della comunicazione poi, si presentavano così come luogo della libertà e di una nuova forma di rappresentanza della società.

Ma questa trasformazione portava con sé anche l’allargarsi dell’area del conflitto, e un ricorso diffuso a strumenti capaci di controllare il sistema dell’informazione. Si tratta di tecniche ben note, dalla censura al condizionamento economico, dal regime proprietario all’accurata selezione di giornalisti compiacenti, dalle minacce all’eliminazione fisica. Tecniche che continuano a convivere, caratterizzate tutte da un’intima carica di violenza. L’italiano Antonio Russo scompare in Cecenia; Anna Politkovskaja è divenuta il simbolo di una indomabile devozione alla libertà che può essere spenta solo con l’assassinio; Yahoo! si fa complice del governo cinese svelando il nome di un giornalista che aveva inviato alcune notizie negli Stati Uniti, Shi Tao, che così può essere arrestato e condannato a dieci anni di carcere. Sono soltanto tre esempi di uno stillicidio quasi quotidiano, di una irresistibile voglia di bavaglio di cui ci parlano vicende recenti in Cina, Birmania, Iran.

Ma non sono soltanto i regimi totalitari e autoritari a doverci inquietare. Nei paesi democratici il carattere pervasivo dei diversi strumenti di comunicazione, che strutturano la sfera pubblica, fa crescere le pretese di un potere politico che considera appunto il sistema della comunicazione come uno strumento essenziale per acquisire e mantenere il consenso. Si opera così un capovolgimento istituzionale. Il sistema dell’informazione vede alterata la propria natura e si trasforma in strumento servente di un potere che, insieme, si libera del controllo esterno e accentua il suo controllo sulla società.

Tutto questo avviene in forme che mantengono l’apparenza del pluralismo. A che vale, però, l’offerta di centinaia di canali televisivi se le centrali di produzione dei contenuti sono nelle mani di monopolisti, obbediscono alla stessa logica, hanno gli stessi "azionisti di riferimento"? Rendere possibile l’esposizione di ciascuno al massimo possibile di opinioni diverse è ormai la condizione fondamentale per il funzionamento dei sistemi democratici. Altrimenti la democrazia pluralista si trasforma in un guscio vuoto. Di questo è ben consapevole il nuovo "Zar dell’informazione", Cass Sunstein, nominato da Obama proprio per affrontare i nuovi problemi del sistema della comunicazione, che ha proposto per i siti Web particolarmente influenti l’obbligo di indicare un collegamento con siti che manifestano opinioni diverse. E, proprio per allentare la presa dei vari centri di potere sull’informazione, in Francia si prepara un sistema di calcolo dei tempi televisivi che escluda privilegi per lo stesso Sarkozy, mentre in Gran Bretagna si guarda alle tv private in un’ottica che tenga conto della funzione pubblica che anch’esse rivestono.

Rispetto a tutto questo, la situazione italiana si configura non solo come eccezione, ma come profonda deviazione. Consideriamo un caso davvero esemplare per il rapporto potere, informazione, cittadini. Un recente rapporto Censis ha rilevato che il 69.3% degli elettori forma le proprie opinioni in base alle informazioni fornite dai telegiornali. Il controllo dei telegiornali, dunque, è un veicolo essenziale per l’acquisizione del consenso. E il fatto che si tratti di una informazione quasi monocorde, ridotta a un denominatore davvero minimo, che nega alla radice il pluralismo, altera i caratteri democratici del sistema e svela pure il carattere ormai ingannevole dei sondaggi, la cui attendibilità dipende dall’ampiezza del patrimonio informativo di cui dispone ciascuno degli interrogati.

Ma la normalizzazione del sistema televisivo evidentemente non basta. E così, con una mossa tipicamente autoritaria, si vuole normalizzare anche la stampa, spegnendone le voci dissenzienti. Non si commetta l’errore di ritenere che, in definitiva, siamo di fronte a casi isolati, di cui ci si può disinteressare. Le resistibili ascese sono sempre cominciate così – ci ammonisce la storia dei rapporti tra stampa e potere. Quando, poi, ci si accorge che quello era solo un primo passo, che si voleva colpirne uno per educarne cento, può essere troppo tardi.

L'autunno non è ancora cominciato e lo stato della politica italiana è già un disastro, con sicuro danno per i cittadini italiani. Un disastro con alcuni paradossi: il primo che il manifesto stia dalla parte della gerarchia cattolica; il secondo che il Cavalier Silvio si sia convertito al culto della Chiesa Padana. Viene il dubbio che l'astinenza dalle escort, cui l'avrebbe obbligato la stampa di tutto il mondo, gli abbia dato alla testa. Capita.

Il punto è che dopo le critiche della Chiesa a Berlusconi, quest'ultimo aveva pensato a una riconciliazione con un pranzo con il cardinal Bertone, ma il cardinal Bertone ha mandato al diavolo il cavaliere dicendo che le spese del pranzo sarebbe stato meglio spenderle per opere di bene. Certo le cannonate sparate dal giornale di famiglia devono aver fatto traboccare il vaso. Vittorio Feltri direttore del Giornale e indomito combattente accusa Dino Boffo direttore de l'Avvenire di omosessualità (che in verità non sarebbe un reato) e di molestie alla moglie di un suo amico. Siamo indubbiamente nell'alta politica.

Nei 45 anni di vita repubblicana credo che mai fossimo arrivati a questo punto e non so bene come il Presidente Giorgio Napolitano riuscirà a metterci una pezza. Ma c'è più di una ragione per sperare che di qui al prossimo 2 giugno l'Italia sia guarita, o almeno convalescente, dal berlusconismo, che oggi la infetta con una diffusione incredibile. Anche Fini si rende conto che in questo modo non si può andare avanti. E poi, massimo del tragico ridicolo, la querela di Berlusconi alle 10 domande di Repubblica, per danni morali valutati in un milione di euro, cioè il valore effettivo del prestigio dell'attuale presidente del consiglio: chi non è pronto a fare una colletta anche di dieci milioni di euro purché si tolga dalle palle?

L'opposizione (salvo alcune forze o debolezze extraparlamentari) è convinta che la grande stagione, quando si parlava di socialismo e addirittura di comunismo, è tramontata per sempre. Non ci sono più grandi obiettivi: si agitano solo per vincere il congresso. Ma sarebbe ora che cominciassero a pensare di battere Berlusconi al più presto, già ai primi dell'autunno. È possibile, e certo più importante che vincere il congresso.

Ps. La tardiva dissociazione di Berlusconi dalle accuse omofobiche del Giornale con la dichiarazione che «la vita privata è uguale per tutti» è una chiara rivendicazione e, insieme, la conferma che non sa più dove mettere i piedi.

ROMA - «Che errore», dice Carlo Azeglio Ciampi a proposito della querela di Berlusconi a Repubblica. «Ma come si fa? E’ incredibile, davvero inconcepibile». L’ex capo dello Stato interviene, rispondendo a Repubblica, sull’attacco del presidente del Consiglio alla libera stampa. Un evento inedito e clamoroso, che sembra lasciarlo senza parole. Lui, che ha sempre avuto estremamente a cuore la libertà di stampa. Il presidente che in un messaggio alle Camere difese il pluralismo dell’informazione costringendo l’allora governo Berlusconi (e il suo ministro Gasparri) a un imbarazzante dietro front, correggendo il testo d’una legge sulla tv. Le cose sono arrivate a questo punto, in Italia? E nessuno si oppone, nessuno più reagisce?

Anziché rispondere alle domande di un giornale il capo del governo preferisce dunque trascinare quel giornale in tribunale?

«Io parto sempre dall’idea che le cose strampalate chi le compie prima o poi le paga. La gente non è così sciocca. Sa leggere bene il significato vero degli eventi, errori compresi. Oltretutto, si va a un processo sulle cose scritte e pubblicate? Bene. Con quale esito possibile, ridicolo a parte?»

Forse l’unico vero obiettivo (pensato ma non dichiarato) è forzare la libera stampa, almeno quella che non gli è pregiudizialmente favorevole. Colpirne uno per educarne cento, come si dice? Guarda caso il giorno prima di uno scontro col Vaticano ora gli sembra ostile?

«A me non pare proprio che la cosa debba finire in sede giudiziaria. Oltretutto mi pare evidente il rischio d’una auto condanna».

Vuol dire che la mossa di Berlusconi profila un evidente rischio di autogol?

«Voglio dire che quella querela contiene tutti i segni distintivi d’un passo falso per chi l’ha fatto».

Ritiene che, per come si presenta, la querela abbia scarse possibilità di successo?

«Non conosco gli avvenimenti in dettaglio, ma direi che prendere sul serio quella denuncia sarebbe un errore. E il primo danneggiato rischia d’essere lo stesso denunciante».

La morte dei 73 eritrei ha evidenziato crudelmente una questione non nuova, ma che faticava a manifestarsi. Il tema dell’immigrazione costituisce una frattura profonda per le società contemporanee. Dunque, questa vicenda sembra poter rappresentare un punto di svolta. Sia chiaro: contrariamente a quanto si sente ripetere, l’immigrazione non è questione di solidarietà- i buoni sentimenti contrapposti al truce cattivismo della Lega -, bensì di economia e demografia, diritti e doveri, politiche pubbliche e strategie di inclusione, welfare universalistico e integrazione. Insomma, non è un problema di «generosità verso gli ultimi», bensì un fattore essenziale dei moderni sistemi di cittadinanza e un test cruciale per la qualità delle democrazie contemporanee.

