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la Repubblica il manifesto e Corriere della Sera, 16 dicembre 2012, postilla (f.b.)

la Repubblica Il trionfo di Ambrosoli, correrà per il Pirellone
di Alessia Gallione

MILANO — È Umberto Ambrosoli il candidato del centrosinistra che tenterà la scalata al Pirellone. E questa volta, dopo quasi diciotto anni di dominio incontrastato di Formigoni e Lega, la coalizione ci crede. A incoronare l’avvocato penalista sono state le primarie del “Patto civico”, cui hanno partecipato 150mila lombardi: così è stata ribattezzata la corsa per rappresentare il tentativo di allargare i confini tradizionali dei partiti. Una sfida a tre, vinta da Ambrosoli con il 58 per cento delle preferenze. Secondo con il 23 per cento – e questa può essere giudicata una sorpresa rispetto ai sondaggi della vigilia – il giornalista esperto di temi ambientali ed economici Andrea Di Stefano, che ha strappato l’appoggio di pezzi di Sel, Rifondazione e, a distanza, del sindaco di Napoli De Magistris. Una percentuale simile a quella di Alessandra Kustermann, la ginecologa fondatrice del primo centro contro la violenza alle donne, che si è fermata al 19 per cento. Ma, adesso, parte la battaglia vera. Quella contro il centrodestra.

La «prima scommessa vinta», dice il segretario regionale del Pd Maurizio Martina, è stata la partecipazione. Alla vigilia, la terza chiamata alle urne nel giro di un mese del popolo delle primarie sembrava un’incognita. Certo, i 440mila in fila ai seggi del primo turno del duello per la premiership sembrano un miraggio. Ma gli organizzatori mettevano in conto la stanchezza dei militanti, persino l’incrocio tra la neve caduta su tutta la regione e lo shopping natalizio. Centomila era l’obiettivo: si è arrivati a 150mila, di cui oltre 40 a Milano.

E lui, «l’uomo del cambiamento » in Lombardia, è Umberto Ambrosoli, il candidato che molti partiti, a cominciare dal Pd, hanno corteggiato fin da quando, negli scorsi mesi, la poltrona di Roberto Formigoni ha vacillato. Inizialmente, l’avvocato aveva declinato l’invito: troppo poco tempo per costruire il suo progetto. Poi, a inizio novembre, la svolta. È allora che anche le primarie, a cui si erano già candidati Kustermann e Di Stefano, sono state persino messe in dubbio. Ma, alla fine di una campagna-lampo giocata cavalcando temi simbolo come il dualismo tra sanità e la scuola pubblica o privata, Expo, l’ambiente e le ricette per vincere la crisi, il centrosinistra ha scelto. E lo ha fatto con una coalizione allargata dal Pd a Sel, dall’Idv a Rifondazione e soprattutto alla società civile. Uno schieramento che dovrà tradursi un una squadra per sfidare il centrodestra.

Da oggi si riparte. «Tutti insieme », giurano gli (ex) avversari. Con Di Stefano che punterebbe a un assessorato che unisca ambiente e lavoro e la Kustermann, invece, che vorrebbe proseguire la sua sfida accorpando sanità e welfare. A invocare la svolta è il sindaco Giuliano Pisapia, sponsor dell’avvocato: «Questo centrosinistra aperto e plurale non ha paura della mischia e si butta per vincere la partita», dice. Una sfida chiave anche in chiave nazionale per diversi motivi: la Lombardia potrebbe determinare gli equilibri nel prossimo Senato e questa è stata per quasi un ventennio la culla del berlusconismo e della Lega che, non a caso, per il Pirellone ha già schierato il suo leader Roberto Maroni.

la Repubblica ed. Milano
La forza per vincere
di Roberto Rho

UMBERTO Ambrosoli ben oltre la metà dei consensi dei 150mila lombardi che hanno sfidato il gelo e lo shopping prenatalizio per accostarsi ai seggi è insieme la conferma che le primarie fanno bene a chi accetta la sfida e la garanzia che il centrosinistra, nella corsa per il Pirellone, avrà un candidato solido e attrezzato per vincere. Il giovane avvocato è l’incarnazione di quel bisogno di etica nella vita pubblica che l’interminabile sequenza di episodi di malaffare – fino allo scandalo dei lecca-lecca e delle cartucce da caccia pagate con i soldi dei contribuenti – ha reso urgente e ineludibile. Ma etica e trasparenza sono un prerequisito, non un programma. Ambrosoli, con il suo 58%, ha la forza (ma poco tempo) per costruirlo, facendo buon uso delle proposte ascoltate durante questo scorcio di campagna e delle idee messe in campo dagli altri candidati, soprattutto quelle più innovative di Di Stefano. Ha la forza per proseguire con decisione sul sentiero civico, lavorando “insieme” ma non “per” i partiti, per compilare liste elettorali fresche e stimolanti, per presentare un progetto di governo che riavvicini i cittadini all’istituzione. L’occasione è storica, il traguardo è più vicino.

ll manifesto L’ottimismo della regione
di Luca Fazio

MILANO -. Ha vinto chi doveva vincere, l'avvocato Umberto Ambrosoli, anche perché in Lombardia, laddove era più forte la macchina organizzativa del Pd, non c'era partita. Ma l'affermazione dei due sfidanti, Andrea Di Stefano e Alessandra Kustermann, ha del clamoroso, perché il primo era sostenuto solo dal Prc e perché la seconda si è candidata sostanzialmente da sola, anzi addirittura osteggiata dal suo partito, il Pd. Intorno alle 22 di ieri sera le percentuali dicevano 58% Umberto Ambrosoli, 23% Andrea Di Stefano e 19% Alessandra Kustermann.

Ma, al di là del lato lombardo, la vera partita politica di queste primarie si è giocata tutta a Milano, dove ha votato quasi la metà degli oltre 130 mila elettori lombardi che si sono recati ai seggi. E sicuramente i dati disaggregati del capoluogo lombardo (usciti troppo tardi per darne conto sul nostro giornale) dicono che i due candidati «perdenti» si sono ulteriormente avvicinati a quello che era il vincitore predestinato. E il voto di Milano peserà non poco negli assetti della nuova squadra che il prossimo febbraio dovrà sfidare il centrodestra per conquistare il Palazzo della Regione.

Di questo, già oggi, parleranno i tre candidati guardandosi negli occhi. Il vincitore, a caldo, ha confermato la sua intenzione di lavorare «tutti insieme», anche perché a questo punto non potrà fare diversamente. E lo si capisce dalle prime dichiarazioni di Andrea Di Stefano, il quale dopo i complimenti di rito ha già lasciato intendere che quel suo 22% (e più a Milano) dovrà pesare non poco nell'elaborazione del programma. «Penso che sia un ottimo risultato - ha dichiarato a Radio Popolare, che ieri si è trasformata in una specie di Viminale, ma più efficiente - nonostante i lombardi siano andati a votare con un tempo folle. Adesso questo risultato lo faremo pesare in termini programmatici nella competizione con il centrodestra che non sarà facile. Non si tratta solo di parole, bisogna mettersi d'accordo nella sostanza. Va bene dire tutti insieme, ma bisogna dire per fare cosa».

Insomma, nonostante tutto i cittadini lombardi ci hanno creduto ancora una volta. Soprattutto i milanesi. Soprattutto quelli di una certa età. I «giovani», come al solito, anche questa volta non sono andati a votare. L'asticella della partecipazione comunque si è fermata ben oltre quota centomila, un buon risultato. Non tutti se lo aspettavano e forse non si poteva chiedere di più allo sfilacciato «popolo» della sinistra chiamato ancora una volta a compiere un atto di fede nei confronti di una politica che non riesce a trovare altri sbocchi se non quelli offerti dagli stessi partiti che troppe volte hanno deluso. La realtà, il segreto, è che mai come in queste primarie i candidati sono stati percepiti come sufficientemente autonomi dai partiti, perché più forti e credibili di ogni segreteria.

Grazie alla loro storia, che parla da sola. Umberto Ambrosoli, il relativamente giovane avvocato, forse troppo moderato, ma che nel tempo ha saputo accreditarsi come il paladino della legalità e della moralità dentro e fuori dal Palazzo, una figura senza alcun dubbio più forte e credibile di tutta la segreteria del Pd messa insieme, che infatti lo ha appoggiato ma senza poter strafare. Andrea Di Stefano, «il professore» della sinistra radicale moderna, la vera sorpresa di queste primarie lombarde, mai velleitario, preciso come un orologio svizzero e sempre competente ai limiti della secchionaggine, sostenuto dal Prc con intelligenza e discrezione, cioé con la consapevolezza che questa volta era necessario mettersi a disposizione di un candidato così «nuovo» e forte che sembra quasi caduto dal cielo. E poi Alessandra Kustermann, una donna tosta, motivata e piena di energia orientata senza alcun timore a sinistra, laica, paladina della scuola e della sanità pubblica.

Se sapranno davvero lavorare insieme, questa è una squadra che potrebbe giocare per vincere la partita più importante. Il bello, adesso, o il difficile, sarà riuscire a dare concretezza a quel 42% di cittadini (Di Stefano più Kustermann) che ha espresso chiaramente il desiderio di battere la destra con un centrosinistra spostato a sinistra. Un fatto inedito, una lezione che non è certo affare dei soli cittadini lombardi.

Corriere della Sera Pisapia apre la campagna in Lombardia: «Vincere qui per governare a Roma»
di Maurizio Giannattasio

MILANO — Ora comincia la partita vera. Quella tosta. Quella che dopo 17 anni di governo del centrodestra potrebbe portare alla grande svolta del Pirellone. Il centrosinistra al comando della Lombardia. Lo sa bene Umberto Ambrosoli — 41 anni, avvocato, figlio dell'«eroe borghese», non avvezzo alla politica politicante e tanto meno a quella politicata — che adesso comincia il difficile. Lo sa bene anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. La sfida lombarda è fondamentale: «Ho votato Ambrosoli perché è il candidato che ha più possibilità di vincere. Se non si vince adesso in Lombardia, non si vince più. E se non si vince in Lombardia non si vince neanche in Italia. La nostra Regione è fondamentale per vincere le elezioni nel Paese». Aggiunge su Facebook: «Dopo 17 anni, Palazzo Lombardia ha davvero bisogno di aria fresca e il centrosinistra con Ambrosoli porterà quel cambiamento che tutti aspettiamo...».

Ambrosoli è consapevole del fardello che gli pesa sulle spalle. Da una parte si dovrà scontrare con (almeno) due personaggi come Roberto Maroni e Gabriele Albertini che di solito non la mandano a dire, il primo fortemente identitario, il secondo espressione di un rinnovato civismo dopo la parentesi del Pdl. Dall'altra Ambrosoli deve coniugare la sua estrazione civica con il senso identitario della sinistra che spesso e volentieri non ha apprezzato le sue uscite su tanti argomenti: dalla sanità alla scuola, alle dichiarazioni troppo blande su Cl.

Un quadro speculare. Una battaglia fuori e una dentro fatta degli stessi ingredienti: civismo versus appartenenza, società civile in alternativa ai partiti (che non si sono ancora dimenticati delle prese di distanza dell'avvocato all'inizio del suo cammino politico). La ricetta, potrebbe essere quella del suo grande sponsor Pisapia. Il sindaco lo ha ripetuto in questi giorni. Il motto è: allargare, allargare, allargare. Più ascolto, più territorio e meno partiti. Con un'avvertenza: il cammino vincente di Pisapia e del Modello Milano è esattamente l'opposto di quello che dovrà affrontare Ambrosoli. Pisapia era profondamente radicato nella sinistra e il suo «allargamento» al civismo è stato un lunghissimo percorso durato un anno. Ambrosoli parte dal civismo per «allargarsi», o per meglio dire, convincere l'ala sinistra del suo schieramento. E dovrà farlo nel giro di due mesi. Con un ulteriore paradosso. Ambrosoli il candidato più «civico» dei tre sfidanti alle primarie di coalizione è anche quello che si è ritrovato con l'endorsement politico più pesante, quello del Pd e del suo segretario Pier Luigi Bersani. A differenza, per esempio, della sua antagonista Alessandra Kustermann che ha collezionato negli anni le tessere di Pci, Pds, Ds, Pd. Sfrondare questa ambiguità di fondo sarà un altro compito a cui Ambrosoli dovrà dedicarsi in questo breve lasso di tempo. Pena, lasciare una buona fetta di «civismo» al suo competitor Gabriele Albertini.

Di fronte a queste contraddizioni e alla difficoltà del percorso c'è però un dato di fatto. Si chiama election day. Impossibile pensare che a Roma ci sia una coalizione di centrosinistra e qui in Lombardia un'altra. La coesione dell'alleanza dovrà essere garantita e anche i mal di pancia di Sel e della sinistra nei confronti dell'avvocato dovranno fare i conti con il dato politico. E poi, per la prima volta dopo 17 anni, c'è la grande speranza che questa sia la volta buona, soprattutto se il centrodestra si spaccherà con Maroni da una parte e Albertini dall'altra. L'occasione è troppo ghiotta per farla fallire in base a differenziazioni che il popolo di centrosinistra farebbe fatica a comprendere. Per questo si pensa ad almeno 3 liste per sostenere Ambrosoli. Pd, Sel, che potrebbe avere come capolista Andrea Di Stefano al secondo gradino del podio delle primarie, e una lista civica lombarda per Ambrosoli.

Resta la grande incognita. La discesa in campo del premier Mario Monti. Con ripercussioni immediate in Lombardia. Perché il candidato in pectore della possibile lista Monti, qui c'è già. Si chiama Albertini che a quel punto potrebbe portarsi dietro una buona fetta del Pdl spaziando ampiamente verso il centro e limitando lo spazio di movimento di Ambrosoli. Quindi, il mantra che va ripetendo Pisapia da settimane, acquista ancora maggiore importanza: «Allargare, allargare, allargare». Tanto i partiti, anche quelli più riottosi nei riguardi dell'avvocato «moderato» non potranno fare altro che seguire (o inseguire). Nessuno vorrà essere ritenuto l'artefice della sconfitta del centrosinistra dopo tre lustri di batoste.

Postilla - Centrosinistra e Megalopoli Padana

Nelle primarie Lombardia del centrosinistra è stato probabilmente Andrea Di Stefano, a cogliere e sostenere meglio l'idea che sia necessario costruire un intero modello di sviluppo regionale alternativo a quello formigoniano, e/o a quello complementare degli interessi profondi “valligiani” puntualmente ricordato ieri da Aldo Bonomi (che se ne fa da sempre cantore) sul Corriere, mentre i cittadini andava no ai seggi. Di Stefano comprende bene, forse meglio di tanti che lo sostengono, quanto sviluppo alternativo non significhi solo legalità, o sostituire certi interessi particolari implicitamente buoni ad altri che non lo sarebbero, ad esempio non chi e come realizza le autostrade, ma se è opportuno proseguire col criterio della cosiddetta Città Infinita. Ha colto anche l'entità della sfida con un candidato forte come Roberto Maroni, il quale oltre a poter contare sulle sue classiche reti di consenso, ha saputo evocare la dimensione macroregionale: quella che la Lega chiama Padania e di cui auspica la secessione, e che esiste anche nella realtà come sistema integrato, al pari di altre "megalopoli" europee. Una delle tante domande che ora, con l'avvicinarsi delle elezioni, varrebbe la pena porsi, è: il centrosinistra, le forze progressiste, ce l'hanno un'idea alternativa di macroregione? Oppure sono convinti che, pure di fronte a una integrazione di fatto delle reti infrastrutturali, socioeconomiche, e a temi ambientali e di sviluppo evidenti (per tutti l'abbattimento degli inquinanti e delle emissioni), la megalopoli resti solo un'espressione geografica? Forse è uno degli errori più rischiosi, lasciare il monopolio alla destra leghista su un tema del genere (f.b.)

La Repubblica, 12 dicembre 2012
L’EUROPA, cui ci siamo abituati a guardare come al Principe che ha il comando sulle nostre esistenze, sta manifestando preoccupazione, da giorni, per il ritorno di Berlusconi sulla scena italiana. È tutta stupita, come quando un’incattivita folata di vento ci sgomenta. giornali europei titolano sul ritorno della mummia, sullo spirito maligno che di nuovo irrompe. Sono desolate anche le autorità comunitarie: «Berlusconi è il contrario della stabilità», deplora Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo.

Tanto stupore stupisce. Primo perché non è così vero che l’Unione comandi, e il suo Principe non si sa bene chi sia. Secondo perché i lamenti hanno qualcosa di ipocrita: se il fenomeno Berlusconi ha potuto nascere, e durare, è perché l’Europa della moneta unica lo ha covato, protetto. Una moneta priva di statualità comune, di politica, di fiato democratico, finisce col dare questi risultati. La sola cosa che non vien detta è quella che vorremmo udire, assieme ai compianti: la responsabilità che i vertici dell’Unione (Commissione, Consiglio dei ministri, Parlamento europeo) hanno per quello che succede in Italia, e in Grecia, in Ungheria, in Spagna.

Se in Italia può candidarsi per la sesta volta un boss televisivo che ha rovinato non poco la democrazia; se in Ungheria domina un Premier – Viktor Orbán – che sprezza la stampa libera, i diritti delle minoranze, l’Europa; se in Grecia i neonazisti di Alba Dorata hanno toni euforici in Parlamento e alleati cruciali nell’integralismo cristiano-ortodosso e perfino nella polizia, vuol dire che c’è del marcio nelle singole democrazie, ma anche nell’acefalo regno dell’Unione. Che anche lì, dove si confezionano le ricette contro la crisi, il tempo è uscito fuori dai cardini, senza che nessuno s’adoperi a rimetterlo in sesto. Gli anni di recessione che stiamo traversando, e il rifiuto di vincerla reinventando democrazia e politica nella casa europea, spiegano come mai Berlusconi ci riprovi, e quel che lo motiva: non l’ambizione di tornare a governare, e neppure il calcolo egocentrico di chi si fa adorare da coorti di gregari che con lui pensano di ghermire posti, privilegi, soldi. Ma la decisione – fredda, tutt’altro che folle – di favorire in ogni modo, per l’interesse suo e degli accoliti, l’ingovernabilità dell’Italia.

Chi parla di follia non vede il metodo, racchiuso nelle pieghe delle sue mosse. E non vede l’Europa, che consente il caos proprio quando pretende arginarlo. Cosa serve a Berlusconi? Un mucchietto di voti decisivi, perché il partito vincente non possa durare e agire, senza di lui, poggiando su maggioranze certe alla Camera come al Senato, dove peserà il voto di un Nord (Lombardia in testa) che non da oggi ha disappreso il senso dello Stato. Così fu nell’ultimo governo Prodi, che aveva il governo ma non il potere: quello annidato nell’amministrazione e quello della comunicazione, restato nelle mani di Berlusconi. La guerra odierna non sarà diversa da quella di allora: guerra delle sue televisioni private, e di una Rai in buona parte assoggettata. Guerra contro l’autonomia dei magistrati, mal digerita anche a sinistra. Guerra di frasi fatte contro l’Europa (Che c’importa dello spread?).

Guerra del Nord contro il Sud, se risuscita l’asse con la Lega. L’arte del governare gli manca ma non quella del bailamme, su cui costruire un bellicoso potere personale d’interdizione. La democrazia non funziona, senza magistrati e giornali indipendenti, e proprio questo lui vuole: che non funzioni. Se non teme una candidatura Monti, è perché non è detto che essa faciliti la governabilità. Ma ecco, anche in questo campo l’Europa ha fallito, non meno degli Stati. La libera stampa è malmessa – in Italia, Ungheria, Grecia, dove vai in galera se pubblichi la lista degli evasori fiscali. Ma nessun dignitario dell’Unione, nessun leader democratico ha rammentato in questi anni che il monopolio esercitato da Berlusconi sull’informazione televisiva viola in maniera palese la Carta dei diritti sottoscritta nel 2007. È come se la Carta neanche esistesse, quando importano solo i conti in ordine.

