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I giudici e i giornalisti lo fanno impazzire. Quelli che fanno il loro mestiere naturalmente, certo. Quelli che non può comprare. Li chiama comunisti, termine che usa come insulto dunque non è possibile rispondergli con ragionevolezza ferma che il comunismo non c’entra con l’esercizio di una funzione di controllo o meglio c’entra, ma sarebbe un discorso inaffrontabile con uno che considera «una vecchia storia» quella degli anni Novanta (le stragi di mafia, Mangano lo stalliere di Arcore, la trattativa, avete presente?). Le origini della storia politica contemporanea di questo paese non sono un tema di cui dibattere con Berlusconi. Non gli interessa. Gli interessa solo la sua personale vicenda e difatti è solo sui suoi processi che perde il controllo. La conferma della sentenza Mills, l’avvocato che ha mentito per salvare il premier ed è per questo stato ricompensato con 600 mila euro. Ricompensato, corrotto. Che se ne parli: non lo tollera. Chiama in diretta in tv per urlare che l’emergenza del paese sono i magistrati comunisti di Milano. Non, per restare solo ai temi trattati in quel programma, l’imprenditore che dice «sono un disoccupato che lavora». Non l’eventuale abolizione di una tassa che serve a finanziare il servizio sanitario, quel che ne resta. Non i suoi legami con Putin (tecnicamente, lui sì, un comunista) e con Gheddafi, un dittatore, gli unici due capi di stato mondiali con cui intrattenga rapporti: di affari, certo. No, nessuno di questi punti toccati a Ballarò è per il premier un problema degno di replica. Lo è la sentenza che lo riguarda. I giudici comunisti e chi ne parla. Dunque un attacco a Giovanni Floris di incredibile violenza con il consueto corollario - il refrain di tutti gli editti - sul servizio pubblico occupato - da chi? - dai comunisti. Preoccupa. Ogni volta che Berlusconi ha additato un giornalista come nemico costui è stato rimosso tempo sei mesi. Nei giornali e in tv. O è preveggente o c’entra qualcosa.

Era imbarazzante l’altra sera assistere allo spettacolo di due ministri maggiordomi: prego prego presidente le cediamo il nostro tempo e le nostre parole. Le nostre opinioni, il posto, il cappotto, quello che vuole. Era mortificante non poter ribattere alle risposte del premier. Non c’è replica, quando risponde: ha sempre l’ultima parola. Quel che è chiaro è che certi "comunisti" - noi dell’Unità, Floris, Rosy Bindi allieva di Vittorio Bachelet - devono sparire. Deve sparire la libertà di parola. La museruola è pronta, Susanna Turco e Claudia Fusani raccontano quello che ci aspetta. La vendetta contro ipm e i giornalisti comunisti si consumerà tra poche settimane: a fine novembre le nuove norme sulle intercettazioni potrebbero essere legge dello stato. Un testo che sarebbe un certificato di morte per centinaia di indagini comprese quelle su mafia e terrorismo. Leggete, riascoltate on line che cosa ha detto al nostro giornale Armando Spataro solo alcuni giorni fa. Chiunque abbia a cuore l’Italia deve reagire adesso. Prima che la struttura dello Stato venga giù come un palazzo durante un terremoto. Dopo si potrà solo piangere. I comunisti e tutti gli altri: il danno sarà uguale per tutti. Non aspettiamo le macerie, coraggio.

Le dimissioni di Piero Marrazzo hanno un valore, prima che politico, purificatorio. Non sono la risposta alle richieste interessate della maggioranza di governo ma allo sconforto del popolo di sinistra.

Con questo gesto l’uomo politico si è spogliato della sua veste pubblica e da questo punto di vista la vicenda è chiusa. Resta un dramma privato, aperto all’umana pietas di chi ha sofferto per Marrazzo o anche si è scandalizzato per le debolezze di un individuo.

Alcune riflessioni, però, si impongono. Nel giorno delle primarie il popolo di sinistra era andato a votare con l’animo percosso da una catastrofe dell’anima, scatenata appunto dal caso Marrazzo. Lo choc non può essere neppure oggi superato confortandosi con il parallelo, che viene spontaneo a tutti, tra come si è conclusa la vicenda che ha travolto il presidente della Regione Lazio e i fatti, ben più gravi per la commistione tra pubblico e privato, che "non" hanno provocato le dimissioni del premier. Non avrebbe, peraltro, alcun costrutto abbandonarsi ad una valutazione ponderata del grado di accettabilità delle propensioni sessuali dell’uno e dell’altro personaggio. Serve, piuttosto, porsi altri problemi e, in primo luogo, interrogarsi sul perché le reazioni dei due elettorati siano state e siano così divergenti, quasi da delineare una cortina di ferro antropologica tra «popolo di destra» e «popolo di sinistra».

Il primo, quello berlusconiano, tranne qualche frangia cattolica osservante e la ristretta élite finiana, in fondo non solo accetta ma si compiace di ciò che Giuliano Ferrara derubrica a «inviti a cena e in villa e sesso un po’ a casaccio, con una instancabilità privata divenuta favola pubblica». Bastava, del resto, fare attenzione a cosa diceva in questi mesi e dice ancor oggi la "gente", per cogliere l’assonanza tra le brave madri di famiglia che ce l’hanno con Veronica perché «non lava in famiglia i panni sporchi» e i "machi" di borgata o dei Parioli, fieri delle scopate del loro leader, quasi potessero anche loro replicarle per interposta persona. Il tutto condito dallo schifiltoso ritrarsi dal giudizio dei tanti pseudo liberali, dimentichi della differenza tra ruolo pubblico e vita privata e adontati con "Repubblica" perché ha raccontato tutte queste sconcezze, senza rispettare il sacrosanto diritto alla privacy. Per altri ancora è bastato voltarsi dall’altra parte, distogliere l’attenzione, dirsi che gli uni e gli altri si equivalgono, non farsi coinvolgere dalla evidenza di un’etica pubblica, gettata alle ortiche. Infine, alle brutte, se qualche ambascia li coglieva, prendersela con la sinistra che non c’è.

Per contro il «popolo di sinistra» nel suo assieme e i singoli individui, uomini e donne, che ne fanno parte hanno sofferto amarezza profonda, se non disperazione. Quasi ognuno di loro si ritenesse personalmente offeso da un gesto giudicato insopportabile. Né vale dirsi e ripetersi che Piero Marrazzo ha fatto del male in primo luogo a se stesso e alla sua famiglia e ha cercato di coltivare le sue propensioni sessuali in segreto, senza coinvolgere l’istituzione che dirigeva con accertata dedizione. No, queste cose non potevano lenire un lutto morale che solo le dimissioni permettono ora di elaborare. È, infatti, il nucleo più profondo dell’animo collettivo e individuale della sinistra che è stato leso. Dalla caduta del Muro ad oggi quell’animo è stato sottoposto a una cura terapeutica che, se lo ha disintossicato dall’ideologia e dalla sua proiezione pratica più deleteria – lo stalinismo in tutte le sue forme –, lo ha anche spogliato da illusioni, utopie, speranze troppo avanzate di riscatto economico. La globalizzazione ha smantellato le sue strutture sociali di difesa, i suoi partiti si son fatti sempre più fragili, ognor mutevoli, anche di nome. In questa deriva una sola certezza è rimasta come valore di auto identificazione: l’essere dalla parte – ed essere parte – della gente onesta, per bene; di quelli che non hanno nulla da nascondere, che rispettano la legge, contano sulla Costituzione, pagano le tasse, magari perché ritenute con la paga, conservano qualche traccia di solidarietà.