Certo, è buona cosa che la Chiesa cattolica si sia mossa, e con tanta forza, in questa circostanza, ma è un errore pensare che la tutela dei diritti irrinunciabili della persona debba avere, di necessità, un’ispirazione religiosa. Quella tutela è, deve essere, fondamento di ogni politica democratica degna di questo nome. Dall’intransigente difesa di quei diritti discende la natura stessa dei regimi democratici: essa non può affidarsi alle virtù individuali e collettive (pure preziose), ma all’elaborazione di un sistema di garanzie che, quei diritti, renda esigibili ed effettivi. Per questo, la questione dell’immigrazione rappresenta davvero un discrimine che attraversa la società e il sistema politico.

Con l’introduzione del reato di clandestinità, il nostro ordinamento ha subito una lesione profonda come mai in passato: viene sanzionato non un comportamento criminale, bensì una condizione esistenziale. Si viene penalizzati per ciò che si è, non per ciò che si fa. Ma battersi contro questa mostruosità non è sufficiente, se non si hanno ben chiare le conseguenze di quella norma, nella vita sociale e nei livelli di tutela giuridica dei singoli e delle minoranze: ovvero il fatto che la società si organizza, di conseguenza, per selezionare, discriminare, sperequare tra chi è parte del sistema di cittadinanza, chi ne è fuori e chi (tantissimi) vive precariamente ai suoi margini, tra inclusione ed esclusione. Dunque, è tutta l’organizzazione sociale - l’idea e la struttura di comunità - che ne viene informata, intervenendo nei rapporti tra gruppi e classi, tra privilegiati e deprivati. L’atteggiamento verso gli immigrati e i profughi, cioè, condiziona profondamente la concezione dei diritti di cittadinanza per tutti e gli stessi connotati essenziali della vita democratica.

È probabile che oggi la maggior parte della società italiana esprima diffidenza, se non ostilità, verso le politiche di accoglienza-integrazione: non è una buona ragione per arrendersi. È fondamentale, certo, saper scegliere le parole e le politiche: ben venga il discorso profetico della Chiesa, ma a noi serve un altro linguaggio. Quello, appunto, dell’economia e della demografia, dei diritti e delle garanzie. E la capacità di far intendere che chiudere le frontiere, prima ancora che una manifestazione di egoismo, è segnale indubbio di autolesionismo.

La Rai censura il trailer di Videocracy. «Un film sulla cultura televisiva in Italia, non scindibile da Berlusconi», dice il regista. Per viale Mazzini «non viene rispettato il pluralismo». I consiglieri del Pd: «C'è un disegno, intervenga il cda»

Eccola qui, la videocrazia nell'era di Silvio. La Rai non ha nessun problema a confermarlo, anzi. Il trailer del film di Erik Gandini Videocracy, appunto, già rifiutato da Mediaset (protagonista della pellicola), perché «lesivo delle prerogative della tv commerciale», non potrà andare in onda nemmeno sugli schermi della tv pubblica. Il film sarà a Venezia, non nella selezione ufficiale ma nella Settimana della critica, e uscirà nelle sale il 4 settembre. Però l'ufficio legale di viale Mazzini, non nuovo a cercare improbabili cavilli per giustificare iniziative censorie dietro input berlusconiano, soprattutto nel lungo periodo in cui è stato diretto da Rubens Esposito, esagerando al massimo uno zelo già eccessivo ha deciso di oscurarlo. Motivo: il trailer non è «informato al principio del contraddittorio» che deve essere rispettato «anche in periodo non elettorale».

Argomentazione ridicola, che viale Mazzini cerca di avvalorare richiamandosi agli indirizzi della commissione di vigilanza, a quelli dell'Authority per le comunicazioni, al contratto di servizio e pure al Codice etico aziendale. Nella nota diffusa ieri dalla direzione generale della Rai (il dg Mauro Masi in privato sostiene di aver appreso della decisione da Repubblica , eppure facendosi scudo con l'ufficio legale la conferma), si arriva a ricordare che i citati testi sacri impongono che «i messaggi pubblicitari siano leali, onesti, corretti e non contengano elementi atti ad offendere le convinzioni morali, civili e politiche dei cittadini e la dignità della persona umana», nientemeno. E dire che, per evitare di offendere chissà chi (uno solo: Silvio), la Rai aveva fatto una bella proposta alla Fandango, che distribuisce il film, «nel massimo spirito di collaborazione»: sì alla trasmissione del trailer, ma solo «nell'ipotesi in cui la società produttrice avesse assicurato il rispetto dei principi essenziali del contraddittorio e del pluralismo informativo». Forse la Fandango avrebbe dovuto aggiungere il commento di Sandro Bondi alle immagini di veline e tronisti, a quelle di Lele Mora o di Silvio Berlusconi sugli spalti delle celebrazioni per il 2 giugno che compaiono nel montaggio. E invece «nessuna adesione allo stato attuale è pervenuta dalla società che quindi non ha messo la Rai nella condizione di poter trasmettere lo spot».

Insomma, tutta colpa di Domenico Procacci, al quale l'azienda ha spiegato che il trailer «veicola un inequivolcabile messaggio di critica al governo» e ripropone la questione del conflitto di interessi. Non solo: poiché mostra «immagini di donne prive di abiti» richiama «le problematiche all'ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso» (sempre Silvio), facendo magari pensare che già in passato, quando era solo un imprenditore televisivo, il premier avesse «tali caratteristiche personali». Sembra satira, anche perché di fatto la Rai conferma che «tali caratteristiche» Sua emittenza almeno attualmente le possiede.

A questo punto i consiglieri d'amministrazione del Pd, Nino Rizzo Nervo e Giorgio van Straten, intendono portare la vicenda al primo cda dopo la pausa estiva, il 9 settembre. Secondo Rizzo Nervo «sostenere il dovere di pluralismo negli spot è giuridicamente abnorme oltre che ridicolo». E questa censura «dimostra con chiarezza che sulla Rai vi è un preciso disegno di controllo e di annullamento delle libertà editoriali», cercando di «normalizzare» anche la terza rete. E Van Straten riferisce di aver parlato del caso anche con il presidente Rai Paolo Garimberti, che però è all'estero e ufficialmente non commenta.

Protestano invece a gran voce contro la «vergognosa decisione» la Federazione nazionale della stampa, il cui segretario Roberto Natale rilancia la proposta di una mobilitazione nazionale, e l'Usigrai. Il segretario del Pd Franceschini incalza: «Bisogna reagire all'assuefazione» e al tentativo di «imbavagliare Raitre», e mette il trailer di Videocracy sul suo sito. Mentre Pierluigi Bersani domanda: «Per Ombre rosse chiesero la replica agli indiani?». E Ignazio

Insabbiare

di Enzo Mauro

Non potendo rispondere, se non con la menzogna, Silvio Berlusconi ha deciso di portare in tribunale le dieci domande di Repubblica, per chiedere ai giudici di fermarle, in modo che non sia più possibile chiedergli conto di vicende che non ha mai saputo chiarire: insabbiando così – almeno in Italia – la pubblica vergogna di comportamenti privati che sono al centro di uno scandalo internazionale e lo perseguitano politicamente.

è la prima volta, nella memoria di un Paese libero, che un uomo politico fa causa alle domande che gli vengono rivolte. Ed è la misura delle difficoltà e delle paure che popolano l’estate dell’uomo più potente d’Italia. La questione è semplice: poiché è incapace di dire la verità sul "ciarpame politico" che ha creato con le sue stesse mani e che da mesi lo circonda, il Capo del governo chiede alla magistratura di bloccare l’accertamento della verità, impedendo la libera attività giornalistica d’inchiesta, che ha prodotto quelle domande senza risposta.

In questa svolta c’è l’insofferenza per ogni controllo, per qualsiasi critica, per qualunque spazio giornalistico d’indagine che sfugga al dominio proprietario o all’intimidazione di un potere che si concepisce come assoluto, e inattaccabile. Berlusconi, nel suo atto giudiziario contro Repubblica vuole infatti colpire e impedire anche la citazione in Italia delle inchieste dei giornali stranieri, in modo che il Paese resti all’oscuro e sotto controllo. Ognuno vede quanto sia debole un potere che ha paura delle domande, e pensa che basti tenere al buio i concittadini per farla franca.

Tutto questo – la richiesta agli imprenditori di non fare pubblicità sul nostro giornale, l’accusa di eversione, l’attacco ai "delinquenti", la causa alle domande – da parte di un premier che è anche editore, e che usa ogni mezzo contro la libertà di stampa, nel silenzio generale. Altro che calunnie: ormai, dovrebbe essere l’Italia a sentirsi vilipesa dai comportamenti di quest’uomo.

La menzogna come potere

di Giuseppe D’Avanzo

Avanzare delle domande a un uomo politico nell’Italia meravigliosa di Silvio Berlusconi è già un’offesa che esige un castigo? L’Egoarca ritiene che sollecitare delle risposte dinanzi alle incoerenze delle dichiarazioni pubbliche del capo del governo sia diffamatorio e vada punito e che quelle domande debbano essere cancellate d’imperio per mano di un giudice e debba essere interdetto al giornale di riproporle all’opinione pubblica. È interessante leggere, nell’atto di citazione firmato da Silvio Berlusconi, perché le dieci domande che Repubblica propone al presidente del consiglio sono «retoriche, insinuanti, diffamatorie».

Sono retoriche, sostiene Berlusconi, perché «non mirano a ottenere una risposta dal destinatario, ma sono volte a insinuare l’idea che la persona "interrogata" si rifiuti di rispondere». Sono diffamatorie perché attribuiscono «comportamenti incresciosi, mai tenuti» e inducono il lettore «a recepire come circostanze vere, realtà di fatto inesistenti». Peraltro, «è sufficiente porre mente alle dichiarazioni già rese in pubblico dalle persone interessate, per riconoscerne la falsità, l’offensività e il carattere diffamatorio di quelle domande che proprio "domande" non sono».