Nessuno ricorda che la Carta non è un proclama: da quando vige il Trattato di Lisbona, nel 2009, i suoi articoli sono pienamente vincolanti, per le istituzioni comuni e gli Stati. Nel libro che ha scritto con l’eurodeputata Sylvie Goulard (La democrazia in Europa), Monti neppure menziona la Carta. Forse non ha orecchie per intendere quel che c’è di realistico (e per nulla comico), nell’ultimo monito di Grillo: «Attenzione alla rabbia degli italiani!». Forse non presentiva, mentre redigeva il libro, il ritorno di Berlusconi e il suo intonso imperio televisivo. Eppure parla chiaro, l’articolo 11 della Carta: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche ». Niente è stato fatto, in Europa e negli Stati, perché tale legge vivesse, e perché la stabilità evocata da Schulz concernesse lo Stato di diritto accanto ai conti pubblici. Il silenzio sulla libera stampa non è l’unico peccato di omissione delle autorità europee, nella crisi. Probabilmente era improrogabile, ridurre i debiti pubblici negli Stati del Sud. Ma l’azione disciplinatrice è stata fallimentare da tanti, troppi punti di vista. Non solo perché alimenta recessioni (due, in cinque anni) che aumentano i debiti anziché diminuirli. Ma perché non ha intuito, nella stratificazione dei deficit pubblici, una crisi politica della costruzione europea (una crisi sistemica).

Perché l’occhio fissa lo spread, dimentico del nesso fatale tra disoccupazione, miseria, democrazia. Perché senza inquietudine accetta che si riproduca, nell’Unione, un distacco del Nord Europa dal Sud che tristemente echeggia le secessioni della Lega. L’antieuropeismo che Lega e Grillo hanno captato, e che Berlusconi vuol monopolizzare, è una malattia mortale (una disperazione) che affligge in primis l’Europa, e in subordine le nazioni. È il frutto della sua letale indolenza, della sua mente striminzita, della cocciuta sua tendenza a rinviare la svolta che urge: l’unità politica, la comune gestione dei debiti, la consapevolezza – infine – che il rigore nazionale immiserirà le democrazie fino a sfinirle, se l’Unione non mobiliterà in proprio una crescita che sgravi i bilanci degli Stati.

L’ultimo Consiglio europeo ha toccato uno dei punti più bassi: nessun governo ha respinto la proposta di Van Rompuy, che presiede il Consiglio: la riduzione di 13 miliardi di euro delle comuni risorse (10% in meno) di qui al 2020. L’avviso non poteva essere più chiaro: l’Unione non farà nulla per la crescita, anche se un giorno mutualizzerà parte dei debiti. Di un suo potere impositivo (tassa sulle transazioni finanziarie, carbon tax: ambedue da versare all’Europa, non agli Stati) si è taciuto. Anche se alcune aperture esistono: da qualche settimana si parla di un bilancio specifico per l’euro-zona, quindi di mezzi accresciuti per una solidarietà maggiore fra Stati della moneta unica. Ma la data è incerta, né sappiamo quale Parlamento sovranazionale controllerà il bilancio parallelo.

Non sorprende che l’anti-Europa diventi spirito del tempo, nell’Unione. Che Berlusconi coltivi l’idea di accentuare il caos: condizionando chi governerà, destabilizzando, lucrando su un antieuropeismo popolare oltre che populista. Dilatando risentimenti che reclameranno poi un uomo forte. Un uomo che, come Orbán o i futuri imitatori di Berlusconi, scardinerà le costituzioni ma promettendo in cambio pane, come il Grande Inquisitore di Dostoevskij. È grave che il governo Monti non abbia varato fin dall’inizio un decreto sull’incandidabilità di condannati e corrotti. Che non abbia liberalizzato, dunque liberato, le televisioni. Che abbia trascurato, come la sinistra, la questione del conflitto d’interessi. Magari credeva, come l’Europa prima del 1914, che bastassero buone dottrine economiche, e il prestigio personale di cui godeva nell’economia mondo, per metter fine alla rabbia dei popoli.

La Repubblica, 6 maggio 2012

Motivare le sentenze è affare serio, talvolta arduo, antipatico, rischioso. È pandemonio a Napoli quando Sua Maestà Ferdinando IV, persuaso dal vecchio ministro Bernardo Tanucci (da giovane professore nell’ateneo pisano), esige decisioni motivate (prammatica reale 27 settembre 1774). Dall’estate pendeva un ricorso del Quirinale davanti alla Consulta, contro i pubblici ministeri palermitani in una causa assai grave, dove s’intravedono fondi cupi della recente storia d’Italia. Martedì 2 dicembre, dopo quattro ore, dalla camera di consiglio filtra l’oracolo. Poche frasi incongrue, ma non potevano suonare meglio, se presupponiamo l’esito favorevole all’attore, tale conclusione non essendo motivabile nell’ordinamento italiano, anno Domini 2012. Impresa impossibile: in qualche misura il diritto è anche geometria; e supponendo che la corvée sia disegnare nello spazio euclideo un triangolo i cui angoli non siano 180°, vengono fuori faticosi sgorbi.

La Corte doveva scovare nella Carta un equivalente dell’art. 4 Statuto albertino («la persona del Re è sacra e inviolabile»). Solo così il Presidente non sarebbe mai ascoltabile, fuori della cerchia in cui parla, salvo che vi consenta graziosamente: ad esempio, parlava in una cabina telefonica e occhi lesti decifrano i segni labiali; data l’inviolabilità, il voyeur è testimone ammissibile o no, secondo l’augusto beneplacito. Idem quando l’incauto conversatore s’infili in linee soggette a controllo telefonico. Trovare la norma ossia cavarla dal testo, perché vigono solo fonti scritte, era compito erculeo: non esistono testi adoperabili a tale fine; e l’arte ermeneutica ha delle regole. Dal fatto che il Presidente non risponda penalmente degli atti d’ufficio (art. 90 Cost.) non è seriamente arguibile il tabù su emissioni verbali private (in un film Clint Eastwood, ladro, ascolta e guarda, nascosto dietro una tenda, mentre

the President in preda all’alcol collutta con un’amica e la cosa finisce male); né possiamo arguirlo dalle funzioni enumerate nell’art. 87; chi lo tenti cade nel vaniloquio. M’ero permessa una citazione dalle avventure d’Alice, settimo capitolo, dove Cappellaio, Lepre, Talpa spendono parole matte; e notavo come, dedotta l’«inviolabilità», tutto diventi asseribile, anche che l’Unto sia profeta, regoli i cicli naturali, guarisca le scrofole, et cetera.

La Carta è muta in proposito e i lavori preparatori non lasciano dubbi sul disegno dei costituenti: avevano in mente una figura laica, senza cascami d’ancien régime; gli negano l’immunità processuale che, senza fondamento, l’attuale capo dello Stato rivendica. Le prerogative esistono in quanto una norma le definisca. Non hanno più corso i misteri covati dalla ragion di Stato (voleva imbrigliarla già l’autore dell’omonimo trattato cinquecentesco, Giovanni Botero) ed è manovra reazionaria ogni tentativo d’esumarli.

I deliberanti devono essersene resi conto, perché muovono un passo laterale puntando sull’art. 271 c. p. p. Infelice mossa del cavallo. L’art. 271 contempla due casi diversi dal nostro: intercettazioni illegalmente eseguite (comma 1); e quando parli un obbligato al segreto (c. 2). Qui nessuna norma codificata vietava l’ascolto, né esistevano segreti (il conversante avrebbe guadagnato simpatia politica svelando i contenuti, anziché nasconderli strenuamente, con qualche gesto eccepibile: ad esempio, attribuendosi inesistenti poteri da organo censorio d’atti giudiziari). L’art. 271 non detta divieti, li presuppone, stabiliti altrove, e l’unica fonte possibile è la Carta, nella quale non ne esiste nemmeno l’ombra .Pour cause

I comunicanti tacciono sull’art. 7, l. 5 giugno 1989 n. 219, invocato dal Quirinale: «I provvedimenti che dispongono intercettazioni» sono ammessi solo nei confronti del sospeso dalla carica; non è norma applicabile qui (non era lui l’intercettato, né pendono accuse votate dal Parlamento in seduta comune). Vale il regime delle voci fortuitamente colte, non equiparabili all’intercettazione mirata (le distingue l’art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140 a proposito dei parlamentari).

In cauda venenum, scrivevano vecchi avvocati latinisti. Meno forbito, il comunicato esige l’immediata distruzione dei materiali sacrileghi (era «sacra» la persona regale nello Statuto al quale regrediamo): la ordini il giudice, e sia eseguita clandestinamente; nessun estraneo deve vedere o udire, meno che mai gl’interessati al processo. Non stupisce sentirlo dal

soi-disantinviolabile,

ma sono parole della Corte chiamata a custodire

le norme fondamentali, quasi avesse dimenticato gli artt. 24 («la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado») e 111 Cost., dove il contraddittorio figura due volte, requisito immanente. L’art. 271, c. 3, lo presuppone: va stabilito se i

reperti siano fruibili; mandarli in cenere al buio è fosco stile inquisitorio. Quel giudice non ha in corpo lo Spirito santo: forse sbaglia definendo irrilevante qualcosa d’utile; o sta affossando materiale costituente corpo del reato (art. 271, c.

3, dov’è ovvio il rinvio all’art. 269, c. 2, sull’udienza camerale, art. 127). Supponiamo che N stia scontando l’ergastolo, e parole del presidente nel dialogo con un intercettato forniscano materia alla revisione della condanna; o l’inverso, che costituiscano notitia criminis:

va tutto al diavolo in rigorosa clandestinità? Abbiamo sotto gli occhi una decisione esemplare, in senso negativo, rincresce dirlo: vi spirano nostalgie del segreto; sottintende la mistica delle prerogative; tira in ballo un inesistente limite istruttorio (art. 271 c. p. p.); e incredibile, viola norme costituzionali sul contraddittorio. Ormai sa d’ipocrisia aspettare i motivi: quando anche li compili un mago dialettico, il quadro resta; quel comunicato chiude la Corte in gabbia. Fossero in ballo interessi disponibili, diremmo: ogni tanto capita; non era buona giornata. Stavolta l’evento pesa in sede culturale e politica. Era l’ultimo accidente augurabile all’Italia devastata dai quasi vent’anni d’egemonia berlusconiana.

«La strana pretesa dei liberistiChiedere alla sinistra di fare la destra». Anche a destra c'è qualcuno che pensa. Ma sono diminuiti anche lì. Corriere della sera, 4 dicembre 2012L'intellettualità liberista italiana aveva eletto Matteo Renzi a proprio campione. E ora si dice delusa perché il Pd e, più in generale, il centro-sinistra non ne hanno accolto le suggestioni alle primarie. Ma ha senso una simile delusione? Credo di no. Sui diritti politici e sull'architettura istituzionale la convergenza delle diverse culture politiche è possibile e utile. L'ha dimostrato la Costituzione, elaborata dopo la Seconda guerra mondiale. Lo hanno poi confermato le leggi sui diritti civili, sulle quali si sono formati consensi trasversali, basati su scelte di coscienza. È invece sull'economia e sul finanziamento delle politiche sociali che si articola l'opposizione tra le tesi socialdemocratiche e socialcristiane, tipiche del Pd in Italia e dei partiti socialisti in Europa, e le tesi liberiste, tradizionalmente coltivate dalla destra. Perché mai questo duello, che costituisce il sale delle democrazie occidentali, dovrebbe risolversi all'interno di una sola area politica, il centro-sinistra, o meglio di un solo partito, il Pd?
Negli Stati Uniti, il movimento dei Tea Party non pretende di dettare la linea al Partito democratico. Gli basta condizionare e magari conquistare il Partito repubblicano. In Italia, invece, si vorrebbe che il Pd diventasse liberista perché, come titola un fortunato pamphlet di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, il liberismo sarebbe di sinistra. Ma un conto è un tentativo di egemonia culturale come quello fatto dai due economisti di scuola, appunto, liberista, ben altro conto è intestare una politica di destra all'altra ala dello schieramento politico. Le contaminazioni fanno bene al pensiero. Tutti possono imparare qualcosa da tutti. Dal fallimento dell'Unione Sovietica, le sinistre hanno imparato a diffidare delle nazionalizzazioni generalizzate e della pianificazione centralizzata oltre che dal regime a partito unico. Vista la crudeltà del capitalismo manchesteriano, i liberali di fine Ottocento accettarono l'idea, cara al nascente socialismo, di limitare per legge a otto ore la giornata di lavoro. Dalla crisi del 1929, uscirono negli Usa e in Italia le leggi bancarie che tagliarono le unghie alla speculazione fatta con i soldi degli altri e l'intervento statale nell'economia. Ex comunisti, ex socialisti ed ex democristiani possono pur ritrovarsi sotto lo stesso tetto del Pd, visto che, nella politica economica, erano tutti più o meno socialdemocratici. Ma le contaminazioni non possono essere spinte fino alla democrazia che si compie in un partito solo.
Per funzionare bene, la democrazia ha bisogno di chiarezza e di pluralismo. E allora l'intellettualità liberal-liberista dovrebbe chiedersi come mai, nonostante la simpatia dei media e la diffusa voglia di facce nuove, Matteo Renzi non ce l'abbia fatta. Tirare in ballo l'ostilità di apparati che non esistono più (al Pd ne resta uno pari a un decimo di quello degli anni Settanta) equivale a fuggire davanti alle domande difficili così come fuggivano gli ex comunisti nel 1994 quando attribuivano la propria sconfitta alle televisioni di Berlusconi e non ai propri limiti. Le domande difficili sono due: a) come mai, in Italia, la cultura politica liberale non è riuscita a conquistare l'egemonia, in particolare nell'area politica che gli è storicamente affine, e cioè nel centro-destra? b) che cosa potrebbe fare, adesso, per risalire la china?
Una democrazia funzionante ha bisogno di schieramenti politici presentabili. Il centro-sinistra, pur con tanti limiti, lo è. Il centro-destra, purtroppo, si è illuso di esserlo. Più che discutere di Renzi e Bersani, questa intellettualità dovrebbe aiutare la destra politica a capire come mai Silvio Berlusconi e i partiti da lui guidati (Forza Italia, il Pdl) non siano mai diventati quel partito liberale di massa che promettevano di essere. Confessando, magari, perché per tanti anni questa stessa intellettualità ci aveva creduto. C'è tutta una storia patria da revisionare. A partire dall'Unità d'Italia. Ma c'è anche un ripensamento più radicale sui tempi recenti. Un ripensamento a proposito di due scelte. La prima è di tipo economico e consiste nell'aver cercato di estendere senza più confini l'area dell'economia di mercato all'interno dell'economia e l'influenza del capitalismo finanziario all'interno dell'economia di mercato. La seconda scelta è di tipo antropologico e riguarda la centralità assoluta attribuita alla competizione, con relativa, superficiale mitizzazione della cosiddetta meritocrazia, rispetto all'arte della collaborazione e alla gestione politica delle disuguaglianze. Per favorire questo duplice processo si è ridotta l'azione di governo a mero arbitraggio. Con il risultato che i più forti hanno sì sovrastato senza remore i più deboli, ma alla fine hanno rotto il giocattolo dell'economia.
Preso atto del successo di Obama, i repubblicani americani stanno ripensando le proprie scelte. La cultura della destra italiana, presto o tardi, dovrà fare i conti con l'età berlusconiana. E questa è una responsabilità alla quale non poteva sfuggire andando a covare il proprio uovo nel nido del Pd.
mmucchetti@rcs.it

La Repubblica, 2 dicembre 2012,


Martedì 4 dicembre sapremo l’esito del conflittosollevato dal Quirinale versus la Procura palermitana: non è affare nostro laprognostica almanaccante; parlino gl’indovini o inquirenti tra le quinte,soppesando le variabili, dalle storie individuali agl’influssi esterni.L’interessante è avere sotto gli occhi le norme vigenti, intese a regolad’arte. Cominciamo col distinguere due contesti manifestamente diversi: che lelinee locutorie d’un tale (chiamiamolo N) siano spiate ogniqualvolta le usa,giorno e notte, avvolto in una rete acustica o informatica; o P incappi inascolti fortuiti perché comunica con N. Tale il caso sub iudice.

Costa qualche fatica tradurre in lingua giuridica l’enfasi mistica effusa nel ricorso ma tentiamo. Il Presidente parrebbe non ascoltabile dai profani fuori del circuito pubblico, a meno che vi consenta: in pratica stabilisce lui, post eventum, se fosse fas o nefas udire; ad esempio, non gli dispiacevano i nastri contenenti dialoghi virtuosi sui terremotati con Guido Bertolaso, captato a proposito d’appalti. Stavolta, come allora, nessuno lo spiava: cade nella rete rispondendo a N. M. che invoca soccorso contro dei pubblici ministeri; i quali, ignari, non violavano alcun obbligo. Ma stando al ricorso, lo scenario muta dall’istante in cui riconoscono la Voce. Lì scattano obblighi negativi (espellere dalla memoria suoni e parole o almeno tacerli) e positivi (distruggano clandestinamente l’empio materiale, subito).

Enfasi mistica, abbiamo detto. Esiste un precedentenello Statuto albertino, concesso sabato 4 marzo, anno del Signore 1848, 18°del regno: “la persona del Re è sacra e inviolabile” (art. 4); sacrileghiperciò perquisizioni, sequestri, arresto, cattura, condanne, ecc. (VittorioAmedeo II subisce misure coercitive dal figlio Carlo Emanuele, detto Carlino,ma non era più re, avendo abdicato, 3 settembre 1630). Insomma, sta fuori dellagiurisdizione, essendone la fonte (art. 68: “emana dal Re”). Nella fattispeciel’inviolabile Carlo Alberto avrebbe partita vinta, e così i quattro successoriregnanti, ma la storia novecentesca ha inghiottito Statuto e monarchia. Esistequalcosa d’analogo nella Carta repubblicana votata lunedì 22 dicembre 1947dall’Assemblea Costituente? Quesito stravagante, sottintende nostalgiereazionarie in stile Joseph de Maistre o Charles Maurras. L’immunità èasseribile in quanto una norma la stabilisca e le norme non nasconospontaneamente, né le detta il giudice o emergono dai fondali d’una storiaspesso fantastica (nell’ancien régime la nobiltà togata evocava misteriose“lois fondamentales”). Regole d’un livello superiore dicono in qual modoprodurle: e qui non basta una legge qualunque; nascerebbe morta, perché violal’art. 3 Cost. Stando al ricorso, vale l’art. 90 Cost. Vediamolo: il Presidentenon risponde degli atti compiuti quando esercita le funzioni, esclusi due casi;tutto lì ossia nemmeno una sillaba utile all’assunto monarcofilo. Dove stascritto che, fuori del circuito pubblico, sia ascoltabile solo se lo reputaconveniente? La lingua italiana non tollera simili letture. Inteso così, l’art.90 legittima ogni fantasia, anche che l’Unto sia infallibile, come Sua Santità,o guarisca le scrofole toccando i pazienti (l’ultimo re di Francia prestatosial rito terapeutico è Carlo X appena incoronato, a Reims, Ospizio San Marcolfo,31 maggio 1825). Siamo nell’assurdo linguistico.


