Tempo qualche giorno e rimuoveremo dalla nostra memoria i morti di Messina, così come abbiamo fatto per quelli dell’alluvione di Capoterra e di tutte le calamità cosiddette naturali ma che, in realtà, sono derivanti dall’opera devastatrice del genere umano e che hanno attraversato l’Italia degli ultimi 50 anni.
Il sottosegretario Bertolaso dice che sono necessari un grande piano nazionale di risanamento e almeno 25 miliardi di euro per le zone a rischio. Buon senso vorrebbe che i nostri governanti, quelli locali e quelli nazionali, dicessero STOP ai provvedimenti di ripresa edilizia, camuffati da piani casa; STOP alle opere faraoniche quali il Ponte di Messina, per investire invece gli stessi denari nel risanamento delle infrastrutture della Sicilia e della Calabria, magari facendo attenzione alle pericolose intrusioni della criminalità organizzata; STOP alle centrali nucleari perché in una nazione così dissestata, con un malaffare diffuso e con uno scarsissimo senso di responsabilità individuale e collettivo, anche un minimo errore nello stoccaggio delle scorie sarebbe causa di tragedie inimmaginabili.
Ma i nostri governanti faranno e diranno di tutto, tranne applicare quel buon senso prima richiamato. Anzi, sono iniziati i consueti balletti di dichiarazioni tra gli amministratori locali e la protezione civile su chi siano i responsabili. Accade oggi per Messina, è accaduto ieri per Capoterra. Il risultato si conosce già: nessuno si assumerà neanche la più piccola responsabilità, né come singolo cittadino né, tantomeno, come amministratore. Berlusconi, dal canto suo, infonderà un’illusoria speranza che si farà come in Abruzzo, quando gli abruzzesi ben sanno che per risanare la loro terra ci vorrà tempo e volontà di fare piani rigorosissimi.
E le popolazioni coinvolte che cosa fanno, a parte il gridare che “sono state lasciate sole”? Perché non chiedono ai governanti di cambiare la direzione della loro politica e di rimettere in ordine il territorio? Perché non chiedono di interrompere la commistione tra politica e rendita immobiliare che ha avvelenato il Paese in termini sociali oltre che in termini ambientali?
Se non in limitati casi, non lo chiedono perché ognuno spera di mettersi d’accordo con l’amministratore di turno sui metri cubi da costruire, non oggi se costui non ne ha le possibilità ma magari un domani. In Italia è diventato un fatto “normale” considerare il suolo un vuoto da riempire di cemento perché, così inteso, è diventato una concreta possibilità di trarre profitti e di scaricare i rischi sul pubblico. Se ciò è praticato su grande scala dalle imprese, su micro scala è una logica acquisita dai singoli, proprietari o no che siano. Ovvero, si sono saldati gli interessi di pochi con l’universo variegato di piccoli e potenziali proprietari, costituendo un vero e proprio blocco sociale.
Per costoro è evidente che una politica territoriale fatta di regole ferree e inderogabili è considerata un ostacolo da abbattere quanto prima: sta accadendo per il Piano Paesaggistico istituito dall’amministrazione Soru che di fatto viene smantellato, grazie ai recenti provvedimenti di ripresa edilizia, senza prendersi peraltro il disturbo di predisporne un altro.
Eppure, le tragedie devono pur servire a qualcosa. Che almeno aiutino a riflettere sugli scempi ai paesaggi urbani e naturali di questi ultimi decenni. Scempi che non sono mai serviti a risolvere i problemi di chi non ha una casa, mentre sono stati utili alle pratiche speculative di ogni tipo. Se vogliamo che la tragedia di Messina sia l’ultima, si faccia almeno in modo che si frantumi la sciagurata idea che il territorio sia un vuoto da riempire perché ogni tragedia ci ha finora detto che è giunto il momento di soffermare lo sguardo sulle penose condizioni del nostro Paese.
E se la politica non lo capisce, che venga mandata a casa senza tanti complimenti, l’Italia è ricca di giovani sensibili e preparati.
È arrivata la decisione che s’intravedeva già prima della discussione e della camera di consiglio. Nelle ultime settimane i giudici costituzionali avevano studiato e cominciato ad affrontare tra loro il nodo del Lodo Alfano, sciogliendolo (a maggioranza) con l’idea di rispedire al mittente una legge illegittima.
L’altro ieri hanno ascoltato gli avvocati, tutti schierati a difesa della norma blocca- processi per le più alte cariche dello Stato, ma senza cambiare idea. Anzi. Qualche accenno nelle arringhe ha convinto almeno un paio di indecisi a dire che proprio no, un Lodo così fatto e così scritto non andava bene.
Qualcuno nella minoranza di chi voleva salvare la norma, almeno nella parte che sospendeva il processo milanese a carico di Silvio Berlusconi per la presunta corruzione dell’avvocato Mills, ha provato a proporre le cosiddette «soluzioni intermedie»: sancire l’incostituzionalità ma sanandola con una sentenza che lasciasse intatta la parte che più interessava il governo e la maggioranza che lo sostiene. Non ce l’ha fatta, e nemmeno ha insistito più di tanto. Ha capito in fretta, dopo la decisa introduzione del relatore Gallo, che le sue argomentazioni erano troppo deboli rispetto al «macigno» già individuato dalla maggioranza dei giudici: una legge illegittima due volte, nella forma e nella sostanza. Perché doveva essere costituzionale e non ordinaria; e perché il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge è uno di quei capisaldi che per essere intaccato ha bisogno di tali giustificazioni, filtri e controfiltri (com’era ad esempio la vecchia immunità parlamentare abrogata nel ’93) che forse il Lodo Alfano non sarebbe andato bene nemmeno nella veste di una riforma della Costituzione. Ovviamente bisognerà attendere le motivazioni della sentenza, ma ieri sera era questa la più accreditata interpretazione della decisione della Corte. Le voci che filtrano dalla riservatezza che avvolge il palazzo della Consulta parlano di una votazione finita 9 a 6 in favore della bocciatura, ma qualcuno ipotizza un scarto addirittura maggiore, 10 a 5 o anche di più. Circolano liste di nomi coi voti espressi, verosimili ma senza certezze. Nell’elenco di chi avrebbe voluto mantenere in vita la legge ci sono i tre giudici votati dal Parlamento e indicati dal centrodestra (Frigo, Mazzella e Napolitano) più due o tre eletti dalle alte magistrature. Tutti gli altri si sono detti contrari (compresi i cinque nominati dal capo dello Stato e il presidente della Corte Amirante, che nel 2004 aveva steso le motivazioni della bocciatura del Lodo Schifani), al termine di una camera di consiglio dai toni rimasti sempre pacati e tutto sommato sereni. Anche da parte di chi vedeva profilarsi la sconfitta e ha tentato di scongiurarla confidando sui desideri istituzionali di una soluzione meno traumatica.
Nemmeno l’argomento che ancora ieri sera veniva sbandierato dai parlamentari del centrodestra (la sentenza sul Lodo Schifani non aveva detto che serviva una legge costituzionale) ha fatto breccia tra i giudici. Che in grande maggioranza, 11 su 15, non facevano parte del collegio del 2004. Però sanno leggere le motivazioni dei giuristi; è vero che nel precedente verdetto è scritto che il vecchio Lodo era illegittimo «in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione», senza menzionare il 138 che regola le riforme della Carta, ma subito dopo c’era un’aggiunta: «Resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale ». Il che può significare che una volta individuate le due violazioni citate potevano essercene anche altre, ma si decise di non entrare nel merito. Perché considerate «assorbite», appunto, dalla prima bocciatura.
Questa dunque la sintesi della discussione di palazzo della Consulta, per come s’è svolta sul piano tecnico e giuridico. Però tutti i giudici erano consapevoli che la loro decisione avrebbe avuto anche significati ed effetti politici, e quindi può esserci una lettura anche «politica» della sentenza. C’è chi pensa, ad esempio, che con questo verdetto la maggioranza degli inquilini della Consulta ha voluto rivendicare la propria autonomia rispetto a qualunque pressione o tentativo di influenzare le proprie decisioni; dai più felpati ai più espliciti, come la drammatizzazione dell’attesa nei palazzi della politica, gonfiata dalle dichiarazioni sempre più allarmate accavallatesi fino a pochi minuti prima della sentenza.
La Corte ha fatto vedere di essere impermeabile a tutto ciò, e ha fatto sapere che se si vogliono riformare la Costituzione e i suoi principi fondamentali bisogna farlo con chiarezza e con le procedure previste, non attraverso qualche scorciatoia. È come se le argomentazioni usate nell’udienza pubblica dai difensori di Berlusconi su una Costituzione materiale ormai diversa da quella scritta — quando l’avvocato Pecorella ha evocato un capo del governo eletto direttamente dal popolo; o quando l’avvocato Ghedini ha sostenuto che la legge è uguale per tutti ma la sua applicazione no — avessero svelato un tentativo di cambiare le regole (o darle per cambiate) senza rispettare le procedure. Disegnando una situazione di fatto diversa da quella scritta nelle leggi, e prima ancora nella Costituzione. Così non è e non può essere, hanno stabilito i giudici della Consulta. Certamente alcune immunità o protezioni dai processi penali si possono prevedere e stabilire, ma assumendosi la responsabilità di farlo con gli strumenti adeguati. Che non a caso prevedono l’ipotesi del referendum confermativo. Passando da quella porta la riforma è praticabile, altrimenti no. Anche quando le esigenze della politica fossero diverse.
Due secoli fa il malato d’Europa era l’Impero ottomano, guarito attraverso radicali terapie laiche. La prognosi è severa nel caso clinico Italia 2009: malattia organica, ormai conta trent’anni, da quando governi corrotti aprono l’etere al pirata venuto dalla P2, covo d’una pericolosa criminalità eversiva in colletto bianco.
E s’insedia, monopolista d’una televisione con cui disgrega i neuroni collettivi; tre volte occupa Palazzo Chigi adoperando i mangiatori dell’erba televisiva quale massa elettorale. Mentre istupidiva l’audience rastrellando pubblicità, allungava i tentacoli negli affari: editoria, banca, finanza, commercio, cinematografo, assicurazioni e via seguitando; ogni atto del governo in materia economica tocca interessi suoi (in quale misura gli riesce comodo lo scudo fiscale?); nessuno lo vede eroico asceta. Chiamarlo illegalista è eufemismo: edifica l’impero mediante corruzione, frode, plagio; vince le cause comprando chi giudica. Le guerre da corsa implicano dei rischi. Sinora li ha elusi, aiutato da oppositori imbelli o quasi complici: saliti due volte al governo, chiudono gli occhi sul conflitto d’interessi che trasforma l’Italia in una signoria privata indefinibile secondo le categorie politiche; ha tante pendenze e se ne disfa mutando le norme penali (vedi falso in bilancio) o attraverso partite defatigatorie, finché il tempo estingua i delitti; diabolicamente fortunato, esce indenne dal caso monstre perché, a causa d’una svista legislativa poi corretta, la pena inasprita non gli risulta applicabile e la meno grave, graziosamente addolcita dalle attenuanti cosiddette generiche, sta nei limiti in cui opera la prescrizione del reato. Salvo per il rotto della cuffia, ma Dio sa quanta materia pericolosa nasconda un sottosuolo blindato da scatole cinesi e paradisi fiscali. Gli serviva un’immunità: gliela votano, invalida, ma nel dichiararla tale (gennaio 2003), la Corte scioglie questioni collaterali; risalito al governo, la pretende, minacciando misure devastanti quale sarebbe la sospensione dei processi (almeno due su tre), incluso il suo, dove l’accusa, congeniale ai precedenti, è d’avere corrotto l’avvocato inglese testimone (il lupo non perde i vizi); in lingua anglosassone, bill of indemnity, così nei cinque anni seguenti nessun pubblico ministero gli viene tra i piedi; poi scalerà il Quirinale, padrone d’una Repubblica ridisegnata sulle sue molto anomale misure. Vengono utili le metafore inglesi: affollate da asini che dicono sì muovendo la testa (nodding ass), le Camere votano; il Capo dello Stato non obietta; l’indecoroso bill diventa legge ma obiettano i giudici chiamati ad applicarla e gli atti finiscono alla Consulta.
Cominciamo dalla prospettiva: questioni simili sono definibili in vacuo, fuori d’ogni riferimento all’attuale realtà italiana, come fossimo sulla luna tra spiriti disincarnati? No, il controllo delle leggi cade in spazi storicamente determinati: la Corte le vaglia, caso mai fossero passibili d’uso perverso, contro i fini dell’ordinamento definiti dalla Carta; e sappiamo lo sfondo. Eccolo, l’Italia invasa dal plutocrate populista, pifferaio, re delle lanterne: non sa un acca dell’ars gubernandi occidentale, coltiva gl’interessi suoi, converte il pubblico in privato, odia i poteri separati e non vede l’ora d’abolirli in una regressione al dominio prepolitico; perciò l’Europa trattiene il fiato davanti allo scempio italiano. Non sto chiedendo scelte in odio al tiranno: sarebbe decisione politica; idem se santificasse il fatto (monopolista dei poteri esecutivo, legislativo, mediatico, economico, s’impadronirà anche del giudiziario); e sottintendeva logiche d’un quietismo padronale l’argomento addotto dall’Avvocatura dello Stato (una sentenza ostile al famigerato lodo indebolirebbe il governo, ergo lasciamo le cose come stanno). La politica non c’entra. Va stabilito se nell’Italia 2009 le norme fondamentali tollerino un capo del governo immune: i tre contitolari hanno la funzione delle finestre dipinte, salvano la simmetria; l’interessato è lui; e notiamo en passant come sia l’unico, mancando ogni termine analogo (Europa, Usa, ogni Stato evoluto).
Nel merito la questione è presto risolta. Gli avvocati della corona d’Arcore ventilano un’immunità compatibile con l’art. 3 (i cittadini eguali davanti alla legge): l’art. 24 Cost., c. 2, garantisce la difesa, diritto inviolabile; e come può difendersi l’augusta persona, dedita alla res publica? Fossi in loro, non insisterei: Sua Maestà esercita una napoleonica capacità d’attenzione sincrona dividendosi tra gli affari suoi e le cose pubbliche, talvolta mischiandoli; e le cronache dicono quanto tempo gli resti da spendere nel rituale serotino. Suona futile anche il sèguito, che la gestione della res publica esiga uno scenario psichico quieto: sapersi imputato glielo disturba, con danni ai sudditi. La versatilità dell’homo in fabula scongiura ogni pericolo. Anche quest’argomento, poi, riesce pericoloso dove tira in ballo i pregi del lavoro tra palazzo e ville: non merita tutela l’interesse dei cittadini ad avere governanti seri?; lo sarebbe un barattiere cronico? Da notare come il bill of indemnity sia assoluto: copre ogni delitto comune, fosse anche enorme (prassi mafiosa, narcotraffico planetario, Spectre); chiunque abbia la testa sul collo ammetterà che sia un privilegio eccessivo. Importa poco che le Camere obbedienti non l’abbiano votato come legge costituzionale (mancava il tempo, incombendo la decisione nella maledetta causa milanese): nascerebbe altrettanto invalido sotto tale forma, perché vigono delle priorità tra gl’interessi tutelati dalle norme fondamentali; e qui è in gioco niente meno che la divisione dei poteri. Concedergli l’immunità significa ungerlo monarca assoluto, in figure reminiscenti della scalata hitleriana 1933-34. Mancano solo la legge dei pieni poteri e il cumulo cancellierato-presidenza della Repubblica, fusi nel nome mistico "Führer". C’è poco da stare allegri, anzi cade l’umore: una volta nascevano dei giuristi; che salto da Bartolo, Baldo, Alciato ad Angiolino Alfano, ma siamo equanimi. Chi l’aveva preceduto nell’ultimo governo soi-disant centrosinistro? Clemente Mastella, attuale europarlamentare berlusconiano.