Come fin dal primo giorno di questo caso squisitamente politico, una volta di più, Berlusconi ci dimostra quanto, nel dispositivo del suo sistema politico, la menzogna abbia un primato assoluto e come già abbiamo avuto modo di dire, una sua funzione specifica. Distruttiva, punitiva e creatrice allo stesso tempo. Distruttiva della trama stessa della realtà; punitiva della reputazione di chi non occulta i "duri fatti"; creatrice di una narrazione fantastica che nega eventi, parole e luoghi per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di nemici e immaginari complotti politici.

Non c’è, infatti, nessuna delle dieci domande che non nasca dentro un fatto e non c’è nessun fatto che nasca al di fuori di testimonianze dirette, di circostanze accertate e mai smentite, dei racconti contraddittori di Berlusconi.

È utile ora mettersi sotto gli occhi queste benedette domande. Le prime due affiorano dai festeggiamenti di una ragazza di Napoli, Noemi, che diventa maggiorenne. È Veronica Lario ad accusare Berlusconi di «frequentare minorenni». È Berlusconi che decide di andare in tv a smentire di frequentare minorenni. Nel farlo, in pubblico, l’Egoarca giura di aver incontrato la minorenne «soltanto tre o quattro volte alla presenza dei genitori». Questi sono fatti. Come è un fatto che le parole di Berlusconi sono demolite da circostanze, svelate da Repubblica, che il capo del governo o non può smentire o deve ammettere: non conosceva i genitori della minorenne (le ha telefonato per la prima volta nell’autunno del 2008 guardandone un portfolio); l’ha incontrata da sola per lo meno in due occasioni (una cena offerta dal governo e nelle vacanze del Capodanno 2009). La terza domanda chiede conto al presidente del consiglio delle promesse di candidature offerte a ragazze che lo chiamano "papi". La circostanza è indiscutibile, riferita da più testimoni e direttamente dalla stessa minorenne di Napoli. La quarta, la quinta, la sesta e settima domanda ruotano intorno agli incontri del capo del governo con prostitute che potrebbero averlo reso vulnerabile fino a compromettere gli affari di Stato. La vita disordinata di Berlusconi è diventata ormai "storia nota", ammessa a collo torto dallo stesso capo del governo e in palese contraddizione con le sue politiche pubbliche (marcia nel Family day, vuole punire con il carcere i clienti delle prostitute). La sua ricattabilità – un fatto – è dimostrata dai documenti sonori e visivi che le ospiti retribuite di Palazzo Grazioli hanno raccolto finanche nella camera da letto del Presidente del Consiglio. L’ottava domanda è politica: può un uomo con queste abitudini volere la presidenza della Repubblica? Chi non glielo chiederebbe? La nona nasce, ancora una volta, dalle parole di Berlusconi. È Berlusconi che annuncia in pubblico «un progetto eversivo» di questo giornale. È un fatto. È lecito che il giornale chieda al presidente del Consiglio se intenda muovere le burocrazie della sicurezza, spioni e tutte quelle pratiche che seguono (intercettazioni su tutto). Non è minacciato l’interesse nazionale, non si vuole scalzarlo dal governo e manipolare la "sovranità popolare"? In questo lucidissimo delirio paranoico, Berlusconi potrebbe aver deciso, forse ha deciso, di usare la mano forte contro giornalisti, magistrati e testimoni. Che ne dia conto. Grazie. La decima domanda infine (e ancora una volta) non ha nulla di retorico né di insinuante. È Veronica Lario che svela di essersi rivolta agli amici più cari del marito per invocare un aiuto per chi, come Berlusconi, «non sta bene». È un fatto. Come è un fatto che, oggi, nel cerchio stretto del capo del governo, sono disposti ad ammettere che è la satiriasi, la sexual addiction a rendere instabile Berlusconi.

Questa la realtà dei fatti, questi i comportamenti tenuti, queste le domande che chiedono ancora oggi – anzi, oggi con maggiore urgenza di ieri – una risposta. Dieci risposte chiare, per favore. È un diritto chiederle per un giornale, è un dovere per un uomo di governo offrirle perché l’interesse pubblico dell’affare è evidente.

Si discute della qualità dello spazio democratico e la citazione di Berlusconi ne è una conferma. E dunque, anche a costo di ripetersi, tutta la faccenda gira intorno a un solo problema: fino a che punto il premier può ingannare l’opinione pubblica mentendo, in questo caso, sulle candidature delle "veline", sulla sua amicizia con una minorenne e tacendo lo stato delle sue condizioni psicofisiche? Non è sempre una minaccia per la res publica la menzogna? La menzogna di chi governa non va bandita incondizionatamente dal discorso pubblico se si vuole salvaguardare il vincolo tra governati e governanti? Con la sua richiesta all’ordine giudiziario di impedire la pubblicazione di domande alle quali non può rispondere, abbiamo una rumorosa conferma di un’opinione che già s’era affacciata in questi mesi: Berlusconi vuole insegnarci che, al di fuori della sua verità, non ce ne può essere un’altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. La sua ultima mossa conferma un uso della menzogna come la funzione distruttiva di un potere che elimina l’irruzione del reale e nasconde i fatti, questa volta anche per decisione giudiziaria. La mordacchia (come chiamarla?) che Berlusconi chiede al magistrato di imporre mostra il nuovo volto, finora occultato dal sorriso, di un potere spietato. È il paradigma di una macchina politica che intimorisce. È la tecnica di una politica che rende flessibili le qualifiche "vero", "falso" nel virtuale politico e televisivo che Berlusconi domina. È una strategia che vuole ridurre i fatti a trascurabili opinioni lasciando campo libero a una menzogna deliberata che soffoca la realtà e quando c’è chi non è disposto ad accettare né ad abituarsi a quella menzogna invoca il potere punitivo dello Stato per impedire anche il dubbio, anche una domanda. Come è chiaro ormai da mesi, quest’affare ci interroga tutti. Siamo disposti a ridurre la complessità del reale a dato manipolabile, e quindi superfluo. Possiamo o è già vietato, chiederci quale funzione specifica e drammatica abbia la menzogna nell’epoca dell’immagine, della Finktionpolitik? Sono i "falsi indiscutibili" di Berlusconi a rendere rassegnata l’opinione pubblica italiana o il «carnevale permanente» l’ha già uccisa? Di questo discutiamo, di questo ancora discuteremo, quale che sia la decisione di un giudice, quale che sia il silenzio di un’informazione conformista. La questione è in fondo questa: l’opinione pubblica può fare delle domande al potere?

L'APPELLO DEI TRE GIURISTI

L’attacco a "Repubblica", di cui la citazione in giudizio per diffamazione è solo l’ultimo episodio, è interpretabile soltanto come un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l’opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un’eccezione della democrazia. Le domande poste al Presidente del Consiglio sono domande vere, che hanno suscitato interesse non solo in Italia ma nella stampa di tutto il mondo. Se le si considera "retoriche", perché suggerirebbero risposte non gradite a colui al quale sono rivolte, c’è un solo, facile, modo per smontarle: non tacitare chi le fa, ma rispondere.

Invece, si batte la strada dell’intimidazione di chi esercita il diritto-dovere di "cercare, ricevere e diffondere con qualsiasi mezzo di espressione, senza considerazioni di frontiere, le informazioni e le idee", come vuole la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, approvata dal consesso delle Nazioni quando era vivo il ricordo della degenerazione dell’informazione in propaganda, sotto i regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso.

Stupisce e preoccupa che queste iniziative non siano non solo stigmatizzate concordemente, ma nemmeno riferite, dagli organi d’informazione e che vi siano giuristi disposti a dare loro forma giuridica, senza considerare il danno che ne viene alla stessa serietà e credibilità del diritto.

Franco Cordero, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky

Qui per firmare l'appello

la Repubblica

Pdl all´attacco di RaiTre spuntano Minoli e Mentana

Sotto tiro i programmi di Fazio, Dandini, Gabanelli

di Mauro Favale

ROMA - All´attacco di Raitre. Con l´obiettivo di ammorbidire l´unica rete Rai sgradita a Palazzo Chigi e mettere da parte Fabio Fazio, Luciana Litizzetto, Milena Gabanelli e Serena Dandini. Un disegno che prevede il cambio del direttore di Raitre Paolo Ruffini con Giovanni Minoli. Sembra questo l´obiettivo di Berlusconi e del direttore generale di Viale Mazzini Mauro Masi. Ed è ai «colpi di mano» che il Partito Democratico prova a trovare un argine.

Lo scontro al settimo piano di Viale Mazzini è aspro. Masi annuncia che le «nomine devono restare slegate dal congresso Pd», adombrando l´ipotesi che i "frenatori" al cambio dei vertici di Tg3 e RaiTre siano proprio i consiglieri di opposizione in Cda. Nino Rizzo Nervo e Giorgio Van Straten rigettano al mittente le accuse.