Altrettanto fuori luogo il riferimento all’art. 7 l. 5giugno 1989 n. 219, cc. 2 e 3: “i provvedimenti che dispongono intercettazioni”possono “essere adottati” nei suoi confronti solo dopo che la Cortecostituzionale l’abbia sospeso dalla carica; versiamo nel caso del Presidentemesso in stato d’accusa (alto tradimento o attentato alla Costituzione). Quinessuno aveva disposto l’ascolto nei suoi confronti: l’intercettato non era luima l’interlocutore; né pendevano accuse. L’art. 7 segnalerebbe una normaocculta applicabile anche fuori dei casi ivi previsti? Discorsi simili corrononel settimo capitolo delle avventure d’Alice (un tè matto): l’ermeneutica hadelle regole; chi le vìola cade nel vaniloquio; e i vaniloqui restano talichiunque li formuli, in qualsivoglia messinscena. Il bello della logica sta nelnon essere falsificabile.Qualcuno ragionava così: sta bene, la Procurapalermitana risulta in regola ma, rilevando una lacuna nella tutela degliarcana imperii, la Corte può rimediarvi. Nossignori. L’alto consesso non forgiaGrundnormen: applica le esistenti rimuovendo leggi incompatibili. L’immaginariocanone è invisibile nel testo, unico luogo da cui possiamo cavarlo.L’alchimista metteva oro nel vaso fingendo poi d’averlo trovato. Questo ricorsoafferma l’inviolabilità della “sacra persona” con un lungo salto indietro al 4marzo 1848. La sedicente diagnosi giuridica è plateale tautologia:ogniqualvolta l’ascolto gli riesca molesto, deve non essere ascoltabile;perché?; se lo fosse, sarebbe violata una santa privacy. Ovvio, no?

Veniamo all’ultimo paradosso. Il clou dello pseudo conflitto sta nella pretesa che sia clandestinamente distrutto l’intero materiale (nastri, testi trascritti, verbali). Ora, nell’art. 111 Cost., cc. 2 e 4, il contraddittorio è requisito elementare e sarebbe manomesso se andassero in fumo possibili prove ignote agl’interessati: forse giovano all’accusa o alla difesa d’una parte o forniscono lumi in altri giudizi; pour cause l’art.269, c. 2, c. p. p. impone un procedimento camerale aperto a chi vi abbia interesse. Insomma, l’attore invoca una norma costituzionale inesistente, contro l’esplicita; e se la Corte riuscisse ad accogliere quei petita nel rispetto del sistema attuale, sarebbe l’enorme miracolo immaginato da Cartesio: un triangolo i cui angoli contino più o meno dei soliti 180° nello spazio euclideo. Secondo Spinoza, non vi riesce nemmeno Iddio. Va in scena un raro caso clinico.

«I lavoratori dello stabilimentoritorneranno al lavoro, ma le condizioni in cui lavorano saranno a lungo lestesse di prima. Respireranno gli stessi inquinanti, forse in dose lentamentecalanti, e le polveri e le sostanze nocive che da decenni appestano Tarantocontinueranno a posarsi sulle loro case e sulle loro famiglie e ad essereinspirate da adulti e bambini». La Repubblica, 31 novembre 2012

L’ASPETTO più importante del decreto legge sull’Ilva sono aben vedere le dichiarazioni del ministro Passera: se la proprietà non eseguequello che la nuova legge prevede il governo potrebbe varare la procedura diamministrazione controllata. Al riguardo i dettagli non sono al momentodisponibili, almeno non negli estratti del decreto accessibili a tarda sera, mail pronunciamento del ministro dello Sviluppo, in sintonia con le analoghedichiarazioni del ministro dell’Ambiente Clini, sembrano proprio significareche se questa volta l’azienda non porrà in essere gli interventianti-inquinamento, rischia di perdere la proprietà o quanto meno il controllodell’impianto di Taranto. L’adozione di tecnologie adeguate per abbattereradicalmente gli inquinanti emessi dallo stabilimento costerà miliardi. Ègiusto che sia la proprietà a pagare, come avrebbe dovuto fare da almenovent’anni, ed è bene che sia posta di fronte a penalità severe che dovrebberoentrare automaticamente in vigore a fronte di ritardi o inadempienze.
Per il resto la soddisfazione dinanzi al decreto governativo non può che esseremodesta. È vero che nei prossimi giorni i lavoratori dello stabilimentoritorneranno al lavoro, ma le condizioni in cui lavorano saranno a lungo lestesse di prima. Respireranno gli stessi inquinanti, forse in dose lentamentecalanti, e le polveri e le sostanze nocive che da decenni appestano Tarantocontinueranno a posarsi sulle loro case e sulle loro famiglie e ad essereinspirate da adulti e bambini. Il conflitto con la magistratura locale rimaneaperto, comunque si voglia rigirare
la questione. Essa voleva fermare l’inquinamento – era un suo preciso dovere –ma il decreto la scavalca stabilendo che per intanto il lavoro è più importantedella salute, e però nel volgere di alcuni anni le emissioni nocive dellostabilimento finiranno per essere ricondotte entro quei limiti che in realtàavrebbero dovuto essere in vigore da una generazione.
Quel che ora ci si può aspettare dal decreto in parola e dalle integrazionitecniche ed economiche di cui sicuramente avrà bisogno è che esso imponga allaproprietà di impegnarsi
all’installazione dei dispositivi anti-inquinamento con la maggior urgenzapossibile; che richieda perentoriamente di impiegare in tale compito il massimodi manodopera e il meglio delle tecnologie oggi disponibili a livello mondiale;che preveda l’impiego di squadre di controllo specializzate e indipendenti cheogni giorno accertino se la direzione dell’Ilva ha rispettato i traguardi ditempi e di installazione; infine che preveda sanzioni immediate e durissimeogni volta che si constati una eventuale infrazione di tempi e di tecniche daparte della direzione.
Restiamo in fiduciosa attesa di conoscere tutti questi provvedimenti.
Il governo ci ha dormito un po’ sopra, alla questione Ilva. Tutto sommatol’intervento della magistratura di Taranto risale al luglio scorso. Ora che siè dato finalmente una mossa, bisogna chiedergli che si impegni a fondo percoinvolgere la magistratura stessa nella messa in atto delle disposizioni deldecreto, nonché nella sorveglianza sui modi in cui vengono eseguite. Non soloperché la magistratura, con i suoi esperti, ha mostrato di conoscere meglio dichiunque altro quale fosse la reale nocività dell’impianto. Ma anche perché undecreto emanato dal governo che aggira una sentenza della magistraturarappresenta una tale ferita all’ordinamento costituzionale che non può esseretollerata se non per un brevissimo periodo di emergenza. Nessun ministro dellaRepubblica può dire “io sono la legge, quindi la magistratura deve cedermi ilpasso”. O al massimo può dirlo una volta sola, in una situazione di estremanecessità, per correre subito dopo ai ripari al fine di ristabilire anche nelcaso Taranto l’indipendenza tra i poteri fondamentali che la Costituzioneprevede. Il giorno che vede rinascere a Taranto la speranza di poter conciliarefinalmente lavoro e salute, grazie a un intervento del governo di non comuneincisività, non deve passare alla storia come il giorno in cui un pezzo diCostituzione è stato abrogato.

La terra è finita, diceva Mark Twain. Ora lottizzano anche il mare: una specie di caricatura di Dubai, in pratica l’ennesimo porticciolo, però staccato dalla costa, così la stupidaggine si nota di meno. Corriere della Sera, 30 novembre 2012

RICCIONE (Rimini) — L'ultima (e unica) volta che ci provarono finì con un'esplosione che scosse l'intera costa del divertimentificio, da Rimini a Cesenatico. Si chiamava Isola delle Rose (dal nome del suo creatore, l'ingegnere bolognese Giorgio Rosa), piattaforma di 400 metri quadrati piazzata nel mare Adriatico, a 11 chilometri e rotti dalle coste, fuori dalle acque territoriali italiane, ma dentro, saldamente ancorata, a quella stagione di contestazioni e utopie che fu il Sessantotto. Doveva essere una micro-nazione, con tanto di moneta, governo e lingua ufficiale: visse 55 giorni, finché Digos e guardia di Finanza, bracci armati di uno Stato che si sentiva schiaffeggiato, non ne presero possesso, facendola saltare in aria nel febbraio del '69 con 1000 chili di esplosivo.

Ora ci riprovano, leggermente più a sud, davanti a Riccione. Non un'isola: addirittura un atollo. Non una micro-nazione, né un'avanguardia di chissà quale progetto secessionista, ma qualcosa di ambizioso in termini di progettazione e spirito d'impresa. Far sorgere dal nulla, in mezzo all'Adriatico, a 3 miglia in linea d'aria da viale Ceccarini, un atollo di 1 chilometro di diametro in grado di ospitare un porto (con terminal per le navi da crociera in viaggio tra Venezia, Grecia e Croazia) e poi hotel, residence, centri di ricerca in tema di green economy, parchi, negozi: il tutto, per una popolazione di circa 3 mila persone e con possibilità di balneazione assolutamente inedite, dato che la profondità del mare, a quella distanza dalla costa, è di 12 metri.

Meglio sorvolare sui pensieri che devono avere attraversato le menti dei funzionari ministeriali romani quando Luca Emanueli, che dirige un centro di ricerca sui sistemi costieri presso il dipartimento di Architettura dell'Università di Ferrara, e Cristian Amatori, capo di gabinetto del sindaco di Riccione, il pd Massimo Pironi, misero per la prima volta sul tavolo l'idea. «Superato il primo attimo di sconcerto e viste le carte — racconta Amatori —, l'approccio è stato, non solo collaborativo, ma entusiastico». Da allora, con l'avvento del governo Monti, l'idea ha cominciato a marciare. Quattro sono i ministeri interessati: Infrastrutture, Ambiente, Sviluppo e Beni culturali (con l'aggiunta di quello per la Coesione sociale per eventuali contributi comunitari). Il progetto, come racconta il Carlino Rimini, non è ancora stato presentato. Lo sarà in febbraio con un convegno all'università di Ferrara. Ma è già in corso l'istruttoria per attivare la procedura di Valutazione di impatto ambientale. Il costo è di un miliardo di euro. Cifra pazzesca, di questi tempi. Da reperire sotto l'ombrello del project financing: «Abbiamo già ricevuto l'interessamento — afferma il sindaco Pironi — di imprenditori sauditi e di alcuni fondi d'investimento inglesi e olandesi».

Chi pensasse al modello Dubai è fuori strada. «Non sarà un'oasi ad esclusivo beneficio di vip — prosegue Amatori —. L'intento è integrare e ampliare l'offerta turistica di Riccione senza togliere nulla al patrimonio esistente sulla costa, che ha ormai raggiunto la saturazione». Di fatto, un'estensione del territorio: «Trattandosi di un progetto senza precedenti — dice Emanueli, che lavora con specialisti di varie discipline —, si sono dovute esplorare nuove strade sotto il profilo urbanistico e legislativo. Fondamentali inoltre gli studi sull'andamento del moto ondoso e dei fondali». Per ora non c'è traccia di comitati anti-atollo. «Ma forse perché il progetto non è ancora ufficiale», ride Amatori. In compenso gli amanti della sabbia si mettano il cuore in pace: «Le spiagge non sono previste: il mare ne farebbe un sol boccone...».

«Il voto simbolico per la Palestina che divide l’Europa. È difficile per un europeo rifiutare, a un vecchio leader armatodella sola parola, un voto simbolico che, non solo per i palestinesi, ma ancheobiettivamente per gli israeliani, è un segnale di giustizia., La Repubblica, 29 novembre 2012

C’È MOLTO di surreale e di tragico nel rito che l’Assembleagenerale dell’Onu si appresta a compiere nelle prossime ore. È scontato che unacospicua maggioranza del vasto campionario mondiale raccolto nel Palazzo diVetro si pronunci in favore della promozione della Palestina da sempliceorganismo osservatore a Stato osservatore; ed è altrettanto scontato che laPalestina continui poi a essere l’entità territoriale militarmente occupata,qual è dal 1967; e che lo Stato tanto auspicato, promesso e temuto resti unmiraggio.
In concreto, con i due tempi che scandiranno il ritodell’Onu, la Palestina passerà dallo strapuntino di semplice osservatore a unsedile riservato agli Stati che non lo sono sul serio. Il Vaticano, animato daaltre ambizioni, se ne accontenta. Per la Palestina è una promozione piuttostosimbolica, anche se il voto dell’Assemblea generale ha in realtà un pesotutt’altro che insignificante, sul piano politico e morale. A dargli valore sonoanche le promesse mancate. Quante volte è stato auspicato, annunciatoùuno Statopalestinese?
In questo senso il voto è una prima, timida riparazione.Denuncia l’incapacità di ieri e di oggi di chi conta nel mondo. Basta osservarecome ci si è dati da fare nelle ultime ore per impedirlo. Ed è evidentel’angoscia dei paesi europei, il cui voto farà la differenza nella qualità delrisultato. La loro scelta riguarda la giustizia, non solo la politica.
Surreale è senz’ altro la procedura e tragico il risultato se li si mette aconfronto con le aspirazioni degli abitanti di quella Terra troppo santa etroppo contesa. Nell’autunno di un anno fa, Abu Mazen, presidente dell’Autoritàpalestinese, aveva chiesto che il suo paese, fino allora presente all’Onu con l’OLP(Organizzazione per la liberazione della Palestina) nella veste di sempliceosservatore, diventasse uno Stato membro a pieno titolo. Ma quel tentativo èfallito perché, dopo il voto dell’Assemblea generale spettava al Consiglio diSicurezza decretare l’ammissione di uno Stato membro a pieno diritto, e gliStati Uniti avrebbero posto il veto. Washington riteneva e ritiene infatti chesi debba arrivare al riconoscimentodi uno Stato palestinese attraversonegoziati con Israele e non con «un colpo di mano» alle Nazioni Unite.L’esigenza della Casa Bianca coincide con quella israeliana, e blocca lasituazione, perché la società politica di Gerusalemme vive una stagione digrande intransigenza. La quale assomiglia a un rifiuto a vere trattative. Allavigilia delle elezioni politiche, previste per gennaio, nel Likud, principalepartito al governo, ha prevalso alle primarie la corrente meno incline a unautentico dialogo con i palestinesi.
Un anno dopo, Abu Mazen comunque ci riprova, ma con una richiesta meno impegnativa.All’Assemblea generale, dove il veto americano non conta, chiede appunto, oggi,che la Palestina sia promossa da entità osservatrice a Stato osservatore (e nona Stato membro, come richiesto nel 2011). Votare l’ammissione di un paese aquel titolo non significa riconoscere diplomaticamente lo Stato, e quindidichiarare ambasciata la rappresentanza che i palestinesi hanno già in tantecapitali.
All’interno delle Nazioni unite il nuovo status aprirebbetuttavia a loro alcune porte. Ad esempio quella dell’Organizzazione mondialedella sanità o del Programma alimentare. Quella della Corte penaleinternazionale comporta più problemi, perché in quella sede i palestinesipotrebbero denunciare gli israeliani e quindi promuovere processi scomodi perlo Stato ebraico. C’è stato un fitto andirivieni tra Washington, Gerusalemme eRamallah, dove risiede Abu Mazen, per convincere quest’ultimo a impegnarsi sualcuni punti: in particolare a non ricorrere alla Corte Penale internazionale,quando ne avrà acquisito il diritto. In proposito americani e israelianiavrebbero ottenuto una vaga promessa: i palestinesi hanno detto
che non usufruiranno di quella possibilità durante i primi sei mesi. Poi sivedrà. Saeb Erekat, principale negoziatore palestinese, ha respinto un invito aWashington per evitare le pressioni americane. Quando nell’ottobre 2011 laPalestina fu ammessa all’Unesco come Stato membro, gli Stati Uniti sospesero ifinanziamenti all’agenzia incaricata della cultura e dell’educazione.Finanziamenti pari a più del venti per cento del suo bilancio. Qualirappresaglie saranno adottate in questa occasione?
Gli israeliani ne hanno agitate parecchie: abrogazione degliaccordi di Oslo del 1993, che regolano i rapporti tra Israele e l’Autoritàpalestinese; aumento degli insediamenti in Cisgiordania che contano già più diseicentomila coloni; confisca dei diritti di dogana; proibizione ai dirigentipalestinesi di uscire dalla Cisgiordania: ma di fronte alla tenacia di AbuMazen il governo di Gerusalemme ha abbassato i toni. E non si parla più disanzioni. Dice Yigal Palmor, portavoce del ministero degli esteri, che nullaaccadrà se i palestinesi si accontenteranno di fare festa a Ramallah percelebrare la loro vittoria simbolica, e poi ritorneranno sul serio al tavolo deinegoziati. Ma Abu Mazen sa che non può andare a trattative alle condizioniposte dagli israeliani.
Il suo non è soltanto un confronto con Gerusalemme. Labattaglia di Gaza, dove gli avversari palestinesi di Hamas celebrano lavittoria
che si sono aggiudicati, ha ridotto il suo già scarso prestigio. Gli esaltaticombattenti di Hamas considerano la moderazione Abu Mazen come una forma dicollaborazionismo. L’iniziativa all’Onu è la sua battaglia incruenta. Èl’offensiva politica dei palestinesi che rifiutano l’uso delle armi. Questo èun motivo per assecondarla. È vano condannare il terrorismo se poi non si tendela mano a chi lo rifiuta.
Anche tra quelli di Hamas sono emerse in queste ore alcune voci in suo favore.Il voto di New York interessa Gaza, dove si è imparato che le armi servono asfogare la collera, a combattere i soprusi, ma non a risolvere i problemi. Allavigilia dell’appuntamento di New York, Khaled Meshaal, uno dei leader (MohammedMorsi, il presidente egiziano, l’ha voluto al suo fianco durante la crisi diGaza) ha dato un pubblico appoggio a Abu Mazen. Lo ha fatto in aperta polemicacon Ismail Haniye, il primo ministro. Entrata in società dopo un lungoisolamento, grazie agli alleati e ispiratori egiziani, i Fratelli musulmani alpotere al Cairo, e lusingata dai gesti d’amicizia della Turchia di Erdogan, lagente di Gaza seguirà il

voto all’Assembleagenerale come se fosse una battaglia. L’esito potrebbe contribuire col tempo ademolire le mura del loro ghetto.Sugli europei incombe nelle prossime ore una grossa responsabilità. Come alsolito non sono riusciti a prendere una decisione comune. E quindi vannodispersi al voto. Ma devono sapere che il loro parere contrario o anche unaastensione, con l’inevitabile sapore di viltà, significherebbe una sconfittaper Abu Mazen, e in generale per i palestinesi che come lui rifiutano laviolenza e ricorrono alla politica. Decine di ministri arabi visitano Gaza,dove si festeggia un’azione militare che ha appena fatto decine di morti, emigliaia nel passato. È difficile per un europeo rifiutare, a un vecchio leaderarmato della sola parola, un voto simbolico che, non solo per i palestinesi, maanche obiettivamente per gli israeliani, è un segnale di giustizia.

La Repubblica, 26 novembre 2012
NATA malissimo, la vicenda della nuova legge sulla diffamazione rischia di finire ancor peggio. Non era imprevedibile. Si erano subito sommati due pessimi modi di legiferare. La triste abitudine italiana alle leggiad personam(non a caso si parla di “legge Sallusti”) e un modo di produrre il diritto contro il quale i giudici inglesi avevano messo in guardia fin dall’800, riassunto nella formula “hard cases make bad law” – dunque il rischio di una risposta legislativa distorta perché ritagliata su una situazione eccezionale o estrema.Si potrebbe aggiungere un detto tratto dalla saggezza popolare: “La fretta è cattiva consigliera”. Una fretta, però, che al Senato è stata deliberatamente usata per cercare di imporre soluzioni inaccettabili, sfruttando come pretesto l’urgenza legata alla volontà di impedire che Alessandro Sallusti finisca in carcere.