Per questo aborrono Berlusconi che, per contro, ha legittimato i vizi storici degli italiani, gli altri italiani, che son forse la maggioranza. Che con la scesa in campo del Cavaliere hanno finalmente trovato qualcuno che non li faceva vergognare della vocazione nazionale ad "arrangiarsi", magari con qualche imbroglio piccolo o grande, eludendo il fisco, lavorando in nero, armeggiando per una violazione edilizia. E soprattutto vivendo la legge, le regole e sotto sotto anche qualcuno dei 10 Comandamenti, figuriamoci la Costituzione, come malevoli impedimenti al libero esplicitarsi di tutto ciò che bisogna fare per sopravvivere. Per questo amano e si identificano con Berlusconi che ha suonato la campana del "liberi tutti" (l’altro giorno, persino, dall’obbligo di pagare il canone Rai).

Cosa gliene importa del conflitto d’interessi, della suddivisione dei poteri, del ludibrio gettato sulla Magistratura? Anzi, la condotta scandalosa, pubblicamente esibita, la degradazione dei palazzi del potere in luoghi di privato piacere, la promozione delle veline di turno, danno a tanti diseredati, ai rampanti in lista di attesa, agli infiniti aspiranti alle innumerevoli "isole dei famosi", il placet «che tutto se po’ fa», la versione plebea dello «Yes, we can».

Il «popolo di sinistra» questo lo sente e lo soffre. Lo consola il fatto di poter raccontare se stesso in modo specularmente opposto, anche se non riesce più ad inverarsi nella orgogliosa "diversità" berlingueriana. Immagina che il suo partito di riferimento faccia proprio questo valore, smentisca nei fatti quel ritornello che lo offende ma anche genera dubbi: «In fondo sono tutti eguali». Per questo il "peccato" di Piero Marrazzo è stato patito come "mortale". Perché avvalora il dubbio, soprattutto nei confronti di vertici, dotati solo di buona volontà ma non del carisma da cui nasce la fiducia.

Di qui l’esigenza di una franca, profonda riflessione in seno a quello che formalmente si chiama gruppo dirigente. Perché maturi la consapevolezza che il germe velenoso dell’omologazione subliminale con l’avversario può proliferare grazie a comportamenti similari: designando candidati dotati solo di immagine, siano annunciatori televisivi o giovani il cui curriculum si esaurisce nel certificato di nascita, senza più alcuna verifica delle competenze e della coerenza morale tra pensiero e azione; manifestando in mille occasioni un’arroganza del potere e una sicumera che nulla hanno da invidiare ai loro colleghi dell’altra sponda politica; abbandonando, come finora hanno fatto non il «controllo del territorio», secondo la formuletta che amano ripetere, ma il contatto continuo, fraterno, comprensivo col loro elettorato.

Da questo elettorato è venuta una volta di più, con i tre milioni di voti delle primarie, la prova niente affatto scontata che il popolo di sinistra ancora c’è, "ci crede" e ha conservato nel cuore un credito di fiducia, una qualche speranza. Esso seguita ad esprimere una "etica popolare" che si contrappone al cinismo amorale berlusconiano. Non è detto che la dirigenza di centro-sinistra sia capace di leggere in profondità le esigenze di buon governo, sia del partito che del Paese che da questo popolo provengono ancora.

Una prima prova la si avrà con la scelta del candidato destinato a concorrere al posto di Marrazzo, quando si svolgeranno le elezioni regionali. Guai se comincerà la solita diatriba tra le mezze cartucce vogliose di fare carriera, più che di vincere. Per questo mi permetto di concludere con una proposta personale. Nelle ultime settimane un personaggio è emerso o, meglio, si è innalzato al di sopra della media, per aver saputo rintuzzare davanti a milioni di telespettatori, le volgarità insultanti del presidente del Consiglio, tanto da diventare simbolo di una riscossa femminile, Rosy Bindi. Sarebbe il caso di sceglierla per acclamazione.

Non c'è alcun dubbio per me che il 25 ottobre sia stata una giornata positiva, molto positiva per la democrazia italiana, oltre che ovviamente per il Pd. Preciso subito che io non sono andato a votare alle primarie di questo partito: non sono un elettore del Pd (quantunque mi riesca difficile dire di cosa io oggi sia un elettore); ritenevo più corretto che su di un argomento del genere si esprimessero iscritti, simpatizzanti ed elettori del Pd. Ma questo non m'impedisce di vedere - anzi - quanto le cose in generale siano andate bene. In un clima di confusione e di sfacelo, che di recente ha toccato anche le fila del centro-sinistra, il fatto che più di tre milioni di cittadini abbiano risposto ad un appello di questa natura significa che un popolo c'è, c'è ancora e offre la propria disponibilità ad esserci ancora di più e ancora meglio.

In secondo luogo, io penso che sarebbe arbitrario in questo caso staccare il risultato popolare da quello del partito che ne ha beneficiato: insomma, il risultato popolare non ci sarebbe stato se non ci fosse stato il partito, l'unico partito di opposizione effettivamente strutturato a livello nazionale in questo paese (tutto il resto, dalla galassia della sinistra extraparlamentare all'Idv o esiste a stente macchie di leopardo oppure si rifugia nelle più comode vesti del partito d'opinione). Anche questo non è poco: la tabe berlusconiana non ha distrutto questo antico tessuto, meno male che ha retto.

Ho scritto: «antico tessuto», e forse non è stato a caso. Io non mi vergognerei di dire che ha vinto il candidato che era o si presentava meno «nuovista». Certe volte bisogna avere il coraggio di fare un passo indietro per farne due avanti. «Nuovismo» - sciagurato «nuovismo» - era stato teorizzare e praticare l'autosufficienza del Pd: i risultati ne sono sotto gli occhi di tutti. Ora si torna a parlare di alleanze: bene, anche se, per battere Berlusconi, il Pd dovrà rimettere insieme tutto quello che ha alla sua destra (Udc) e tutto quello che ha alla sua sinistra (Idv, galassia degli extraparlamentari): non sarà facile, ma auguri.

È da qui però che comincia, per questo Pd indubbiamente rafforzato, un percorso irto di difficoltà, il cui senso complessivo potrebbe esser così riassunto: come può un partito che ha fatto un passo indietro farne d'ora in poi due, e molti più, avanti? Mi permetterei di segnalare alcune questioni, nella forma schematica che meglio si adatta al cri-cri del grillo parlante:

1) Esiste innanzi tutto un problema di democrazia interna di partito, ovvero, con linguaggio leggermente più audace, di partecipazione popolare effettiva. Il Pd è stato in questi anni un partito a tendenze leaderistiche piuttosto accentuate (anche, il che è più ridicolo, a livello locale), e cioè goffamente impegnato a ricalcare il modello berlusconiano, che ovviamente da questo punto di vista è imbattibile. Le primarie - con tutti gli aspetti positivi in precedenza richiamati - restano tuttavia l'espressione di una democrazia tendenzialmente plebiscitaria. Far funzionare al meglio gli organismi elettivi di partito è molto più difficile, ma più stabile, più funzionante, più garantistico e più efficace.