La quiete sulla Rai è durata il tempo di un temporale estivo. Nemmeno due settimane di tregua. E ora si ritorna a parlare di nomine in vista del prossimo Cda del 9 settembre. Obiettivi puntati sulla terza rete. Diretta da Paolo Ruffini dal 2002, aspramente criticata da Silvio Berlusconi nelle sue ultime uscite oggetto, pare, di un tentativo di "normalizzazione". Che il direttore generale proverebbe ad attuare portando in Cda un nome solo: Giovanni Minoli. Su di lui puntano Berlusconi e Masi. Ma il direttore di Rai Educational e Rai Storia, storico volto tv, ha una controindicazione di carattere anagrafico: è a otto mesi dalla pensione, visto che nel maggio del 2010 compie 65 anni. I più maliziosi, poi, ricordano le telefonate intercettate un anno fa ad Agostino Saccà che, da direttore di Rai Fiction, vicinissimo al Cavaliere, cercava di tessere una tela per portare Minoli alla direzione generale. Potrebbe passare dall´inventore di Mixer il ridimensionamento di "Report", "Che tempo che fa", "Parla con me"? Rizzo Nervo si guarda bene dal commentare quelli che definisce "nomi d´agosto". Però conferma: «Prima di qualsiasi cambio Masi ci deve dire esplicitamente che non ha intenzione di toccare né la satira né l´inchiesta di RaiTre. Se non ci dà questa garanzia ogni nome che propone diventa discutibile». Senza trascurare il fatto che, da sempre, le nomine per la Terza Rete, per consuetudine assegnate al centrosinistra, sono sempre state concordate.

La quadratura del cerchio, per il Pd, sarebbe mantenere Ruffini alla Rete e promuovere Bianca Berlinguer alla direzione del Tg3. Trovando una collocazione adeguata (probabilmente all´estero) per l´attuale direttore Antonio Di Bella. Proposte che il Pd afferma di aver avanzato al dg già prima della pausa estiva, per fugare i dubbi di voler attendere il congresso e i nuovi equilibri interni ai democratici. Masi, però, avrebbe detto di no, puntando ad un cambio di Ruffini e proponendo per l´attuale direttore di Rete una ricollocazione al Gr Parlamento. Una proposta definita dal Pd «indecente».

Il totonomine impazza e vedrebbe alla direzione del Tg3 anche Enrico Mentana o Barbara Palombelli. Il primo "epurato" da Canale 5 dopo aver denunciato che Mediaset era diventata «un comitato d´affari». La seconda è giornalista e scrittrice. La destra attacca parlando di «lottizzazione». Vincenzo Vita, Pd, membro della Commissione di Vigilanza risponde: «C´era una volta la lottizzazione. Ora, invece, c´è la berlusconizzazione della Rai». Con Di Pietro che accusa: «Ormai il servizio pubblico è una costola di Mediaset. Chiamiamola Raiset».

il manifesto

Raitre, il Cavaliere tenta il «filotto»

di Micaela Bongi

Il colpo di mano non sarà facilissimo né, eventualmente, immediato. Ma ormai l'allarme per le sorti del Tg3 e di Raitre è scattato. Il sogno proibito di Silvio Berlusconi - «normalizzare» il terzo canale - potrebbe diventare realtà, anche grazie alla battaglia intorno alla «riserva indiana» dell'attuale opposizione aperta tra le varie anime del Pd.

Nel partito si esclude che qualcuno - in particolare il segretario Dario Franceschini che puntava a mantenere l'attuale assetto - abbia chiesto, all'inizio dell'estate, il rinvio delle decisioni a dopo il congresso di ottobre. Più difficile negare che su chi dovrà dirigere la rete e la testata le opinioni nei democrat siano piuttosto diverse, soprattutto per quanto riguarda la prima, guidata ora dal cattolico Paolo Ruffini. E' un fatto che, dopo un tira e molla, per Tg3 e Raitre il rinvio all'autunno è stato deciso, complici anche le divisioni nella maggioranza su chi, tra Alberto Maccari, area pidiellina forzista, e Alessandro Casarini, leghista, dovrà dirigere la testata regionale. E nella polemica agostana sull'incertezza per le sorti del terzo canale - polemica rilanciata con forza domenica dal Corriere della sera - il Pdl si inserisce a gamba tesa, cercando e a quanto pare trovando sponda anche in pezzi di Partito democratico per procedere alla sostituzione di Ruffini e Antonio Di Bella, attuale direttore del tg.

E così ieri tra viale Mazzini e le location estive dei partiti risuonava il tam tam: per Raitre è pronta la nomina di Giovanni Minoli, mentre a dirigere il tg potrebbe arrivare Enrico Mentana. Decisa anche la sostituzioni di Corradino Mineo, direttore di Rainews 24, con il berlusconiano di provata fede (la dimostrò quando conduceva Punto e a capo su Raidue) Giovanni Masotti.

Delle tre ipotesi, la meno probabile sembra quella di Mentana, licenziato bruscamente da Mediaset, ma al quale Berlusconi, durante i festeggiamenti del 2 giugno al Quirinale, aveva pubblicamente lanciato segnali distensivi con un «coraggio, incontriamoci presto».

Al di là dei nomi, il comitato di redazione del Tg3 è già sulle barricate contro le «scelte liquidatorie del ruolo della testata nel sistema informativo italiano». I giornalisti chiedono ai sindacati Usigrai e Fnsi di continuare a vigilare, opponendo a chi trova il Tg3 «deviato» (il Cavaliere) o «noioso» (Aldo Grasso sul Corriere della sera), il successo in termini di ascolti e gradimento. Ma il cdr respinge anche «il principio che qualsiasi nomina debba dipendere dall'esito di un congresso». Per concludere: «Noi continueremo a fare il nostro lavoro senza accettare colpi di mano». L'Usigrai, il sindacato dei giornalisti della tv pubblica, risponde a stretto giro: il segretario Carlo Verna si dice d'accordo con il vicepresidente della commissione di vigilanza Giorgio Merlo, Pd, che chiede ai vertici Rai di prendere subito una decisione all'unanimità. Ma Verna chiede anche perché si dovrebbero sostituire direttori con ascolti in crescita. E il segretario della Federazione della stampa, Roberto Natale, chiede ai vertici di viale Mazzini di stoppare il «turbinio di chiacchiere».

Sulla possibilità di conquistare e smantellare l'ex Telekabul Berlusconi probabilmente scommette poco. Sulla rete l'offensiva sembrerebbe più decisa. I programmi e i conduttori di Raitre, da Milena Gabanelli a Giovanni Floris a Serena Dandini a Fabio Fazio, ma anche Federica Sciarelli con Chi l'ha visto, sono tutti finiti nel mirino di governo e maggioranza. E da tempo Sua emittenza accarezza l'ipotesi di una nomina «bipartisan», che insomma non sia platealmente berlusconiana ma nemmeno da lui ritenuta ostile. Il nome di Minoli era circolato già in passato. Tra l'altro l'attuale direttore di Raieducational aveva difeso l'ex responsabile di Raifiction Agostino Saccà ai tempi dello scandalo delle sue telefonate con il Cavaliere.

Ma in pista non c'è solo Minoli. L'altro nome che torna in circolazione con insistenza e con il quale il premier punta a sparigliare anche nel Pd, è quello di Barbara Palombelli.

L'allarme è così scattato nello stesso Partito democratico. «Compiuta la prima parte dello scempio - denuncia Vincenzo Vita - pare chiara la voglia matta di chiudere l'esperienza di Raitre e Tg3 e forse di Rainews. Battiamoci tutti contro i colpi di mano assestati e quelli in fieri».

PADOVA - Il muro di via Anelli, la recinzione antispaccio costruita a Padova, «non serve più» e se non fosse per il costo dell´eliminazione il Comune potrebbe toglierlo. È l´annuncio fatto dal sindaco di Padova Flavio Zanonato ospite, insieme a Don Mazzi, di un dibattito sulla sicurezza alla Festa nazionale del Pd di Genova. «Il muro, che in realtà è lamiera non serve più a niente. Non l´ho tolto perché costa soldi», ha detto Zanonato rivendicando la funzione del muro antispaccio e spiegando che ormai è inutile perché «le 250 famiglie di immigrati sono state trasferite da tuguri a case decenti».

Mafia, l’ira dei prefetti sul caso Fondi:

senza precedenti il no allo scioglimento

di Claudia Fusani

Un caso unico nella storia. La legge sullo scioglimento dei comuni per infiltrazioni è del luglio 1991 e in diciotto anni di vita mai era successo che la Presidenza del Consiglio respingesse la richiesta del ministro dell’Interno di sciogliere l’ente sotto inchiesta. Succede oggi, con il comune di Fondi. Una prima volta che arriva quasi a mettere in mora i responsabili politici e tecnici della sicurezza, dal prefetto di Latina Bruno Frattasi che chiede il commissariamento del comune dal settembre 2008 al ministro dell’Interno Roberto Maroni che ha presentato la stessa richiesta a febbraio scorso. In mezzo ci sono le inchieste della magistratura, arresti e indagini che raccontano un comitato d’affari di camorra, ‘ndrangheta, imprenditori e politici locali.

La battaglia del Pd

Una situazione gravissima, denunciata dal Pd (che in Commissione antimafia ne fa una battaglia da mesi), Idv e dalla stessa maggioranza. «In tanti anni non ho mai visto una situazione del genere» attacca Angela Napoli (Pdl), membro della Commissione Antimafia. L’eurodeputato Luigi De Magistris (Idv) vuole organizzare «una grande mobilitazione proprio davanti al mercato ortofrutticolo di Fondi», la vera calamita degli appetiti dei clan. Si muovono anche i prefetti, categoria per solito molto cauta a prendere posizione pubblicamente. Prima il piccolo Unadir, poi il Sinpref (Associazione sindacale dei funzionari prefettizi), sigla assai rappresentativa a cui non è piaciuto affatto l’intervento del presidente del Consiglio che il giorno di Ferragosto, mettendo in un angolo mesi di lavoro del prefetto e del ministro, ha detto che Fondi non sarà sciolta «perchè non ci sono indagati tra i membri della giunta e del consiglio comunale».