L’ultimo episodio di questa brutta storia è rappresentato dalla approvazione di una norma chiamata “salva direttori”, un emendamento proposto dallo stesso presidente della commissione Giustizia, che esclude appunto il carcere per direttori e vice-direttori, ma lo mantiene per gli altri giornalisti. Si è cercato in questo modo di attenuare gli effetti dell’imboscata parlamentare con la quale, con un voto segreto, era stata reintrodotta la pena carceraria per tutti i giornalisti. In questo modo la vicenda non soltanto si aggroviglia sempre di più. Si manifesta una evidente contraddizione con il motivo per il quale si era deciso di modificare le norme sulla diffamazione, appunto l’eliminazione di quel tipo di sanzione. E, scegliendo questa strada, si introduce una ingiustificata discriminazione tra i giornalisti, con evidenti rischi di incostituzionalità della nuova disciplina, e si mantiene l’intimidazione nei confronti del sistema dell’informazione nel suo complesso.

Questo non è il solo aspetto negativo di un disegno di legge il cui iter parlamentare è stato tutto punteggiato da forzature, sgrammaticature tecniche, inconsapevolezza delle caratteristiche delle materie regolate. Si può apprezzare il senso di responsabilità dei giornalisti che, accogliendo l’invito del presidente del Senato, hanno rinunciato allo sciopero indetto per oggi, in attesa di quel che i senatori decideranno. Ma qualche aggiustamento dell’ultima ora non potrà rendere accettabile un testo che rimane inadeguato e pericoloso. L’unica dignitosa via d’uscita per i senatori è quella di abbandonare questo disegno di legge, che continua a rendere visibile lo spirito con il quale è stato progressivamente concepito: uno strumento per arrivare ad un regolamento di conti tra ceto politico e mondo dell’informazione.

Già la mossa iniziale di questa partita era stata rivelatrice. Il disegno di legge nasce da un improvvida iniziativa trasversale, o bipartisan che dir si voglia, del Popolo della libertà e del Partito democratico. Troppo lontani, infatti, si erano rivelati in questi anni gli orientamenti dei due partiti proprio nella materia della libertà d’informazione. Era prevedibile, quindi, che i non dimenticati propugnatori di una “legge bavaglio” avrebbero manifestato gli stessi spiriti in una occasione che apriva spazi inattesi per muoversi di nuovo in quella direzione. Ecco, quindi, l’apparire di norme che usavano l’arma della sanzione pecuniaria per intimidire editori e giornalisti; per distorcere il diritto di rettifica a vantaggio di chi pretende di stabilire unilateralmente quale sia la “verità” da rendere pubblica; per aggredire con imposizioni cervellotiche il mondo della Rete. Tutto questo è avvenuto in un clima di voluta confusione culturale, presentando come reato di opinione una diffamazione consistente nell’attribuire a una persona un fatto determinato del tutto falso.

Emergevano così i tratti di una disciplina tutta impregnata di voglia di rivincita, di ritorsione, di vera e propria vendetta nei confronti del sistema dell’informazione, che è stato il vero tratto bipartisan di questa vicenda e che ha avuto la sua più clamorosa e rivelatrice manifestazione con il voto che reintroduceva la pena carceraria. Le proteste venute dal Pd, pur sacrosante, sono apparse tardive, segno di una confusione apparsa durante la discussione parlamentare, ma che già si coglieva nel modo già ricordato di mettere la questione all’ordine del giorno del Senato. Eccesso di fiducia, ingenuità o piuttosto inadeguatezza dell’analisi di una questione davvero capitale per la democrazia?

La ripulitura del testo, prima degli incidenti di percorso, non lo ha depurato dei suoi molti vizi d’origine. Nulla, o troppo poco, di quello che sarebbe necessario per aggiornare le norme sulla diffamazione si trova nel disegno di legge sul quale oggi il Senato dovrà esprimere il suo voto. Pure, non erano mancate le indicazioni per imboccare una strada che avrebbe consentito di avvicinarsi almeno a una disciplina consapevole dei molti problemi sollevati in questi anni a proposito della diffamazione, apprestando strumenti adeguati e non inutilmente punitivi per garantire verità e rispettabilità delle persone e considerando pure le questioni, tutt’altro che marginali, delle denunce temerarie e delle sproporzionate richieste di risarcimenti, come mezzo non per garantire un diritto, ma per intimidire i giornalisti. E si erano pure suggeriti i criteri per una disciplina rapida e sobria che, eliminata l’inaccettabile carcerazione, poteva essere realizzata con pochi aggiustamenti delle norme vigenti. Se tutto questo non è avvenuto, significherà pure qualcosa. Una volta di più dobbiamo registrare malinconicamente un uso congiunturale e strumentale delle istituzioni, l’inadeguatezza politica e culturale che si annida in questo Parlamento. Limitiamo almeno i danni, e rinviamo una nuova disciplina della diffamazione a tempi sperabilmente più propizi.

il manifesto, 25 novembre 2012
Domani il manifesto sarà in edicola con un'edizione speciale dedicata alle primarie del centrosinistra. Un'eccezione alla regola per un evento politico di primo piano. Se questa sera il risultato del voto dirà che si va al ballottaggio, e a giocarsi la finale saranno Bersani e Vendola, allora si aprirà una fase inedita per la sinistra italiana. Se, viceversa, come pronosticano i sondaggi, alla fine la contesa sarà tra il segretario del Pd e il sindaco di Firenze, le primarie avranno fatto bene solo al partito democratico e, come succede nelle altre democrazie maggioritarie, questo anticipo di campagna elettorale avrà rafforzato la corsa di Bersani verso palazzo Chigi.
Un voto utile oggi può influire sull'identità del futuro centrosinistra e, di rimbalzo, anche di quel che si sta muovendo fuori dal suo perimetro. A cominciare dai promotori delle liste arancioni, come anche di chi con l'appello "Cambiare si può" vuole innovare forme e contenuti della sinistra. Con la dichiarata, e benefica, intenzione di non replicare il fallimentare copione delle liste Arcobaleno del 2008. Per questo, al di là delle differenze sull'idea di governo o sulla necessità di rimescolare le carte a sinistra, tra riformisti e radicali, resta il comune impegno per abbattere quel "muro di Berlino" di cui parla Vendola nella nostra intervista, costruito dal liberismo e dalle politiche di austerità.

L'uscita di scena di Berlusconi e la forte leadership del governo tecnico hanno cambiato lo scenario delle primarie, molto diverse, oggi, dal rito liberatorio e plebiscitario tributato al tempo di Prodi e Veltroni. Allora finì nell'urna un grande no a Berlusconi, oggi non c'è proprio aria di plebiscito, per nessuno dei cinque candidati. Si esprimerà, invece, un giudizio ponderato perché è chiaro a tutti che il risultato condizionerà la prossima legislatura. A seconda del consenso ottenuto da Vendola, potremmo avere due importanti conseguenze: un primo, netto no al montismo e una prefigurazione dei futuri equilibri a sinistra.

C'è un campo da ricostruire, rifondare, rinnovare e milioni di persone credono di avere nelle primarie un bonus da spendere per iniziare questo lavoro. Una scommessa rilevante, pur con molti limiti. Il più evidente si riferisce proprio alla forma di partecipazione: una replica del modello leaderistico, che nulla aggiunge a quel bisogno di democrazia partecipata, connotato prevalente dell'intenso fermento alla sinistra del Pd. Così è stato nella natura delle mobilitazioni vincenti degli ultimi referendum e delle elezioni amministrative, così pure nelle forme creative di partecipazione dei movimenti nati dentro la grande crisi economica, sociale e politica.

Tuttavia, cogliere i limiti delle primarie non significa esserne spettatori indifferenti. Tanto più sea mettersi in fila, per condividere, anche fisicamente, una scelta di voto, risponde al forte vento populista, contestando l'idea di sostituire al corpo uanto dal signore un corpo consacrato da internet. Tra l'altro, nei racconti di chi è andato a registrarsi nelle vecchie sezioni del Pci, emerge un particolare che forse non piacerà agli ideologhi della rottamazione: molti anziani a prendere le iscrizioni, molti giovani a prenotarsi.

Stralcio della postfazione a un libro che spiega perchè a quei patti non ci si può stare. Il manifesto, 24 novembre 2012


Il "Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance" è l'ultimo arrivato tra gli accordi europei. Vuole mettere sotto controllo i conti pubblici, impone il pareggio di bilancio e il rimborso di parte del debito pubblico. Voluto dalla Germania, è un Trattato che non può funzionare e condanna l'Europa alla depressione. Sbilanciamoci! ha pubblicato l'edizione italiana di L'Europe Mal-Traité, il nuovo best seller degli Economistes Atterrés francesi. Il titolo è «L'Europa da slegare. Il Trattato impossibile, le politiche necessarie», presentazione e traduzione di Armanda Cetrulo e Leonardo Madio e postfazione di Guglielmo Ragozzino, di cui anticipiamo qui una parte. Il volume si può scaricare gratis da www.sbilanciamoci.info
Si può chiamare apatia la maniera con la quale è votata dal Parlamento italiano il 18 aprile 2012 una legge costituzionale (Legge Costituzionale 20 aprile 2012 n.1) con la quale il paese si lega mani e piedi all'Europa comunitaria. Sono modificati in un colpo solo gli articoli 81, 97, 117, 119 della Costituzione, al termine di una «doppia lettura» e da parte di maggioranze così consistenti da evitare perfino il referendum confermativo, cioè il parere del popolo. Il pareggio di bilancio che l'Europa ha richiesto diventa così un principio assoluto, più forte di qualsiasi ripensamento democratico. Il nuovo articolo 81 lo prescrive. Inoltre gli articoli 97 e 119 della Costituzione, dopo la modifica, si europeizzano. Il 97 involve l'amministrazione: «Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico», mentre le Regioni sono perentoriamente invitate, all'articolo 119, ad «assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea». Tutto ciò significa che il consensus di Bruxelles e/o di Francoforte deciderà per molti anni a venire della politica e dell'economia dell'amatissimo Stivale (...).
Nel frattempo, mentre il governo Monti aumentava le aliquote Iva, il Fondo Monetario Internazionale fa sapere che l'Italia ha esportato valuta per 235 miliardi di euro, corrispondenti al 15% del prodotto interno lordo, tra luglio 2011 e 2012. Quello dell'Fmi è come un invito all'Italia (o alla Spagna che realizza fughe di capitali ancora maggiori) di difendersi meglio nel capitalismo globale. Per i capitalisti italiani è invece la conferma: lo fanno tutti, devono essere gli spiriti animali. Il piano è di «mettere in salvo» i capitali oggi, ottenuti anche vendendo pezzi d'Italia, per ricomprarli domani quando costeranno di meno; oppure, più semplicemente, di cambiare paese per investire i capitali, per evitare di rimanere intrappolati nella svalutazione dell'euro di Roma, considerata, da molti, probabile.
La fuga dei capitali indica la debolezza del governo di Mario Monti rispetto al ceto economico e politico che dovrebbe sostenerlo a tutto spiano Le scorrerie su Cortina e altri luoghi di movida, guidate dalla governativa Agenzia delle entrate, infastidiscono la tribù dei ricchi, senza offrire all'altra tribù, quella delle classi non proprietarie del paese, un vero motivo di cambiare giudizio (...) Mentre Monti è sempre più in balìa della finanza creativa, cresce la divergenza di valutazioni tra governo e maggioranza parlamentare: si comincia a subdorare che Monti non si ritirerà, come un Cincinnato qualsiasi, con le elezioni politiche della primavera 2013.
Un video reportage per denunciare l’insostenibilità dell’ennesima “grande opera”, grandemente devastante: l’autostrada Orte-Mestre. L’Altreconomia, novembre, 2012 (m.p.g.) “Il casello incantato” è un video-reportage a passo lento da Mestre ad Orte, lungo i territori che verrebbero attraversati dalla “nuova Autostrada del Sole”, la Orte-Mestre. Quattrocento chilometri per dieci miliardi di euro, dal Veneto al Lazio, attraversando cinque Regioni.

Un progetto di cui si parla da oltre vent’anni, che oggi ha subito un’accelerazione. Manca ancora, però, il piano economico e finanziario, e i flussi di traffico attesi sono modesti: per questo comitati e associazioni ambientaliste si battono contro la cementificazione di alcune delle aree agricole più fertili d’Italia, quelle del Polesine. Altreconomia li ha incontrati, muovendosi sul tracciato della nuova autostrada per realizzare un reportage fotografico pubblicato sul numero di novembre della rivista.

Qui il video reportage.
E qui il reportage geo-localizzato lungo la Orte-Mestre.

Intervistato da Luca Aterini, il noto sociologo espone i motivi per cui l’approccio del governo alla crisi è inadeguato: ci vuole un vero e proprio New Deal. Greenport 23 novembre 2012

Gli ultimi dati Istat rivelano per l'Italia un tasso di disoccupazione record, registrato al 10,8% (35% negli under25): ufficialmente, sono 2,8 milioni gli italiani senza un lavoro. Un incremento del 25% in 12 mesi, e il peggior dato da 20 anni. E le previsioni per il 2013 sono ancora più nere. Nel frattempo, ampie parti del Paese crollano sotto il peso crescente del dissesto idrogeologico e della mancanza di cure per il fragile territorio dello Stivale. Molto fragile: nella Toscana Felix la percentuale di comuni a rischio idrogeologico raggiunge addirittura il 98%, e le ultime alluvioni hanno dato ampia e triste prova di cosa questo significhi. Il territorio devastato appare uno specchio del tessuto sociale italiano che si disfa, sotto i colpi pesanti di una crisi economica che continua da troppo tempo. Né la cronica disoccupazione né la mancanza di prevenzione e tutela del territorio (davanti al mutevole scenario dettato dal cambiamento climatico) sono fatalità ineluttabili. È nostro dovere prendere coscienza di questa realtà, e agire di conseguenza per porvi rimedio. Come?
Il sociologo Luciano Gallino ha qualcosa da dire, in merito.

Ritiene lecito affermare che le conseguenze delle bombe d'acqua che hanno colpito l'Italia e l'aumento del termometro della disoccupazione siano legati da uno stesso filo rosso? Quello dell'inazione, della mancanza di pianificazione.

«Le alluvioni che hanno recentemente colpito il nostro Paese sono in parte un risvolto del cambiamento climatico, che ne aumenta frequenza e intensità. Non dobbiamo dimenticare che questo fenomeno dipende anche dalla nostra attività economica, con l'immissione in atmosfera di gas climalteranti. A loro volta, le conseguenze delle alluvioni sono amplificate dalle mancate contromisure: non abbiamo agito per tutelare il nostro territorio dal dissesto idrogeologico, spingendoci spesso in tutt'altra direzione. E anche per quanto riguarda la disoccupazione, non abbiamo messo in campo politiche efficaci per contrastarla».

Un grosso aiuto, per tentare di dare una riposta ad entrambi i problemi, potrebbe essere comune. Mi riferisco alla sua proposta di un'Agenzia per l'occupazione, lanciata ormai mesi fa. Potrebbe riassumerne le fondamenta, e i costi?

«Quella di un'agenzia per l'occupazione è una proposta che fa riferimento ad una vasta letteratura e a precedenti concretamente realizzati, come negli Stati Uniti durante il New Deal, quando tre agenzie statali - la Federal emergency relief administration, la Civil works administration e la Works progress administration - riuscirono a creare molti milioni di posti di lavoro. Nel contesto in cui ci troviamo, raggiungere numeri enormi sarebbe impossibile, ma creare 1 milione di nuovi posti di lavoro sarebbe l'obiettivo minimo a cui tendere.

Tramite un'agenzia per l'occupazione, declinata in vari centri a livello degli enti locali, lo Stato dovrebbe assumere direttamente disoccupati e precari, impiegandoli nei molti lavori ad alta intensità di lavoro - anche qualificato - di cui il nostro Paese ha bisogno. Tra questi sarebbero sicuramente da annoverare interventi per il riassetto idrogeologico del territorio, ma anche quelli inerenti la ristrutturazione dell'edilizia scolastica, o della tutela dei beni culturali, spesso abbandonati in modo delittuoso, e altri ancora.

A proposito dei costi, l'agenzia dovrebbe offrire un salario medio, e comprendere il costo dei contributi sociali. Ipotizzando una cifra pari a 25mila euro a occupato, per un milione di disoccupati avremmo un totale di 25 miliardi. Questa cifra non sarebbe però un costo, ma creerebbe anzi ricchezza: andrebbe nelle tasche di cittadini altrimenti disoccupati, intervenendo a favore della loro capacità di spesa e dunque alleviando quel deficit di domanda che è il grande freno a fermare la ripresa dalla crisi economica. Inoltre, molte aziende private sarebbero felici di partecipare dei costi, assumendo una parte dei disoccupati a fronte del pagamento di una parte dello stipendio da parte dello Stato. Un ulteriore risparmio verrebbe poi, ad esempio, dalla cessazione dei sussidi di disoccupazione per i neoassunti».

I detrattori sarebbero pronti a ribattere: non ci sono i soldi per realizzarla; non possiamo, abbiamo firmato il fiscal compact richiesto dai nostri partner europei; lo Stato non può assumersi un tale ruolo ed è già un datore di lavoro, spesso cattivo. Cosa risponderebbe loro?

«Innanzitutto, che la firma del fiscal compact è stata una forma di suicidio economico, e si rivelerà inattuabile. Per rispettarne i dettami, dovremmo portare avanti tagli alla spesa pubblica enormemente maggiori rispetto agli attuali (per i quali comunque già si parla di lacrime e sangue), nell'ordine dei 50 miliardi di euro l'anno. Soltanto prospettando per l'Italia un futuro di miseria nei prossimi 20 o 30 anni saremmo forse in grado di farvi fronte.

Riguardo il resto delle obiezioni, rispondo che l'ostacolo più serio all'implementazione di un'agenzia per l'occupazione non sono i fondi, ma le idee attualmente dominanti degli economisti e assimilate da nove politici su dieci. La visione neoliberista dell'economia e delle risposte alla crisi è un'ideologia - quella dell'affamare la bestia, lo Stato, per allargare i margini dell'interesse privato - è una visione del mondo che non ammette risposte alternative. Le risorse economiche, al contrario, volendo si potrebbero trovare. Con più di 7 milioni di persone che non hanno uno stipendio o lo hanno troppo basso e precario, in Italia, crede che sia opportuno acquistare 90 cacciabombardieri F35, per una spesa di circa 15 miliardi di euro? Oppure investire una cifra che oscilla attorno ai 20 miliardi di euro per ridurre di mezz'ora il tempo di percorrenza Torino-Lione, realizzando la Tav? Non sono questi gli interventi di cui ha bisogno il Paese».

La sua proposta per sanare almeno in parte la ferita economica e sociale della disoccupazione sembra molto distante da un'altra ipotesi molto in voga di questi tempi, la flexicurity rilanciata da Pietro Ichino e Matteo Renzi...

«Direi che si tratta di cose completamente diverse tra loro. È necessario concentrasi sulla difesa del lavoro, non del singolo posto di lavoro. Ma le politiche attive per l'occupazione proposte sono paragonabili ad una corsa di una folla di persone alla caccia di un posto a sedere su di un aeroplano che ha una capienza di cento posti. Se ad attendere al gate ci sono cinquecento persone, si promette un posto di lavoro solo ai primi cento. Gli altri rimangono a terra, non si crea nuovo lavoro».

Secondo l'Ilo, il passaggio verso una economia più verde potrebbe generare tra i 15 e i 60 milioni di nuovi posti di lavoro nel mondo nei prossimi vent'anni. Lasciarci la crisi alle spalle riconvertendo in chiave ecologica l'economia: condivide questa prospettiva?

«Dipende a quale economia verde si fa riferimento. Fare riferimento a pannelli fotovoltaici e pale eoliche, piuttosto che ad altro, non è un grande passo avanti se le dimensioni energivore della nostra economia rimangono immutate. Lo stesso vale per le risorse materiali, oltre che energetiche. Oltre al nostro, non abbiamo un altro pianeta dal quale attingerne. Non auspico certo una vita ascetica o di rinunce, ma credo che la riconversione ecologica dell'economia debba mettere al centro la riduzione dei consumi per spostare l'attenzione sulla qualità della vita. È impensabile sperare di tornare a produrre e consumare come in passato. Abbiamo davvero bisogno della moltitudine di beni non durevoli - come un telefonino da cambiare dopo pochi mesi dall'acquisto - o di suppellettili dai quali siamo circondati?