2) Leggo sui giornali che il mio amico Francesco Rutelli lamenta che il risultato delle primarie fa del Pd un partito troppo di sinistra. Io starei ai fatti, limitandomi a constatare che il Pd è stato finora un partito eccezionalmente moderato. Ora, sarà pure un bene che il neo-segretario esordisca affrontando i temi dell'economia (quotidiani del 26-27 ottobre). Bisognerà pure, tuttavia, che ci si dica presto se il «lavoro» - in modo particolare il lavoro dipendente e in modo ancor più particolare i lavoro operaio - rappresenta un protagonista autonomo, una, come si diceva una volta, «variabile indipendente» per il nuovo Pd, oppure no. Da questo dipende molto se esso sarà in grado, oppure no, di battere la Lega in casa propria. E, più in generale, se esso potrà disporre di una base sociale forte all'interno del sistema produttivo del paese, il che mi appare essenziale per qualsiasi politica economica in grado di funzionare. Ossia, in buona sostanza, se continuerà ad essere un partito molto, molto moderato, oppure un poco, ma tangibilmente e visibilmente, più progressista.

3) La tutela dell'ambiente e la difesa del territorio costituiscono ostentatamente il tallone d'Achille dell'attuale Pd. Il nuovo Pd, se ce ne sarà uno, dovrà dedicare un'attenzione particolare a queste tematiche, rovesciando molto delle posizioni attualmente dominanti. Dove il Pd è stato al governo in questi anni, a livello regionale e comunale (tanto per fare esempi lampanti: Toscana e Firenze), non s'è vista differenza alcuna rispetto alle politiche di sfruttamento selvaggio del territorio e dell'urbanistica più cementizia dominanti nelle regioni e nei comuni governati dal centro-destra. Coloro che in passato, dalle file ambientaliste, avevano criticato quegli orientamenti sono stati tacciati di arroganza, estremismo e, peggio, nullismo. Ora i loro accusatori, uomini molto, molto interni al Pd (notizie del 27 ottobre) vanno in galera. Quanto alla politica delle grandi infrastrutture, promossa come cosa propria - e si capisce - dai «berluscones» (ponti, porti, autostrade, Tav), necessita di una risposta critica totalmente alternativa, che pure è possibile anche fattualmente. Per favore, risposte chiare, magari moderate, ma chiare.

4) Non so se un partito vecchio, che voglia farsi nuovo, abbia bisogno di una propria cultura oppure no. Quel che so, è che il Pd non ne ha alcuna e che in questi anni non ha neanche provato ad averne, lasciando spazio alle Fondazioni private dei suoi dirigenti (che sono, mette conto di precisarlo) tutt'altra cosa. Possibile che non ci sia alle spalle di quel che questo partito pensa e decide neanche uno straccio di elaborazione intellettuale? Esempio minimo: le tre questioni precedenti (democrazia, lavoro, ambiente) non potrebbero neanche esser poste, se uno non avesse nella testa alcune coordinate culturali basilari, le quali poi altro non sono che i criteri con i quali si legge il mondo nell'atto stesso in cui sta cambiando, come sempre dunque nella prospettiva che va dal passato al presente verso il futuro. La cultura, come si sa, è un argine all'improvvisazione e all'arbitrio dei politici. Ma può nascere e svilupparsi in politica solo se i politici fanno mostra di averne bisogno e loro stessi la praticano. E' precisamente ciò che finora è del tutto mancato.

Insomma, il buon risultato ha fatto crescere le pretese. Ma non è così che funziona la democrazia, quando funziona?

Berlusconi si cucina da solo i suoi guai. Distrugge, di giorno, i muri che i suoi consiglieri fabbricano, di notte, per difenderlo. Quelli si erano appena rimboccati le maniche, con buona volontà, per riproporre - complici, le debolezze di Piero Marrazzo - la separatezza e l'inviolabilità della sfera privata dalla funzione pubblica (ancora!).

Salta fuori che l'Egoarca ha avvertito per tempo il governatore: "C'è in giro un video contro di te". Frammento superbo della nostra vita pubblica. Merita di essere analizzato, e con cura. Viene comodo farlo in quattro quadri.

Nel primo quadro, bisogna riscrivere con parole più adatte quel che sappiamo. Non il signor Silvio Berlusconi, ma il presidente del consiglio - proprietario del maggior gruppo editoriale del Paese - allerta il governatore "di sinistra" che il direttore di una sua gazzetta di pettegolezzi (Chi) ha in mano un video che lo compromette. Glielo ha detto la figlia (Marina, presidente di Mondadori). A questo punto, il capo del governo potrebbe consigliare all'altro uomo di governo di non perdere un minuto e di denunciare il ricatto all'autorità giudiziaria. Nemmeno per sogno. Il presidente del Consiglio indica all'altro attraverso chi passa il ricatto, ne fornisce indirizzo e numero di telefono: che il governatore si aggiusti le cose da solo mettendo mano al portafoglio e "ritirando la merce dal mercato", come pare si dica in questi casi. È la pratica di uomini che governano senza credere né alla legge né allo Stato, né in se stessi né nella loro responsabilità. In una democrazia rispettabile, l'argomento potrebbe essere definitivo. Nell'"Italia gobba", la legalità è opzione, mai dovere, e quindi l'argomento diventa trascurabile. Trascuriamolo (per un attimo solo) e immaginiamo che Marrazzo riesca nell'impresa di ricomprarsi quel video.

È il secondo quadro. Vediamo che cosa accade a questo punto. Piero Marrazzo annuncia la sua seconda candidatura al governatorato. Si vota in marzo. Il candidato "di sinistra" è consapevole che il suo destino politico e personale è nelle mani del leader della coalizione "di destra". In qualsiasi momento, quello può tirare la corda e rompergli il collo. A quel punto, a chi appartiene la vita di Piero Marrazzo? A se stesso, alle sue decisioni politiche, ai suoi comportamenti privati o alla volontà e alle strategie dell'antagonista? È una condizione di vulnerabilità politica che dovrebbe consigliargli la piena trasparenza a meno di non voler diventare un burattino. Al contrario, Marrazzo tace e tira avanti. Scoppia lo scandalo e mente ("È una bufala", "Non c'è alcun video"). Lo scandalo diventa insostenibile e ancora rifiuta la responsabilità della verità: non dice dell'avvertimento di Berlusconi; non dice come si procura il denaro che gli occorre per le sue scapestrate avventure. (Sono buone ragioni per chiedergli di nuovo le dimissioni perché non è sufficiente l'ipocrita impostura dell'autosospensione). Quel che accade al governatore ci mostra in piena luce come funziona "una macchina".

È il terzo quadro. Al centro della scena, i direttori delle testate di proprietà del presidente del Consiglio (o da lui influenzate). In questo caso, Alfonso Signorini, direttore di Chi, già convocato d'urgenza da una vacanza alle Maldive per confondere, con una manipolazione sublunare della realtà, il legame del premier con una minorenne.

Signorini spiega come vanno le cose in casa dell'Egoarca, premier e tycoon. Direttamente con le redazioni o, indirettamente, da strutture esterne o da chi vuole qualche euro facile - i direttori raccolgono fango adatto a un rito di degradazione. Una volta messa al sicuro la poltiglia del disonore (autentica o farlocca, a costoro non importa), il direttore avverte i vertici del gruppo, l'amministratore delegato e il presidente. Che si incaricano di informare l'Egoarca. A questo punto, il premier è padrone del gioco. Pollice giù, e scatta l'aggressione. Pollice su, e il malvisto finisce in uno stato di minorità civile. Accade al giudice Mesiano, spiato dalle telecamere di Canale5.