Una clamorosa inesattezza visto che il 6 luglio sono stati arrestati, tra gli altri, un ex assessore, il direttore dei Lavori pubblici, delle Attività produttive e del Bilancio, il comandante dei vigili e il suo vice. «Noi vogliamo prima di tutto ribadire la nostra vicinanza e solidarietà al prefetto Frattasi - spiega al telefono il segretario del Sinpref Giuseppe Forlani - e poi rimarcare stupore e preoccupazione per questo ennesimo rinvio». Molto attenti alla scelta delle parole, i prefetti però denunciano in un comunicato dell’8 agosto che «mai prima d’ora lo scioglimento di un ente locale era stato rinviato per motivi tecnico-giuridici o comunque attinenti al merito della proposta fondata su elementi di fatto già rigorosamente accertati e documentati dal prefetto». Significa che mai prima d’ora era stato messo in dubbio il lavoro di indagine di un prefetto. O di un ministro. Cosa che succede invece per Fondi visto che Frattasi prima e Maroni poi hanno entrambi chiesto, senza ottenerlo, lo scioglimento del Comune per infiltrazione mafiosa. Attenzione, scrivono ancora i prefetti, si rischia di indebolire la lotta alle mafie: «Altre ragioni - si legge nel comunicato del Sinpref - devono restare estranee alla conclusione di una procedura essenziale nell’azione tenace e continua contro l’infiltrazione mafiosa nelle pubbliche amministrazioni, vero cancro della legalità e della democrazia».

Governo sotto pressione

Una protesta con molti fronti, a cui si aggiungono associazioni come Libera e Legaambiente, E che mette sotto pressione Palazzo Chigi in serata costretto a promettere: «Il caso Fondi sarà presto in consiglio dei ministri, il tempo di adeguare il dossier alle nuove procedure».

Gli ultimi dati disponibili del ministero dell’Interno, aggiornati al 2008, dicono che dal 1991 sono stati 185 i decreti di scioglimento tra cui due Asl e un’azienda provinciale sanitaria. Con i decreti di quest’anno si fa in fretta ad arrivare a 200 scioglimenti. Curiosità: il 24 luglio il Consiglio dei ministri ha sciolto i comuni di Fabrizia e Vallelunga. Le regole sono uguali per tutti. Tranne che per Fondi.

La Fondi-connection: Asl, voti e ’ndrine all’ombra del Pdl

di Enrico Fierro

Nell’inchiesta scoperchiato il sistema: coinvolti il sindaco e altri funzionari. Nulla si muove che non voglia il senatore Fazzone, vero «re» della zona con una dote di 50mila schede elettorali. E il Comune «si salva»

Il Comune non si scioglie. Qui la mafia comanda, prende appalti, fa i soldi a palate, ha buoni amici dentro l’amministrazione comunale, ma il Comune non si scioglie. Carabinieri, questori e prefetti, vadano a farsi benedire con le loro inchieste e le loro scartoffie. Non si scioglie. Perché comanda la politica, l’ultima parola spetta a chi tiene i voti. E Claudio Fazzone i voti li produce a palate. 50mila per la precisione, percentuali bulgare a Latina, Fondi e dintorni. Tutti per Silvio Berlusconi, tantissimi da mettere la mordacchia anche al ministro Maroni. Ne ha fatta di strada l’ex appuntato della Ps. Sveglio da sempre, da quando indossava la divisa e entrò nelle grazie di Nicola Mancino quando l’attuale numero due del Csm era ministro dell’Interno. Autista, guardaspalle, uomo di fiducia, ma soprattutto intelligente galoppino elettorale della Dc. Ambizioni stratosferiche. Uomo dal fiuto politico sopraffino, l’ex appuntato capisce che la Dc è al tramonto e salta sul band wagon di Berlusconi. Anni di gavetta, poi l’elezione a consigliere regionale con la giunta Storace. Un mare di voti e la conquista dello scranno di presidente dell’assemblea. Fazzone costruisce una poderosa macchina clientelare. «Caro Benito ti segnalo... ». Era questo l’incipit che apriva tutte le lettere destinate al direttore della Asl di Latina. Decine di assunti, famiglie sistemate. Voti. L’elezione a senatore è scontata, il potere pure. Quando Berlusconi afferma che Fondi non si scioglie perché alcuni ministri gli hanno detto che nessun membro della giunta o del consiglio è stato raggiunto da avvisi di garanzia, non fa nomi. Ma a Fondi e Latina tutti sanno chi protegge Fazzone. Giorgia Meloni, Renato Brunetta, Maurizio Sacconi. Tutti in qualche modo legati al Sud Pontino. E tutti in buoni rapporti col padrone dei voti e dei seggi in questa parte del Lazio.

Dove imperano i fratelli Tripodo, Venanzio e Carmelo, uomini della ’ndrangheta calabrese. I loro legami con la politica sono riassunti in un dossier che fa tremare Fazzone e il suo sistema. 500 pagine e 9 faldoni. C’è tutto. Il tenente dei carabinieri Mario Giacona ha dettagliato i rapporti tra i Tripodo, la famiglia Trani e Peppe Franco. Il quale, secondo alcuni pentiti sentiti nel processo «Anni 90», mise a disposizione di Venanzio Tripodo i suoi mezzi di trasporto per consegnare armi al clan camorristico dei casalesi. «Peppe Franco – nota l’ufficiale dei carabinieri – è cugino di primo grado del sindaco di Fondi Luigi Parisella, suo fratello Luigi è socio in affari sia con il sindaco che con il senatore Fazzone nella gestione della Silo srl, società titolare di un capannone sito in località Pantanelle». Un struttura destinata alla lavorazione di frutta e ortaggi, che ha incassato contributi pubblici per oltre 2 miliardi di vecchie lirette. «Tuttavia – scrive sconsolato l’ufficiale dei Cc – questa attività non è mai iniziata, mentre l’area su cui sorge il capannone inutilizzato è stata interessata ad una variante al Piano regolatore generale approvata tra il 2002 e il 2004 che ha determinato un forte incremento delle infrastrutture viarie». Ma non è finita qui. Perché «l’ex autista di Carmelo Tripodo, Pasqualino Rega, è consigliere comunale a Fondi». I due sono stati indagati per reati contro il patrimonio, «attualmente il procedimento pende in fase dibattimentale». Rega ha ottenuto una palestra in affitto dal Comune. «La cosa singolare – mettono a verbale i Cc – è che lui se ne infischia di pagare il canone. È moroso da anni e il Comune non lo sfratta, anzi ha elargito sovvenzioni per alcune decine di migliaia di euro all’associazione Olimpica 92 dello stesso Rega». Un altro consigliere comunale di Fondi, Antonio Ciccarelli, eletto in Forza Italia e poi dimessosi, per i carabinieri «è sicuramente collegato alla criminalità calabrese, posto che lo stesso è stato arrestato unitamente a Salvatore Larosa, esponente del clan Bellocco-Pesce di Rosarno, insediato da anni anche lui a Fondi».

C’è un clima da Giorno della civetta a Fondi, il comune che non si deve sciogliere. Le note del tenente Mario Giacona sono tristi come quelle del capitano Bellodi di Sciascia. «Tutto questo intrecciarsi di rapporti familiari, economici e criminali, ha sicuramente condizionato l’attività amministrativa del Comune. L’amministrazione, dopo aver stabilito in modo francamente irrazionale di destinare l’area denominata Pantanelle (un pantano, appunto) ad area industriale – con la conseguenza che per costruire insediamenti produttivi sono necessarie spese di palificazione e bonifica sicuramente più rilevanti che in aree asciutte – ha poi previsto la costruzione di una grossa strada che sostanzialmente è al servizio della Silo srl». La società del senatore Fazzone, del sindaco e di suo cugino, fratello di uno che aveva legami strettissimi con i Tripodo. La mafia e gli imprenditori amici degli amici hanno sempre spadroneggiato a Fondi. Una sola società di Carmelo Tripodo, la «Lazio Net Service», ha ottenuto dal Comune 105mila euro dal 2003 al 2007. Grandi affari a Fondi, il Comune del senatore Claudio Fazzone, l’amico dei ministri. Quelli che...a Fondi la mafia non esiste.

La «guerra santa» del collega Ciarrapico

contro il nuovo ras

di Claudia Fusani

Il senatore scatenato per contrastare l’ascesa del rivale in quello

che è sempre stato il «suo» regno: interrogazioni parlamentari

e giornali sguinzagliati a denunciare il metodo-Fazzone

Una volta era il feudo del ras delle acque minerali, uomo d’affari della Dc andreottiana e nostalgico del Duce. Oggi è il territorio di un giovane senatore ex poliziotto, ciuffo sbarazzino, fedelissimo di Nicola Mancino e con un passato «nei ruoli della Presidenza del Consiglio». Giuseppe Ciarrapico e Claudio Fazzone: in realtà dietro il caso di Fondi, comune dell’agropontino infiltrato dalla mafia che il governo non vuole sciogliere, c’è uno scontro all’arma bianca tra anime diverse del Pdl. Uno scontro senza esclusione di colpi e in cui il gioco dei ruoli consegna proprio al Ciarra il compito di essere il più determinato accusatore di una presunta «malapolitica» di Fazzone. Sul piatto interessi economici e il controllo di un bacino di decine di migliaia di voti.