Un'inversione di rotta in questo campo presuppone una chiara scelta politica, ma non vedo in giro politici che abbiano il coraggio di farsene carico. Anche i cittadini hanno le loro responsabilità in merito, certo, ma occorre osservare come vengano spesi 600 miliardi di dollari l'anno in pubblicità, per indurre bisogni che probabilmente altrimenti non sarebbero percepiti come tali».

Per perseguire questo obiettivo sono necessarie chiare scelte politiche. Nel frattempo, qualcos'altro cresce senza controllo: nonostante la crisi, il Financial stability board riferisce che - dati 2011 - il sistema bancario ombra vale ormai 67mila miliardi di dollari, con un +6mila miliardi l'anno. È ancora possibile controllare la finanza?

«È un obiettivo fondamentale da perseguire. Non è il primo rapporto che il Financial stability board pubblica su questi toni, ma arriva comunque molto in ritardo. Dall'inizio della crisi, ancora non è stata portata avanti alcuna vera riforma del sistema finanziario. Sono statti compiuti dei tentativi, come nel 2010 negli Usa, col Dodd-Frank Act. Un progetto che si è rivelato eccessivamente farraginoso, e si è arenato. Per non lasciarci andare completamente ad un nero pessimismo, possiamo dire anche in Europa qualche passo avanti è stato compiuto, ma è ancora troppo poco. Alla progressiva liberalizzazione del sistema finanziario ha contribuito la politica stessa a partire dagli '80, e adesso una forte attività di lobbying neoliberale - dalla produzione di think tank fino a pressioni vere e proprie - combatte strenuamente qualsiasi riforma».

Dal Manifesto per un soggetto politico nuovo a Cambiare si può - che si riunirà il 1° dicembre - passando per A.l.b.a.: c'è la volontà di costruire una proposta politica che si cristallizzi attorno a questi temi?

«Nell'appello Cambiare si può! Noi ci siamo si ritrovano molti elementi fatti propri da A.l.b.a. Dopotutto, molte le firme che hanno aderito all'uno si ritrovano anche nell'altra. A.l.b.a. si configura però come una proposta politica per il futuro, con un orizzonte a lungo termine. "Cambiare si può" guarda ad una lista civica per le prossime elezioni politiche, che si terranno tra pochi mesi. È una prospettiva difficile, ma penso che entrambe queste realtà portino avanti una proposta - confrontata col documento programmatico del Pd, ma anche con quegli elementi fatti propri dal Movimento 5 Stelle - più attenta ai problemi reali del Paese e, se posso dirlo, anche più di sinistra. L'appello ha già registrato migliaia di firme: il 1° dicembre si terrà la prima Assemblea nazionale, al teatro Vittoria di Roma. Vedremo come andrà, ma sono convinto che ci sarà un'adesione importante, soprattutto da parte dei giovani».

La Repubblica, 23 novembre 2012
MILANO — “Per una stagione costituzionale”. Con questa parola d’ordine Libertà e Giustizia chiama i cittadini, non solo milanesi, alla grande manifestazione di sabato, dalle 14,30, al Mediolanum Forum di Assago. Si attendono migliaia di persone, grazie anche all’arrivo di pullman organizzati dai circoli di tutta Italia. Sul palco numerosissimi gli interventi eccellenti che si alterneranno. Oltre a Gustavo Zagrebelsky, che illustrerà i temi del manifesto che vede proprio nella nostra Costituzione lo strumento fondamentale per ritrovare l’entusiasmo politico e uscire dalla crisi, prenderanno la parola intellettuali, scrittori, docenti universitari, sindacalisti, giornalisti ed esponenti della società civile. Il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, porterà il saluto della città.

Tra gli altri prenderanno la parola Umberto Eco, Roberto Saviano, Salvatore Settis, Paul Ginsborg, Maurizio Landini, don Virginio Colmegna, Nando Dalla Chiesa, Gad Lerner, Roberto Natale, Simona Peverelli. Previsto anche un contributo di Moni Ovadia. Mentre in collegamento da Palermo interverranno Serena Dandini e Lella Costa, impegnate in una manifestazione contro la violenza sulle donne. Ad aprire il dibattito Sandra Bonsanti, presidente di Libertà e Giustizia: «Con questa manifestazione vogliamo rivolgerci a tutti i cittadini e lanciare una sorta di ultimo appello ai partiti: ripartiamo dai principi fondamentali contenuti nella nostra carta costituzionale se vogliamo contrastare quella immensa ingiustizia che è la nuova lotta di casta, a parti invertite, non degli sfruttati contro gli sfruttatori, ma degli sfruttatori contro gli sfruttati ».

«Dove appoggiarsi per uscire dal pantano, per suscitare coraggio, energie, entusiasmo in un momento di depressione politica come quello che viviamo? - si chiede Zagrebelsky. - Dove trovare l’ideale di una società più giusta? E’ sorprendente che non si pensi che questo ideale, questo punto d’appoggio c’è, ed è la Costituzione. Invece, ancora una volta, come da trent’anni e più a questa parte, si ripete la stanca litania della prossima stagione come “stagione costituente”. Costituente di che cosa? Volete dire, di grazia, che cosa volete costituire? Il nostro Paese avrebbe bisogno piuttosto di una “stagione costituzionale” e chi facesse sua questa parola d’ordine compirebbe un atto che metterebbe in moto fatti, a loro volta produttivi di idee, anzi di ideali». Nella Costituzione sono contenute, secondo gli organizzatori della manifestazione, le tracce delle risposte ai nostri maggiori problemi di oggi. Dal lavoro come diritto a fondamento della vita sociale, ai diritti civili, all’istruzione attraverso la scuola pubblica, all’informazione come diritto dei cittadini.

Nell’intervista a Stefano Rodotà, il racconto di una lunga militanza e l’ultimo volume in uscita. Pubblico on-line, 20 novembre 2012 (m.p.g.)«Sono stato a Pomigliano, la settimana scorsa. So che uno si potrebbe chiedere: perchè partiamo da Pomigliano se devi parlare della sinistra? Lo faccio perché lì ho visto la disperazione, la rabbia, l’attacco ai diritti. Hanno detto che Landini è stato astratto, massimalista in questi anni… Io credo che dovrebbero fargli un monumento, invece, perché a quelle famiglie, la maggior parte monoreddito, che se perdono il lavoro perdono tutto, ha indicato la via dei diritti, e della legge, per essere difesi». Stefano Rodotà fa una pausa. prende un respiro, collega un filo apparentemente lontano: «Per me la sinistra è questa. Come lo è Peppino Englaro che rinuncia a una via di fatto, alla possibilità di una soluzione silenziosa, e dice: io voglio agire nel rispetto del diritto. E affronta un calvario per difendere il diritto di sua figlia Eluana a morire nella legalità».

Entri a casa di Stefano Rodotà e lo trovi con la copia staffetta del libro che in questi mesi ha accudito come un figlio: Il diritto di avere diritti, che arriva la prossima settimana in libreria. Rodotà racconta che si è chiuso in casa per quattro mesi e ha intrecciato nella scrittura tutti i percorsi della sua battaglia culturale di questi ultimi anni. «Sono tornato a parlare dei problemi che mi tormentano da una vita. Ho letto l’intervista della Rossanda, capisco quando dice “Io non farò in tempo a vedere la nuova sinistra”. Io sono più ottimista, vado nelle scuole, frequento i movimenti, ho incontrato diecimila ragazzi, e penso che c’è anche in questi tempi un po’ incerti, un grande fatto planetario che si sostanzia nella lotta per i diritti» .

Facciamo degli esempi.Il primo che mi viene in mente sono le donne indiane che si escono dall’isolamento della famiglia patriarcale grazie ai cellulari. Perché parlano e discutono con altre donne grazie al telefonino. Un altro esempio. Dai lavoratori di Pomigliano di cui ho parlato, ai cinesi di Foxconn alle donne del Kenya che si fanno frustare per difendere la loro scelta di vestirsi come vogliono, il minimo comune denominatore è uno solo: il diritto, come dimensione della consapevolezza e come obiettivo di una battaglia di liberazione. Altro che questioni formali!

A Pomigliano ci sono le cause contro la Fiat.Certo. E c’è anche la richiesta di una legge per la rappresentanza sindacale. La Fiom fa questa battaglia anche a costo di mettere in gioco il suo potere di organizzazione strutturata. Ma capisce che questa battaglia sui diritti è la frontiera che le permette di mantenere una rappresentanza forte anche in un momento di scontro durissimo. In un momento di crisi di legittimità di tutte le rappresentanze.

Ma i diritti non dovrebbero essere anche la bandiera di chi è semplicemente liberale?In linea di principio, certo. Ma io con il passare degli anni non sono diventato più radicale su questo punto. Senza l’uguaglianza, senza quel capolavoro che nella Costituzione è rappresentato dall’articolo 3, i diritti non ci sono. Mentre oggi rischiamo di tornare ad una forma di cittadinanza censitaria, come nell’Ottocento. Si racconta in giro che sono morte tutte le ideologie, è rimasta in piedi solo quella del mercato.

Anche gli studenti che scendono in piazza in questi giorni , lo fanno perché vogliono difendere il loro diritto al futuro.I movimenti in questi anni sono stati per molti importanti settori di società, l’unico spazio possibile. I partiti si sono rinchiusi nelle loro fortezze. Hanno cessato i contatti. I sindacati hanno mantenuto, in alcuni casi bene, come la Fiom, in altri meno bene, un contatto con queste realtà. I partiti, invece, spesso sono diventati del tutto autoreferenziali.

Gli scontri di via Arenula, sono avvenuti ad un passo da casa tua.Fra il 1979 e il 1983 siamo usciti dal Parlamento decine di volte chiamati di qua e di là. Anche questa è una funzione fondamentale di chi è nelle istituzioni. Andare in un corteo, mediare con le forze dell’ordine, impedire che la situazione precipiti.

Perché i rappresentanti del centrosinistra in parlamento, questo non riescono a farlo più?Io ho provato a chiederlo ad alcuni che conosco, perché non vanno a mediare. Mi hanno risposto: perché noi non riusciamo a farlo. Noi questi con gli scudi non sappiamo chi siano. Come si fa, a mediare se non sai chi sono?

Insomma i partiti non sono più quelli di una volta?Infatti. Quando dopo l’esperienza dell’Authority sono tornato all’attività politica nel 2005 ho scelto di impegnarmi in quella che io chiamo l’altra politica. Nella società, fuori dai partiti. Fino alle battaglie sui referendum per i beni comuni.

Che cos’erano per te i partiti, visto che sei stato un compagno di strada del Pci senza mai iscriverti?Te lo devo raccontare con un aneddoto sul decreto di San Valentino…

Certo.Nel 1984 decidemmo di batterci con l’ostruzionismo contro quel decreto, che per noi cancellava un diritto. E farlo comportò un sforzo enorme per tutti noi. Dopo anni in cui talvolta ci eravamo divisi, su molte scelte e molti voti, tornavamo a combattere con i compagni del Pci –il capogruppo era Giorgio Napolitano –e con l’arma dell’ostruzionismo parlamentare contro il decreto di Craxi.

Era ancora il tempo delle sedute giorno e notte…Si lavorava molto più di ora. Dormivamo in Transatlantico. Ricordo che si sorteggiavano gli interventi e l’ordine. E che capitò a Natalia Ginzburg di dover parlare alle due di notte.

E allora?Natalia era già tutta acciaccata. Combatteva contro il cancro. Io ero il capogruppo, c’erano giorni in cui dovevamo sorreggerla io e Laura Balbo, per portarla dalla commmissione all’Aula, ma il suo rispetto per il Parlamento era tale che non si risparmiava nulla…

E quella sera parlò?Se parlò? Lesse, nel cuore della notte, un intervento scritto, guarda caso sui diritti, che oggi sarebbe diventato un libro…

E…E arrivo in conferenza dei capigruppo il ministro dei rapporti del Parlamento e disse: non ce la facciamo.

Gettavano la spugna.Sì. Ma diceva anche: vogliamo che ci sia risparmiata l’aula, che il governo non sia umiliato.

Tu eri d’accordo.Ma nemmeno per sogno. Napolitano accettò: “Si può fare”. Io invece gli dissi: “Capisco la tua preoccupazione. Ma in segno di rispetto, per i compagni, il governo deve venire in aula”.

E venne?Certo. Ma qui arriva tuo padre. In questo clima mi telefonò e mi disse: è un successo troppo importante per non dirlo fuori.

Cioè fuori dal Parlamento?Esatto. Fu convocato un comizio al Pantheon, chiamando le sezioni. Ma era pur sempre il Pci: con cinque, diecimila persone, mi trovai al fianco di Berlinguer a festeggiare questa vittoria parlamentare in mezzo al popolo. In quei giorni, in cui c’era il vincolo di presenza, Berlinguer venne anche a votare. Incontrò … che gli disse: Ma domani hai il comitato centrale, non dovevi venire a votare! E lui rispose, allargando le braccia: “Mi ha convocato Pochetti! Voleva dire che anche il segretario del partito era sottoposto alla disciplina del gruppo.

Perché mi dici tutto questo?Per spiegarti che cosa era l’idea del Parlamento, che noi avevamo, e la religione della Costituzione che io ho trovato nelle sezioni del Pci. Nel 1979, quando io ero contro la legge Reale sull’ordine pubblico, che consideravo liberticida, il Pci era a favore. Ma mi invitavano a discutere. E molti militanti mi dicevano: “Ma se tu dici che è contro la Costituzione”.

Hai dovuto fare abiure per candidarti?Nessuna. La telefonata che mi offriva di correre la ebbi da Luigi Berlinguer. Io, che volevo essere corretto gli dissi “Posso accettare solo a una condizione: parlare con Pecchioli che ha posizioni opposte alle mie”.

E ci parlasti?Certo. Sai quando? Il 6 aprile del 1979. Sai perché me lo ricordo? Parlai con Pecchioli, che senza giri di parole mi disse: “Che tu sia in contrasto con noi sul tema dei diritti non è un problema. Se lo fossi stato sulla fermezza, sì.

E perché è importante la data?Perché il giorno dopo ci furono gli arresti del 7 aprile, nell’area dell’autonomia e con Toni Negri, e io difesi in linea di principio quei diritti e contrastai in ogni sede il cosiddetto teorema Calogero.

In queste interviste, ricostruiamo sempre le biografie politiche per capire la storia: dove inizia la tua vicenda politica?La prima immagine che dovrei tratteggiare è la mia casa. A Cosenza si svolse il congresso che segnò la fine del partito d’Azione. Mio padre era un umile insegnante di matematica, ma per casa nostra passavano uomini del calibro di Lombardi e Ugo La Malfa. E poi la città era segnata da due grandi personaggi: Mancini, socialista, e Sullo. Comizi in piazza, passione politica, polemiche. Cosenza era una capitale avanzata della sinistra.

Secondo fotogramma?Roma, il lavoro nell’Ugi, l’Unione goliardica Italiana. Nel 1953 conosco Marco Pannella. E ci troviamo dalla stessa parte quando Togliatti scioglie la Cudi, per far confluire tra noi i giovani comunisti.

Molti temevano la colonizzazione?E infatti l’accettazione o no di quella confluenza divenne una battaglia politica fra destra e sinistra in cui io e Marco scegliemmo la sinistra. Aneddoto: io ero presidente romano, e mi mandano a trattare due persone: Enzo Siciliano e Alberto Asor Rosa.

Ma il primo avvicinamento alla politica?Anche questa è una storia da raccontare. Non so come dirlo: per tutti quelli che erano “democratici” come lo ero io allora – a sinistra ma non comunisti, intendo – il faro era il mondo di Pannunzio. Una volta scoperto che arrivava nelle edicole a mezzanotte era tale la febbre di leggere, che andavano a farcelo vendere di notte, per anticipare l’uscita della mattina.

E riesci ad avvicinarti a Il Mondo?Oh sì, ma devo dirvi come. Eravamo dei ragazzi educati, forse timidi. Il mio migliore amico dell’epoca, insieme a Luigi Spaventa era Tullio De Mauro. Un giorno Elena Croce ci dice: “Andiamo al Mondo, vi presento Pannunzio”.

E lo fece?Altroché! Ricordo che lui ci dava del lei, e ovviamente anche noi, parlò, e alla fine ci disse: “Se volete scrivere qualcosa fatelo”.

Da toccare i cielo con un dito?Altroché. Scrissi il giorno stesso un articolo contro chi intendeva la mia facoltà, Giurisprudenza, come il luogo della mediocrità.

E lui cosa disse?La leggenda voleva che il direttore de Il Mondo avesse cestinato e fatto riscrivere un articolo sui fratelli Cervi, che noi avevamo letto ed era meraviglioso, a Luigi Einaudi. Il dettaglio non irrilevante era che si trovava già al Colle.

E quindi?Non ebbi il coraggio di chiamare. Mi chiedevo se sarebbe andato in pagina o no…. Puoi immaginare il mio stupore, quando, al solito acquisto notturno, scoprii che era in prima pagina! Mi iscrissi al primo partito radicale, quello che aveva come simbolo la minerva con il berretto frigio che aveva disegnato lo stesso Pannunzio.

Eravate un club elitario e illuminato.Illuminato di sicuro. Erano gli anni in cui si facevano le nazionalizzazioni perché c’erano stati i grandi convegni degli amici de Il Mondo, gli articoli di Ernesto Rossi… quanto al popolo, potrei farti sorridere.

Prego.Ci mandarono a comiziare, a me e a Gianfranco Spadaccia, a Borgata Gordiani… E come andò? Benissimo. Non c’era nessuno. Stavamo in piedi su una sedia a chiederci se parlare o meno quando arrivò il colpo di grazia.

E cioé?Un ragazzino romano, alto meno di un metro mi venne davanti, indicò il simbolo con il berretto frigio e mi disse balbettando: “E- e- e- ee.. c-c-c-chi sarebbe? C-c-cappuccetto rosso?”. Cose che per venti anni rinunci alla politica. E infatti così è stato.

Altra istantanea.Una mattina del 1951 sono all’università. Ma prima devo dirti che siccome all’Ugi gestivano anche dei soldi per le attività ricreative, io avevo tagliato i fondi della squadra di rugby, perché praticamente era una scuola quadri del Msi…

E questo che c’entra?Te lo spiego: siccome tutti temevano che mi trovassero e mi dessero una lezione, si convenne che una squadra composta da alcuni edili di San Lorenzo mi accompagnasse tutte le sere fino alla fermata. Poi, questi operai, capivano così bene le cose, che spesso finivo a cena a casa loro.

È questa l’immagine simbolo che ci vuoi raccontare?No, questo è il clima che la spiega. C’era un professore, Umberto Calosso, che era stato esule sotto il regime, che tornava in cattedra dopo quello che era dovuto scappare a Parigi. Socialista, socialdemocratico. I fascisti dicevano che gli avrebbero impedito di entrare in Aula perché “Traditore della patria”.

Incredibile.Ecco perché non mi dimentico questa immagine: c’è un signore, si trattava di Guido Calogero, che lo precede con un ombrello levato, per dire: “Badate, non ci facciamo intimidire!”. Vicino a quel signore c’era Lucio Lombardo Radice.

Che cosa era per te quella sinistra, essere di sinistra?La stessa cosa per cui sono e mi considero di sinistra oggi. L’idea dei diritti e l’idea dell’uguaglianza. Sono cambiate molte cose, nel mondo, ma non questo punto di partenza, per me.