Berlusconi addirittura annuncia l'imboscata: "Presto, ne vedremo delle belle". Accade al direttore dell' Avvenire, Dino Boffo, colpevole di aver dato voce all'imbarazzo delle parrocchie per la vita disonorevole del premier. Accade al presidente della Camera, Gianfranco Fini, responsabile di un cauto e motivato dissenso politico. Accade a Veronica Lario, moglie ribelle. A ben vedere, accade oggi al ministro dell'Economia che può intuire sul giornale del premier qualche avvertimento. Suona così: "Tremonti in bilico"; "Se Tremonti va, Draghi arriva". C'è da chiedersi: quanti attori del discorso pubblico sono oggi nella condizione di sottomissione che anche Marrazzo era disposto ad accettare?

Quarto e ultimo quadro, allora. Non viviamo nel migliore dei mondi. La personalizzazione della politica ha cambiato ovunque le regole del gioco e il fattore decisivo di ogni competizione è la proiezione negativa o positiva dell'uomo politico - e della sua affidabilità - nella mente degli elettori. È la ragione che fa del "killeraggio politico - scrive Manuel Castells (Comunicazione e potere) - l'arma più potente nella politica mediatica". I metodi sono noti. Si mette in dubbio l'integrità dell'avversario, nella vita pubblica e in quella privata. Ricordate che cosa accade a McCain e Kerry? Si ricordano agli elettori, "in modo esplicito o subliminale", gli stereotipi negativi associati alla personalità del politico, per esempio essere nero e musulmano in America. È la lezione che affronta Barack Obama. Si distorcono le dichiarazioni o le posizioni politiche. Si denunciano corruzione, illegalità o condotta immorale nei partiti che sostengono il politico. Naturalmente, le informazioni distruttive si possono raccogliere, se ci sono; distorcerle, se appaiono dubbie o controverse; fabbricarle, se non ci sono. È uno sporco lavoro, che ha creato negli Stati Uniti, dei professionisti. Uno di loro, Stephen Marks, consulente dei repubblicani, ha raccontato in un libro (Confessions of a Political Hitman, Confessioni di un killer politico) il suo modus operandi. È interessante riassumerlo: "Passo I, il killer politico raccoglie il fango. Passo II, il fango viene messo in mano ai sondaggisti che determinano quale parte del fango arreca maggior danno politico. Passo III, i sondaggisti passano i risultati a quelli che si occupano di pubblicità, che passano i due o tre elementi più dannosi su Tv, radio e giornali con l'intento di fare a pezzi l'avversario politico. Il terzo passo è il più notevole. Mi lascia a bocca aperta l'incredibile talento degli addetti ai media... quando tutto è finito, l'avversario ha subito un serio colpo, da cui non riesce più a riprendersi". Qui, quel che conta è la segmentazione del lavoro e soprattutto "l'incredibile talento degli addetti ai media" perché devono essere i più abili e i più convincenti. I media, negli Stati Uniti, non sono a disposizione della politica e per muoverli occorre "provocare fughe di notizie rimanendo al di fuori della mischia", offrire "merce" che regga a una verifica, a un controllo, che sia significativa e in apparenza corretta anche quando è manipolata.

In Italia, non esiste questo scarto. Non c'è questa fatica da fare perché non c'è alcuna segmentazione della politica mediatica. Uno stesso soggetto ordina la raccolta del fango, quando non lo costruisce. Dispone, per la bisogna, di risorse finanziarie illimitate; di direzioni e redazioni; di collaboratori e strutture private; di funzionari disinvolti nelle burocrazie della sicurezza, magari di "paesi amici e non alleati". Non ha bisogno di convincere nessuno a pubblicare quella robaccia. Se la pubblica da sé, sui suoi media, e ne dispone la priorità su quelli che influenza per posizione politica. È questa la "meccanica" che abbiano sotto gli occhi e bisogna scorgere - della "macchina" - la spaventosa pericolosità e l'assoluta anomalia che va oltre lo stupefacente e noto conflitto d'interessi. Quel che ci viene svelato in queste ore è un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che mette freddo alle ossa, che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. I più onesti, dovunque siano, dovrebbero riconoscerlo: non parliamo più di trasparenza della responsabilità pubblica, di vulnerabilità, di pubblico/privato. Più semplicemente, discutiamo oggi della libertà di chi dissente o di chi si oppone. O di chi potrebbe sentirsi intimidito a dissentire o a opporsi all'Egoarca.

Che il capo del governo sia venuto in possesso di un video contro Marrazzo non in quanto capo del governo ma nelle vesti di proprietario di un’impresa di comunicazione è qualcosa di cui sembra non essersi accorto nessuno. Nemmeno i suoi oppositori. Avete forse letto una sola dichiarazione indignata o almeno stupita?

Commentavo con tre amici di sinistra la telefonata in cui Berlusconi avverte il governatore del Lazio di un filmato che lo riguarda, dopo averne avuto notizia dai dirigenti della Mondadori ai quali era stato proposto. Il primo amico, tendenza D’Alema, ha detto: stavolta Silvio si è comportato da signore, poteva rovinarlo e invece lo ha risparmiato. Il secondo, tendenza Veltroni: è il presidente del Consiglio, avrebbe dovuto avvertire la polizia. Tesi discutibile, perché presuppone che Berlusconi fosse a conoscenza non solo del video, ma anche del ricatto. Era naturalmente questa l’opinione del terzo amico, tendenza Di Pietro: per lui il premier è all’origine di tutti i mali dell’umanità dai tempi del Diluvio Universale «perché non poteva non sapere». Ma neppure il più ossessivo dei berluscallergici mi ha opposto la semplice osservazione che mi sono sentito fare al telefono da un collega inglese che vota per i conservatori: «Come potete accettare che un primo ministro riceva e usi, anche a fin di bene, informazioni ottenute in virtù del suo ruolo di editore?».

E’ l’ultima, lampante esplicazione del conflitto di interessi. Ma così lampante che nessuno di noi ci ha fatto caso. Provate a pensarci un attimo. I carabinieri ricattatori filmano Marrazzo e provano a vendere il video a un giornale del presidente del Consiglio. Non importa che il presidente del Consiglio abbia evitato di infierire. Resta il fatto che, grazie al suo ruolo di tycoon mediatico, gli era stata offerta la possibilità di distruggere un avversario politico. E pensare che molti fingono ancora di non capire quale differenza passa, ai fini delle regole democratiche, fra il possesso di una fabbrica di frigoriferi e il controllo di una che produce rotocalchi e programmi televisivi.

Ma questo totale disinteresse per i conflitti di interesse rivela anche qualcos’altro. Assuefazione. Ogni cosa, a furia di esserci, finisce per sembrare inesorabile. Mancanza di senso dello Stato, e lo si è appena visto proprio con Marrazzo: tutti scandalizzati dalle sue frequentazioni e non perché si recava agli incontri con l’auto di servizio. Rivela soprattutto disprezzo per le istituzioni. Viene il dubbio che gli italiani sappiano benissimo quali rischi si corrano a consegnare il governo nelle mani di un imprenditore di quel calibro e di quel ramo. Ma è tale il loro disprezzo per i politici di professione che ritengono meno grave truccare il gioco della democrazia che riaffidare le redini della Repubblica allo schema classico, in base al quale il mondo dei media e degli affari condiziona la politica attraverso le lobby, ma non si sostituisce a essa per esercitare direttamente il potere. E un editore, quando riceve un video compromettente, decide in base alle sue valutazioni di editore, non di presidente del Consiglio.