L’intramontabile e proteiforme Ciarrapico, da qualche anno anche prolifico editore, diventa senatore nel 2008 tra mille polemiche, rinnegando Fini, ma non la fede fascista, protetto da Silvio Berlusconi in persona. Dal 2006, però, l’anima destrorsa dell’agro pontino ha già un suo legale rappresentante: Claudio Fazzone, 48 anni, «cavallo di razza» - dicono - e astro nascente di Forza Italia. Un fenomeno, questo Fazzone: dal nulla, era un poliziotto seppur dalle ottime conoscenze, nel 2000 si candida alle regionali e tira su 27 mila voti. È il più votato d’Italia, dopo Berlusconi. Record bissato nel 2005 con 38 mila preferenze. Accade così dal 2008 i due, il Ciarra e l’ex sbirro, ingaggiano una battaglia che quasi quotidianamente attraversa l’aula del Senato e quelle dei tribunali. Se Fazzone ha presentato qualcosa come quaranta querele per diffamazione contro Ciarrapico, quest’ultimo ha scatenato i suoi giornali (una dozzina di testate tra la Ciociaria e Latina) per raccontare le malefatte vere o presunte di Fazzone & c, dal sindaco di Fondi Luigi Parisella al presidente della Provincia Armando Cusani, appalti truccati, tangenti, abusi edilizi, raccomandazioni, e chi più ne ha più ne metta. Latina oggi e Fondi News sono stati i più solerti e puntuali nello spiegare i passaggi delle inchieste giudiziarie che hanno portato l’amministrazione Fondi, tutti uomini di Fazzone, a un passo dallo scioglimento.

Non se ne sono risparmiata mezza, in questi anni. Il 17 giugno, per dirne una, mentre palazzo Chigi ha già da mesi sul tavolo la richiesta di scioglimento, Ciarrapico interroga il governo «sull’ennesima dimostrazione di cosa accade nell’allegro consiglio comunale di Fondi dove vengono assunti 5 giocatori di calcio arruolati nel “Football club Fondi”».

Appena mette piede in Senato (luglio 2008) il Ciarra presenta un’interpellanza contro il procuratore di Latina Giuseppe Mancini per la vicenda, tre le altre, del campeggio Holiday village «sequestrato per lottizzazzione abusiva e dissequestrato dopo l’inopportuno intervento di Fazzone presso l’ufficio dl giudice». Sempre Fazzone, secondo Latina oggi, salì al Viminale nell’autunno scorso appena arrivò la richiesta di scioglimento di Fondi da parte del prefetto Frattasi. In un modo o nell’altro, quella relazione fu congelata dal ministro Maroni che ne ordinò un approfondimento (giunto poi alle stesse conclusioni). Un dito nell’occhio, il Ciarra. E difatti Fazzone, un mese fa, ne ha chiesto «l’espulsione dal partito».

Vedi anche l'Unità del 5 agosto 2009

Con un'impegnata intervista al Corriere Maurizio Sacconi lancia la campagna d'autunno del governo. Il ministro del welfare disegna il suo modello sociale che propone ai colleghi di esecutivo e ai sindacati «complici», firmatari dell'accordo sulla (contro)riforma dei contratti. Infine, invia un messaggio ultimativo alla Cgil.

Di che modello sociale si tratta? Dalle parole del ministro emerge un sistema di relazioni incentrate sull'esaltazione della competitività e sulla liquidazione di ogni forma di solidarietà generale tra i lavoratori e tra le generazioni. Primo, si ribadisce lo svuotamento dei contratti nazionali di categoria, rinviando ogni forma di simulata contrattazione al secondo livello. Secondo livello che - sotto i colpi della crisi, in un paese segnato dalla frantumazione del sistema industriale in piccole e piccolissime aziende e con un Mezzogiorno in cui i contratti aziendali sono inesistenti - è solo un lusso per pochi. Secondo, con una truffaldina mossa del cavallo il ministro boccia le gabbie salariali di Bossi (tanto ci sono già, sia per i lavoratori che per i pensionati) ma le ripropone in termini, se possibile, ancor peggiori: salari differenziati decentrando i contratti, definiti dalle parti sociali sulla base del costo della vita e della produttività. Siccome, dice Sacconi, non siamo tutti uguali, bisogna differenziare, cioè dividere. Terzo, che ne facciamo di chi resta indietro, di chi perde il lavoro o guadagna poco perché è meno «competitivo», di chi non ha accesso a sostegni e solidarietà? Presto detto: garantiamo a questi pezzenti un welfare caritatevole basato sul «dono», fino a usare il termine stesso di «carità». Si chiama sussidiarietà per nascondere un progetto fondato sullo svuotamento del welfare pubblico, sostituito da assicurazioni private (contrattate tra le parti sociali complici) su salute e previdenza, accompagnate o sostituite da donazioni caritatevoli da parte di chi più ha. Una strage dei diritti, sostituiti dalle donazioni dei ricchi di buona volontà. Le disuguaglianze non sono un effetto collaterale delle politiche economiche, ne sono un elemento costitutivo.

Sacconi ha origini socialiste, pensa di essere di sinistra e ha a cuore bisogni e tutele dei meno fortunati. Dice che il suo governo metterà al centro il «capitale umano». Come? Difendendo il valore della vita. Ed eccoci alla bioetica e all'etica senza bio, con cui Sacconi, dopo essersi presentato come mediatore tra la Lega e le parti sociali amiche, tenta di lusingare le gerarchie vaticane. Fino a pretendere, sempre in difesa della vita, l'alimentazione forzata.

Sacconi ha già raccolto gli applausi di due sindacati su tre. La Cgil si accomodi, o tolga il disturbo. Non è solo un modello sindacale in gioco ma quel che resta della nostra storia sociale, politica e culturale. Riguarda tutti e chiede una risposta forte, all'altezza della campagna d'autunno del governo.

La prima reazione del governo italiano alla morte di 73 cittadini eritrei nel Canale di Sicilia è stata di fastidio e incredulità. Per bocca del suo ministro dell’Interno, che si è ben guardato dall’esprimere cordoglio e pietà, si è gettato discredito sul racconto dei cinque sopravvissuti. Sopravvissuti che – non fossero apparsi in pericolo di vita – sarebbero stati quasi certamente respinti, nonostante il diritto internazionale assegni loro lo status di rifugiati politici. I notiziari televisivi hanno fatto da cassa di risonanza a tale ignominia, lasciando sottintendere l’insinuazione che i disperati giunti a Lampedusa dopo aver visto morire di stenti i loro congiunti, potessero avere chissà quale interesse a mentire.

Sul piano morale, una tale prova di cinismo nei confronti di vittime inermi, che non ha precedenti nella storia repubblicana, giustifica il paragone avanzato ieri da Marina Corradi su Avvenire: evoca cioè l’indifferenza di tanti europei, 65 anni fa, di fronte alla discriminazione e alla deportazione degli ebrei considerati untermensch, sottouomini. Pure allora una martellante propaganda sollecitava a distinguere fra vite degne e vite indegne.

La pietà, come la bontà, è tornata a essere, nella propaganda governativa, un lusso che non ci potremmo permettere. Il dovere assoluto del soccorso in mare rischia di procurare a chi vi ottemperi accuse di favoreggiamento del reato di immigrazione illegale. Le motovedette della Guardia di Finanza hanno ricevuto l’ordine di procedere in mezzo al mare, frettolosamente, alla selezione degli stranieri dei paesi in guerra, titolati a richiedere asilo; anche se è palese l’impossibilità di condurre a bordo le indagini accurate che sarebbero obbligatorie.

Così lo scandalo del prolungato omesso soccorso in mare, denunciato dai pochi superstiti di un’odissea lunga venti giorni, ha trovato legittimazione postuma nell’insensibilità conclamata del ministro Maroni. Assistiamo a un abbrutimento delle coscienze che produce un guasto di civiltà e disonora chi l’ha perseguito. Non è solo la dottrina evangelica a uscirne calpestata, come denuncia la Conferenza episcopale italiana, ma il più elementare senso di umanità.

Da mesi assistiamo allo spettacolo di esponenti politici che esultano per i respingimenti, quasi che ci liberassimo di scorie tossiche e non di persone bisognose. Quando un partito di governo come la Lega diffonde su Facebook un gioco di società intitolato "Rimbalza il clandestino", festeggiando col suono di un campanello la sparizione di ogni barca di migranti, vuol dire che la velenosa ideologia dell’untermensch è di nuovo entrata a far parte del nostro senso comune.

La viltà di tale comportamento è suggellata dallo scaricabarile delle colpe su di una nazione infinitamente più piccola e meno attrezzata della nostra, qual è Malta. Crediamo forse di lavarci la coscienza addossando su la Valletta la responsabilità dei soccorsi? O non stiamo piuttosto assistendo a una lugubre replica della favola del lupo e dell’agnello?

La Libia sta giocando spregiudicatamente con la vita di migliaia di persone e con le aspettative politiche mirabolanti del governo italiano. I migranti vengono trattenuti per mesi nei suoi campi di lavoro e di prigionia; vengono sfruttati con la promessa di guadagnarsi i soldi necessari a salpare verso la sponda nord; e ora vengono di nuovo mandati allo sbaraglio in mare: perché ogni tanto bisogna pur saziare l’avidità dei trafficanti che godono di protezione all’interno del regime corrotto di Tripoli.

Rivelando che fra il 1 giugno e il 20 agosto 2009 le nostre motovedette hanno effettuato 13 interventi, prestando soccorso a 420 profughi del mare, il Viminale riconosce implicitamente che l’accordo bilaterale con la Libia, spacciato sui mass media di regime come risolutivo, è invece un colabrodo. Invece di rifugiarsi dietro al mancato sos di un gommone con 78 persone a bordo prive di strumenti di comunicazione, il ministro Maroni farebbe meglio a chiedere scusa alle persone di cui ha messo in dubbio la parola. Commettendo una bassezza morale.