La povertà si allarga, mentre la politica continua a tacere. La Repubblica, 19 novembre 2012 (m.p.g.)
Gli individui che vivono in famiglie caratterizzate da deprivazione materiale sono aumentati di oltre 6 punti percentuali tra il 2010 e il 2011, coinvolgendo più di un quinto della popolazione (22,2%). Al loro interno, quelli che si trovano in condizione di deprivazione grave quasi raddoppiano, arrivando all’11,1%. Si tratta di persone che vivono in famiglia in cui si sperimentano rispettivamente almeno tre e più di tre limitazioni che intaccano seriamente il tenore di vita: non essere in grado di affrontare una spesa imprevista di 800 euro (una condizione che riguarda ormai il 38,4% della popolazione); non avere i mezzi per consumare un pasto adeguato almeno ogni due giorni; non potersi permettere di riscaldare adeguatamente l’abitazione; fare fatica a pagare il mutuo, le bollette o altri debiti. Di più, una quota consistente di chi nel 2011 presentava tre, ed anche più, forme di deprivazione nell’anno precedente non ne aveva sperimentata nessuna, o solo una-due.
È un fenomeno che non riguarda solo chi si trova nel quintile più povero, ma anche chi si trova nel secondo o terzo quintile, quello che chiameremmo del ceto medio. Questa fotografia di forte peggioramento delle condizioni di vita materiale degli italiani emerge dalla indagine Istat che è parte dell’indagine europea Eu-Silc sulle condizioni socio-economiche della popolazione.
Ci si era illusi che la capacità di risparmio delle famiglie, unita al fatto che la disoccupazione riguarda prevalentemente i giovani che spesso vivono ancora con i genitori, avrebbe continuato a funzionare come ammortizzatore sociale. In effetti, i dati per il periodo 2008-2010, dopo il peggioramento avvenuto all’inizio della crisi, tra il 2007 e il 2008, sembravano dare fondamento empirico a questa illusione. Il tenore di vita sembrava essersi stabilizzato e così l’incidenza della deprivazione materiale tra individui e famiglie. Ma era solo un fenomeno temporaneo. A fronte di una riduzione di reddito, per il venire meno dei redditi dei figli o per l’entrata in cassa integrazione del percettore principale di reddito, le famiglie hanno solo parzialmente ridotto il tenore di vita, riducendo invece i risparmi, quando non intaccandoli. Con il perdurare e l’aggravarsi della crisi, cui si è aggiunto anche l’aumento della imposizione fiscale, in particolare sull’abitazione, mentre venivano ridotti anche i servizi, le famiglie e gli individui con redditi più modesti si sono trovate senza cuscinetto di riserva. I dati recenti sulla riduzione della propensione al risparmio ne sono una conferma. Queste famiglie hanno dovuto incominciare ad intaccare sostanzialmente i consumi.
A fronte di questo forte peggioramento delle condizioni materiali per una parte rilevante della popolazione, sembra che l’unica cosa che tenga, che dia soddisfazione, e su cui ci si può azzardare ad avere fiducia, siano le relazioni famigliari e amicali più strette. Al di fuori di queste sembra ci sia il vuoto. La “fiducia negli altri”, già poco diffusa in Italia, è ulteriormente diminuita nel 2012. Possiamo stupirci, allora, se gli italiani sembrano ondeggiare tra le tentazioni populistiche, il ribellismo rabbioso e la ritirata nella vita privata di cui l’astensionismo è il segnale più vistoso? Perché il paese possa riprendersi non basta l’austerità, che anzi, se è cieca, rischia di rafforzare disaffezione e ribellismo. Tanto meno aiuta una politica implosa su se stessa, dove nessuno sembra capace di indicare una strada che consenta di sopravvivere senza cadere né nel baratro del debito, né in quello della distruzione di capitale umano e sociale. Pensare solo al primo senza considerare i secondi, non produce solo disperazione e aggrava le ingiustizie. Mette anche a rischio la coesione sociale.

Il manifesto 18 novembre 2012
Dopo Marchionne, Monti. Tenete presente la parabola di Marchionne: due anni e mezzo fa, quando aveva sferrato il suo attacco contro gli operai di Pomigliano («o così, o chiudo»), togliendosi la maschera di imprenditore aperto e disponibile che si era e gli era stata appiccicata addosso, la totalità dell'establishment italiano si era schierata incondizionatamente dalla sua parte: Governo, partiti, sindacati, media, intellettuali di regime, sindaci, aspiranti sindaci, ministri e aspiranti ministri, più la falange di Comunione e Liberazione, da cui Marchionne si era recato a riscuotere gli applausi che i suoi dipendenti gli avevano negato.

Uniche eccezioni, gli operai presi di mira, la Fiom, i sindacati di base e poche altre voci senza molta audience. Perché a quell'attacco antioperaio Marchionne aveva abbinato un faraonico piano industriale da 20 miliardi di euro («Fabbrica Italia», l'ottavo piano, da quando Marchionne era in carica, nessuno dei quali mai realizzato), che avrebbe portato finalmente la Fiat, anche grazie alla stretta imposta agli operai, a competere nel pianeta globalizzato con mezzi adeguati alla nostra epoca, che Marchionne, con venti secoli di ritardo, aveva battezzato «Dopo Cristo». Al manifesto , che su quel piano aveva sollevato fondati dubbi, erano stati riservati i lazzi di ben sette collaboratori del Foglio - tra cui due stimati ex sindacalisti - e del direttore del Sole24ore.

Qualcun altro aveva, sì, notato che quei 20 miliardi non comparivano, ne avrebbero potuto comparire, nel bilancio della Fiat; o che triplicare la produzione di auto ed esportarle in un mercato con il fiato corto era forse una mossa avventata; o che l'Europa si stava avviando verso un lungo periodo di vacche magre - in realtà magrissime - che rendeva problematici piani così faraonici; o, soprattutto, che voler trasformare le fabbriche (dopo Pomigliano, era stata la volta di Mirafiori, e poi di tutto il resto) in falangi - dove per sopravvivere gli operai devono combattere, sotto il comando di un manager che guadagna 400 volte più di loro, una lotta mortale contro i lavoratori della concorrenza, perché la vita degli uni è la morte degli altri - più che una forma di «modernizzazione» - allora era molto in voga questa espressione - era un ritorno al dispotismo asiatico. Ma i peana avevano avuto il sopravvento.

Oggi, a due anni e mezzo da quel trionfo, il bluff di Marchionne si è completamente sgonfiato: è rimasto solo il peggioramento delle condizioni di lavoro per gli operai (ormai in cassa integrazione quasi permanente), l'abolizione della contrattazione e la violazione continua e ostentata della legge e delle sentenze dei tribunali. Il sindaco che voleva srotolare un tappeto rosso sotto i piedi di Marchionne lo ha riarrotolato in silenzio e deposto nel suo nuovo ufficio di banchiere in attesa di tempi migliori. Quello che approvava Marchionne «senza se e senza ma» sostiene invece di essere stato ingannato (ma forse voleva esserlo). E a quello che «se fosse stato un operaio» avrebbe votato sì al referendum truffa di Mirafiori non è mai venuto in mente di chiedere che cosa avrebbe fatto se fosse stato sindaco a un operaio: una evidente asimmetria informativa.

Molti altri semplicemente tacciono senza spiegare perché non avevano capito niente o avevano fatto finta di non capire (allora gli conveniva lodare, come oggi gli conviene tacere). Fatto sta che dopo il tonfo oggi Marchionne è per tutti un po' come la peste. Nessuno cerca più di incontrarlo; tutti ne parlano male e soprattutto cercano di evitare l'argomento. «Marchionne? Chi era costui?» Quanto a lui, continua per la sua strada: cioè non fa niente, che è quanto, secondo lui, gli richiede oggi il mercato. E allora? Allora, la parabola di Marchionne non fa che anticipare quella di Monti: tra cinque mesi nessuno ne vorrà più sapere e per tutti quelli che lo hanno appoggiato sarà una corsa a dissociarsi e a sostenere di non aver mai avuto gran che a che fare con lui: «Monti chi?».

Perché se il piano Fabbrica Italia è stato un flop, la cosiddetta agenda Monti è ancora peggio; e i nodi stanno venendo al pettine. «Si è arenata la spinta innovatrice» cominciano a dire, mettendo le mani avanti, quelli che per un anno lo hanno esaltato per aver portato il paese «fuori dal guado» (tra i quali il primo della lista è proprio lui, Monti, che non ha mai perso un'occasione per lodarsi). Era partito anche lui alla grande, come Marchionne: dopo i due primi decreti aveva sentenziato che il Pil sarebbe cresciuto dell'11 per cento; i salari del 12; i consumi dell'8; l'occupazione dell'8 e gli investimenti del 18. Il bello è che tutti l'avevano preso sul serio e nessuno era andato a suggerirgli di farsi ricoverare. Ma proprio come con Marchionne, il paese, beneficiato da due decreti Crescitalia, da uno Salvaitalia e da numerose altre misure, non è cresciuto di un centimetro; anzi, come era prevedibile, è andato indietro.

In compenso, come con Marchionne, sono crollati occupazione e redditi; e poi spesa sanitaria, scolastica e per la ricerca, investimenti pubblici e privati; ed è ancora aumentato il debito pubblico, che presto sarà sottoposto alla stretta del fiscal compact ; mentre il compito di rilanciare lo sviluppo è stato affidato al petrolio del sottosuolo italiano, al trasporto di gas in conto terzi attraverso le aree più sismiche d'Europa e alle solite autostrade (e, ovviamente, Tav), per le quali e solo per loro, i miliardi - ben 100 si trovano sempre, mentre intere regioni del paese sono sott'acqua quasi perennemente per incuria e opere devastanti. Grazie al ministro Passera; il quale prima le finanzia - a babbo morto - come banchiere e poi interviene come ministro per tappare lo scoperto bancario con fondi pubblici, saccheggiando la Cassa Depositi e Prestiti. Insomma la storia di Marchionne si ripete; ma ancora più «alla grande». Era ovvio che un andazzo del genere non sarebbe durato a lungo.

Tutti avevamo, e abbiamo, davanti agli occhi le vicende della Grecia e della Spagna, lo strangolamento delle cui economie precede di poco quello della nostra ed è frutto della stessa ricetta: quella che Monti, ancora prima di diventare Presidente del Consiglio, aveva esaltato sostenendo che quei paesi avevano finalmente imboccato la strada del «risanamento». Un buon viatico per affidargli l'incarico di guidare fuori dalle secche l'economia italiana e, di concerto con il sodale Draghi, quella europea. Poi si è impegnato in una stupida competizione con Grecia e Spagna, invece di creare un fronte unico per fare fronte a un pericolo comune che riguarda tutti.

Ma soprattutto, era proprio necessario affidare a un tecnico, anzi a una confraternita di tecnici che non si sono mai occupati di problemi sociali e ambientali, il compito di affrontare la sollevazione di popolo - che, per ovvia conseguenza, è alle porte - e il disastro ambientale che sta devastando il paese (e il resto del mondo)? Così diventa chiaro che l'unica tecnica con cui i ministri del governo Monti, e dopo di lui la sua agenda, chiunque la gestisca, sono in grado di affrontare i problemi messi all'ordine del giorno delle loro politiche è il solito manganello: contro gli studenti, contro gli operai, contro i minatori, contro gli insegnanti, contro i comitati che si ribellano allo scempio dell'ambiente, della salute e della convivenza civile. L'agenda Monti, ci spiegano infatti i suoi residui sostenitori, è già tutta definita: non c'è alternativa; e non c'è niente da fare. Ma fino a quando una soluzione del genere potrà bastare? E poi?

. Il manifesto, 15 novembre 2012

Gli stringono la mano, gli accarezzano la spalla, se lo coccolano mettendo in campo tutte le manifestazioni della socialità napoletana. Lui tiene su lo striscione della Fiom, tra gli operai di Pomigliano, quelli del no a Marchionne che tutti criticavano fino a quando la magistratura ha detto e ribadito che hanno ragione loro, è la Fiat ad aver torto. Chi è lui? «Uno di noi», grida l'indefettibile Ciro al megafono. Stefano Rodotà è la presenza più gradita al corteo.
Un serpentone che dalla Avio attraversa la zona industriale, fino a invadere il cuore di Pomigliano. Che ci fa qui un pilastro su cui si reggono diritto e legalità? «Sono qui - risponde - proprio perché sono un maniaco dei diritti». Pomigliano «è un luogo simbolo della lotta operaia che dilaga in tutt'Europa, un esempio per tutti», aggiunge il professore che sembra a suo agio ancor più che in un'aula universitaria. Dal rumoroso palco dove fino a mezz'ora prima il Gruppo operaio di Pomigliano d'Arco aveva riscaldato una piazza Primavera operaia, studentesca e popolare, Rodotà spiega che per stare davvero dalla parte dei diritti «non basta scrivere libri o articoli di giornale, bisogna stare insieme a chi si batte per difenderli», per sé e per tutte le persone. Perché «se una sola persona viene discriminata, è a rischio la libertà di tutti».

Lo stesso concetto viene coniugato in tutte le lingue, e non solo con accento napoletano. Qui a Pomigliano sono arrivate rappresentanze metalmeccaniche da tutt'Italia, dalle fabbriche Fiat di Melfi, Cassino, dall'Irisbus, dall'indotto Magneti Marelli - dove 850 lavoratori rischiano di essere cancellati e di aggiungersi agli oltre 2.600 tenuti fuori dalla newco di Pomigliano (Fip), vuoi per discriminazione sindacale vuoi perché Marchionne «è un imbroglione» e dei suoi piani, investimenti e modelli resta solo la cenere. L'ad Fiat ha imbrogliato tutti quelli disposti a farsi imbrogliare, in campo sindacale, politico, amministrativo. La dignità degli operai del no al ricatto padronale che fa sentire a casa sua Rodotà oggi sembra meno isolata, «la Fiom è un esempio perché ha scelto la strada della legalità che è un principio fondativo», insiste il professore. E Libera invia una lettera di adesione alla lotta della Fiom. C'è una legge del 2003 in Italia che impedisce la discriminazione e condanna chi la pratica. Marchionne ha discriminato gli iscritti alla Fiom e grazie a questa legge è stato condannato ad aprire a 145 di loro i cancelli. Non basta, anche la sua risposta basata sulla rappresaglia contro la Fiom e la magistratura è illegale, come recita l'art. 4B della stessa legge: metterne fuori degli altri, o gli stessi, come risposta arrogante all'ordinanza è vietato. Nel calcio, sarebbe fallo di reazione a cui l'arbitro fa seguire il cartellino rosso. La Fiom, ha annunciato il segretario Maurizio Landini tra gli applausi, ha già presentato un nuovo ricorso per chiedere di sanzionare l'eventuale espulsione di 19 dipendenti per lasciare il posto ai 19 della Fiom che l'ordinanza della Corte d'Appello ingiunge alla Fiat di assumere.
È un corteo ricco, composito, ben accolto dalla città vesuviana i cui negozianti non abbassano le serrande, i cui cittadini osservano con simpatia dai terrazzi e dalle finestre. Ci voleva, dopo due anni di solitudine operaia. Gli studenti sono tantissimi e rumorosi, hanno slogan creativi, petardi scoppiettanti e fumogeni rossi. «Pomigliano dal ricatto al riscatto», scandiscono mentre sul palco si canta «tu ti lamenti ma che ti lamenti/ pigghia lu bastuni e tira fora li denti». Ci sono delegazioni della Cgil bancari, della Filt, dei pensionati Spi. La Cgil in quanto tale, invece, non c'è: la confederazione ha scelto di manifestare a Napoli, in piazza del Gesù. Solidarietà alla Fiom va bene, ma senza esagerare. Questa volta con operai e studenti nella giornata dell'eurosciopero si fa vedere anche la politica con i big della sinistra. C'è il sindaco di Napoli De Magistris, salta fuori persino qualche bandiera tricolore del Pd.
La giornata era iniziata molto prima dell'alba con i picchetti alla Avio e all'Alenia, sotto lo striscione indirizzato agli aspiranti crumiri: «Entra, aiuta Marchionne a renderti schiavo». Ma qui non entra nessuno. Entrano invece alla Fip gli operai del sì, i 2146 prescelti dal capo, spremuti e ricattati dai team-leaders: «Se scioperi puoi diventare uno dei 19». Così i militanti della Fiom, che di responsabilità ne hanno da vendere, hanno evitato di fare presidi davanti alla Fip. Da dentro però, chi non ce la fa più telefona ai compagni discriminati: «Hanno addirittura riempito la fabbrica di monitor che trasmettono un telegiornale aziendale che chiede consenso e mette paura». Eccolo il sistema Marchionne, che ben conosce uno come Giovanni Barozzino, uno dei tre licenziati di Melfi che nonostante tre gradi di giudizio positivi sono tenuti a casa, pagati ma guai a presentarsi ai cancelli: «Come operaio non posso lavorare, come delegato Fiom non posso andare alla saletta sindacale perché il mio sindacato non è riconosciuto. L'unica cosa che mi rende simile agli altri operai è la cassa integrazione, tre settimane al mese su quattro».
Contro la paura si sfila a Pomigliano, e contro le politiche liberiste come nel resto dell'Europa. Al tentativo di scatenare una guerra tra poveri, Landini risponde con la solidarietà: ai lavoratori Fiat di Kragujevac, in Serbia, a cui per costruire i modelli sottratti a Mirafiori si impongono turni di 10 e anche 12 ore giornalieri. Persino agli operai del sì a Marchionne si rivolge fraternamente, e ai sindacati complici, Fim e Uilm, chiede di ripartire insieme, perché il piano Fabbrica Italia che era un imbroglio non esiste più, «dobbiamo chiederne uno nuovo, basato sulla solidarietà e sul rientro di tutti i lavoratori rimasti al di là dei cancelli». Sono gli stessi operai Fiom «ripescati» dalla giustizia a dire «non siamo qui per far rientrare 19 compagni, e neanche i 145 della Fiom ma tutti i 2600 tenuti fuori dal lavoro». Anche quelli che per salvare il lavoro hanno rinunciato ai diritti, e ora sono rimasti senza diritti e senza lavoro. E le cose non vanno meglio per chi è in Fip, con una Fiat in fuga dall'Italia e una politica finora assente. «Attenti», grida dal palco Landini, «o tornate a rappresentare il lavoro oppure si approfondirà il solco che divide la politica dalla gente. E in un paese, in un'Europa dove i tassi di disoccupazione sono ormai fuori controllo, c'è il rischio che venga meno la tenuta democratica». E' già successo nel Vecchio continente, quando la crisi e la disoccupazione hanno aperto la strada alle peggiori avventure autoritarie.

La Repubblica, 15 novembre 2012
Tenere insieme divisione e unità è un compito politico difficile, ma imprescindibile. A questo servono le regole democratiche, scritte e costituzionalizzate in previsione del disaccordo, non dell’armonia. La ricerca di costituire leadership democratiche passa attraverso la pratica del disaccordo e aspira a raggiungere un esito che benché unitario non è mai affossamento delle divisioni. Lo abbiamo appreso seguendo le recenti elezioni americane che, con sorpresa di molti osservatori stranieri, hanno rivelato al mondo un paese diviso eppure unito. Un mistero che di misterioso ha in effetti molto poco, se non il fatto che la divisione politica e ideologica è condizione per consentire la formazione di un’unità del potere di decisione. Chi meglio riesce in questo, conquista la leadership. Il sistema presidenziale e federale si adattano meglio a questa politica della concordia discordante rispetto a quello parlamentare, che è più pluralista e propenso a promuovere coalizioni invece che convergenze verticali intorno a un leader.

La leadership democratica nelle democrazie parlamentari segue altre logiche che non sono, o sono raramente, personalistiche (il Parlamento, scriveva Max Weber, soffoca il leader). Il nostro paese vive dunque una strana vicenda. Da un lato, è a tutti gli effetti una democrazia parlamentare. Dall’altro, uno dei suoi partiti più importanti ha deciso di adottare il sistema delle primarie per scegliere il candidato che dovrà rappresentarlo alle elezioni politiche, senza alcuna certezza che questa leadership diventi poi leadeship di governo poiché la maggioranza parlamentare va costruita con alleanze e il nome di chi guiderà il governo è parte della trattativa per la costruzione dell’alleanza. Quindi, perché le primarie?