Il ministro dell’Economia ha dato un’occasione al Pd, che oggi affronterà le primarie e sceglierà una guida nuova. Difendendo il valore del posto fisso, presentandolo come la cosa calda anelata quando gela, affermando che nel modello europeo non si può organizzare un progetto di vita e di famiglia se il posto è variabile, incerto, Tremonti ha evocato un ingrediente essenziale del socialismo: ha evocato la stoffa dei suoi miti, delle sue mobilitazioni. Alcuni dicono addirittura che il ministro abbia astutamente rubato alla sinistra un tema che dovrebbe figurare nei suoi programmi, lasciandola sgomenta e muta. Si è appropriato della questione sociale, facendosi interprete del mondo che soffre una degradazione del lavoro destinata ad acutizzarsi.

La realtà è non poco diversa tuttavia, e la vera occasione per gli eredi del socialismo e del cattolicesimo sociale è di penetrare tale realtà.

Di dire il volto che ha oggi la questione sociale, di costruire su essa un nuovo corpo di dottrine, di sfatare le illusioni. Un primo passo importante l’ha fatto Franceschini, intervistato dal Sole - 24 Ore del 22 ottobre: «Alla retorica di Tremonti, io oppongo i fatti. E i fatti dicono che la flessibilità fa parte delle società moderne. Piuttosto il governo non fa nulla per arginare la precarietà. Lancio la sfida al ministro dell’Economia e chiedo di agire su due fronti. Primo: togliere convenienza economica ai contratti precari (...). Secondo: riforma degli ammortizzatori. Insisto: basta con la logica delle deroghe, servono protezioni sociali per l’operaio che perde il posto, per l’artigiano e per i giovani con contratti flessibili».

L’errore è forse quello denunciato da Kant: si parla di valore, quando si dovrebbe parlare di dignità. Si riempie di valore qualcosa che non ha rapporti con il reale ma con ricordi, nostalgie. Su una cosa Tremonti non ha torto: contrariamente a ciò che è stato detto nei giorni scorsi, anche a destra, il posto fisso non è un male, un fossile. Troppo facile liquidare così un mito che occupa le menti di tante persone in bilico, ed è quella «goccia del passato vivente» che secondo Simone Weil va conservata gelosamente e portata nel futuro, perché non cresca lo sradicamento del lavoro. Il lavoro stabile è quella goccia ­ più del posto fisso ­ ed è ovvio che nell’immaginario resti un bene: come potrebbe non essere così?

È un bene, tuttavia, riservato a sempre meno esseri umani. I lavoratori instabili e precari sono quasi 4 milioni (il 15 per cento degli occupati).

Fra il gennaio 2008 e il gennaio 2009, solo il 23 per cento delle assunzioni si è concretizzato in un contratto a tempo indeterminato, e di questi contratti solo il 3 per cento si è stabilizzato (al Sud l’1,7).

L’economista Tito Boeri spiega come nel mercato del lavoro si assuma «quasi solo con contratti temporanei: 4 nuovi rapporti di lavoro su 5 vengono istituiti fissando una data di scadenza, spesso molto breve. La percentuale sarebbe ancora più alta se si tenesse conto che molti contratti formalmente a tempo indeterminato per le badanti sono in realtà contratti che possono essere interrotti da un momento all’altro» (Repubblica, 22-10). Con questo dualismo urge fare i conti: non esaltando un mondo a scapito dell’altro, ma conferendo dignità a chiunque lavori, stabilmente o precariamente, e senza cercare il calduccio nei bei tempi o valori che furono. Questi non tornano, ma la questione della dignità resta. Facendo l’elogio del passato Tremonti non solo proclama l’ovvio (lui stesso l’ammette: «Ho detto una cosa scontata: come che tra stare al caldo e stare al freddo, preferisco stare al caldo»). Enuncia banalità inutili perché irrealizzabili, ha scritto su questo giornale Federico Geremicca.

Ma non è solo una banalità. La frase di Tremonti occulta il vero ed è deleteria, beffarda. Attribuendo un’inimitabile virtù di stabilità al posto fisso, inoltre, fissa valori supremi che per forza declassano altri valori, facendone dei disvalori. Il posto precario che tanti giovani devono scegliere al posto dell’inattività è condannato e dannato, non consentendo di «organizzare progetti di vita e di famiglia». La preminenza data al posto fisso sfocia «nell’esclusione degli outsider, di quelli che il posto non lo hanno», e ai quali non si offre «una società aperta ma l’arroccamento degli insider», scrive l’economista Franco Bruni (La Stampa, 21-10). Essendo in fondo senza interesse, il lavoro instabile non ha interessi da far valere né rappresentanze da costruirsi. Disperazione e rimpianto sono la sua sorte.

In Italia, a differenza della Francia, chi lavora nella precarietà non ha protezioni se si ammala, se aspetta un figlio. Non ha diritti concernenti ferie, licenziamenti, pensione. Dichiarare il posto fisso come «la base di una vita dignitosa» è un crudele memento per coloro cui si dice: tu questa base non puoi averla, anche se lavori, perché non sei parte del piccolo mondo antico. È nell’Inferno che Dante lo apprende: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria». Non è neanche vero che Tremonti difende l’esistente. Le sue parole feriscono perché illudono, fingendo un esistente che non c’è. Somigliano alle case vendute con delittuosi imbrogli a chi non ha soldi per comprarle: sono parole subprime.

Sono l’ennesima bolla, fatta di vento che presto si sgonfia.

Negare la realtà è perpetuare una pigrizia mentale che lusinga i privilegiati e lascia scoperti gli sfavoriti, trasformando questi ultimi (la maggioranza dei giovani) in perdenti. Che li contagia con l’indolenza, non svegliandoli a una nuova cultura del lavoro: una cultura egualmente calda, che dia stabilità all’attività lavorativa, quale che sia la sua forma. La sinistra ha una funzione essenziale nella formazione di questa cultura, perché tradizionalmente rappresenta i lavoratori, i miseri. Quando smette di farlo ­ quando nel contempo dimentica anche gli imperativi della moralità pubblica ­ il vuoto è stato sempre riempito da destre populiste.

La sinistra e i sindacati devono ricominciare la storia, anziché impigrirsi e riecheggiare astratti rimpianti: devono capire che la questione sociale si sta ripresentando impetuosa, ma con vesti diverse. Che siamo di fronte a un passaggio storico non dissimile da quello descritto da Luigi Einaudi nel 1897, quando gli scioperi colpirono l’industria tessile del Biellese. La nascita delle fabbriche nella prima metà dell’800 aveva suscitato bisogni nuovi, per chi aveva dolorosamente vissuto la fine del tessile lavorato in famiglia, col telaio a mano installato in casa. Aveva, proprio come dice Tremonti del lavoro instabile, distrutto progetti di vita e famiglie, tanto che Simone Weil sognava, ancora nel 1949, l’abolizione delle grandi fabbriche. Garantire protezioni al lavoro discontinuo oltre che al posto fisso è un compito grande e arduo per le sinistre. Non basta che il Pd cessi di essere un partito leggero e vada nelle fabbriche che chiudono, come suggerito da Epifani sul Fatto di venerdì. Non è solo in fabbrica che la sinistra ritroverà coloro che, pur lavorando, soffrono la perduta dignità, ma nelle professioni intellettuali, negli uffici, nella pubblica amministrazione, nella ricerca.