«Non tenemo ’i piccioli». Non hanno i soldi però la voce sì. Questa non è una storia di omertà, di paesani fatalisti che aspettano la disgrazia come un tempo si attendeva il raccolto. Non è solo una questione di “abusivismo”, la parolina magica che qui va sempre bene e che Bertolaso ha gettato in pasto ai giornali e alle televisioni per smarcarsi dalle sue responsabilità. Ci sono scelte “colpevoli”, se è vero che tutti sapevano del rischio e non si è provveduto. E negligenza, dove si sono lasciate “stagionare” le pratiche: i cittadini costituendosi in comitati, i vigili spiccando multe, i politici locali sollecitando l’intervento dello Stato, perché qui non c’è una lira, se è vero che il Comune è in pre-dissesto, scampato al fallimento ma pur sempre commissariato in due occasioni negli ultimi 5 anni. Ma dall’alto è partito lo scaricabarile: colpa di abusivismo e sindaci permissivi. Questo il coro. Dai ministri alla Protezione civile fino al premier. È più facile additare che rispondere.
Il ministro dell’ambiente, la siracusana Stefania Prestigiacomo, potrebbe spiegare (e con lei il collega Giulio Tremonti: il documento è a doppia firma) perché hanno scelto di depennare dai finanziamenti «le opere di mitigazione del rischio idrogeologico nella zona di Giampilieri», così come indicate dall’assessorato all’ambiente della Sicilia. Il governo aveva comunicato la disponibilità di106 milioni di euro per la difesa del suolo, destinati all’Isola. Aveva chiesto alla Regione quali progetti urgeva realizzare e fu indicata la copertura di 81 interventi, classificati per luogo e preventivo. Sono elencati nella lettera spedita al ministero della Prestigiacomo il 9 novembre 2009: al punto n.40 c’è la richiesta di 1 milione per la sistemazione di Giampilieri. Niente di corposo e organico, solo una toppa. Ma quando la Prestigiacomo e Tremonti compilano il decreto, e lo trasmettono alla Corte dei Conti, le opere finanziate sono 71, dieci di meno: fra le altre, è stata tolta la messa in sicurezza della montagna, che la Regione Sicilia ha classificato ad alto rischio. Ma ignorata dal governo. Perché si è preferito addobbare il lungomare di Trapani? O ritoccare Panarea? Questa è una risposta che manca. Ma il ministro sceglie la solita via: «Cito per danni l’Unità, ha diffuso notizie palesemente false». Questo giornale ha pubblicato documenti che la stessa Prestigiacomo ha firmato. Non è l’unica risposta che manca. Il sindaco di Scaletta Zanclea, Mario Briguglio, è nel mirino per le case costruite nella foce del torrente. Si tratta di una ristrutturazione, tecnicamente non è un abuso, ma resta lo scempio: «Due anni fa – dice lui – ho chiesto 20 milioni di euro per mettere tutto in sicurezza. Me ne hanno promessi 500 mila, ma i lavori non sono mai stati fatti: non c’erano i soldi».
Certo, le case abusive andrebbero abbattute e non ristrutturate. Negli ultimi due anni e mezzo l’attività di controllo del nucleo “tutela del territorio” della polizia municipale ha inventariato una cittadella da demolire: mille e 191 manufatti da abbattere, il 40% di questi (450 immobili abusivi) si trovano nella zona sud – quella alluvionata – e il 15% proprio a Giampilieri. Questa la denuncia: nessuna di queste demolizioni è stata eseguita. Niente. Né da parte del comune (in danno dell’utente) né dall’inquilino o padrone stesso, di sua iniziativa. E niente si è fatto sul costone che sovrasta Giampilieri, non quello franato ma quello contiguo: la protezione civile ha in mano l’opera di sistemazione, da due anni: fra rimpalli e bisticci, i lavori sarebbero dovuti iniziare oggi. Questa volta c’erano perfino i “piccioli”, 780 mila euro. Ma non c'è più la montagna.
MESSINA — Beffardo il gran cartello che campeggia fra il torrente e la montagna di Giampilieri, accanto alla scuola trasformata in ricovero, davanti ai mezzi dei vigili del fuoco. Ecco il «Giardino dei limoni» con l’annuncio che si vendono ville. Per la verità sembrano case popolari, appartamenti a schiera. Costruiti, come è accaduto in questo borgo disastrato per altri 32 progetti, con emendamenti e varianti in deroga al rigido piano regolatore che ancora rimproverano al sindaco-magistrato di Messina, rimasto in carica per quattro anni fino al 1998. Ed è derogando oggi, derogando domani e anche il giorno dopo, che si è arrivati a quota 800, con altrettante modifiche capaci di trasformare il cosiddetto Prg in carta straccia, piantando palazzoni ovunque, cementificando i torrenti e pure le foci.
Per l’improbabile Giardino dei limoni il proprietario del terreno, Domenico Lupò, è pronto a mostrare il via libera del consiglio comunale. Come l’ebbe, cento metri più giù, sempre all’ombra delle frane di Giampilieri, un dinamico affarista, Cesare D’Amico, costruttore di tre grigie cooperative da 60 appartamenti per poi tornare a Messina, rilevare il Jolly e finire dentro per bancarotta fraudolenta.
Ecco alcuni dei beneficiari di quella che in modo grossolano viene chiamata la «variante mille deroghe». Con un numero gonfiato forse perché riflette l’aspirazione di palazzinari ben inseriti nel sistema città. Come sa l’ex sindaco- magistrato Franco Pulvirenti, un giurista di sinistra oggi impegnato in politica «solo via mail». Sorride amaro. Soprattutto pensando a quel piano regolatore che varò appena insediatosi: «Capii subito che bisognava farne uno rigido, molto rigido. Scoprii una bozza gonfiata per 300 mila abitanti. Ma se siamo poco più di 200 mila? Ordinai di ridurre. Calcolammo solo i bisogni veri. Imponendo i vincoli. Soprattutto su colline e alvei dei torrenti. Vincoli ignorati. Appunto, con varianti e deroghe che hanno stravolto il Prg». E anche se adesso se ne sta in disparte, un po’ schifato dall’andazzo, indica la tecnica degli affaristi: «Il privato presenta un progetto e chiede una piccola variante al Prg. L’ufficio tecnico dà un parere a trasiri e nesciri
(a entrare e uscire). Il costruttore si muove. Parla, avvicina. E nel consiglio comunale dove poi la variante diventa elastica si creano maggioranze casuali, intese trasversali, la delibera passa, il palazzo va...».
Sa cosa accadeva anche un ex consigliere comunale di An, l’avvocato Francesco Rizzo, oggi difensore civico a Lipari: «Uno dei trucchi è portare l’edificabilità da 1,5 a 3. Su un metro quadrato puoi realizzare un metro e mezzo di altezza? Porti l’indice a tre e raddoppi il guadagno».
Il caso più clamoroso, culminato in un’inchiesta con l’arresto dell’ex presidente del consiglio comunale Umberto Bonanno, dell’avvocato che mediava, Pucci Fortino, e di sei spregiudicati imprenditori è quello del «Green Park», con un indice passato da 1,5 a 5. Risultato: tre orrori in cemento armato già realizzati sotto i viadotti dell’autostrada e altri tre rimasti sulla carta. Di «green» non c’è traccia su questa arida arteria che s’inerpica poggiata su un torrente, il «Trapani Alto», soffocato, letteralmente tappato, come indicano Anna Giordano del Wwf e l’avvocato che sostiene gli ambientalisti, Aura Notarianni. Oltrepassati gli scheletri sotto sequestro giudiziario, ecco «Il Grande Olimpo», come pomposamente annuncia il cartello, fra pecore, casermoni piantanti sulla collina e una discarica aperta sul torrente che, ancora cento metri più sopra, si vede. Il letto è largo almeno venti metri. Di botto ridotti a un buco alto due metri, proprio un canale che corre giù, sotto l’asfalto, per un ripidissimo pendio di oltre un chilometro. Un imbuto.
«Naturale che ad ogni ondata di piena l’acqua rischi di traboccare trasformando la strada in una pericolosa cascata», spiega il geologo Alfredo Natoli, che con dieci suoi colleghi fu incaricato di redigere la carta geologica della provincia di Messina: «La consegnammo nel 2000, ma fingono di non sapere che esistono torrenti soffocati, terreni franosi sui quali continuano a costruire...».
E s’affaccia verso la collina «Paradiso », vista mozzafiato sulla Calabria. Per arrivarci ci si inerpica su un budello dove un camion passa a stento, «Strada Fosso», lo stesso nome del torrente che sta sotto, appunto infossato. Arrivi in cima e scopri gli operai al lavoro su quattro palazzoni ancora grezzi, vicini vicini, altra deroga. E, quindi, in regola. Non a caso fa bella mostra di sé il tabellone della ditta Minutoli, colorato ovviamente di verde e presuntuoso perché nel «Victoria Park» non c‘è spazio per piantare un albero. Ma il sogno di un innamorato può esplodere anche su un muro grezzo: «Ti giuro voleremo sull’isola ke non c’è».
Qui non c’è più il torrente. Nascosto sotto la stradina con una grata ogni trecento metri. S’intravede il letto compresso del corso d’acqua. Uno di quei torrenti da niente che possono diventare valanghe d’acqua e fango. Ma senza spazio. Sempre più stretto lungo la discesa che va giù dalla collina per due chilometri di palazzoni. Una vena tortuosa che si stringe fino a sfociare sulla litoranea della città, il mare di fronte. Basta andare sulla spiaggia per capire dove finisce. Interrato sotto le pedane del «Vintage Drink & Food», stabilimento balneare e pub notturno. «Acque bianche sono», giura il capocantiere che sta smontando tutto perché siamo a fine stagione e ricompaiono i due lunghi tubi nei quali è incapsulata la foce del torrente. In pieno centro città. Senza che nessuno veda, senza bisogno di deroghe.
Poco più di sette anni fa — era il 2002 — scrivevo dell'immunità parlamentare e avanzavo una proposta: «consentire al parlamentare di scegliere tra sottomettersi al giudizio della magistratura o invocare l'immunità. Però nel secondo caso non si potrà ripresentare alle elezioni e dovrà affrontare, a mandato scaduto, il corso della giustizia. Questa proposta protegge il rappresentante nell'esercizio delle sue funzioni ma non consente a nessuno di sfuggire alla giustizia per tutta la vita. Immunità sì; ma non un’immunità che trasformi le Camere in un santuario di indiziati in altissimo odore di colpevolezza».
Va da sé che questa proposta non fu accolta. Venne invece approvata una legge che fu poi bocciata, nel 2004, dalla Corte Costituzionale. Così ora ci risiamo con il cosiddetto Lodo Alfano. Le novità sono due. Intanto scompare la parola immunità sostituita dalla melliflua dizione «sospensione del processo penale». In secondo luogo questa immunità (perché tale è) si applica soltanto alle più alte cariche dello Stato, e così diventa, in apparenza, «immunità salva-quattro».
In apparenza, perché anche questo è un camuffamento. I presidenti delle due Camere non hanno mai chiesto un’immunità privilegiata, speciale, né si capisce perché ne abbiano bisogno, e cioè perché debbano essere insostituibili. Quanto al capo dello Stato, l'inquilino del Quirinale è già tutelato dall'articolo 90 della Costituzione, che lo rende indiziabile soltanto per «alto tradimento e per attentato alla Costituzione»; e in tal caso «è messo in stato d'accusa dal Parlamento» (non dalla magistratura). Ne consegue che la «salva- quattro» è in realtà una cortina fumogena per una leggina ad personam (davvero con fotografia) che è soltanto «salva-uno» che è soltanto salva-Cavaliere.
Il fatto è che in tutte le democrazie un capo del governo viene sostituito senza drammi e senza che questo evento «possa ostacolare seriamente l'esercizio delle funzioni politicamente più elevate» (come sostiene melodrammaticamente l'Avvocatura dello Stato). Melodrammatico o no, l'argomento (discutibilissimo) non è un argomento giuridico. La Corte, che udirà il caso domani, dovrà soltanto valutare se il privilegio di intoccabilità a vita appetito da Berlusconi sia costituzionalmente accettabile.
Già, a vita. Il Lodo parla di sospensione temporanea; ma sembra che lasci aperto, senza dare nell'occhio, un varco fatto su misura per Berlusconi. Nel testo Alfano, articolo 5, la «sospensione non è reiterabile » se applicata a successive investiture in altre cariche; ma tace su successive investiture nella stessa carica. Pertanto basta che Berlusconi si faccia sempre rieleggere presidente delConsiglioperessere salvaguardato sine die , senza termine.
Intravedo già che l’onorevole avvocato Ghedini dirà proprio così.
Mi chiedo se la mia proposta del 5 agosto 2002 non fosse meglio dei mostriciattoli
C'era un solo Paese, fino a ieri, dove si potesse definire una "farsa" una manifestazione per la libertà di stampa in Italia. Indovinate un po', il nostro. Nel resto d'Europa e dell'universo democratico, l'anomalia italiana è ormai evidente a tutti. Bene, da oggi diventa più difficile per il potere negarla. La folla di cittadini che ha riempito all'inverosimile Piazza del Popolo e dintorni ha avuto l'effetto di far crollare un muro di finzione.
Ha portato un pezzo di realtà sulla scena pubblica, restituito un senso alle parole rubate dal marketing politico, come popolo e libertà, segnalato l'esistenza e la resistenza di un'Italia aperta al mondo, allegra e pronta a scendere in piazza per i propri diritti. Ed è un segnale del paradosso orwelliano in cui ci tocca vivere che proprio questa Italia si presenti in piazza al grido: "Siamo tutti farabutti".
È crollata in un pomeriggio una finzione costruita da mesi e anni di propaganda. Quella per cui la questione della libertà d'informazione in Italia è soltanto una lotta di élites nemiche, di qui Berlusconi e i suoi media, di là Repubblica e un pugno di giornalisti di tv e carta stampata, spalleggiati dalla fantomatica Spectre internazionale del giornalismo di sinistra. Se così fosse, aggiungiamo, avremmo già perso da un pezzo, visto i rapporti di forza.
Ma la questione è altra ed è quella che vede benissimo l'opinione pubblica internazionale. Da un lato c'è una concezione classica delle libertà democratiche, per cui il governo e l'informazione fanno ciascuno il proprio mestiere. Dall'altro, il fronte berlusconiano, dove è affermata ormai a chiare lettere una concezione di democrazia mutilata in cui i media debbono astenersi dal criticare il potere politico, perfino dal porre domande non previste dal protocollo. Altrimenti rischiano ritorsioni economiche, politiche, giudiziarie.
Sullo sfondo di un irrisolto e monumentale conflitto d'interessi, il progetto di Berlusconi è di costringere l'intero campo dell'informazione a due sole possibilità. Una metà militante a favore del padrone, cioè servile. E l'altra metà comunque deferente.
Nei quindici anni di carriera politica, Berlusconi non era mai giunto tanto vicino a raggiungere questo obiettivo come al principio del suo terzo mandato. Una televisione e una stampa prone ai voleri del governo, in molti casi liete di fare da semplici megafoni, hanno scortato il premier fra infinite passerelle nella luna di miele con l'elettorato. Poi qualcosa si è rotto. Le voci non servili o non deferenti rimangono poche, ma suonano forte e soprattutto sono sostenute da un crescente sostegno popolare.