La scelta delle primarie è stata dettata dall’esigenza di rispondere allo stato di dissoluzione dei partiti politici nel nostro paese, di cercare una via d’uscita al discredito della politica. In Italia le primarie servono meno a selezionare il leader che dovrà governare che a tenere alta l’attenzione dei cittadini nei confronti della politica e a ridare ossigeno ai partiti. Diciamo che da noi l’uso delle primarie è improprio. Se la strada sia giusta non lo sappiamo ancora; non sappiamo se intensificare le divisioni interne al partito sia una buona strategia per preparare una leadership unitaria per il paese.

La specificità della nostra situazione comporta far fare alla leadership un lavoro più difficile di quello delle primarie americane perché non sostenuto da una struttura istituzionale e, quindi, solo basato sulla volontà dei concorrenti (per esempio, la promessa di accettare il verdetto delle primarie e non correre in caso di sconfitta è, e resterà fatalmente, solo una promessa). Inoltre, l’Italia non ha nella sua storia modelli a cui riferirsi che combinino insieme leadership personale e democrazia. Il potere del leader personale fa parte della storia fascista. L’età parlamentare ha cercato di ovviare il problema della leadership personale creando leader collettivi, ovvero i partiti politici.

La combinazione di leader personale e democrazia è stata per la prima volta tentata da Berlusconi. Ma quel che ci ha lasciato l’era berlusconiana è un modello di leader da evitare se le primarie devono svolgere il compito di rinascita della politica. Il modello berlusconiano ha macinato personalismo più che leadership democratica, generato divisioni artificiose per esigenza di spettacolo, con l’attenzione rivolta a fare audience più che a rappresentare i problemi reali della società e a costruire una maggioranza che operasse onestamente, e per il bene del paese.
La leadership democratica nell’età delle primarie per scopo di rigenerazione della politica è, dunque, una realtà molto complessa e tutta sperimentale. Le primarie del Pd possono essere un segno di coraggio o avere un esito disastroso se si ridurranno a essere solo un mezzo per buttare nell’arena politica nuovi protagonisti o protagoniste. Il moto plebiscitario che generano potrebbe riuscire a ridare vigore alla politica ma potrebbe ricreare la sindrome berlusconiana della democrazia dell’audience. Non ci si deve nascondere questi rischi e queste difficoltà. Perché i rischi siano minimizzati è importante che i candidati imparino in fretta l’arte di tenere insieme divisione e unità. Un’arte difficile anche perché veniamo da due decenni in cui abbiamo appreso solo l’arte di opporci e contrapporci. Il candidato delle primarie del Pd potrà capitalizzare consenso a partire dalle differenze se saprà stemperare le divisioni esistenti tra i suoi elettori evitando di farne fazioni corrosive e belligeranti. Arte difficile, anche perché per vincere occorre che le divisioni vengano esaltate. Eppure, se la ricomposizione delle divisioni è l’obiettivo (l’unità del partito), la leadership democratica via primarie dovrà coltivare fin da ora l’aspirazione a una riconciliazione futura delle differenze di oggi. E per riuscirci i suoi candidati dovranno aver cura fin da ora di usare prudentemente l’animosità che la competizione richiede e stimola: per non farla tracimare e per impedire che alimenti antipatie profonde; per evitare che le differenze e le divisioni siano di ostacolo all’unità.

Parole e indicazioni giuste. Ma nessuno ricorda che il territorio è un sistema in cui tutte le parti (suolo acqua boschi e coltivi, case e scuole, fabbriche e strade, ferrovie e ospedali) interagiscono, e solo adottando un metodo sistemico (la pianificazione) si può governarlo con equità ed efficacia. La Repubblica, 15 novembre 2012

Nelle Langhe, tutte le volte che pioveva molto, e per alcuni giorni di fila, si diceva che i contadini iniziassero a “portare l’acqua a spasso”. Sulle colline e su qualsiasi altro terreno in pendenza gli agricoltori, armati di zappa, scavavano stretti e lunghi solchi pieni di curve: così aiutavano l’acqua a “camminare” per un po’ prima che scendesse a valle. Una precauzione perché non acquisisse forza distruttiva, sia per le coltivazioni sia, a valanga e nei casi più gravi, per le costruzioni.
Torna questo frammento di memoria, che tanti anni fa sembrava più che altro un racconto colorito riferito alla civiltà contadina, ogni volta che in Italia un territorio va sott’acqua o un fiume esonda portando danni, tristezza e purtroppo morte. E viene da pensarci sempre più spesso, perché capita regolarmente ogni autunno da un po’ di anni a questa parte, e molte volte anche a fine inverno. Per curiosità, basta controllare l’elenco delle alluvioni di una certa importanza avvenute in Italia, che si trova facilmente su internet.
Salta subito all’occhio come i fenomeni gravi in termini di danni materiali e di vite umane si siano molto intensificati a partire dal secondo dopo-guerra. Guardando quell’elenco, poi, si capisce che l’Italia è da sempre un Paese naturalmente soggetto a questi eventi, ma una tale escalation non è spiegabile se non con una riflessione riguardante la nostra cura per il territorio e i luoghi in cui viviamo.
Sarebbe forse troppo facile — ma anche poco serio senza un adeguato supporto scientifico — chiamare in causa il cambiamento climatico, anche perché i disastri legati al meteo si sono moltiplicati in tutto il mondo. Sicuramente qualcosa sta mutando nella prevedibilità e nella frequenza di fenomeni atmosferici eccezionali, è evidente, ma se guardiamo a come abbiamo trattato il nostro Paese negli ultimi due secoli, e maggiormente negli ultimi sessant’anni, non si può non pensare che siamo stati incauti, se non scellerati, nel depredarlo, abbandonarlo, coprirlo di cemento, nel costruire senza criteri preventivi rispetto a cataclismi cui ormai dovremmo essere un po’ abituati, e anche preparati, da almeno qualche centinaio di anni.
Non ci vuole un genio per capire certe cause e non ci vorrebbe neanche un genio della politica per cercare di correre subito ai ripari. Un piano nazionale di messa in sicurezza del territorio italiano dovrebbe essere la priorità di qualsiasi governo, dovrebbe essere in qualsiasi programma elettorale, dovrebbe mettere d’accordo tutte le forze politiche. E invece no. Ogni autunno bisogna ricordare, di fronte a questi drammi, chi “portava l’acqua a spasso”.
Parlare di civiltà agricola del passato non è irrispettoso, non è un caso o un esercizio trito da maniaci delle contadinerie. Studi storici ci spiegano che su un territorio geomorfologicamente fragile come il nostro abbiamo iniziato un paio di secoli fa con il disboscamento a tappeto delle aree collinari e montane. Questo ha peggiorato molto la sicurezza dei terreni e reso più pericoloso il deflusso delle acque, ma quanto meno si era fatto spazio a un’agricoltura che era pur costretta a prendersi cura del territorio in maniera capillare e sistematica. Il tutto su base locale ma con una sapienza che quando in casi eccezionali doveva lamentare danni e perdite, almeno poteva inveire a ragione contro la malasorte, perché si era fatto tutto il possibile per prevenire.

Poi, con l’avvento dell’era industriale, l’inizio dell’irreparabile: prima l’abbandono delle zone più difficili da coltivare o dove mal si adattava l’agro-industria, illusoria portatrice di una troppo agognata modernità. Montagne, colline, aree considerate “arretrate” hanno visto arrivare il deserto umano, l’incuria, infine il tentativo molto problematico della Natura di riprendersi i suoi spazi. Non smetto di ricordare ciò che ha detto una volta Tonino Guerra: «L’Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c’era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l’abitavano: i contadini». Con l’abbandono di queste campagne si è rotto un equilibrio che è esploso a valle e nelle pianure con il boom edilizio e delle aree industriali: un’altra escalation direttamente proporzionale a quella dei disastri che ormai a torto continuiamo a chiamare “naturali”. Abbiamo assistito a una cementificazione virale che, com’è stato più volte ricordato su queste pagine, non ha mai accennato a fermarsi, e negli ultimi trent’anni è anche peggiorata con 6 milioni di ettari di suolo fertile strappati al nostro Paese. Il tutto a fronte di dati che ci parlano di dieci milioni di case vuote, sfitte o inutilizzate. E non sindachiamo sulla qualità di queste costruzioni. Un disegno di legge per fermare il consumo di suolo, proposto dal ministro delle politiche agricole e forestali Mario Catania, è pronto ed è stato molto migliorato dalla Conferenza Stato-Regioni anche in base a richieste della società civile: voglio sperare che venga approvato celermente da questo governo entro i termini di scadenza della legislatura, a maggior ragione dopo i fatti degli ultimi giorni.

Continuando con la storia, invece, l’abbandono delle campagne è proseguito anche in pianura: i contadini sono diventati sempre meno e sempre più soli, alle prese con un’agricoltura industriale che bada al territorio (cioè lo sfrutta) soltanto nella misura in cui rappresenta un fattore produttivo, dunque senza attenzione per le opere che potrebbero avere un interesse per la collettività. Infine c’è stata anche la dismissione delle aree industriali: non posso non pensare a quegli spettri di territorio che sono diventati certi punti della Valle Bormida o che presto lo diventeranno, come il tarantino.

Quasi nessuno si prende più cura dell’Italia. Legambiente ha stimato nel 2010 che l’82% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico, in cinque Regioni siamo al 100%. Nemmeno lo Stato, che potrebbe fare tanto, fa il suo mentre insegue testardamente “grandi opere” che ormai suonano sempre più come una presa in giro. Non si può non urlare la richiesta di un piano serio e moderno di messa in sicurezza del territorio nazionale. Piano che agisca a livello locale non soltanto con opere minime e semplici (ma queste sì, grandi) di cura e manutenzione: anche attraverso la tutela dei suoli fertili e la rimessa in produzione di quelli compromessi (con forme di neo-agricoltura per l’industria, come coltivazioni per bioplastica in terreni inquinati). Oppure attraverso gli incentivi per un ritorno alla campagna da parte delle nuove generazioni e un premio a chi, attraverso l’attività agricola, serve ancora la Nazione con quei lavori che sanno “portare a spasso l’acqua”. Questa è vera modernità, questo è ciò di cui si parla veramente quando si parla di paesaggio, di agricoltura sostenibile o di economia locale. Non è poesia o nostalgia. Sono cose che genererebbero più occupazione e Pil di quanto non ne facciano i disastri. Perché è terribile dirlo — e non è un caso che ci sia chi è stato colto a gioire e ridere per un terremoto — ma un disastro “innaturale” fa quote di Pil attraverso la ricostruzione o magari anche con forme di assicurazione privata che ora, guarda caso, alcuni vorrebbero obbligatorie per tutti.

. La Repubblica, 14 novembre 2012

MOLTO presto si è capito, guardando il dibattito tra i candidati alle primarie del centrosinistra, che qualcosa di essenziale mancava.Che il palcoscenico occupato dagli attori era simile a una sfera, di cui potevi ammirare o non ammirare la superficie, ma privata di centro. Non abbiamo contemplato il vuoto. Non era assente la voglia di fare politica: anche se voglia parecchio neghittosa, perché restituire alla politica l’importanza perduta implicherebbe riconoscere peccati di omissione non indifferenti, passati e presenti. La bussola c’era, nella sua sferica forma: quel che l’occhio non percepiva era il perno che fissa l’ago magnetico, e che gli dà la sua linea di forza.

Cosa dovrebbe esserci, al centro di uno schieramento che dice di battersi per una sinistra progressista? Per forza una tradizione, una storia, un tempio, meglio ancora un Pantheon che contiene le tombe dei propri uomini illustri. L’ago magnetico non può che partire da lì, altrimenti si muove impazzito in ogni sorta di direzione, senza mai segnalare con chiarezza il Nord. Quando il centro è ovunque e da nessuna parte, sostituito dalle persone che parlano agli elettori (la persona Bersani, o Vendola, o Renzi, o Tabacci, o Puppato) vuol dire che dietro la loro divina genialità — la loro maschera — non esistono genealogie né memoria storica di sé.

Il momento rivelatore di questa perdita del centro è stato quello in cui i cinque candidati hanno elencato i loro monumenti ideali, gli uomini illustri del loro Pantheon, individuale o collettivo. Alcuni erano grandiosi: Papa Giovanni ad esempio, indicato da Luigi Bersani come un uomo che seppe operare «cambiamenti profondi, ma sempre rassicurando», mai seminando spavento. O il cardinale Martini, nominato come stella polare da Nichi Vendola. Due uomini di chiesa, cui si sono aggiunte personalità care a Renzi come Nelson Mandela e Lina, la famosa blogger tunisina.

Del tutto eclissati, nella più sorprendente delle maniere, sono d’un colpo gli uomini che della sinistra sono i veri padri fondatori, i veri aghi della bussola: compresi i padri che si sono aggiunti man mano che il progressismo italiano, senza dirlo ma nei fatti, ha cominciato una sua nuova strada, non più rivoluzionaria ma socialdemocratica. Due ecclesiastici, un eroe della lotta anti-apartheid, un blogger: è bello, ma somiglia molto a una decerebrazione. I centri nervosi del cervello vengono separati dai centri posti inferiormente, scrivono i bollettini medici: il lobotomizzato perde la capacità di movimenti volontari anche se riesce a mantenere la posizione eretta. È come se ci si vergognasse di dichiararsi eredi. Di avere alle spalle un testamento, dunque un’alleanza. Magari i candidati dicono perfino qualcosa di sinistra, ma questo qualcosa è piatto, non ha radici, fluttua come foglia sulle acque, si fa volutamente piccolo e insignificante. Come Bersani quando ha ammesso, qualche settimana fa: «Abbiamo qualche difettuccio, ma di meglio in giro non c’è».

Tutto questo è strano e inedito, se lo paragoniamo alla coscienza di sé che le sinistre hanno generalmente in Europa. Anche quando tradiscono. Soprattutto quando tradiscono. In Germania il pensiero della sinistra, e anche dei Verdi, va automaticamente a lanterne come Willy Brandt, o a resistenti come Kurt Schumacher. In Francia ci si divide su Mitterrand, ma tanto più vivo è l’attaccamento a Léon Blum e al suo Fronte popolare, o a Jean Jaurès, o al fondatore della scuola laica che fu Jules Ferry. Non così in Italia, anche se di figure memorabili ne abbiamo anche noi.

Berlinguer ad esempio: perché Bersani, figlio del Pci, salta un dirigente che vide con acume e sgomento, nell’81 parlando con Eugenio Scalfari, la trappola del consociativismo e del compromesso storico da lui stesso congegnata? «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali».

Fu un grido di rivolta contro il proprio partito, un presentimento di possibili vie d’uscita. Un grido tuttora inascoltato, se solo consideriamo l’atteggiamento corrivo che i suoi eredi hanno avuto per quasi vent’anni verso Berlusconi. Il modello, sconfessato o tradito, si fa imbarazzante. Da questo punto di vista Bruno Tabacci è apparso il più libero di complessi: i suoi esempi — De Gasperi innanzitutto, su Marcora i dubbi sono leciti — hanno radici inconfutabili nella storia del cattolicesimo politico italiano.

Imbarazzo e vergogna di sé (anche Vendola ne è affetto) spiegano l’omissione di altri antenati, che assieme alla sinistra hanno lottato contro le degenerazioni economiche e le corruttele italiane: non appartenenti al Pci ma a formazioni come il Partito d’Azione o il socialismo. Sono tanti. Ma quando si perde il centro precipitano nell’oblio le vette di preveggenza e saggezza che furono Piero Calamandrei, Vittorio Foa, Federico Caffè, Sylos Labini. O, fortunatamente citata da Laura Puppato: Tina Anselmi, cancellata perché fece piena luce, troppa probabilmente, sulle trame della P2. Data addirittura per defunta dal giornalista Vittorio Feltri, recentemente davanti a una platea televisiva muta, egualmente decerebrata. In Italia evidentemente si muore anche da vivi. È la nostra specialità cinica e crudele. Leopardi la chiamava la nostra incompatibilità con gli slanci, i dolori, le speranze delle epoche romantiche vissute da altre nazioni europee.

Nel Pantheon sostitutivo ci sono due stranieri, come Mandela e la blogger Lina Ben Mhenni. Anche questo è bello e nobile, perché ci fa uscire dalla provincia. Ma la sinistra quando esce dalla provincia percorre grandi distanze, ha sogni di esotismo, e in questo Renzi è apparso più di altri vecchio. Se avesse citato Che Guevara sarebbe stato la stessa cosa. Perdere il centro vuol dire non far spazio all’Europa, e correre molto lontano restando qui, inchiodati dentro casa e nel presente. Vuol dire lasciare nel buio personaggi come Albert Camus, subito europeista dopo la guerra. O William Beveridge, ideatore di un piano del Welfare che dall’Inghilterra trasmigrò presto nel continente liberato: era un liberale profondamente influenzato dal socialismo della Fabian society, e militò con convinzione per l’unificazione dell’Europa. Beveridge è punto di riferimento ineludibile per chiunque voglia resuscitare lo spirito di Ventotene

(Vendola l’ha evocato, dunque vorrebbe forse riesumarlo) sapendo che l’idea d’Europa nacque in piena guerra fratricida dando al futuro tre obiettivi fondamentali: la federazione del continente, la democrazia, e lo Stato sociale. Infine mancano riferimenti laici, accanto a quelli religiosi: come Ernesto Rossi, collocato oggi in un Pantheon per pochi aficionados, nonostante l’attualità delle sue battaglie europeiste e laiche. Assenti anche i martiri dell’antimafia, e tanti altri che non enumero solo perché lo spazio non basta.

Perdere il centro non significa naturalmente perdere le elezioni. Ma perdere la bussola sì, e con essa la memoria e la capacità di cercare, se non trovare, il Nord. Significa entrare nel futuro con tali e tanti complessi, tali e tante cautele, che il passo si fa claudicante. Mai spavaldo, come in chi discende da una lunga storia e pur facendo i conti con essa non si sente obbligato a dimenticarla.

Corriere della Sera, 11 novembre 2012, postilla (f.b.)

Una battuta infelice o un sintomo preoccupante? Giorni fa, il presidente dell'Unione delle Province italiane, Antonio Saitta, ha duramente protestato contro i tagli di 500 milioni decisi con la spending review e ha minacciato di spegnere il riscaldamento nelle scuole. Il governo non gliele ha mandate a dire. Prima il ministro Patroni Griffi lo ha esortato «a un comportamento più consono all'Istituzione che rappresenta», poi Palazzo Chigi ha messo nero su bianco: «Ventilare l'idea di spegnere i riscaldamenti nelle scuole o proporre vacanze più lunghe agli studenti per ipotetici risparmi appare una proposta fuori dalla realtà».

Saitta è siciliano di Raddusa (Catania), immigrato da bambino in Piemonte. È un democristiano di lungo corso, passato poi al Partito popolare, quindi alla Margherita, infine al Pd. Come Rosy Bindi, ma più moderato. Perché questa sua ostinazione, quasi ricattatoria?
Con l'avvento delle Regioni, le Province non hanno più senso. Simbolicamente, sono morte il 2 marzo 1994, quando dalla numerazione delle targhe italiane è scomparsa la sigla della Provincia e con essa la pittoresca retorica del campanile: «Veneziani gran signori, padovani gran dottori, vicentini magnagatti, veronesi tutti matti», «Meglio un morto in casa, che un pisano sull'uscio», «Torinesi falsi e cortesi». La loro ultima epopea nazionale risale a Campanile sera (il programma con Mike Bongiorno, Enza Sampò ed Enzo Tortora finisce con le celebrazioni di «Italia 61»), il resto è solo letteratura, intesa come compiacimento o consolazione.