Diceva ancora Einaudi: «Perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato a ogni istante di non durare (...). Bisogna che nessuna forza legale intervenga a cristallizzare le forze, ad impedire alle forze nuove di farsi innanzi contro alle forze antiche, contro ai beati possidentes» (Le lotte del lavoro, Einaudi 1972). Tremonti ha il merito di aver visto l’aggravarsi dello squilibrio. Da qui bisogna partire, perché esso susciti nuove rotte di pensiero, di azione. Perché gli anni eroici del movimento operaio siano la goccia del passato vivente che porteremo nel futuro.

Bene ha fatto Piero Marrazzo ad autosospendersi da governatore della Regione Lazio. Meglio avrebbe fatto a dimettersi: non ieri, dopo aver ammesso quello che l'altro ieri negava ostinatamente e incomprensibilmente, ma in quel di luglio, all'indomani degli ormai noti fatti, quando capì di essere sotto ricatto e, stando alle sue stesse dichiarazioni, pagò i ricattatori nel tentativo di mettere tutto a tacere. Tentativo vano, perché nell'epoca della riproducibilità tecnica di tutto vana è la speranza di mettere a tacere qualsivoglia cosa. Tentativo colpevole, perché un uomo di governo sotto ricatto ha l'obbligo di denunciare i ricattatori e, a meno che la causa del ricatto sia inesistente, non può fare l'uomo di governo. Non può fare nemmeno la vittima, o solo la vittima, come invece Marrazzo ha fatto nell'immediatezza dello scandalo.

Il governatore del Lazio è vittima e colpevole, tutt'e due. E' vittima di un'aggressione indecente dell'Arma dei carabinieri, un'aggressione su cui a noi tutti è dovuta piena luce dai vertici dell'Arma e dai ministeri competenti, i quali ci facciano il piacere di non provare a cavarsela con la solita tesi delle mele marce. E' colpevole di aver taciuto, sottovalutato, occultato quanto gli stava accadendo, con la solita tesi che la vita privata è privata e non c'entra niente con la vita pubblica.

Rieccoci al punto che tiene inchiodato il dibattito politico da sei mesi: e quando un punto ritorna così insistentemente, sia pur sotto una differenziata casistica, significa che è un punto dolente. Sono patetici i vari Cicchitto, Cota, Lupi e relativi giornalisti organici alla Feltri che si lanciano sulla succulenta occasione per salvare Berlusconi col duplice argomento che a) tutti hanno i loro peccati, a destra e a sinistra, b) chi di moralismo e violazione della privacy ferisce, di moralismo e violazione della privacy perisce.

Non casualmente, solo da destra si chiede che il governatore resti al suo posto, con l'unico scopo di far restare al suo anche il premier. Purtroppo però qui non si tratta di salvare tutti, bensì di non salvare nessuno. Pur cercando di esercitare la sempre più difficile arte delle distinzioni.

Piero Marrazzo non è colpevole di frequentare trans, come Silvio Berlusconi non è colpevole di frequentare escort o di avere, o millantare, tutte le fidanzate che crede. Entrambi sono colpevoli però di non aver capito che la vita privata di un uomo politico riverbera sulla sua immagine (e sulla sua sostanza) politica. Nonché di scindere, nella miglior tradizione della doppia morale di un paese cattolico, i lori vizi privati dalle loro dichiarazioni pubbliche di fede nei sacri valori della famiglia. Dopodiché le analogie finiscono. Marrazzo si dimette e Berlusconi no. Marrazzo si chiude disperatamente a Villa Piccolomini e Berlusconi fa un proclama al giorno per rivendicare che lui, l'eletto dal popolo, fa quello che vuole. Marrazzo - stando alle testimonianze - ha avuto relazioni personali con alcuni trans, Berlusconi è al centro di un sistema diffuso di scambio fra sesso, danaro e potere, in cui «il divertimento dell'imperatore» viene retribuito in candidature e comparsate in tv (privata e pubblica). Fa qualche differenza, e nel senso opposto a quello che scrive Il Giornale, che già salva la candida «normalità» del premier che va a donne contro l'immonda ambiguità sessuale del governatore che va a trans.

Per tutte e tutti noi si spalancano ogni giorno di più tre questioni. La prima - il punto dolente di cui sopra - è che l'ostinazione a scindere il privato dal pubblico e la vita personale dalla vita politica, in tempi in cui i telefoni filmano e registrano, la Rete diffonde e le donne non stanno zitte, rasenta la stupidità: vale per la destra ma anche per quella sinistra che oggi ne è colpita ma fino a ieri è stata su questo reticente. La seconda è che è vero che sui comportamenti sessuali non si può sindacare moralisticamente, ma se quelli che la cronaca ci rimanda sono sempre più spesso comportamenti sessuali di uomini di potere mediati dai soldi è lecito quantomeno interrogarsi sullo stato della loro sessualità e del loro potere. La terza è che se la politica, ripetutamente, inciampa nel sesso, in un sesso siffatto, qualcosa s'è rotto nel segreto legame che unisce qualità delle relazioni interpersonali e qualità del legame sociale, passioni personali e passioni collettive, desiderio individuale e felicità pubblica. C'è un brutto nodo che stringe questione maschile, questione sessuale e crisi della politica. Se è vero che, come ci insegnavano a scuola, oportet ut scandala eveniant, che almeno ci servano a vedere questo nodo, e a scioglierlo.

Il generale Mario Mori, quando ha preso la parola per le sue dichiarazioni spontanee al processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, l’ha ripetuto un’altra volta. Per lui la causa principale delle stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992 va ricercata nelle indagini, condotte un anno prima proprio dai carabinieri, sugli appalti pubblici spartiti in Sicilia con il benestare della mafia. Anche perché, ha sostenuto Mori il 20 ottobre, quelle inchieste furono archiviate in tutta fretta all’indomani dell’omicidio di Paolo Borsellino. La trattativa dello Stato con Cosa Nostra, insomma, non c’entra. E per capire cosa è successo bisogna scavare sul sistema dei lavori pubblici. Come spesso accade nelle vicende di mafia ci troviamo di fronte a due diverse verità.

A delle storie parallele che però, non divergono, ma anzi collimano, tra loro. Perché quando Cosa Nostra decide un omicidio eccellente non lo fa mai per un unico motivo.

È un fatto che le indagini dell’Arma facessero paura a molti. Il giovane capitano Giuseppe De Donno ci aveva lavorato per più di un anno. Così, il 16 febbraio del 1991, consegna nelle mani di Giovanni Falcone un rapporto di 900 pagine che, senza pentiti, sembra anticipare di più di un anno l’inchiesta milanese di Mani Pulite. Falcone però non lo può esaminare. Sta partendo per Roma, dove diventerà direttore degli affari penali al ministero, perché ormai a Palermo lui non può più lavorare. A metterlo in un angolo non sono stati i mafiosi. Sono stati alcuni suoi colleghi e soprattutto l’allora procuratore Pietro Giammanco.