Perfino il pubblico televisivo, il "popolo" di Berlusconi, ha cominciato a ribellarsi a una rassegnata deriva. Per il re delle antenne, abituato a riferire dell'azione di governo prima (o solo) in tv piuttosto che in Parlamento, far segnare record negativi di ascolti, quando il "nemico" Santoro polverizza un primato dopo l'altro, è davvero un brutto segno di declino. La risposta di massa in piazza all'appello del sindacato giornalisti è un altro pessimo segnale. Pessimo, s'intende, per l'egemone. Magnifico per chi continua a pensare all'Italia come a una grande democrazia occidentale.
Non sappiamo se l'opinione pubblica è davvero e ancora "una forza superiore a quella dei governi", come scriveva Saint Simon agli albori della democrazia. Nell'Italia di oggi è in ogni caso una forza superiore a quella di un'opposizione politica divisa, confusa e a giudicare dagli ultimi voti parlamentari anche distratta. Il potere ne è consapevole e infatti gli attacchi agli organi d'informazione in questi mesi hanno raggiunto toni mai toccati dalla polemica politica.
Per finire con una nota grottesca, parliamo del Tg1, ormai scaduto a bollettino governativo. Ieri sera il direttore Augusto Minzolini è intervenuto con un editoriale nel quale, dopo aver esordito definendo una manifestazione di cittadini in favore della libertà di stampa "incomprensibile per me" (nel suo caso, si capisce), ha ripetuto parola per parola gli slogan appena usati nel pastone politico dagli esponenti del Pdl.
Minzolini, che è quello senza occhiali - per distinguerlo da Capezzone - non è l'ennesimo portavoce del premier, ma un dipendente del servizio pubblico, pagato coi soldi del canone versato anche dai manifestanti. Anzi, forse più da loro che da altri. Dovrebbe tenerne conto e dare qualche notizia in più, invece di propinarci per la seconda volta il Berlusconi-pensiero mascherato da editoriale.
Tragedia prevedibile, anzi annunciata, quella di Messina. Quante volte lo abbiamo sentito dire negli ultimi giorni! Il presidente della Repubblica, quello della Regione, il ministro dell'Ambiente ripetono parole di dolore e indignazione che appaiono di circostanza: le stesse di altre volte. Questa volta però, c'è chi spera che le voci istituzionali non parlino «sull'onda dell'emozione ma per una consapevolezza finalmente acquisita dalla classe dirigente di questo Paese e di questa Regione... ed è necessario che alle parole seguano fatti coerenti».
Quello che precede è un passo della dichiarazione congiunta di Mimmo Fontana, presidente di Legambiente Sicilia e di Gianvito Graziano, presidente dell'Ordine dei geologi della Sicilia. La verifica della coerenza è immediata. «Proprio in questi giorni l'Assemblea sta esaminando il testo del Piano casa siciliano proposto dal governo. Chiediamo un atto di responsabilità e di rispetto delle vittime». Il Piano deve essere ribaltato; non si può consumare altro suolo e aumentare ancora le cubature edilizie in una Regione «in cui l'80% dei Comuni è a rischio di dissesto idrogeologico... La Sicilia decida di trasformare il Piano casa in un grande progetto di riqualificazione del territorio».
Qualche anno fa, nel 2006, Legambiente e il Dipartimento della protezione civile svolsero un'indagine dal nome «Operazione fiumi». Un capitolo era dedicato alla Sicilia. Consisteva nel monitoraggio sulle azioni dei comuni per la mitigazione del rischio idrogeologico. 273 comuni dell'isola erano classificati ad alto rischio di alluvioni e frane. In provincia di Messina erano 91, pari all'84% di tutti i comuni della provincia. Tra questi, il capoluogo, cui sulla base di una votazione da 10 a 0 veniva dato un 2.
È difficile scherzare, oggi, su un voto tanto meritato. L'insufficienza era dovuta all'urbanizzazione con fabbricati industriali e case di abitazione in aree a rischio. Nessuno fece niente. Anzi l'ultima uscita prima della frana fu una distrazione di fondi, stanziati per la mitigazione del danno «distraendo infrastrutture urgenti e attrezzature territoriali» per 1,3 miliardi in Calabria e Sicilia; muovendo, al contrario, un altro passo, probabilmente finto, come ha spiegato sul manifesto di ieri Alberto Ziparo, per la erezione del Ponte sullo Stretto di Messina.
Tutto questo è intollerabile; il nostro giornale ieri ha titolato «Sotto il Ponte», per segnalare questa vergogna; proprio mentre ieri su altri giornali si leggeva anche: «Il ministro rilancia sul Ponte 'Tutto pronto, a dicembre i lavori'».
I movimenti come il no Ponte e tanti altri no, sono stati spesso accusati di egoismo. È stata anche coniata una sigla di successo per descrivere l'effetto Nimby (Non nel mio cortile): per deplorare che nessuno accettasse una grande opera nei pressi di casa con la conseguenza che naturalmente le grandi opere non partissero mai.
Ora va detto che proprio soltanto l'effetto Nimby, può salvarci dai disastri. Solo chi conosce bene il suo territorio e riesce a organizzarsi, e partecipa, e lotta, può battere la speculazione, piccola e grande, del capitale e salvare il territorio, l'ambiente, il paesaggio, perfino: in sostanza la qualità della vita e la vita stessa di molte persone. Altrimenti, dopo, dopo il fatto, ci saranno soltanto gli atti di eroismo e la tragedia, in tante case.
Ieri è stata una grande giornata per i media, in Piazza del Popolo. Tutti insieme abbiamo rivendicato un ruolo forte, libero, capace di resistere al governo e ai padroni. Abbiamo rialzato la testa. È importante però ricordare che il nostro ruolo non finisce lì. Tenere sempre in mente che non si tratta solo di parlare dopo, a cose avvenute, quando i disastri sono ormai irrimediabili. Piangere dopo, scrivere pagine su pagine e accorrere con gli inviati, a tragedie avvenute, è fare come i coccodrilli del potere, pronti a disperarsi, prontissimi a dimenticare tutto. Si tratta di agire prima, quando è ancora possibile interrompere il circuito perverso tra potere, consenso, e, appunto, media. Può darsi che il Nimby non venda, o venda pochissimo, in fatto di pubblicità, ma è certo che salva molte vite.
Lo chiamano nubifragio, quello che ha ucciso decine di persone nei villaggi del Messinese e gettato nel fango le loro case, e invece la natura matrigna non c’entra. Non è lei a tradire, ingannare. C’entra invece lo Stato matrigno, e c’entrano le opere pubbliche, le infrastrutture, gli amministratori matrigni. È a loro e non alla natura che occorre rivolgersi con la domanda che Leopardi lancia alla natura: «Perché non rendi poi/Quel che prometti allor?/ perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?». È l'Italia che vediamo piano piano autodistruggersi, e non solo nel modo in cui si governa ma nel suo stesso fisico stare in piedi, nel suo esser terra, fiumi, colline, modi di abitare. Si va sgretolando davanti ai nostri occhi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni. Che ciascuno di noi accetta - per noia, per fretta, per indolente fatalismo - di fare di carta.
E’ essenziale leggere Gomorra per capire l’estensione del dominio del male ma basta mettere in fila i tanti disastri visti in televisione, e il cittadino non si sottrarrà all’impressione di un Paese dove perfino la terra frana a causa di questo lungo dominio.
Inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni: la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d'omissione che mescola vizi antichi e nuovi. È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe. Nella recente storia non sono caduti uccisi solo eroici servitori della Repubblica, che hanno voluto metter fine all’anti-Stato che mina la nazione dagli Anni 60. Muoiono alla fine gli uomini comuni, en masse: abbattuti dalla menzogna, dall’abusivismo, dalla disinvoltura con cui si costruiscono case, scuole, ospedali con materiali di scarto. Non da oggi ma da decenni, destre e sinistre confuse.
Il servizio pubblicato ieri su La Stampa da Francesco La Licata è tremendo. Non è solo Giampilieri che l’abusivismo ha colpito, perché le fondamenta del villaggio erano inaridite da disboscamenti irrazionali e poggiavano «su creta incerta, massacrata dalla furia della corsa al cemento» - in particolare dal cemento «allungato», che le mafie usano per guadagnare molto e presto, senza pensare al domani: l’ingordigia delle mafie e soprattutto l’impunità di cui esse godono nella penisola minacciano opere pubbliche di mezza Sicilia (gli aeroporti di Palermo e Trapani, il porto turistico di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo, il commissariato di polizia che si sta costruendo a Castelvetrano). La terra trema in Italia e il gran traditore non è la natura ma l’omertà di un’intera società. Omertà è una parola etimologicamente incerta: pare provenga da umirtà, e sia dunque una versione succube, perversa dell’umiltà. L’abbiamo sentito dire quando ci fu il disastro abruzzese e lo stesso vale per Messina: in Giappone o in Germania non ci sarebbero tanti morti, in presenza di intemperie. Giampilieri non è un’eccezione che conferma buone regole ma è la nostra regola.
È diventata la nostra regola perché tutto, appunto, si tiene: la cultura dell’illegalità che si tollera e l’abusivismo che si accetta sperando di trarne, individualmente, qualche vantaggio immediato. Perché tutto trema in contemporanea: terra e politica, senso dello Stato e maestà della legge. Perché intere regioni (non solo a Sud) sfuggono al controllo dei poteri pubblici, intrise di mafia e omertà. E perché l’informazione non circola, non aiuta le autorità municipali, regionali, nazionali a correggersi, essendo inascoltata e dando solo fastidio. L’informazione indipendente irrita quando denuncia lo svilimento dello Stato che nasce dalle condotte private di un presidente del Consiglio. Irrita quando ricorda che il ponte di Messina è una sfarzosa e temeraria tenda su infrastrutture siciliane degradate. Allo stesso modo danno fastidio, e non solo all’attuale governo, le indagini di Legambiente o della magistratura. La Licata spiega come non manchino indagini e moniti che da anni denunciano la criminalità edilizia, i brogli sui piani regolatori, la cementificazione fatta di molta sabbia e poco ferro: sono a rischio di crollo trenta capannoni dell’area industriale di Partinico, sono sotto inchiesta la Calcestruzzi Spa e la Calcestruzzi Mazara Spa. In un Paese dove la legalità non ha buon nome è ovvio che l’informazione in sé fa paura, quando porta chiarezza.
Dipende da ciascun cittadino far sì che queste abitudini cessino. Finché penseremo che i disastri sono naturali, non faremo nulla e sprofonderemo. È un po' come nella Dolce vita di Fellini. Nella campagna romana, una famiglia aristocratica possiede una villa del '500 caduta a pezzi e nessuno l’aggiusta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio che non fa nulla per riparare, che bighellona a Roma stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo, stomacato. È la cinica, accidiosa risposta che l’italiano continua a dare a se stesso, ai propri padri e anche ai propri figli.
L’indebolirsi della politica e la non volontà di governare il territorio li tocchiamo con mano e hanno ormai un loro teatrale, quasi macabro rituale. L’Italia è divenuta massima esperta in funerali, opere misericordiose, messe riparatrici, offerte di miracoli stile padre Pio. Tutta l’attenzione si concentra, spasmodica, compiaciuta, sulla nostra inclinazione a piangere, a ricevere le stigmate da impersonali forze esterne, a ripartire da zero nella convinzione (falsamente umile, ancora una volta) che da zero comunque si ricomincia sempre. Come vi sentite lì all’addiaccio? avete voglia di ricostruire? forza di credere, sopportare? così fruga l’inviato tv, il microfono brandito come una croce davanti ai flagellanti, e le lacrime sono assai domandate. L’occhio della telecamera punta su ricostruzione e espiazione, più che sul crimine che viene trattato alla stregua di fatalità. Importante è vivere serenamente il disastro, più che evitarlo cercandone con rabbia le cause. Anche il politico agisce così: non lo interessa la stortura, ma l’anelito alla lacrima e alle esequie teletrasmesse. Simbolo del disastro riparato più che prevenuto, la Protezione Civile è oggi un immenso lazzaretto, un potere divoratore di soldi e non controllato.
Di fronte a tanta catastrofe viene in mente il grido di Rosaria Costa, la vedova di un agente di scorta morto con Giovanni Falcone a Capaci. La giovane prese la parola il giorno dei funerali di Stato, il 25 maggio 1992 nella chiesa di San Domenico a Palermo, e disse: «Mi rivolgo agli uomini della mafia, vi perdono ma voi vi dovete mettere in ginocchio, dovete avere il coraggio di cambiare». D'un tratto la voce si rompe e grida: «Ma voi non cambiate, io lo so che voi non cambiate». Nulla può cambiare se l’impunità continua. Se l’informazione non circola, non esce dai recinti di Internet, di Legambiente, delle associazioni volontarie antimafia. Se la gente non smette di ascoltare solo messe funebri. Mario Calabresi ha scritto ai lettori indignati di questo giornale, ieri, che il «grande sacco dell’Italia» è avvenuto e avviene perché esiste un terreno fertile a disposizione di mafie e criminalità: non c’è politica seria se al primo posto non sarà messo il ripristino della legalità. Legalità e parola libera sono il farmaco di cui c'è bisogno, Falcone ne era convinto quando diceva: «Chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa. Chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola». Per questo tutto si tiene: la manifestazione di ieri sulla stampa indipendente e l’indignazione per il disastro di Messina.
Il Belpaese stuprato. Stuprato da chi lo abita e continua a costruire dove non si può e non si deve. Stuprato da Comuni e Province che chiudono gli occhi su abusi edilizi di massa che scempiano il paesaggio e pongono le premesse per disgrazie a non finire. Stuprato da Regioni che, a cominciare dalla disastrata Sicilia, assolvono tutti quanti. Stuprato da governi che tagliano i fondi (a metà quest’anno quelli già magri per il Ministero dell’Ambiente) e varano un condono edilizio dopo l’altro (due a distanza di dieci anni il governo Berlusconi, 1994 e 2004) incoraggiando altro cemento e altro asfalto abusivo su pendii scoscesi, impermeabilizzando i terreni, accelerando la velocità dell’acqua, preparando, con lo sfascio del territorio, lutti e sciagure inesorabili. Con la tropicalizzazione del clima e piogge più violente e improvvise tutto è destinato a complicarsi.
La frazione messinese di Giampilieri, nelle immagini televisive girate dall’alto, appare come un tragico “caso di scuola”: costa alta, aggredita da costruzioni tanto intensive quanto insensate, persino dentro la fiumara che, quando piove forte, si apre a forza la strada verso il mare, sormontata da un costone di roccia che nessuno ha messo in sicurezza. Giampilieri di Messina come Ischia, come tanti abitati costieri. Il Comune di Messina era stato già colpito nel 1998 con 4 morti. Ma l’amministrazione locale non ha fatto praticamente nulla. “La mancanza di fondi non ci ha consentito di intervenire”, si giustifica il sindaco Giuseppe Buzzanca.
Lo stesso dirà la Regione Sicilia che però continua a gonfiarsi di personale e ad aumentare le indennità dei consiglieri invece di destinare risorse al suo sfasciato territorio. Per giunta sismico, a partire dal Messinese, per cui ogni scossa, anche modesta, aggrava ed estende i movimenti franosi su colline dove un tempo c’erano boschi o colture agricole a filtrare le piogge, e magari non ci sono più perché “cotti” da incendi estivi appiccati da speculatori criminali. Anche il governo Berlusconi si nasconderà dietro la crisi generale dell’economia e quindi delle risorse pubbliche. Ma è lo stesso governo, è lo stesso premier che ha deciso di “passare alla storia” col costosissimo, inutile e dannosissimo, sul piano idrogeologico, Ponte sullo Stretto fra Messina e Reggio Calabria. Eppure il 10 per cento del Belpaese è “ad altra criticità idrogeologica”.