Perché dunque spegnere i caloriferi? Le ragioni identitarie delle Province ormai fanno sorridere; quelle amministrative si possono risolvere con un minimo di pazienza e di buon senso. Resta il sospetto che Saitta e gli altri rappresentanti delle Province non vogliano perdere il posto, l'auto blu, i dischi di Little Tony. Sul sito della Provincia di Torino, Saitta ha scolpito queste parole di Siracide (180 a. C.): «Dell'artista si ammira l'opera, del politico la saggezza della proposta. Ma se parla a vanvera è una minaccia per la città; se dice cose inconcludenti si fa odiare». Serve altro o bisogna fare le primarie della coerenza?

postilla
L’ottima capacità di Aldo Grasso (è il suo mestiere, che fa benissimo) di cogliere aspetti anche paradossali della nostra società, mette a nudo in forma esplicita almeno due cose essenziali: l’ente territoriale di governo intermedio, per cui si sono battute generazioni di studiosi, cittadini, esponenti politici, è stato ampiamente sputtanato da buona parte di coloro che in qualche misura hanno contribuito a gestirlo, diciamo almeno dalla riforma dei primi anni ’90. La seconda cosa, è che chi poteva e doveva capire questo declino di immagine e sostanza non l’ha fatto, di solito rifugiandosi dietro la medesima relativa sicurezza, secondo cui certe cose sono intoccabili, non conquiste che durano finché si è in grado di difenderle. Certo è una sciocchezza madornale dire, come fa spavaldamente il critico televisivo Grasso, che la ragion d’essere delle Province è morta con l’istituzione delle Regioni, che tutto si risolve con le sigle sulle targhe anni ’60, e le immagini televisive o cinematografiche di contorno. Così, finita l’epoca della brillantina, o dei mangiadischi, è giusto accantonare anche questo livello amministrativo vintage, buono solo per appassionati collezionisti. La cosa più grave è che Grasso esprime semplicemente un’opinione assai diffusa in tutta la cosiddetta classe dirigente allargata, esclusi naturalmente coloro che sulle Province vivono, nel senso di potere, reddito, ruolo sociale. Se ne sono sentite tantissime negli ultimi mesi, di sparate anche più assurde, scritte in posti egualmente prestigiosi da persone di cui per altri versi ci fidiamo quasi ciecamente. Ma lo sanno questi signori che i decantati Bloomberg a New York, con l’ottima gestione dell’uragano, o Johnson a Londra con le trionfali Olimpiadi, altro non sono che versioni internazionali di ciò che dovrebbe essere da noi un presidente di ente intermedio? No, non lo sanno, e chi dovrebbe o potrebbe spiegarglielo tace, o parla in gergo con un po’ di disprezzo per chi non è specialista di settore. Vediamo che questo settore non diventi il raggio di una galera in cui ci chiude la nostra insipienza, con gli altri intellettuali che allegramente inconsapevolmente buttano la chiave (f.b.)

L'Unità, 6 novembre 2012

«Bersani ha avuto coraggio e va appoggiato. Se vince c’è la possibilità di salvare il Paese e persino di ridare un ruolo alla sinistra, rilanciandone radicamento e valori». Si schiera Alberto Asor Rosa, provocando polemiche sul Manifesto. Ma lo fa “sperimentalmente”, senza dare per scontata la fine delle «due sinistre», come Mario Tronti sul nostro giornale. Su un punto è chiarissimo però: Bersani e Vendola devono marciare insieme.

Professor Asor Rosa, anche per lei le due sinistre, rifrormista e radicale, non hanno più senso?
«La tesi secca della fine delle due sinistra è di Tronti. La mia posizione è più pragmatica. E cioè: malgrado la persistenza di una differenza quasi fisiologica tra le due realtà, oggi è necessario riunificarle in un solo aggregato. Per far fronte a un’emergenza drammatica.

«Necessario interloquire con i moderati. Vendola aiuti la riaggregazione dei progressisti

Che cosa c’entra la Fiom con il grillismo?»

Del resto la parte più estrema della sinistra si va frantumando, e ciò spinge verso un’aggregazione con il Pd».
E i motivi «forti» di questa posizione? «Non solo c’è crisi e disgregazione del Paese, ma sulle macerie del berlusconismo si profila la formazione di un polo moderato. Si tratta di fronteggiare, con una diversa offerta, questo polo di interessi. Sia per farci i conti, sia per interloquire, magari all’indomani di un risultato elettorale incerto. Vendola perciò deve dare una mano alla riaggregazione dei progressisti».

Dunque un giudizio positivo su Bersani e la sua politica: unità a sinistra e apertura al centro. Giusto?
«Bersani è un politico stagionato, figlio della migliore tradizione emiliana del Pci. È privo di oltranze ideologiche e ha una serietà di fondo. È stato lui a inventare l’alleanza con Vendola e a tener duro sul punto. Se il risultato elettorale lo premierà, anche il discorso strategico di Tronti sulla fine delle due sinistre po- trebbe realizzarsi».

Veniamo a Monti, esperienza onerosa imposta dai mercati e che comporta molti bocconi amari per la sinistra. Che giudizio ne dà?

«Una parentesi, che deve lasciare il posto a una soluzione politica, nel quadro della democrazia rappresentativa. Il mix di liberismo e moderatismo incarnato da Monti è transitorio, ma ha reso possibile la liquidazione di Berlusconi. E fa bene il centrosinistra rappresentato da Bersani a immaginare il dopo. E il dopo sta in Europa, una realtà dominata da tecnocrati e monetaristi. Qualsiasi prospettiva riformista non può che passare dal superamento di questa Europa. Decisivo quindi il rapporto con le socialdemocrazie europee. La riapertura di orizzonti e speranze ricomincia di qui».

Nel “secolo scorso”, fu tra i primi a denunciare il populismo in letteratura. Che effetto le fa l’idea di un asse tra la Fiom, Di Pietro, Travaglio e Grillo, contro i partiti?

«Posso dire di averlo “inventato” il populismo... e trovo inverosimile che la Fiom possa andare a braccetto con certe compagnie. La Fiom difende salario, operai e rappresentanza in fabbrica. Non c’entra con il grillismo, che esprime un trionfo mai visto del populismo e dell’antipolitica più reazionari. Certo, una volta in Parlamento, i grillini dovranno misurarsi con cose concrete e magari si ribelleranno al loro conducator. Il che già accade di continuo sotto i nostri occhi».

Ha fatto bene Bersani ad accettare le primarie e a modificare lo statuto,mettendosi in gioco?


«Non credo nelle primarie e le considero una perdita di tempo, destinata ad accrescere il frastagliamento generale. Credo altresì che Bersani non potesse rifiutarle, in questo Pd. Nondimeno ha mostrato coraggio e decisione. E se la sua sfida risulterà vittoriosa potrà finalmente porre le basi per qualcosa di diverso. Sia per il governo del paese, che per il futuro di un Pd in grado di unirsi con Vendola. Ne deduco che occorre appoggiare Bersani».

Sempre in tema di «tanto peggio tanto meglio», che ne pensa dell’idea di Flores d’Arcais: votiamo Renzi alle primarie e Grillo alle politiche?

«Conosco da anni Flores. Uomo intelligente, ma dominato da un super ego smisurato e onnipotente. La sua è una logica dissolutoria e autodistruttiva, che avrebbe l’effetto di distruggere le sue stesse idealità “rigeneratrici”. Un Pd renziano e diviso, e Grillo in maggioranza relativa, produrrebbero il caos. E il commissariamento permanente dell’Italia da parte dell’Europa».

Come si tenta l'impossibile, cioè valutare le qualità con misure quantitative, in Italia e in Gran Bretagna. il manifesto, 6 novembre 2012


Le riforme della formazione hanno introdotto criteri economici nella valutazione della ricerca e della docenza. Un confronto tra l'esperienza inglese e quella italiana


Imperversa in Italia il dibattito sulla valutazione, e più specificamente il dibattito sulla valutazione del sistema universitario che si va definendo in vista delle prossime scadenze di abilitazione e concorsuali. È vero che la valutazione non è esattamente qualcosa di nuovo e dirompente per l'università italiana. È da molti anni ormai che esistono negli atenei italiani nuclei di valutazione che già determinano l'allocazione di parte del fondo di finanziamento ordinario (lo stesso che ha subito tagli drastici negli ultimi dieci anni).
Ma la valutazione è indubbiamente destinata ad intensificarsi. Una delle novità è che la nuova agenzia, l'Anvur, ha avviato il processo di selezione e classificazione delle riviste accademiche secondo tre fasce che poi determinano il valore da dare ad ogni pubblicazione sottoposta dai docenti al sito Cineca. Queste classificazioni hanno provocato grande scandalo per l'alto numero di riviste non propriamente scientifiche incluse (si pensi al lavoro del sito roars.it nell'evidenziare le scelte a dir poco controverse dell'Anvur in questo senso). Inoltre ha prodotto numerosi (e spesso confusi e contraddittori) documenti in cui vengono specificati i criteri per la formazione delle commissioni e di abilitazione a ciascuna delle tre fasce docenti.
In questa discussione manca un'attenzione critica al fatto che la valutazione del sistema universitario è ormai una componente strutturale (in quanto attiva da più di ventanni) in significativi settori dell'alta formazione globale. In particolare, è possibile rilevare che l'iniziativa in questo campo è stata sicuramente quella dell'Inghilterra - nazione in cui a partire dal 1991, successivi esercizi di valutazione hanno completamente rifondato il funzionamento stesso dell'università e i suoi fini. Manca cioè una discussione di come in un contesto di concorrenza globale dell'alta formazione, la valutazione abbia funzionato come strumento di ristrutturazione dell'università. Si tratta cioè di fare i conti con i processi che in un volume di qualche anno fa si definiva la formazione di una università globale, all'incrocio tra processi di universitizzazione dell'impresa e di aziendalizzazione dell'università (AA.VV. Università globale: il nuovo mercato del sapere, manifestolibri). Da un lato cioè il prepotente emergere di una nuova generazione di imprese espressione di un capitalismo cognitivo, in cui il valore è prodotto a mezzo innovazione, e l'innovazione è generata con strategie di governo dell'impresa (e della sua vita) copiate dall'università (si pensi per esempio a Google, Apple, Facebook); e dall'altro la crescente pervasività di tecniche di governo dell'università prese a prestito dal mondo delle aziende private. L'università, cioè, è stata a livello globale in questi anni uno dei luoghi più esemplificativi del collasso della distinzione tra pubblico e privato in funzione della produzione di un mercato globale della ricerca e della formazione, governato dagli stati nazione, ma con ambizioni appunto transnazionali.
In nome del merito

Il processo di valutazione nelle univesità inglesi, dunque, è sicuramente a livello globale quello più esteso e strutturale. Esso opera continuamente nella vita delle università inglesi sotto forme diverse, ma sostanzialmente implica una produzione continua di una scia di documentazione che mira ad assicurare l'uniformazione a protocolli che definiscono tutti gli aspetti dell'insegnamento e della ricerca: ogni momento della vita universitaria (dalla frequenza degli studenti agli incontri tra relatori e «tesisti») è documentato e controllato. Un esteso sistema di controlli trasversali sottopone a esame esterno tutti gli aspetti della didattica (dai nuovi corsi ai risultati annuali dei singoli corsi di laurea, con imposizione di procedure di double marking, campionatura della produzione degli studenti). Ma soprattutto abbiamo i grandi esercizi periodici di valutazione della ricerca di dipartimenti e università che si abbattono sul sistema universitario inglese con cadenza quasi quinquennale. Questo complesso sistema valutativo (il «Research Assessment Exercise» che ora è diventato il «Research Excellence Framework») è stato introdotto in tempi di grandi investimenti nell'università pubblica e nella ricerca a cui ha corrisposto un boom del numero di studenti iscritti ai vari gradi della formazione universitaria (dalle lauree triennali ai dottorati di ricerca). A questo si aggiungono le aggressive attività di franchise e marketing delle università inglesi in Asia, un notevole incremento di studenti d'oltremare e la notevole espansione di corsi più o meno brevi rivolti a una forza lavoro che si suppone in «formazione continua». Si è trattato cioè di un sistema valutativo complesso cresciuto in tempi di «vacche grasse». In questo già si verifica l'inesorabile gap che separa l'emergere del sistema valutativo inglese da quello italiano, che invece si appresta alla valutazione in una situazione di sottofinanziamento emergenziale dettato dall'austerity.
La valutazione infatti implica dei criteri attraverso cui operare un'opera di differenziazione pervasiva in grado di produrre delle «classifiche» che mirano a determinare il valore del singolo individuo, del dipartimento, dell'ateneo e del sistema universitario nel suo complesso. Nella valitazione pervasiva all'inglese è incarnato un principio quasi borsistico di modulazione del valore che si realizza nel famoso sistema di ranking. Per chi creda che il fine ultimo di questo sistema sia rinforzare l'impatto del sistema universitario sul Pil (la sua capacità di creare moneta o monetizzare la richiesta di sapere e formazione), rispondiamo che non è proprio così. Nonostante gli indicatori economici sottolineano la centralità della produzione culturale all'economia inglese, questo settore continua a subire i tagli più drastici. I fini politici, cioè, continuano comunque a sovradeterminare il mero dato economico. Tuttavia non è un caso che la misura della valutazione della ricerca si sia inesorabilmente spostata verso i finanziamenti cheil singolo, il dipartimento o l'ateneo è capace di procurare all'istituzione. La valutazione inglese cioè valuta sempre più in maniera predominante la capacità degli atenei di autofinanziarsi.
Il ricatto del denaro
La valutazione implica dunque un processo continuo di controllo - che va dal micro al macro (dagli atti quotidiani e più semplici che vanno continuamente documentati ai grandi esercizi periodici di valutazione). I criteri non sono mai definitivi, ma in continuo mutamento. Una volta che il principio secondo cui il finanziamento è subordinato alla valutazione (e la valutazione al finanziamento) è introdotto, allora il criterio valutativo diventa non solo la misura delle risorse da allocare, ma anche la direzione dei percorsi di ricerca e insegnamento. Nella misura in cui per esempio nella valutazione sia individuale che istituzionale pesano sempre di più i finanziamenti dei progetti di ricerca, allora ecco che la ricerca si piega necessariamente alle parole d'ordine dei funding bodies, dei finanziatori della ricerca - gli enti di ricerca statali in grado di allocare fondi, le aziende private, l'Unione Europea, le fondazioni. Non si tratta ovviamente di un mero comando lineare che definisce in maniera preordinata i campi e gli scopi del sapere, ma di un processo molto più indeterminato, in cui agiscono molti attori, ma che indubbiamente fa pesare le esigenze di generare valore economico nel governo dell'alta formazione e della ricerca.
Il docente o aspirante tale, uomo o donna che sia, è così impegnato in un continuo processo di auto-valutazione che determina il suo rapporto con l'istituzione e con se stesso/a. Il suo valore non è solo rilevabile periodicamente attraverso gli esercizi di valutazione, ma continuamente dentro e fuori l'istituzione. È parte, infatti, di una network culture in cui in ogni momento è possibile misurare la propria popolarità: come va il mio libro nella classifica di amazon.com? Quanto volte secondo Google Scholar vengo citato? Quanti siti con il mio nome compaiono quando faccio una ricerca su di me con Google? Qual'è l'impact factor registrato da varie agenzie online delle riviste in cui ho pubblicato? Posso aumentare l'impatto della mia ricerca misurato appunto in termini di citazioni scrivendo un blog per esempio o anche creando un seguito su twitter attorno a nuove parole d'ordine in grado di catalizzare l'attenzione? Inoltre, l'imposizione recente da parte del governo inglese dell'open access, cioè della gratuità dell'accesso ai risultati di ricerche direttamente finanziate dal governo stesso, si annuncia avere importanti ripercussioni sull'editoria accademica con ricadute sull'accesso alla pubblicazione degli stessi ricercatori. Se le riviste accademiche per esempio non potranno più far pagare per i propri prodotti, come potranno realizzare un profitto? A questo proposito, l'editoria anglofona più avanzata comincia a pensare di fare pagare agli autori stessi la pubblicazione, introducendo anche un sistema di micropagamenti per citazioni (secondo un modello definito pay per sentence, pagamento ogni frase citata)
Di fronte a queste tendenze consolidate e ai risultati deludenti che hanno promosso in termini di dare vera efficacia e autonomia ai processi di formazione e ricerca è necessario pensare e parlare di alternativa. Per parlare di alternativa bisogna rendere espliciti cos'è che non ci piace di questo sistema laddove si manifesta in tutta la sua efficienza: esso produce in generale una forma di proletarianizzazione del lavoro di formazione e ricerca. L'università valutata è sostanzialmente una università etero-diretta e comandata. Non si tratta semplicemente di una perdita di reddito, ma di fondamentale controllo sulle forme di organizzazione degli obiettivi del lavoro formativo e di ricerca che sia capace di rispondere a quelle infinite sfide che le società contemporanea pongono al sapere.
In cerca di democrazia
Per parlare di alternativa a tutto ciò forse però è necessario anche chiedersi: che cosa è stato appropriato e riscritto dal potere della valutazione che già esisteva come potenza costitutiva prima? Sempre pensando all'Inghilterra, non si può fare a meno di considerare come la valutazioni investi inizialmente un sistema universitario che si espande sotto le richieste di sapere espresse per la prima volta in maniera sostanziale da soggetti esclusi dalla classica formazione universitaria di Oxford e Cambridge. Una università abitata da soggetti subalterni, neri, donne, gay e proletari, che negli anni Ottanta hanno condotto durissime battaglie «fisiche» e culturali contro il razzismo, il sessismo, il classismo e lo sfruttamento. Soggetti subalterni che nei dipartimenti dei politecnici avevano anche profondamente innovato i modi di produzione del sapere in una dinamica che livellava le differenze gerarchiche tra docenti e studenti, per esempio, in nome di una comune produzione di un sapere dinamico, non riproduttivo, volto a cogliere le esigenze di un sociale concepito a partire dalle sue istanze subalterne e conflittuali (si pensi all'esperienza esplosiva e dirompente degli Studi Culturali di Birmingham negli anni Settanta e Ottanta del Novecento). Per questo è vero quello che si dice quando si dice che la posta in gioco è la democratizzazione dell'università italiana al di là delle attuali forme di autogoverno. Contro la centralizzazione del bastone e della carota, si tratta dunque di allargare i soggetti della valutazione, rendendola imprenscindibile dall'invenzione di forme di democrazia della vita universitaria. Questo significa contrastare la valutazione-comando con un altro tipo di valutazione, che inneschi un processo autoriflessivo, dinamico, allargato che apre al sociale e alle sue istanze. Citando Christian Marazzi, l'alta formazione e ricerca appaiono come momenti fondamentali di quel processo di riconfigurazione dell'economia su un modello antropogenetico: un'economia cioè che sia in primo luogo produzione di un'umanità migliore, nella sua complessa relazione con la natura e con il non-umano. Pensiamo per esempio alle sfide lanciate dalla crisi economica e ambientale, dalle trasformazioni della vita affettiva e culturale che richiedono delle istitituzioni capaci di vero autogoverno orientato a fini diversi che quelli del profitto.
È vero che tutto questo è sostanzialmente incompatibile con le linee politiche prevalenti in periodi di austerity, esso implica cioè un cambiamento deciso di direzione che dev'essere quanto più ampio e condiviso. Ma questo non significa che non sia possibile cominciare a pensare e praticare processi di valutazione dal basso che abbiano per esempio come obiettivo il rinnovamento e l'apertura dei saperi a nuovi attori. L'idea di un'altra forma di valutazione, sostanziata da un altro sistema di valori, è da considerare per chi si oppone alla valutazione non sulla base della difesa del vecchio ma sulla base del proprio giudizio sul nuovo che altrove è già stato e i
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