Il rapporto di De Donno è una bomba. Per la prima volta viene svelato il ruolo di Angelo Siino, l’uomo che per conto di Cosa Nostra curava la spartizione di lavori e mazzette. E viene anche spiegato quello del gruppo Ferruzzi di Ravenna, in affari con la mafia. Nella relazione sono citati i nomi di aziende come la Grassetto di Salvatore Ligresti, la Tordivalle di Roma (degli eredi di De Gasperi), la Rizzani De Eccher di Udine, le imprese dei cavalieri del lavoro di Catania, la SII poi rilevata dall’ex direttore generale della Edilnord di Berlusconi, Antonio D’Adamo, una serie di cooperative rosse, la Impresem del costruttore agrigentino Filippo Salamone e poi tutte le società che fanno capo a Bernardo Provenzano. Nonostante questo Mani Pulite alla siciliana non parte. Perché la questione degli appalti e del pizzo diviso tra mafiosi e politici arrivi realmente alla ribalta bisogna attendere che a Palermo giunga il procuratore Giancarlo Caselli.

Ma c’è di peggio. Il rapporto di De Donno finisce presto in mano ai mafiosi. Chi lo abbia consegnato, le indagini, tutte archiviate, non lo hanno mai stabilito. Restano sul tavolo le accuse: quelle del Ros ai magistrati e quelle dei magistrati ai carabinieri. L’ex braccio destro di Provenzano, il capomafia oggi pentito Nino Giuffrè, è però certo che il contenuto di quel rapporto impresse un’accelerazione alla decisione, secondo lui già presa, di uccidere sia Falcone che Borsellino. In ballo c’erano infatti più di mille miliardi di lire da spartire tra mafia e politica.

È indiscutibile, poi, che anche Borsellino, subito dopo la morte dell’amico, si sia messo a battere pure il fronte dei lavori pubblici. Proprio per questo ebbe allora un incontro con Antonio Di Pietro, all’epoca uomo simbolo di Mani Pulite, e, secondo Mori, il 25 giugno discusse la questione appalti anche con lui e De Donno: un’inchiesta senz’altro rallentata, se non insabbiata, nei mesi successivi. Un’indagine che oltretutto sarà poi falcidiata da prescrizioni e sentenze contraddittorie nei confronti di imprese e politici. Sulla morte di Borsellino, insomma, il rapporto mafia-appalti pesa. E da solo spiega molto. Ma non tutto.

Solo un cretino può pensare che il massimo desiderio di un operaio che lavora alla linea di montaggio, terzo livello metalmeccanico, salario di merda per un lavoro di merda, ipersfruttato e alienante, un operaio a cui è tolto persino il diritto di esprimersi sul suo contratto, abbia come sogno di restare per tutta la vita inchiodato alla catena. E magari di inchiodarci anche il figlio. E solo un cretino può credere che se quell'operaio si aggrappa alla catena, se si arrampica sul carroponte o sul tetto o sul Colosseo, o occupa l'autostrada Roma-Napoli, è perché senza lo sfruttamento selvaggio non riesce a sognare, ad amare, persino a far figli. Il fatto è che nella cultura liberista applicata al nostro paese l'unica mobilità conosciuta - l'unica flessibilità concessa - è quella in uscita: fuori dal lavoro quando non servi più e si può fare profitto senza di te. Perché la crisi devono pagarla i lavoratori, c'è da ristrutturare, da delocalizzare là dove salari e diritti valgono zero. In un paese, il nostro, dove la mobilità sociale, la ricerca, la riqualificazione non esistono.

E dire che nel '68 e nel '69 qualcuno aveva provato a dire: formazione permanente, metà tempo di studio e metà di lavoro, socializzazione dei lavori nocivi, 150 ore e tante altre belle cose che quarant'anni dopo fanno arricciare il naso agli oppositori di Berlusconi.

Adesso Tremonti e Berlusconi scoprono le meraviglie del posto fisso. Proprio loro, che in buona (pessima) compagnia hanno messo al rogo non tanto la cultura del posto fisso, quanto la sicurezza del lavoro. Hanno smantellato diritti, sbrindellando i rapporti di lavoro in una cinquantina di forme contrattuali diverse, per dividere e colpire meglio, con la speranza di rovesciare il conflitto verticale capitale-lavoro in un conflitto orizzontale tra lavoratori portatori di oneri e diritti diversi. Ci sono anche riusciti, almeno in parte.

E' un progetto a cui, magari con meno professionalità della destra, hanno lavorato in tanti, anche nel centrosinistra, anche nei sindacati. E vogliamo la Confindustria? Forse proprio la ricerca della legittimazione da parte degli imprenditori ha spinto le destre e molta opposizione a cavalcare, anzi a far cavalcare a chi lavora, la precarietà, vestita da flessibilità.

A Tremonti e a Berlusconi si potrebbe contestare la ricerca di rinsaldare il consenso tra le fasce «basse» del mercato del lavoro, quelle su cui stanno scaricando il peso della crisi, mentre le azioni concrete del governo salvano non i poveracci ma gli evasori fiscali. Hanno così paura dell'invasione degli alieni (leggi immigrati) notoriamente «prolifici», da risfoderare radici cattoliche e sane famiglie italiche, paffuti e abbondanti bambini bianchi che, senza alcuna certezza del futuro, i nostri giovani precari non hanno coraggio di mettere al mondo. I principi della deregulation si vestono da regolatori.

Tanto altro si potrebbe contestare a Tremonti e Berlusconi. Invece i nostri democratici spiegano che la cultura del posto fisso è vecchia e loro sono per il nuovo, che tutti i paesi che contano vanno in direzione opposta e dunque la nostra strada è segnata. Poi, se contro Tremonti e Berlusconi si arrabbia la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, non si può che fare fronte contro il governo.

L'amara considerazione è che in Italia la destra fa sia la destra che la sinistra mantenendo stretti in mano due scettri, quello della maggioranza e quello dell'opposizione per abbandono del campo da parte di quest'ultima. Il che non può non far pensare che, semmai Berlusconi non riuscisse a concludere il mandato e fosse costretto a perdere il posto fisso a palazzo Chigi e tornarsene in villa liberandoci della sua asfissiante presenza, il merito non sarebbe dell'opposizione che non c'è. I muri, anche quelli di Arcore, prima o poi possono crollare. Ma come la storia ci ha insegnato, possono anche essere buttati giù dalla destra.

Il primo grido di allarme per le tentazioni distruttive verso la nostra Costituzione manifestate dalle maggioranze guidate da Silvio Berlusconi venne lanciato nel 1994 da Giuseppe Dossetti, uno dei padri più rappresentativi della nostra carta fondamentale e della nostra coscienza costituzionale. Con una lettera inviata il 25 aprile di quello stesso anno all’allora sindaco di Bologna, Walter Vitali, Dossetti lanciava i comitati per la difesa della Costituzione con queste parole: «Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo di mutare la nostra Costituzione: [quella maggioranza] si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un colpo di stato».

Dossetti fu uno dei 556 deputati dell’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946, e poi membro della Commissione per la Costituzione (conosciuta anche come commissione dei 75) il cui compito era di elaborare un progetto di Costituzione. Il 21 novembre 1946, Dossetti presentò in Commissione la proposta relativa al diritto di resistenza. Queste le sue parole: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Rileggere oggi le discussioni dei costituenti sul tema dell’oppressione e della necessità che la Costituzione si doti di strumenti di autodifesa è un’esperienza intellettuale unica perché rivela quanta attenzione, preparazione e serietà ci fosse in quell’Assemblea costitutiva della nostra democrazia.