In un documento del 26 settembre scorso il Wwf denunciava: “Ruspe, lottizzazioni impressionanti su pendii fragili, coperture di impluvi naturali, sbancamenti enormi, sono continuati imperterriti, accelerando la fragilità intrinseca dei Monti Peloritani, geologicamente giovani e pertanto soggetti più di altri a fenomeni franosi, che la mano dell’uomo ha aggravato e reso pressoché costanti. Messina ha scelto, come economia unica e sola, il cemento e le opere faraoniche”. Mentre l’intera Sicilia, l’intero nostro antico, consumato, cementificato, asfaltato e quindi fragile Paese – che, dal Polesine in qua, ha visto morire nelle alluvioni circa 1.500 persone - ha bisogno di tornare ad investire seriamente, costantemente nel restauro strutturale del suo corpo. Come aveva cominciato a fare dopo le buone leggi sui piani paesaggistici (1985), sulle autorità di bacino e sulla difesa del suolo (1989), sui parchi di ogni livello (1991). Devitalizzate dall’idea che “ognuno è padrone a casa propria” (Berlusconi) e che pianificare paesaggio e territorio è inutile, anzi dannoso. Non dà ritorno di immagine. Al di là di “escort”, festini privati, ridicole esibizioni internazionali, questo è uno dei più diffusi, devastanti, cronici guasti dei governi Berlusconi.
Sette comuni su 10 a rischio frane "E il Sud Italia è il più minacciato"
Antonio Cianciullo
La ricetta del disastro è precisa. Si prende un territorio come l’Italia, con 7 Comuni su 10 a rischio idrogeologico. Si spargono case abusive a profusione, possibilmente nelle aree in cui si espandono fiumi e torrenti in piena. S’immettono in atmosfera gas serra, quanto basta per modificare il ciclo idrico e produrre piogge interminabili e violente. Poi si aspetta. Non a lungo. Nell’ottobre dell’anno scorso è toccato a Cagliari; a dicembre Roma ha convissuto con l’incubo alluvione; adesso è Messina a pagare un prezzo molto alto. Cosa ci aspetta nel prossimo futuro?
La risposta è contenuta in «Ecosistema a rischio» un documento firmato dalla Protezione civile e dalla Legambiente che sintetizza, regione per regione, la capacità di risposta alla minaccia del dissesto idrogeologico. La base di partenza è oggettivamente preoccupante: ci sono 1.700 Comuni a rischio frana, 1,285 Comuni a rischio alluvione e 2.596 Comuni a rischio sia di frane che di alluvioni. Una classifica guidata da Calabria, Umbria, Val d’Aosta, Marche e Toscana.
Ma il rischio di base, quello legato alla conformazione del territorio, non è in fin dei conti determinante: in Giappone e in California scosse che farebbero una strage nei paesi più poveri o più disattenti lasciano intatte case costruite per resistere a quelle sollecitazioni.
«Noi possiamo smettere di progettare opere inutili come il Ponte sullo Stretto e investire quei soldi nella messa in sicurezza del paese per convivere con il rischio frane e alluvioni, dando tra l’altro lavoro a centinaia di migliaia di persone», osserva Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente. «Oppure possiamo continuare a varare piani casa che puntano sulla quantità invece che sulla qualità e sulla sicurezza e assistere così al progressivo aumento del rischio, che si concentrerà sulle regioni meridionali, meno abituate a progettare le difese contro le inondazioni».
«Al momento», accusa Ermete Realacci, responsabile ambiente del Pd, «stiamo puntando dritti dritti verso lo smantellamento delle difese contro le calamità che fino a ieri chiamavamo naturali e che ci costano 6-7 miliardi l’anno: gli stanziamenti governativi per l’assetto idrogeologico nel 2008 erano 510 milioni di euro, nel 2009 sono scesi a 269, il prossimo anno saranno 120 e nel 2011 precipiteranno a 93».
La disattenzione si declina anche a livello comunale. Il 77 per cento dei Comuni censiti nell´analisi della Protezione civile ha nel proprio territorio case in aree a rischio frana o alluvione e solo 1 Municipio su 20 ha cominciato a eliminarle dando un´alternativa a chi le abita. Nel 42 per cento dei Comuni non viene svolta regolarmente la manutenzione ordinaria dei corsi d´acqua e delle opere di difesa idraulica.
Invece di rimuovere le cause del rischio, gli amministratori si preparano ad affrontare il peggio. L’82 per cento dei Comuni si è dotato di un piano di emergenza da mettere in atto in caso di frana o alluvione. E due Comuni su tre hanno una struttura di protezione civile operativa 24 ore su 24.
Complessivamente dal rapporto «Ecosistema a rischio» esce un quadro estremamente critico: solo il 37 per cento dei Comuni svolge un lavoro positivo di mitigazione del rischio, mentre 787 amministrazioni comunali si danno da fare per peggiorarlo. Tra le maglie nere citate, due Comuni del Messinese: Ucria e Alì.
Non chiamatela calamità
Giovanni Valentini
Una valanga scura di fango, macerie e detriti che invade le strade, sbriciola i muri, travolge le auto, ghermisce case e negozi, sommerge porte e finestre.
Se non le avete ancora viste, andate a sfogliarle una per una su Repubblica.it le foto di Giampilieri, frazione di Messina sulla costa dello Stretto, scattate il 26 ottobre 2007. È una retrospettiva di immagini impressionanti, la documentazione fotografica di un disastro annunciato che purtroppo s’è ripetuto ieri con la puntualità irrevocabile della rovina e della morte, provocando un’altra strage nella memoria dolente del Malpaese.
Sono passati due anni da quell’avvertimento e, per ammissione dello stesso comandante in capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, non è stato fatto niente per prevenire ed evitare un tragico replay. Per incuria, per abbandono, per irresponsabilità di tutti coloro, amministratori locali, politici nazionali, uomini e donne di governo, che avrebbero dovuto intervenire per tempo.
Di quale autonomia si appropria allora il presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, se proprio sul suo territorio un nubifragio arriva a uccidere tanti cittadini inermi? Di quale ambiente si occupa il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo da Siracusa, quando proprio nella sua isola un’alluvione può generare una tale catastrofe? E soprattutto, di quale Ponte sullo Stretto vagheggiano i governanti del centrodestra, mentre non si riesce neppure a proteggere le colline e le strade che franano sotto la pioggia proprio in quell’area?
Ha perfettamente ragione il Capo dello Stato a invocare maggiore sicurezza piuttosto che «opere faraoniche». C’è una sproporzione intollerabile fra la retorica megalomane delle cosiddette grandi opere e l’ignavia rituale delle piccole opere, quelle normali, regolari, quotidiane, che sarebbero utili per impedire il saccheggio del territorio; la speculazione edilizia e la cementificazione selvaggia; o soltanto per provvedere alla manutenzione ordinaria dei paesi, delle città, delle infrastrutture. Un gap indecente intessuto di affari, di abusi e di scempi che producono un danno irreparabile all’intera collettività: alla popolazione, innanzitutto; ma anche all’ambiente naturale, al paesaggio o perfino al turismo e quindi all’economia.
È proprio il governo del territorio che manca o difetta, e non certo da ieri né soltanto in Sicilia, nell’amministrazione pubblica nazionale. Tanto più in un Mezzogiorno d’Italia abbandonato a se stesso, relegato nel suo progressivo degrado, consegnato all’emarginazione dell’illegalità e della criminalità organizzata. E nonostante i ricorrenti e accorati appelli del presidente della Repubblica, l’antica e irrisolta "questione meridionale" sembra rimossa ormai dall’agenda nazionale, dall’ordine del giorno di un governo d’ispirazione nordista, dominato da una preminente tendenza separatista o addirittura secessionista.
Ma il peggio è che non impariamo niente dai disastri, dalle catastrofi, dalle tragedie precedenti. Dalle alluvioni, dalle frane, dai terremoti. Senza disconoscere qui l’impegno profuso in Abruzzo dal governo di centrodestra, dalla Protezione civile e dai volontari, alla fine il trionfalismo mediatico sembra prevalere sul senso del rigore e della responsabilità, in una sorta di reality permanente, uno show autocelebrativo finalizzato più che alto a fare ascolti e a raccogliere voti.
Vogliamo costruire nuovi ponti e nuove autostrade, ma non abbiamo strade sicure e non riusciamo a fare una manutenzione regolare nelle grandi città nemmeno per coprire le buche o riparare i marciapiedi. Vogliamo i treni ad alta velocità, ma quelli dei pendolari sono indegni di un Paese civile e gli altri per lo più scomodi e sporchi. Vogliamo installare le centrali nucleari, ma la rete elettrica fa acqua da tutte le parti e intanto produciamo meno energia solare della fredda Germania.
In un Paese senza catasto edilizio, o con un catasto a dir poco obsoleto, non c´è una mappa aggiornata delle zone a rischio idrogeologico; un censimento effettivo delle aree pericolanti; un registro o un inventario completo delle tante Giampilieri che al nord, al centro o al sud, insidiano l’assetto del territorio. E soprattutto, non c’è un protocollo ufficiale, regione per regione, su cui pianificare un programma di interventi mirati per la difesa del suolo, in base a una scala di priorità.
Queste non sono calamità naturali. Eventi imprevedibili o incontrollabili. Sono colpe e omissioni che chiamano in causa precise responsabilità politiche, amministrative e spesso anche giudiziarie.
MOLTI si chiederanno come sia possibile che in Italia si manifesti per la libertà di stampa. Da noi non è compromessa come in Cina, a Cuba, in Birmania o in Iran. Ma oggi manifestare o alzare la propria voce in nome della libertà di stampa, vuol dire altro. Libertà di poter fare il proprio lavoro senza essere attaccati sul piano personale, senza un clima di minaccia. E persino senza che ogni opinione venga ridotta a semplice presa di parte, come fossimo in una guerra dove è impossibile ragionare oltre una logica di schieramento.
Oggi, chiunque decida di prendere una posizione sa che potrà avere contro non un'opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime. E persino coloro che hanno firmato un appello per la libertà di informazione devono mettere in conto che già soltanto questo gesto potrebbe avere ripercussioni. Qualsiasi voce critica sa di potersi aspettare ritorsioni. Libertà di stampa significa libertà di non avere la vita distrutta, di non dover dare le dimissioni, di non veder da un giorno all'altro troncato un percorso professionale per un atto di parola, come è accaduto a Dino Boffo.
Vorrei parlare apertamente con chi, riconoscendosi nel centrodestra, dirà: "Ma che volete? Che cosa vi mettete a sbraitare adesso, quando siete stati voi per primi ad aver trascinato lo scontro politico sul terreno delle faccende private erigendovi a giudici morali? Di cosa vi lamentate se ora vi trovate ripagati con la stessa moneta?". Infatti la questione non è morale. La responsabilità chiesta alle istituzioni non è la stessa che deve avere chi scrive, pone domande, fa il suo mestiere. Non si fanno domande in nome della propria superiorità morale. Si fanno domande in nome del proprio lavoro e della possibilità di interrogare la democrazia. Un giornalista rappresenta se stesso, un ministro rappresenta la Repubblica. La democrazia funziona nel momento in cui i ruoli di entrambi sono rispettati.
Per un giornalista, fare delle domande o formulare delle opinioni non è altro che la sua funzione e il suo diritto. Ma un cittadino che svolge il suo lavoro non può essere esposto al ricatto di vedere trascinata nel fango la propria vita privata. E una persona che pone delle domande, non può essere tacitata e denunciata per averle poste. Non è sulla scelta di come vive che un politico deve rispondere al proprio Paese. Però quando si hanno dei ruoli istituzionali, si diventa ricattabili, ed è su questo piano, sul piano delle garanzie per le azioni da compiere nel solo interesse dello Stato, che chi riveste una carica pubblica è chiamato a rendere conto della propria vita.
In questi anni ho avuto molta solidarietà da persone di centrodestra. Oggi mi chiedo: ma davvero gli elettori di centrodestra possono volere tutto questo? Possono ritenere giusto non solo il rifiuto di rispondere a delle domande, ma l'incriminazione delle domande stesse? Possono sentirsi a proprio agio quando gli attacchi contro i loro avversari prendono le mosse da chi viene mandato a rovistare nella loro sfera privata? Possono non vedere come la lotta fra l'informazione e chi cerca di imbavagliarla, sia impari e scorretta anche sul piano dei rapporti di potere formale?
Chi ha votato per l'attuale schieramento di governo considerandolo più vicino ai propri interessi o alle proprie convinzioni, può guardare con indifferenza o approvazione questa valanga che si abbatte sugli stessi meccanismi che rendono una democrazia funzionante? Non sente che si sta perdendo qualcosa?
Il paese sta diventando cattivo. Il nemico è chi ti è a fianco, chi riesce a realizzarsi: qualunque forma di piccola carriera, minimo successo, persino un lavoro stabile, crea invidia. E questo perché quelli che erano diritti sono stati ridotti quasi sempre a privilegi. È di questo, di una realtà così priva di prospettive da generare un clima incarognito di conflittualità che dovremmo chiedere conto: non solo a chi governa ma a tutta la nostra classe politica. Però se qualsiasi voce che disturba la versione ufficiale per cui va tutto bene, non può alzarsi che a proprio rischio e pericolo, che garanzie abbiamo di poter mai affrontare i problemi veri dell'Italia?
Il ricatto cui è sottoposto un politico è sempre pericoloso perché il paese avrebbe bisogno di altro, di attenzione su altre questioni urgenti, di altri interventi. Il peggio della crisi per quel che riguarda i posti di lavoro deve ancora arrivare. In più ci sono aspetti che rendono l'Italia da tempo anomala e più fragile di altre nazioni occidentali democratiche, aspetti che con un simile aumento della povertà e della disoccupazione divengono ancora più rischiosi.
Nel 2003 John Kerry, allora candidato alla Casa Bianca, presentò al Congresso americano un documento dal titolo The New War, dove indicava le tre mafie italiane come tre dei cinque elementi che condizionano il libero mercato quantificando in 110 miliardi di dollari all'anno la montagna di danaro che le mafie riciclano in Europa. L'Italia è il secondo paese al mondo per uomini sotto protezione dopo la Colombia.
È il paese europeo che nei soli ultimi tre anni ha avuto circa duecento giornalisti intimiditi e minacciati per i loro articoli. Molti di loro sono finiti sotto scorta. Ed è proprio in nome della libertà di informazione che il nostro Stato li protegge. Condivido il destino di queste persone in gran parte ignote o ignorate dall'opinione pubblica, vivendo la condizione di chi si trova fisicamente minacciato per ciò che ha scritto. E condivido con loro l'esperienza di chi sa quanto siano pericolosi i meccanismi della diffamazione e del ricatto.
Il capo del cartello di Calì, il narcos Rodriguez Orejuela, diceva "sei alleato di una persona solo quando la ricatti". Un potere ricattabile e ricattatore, un potere che si serve dell'intimidazione, non può rappresentare una democrazia fondata sullo stato di diritto.
Conosco una tradizione di conservatori che non avrebbero mai accettato una simile deriva dalle regole. In questi anni per me difficili molti elettori di centrodestra, molti elettori conservatori, mi hanno scritto e dato solidarietà. Ho visto nella mia terra l'alleanza di militanti di destra e di sinistra, uniti dal coraggio di voler combattere a viso aperto il potere dei clan. Sotto la bandiera della legalità e del diritto sentita profondamente come un valore condiviso e inalienabile. È con in mente i volti di queste persone e di tante altre che mi hanno testimoniato di riconoscersi in uno Stato fondato su alcuni principi fondamentali, che vi chiedo di nuovo: davvero, voi elettori di centrodestra, volete tutto questo?