Per mesi egli ha cercato di darci a bere un’altra favola, secondo cui sarebbe possibile fermare un esodo biblico dall’Africa all’Europa rinforzando la marina militare di Gheddafi. Come se potessimo ignorare che gli affamati nel mondo sono 1 miliardo e 20 milioni di persone, 100 milioni in più del 2008 (stima Fao del 19 giugno). Di questi affamati, 265 milioni vivono nell’Africa subsahariana, 42 milioni nel Vicino Oriente e nell’Africa del nord. Di fronte a una tragedia di tale portata, l’Italia ha finora reagito tagliando i fondi per la cooperazione allo sviluppo e disinteressandosi al rispetto dei diritti umani concernenti le persone che respinge.

Può capitare che per fare buoni affari petroliferi i nostri manager corrompano dei funzionari governativi, come in Nigeria; o che il fior fiore della nostra imprenditoria vada a rendere omaggio a Gheddafi sotto la tenda che un governo compiacente gli ha lasciato piantare nel parco di Villa Pamphili a Roma. Ma di progetti per lo sviluppo, per combattere la fame e le malattie, ci si riempie la bocca solo di fronte alle telecamere del G8, salvo poi dimenticarsene. Perché una cultura miope e razzista trova più conveniente assecondare l’istinto popolare. Si prendono più voti dicendo che abbiamo già troppi problemi noi per poterci interessare ai problemi di persone talmente disperate e diverse da apparirci minacciose.

Il Senatur e Tremonti hanno fatto l'uovo

di Enrico Pugliese

Tra le esternazioni estive dell'on Bossi, quella relativa al recupero produttivo di terreni agricoli male utilizzati affidandoli a giovani imprenditori appare come una delle più sensate. E il coro di apprezzamenti è stato vasto e unanime: ha visto, oltre che la Confidustria, anche il principale giornale di opposizione al governo, la Repubblica. Sulle pagine di quel giornale (rispettivamente lunedì 17 e martedì 18) un amichevole duetto di Carlo Petrini di Slow Food e del ministro dell'agricoltura Zaia esponente della Lega, ha mostrato i grandi vantaggi, le prospettive e - perché no? - i rischi connessi all'inziativa. Con chiaro e netto orientamento di classe, Petrini ha raccomandato con enfasi, tra l'altro, di semplificare la modulistica necessaria per accedere ai benefici dell'iniziativa. Insomma, l'idea è buona, si tratta gestirla al meglio. E il ministro ha prontamente ringraziato

D'altra parte la proposta di Bossi è un po' come l'uovo di Colombo: ci sono le terre male utilizzate, ci sono i giovani pronti a farle fruttare con grande risparmio per lo stato, allora perché non dare ai giovani una opportunità? Poi si tratta di terre demaniali: un anacronismo. O no?

Forse no. Pur riconoscendo un certo radicamento populista (che poi è l'altra faccia della xenofobia) della Lega, a me la cosa puzza un po' di bruciato. È dall'epoca delle ultime leggi eversive della feudalità (un paio di secoli addietro) che le terre demaniali hanno fatto gola ai privati, i quali in generale se ne sono appropriati con la frode o con la violenza. Lo stesso è avvenuto con i beni della mano morta espropriati a ordini religiosi e diventati di proprietà pubblica dopo l'Unità d'Italia.

Le terre dello stato e dei demani comunali se le sono accaparrate prima i galantuomini, poi, quando hanno potuto, anche strati piccolo borghesi. E a volte ce l'ha fatta pure qualche contadino ricco. Ricordo da ragazzo «le terre della comuna» a Montalto delle quali si era appropriato uno che di soprannome veniva detto 'U jngu' (il giovane toro) o, forse, i suoi antenati. Ora a privatizzare i beni pubblici ci pensano Bossi, Zaia e Tremonti.

Questa storica ingiustizia di classe, questa usurpazione, fu oggetto di lotta e di una polemica della sinistra (e nella sinistra). Era un chiodo fisso di Paolo Cinanni che ancora negli anni settanta pubblicava un libro importante per spiegare l'attualità del problema e l'esigenza di intervento dello stato. Non se ne fece nulla. Alle terre usurpate (questo è il termine tecnico) si aggiungono quelle ancora di effettiva proprietà demaniale, ma che sono già in mano a privati con vecchi contratti di affitto a canori irrisori per pascoli che in realtà sono sterminate stalle per bufale all'aperto dove il mangime (prodotto nelle produzioni estensive di mais e cereali) viene portato giornalmente a tonnellate. E si tratta di allevatori vecchi e giovani.

La questione delle terre demaniali venne portata all'attenzione del pubblico e della politica negli anni Settanta dal movimento di lotta per l'occupazione giovanile. Con la loro carica di illusioni e di speranze i giovani alla ricerca di un lavoro (e di un lavoro possibilmente diverso) costruirono cooperative, occuparono terre e le ebbero in concessione, ne presero anche in affitto e tentarono di viverci lavorando etc. Non andò benissimo. Ma fu un movimento importante e qualcuno imparò un mestiere Non è qui il caso di parlarne, salvo per ricordare che allora erano i giovani e non i ministri a chiedere che le terre, pubbliche e private, incolte o malcoltivate, venissero messe a profitto.

L'on Bossi ha parlato anche di spreco del danaro pubblico. E a ragione. Ma questo, per quel che ne so, riguarda soprattutto le grandi aziende private. Nel perverso meccanismo di sostegno alle aziende agricole si possono ricevere (e si ricevono) in maniera del tutto legale contributi per terreni che non si coltivano affatto.

È là che sta il vero spreco. C'è una spinta alla concentrazione che riguarda in maniera particolare le aziende zootecniche, che è l'effetto della PAC, della politica agricola comunitaria spesso sostenuta nei suoi aspetti peggiori dall'Italia. I compagni di Piadena hanno parlato sul manifesto degli orrori della produzione zootecnica su vasta scala e dei disastri ambientali che ad essa spesso si accompagnano. Queste problematiche non sono entrate affatto nel dibattito di questi giorni.

Eppure si sono sprecati paroloni. Federico Orlando alla lettura commento dei giornali su Rai Tre ha parlato di Riforma Agraria. A sinistra si è pensato che per una volta Bossi ha preso una iniziativa che avremmo dovuto prendere noi. Ma non è proprio così. Nel vuoto politico lasciato dalla crisi delle tradizionali organizzazioni degli agricoltori (a partire dal poderoso blocco di potere rappresentato dall'intreccio DC-Coldiretti) è facile inserirsi con proposte populiste e corporative. Ma non so ora i contadini poveri part-time, i semi-proletari agricoli (come si diceva una volta), del Mezzogiorno ( e non solo del Mezzogiorno) avranno nulla da guadagnare dalla proposta di Bossi. E comunque non sembrano esserne al corrente. Con buona pace di Federico Orlando, alla base delle riforme agrarie ci sono le mobilitazioni dei contadini, non le trovate dei ministri.

A rifletterci, più che di un uovo di Colombo forse si tratta di un uovo di Tremonti, come la proposta della privatizzazione delle spiagge.

«Terra e illibertà»

di Tommaso Di Francesco

Antonio Onorati «Problema vero, ma la Lega pensa solo al Nord. E sbaglia sul demanio»

Ad Antonio Onorati, esperto di politiche agricole internazionali - è stato docente universitario presso l'Instituto agronomico d'Algeri e segretario generale del «Comitato italiano per la Fao», e inoltre lui stesso agricoltore, abbiamo rivolto alcune domande sulla cosiddetta «provocazione» estiva di Bossi che in realtà rivela un terreno di intervento specifico del governo che già prevede in finanziaria la voce «terra ai giovani» e un «militante» già schierato nel ministro leghista dell'agricoltura Zaia, pronto a veicolare verso l'agricoltura del Nord i fondi interfnazionali dell'Unione europea previsti allo scopo. Il tutto sempre dentro una ideologia da piccola patria padana ma dentro una sorta di «rimascimento agricolo», per un nuovo «comunitarismo socialisteggiante e prealpino» in difesa e a protezione dei settori sociali sconvolti dai processi della globalizzazione.

Come rispondi alla proposta di Bossi di dare le «terre demaniali ai giovani» e a quella del suo ministro Zaia che lancia il «Rinascimento agricolo»?