Questa manifestazione non dovrebbe veramente avere colore politico, e anzi invito ad aderirvi tutti i giornalisti che non si considerano di sinistra ma credono che la libertà di stampa oggi significa sapersi tutelati dal rischio di aggressione personale, condizione che dovrebbe essere garantita a tutti.
Vorrei che ricordassimo sino in fondo qual è il valore della libertà di stampa. Vorrei che tutti coloro che scendono in piazza, lo facessero anche in nome di chi in Italia e nel mondo ha pagato con la vita stessa per ogni cosa che ha scritto e fatto a servizio di un'informazione libera.
In nome di Christian Poveda, ucciso di recente in El Salvador per aver diretto un reportage sulle maras, le ferocissime gang centroamericane che fanno da cerniera del grande narcotraffico fra il Sud e il Nord del continente. In nome di Anna Politkovskaja e di Natalia Estemirova, ammazzate in Russia per le loro battaglie di verità sulla Cecenia, e di tutti i giornalisti che rischiano la vita in mondi meno liberi. Loro guardano alla libertà di stampa dell'Occidente come un faro, un esempio, un sogno da conquistare. Facciamo in modo che in Italia quel sogno non sia sporcato.
Fabio Fazio non ha dubbi: «C´è questo clima in televisione perché la politica pensa di essere proprietaria di tutto. Non è così». Da sabato torna su RaiTre con "Che tempo che fa", nel giorno della manifestazione della libertà di stampa. La rete per cui lavora è assediata; i toni diplomatici lasciano il posto a qualche battuta caustica.
Fazio, ha mai pensato veramente che non le avrebbero rinnovato il contratto?
«Mi è sempre parsa un´ipotesi eccessiva, salvo nelle ultime settimane».
Tutti i fucili sono puntati su RaiTre.
«C´è un annoso problema, si dà per scontato che la politica sia proprietaria del paese e i cittadini sudditi. Invece dobbiamo recuperare il diritto di cittadinanza, dettando a noi stessi l´agenda della nostra vita senza temere le conseguenze dei nostri gesti. Credo che fare servizio pubblico significhi confrontarsi onestamente dal punto di vista intellettuale, rispettando il pubblico. Poi pazienza se qualcuno non si confronta e attacca».
Quindi lei dice che vi attaccano per il solo fatto che esistete.
«Se uno si ritiene proprietario, ma io non mi ritengo proprietà di nessuno».
Cosa la offende?
«La violenza verbale di cui sono fatte oggetto persone, con nomi e cognomi, la rete per cui lavoro. Gocce d´odio che vengono instillate tutti i giorni, disgustose e temo pericolose, perché chi legge certe frasi, chi le ascolta, si abitua all´idea che sia un linguaggio accettabile. Non è possibile che il maggioritario invece di essere un sistema elettorale sia diventato una linea spartiacque: o con noi o contro di noi».
"Annozero" è finito nel mirino del governo.
«Fa parte dell´atteggiamento proprietario di cui sopra: l´idea che lo spazio pubblico, sia esso la televisione o la scuola, non sia quello del confronto di tutte le idee, ma lo spazio del potere da usare in una solo direzione. La negazione del servizio pubblico».
Sabato ci sarà la manifestazione per la libertà di stampa.
«La libertà di stampa è un valore fondamentale e un diritto da rivendicare giorno per giorno, se ti rendi indisponibile a fare compromessi, a obbedire. Non è obbligatorio dire sempre di sì».
L´hanno accusata di fare "domande accomodanti".
«Mi fa ridere: certi giornalisti piuttosto che fare una domanda si ammazzano, e rompono le scatole a me? Da Vespa nella serata col premier non si è sentita una domanda».
Viene considerata una persona cauta; Berlusconi parla di "partito di RaiTre".
«Non si può rinunciare al proprio carattere e alla buona educazione, uno non può sputare per terra per fare piacere agli idioti che hanno inventato il termine buonismo. Il partito di RaiTre non esiste, è una rete dove lavora tanta gente che non la pensa allo stesso modo. Ci sono programmi che possono dare fastidio, altri non sono graditi dai non elettori di Berlusconi. Non per questo se ne chiede la chiusura... È sempre il problema di pensare lo spazio pubblico proprietà privata. Invece io penso che si paghi il canone proprio perché quello spazio non sia proprietà di nessuno».
Che ha pensato quando hanno cancellato "Ballarò"?
«Mi è sembrato inutile oltre che sbagliato. L´azienda che ho conosciuto 27 anni fa non c´è più, questa non la conosco».
Chi vorrebbe come ospite?
«Il presidente della Camera Fini».
La terza fase del calcio, l´era dei nuovi stadi, è iniziata. Ieri mattina, ancora un passo avanti con la presentazione dell´impianto della Roma titolato a Franco Sensi, il presidente dell´ultimo scudetto, il padre di Rosella presidentessa in carica e contestata.
La terza fase, il calcio finanziariamente maturo, nasce per seppellire l’epoca dei diritti tv che, a sua volta, aveva lasciato nel giurassico il lungo evo in cui i club fondavano i bilanci sui biglietti venduti al botteghino. Il calcio maturo dovrà vivere di stadio e con lo stadio, sette giorni su sette, anche la notte. Vivrà di partite viste a ridosso dei giocatori e soprattutto di consumi all’esterno della struttura. Oggi il cliente-spettatore nei vetusti impianti italiani spende 50 centesimi a domenica: l’obiettivo è di arrivare a otto euro, media inglese.
La presentazione di ieri, a Trigoria, è la terza in tre anni. Nel 2007 venne rivelato il plastico del nuovo stadio della Juventus (cantiere oggi a metà dell’opera) e nel 2008 l’Eurodisney della Fiorentina (progetto, questo, da rifare dopo l’intervento della magistratura). L’accelerazione nell’autunno del 2009 dell’As Roma poggia su un evento politico consumato il 23 settembre scorso: alla commissione cultura del Senato è stata approvata all’unanimità la legge sugli stadi, presentata da Pd e Pdl insieme. Prevede una corsia preferenziale per chi costruisce - 10 mesi e arrivano tutti i pareri delle amministrazioni - più venti milioni l’anno per abbattere gli interessi alle società che chiederanno mutui. L’approdo dell’intera operazione è immaginato per l’estate 2016: la Federcalcio conta, grazie a nuovi e più sicuri stadi, di ottenere l’assegnazione dei campionati europei.
Oggi la situazione si presenta come una caccia all’oro, forsennata: 39 club italiani, tutta la serie A, ma anche il Casarano e il Gallipoli, si sono affacciate alla questione stadi. Uno studio presentato in Parlamento parla di un investimento globale e privato da 6 miliardi di euro, quasi il doppio della spesa pubblica ipotizzata per il Ponte di Messina, cinque volte i costi affrontati nel 1990 per i dodici stadi dello scandaloso Mondiale ‘90. Ventiquattro club hanno già presentato un plastico, un rendering. Scorrendoli, i progetti si scoprono interessanti: vecchie "nuvole" rianimate da archistar come Fuksas e stadi cangianti al sole come quello, appunto, della Roma dell’architetto Zavanella, già autore del nuovo Delle Alpi e di quattro minori. Lasciati i progetti, però, si scoprono corredi attorno allo stadio da "sacco del Duemila". Un’enorme speculazione travestita da futuro.
Se si prendono i dieci progetti più dettagliati, la somma delle aree interessate ai "nuovi stadi" è pari a 1.920 ettari: metà del territorio, per capire, su cui si produce tutto il vino della Basilicata. Ancora, la volumetria dichiarata dei tre disegni più importanti (Lazio più Roma più Fiorentina in ordine di impatto) è di 4 milioni di metri cubi di costruito, un terzo in più di ciò che si è edificato in Liguria negli ultimi sei anni. Ecco, lo stadio di proprietà italiano è una buona idea patrimoniale per sanare i bilanci in rosso dei nostri club e un segno architettonico forte della modernità, ma scatena appetiti mai sazi di imprenditori del calcio che si stanno affidando a rentier e palazzinari contando su amministrazioni pubbliche con le casse vuote e la necessità di consenso. Il rischio è lo stravolgimento di ampie aree della media periferia delle metropoli italiane.
Un esempio plateale è il progetto Lazio di Claudio Lotito: ci lavora dal 2004, vuole investirci 800 milioni. Su 600 ettari (la città di Amalfi) di proprietà del suocero Mezzaroma (costruttore) e accatastati come agricoli, Lotito vuole edificare: il nuovo stadio Delle Aquile con quattro ristoranti nei torrioni, tre campi di calcio esterni, uno per il calcio a 5, sei campi da tennis, uno da rugby, uno da football americano, uno per l’hockey su prato e uno per l’arco, un diamante per il baseball, una pista di atletica, quattro piscine, un palazzetto per basket e volley. Poi, gli uffici del club, il museo della Lazio, un centro commerciale su due livelli, un albergo a 4 stelle, parcheggi per 40 ettari e altri 25 ettari per un parco giochi. Sulla collina (che ha vincoli paesaggistici) Lotito immagina una cementata di villette. Per raggiungere questa nuova città a nord di Roma si prevede una nuova stazione, un nuovo svincolo autostradale, un approdo in battello sul Tevere. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, in campagna elettorale aveva promesso due stadi privati ai club della capitale a costo zero per il Comune. Ora è imbarazzato. Il progetto Lotito insiste su un’area a rischio esondazione e il braccio destro di Alemanno, Claudio Barbaro, di fronte a questi volumi si è dimesso.
A Firenze Della Valle vuole costruire anche la downtown dello shopping e un parco a tema che si rifà al calcio fiorentino e ai lanzichenecchi. L’area di Castello, prescelta, è sotto sequestro: la magistratura non ha gradito i precedenti accordi tra il proprietario Ligresti e l’ex sindaco Leonardo Domenici. Il neosindaco Matteo Renzi ripropone la stessa area (a dicembre sarà libera) allargando gli spazi verdi: «In un mese decidiamo e in quattro anni si può fare tutto». Ligresti ha pronte le licenze per le sue case. Ecco, Maurizio Zamparini allo Zen di Palermo insieme allo stadio vuole costruire il centro commerciale più grosso dell’isola, ramo suo. E a Bologna il costruttore Menarini (Cogei), fallito il progetto Romilia, sta cercando un’altra area e nuovi soci con denaro fresco: a questo gli serve Luciano Moggi, ha promesso al presidente che tirerà dentro l’affare Flavio Briatore.
Un sindaco che nega l'autorizzazione a una manifestazione antimafia non si vedeva in Italia dai tempi di Danilo Dolci: è accaduto tre giorni fa a Fondi, provincia di Latina. Un partito di governo che cancella per decreto e per protervia la memoria di un caduto di mafia non si vedeva dai tempi in cui erano i fascisti a cancellare a manganellate la storia del paese: è accaduto a Ponteranica, provincia di Bergamo, una settimana fa. E poco importa che le camicie non siano più nere ma verdi: un partito che si mette in divisa alla fine è capace solo d'inventarsi ronde e di fregarsene della lotta a Cosa Nostra. Qualcosa sta accadendo nel paese.Qualcosa di più profondo e di più preoccupante dei festini di Berlusconi con le sue cortigiane. Qualcosa che ci interroga tutti, nessuno escluso: anche a sinistra. Sono i pensieri d'abitudine che accompagnano questi fatti, pensieri mesti e rassegnati di chi crede che siano solo bravate di provincia e non vale il caso di perderci il sonno che tanto i problemi sono altri, che con la lotta alla mafia non si riprendono i posti di lavoro perduti e che in piazza non ci si può andare sempre e solo a protestare, benedetti figlioli, ieri a Fondi, oggi a Ponteranica, domani chissà dove. Ci stiamo abituando ai nostri luoghi comuni, a considerare la memoria solo un puntiglio da orfani, ad aspettare che siano i processi a consegnarci ogni verità, a ritenere la questione morale una cosa ingiallita, da museo, da circolo dei civili. Ci stiamo abituando ai passi di danza di una politica con le unghie tagliate, a un’opposizione attenta solo alle buone maniere, ai toni accomodanti, alle cose da non dire. E invece alcune cose vano dette: non solo a Berlusconi, non solo al suo scudiero Dell' Utri.
Dov’era, ad esempio, il presidente della Commissione antimafia Pisanu mentre diecimila ragazzi a Ponteranica ricordavano il sacrificio di Impastato? Perché non ha speso una sola parola sulla sacrosanta richiesta del prefetto di Latina di scioglimento del comune di Fondi per infiltrazioni mafiose? Che senso ha presiedere - super partes - una commissione parlamentare sulla mafia e non trovare il coraggio civile per dire che il consiglio dei ministri da un anno ha dolosamente insabbiato la relazione di quel prefetto? Chi ha sentito profferir verbo al ministro dell'interno Maroni di fronte allo sciacallaggio della giunta di Ponteranica che ci ha mandato a dire: tenetevi i vostri morti di mafia, teneteveli in Sicilia, teneteveli fuori dalle nostre valli?
Vorrei dire, per una volta, che delle escort del signor presidente del Consiglio non me ne frega nulla e che questi silenzi mi sembrano perfino più colpevoli, più sordidi, più oscuri. Se vogliamo cambiare qualcosa in questo paese, rimbocchiamoci le maniche. Andiamo a rimetterla noi al suo posto la targa di Peppino Impastato. Occupiamo il comune di Fondi e quello di Paternò, giù in Sicilia, fino a quando il consiglio dei ministri non discuterà sul loro scioglimento. Piantiamo di nuovo il nostro ulivo: ma poi difendiamolo. Senza lamenti, senza vittimismi, senza chiedere permesso.
Fin dal 1982, quando l’eccentricità tedesca sembrava a molti un irremovibile dato della storia, lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger ruppe le regole con un saggio che fece parecchi scontenti in patria e nelle sinistre. Il saggio s’intitolava Difesa della normalità, e raccontava la perseveranza, il silenzio pieno di saggezza, il senso comune un po’ ottuso, materiale, della Germania ricostruitasi dopo il ’45. Le parole altisonanti le erano divenute detestabili, avendo generato disastri. L’eroe da celebrare non era romantico e idealista, non aveva colori smaglianti, non era stregato dal verbo che trascina. Non era un originale.
Il vero eroe era la Trümmerfrau, la donna che raccatta i detriti del paese bombardato e piano piano, cocciuta, taciturna, irriducibile, riaggiusta prima la propria casa sventrata, poi la città, infine la Germania. Angela Merkel risveglia il ricordo di quelle donne, anche se è una donna dei detriti prodotta dalla versione comunista e orientale dell’idealismo nazionale.
Anche lì non son restate che macerie, rovine. Il miracolo tedesco nell’89 si ripeté e produsse ancora una volta la filosofia delle rovine su cui si è edificata la normalizzazione tedesca. Anche il candidato socialdemocratico Steinmeier, con il suo eloquio misurato, incarna questa filosofia. Ascoltiamo ancora Enzensberger: «La normalità è una forza difensiva, ma incapace di rassegnarsi. Non la si lusingherà con opinioni, visioni del mondo, ideologie. Nella sua piccola vita - ma può la vita essere qualcosa di piccolo? - ci sono enormi riserve di laboriosità, astuzia, disponibilità all’aiuto, indocilità, energia, voglia di vendetta, prudenza, coraggio, selvatichezza». Con queste riserve la Germania è diventata profondamente democratica, allergica a politici carismatici gridati. Le scosse estreme le ha superate con un lavoro su di sé, e sulla memoria, senza eguali in Europa. Qui i grandi dibattiti non s’insabbiano come da noi: né sul nazismo, né sul ’68 e il terrorismo, né sul revisionismo storico.
Ne è risultata una sorta di ottusità noiosa, che Roger Cohen descrive magistralmente sul New York Times del 24 settembre e che ha grandi virtù e anche vizi: c’è qualcosa nella dullness tedesca che secerne massima puntualità, e poca sottigliezza. Ma è questa non sottile puntualità che ha infine consentito la «digestione del crimine», e ha estinto la catastrofe che è stata, nel cuore d’Europa, l’«eruzione dello Stato-nazione tedesco» fra il 1871 e il 1945. La storia della normalità tedesca ha oggi 64 anni: poco meno della storia dell’eruzione.
Il desiderio di normalità ha coinciso con l’adesione entusiasta all’Europa unita, dopo il ’45. Grazie a politici come Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl, la Germania si è sgermanizzata, come ha scritto sulla Stampa Gian Enrico Rusconi, e nell’Unione è stata il Paese che con più convinzione ha scelto la fine della sovranità nazionale assoluta e il doppio patriottismo tedesco ed europeo. Più che sgermanizzarsi, in realtà, il Paese si liberava dell’idealismo romantico e tornava alla cittadinanza del mondo di Schiller, alla letteratura mondiale di Goethe. Nell’Est tedesco il lavoro su di sé è più lento, essendo cominciato da poco: è il motivo per cui la socialdemocrazia è alle prese con una sinistra ( Die Linke) che sarà difficile da assorbire. Se Angela Merkel governasse con i liberali, la socialdemocrazia avrebbe più tempo per accingersi a un compito che sarà lungo e faticoso.
La normalizzazione ha tuttavia i suoi demoni nascosti. Come il pragmatismo, è una virtù che secerne anche chiusure, avversioni al rischio, pensieri e calcoli corti. Un’involuzione simile la Germania la sta vivendo oggi: soprattutto sull’Europa e l’economia. È una svolta iniziata dopo l’89: prima impercettibilmente, poi in maniera più palese, qualcosa è accaduto nella mente tedesca e ha preso a mutarla. D’un tratto, è stato come se tutte le cose in cui la Germania aveva creduto grazie alla filosofia delle rovine - l’Europa, il mondo più vasto della propria casa - avessero perso attrattiva, senso. Come se l’Europa fosse stata, negli anni in cui la Germania aveva tanto creduto in essa, un mezzo più di un fine: un mezzo che aveva riabilitato il Paese, mettendo fine alla sua eccentricità. Che aveva i vantaggi del Persilschein: dello speciale lasciapassare che nel dopoguerra veniva rilasciato dalle forze d’occupazione e ripuliva i tedeschi dalle loro colpe con la forza del detersivo Persil.
La maggioranza dei tedeschi resta europeista ma in modo apatico, anche nelle élite. Riconquistata l’unità si riscoprono le delizie di una certa separatezza, perfino della vecchia specificità nazionale. Si fanno sogni niente affatto nuovi sullo Stato-nazione autosufficiente, sulla sovranità, sulla cura esclusiva del proprio giardino, dei propri interessi immediati. Il negoziato su Opel ha disvelato questa tendenza, ma il culmine è stato raggiunto con la sentenza della Corte Costituzionale sul trattato costituzionale di Lisbona, il 30 giugno scorso: una sentenza che ha detto sì al Trattato, ma no a un’unione europea più perfetta. Per la prima volta, un’istituzione tedesca di massimo rango mette in guardia contro salti di qualità della costruzione europea e ricorda che la sovranità della nazione è un principio costituzionale irrinunciabile. Riccardo Perissich, che per anni ha lavorato nelle istituzioni europee, ha criticato il verdetto con pertinenza, in un articolo per Astrid, parlando di gollismo tedesco: «I giudici tedeschi non negano la possibilità di una prospettiva federale, sembrano quasi dire che essa è necessaria. Tuttavia nel definirne le caratteristiche e negando che la legittimità “europea” possa svilupparsi parallelamente a quella nazionale senza sostituirsi ad essa, pongono anche chi vorrebbe fare il salto di fronte ad un fossato talmente ampio e così “tedesco”, da renderlo di fatto invalicabile». La Corte ha svilito perfino la legittimità del Parlamento europeo, contraddicendo le tante battaglie tedesche per l’Europa politica democratica.
Questa regressione è un frutto tardivo della perseveranza un po’ torpida delle generazioni postbelliche, e rischia non solo di paralizzare l’Europa ma di ottundere le menti tedesche nel momento preciso in cui nel mondo si tentano nuove vie di cooperazione. La normalità non impedì in passato alla Germania di essere all’avanguardia nell’inventare l’Europa, lo Stato post-nazionale, la stabilità economica condivisa. Al momento decisivo sacrificò perfino il suo principale attributo di sovranità: la moneta. La questione del clima fu lei a porla e affrontarla per prima. Ora assapora i piaceri non sempre sottili della retroguardia, del rinchiudersi, del potere esercitato per mantenerlo e non per agire azzardando il nuovo e lo slancio. Da realista che era, rispolvera una sovranità non più aggressiva ma non meno illusoria. «I tedeschi stanno accovacciati: non infelici e non ispirati», scrive Cohen. Altri sono ispirati oggi dalla filosofia delle rovine: a cominciare da Obama, che constata la crisi dello Stato-nazione onnipotente, solitario. Sta cambiando posizione perfino Kissinger, che per decenni teorizzò la balance of power alla Metternich, l’equilibrio-competizione fra potenze nazionali: un concetto che giudica superato, dopo la crisi dell’economia e dell’egemonia Usa (La Stampa, 23-8-09).
Proprio questo è il momento in cui la Germania della Merkel, invece di tesaurizzare la saggezza postbellica, guarda indietro, si ri-germanizza. Su questo giornale Marcello Sorgi ha evocato con acume la Ostalgie, l’irrazionale nostalgia di muro e di provincia che pervade l’Est tedesco. Ma c’è qualcosa di nostalgico anche nella scoperta tardiva della sovranità nazionale. Qualcosa che rende la Germania un po’ vendicativa come l’Est europeo, e un po’ boriosa come la Francia.
Non credo proprio di essere anti-italiano se rilevo che, di fronte ai grandi problemi del Paese, questo governo e il suo leader risultano inadeguati, portati allo spot autopromozionale anziché a quelle scelte concrete che pure Berlusconi rivendica per sé ad ogni minuto, vantando che nessuno si è portato meglio di lui e di loro. Frottole. Nella graduatoria del BIL (Benessere Interno Lordo) le prime regioni sono Emilia-Romagna, Marche e Toscana, in testa la provincia di Forlì-Cesena. Non le regioni, non le province governate dal Pdl e dalla Lega. Solo un caso?
Torniamo al governo, al premier e alla loro superficialità e inadeguatezza. Nel post-terremoto d’Abruzzo, malgrado le frequenti marce di Berlusconi e del suo proconsole sull’Aquila, i prefabbricati sono in ritardo (i primi consegnati erano della Provincia di Trento) e insufficienti di numero. Anche perché non si è sprezzantemente voluto tener conto delle esperienze positive del Friuli, dell’Umbria, delle Marche dove enti e comunità locali furono fortemente responsabilizzate e motivate nella ricostruzione. Mentre qui risultano disperse, frustrate, tagliate fuori dalla Protezione Civile.
E’ così nella vicenda della nave dei veleni ritrovata nel fondo dello Jonio grazie alla tenacia di un assessore regionale, Salvatore Greco, stimatissimo biologo marino, che “l’Unità” intervista, di magistrati che non si sono persi d’animo di fronte ad una vicenda oscura che dal 1994-95 (gli anni dei dossier di Legambiente e Wwf) esigeva di venire scoperchiata. Risale a quel tempo la prima commissione bicamerale d’inchiesta sui rifiuti tossici presieduta da Massimo Scalia. Ne feci parte e ricordo come rimanemmo scioccati già al primo giorno quando dall’audizione degli ufficiali dei Noe, della Finanza, del Corpo Forestale, della Ps emersero crimini inimmaginabili sintetizzati nella frase di uno di loro: “Smaltire una cisterna di rifiuti tossici è facilissimo: basta superare di notte il casello di una autostrada, poi il contenuto viene sversato dove capita”. La stessa facilità rivelata da un collaboratore di giustizia per l’affondamento criminale della nave dei veleni.
Lo Stato assente, il governo latitante. Basterebbe finanziare seriamente quei corpi speciali, potenziare e integrare le loro reti. Con soli 77.000 euro la cooperativa Nautilus ha individuato, in due giorni, il pericoloso relitto. Tanto assente il governo italiano che l’assessore regionale Salvatore Greco (un altro anti-italiano, evidentemente) ha avanzato l’ipotesi di un intervento straordinario della UE essendo quei veleni un pericolo gravissimo per i 22 Paesi affacciati sul Mediterraneo. Come dargli torto?
Vogliamo poi parlare della arrendevolezza del governo verso quanti evadono, eludono, speculano? Il provvedimento sullo “scudo fiscale” passa un autentico colpo di spugna su vari reati finanziari, a cominciare dal falso in bilancio. “Una schifezza”, l’ha definito la senatrice Anna Finocchiaro. Una schifezza che nessun ministro di questo governo ha avuto il coraggio di illustrare ai senatori. “Così finanzieremo le scuole”, si è vantato il senatore Gasparri. Magari quelle private. Coi soldi “mafiosi” di ritorno però.
L'attacco terroristico che a Kabul ha spento la vita di sei soldati italiani, assieme a quella di circa venti civili afghani, dovrebbe indurci ad una seria riflessione politica, molto al di là del cordoglio d'occasione. Dovrebbe anzitutto ricordarci che oggi, più di sempre, la guerra comporta la strage di vite umane e che la guerra in Afghanistan ha già sacrificato la vita di decine di migliaia di persone e continuerà a sacrificarla. Altre centinaia di civili afghani e di militari occidentali moriranno nei prossimi mesi. L'imponente operazione «Colpo di spada», voluta dal presidente Barack Obama all'inizio del suo mandato, non si fermerà facilmente. Fra le vittime ci saranno inevitabilmente altri giovani italiani. Sembra che i combattenti afghani abbiano ben capito quello che il ministro La Russa ha sbandierato in lungo e in largo nelle ultime settimane: gli italiani sono in Afghanistan non per una missione di pace ma per fare la guerra.
Che senso ha tutto questo? Che cosa legittima questo fiume di sangue? Quali sono gli obiettivi perseguiti dai combattenti occidentali, quelli italiani inclusi? In gioco sono valori irrinunciabili come la libertà e la democrazia o la guerra ha invece origine in spietati interessi economici e in strategie di dominio neocoloniale?
In questi giorni di lutto i rappresentanti del governo e del parlamento italiano si sono espressi in termini singolarmente concordi: i militari italiani sono impegnati in una guerra legittima che deve continuare nonostante le perdite umane. La missione Isaf-Nato alla quale essi aderiscono - si sostiene - è stata legittimata dalle Nazioni Unite ed è dunque in perfetta sintonia con il diritto internazionale vigente, oltre che con la Costituzione italiana. E ciò che rende nobile oltre che legale la presenza militare dell'Italia in Afghanistan è la volontà di contribuire alla ricostruzione dello Stato afghano e alla esportazione in Afghanistan dei valori della libertà e della democrazia.
Si tratta - da Ignazio La Russa a Pier Ferdinando Casini, a Pier Luigi Bersani, a Massimo D'Alema - di una sconfortante retorica bipartisan, espressione della dipendenza della politica estera italiana dalla volontà degli Stati Uniti e, di conseguenza, dagli ordini della Nato. Come è noto, in Afghanistan la Nato non è che la longa manus europea della superpotenza americana. E l'intesa bipartisan si alimenta di una complice deformazione delle circostanze di fatto e di diritto, oltre che di una opportunistica declamazione della missione umanitaria dell'Italia nel mondo.
Ciò che si deve dire con fermezza è che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu non ha mai autorizzato la guerra scatenata nell'ottobre 2001 dal presidente Bush contro l'Afghanistan - la famigerata missione Enduring Freedom -, né ha mai consacrato come legittima la leadership di potere del collaborazionista Hamid Karzai, sostenuto dagli occupanti statunitensi. E neppure ha mai incaricato l'Isaf (poi passata nel marzo 2003 sotto il controllo della Nato) di dar vita ad una operazione bellica contro gli insurgents afghani, in particolare dell'etnia Pashtun, fermamente impegnati nella resistenza agli invasori.
Assecondando una richiesta emergente dai controversi «Accordi di Bonn» del 5 dicembre 2001, il Consiglio di Sicurezza aveva assegnato all'Isaf (non a caso denominata International Security Assistance Force) il solo compito di «assistere l'Autorità afghana provvisoria nel mantenimento della sicurezza nella città di Kabul e nei suoi dintorni, in modo che l'Autorità provvisoria e il personale delle Nazioni Unite fossero in grado di operare in un ambiente sicuro». Se è questo che aveva affermato la Risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001, allora la missione dell'Isaf non aveva nulla a che fare con la guerra sanguinosissima che la Nato avrebbe poco dopo scatenato nell'intero territorio afghano, spesso agli ordini di comandanti statunitensi, con l'obiettivo di distruggere per sempre il movimento talibano.
Quanto alla motivazione umanitaria della guerra - l'esportazione in Afghanistan della democrazia e dei diritti di libertà - basterebbe a sottolineare che in oltre otto anni di occupazione la struttura politica afghana non è stata neppure sfiorata dai valori e dalla procedure della democrazia rappresentativa. Nessuno osa più negare che le elezioni del 2004 e del 2008 sono state una farsa grottesca voluta e organizzata dagli Stati Uniti. E non c'è chi non riconosca che il governo che fa riferimento ad Hamid Karzai è, oltre che illegittimo, profondamente corrotto e senza la minima autorità rappresentativa. Chi in questi anni ha visitato l'Afghanistan conferma che la tradizione politica afghana è incompatibile con la democrazia ed è lontanissima dalla sue procedure. E riconosce che non esiste alcuno «Stato nazionale» afghano. Emerge qui il delicato problema del possibile rapporto fra democrazia e mondo islamico, un problema complicato dal tribalismo che caratterizza l'organizzazione politico-sociale dei paesi islamici o a maggioranza musulman. In Afghanistan il problema è reso ulteriormente complesso da una struttura tribale policentrica - pashtun, tagiki, uzbeki, hazara, ecc. - molto differenziata e con spiccate identità etniche. Ciascun gruppo tribale, come ha mostrato Louis Dupree (Afghanistan, Oxford, 1997), è un network delicato di diritti e di doveri, sorretto da strutture di potere fortemente personalizzate. Uno Stato unitario non dispotico forse potrebbe riuscire ad affermarsi solo a condizione di assimilare progressivamente - non di cancellare - alcune funzioni politiche svolte dalle unità tribali, rispettandone pienamente l'autonomia e l'identità.
La pretesa occidentale di trasferire coattivamente nei paesi di religione musulmana il modello della democrazia rappresentativa come se fosse un valore assoluto e universalmente praticabile, è un'ottusa pretesa neocoloniale che ha caratterizzato in particolare la presidenza Bush. C'è da augurarsi su questo tema - dopo i primi passi che sembrano in linea con la strategia concepita dal suo predecessore - che il nuovo presidente degli Stati Uniti si ravveda, come mostra lo scontro in atto tra la Casa bianca e l'establishment militare Usa che chiede più truppe «altrimenti la guerra è persa». Ai generali Obama, per ora, risponde: «Non è vero che più truppe vuol dire automaticamente più sicurezza a casa nostra».