Di certo non possono essere considerate alla stregua degli altri «lanci estivi» perché la Lega, con capacità, identifica un problema - quello della crisi dell'agricoltura nazionale ­ e lo riconduce ad un'area di privilegio e consenso e lo trasforma in programma politico. In agricoltura questo è più facile visto che la sinistra, cosiddetta, da oltre un ventennio insegue l'idea che l'agricoltura è un problema e non una risorsa per il paese. In Italia, come in gran parte dei paesi europei, l'accesso alla terra per i contadini è di fatto impossibile e dagli anni novanta in poi assistiamo ad un processo tremendo di espulsione dalla terra con una enorme riduzione del numero delle aziende e del numero degli addetti.(cfr. « Un'agricoltura senza agricoltori»). Con il risultato di una forte concentrazione delle terre agricole in un numero ristretto di aziende. In Italia le aziende con taglia superiore ai 50 ettari coltivano il 40% delle terre ma sono solo il 2,38% delle aziende. Le aziende con taglia inferiore ai 5 ettari coltivano il 15,6% della SAU ma sono il 77.4% del numero totale delle aziende. Le aziende con taglia inferiore ai 2 ettari coltivano solo il 6% della terra e rappresentano la metà del numero totale delle aziende. Con queste dimensioni nessun giovane può iniziare un'attività agricola anche perché esiste un doppio mercato della terra, un falso prezzo «agricolo» ed un vero prezzo, in media 10 volte superiore, di vendita. Per effetto dell'accaparramento di una parte consistente del supporto della Unione Europea (PAC), per l'acquisizione di terreni da parte delle aziende agricole o da parte di investitori extrasettore che era avvenuta a partire dal 2000, non deve sorprendere se «...la crescita maggiore (della dimensione economica) si verifica nelle regioni del Nord (+20,3%), seguite da quelle del Mezzogiorno (+9,3%) e del Centro (+7,7%)». Confermando così il detto «piove sul bagnato», poiché le regioni del Nord stanno trascinando verso di sé - producendo così un forte processo di concentrazione - alcune delle attività agricole con maggior valore (allevamenti ) e di più semplice industrializzazione, senza peraltro arrestare la forte mortalità delle aziende. Infatti ad oggi la creazione di nuove aziende agricole ­ forse non piacerà al ministro Zaia - è un fenomeno scarsamente significativo nel centro e nord Italia, mentre è molto forte nel Mezzogiorno, a testimonianza che in quella parte d'Italia l'attività agricola continua ad esercitare una forte funzione sociale (occupazione e reddito) e che il modello agricolo lì perseguito ha degli elementi di originalità rispetto al resto del paese, elementi che andrebbero compresi a fondo.

Ma se non si vuol mettere mano ai processi di concentrazione delle buone terre in poche aziende di grandi dimensioni sempre più industrializzate, perché si promettono ai giovani che vogliono tornare in agricoltura le terre demaniali? Che terre sono?

Intanto si sa che terre sono e non c'è bisogno di fare una nuova indagine, basta prendere il censimento dell'agricoltura, comune per comune, e rilevare la voce «forme giuridiche - Ente pubblico ­ Stato, regione, provincia, comune e comunità montana». Una parte di queste terre sono coperte da diritti di uso civico che fino ad oggi ­ con grande difficoltà ­ ne hanno preservato l'uso agricolo (spesso per allevamenti bradi), un'altra parte sono di scarsa o cattiva qualità agricola, una parte effettivamente possono essere messe in valore per attività agricole di qualità ma necessitano comunque di supporto per potervi riavviare attività agricole tali da dare reddito. E soprattutto spesso mancano di tutte quelle condizioni che possano rendere la vita di giovani che si istallano accettabile (strade, scuole rurali chiuse da questo governo, sanità, comunicazione, accesso al mercato locale, etc). Chi metterà le risorse necessarie? Chi giudicherà «i buoni progetti»? Chi avrà il privilegio di ricevere le terre demaniali? E a che titolo: uso, concessione, affitto, proprietà? Ci sarà una nuova Opera Nazionale Combattenti alla base del Rinascimento Agricolo? C'è puzza di uso spregiudicato del potere, di privilegi, di diseguaglianze e di illibertà.

L'attenzione all'agricoltura è una novità tutta italiana o un affetto delle crisi globali attuali, tra cui quella agricola è forse la più pericolosa visto che è difficile confrontarsi con un miliardo di affamati?

Nessuna novità. Perfino il governo britannico, che due anni fa aveva sostenuto che «all'Europa non serve una sua agricoltura» oggi lancia un piano di «rivitalizzazione» della sua agricoltura. E negli Usa dopo oltre mezzo secolo di leggi di sostegno finanziario all'agroindustria, il presidente Obama mette nel suo programma elettorale un riferimento forte all'agricoltura, in particolare quella familiare ­ perché negli Stati uniti quasi non esiste più, tanto è stata massacrata proprio dall'intervento federale - che deve produrre per nutrire meglio gli americani. Occorre riconoscere però che il ministro Zaia e la Lega con il loro costante riferimento alla territorialità delle produzioni riescono a far dimenticare altre iniziative prese dai governi di cui fanno parte che hanno già dato i loro effetti rendendo sempre più difficile la sopravvivenza delle piccole e medie aziende familiari, come quella di aver liberalizzato il mercato delle quote latte togliendo la «riserva regionale» (una specie di protezione per evitare che la produzione di una regione si sposti altrove dove c'è chi può ricomprarsi il diritto a produrre), con il risultato che in tutte le regioni c'è stata un'ecatombe di stalle che sarà impossibile riaprire. Anche con le terre demaniali a disposizione.

Diciotto mesi dopo la sua caduta in Senato, e cioè 18 mesi dopo la fine del centrosinistra (dell'Unione, dell'Ulivo e tutto il resto) Romano Prodi ha scritto un articolo, molto importante, per il Messaggero e ha demolito le basi politiche del suo governo e del centrosinistra. Anzi ha fatto di più: ha demolito l'intera esperienza di centrosinistra sul piano europeo e forse mondiale. E ha affermato, con grande nettezza, che è necessario, ai riformisti, cambiare del tutto strada, azzerare l'idea dei compromessi con le politiche moderate, sfidare lo stesso elettorato e prepararsi a progettare una società nuova che modifichi sostanzialmente il capitalismo e la vecchia idea di società di mercato.

L'articolo di Pordi è uscito il giorno di Ferragosto ed è passato abbastanza inosservato, ma è una vera e propia bomba, sul piano politico. Se qualcuno leggesse quell'articolo senza conoscerne l'autore, e poi gli fosse chiesto a bruciapelo: "chi l'ha scritto? , risponderebbe a colpo sicuro: Bertinotti. Non penserebbe mai che invece l'autore di una critica così feroce sia proprio il leader che guidò quella esperienza, sia nella sua prima fase, dal 1996 al 1998, sia nel tratto finale, dopo le elezioni del 2006 fino alla sconfitta definitiva del febbraio 2008.

L'articolo sul Messaggero è molto significativo proprio perché è di Prodi, ed è molto interessante perché mette in discussione tutto, ma proprio tutto quello che il cosiddetto riformismo ha fatto in questi 13 anni. Mette in discussione persino la parola, la parola riformismo, contestando l'ipotesi che il riformismo abbia tentato di compiere delle riforme. No, dice Prodi, da quando è nato, e cioè subito dopo la caduta del governo Thatcher in Gran Bretagna (poco dopo il ritiro di Reagan e la sconfitta di Bush padre negli Stati Uniti) il centrosinistra europeo "ha preso decisioni che non si discostavano da quelle precedenti, sul dominio assoluto dei mercati, sul peggioramento nella distribuzione dei redditi, sulle politiche europee, sul grande problema della pace e della guerra, sui diritti dei cittadini e sulle politiche fiscali...". A pagina 4 pubblichiamo integralmente l'articolo di Prodi. Comunque la sostanza è questa. E forse la parte più interessante dell'articolo è la parte finale, nella quale Prodi incita le forze politiche che si richiamano al centrosinistra o al riformismo a gettare via tutta l'eredità del passato e a ricominciare da capo a progettare una società diversa da quella attuale. Anche a costo di di dover rinunciare a una parte del proprio elettorato e di dover cercare nuovi pezzi di elettorati in settori nuovi della società.

Cosa dice, in sostanza, Prodi? Quello che da un po' di tempo cercano di dire gli esponenti più "illuminati" (per usare la vecchia terminologia politica) della sinistra. Azzeriamo e proviamo a ricostruire una nuova sinistra, non più divisa tra moderati e radicali e non più costretta a schiacciarsi sul centro o addirittura sulla destra. E neppure - viceversa - a invocare ogni piè sospinto la sua purezza rivoluzionaria. Facciamo saltare le vecchie barriere politiche, azzeriamo i vecchi campi degli schieramenti e delle vecchie correnti, e vediamo se possiamo mettere insieme un progetto di riforma della società che non dia per scontati i pilastri sui quali oggi si regge il capitalismo. Cioè la dittatura del mercato e il valore-competitività.

Naturalmente si può rispondere a Prodi anche con stizza. Non è stato forse lui a guidare l'esperienza, che oggi tratta persino con qualche derisione, del cosiddetto "Ulivo mondiale"? E dunque non pensa di avere qualche responsabilità nel suo fallimento, e di dover dire che aveva torto quando respingeva con sdegno le osservazioni che gli venivano da sinistra, sulla riforma del welfare, ad esempio, o sulla guerra, o sulla mancanza di strategia e di progetto del suo governo?

Però, diciamoci la verità, è abbastanza difficile trovare tra i dirigenti dei vari partiti di sinistra e di centrosinistra qualcuno che sia senza colpe, privo di responsabilità per la sconfitta. E allora, magari, possiamo anche dirci: chissenefrega, oggi, della ricerca dei colpevoli o dei "più colpevoli". E' l'ora forse, di interrompere il processo ai responsabili e le accuse reciproche. E persino è l'ora di sospendere la tiritera sulla necessità di una nuova generazione dirigente, e sull'accantonamento dei vecchi eccetera eccetera. Se c'è una nuova generazione dirigente, benissimo, facciamogli spazio. Ma non stiamo a trasformare il rinnovamento politico in un controllo delle carte d'identità e della nate di nascita, piuttosto prendiamo per buona l'analisi di Prodi e vediamo se ci sono le forze sufficienti per rifondare un centrosinistra che rinunci alle attrazioni fatali verso Berlusconi ( il moderatismo veltroniano ) e si proponga non come pura e semplice forza di governo, ma come forza di governo del cambiamento, e cioè di un progetto politico che porti ad un ridimensionamento del mercato, a una fortissima riduzione delle differenze sociali, e ad un netto innalzamento delle libertà

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