George Bush dichiarava di voler «democratizzare» con la forza l'intera area medio-orientale - il Broader Middle East -, ben consapevole che quest'area è il più ricco deposito di risorse energetiche del mondo oltre che uno spazio strategico di eccezionale rilievo. C'è da sperare che Barack Obama si renda conto che una guerra di aggressione camuffata con vesti umanitarie non può che essere percepita dalle popolazioni afghane come una guerra terroristica, alla quale esse resistono con i mezzi spietati di cui dispongono. Al «terrorismo umanitario» della coalizione occidentale, gli insorti afghani oppongono il terrorismo suicida, ottenendo risultati esattamente opposti a quelli che le potenze occidentali dichiarano di voler raggiungere.
“Oramai abbiamo il sovversivismo al governo...». Aldo Schiavone, storico, direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane, non usa mezzi termini per descrivere lo stato presente dell’Italia. «Certo, la democrazia corre rischi seri,ma io sono convinto che il berlusconismo stia tramontando », aggiunge con sicurezza. «Questo premier non interpreta più il sentimento degli italiani».
Professore, a proposito dei sovversivi al governo il premier ha di nuovo attaccato l’opposizione accusandola di essere anti-italiana. Davvero la nostra democrazia è in pericolo?
«Guardi, Berlusconi sta stressando la democrazia, la tira per i capelli. La sta impoverendo. Per lui democrazia vuol dire: si vota, chi vince comanda. In questa idea non c’è più ruolo per il Parlamento, si figuri la divisione dei poteri. Resta solo il rapporto carismatico del leader con il popolo che lo ha scelto. In questo senso certo che c’è un rischio per la democrazia. Però, anche se l’Italia rappresenta una versione estrema, la questione democratica è globale. Io dico che in tutto ilmondoc’è bisogno di un rinvigorimento della democrazia».
Ha visto quel che ha detto il ministro Brunetta? Ha parlato di golpe e di una sinistra che deve “morire ammazzata”...
«Questi atteggiamenti ricordano molto quello che Gramsci chiamava il “sovversivismo delle classi dirigenti”. Ceti fragili e senza storia, proiettati all’improvviso al potere, assumono posizioni sovversive, ai limiti dell’anarchia. Chi guida questa logica è Berlusconi, Brunetta non fa altro che interpretare ».
Ma è sicuro che Berlusconi sia al capolinea? Lo abbiamo sentito dire tante volte...
«Sì, il declino c’è. Ma non per la storia delle escort. Il berlusconismo è esaurito, evaporato. Si ricordi che lui vince negli anni Novanta con un messaggio di ottimismo: arricchitevi senza regole. Allora interpretava una voglia di dinamismo della società italiana. Oggi invece è costretto a rovesciare il suo discorso. E infatti nel 2008 ha vinto facendo leva sulla paura. Il disfacimento che vediamo attorno a lui è conseguenza di questa perdita di rappresentanza».
È possibile che nasca in Italia una destra non più populista?
«Credo di sì. In Italia ci sono due destre possibili. C’è quella di Bossi e Tremonti che hanno in mente un’Italia divisa, con un regionalismo lacerato. È una destra arroccata, ringhiosa, contraria al multiculturalismo, paurosa dell’Europa e della globalizzazione e che cerca di ritagliarsi un angolino ai margini. Su questa si posa l’ala protettiva della Chiesa. Poi c’è una destra che fa riferimento a Fini di cui ancora non capisco i confini ma che sembra più moderna, aperta, legalista. Possiamo dire: una destra dei diritti. Queste due destre si contendono il campo. E l’esito è ancora difficile da intravedere».
Come ha fatto secondo lei Berlusconi a cambiare lo spirito degli italiani? Come ha fatto a vincere culturalmente?
«Berlusconi è l’erede di Craxi. Lui e Craxi sono stati gli unici, anche se con pesanti limiti etici e culturali, che hanno letto la modernizzazione, hanno capito l’Italia post-industriale. Diciamo che, in un modo un po’ straccione, sono stati i Reagan e le Thatcher italiani. Berlusconi ha potuto svolgere questo lavoro in un vuoto politico, con una sinistra ancora legata al passato e incapace di interpretare il presente. Così è passato il suo messaggio: individualismo, consumismo, egoismo sociale, niente regole».
Insomma,la sinistra gli ha lasciato campo libero?
«Certo, alla fine della prima repubblica la sinistra non è stata capace di fare una proposta al Paese. Ha compiuto troppi errori, si è trasformata tardi e in modo pasticciato. Se il Pci avesse avuto il coraggio di cambiare prima, credo che Berlusconi non ci sarebbe stato. Possiamo dire, in un certo senso, che Berlusconi è la conseguenza del ritardo della sinistra ».
Ma chi ha sbagliato, Berlinguer?
«No, perché Berlinguer non poteva fare di più, era dentro la storia del comunismo. Gli errori più grandi li hanno commessi i suoi eredi tra l’84 e l’89. Si è perduto troppo tempo».
Oggi come la vede l’Italia:un paese stanco,depresso?
«Vedo un paese provato, toccato dalla crisi che avrà conseguenze che ancora non abbiamo visto. Stiamo andando verso un autunno che sarà pesante. Però io credo che l’Italia ha le risorse per reagire. Noi diamo il meglio nei momenti di difficoltà, quando siamo con le spalle al muro».
Ma come uscirne?
«Questo paese ha un grande bisogno di una leadership politica. Berlusconi non è più in grado di rispondere a questa domanda, la sua visione è entrata in crisi. All’Italia serve un leader che racconti un’altra storia».
Un bel compito per la sinistra...
«Sì, la sinistra ha una grande occasione, si sta aprendo uno spazio enorme: ora deve saper essere espressione della modernizzazione del Paese. Quando negli anni Sessanta e Settanta ha interpretato la spinta verso l’industrializzazione il Pci è diventato polo di attrazione per tante forze diverse per provenienza e matrice culturale. E lo sa perché? Perché vedevano quel partito come soggetto forte del cambiamento».
Ma che vuol dire modernizzazione? È una parola che si può declinare in modi diversi...
«Le dico alcune parole fondamentali. Uguaglianza, ma non intesa in modo seriale: penso invece all’uguaglianza del merito. Nuovi legami sociali. Solidarietà. Nuovi rapporti tra generazioni. E nuovi rapporti anche tra vita e innovazione tecnologica, perché non si può lasciare tutto al mercato. Questi devono essere, per il centrosinistra, i capisaldi della modernità. Qualcuno potrà dirmi: facile a dirsi. Lo so,ma questa è la grande sfida».
Nel suo ultimo libro “L’Italia contesa”lei sostiene che c’è bisogno di un nuovo soggetto politico. Ce la farà il Pd?
«Penso che il Pd abbia bisogno di una forte leadership unita a una forma partito robusta. È sbagliato mettere in contrasto partito del leader e partito organizzato, devono tenersi insieme. C’è bisogno di una pesantezza territoriale. Però attenzione alla fretta, queste sono operazioni che richiedono tempo. Quello del Pd è sicuramente un amalgama difficile ma guai se interpretassimo questa difficoltà come una impossibilità e quindi si reagisca con la voglia di tornare indietro, ai Ds e alla Margherita. Oggi non vedo altra prospettiva oltre al Pd».
Scusi, professore: che cosa c’è di sinistra nel Pd?
«Veltroni ha compiuto diversi errori ma ha avuto un’intuizione giusta. Oggi serve una nuova cultura politica. La sinistra deve essere un’altra cosa rispetto al Novecento, non si può tornare alla vecchia cultura socialista».
Qualcuno le obietterà: ma in Europa i socialisti ci sono...
«Sì, ma guardi bene. Guardi i socialisti francesi che cosa sono diventati, ormai sembrano ridotti a un’ombra di se stessi. E in Germania? La Spd soffre, non sa indicare una prospettiva e infatti vince la Merkel. Persino in Inghilterra è fallito il modello Blair che pure aveva tentato un certo rinnovamento. Questo succede perché tutte e tre le socialdemocrazie (anche se meno quella inglese) sono state esperienze legate al mondo industriale strutturato in classi, non sono state capaci di cogliere le novità dirompenti che entravano in scena. Non hanno compiuto la loro rivoluzione culturale».
C’è un’eccezione: Zapatero. Che ne dice?
«Dico: aspettiamo, bisogna vedere come va a finire. Anche nei paesi dove la tradizione socialista è forte ci sono difficoltà. Bisogna sapere vedere il nuovo: sono cambiati i confini dell’uguaglianza, dello stato sociale, del lavoro. È ora di chiudere con il Novecento. Non dico di cancellare il passato. Dico: usiamolo per fare qualcosa di veramente nuovo».
Chi è Aldo Schiavone
Studioso di diritto e di storia Ha raccontato l’«Italia contesa» Aldo Schiavone è nato a Napoli nel 1944. Laureato in Giurisprudenza, insegna Diritto romano ed è attualmente direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane (Firenze - Napoli).Dal 1980 al 1988 è stato direttore dell’Istituto Gramsci. Autore di numerosi saggi di diritto ha pubblicato recentemente con Laterza «L’Italia contesa». La tesi del libro è che il berlusconismo è al declino e che nel Paese si apre un immenso spazio politico e di pensiero che la sinistra deve essere in grado di occupare costruendo un’altra idea di Italia.
Che cosa è la libertà di stampa? Per stare al presente e al concreto è qualcosa che l’attuale capo del governo non ha mai apprezzato né coltivato. Guglielmo Zucconi e il sottoscritto, chiamati nel 1983 come esperti d’informazione a preparare il telegiornale di Canale 5, la sua televisione, ci trovammo di fronte a questa sorpresa (nostra non sua): che a lui l’informazione importava solo in quanto pubblicità e potere.
E che, avendo già l’una e l’altra con la struttura di Publitalia e con l’alleanza con Craxi, del telegiornale avrebbe fatto volentieri a meno. Infatti lo ritardò per anni. La libertà di stampa per Silvio è un lusso, una stranezza, uno snobismo che viene dopo la pubblicità e «il fare», inteso come buon affare.
Che cosa è la libertà di stampa? Per stare al presente e al concreto è un bene di cui l’uomo moderno non può fare a meno e che rimpiange se ne è privato. Generazioni di uomini sono vissute senza democrazia e senza libertà d’informazione nei secoli passati. Oggi, dopo la Riforma, le rivoluzioni borghesi, l’Enciclopedia, la libertà d’informazione è diventata necessaria e fortemente desiderata come l’aria che si respira. Oggi la conoscenza dei rapporti tra gli individui e lo stato, fra gli individui e le Chiese non può più essere nascosta sotto la cappa delle sacralità, oggi è diventato un diritto naturale. Tutto ciò è ostico e forse incomprensibile al nostro capo del governo. Egli è solito dire che il nostro è uno strano paese, dove la RAI e i giornali che appartengono allo stato si permettono di essere critici verso un governo democraticamente eletto. E lo ripete di continuo, credendo di aver trovato l’argomento inoppugnabile, che invece è la dimostrazione della sua estraneità alla democrazia, dove lo Stato non è la stessa cosa del Governo, e dove la libertà d’informazione non è la stessa cosa, anzi molto diversa, dalla pubblicità, semmai un suo necessario correttivo.
Che cosa è oggi in Italia la libertà di stampa? Direi che è il contrario del berlusconismo attivista e ingordo. La trasmissione televisiva a reti riunite in occasione della consegna delle prime case ai terremotati abruzzesi è stata una riedizione delle «opere del regime» mussoliniano, cioè propaganda. La libertà di stampa è la presa di cognizione e di coscienza del suo insostituibile valore in una società civile e moderna. E allora come può un uomo, che si crede «fatale» come Berlusconi, volere, anzi pretendere, uno spettacolo così arcaico di un autocrate che non ammette critiche, interruzioni, domande, e che in pubblico rivendica meriti ridicoli, come di aver salvato il mondo dalla crisi economica, e l’Italia dai malvagi catastrofisti che preferiscono al bene del paese la sua rovina.
La libertà di stampa è anche questo: di essere l’unico freno, l’unica difesa che restino quando si scatenano le maree autoritarie, assurde ma reali. La libertà di stampa non è un lusso e non è un capriccio, è una conquista dell’homo sapiens, che i vari autoritarismi credono di poter sostituire con le tentazioni del denaro e del comando. La rinuncia alla libertà di stampa equivale a un suicidio per la società moderna, la pesantissima crisi economica per cui stiamo passando è in notevole parte dovuta proprio ai limiti che le avidità imperanti hanno imposto all’informazione e alla conoscenza. La libertà di stampa è la voglia di verità, la voglia di conoscenza, innate in ogni essere che ambisca a essere homo sapiens.
Il buon informatore deve sapere che questa libertà non è illimitata e irresponsabile, che come tutte le libertà deve rispettare le libertà degli altri, ma nella mia lunga esperienza di giornalista mi pare di aver capito che la libera informazione è oggi, forse, l´unica difesa a nostra disposizione contro le irresponsabilità della scienza e del progresso senza limiti e ragione. E anche l’unico freno alle ricorrenti follie degli uomini che non dormono mai, che non invecchiano mai, che, come il nostro, rivendicano il diritto al potere assoluto, all’obbedienza totale del popolo, che poi amano chiamare sovrano. La libera informazione è il nostro specchio: serve a vedere come siamo e a quali tentazioni esposti.
Mezzo secolo fa gli alloggi non occupati risultavano a Roma pochissimi: uno ogni 30 alloggi esistenti. Oggi sono invece tantissimi: 245.000, uno ogni 7 esistenti. La capitale viene da un «boom» edilizio durato sette anni, tutto dedicato al mercato. Tuttavia si chiede a gran voce di poter costruire nuove case, e si protesta contro il vincolo che la Soprintendenza ai Beni Architettonici intende porre sulla porzione di Agro Romano (5.400 ha), molto bella, fra Laurentina e Ardeatina. Vincolo che doveva figurare fra le 130 osservazioni («inascoltate » a detta di ministro e Ministero) al recente PRG.
A Roma, come e più che in altre città, abbiamo dunque tante case vuote, fra centro e semi-centro, e, contemporaneamente, una vera «fame» di case. Anche se i residenti sono in stallo o diminuiscono. Negli anni passati i governi italiani, un po' tutti, hanno lasciato deperire ad un miserabile 0,7 per cento la quota destinata all'edilizia pubblica che in Europa sta, in media, sul 30 per cento. Inclusi i paesi più sviluppati dove poi l'offerta di affitto viaggia fra il 40-50 per cento (grande calmiere, di per sé) contro il 24 per cento di Roma a canoni di fuoco. In tal modo i pendolari, malamente serviti dalle ferrovie, sono molto aumentati e spendono 3-4 ore della giornata nel percorso casa-Roma-casa.
Prima di aggiungere altre colate di cemento a quelle ancora da smaltire, converrebbe riflettere su cosa e come costruire. Il Piano Casa riguarda per lo più chi la casa (villa, villetta,ecc.) ce l'ha già e potrebbe ampliarla. Bisogna puntare sul recupero del vasto patrimonio edilizio vuoto o sotto-utilizzato, a cominciare da quello pubblico. È la sola in grado di soddisfare la domanda, sin qui trascurata, di giovani coppie, immigrati, studenti, anziani soli (sfrattati dalle cartolarizzazioni, o smarriti in alloggi troppo grandi).
L'esigenza di risparmiare suoli - agricoli, verdi, comunque liberi - s'impone pure a Roma. Dove l'Agro superstite rappresenta una straordinaria riserva di biodiversità (1/5 di tutte le piante italiane, moltissime autoctone; nidi per metà degli uccelli del Lazio, ecc.), di agricoltura qualificata, di beni culturali: quasi 700 casali, 84 torri, 16 borghi e castelli, 31 chiese, gli imponenti acquedotti romani, ecc. Fino a quando, se tanti, troppi suoi terreni sono degradati a pratacci in attesa dell'inesorabile cemento/asfalto?
Le politiche di respingimento contro i migranti, attuate dal governo Berlusconi nelle acque del canale di Sicilia, incassano il cartellino rosso anche dalle Nazioni unite. La dura condanna arriva direttamente dall'Alto commissario dell'Onu per i diritti umani, Navi Pillay, che denuncia il trattamento riservato ai migranti «abbandonati e respinti senza verificare in modo adeguato se stanno fuggendo da persecuzioni, in violazione del diritto internazionale». È quando emerge dal discorso, anticipato ieri a Ginevra, che Pillay pronuncerà oggi all'inaugurazione della dodicesima sessione del Consiglio Onu dei diritti umani.
Riferendosi al caso del gommone degli eritrei rimasto in mare senza soccorsi, lo scorso mese di agosto per 20 giorni fra la Libia, Malta e l'Italia, l'Alto commissario spiega che «in molti casi, le autorità respingono questi migranti e li lasciano affrontare stenti e pericoli, se non la morte, come se stessero respingendo barche cariche di rifiuti pericolosi».
Oggi inoltre «partendo dal presupposto che le imbarcazioni in difficoltà trasportano migranti, le navi le oltrepassano ignorando le suppliche di aiuto, in violazione del diritto internazionale». Gli stessi pescatori siciliani, che negli anni hanno sempre aiutato i natanti in avaria, intervistati dal Manifesto qualche settimana fa, hanno detto che dopo l'introduzione del reato di immigrazione clandestina, e quindi del favoreggiamento per coloro i quali li aiutano ad entrare nel paese, evitano di avvicinare e addirittura di segnalare alle autorità le barche con i migranti a bordo anche se richiedenti soccorso.
Con queste premesse, prosegue l'Alto commissario allargando il campo dell'analisi ad altre aree critiche del pianeta, il «loro destino è così segnato mentre cercano di attraversare il Mediterraneo, il Golfo di Aden (fra la Somalia e lo Yemen, n.d.r.), i Caraibi, l'Oceano indiano o altre zone di mare». A cadere sotto le critiche delle Nazioni unite è anche «la pratica della detenzione dei migranti irregolari, della loro criminalizzazione e dei maltrattamenti nel contesto dei controlli delle frontiere» che deve «cessare». Il fenomeno dell'immigrazione è diventato uno «dei più seri problemi» legati ai diritti umani nel «mondo contemporaneo», poichè «milioni di persone, che rischiano la vita in cerca di una vita migliore», spesso cadono «preda dei trafficanti di esseri umani che prosperano soprattutto dove il controllo dei governi è più debole». Richiami a molti paesi dell'Unione europea, fra cui l'Italia, giungono anche sulla questione delle «discriminazioni e dei trattamenti degradanti» riservati alla popolazione Rom. Secondo la Pillay, «nonostante gli sforzi intrapresi dagli stati membri, dalle organizzazioni internazionali e regionali, il sentimento anti-Rom in Europa resta forte».
Le critiche rivolte dalle Nazioni unite contro le politiche di respingimento hanno acceso le polveri della discussione fra maggioranza e opposizione. «Le gravissime affermazioni dell'Alto commissario Onu - ha detto Margherita Boniver, deputata del Pdl e presidente della Commissione Schengen - dovranno essere supportate da testimonianze e riscontri concreti. È inaudito che simili infamanti accuse siano mirate contro il nostro paese che ha sempre rispettato il diritto internazionale». Nella levata di scudi del centrodestra il capogruppo Pdl al senato, Maurizio Gasparri, ha spiegato che l'Italia rispetta «pienamente tutti i principi e le norme del diritto internazionale», mentre il ministero degli Esteri precisa che «il richiamo alle violazioni del diritto internazionale non è rivolto all'Italia». L'opposizione, a testa bassa, ha attaccato la maggioranza. Secondo il candidato alla segreteria del Pd, Pierluigi Bersani, con queste politiche il paese rischia «figuracce internazionali». La sua collega di partito, Rosy Bindi, rincara la dose spiegando che «l'immagine e il prestigio dell'Italia sono irrimediabilmente sfigurati». «O qualcuno - chiude la Bindi - pensa di tappare la bocca all'Onu con ricatti morali, come si è fatto con la chiesa e si vorrebbe fare con il presidente della Camera?» Dal 7 maggio, data di inizio degli accordi italo-libici, ad oggi 800 migranti sono stati respinti nel paese nordafricano.
C’è qualcosa che gli italiani non sanno, ma soprattutto non debbono sapere, dietro la violenza dell’assalto finale di Silvio Berlusconi al valore di cui s’è sempre orwellianamente riempito la bocca, la libertà.
La libertà d’informazione e di critica del giornalismo, perfino la semplice libertà di scelta degli spettatori televisivi. C’è, deve esserci una disperata ragione se il premier, già osservato speciale delle opinioni pubbliche di mezzo mondo, invece di rientrare (lui sì) nei ranghi del gioco democratico, continua a sparare bordate contro le riserve indiane che ancora sfuggono al suo controllo.
L’ultimo episodio, l’oscuramento di Ballarò su Raitre, e ora anche di Matrix su Canale 5, per concentrare tutta l’audience di oggi sulla puntata celebrativa di Porta a Porta per la consegna alle vittime del terremoto abruzzese delle prime case, aggiunge un ulteriore tocco "coreano" al disegno dell´egemone. Volenti o nolenti, milioni di spettatori sono chiamati stasera all’appello, da bravi soldatini, per plaudire al «miglior presidente del Consiglio in 150 anni», che si esibisce nell’ennesimo spettacolare sfruttamento del dolore, fra le lodi dei ciambellani. Si ha un bel dire che ci vuole prudenza nell´adoperare certe parole, ma queste cose si vedono soltanto nei regimi. Più spesso, alla fine dei regimi, quando l´egemone è parecchio in là con gli anni e con l´incontinenza egolatrica.
La vicenda è grave in sé, come ha subito commentato Sergio Zavoli, presidente della Commissione parlamentare di vigilanza e memoria storica della Rai. E lascia perplessi che invece il presidente di garanzia della Rai la riduca a scompenso organizzativo. Si tratta quantomeno di un eufemismo. Ma l’affare Ballarò diventa ancora più inquietante perché s’inserisce in una strategia del ragno governativa per intimidire o tappare direttamente la bocca all’informazione critica. Le denunce e le minacce contro Repubblica e Unità e perfino la stampa estera, il pestaggio mediatico di questo o quel giornalista, gli avvertimenti mafiosi a questo o quel conduttore perché si pieghino alle censure o dicano addio ai loro programmi, questi sono i metodi. Non si può neppure dire che si tratti di una trama occulta. Gli obiettivi sono palesi, dichiarati, in qualche caso rivendicati. Berlusconi sta usando tutto il suo potere di premier, primo editore e uomo più ricco d’Italia, per strangolare economicamente la stampa d’opposizione, epurare i pochi programmi d´informazione degna di un servizio pubblico, a cominciare da Annozero di Santoro, Report di Gabanelli e Che tempo che fa di Fazio, infine destituire l’unico direttore di rete televisiva, Paolo Ruffini di RaiTre, che non obbedisce agli ordini.
Non sappiamo se tutto questo si possa definire «l’agonia di una democrazia», come ha scritto Le Monde. Ma certo gli assomiglia moltissimo. Del quotidiano francese si può condividere anche il conciso titolo del commento: «Basta!». Nella speranza che siano in molti ormai in Italia a voler dire «basta!», non tanto, non più per convinzione politica, ma per buon senso, decenza e amor di patria. Lo si vedrà anche alla manifestazione di piazza del Popolo il prossimo sabato.
Al giornalismo libero rimane il compito di chiarire il mistero dietro l’offensiva finale di Berlusconi contro la libertà d´informazione. Oltre a quanto già gli italiani sanno, o almeno la minoranza che non si limita a bersi i telegiornali. E cioè il terrore governativo per il calo (reale) di consensi, l’incombere degli effetti autunnali della crisi sempre negata, il dilatarsi dei noti scandali di escort e minorenni, l’avvicinarsi di una sentenza della Consulta che potrebbe restituire Berlusconi alle proprie responsabilità davanti alla legge. E poi forse ci sarà dell´altro da nascondere, che all´informazione indipendente spetta d’indagare. Salvo che il potere impedisca ai giornalisti di fare il proprio lavoro. Come sta accadendo in Italia, con questa guerra preventiva, sotto gli occhi di tutto il mondo.
Anticipiamo l’inizio del saggio di , "Politica della vergogna" (a cura di Edoardo Acotto), che esce oggi per nottetempo
Il 16 settembre 2007, il ministro degli Affari Esteri francese Bernard Kouchner avvertì che il mondo si sarebbe dovuto preparare a una guerra causata dal programma nucleare iraniano: "Dobbiamo prepararci al peggio, e il peggio è la guerra". Quest’affermazione, com’era prevedibile, fu causa di notevole scompiglio e di critiche rivolte a ciò che Sir John Holmes, a capo dell’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite, definì "il contagio iracheno": dopo lo scandalo delle armi di distruzione di massa, agitate come pretesto per l’invasione, evocare analoghe minacce aveva perso per sempre ogni credibilità - perché dovremmo ancora credere agli Stati Uniti e ai loro alleati, se già siamo stati brutalmente ingannati?
C’è tuttavia un altro aspetto, molto più preoccupante, che riguarda il monito di Kouchner. Quando il presidente Sarkozy, appena eletto, nominò Bernard Kouchner, noto per i suoi orientamenti umanitari e politicamente vicino ai socialisti, a capo del Quai d’Orsay, persino alcuni oppositori di Sarkozy salutarono questa scelta come una piacevole sorpresa. Adesso il significato di questa nomina è chiaro: il ritorno in forza dell’ideologia dell’"umanismo militaristico" o anche "pacifismo militaristico". Il problema insito in quest’etichetta non è tanto che si tratta di un ossimoro che richiama alla mente lo slogan "la pace è guerra" di Orwell in 1984: la semplicistica posizione pacifista "più bombe e uccisioni non porteranno mai la pace" è illusoria; spesso è necessario combattere per la pace.
Il vero problema non è nemmeno che, come nel caso dell’Iraq, l’obiettivo è nuovamente scelto non certo sulla base di pure considerazioni morali, ma per interessi strategici, geopolitici ed economici non dichiarati. Il problema insito in un "umanismo militaristico" non risiede nel "militaristico" ma nell’"umanismo": poiché l’intervento militare è presentato come aiuto umanitario, giustificato direttamente da diritti umani depoliticizzati e universali, chiunque vi si opponga non solo prende le parti del nemico in un conflitto armato, ma compie una scelta criminale che lo esclude dalla comunità internazionale delle nazioni civilizzate.
Ecco perché, nel nuovo ordine mondiale, non abbiamo più guerre nel vecchio senso della parola, cioè conflitti regolari tra Stati sovrani in cui si applicano determinate convenzioni (il trattamento dei prigionieri, la proibizione di certe armi, ecc.). Ciò che resta sono "conflitti etnico-religiosi" che violano le regole dei diritti umani universali. Essi non contano come vere guerre e richiamano l’intervento "pacifista e umanitario" delle potenze occidentali: a maggior ragione nel caso di attacchi diretti agli Stati Uniti o ad altri rappresentanti del nuovo ordine mondiale, quando, di nuovo, non si ha a che fare con vere guerre, ma solo con "combattenti illegali" che resistono colpevolmente alle forze dell’ordine universale.
In questo caso, non è neanche possibile immaginare che un’organizzazione umanitaria neutrale, come la Croce Rossa, medi tra le parti in conflitto, organizzi lo scambio di prigionieri ecc.; una delle parti in conflitto (l’esercito mondiale guidato dagli Stati Uniti) già assume il ruolo della Croce Rossa: non percepisce se stesso come una delle parti in guerra, ma come un mediatore, un agente di pace e di ordine globale che annienta le agitazioni locali e particolaristiche elargendo, simultaneamente, aiuto umanitario alle "popolazioni locali".
Dunque, la domanda fondamentale è la seguente: CHI è questo "noi" in nome del quale parla Kouchner, chi vi è incluso e chi, invece, ne è escluso? Questo "noi" è veramente il "mondo", l’apolitica comunità "mondiale" dei popoli civilizzati che agiscono in nome dei diritti umani? Abbiamo avuto una risposta a questa domanda quattro giorni dopo, il 20 settembre, quando sette pescatori tunisini furono arrestati in Sicilia per aver commesso il crimine di salvare quarantaquattro migranti africani da morte certa per annegamento. Se saranno condannati per "favoreggiamento dell´immigrazione clandestina", dovranno trascorrere da uno a quindici anni in carcere. Il 7 agosto avevano gettato l’ancora su un banco di sabbia a trenta miglia a sud dell’isola di Lampedusa, vicino alla Sicilia, ed erano andati a dormire. Svegliati dalle grida, videro un gommone stipato di persone, tra cui donne e bambini in uno stato di estrema prostrazione fisica, scosso da forti marosi e sul punto di affondare. Il capitano prese la decisione di imbarcarli fino al più vicino porto dell´isola di Lampedusa, dove l’intero equipaggio fu arrestato.
Coloro che esprimono comprensione per questa misura si comportano allo stesso modo dei negazionisti dell’Olocausto quando devono giustificare le loro problematiche affermazioni: sostengono che gli accusatori sottraggono i provvedimenti presi al loro contesto; proprio in quanto problematici, dovrebbero essere inquadrati nelle condizioni specifiche e più ampie che li circondano. Ora, in che cosa consiste tale contesto? Evidentemente, nella paura della fortezza europea di essere invasa da milioni di rifugiati affamati: il vero obiettivo di quest´assurdo processo è dissuadere altri equipaggi dal fare lo stesso. Significativamente, non sono state intraprese azioni legali contro altri pescatori che, trovandosi in una situazione simile, hanno com´è noto allontanato i migranti a colpi di bastone lasciandoli affogare.
Ciò che è dimostrato da quest’incidente è che la nozione, dovuta a Giorgio Agamben, di homo sacer, cioè dell’escluso dall’ordine civile che può essere ucciso impunemente, opera a pieno regime nel mezzo di un’Europa che pretende di essere l’assoluto bastione dei diritti umani e dell’aiuto umanitario.
Come può accadere che, nel cuore di QUESTA Europa, quei pescatori tunisini che compiono semplicemente l´elementare dovere morale di salvare vite innocenti da morte certa siano chiamati in giudizio? Il capitano del peschereccio, Abdelkarim Bayoudh, ha dichiarato: "Sono contento di ciò che ho fatto". Noi, cittadini dell’Unione Europea, decisamente non dovremmo essere contenti di fare parte di un "noi" che include il tribunale di Lampedusa.
L’impasse in cui si trova la costituzione europea è un segnale del fatto che il progetto europeo è in questo momento in cerca della sua identità. Il dibattito viene generalmente dipinto come uno scontro tra i multiculturalisti liberali, che desiderano allargare i confini dell´Unione Europea alla Turchia e oltre, e i cristiani eurocentrici della linea dura, che esprimono dubbi sulla democraticità e il rispetto dei diritti umani all’interno dello stato turco. E se questo dibattito fosse quello sbagliato? Se facessimo meglio a restringere i confini e a ridefinire l’Europa in modo da escludere non la Turchia, ma il tribunale di Lampedusa? Forse è tempo di applicare all’Italia (o alla Polonia, o ad altri paesi...) gli stessi criteri con cui valutiamo la Turchia.