Riprendere in mano quella storia, quelle discussione è diventato essenziale per la nostra libertà.

Dossetti era un tomista e pensava al potere politico (quello costituito nello stato) come alla fonte di un rischio permanente dal quale premunirsi. Aldo Moro fu dalla sua parte e nonostante le ragionevoli perplessità nei confronti di un principio che era essenzialmente metagiuridico e di difficile traduzione in legge, tuttavia anche lui come Dossetti comprese quanto fosse essenziale per una democrazia che la cittadinanza venisse concepita e vissuta come un’identità politica non solo giuridica, perché alla sua base stava il dovere morale di preservare i fondamenti della sua stessa esistenza. È il cittadino che preserva se stesso preservando la carta.

E così, quando nel 1994 il padrone di Mediaset impresse una direzione autoritaria alla politica italiana e i partiti dell’opposizione anche allora sembrarono non comprendere per davvero la natura nuova e inquietante di quel corso politico, Dossetti riprese il ruolo morale di padre costituente e tornò a fare il dovere che la cittadinanza richiede: lanciò un movimento di cittadini attivi per esprimere un chiaro e forte "No!" alle manipolazioni della carta da parte di maggioranze o leader bramosi di dominio illimitato; un movimento che avesse il compito di far capire a tutta la nazione che la Costituzione non era a disposizione – proprio come non lo sono le donne, secondo la bella risposta di Rosy Bindi al capo della maggioranza.

La sovranità non è la stessa cosa del governo; e non lo sarebbe nemmeno se per ipotesi il governo godesse del 99% dei consensi elettorali. La differenza tra sovranità e maggioranza eletta che governa per un tempo limitato non è numerica, ma di forma e di sostanza. E infatti, nonostante Berlusconi si riempia la bocca della parola "popolo" egli pensa ai suoi elettori e a quelli che le sue strategie commerciali possono eventualmente catturare. Ma la sovranità e la costituzione non sono a disposizione di una parte, di nessuna parte, e non hanno nulla a che fare con la massa che un leader pensa di catturare, tenere o imbonire.

La ragione di questa indisponibilità è ancora una volta ben espressa dalle parole di Dossetti: «C’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto... oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti nell’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito... In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».

La coscienza cristiana di Dossetti coincideva in quel caso perfettamente con quella pubblica del cittadino perché la difesa delle prerogative costituzionali era difesa della libertà di ciascuno di distinguersi ed essere autonomo dalla pretesa di omologazione e dominio di una maggioranza. Nel maggio 1947, intervenendo sul tema proposto da Dossetti, Antonio Giolitti (allora Pci) ricordò che «la garanzia essenziale del regime democratico è... l’autogoverno morale e politico del cittadino». Per questa ragione, benché il diritto di resistenza (che avrebbe dovuto essere contenuto nell’Articolo 50) non passò l’esame, esso fa parte comunque nella cultura etica della cittadinanza democratica. La vita della Costituzione è nelle mani dei cittadini. Ha scritto anni fa Paolo Pombeni che le idee dossettiane e dei costituenti sulla resistenza come autodifesa della Costituzione «scomparvero dall’attenzione dell’Assemblea Costituente e dalla stessa memoria storica», ma il loro principio ispiratore ha una portata che «dovrebbe essere rivalutata» perché, si potrebbe aggiungere, la Costituzione, scritta da una generazione che non è piú, è viva nel nostro presente e la sua persistenza é un nostro dovere civile.

Su Il Foglio è stata ripubblicata ieri in prima pagina una lettera apparsa sul il manifesto martedì scorso. Il nostro lettore (a proposto delle previsioni economiche, dei guru e dei teorici che spesso ci ripensano) scriveva che sicuramente «giustificheranno domani la stabilità del lavoro così come oggi la flessibilità». Dopo sette giorni Giulio Tremonti, superministro dell'economia, sembra aver fatto sue quelle osservazioni e ci ha ripensato. Ieri, nel corso di un convegno ha sostenuto: «La mobilità non è un valore, il posto fisso è la base per progetti di vita». E ha incalzato: «In strutture sociali come la nostra il posto fisso» è «la base su cui si organizza il progetto di vita e la famiglia».

Per Luigi Angeletti, mega segretario della Uil, dimentico di aver aver siglato tutti i protocolli che favorivano la flessibilità, «Tremonti parla come un iscritto alla Uil». Guglielmo Epifani, invece, non lo ha iscritto al suo sindacato, ma si è limitato a un più «banale»: «Sulla mobilità chiedete un commento alla Confindustria». Che da sempre non brilla per coerenza. Ultimo esempio: la posizione sull'innalzamento dell'età pensionabile sulla quale a viale dell'Astronomia sono concordi. Salvo poi assistere a livello di singole imprese, ma nel complesso tantissime, a licenziamenti di massa. Espulsioni che riguardano in particolare i lavoratori più anziani (oltre i 50 anni) e le donne. Si potrebbe obiettare: è il profitto che lo impone, le imprese fanno quel che devono fare e, semmai, è lo stato che non provvede con un legislazione adeguata che garantisca ammortizzatori sociali e formazione permanente.

A questo punto la palla torna al governo: a Tremonti e al ministro Sacconi, su tutti. Per anni hanno sostenuto come la flessibilità - in tutte le sue forme - era propedeutica allo sviluppo, a contrastare la concorrenza globale. Il risultato è stato un impoverimento del lavoro, il ritorno al dominio del capitale sul lavoro. Senza contare che un lavoro ipersfruttato e sempre ricattabile ha accompagnato una esaltazione dei profitto a una compressione dei salari a livelli di sussistenza. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, esemplificato dalla crisi attuale. Il punto è che se solo alcuni paesi adottano forme di lavoro precario e flessibile, quei paesi vanno economicamente bene. Ma quando le precarizzazione e i bassi salari sono pratica comune, a rimetterci sono tutti. Perché - lo insegna anche l'economia liberista - non c'è equilibrio tra offerta di merci e domanda.

E questo fa inevitabilmente esplodere la recessione. È quello che è accaduto negli ultimi anni: profitti crescenti, consumi calanti con il precipitare nella povertà (assoluta e relativa) di milioni di nuove persone.

Sicuramente si potrebbero bilanciare gli squilibri con un'intensa operazione di distribuzione del reddito sotto forma di maggior welfare. Ma anche questa ricetta semplice non è stata seguita. Anzi, con le privatizzazioni (perfino di monopoli naturali) si è data nuova linfa al profitto. Tremonti ci pensi. A meno che la sua vera intenzione non sia quella espressa dalla vignetta di Vauro.

Venticinque persone che si suicidano alla Telecom francese in un anno e mezzo: è sconvolgente perché somiglia a un’ecatombe, a una guerra inconfessata. I profitti dell’azienda sono altissimi, la semi-privatizzazione del 2004 è stata un successo, ed ecco: l’operazione è riuscita, ma i morti sono tanti. Non siamo di fronte all’immolazione d’un capro espiatorio: il capro stesso tende il collo, si considera degno di olocausto. Un divario così grande fra utili dell’impresa e sofferenza umana riguarda la società, non semplicemente la psiche di individui che fanno harakiri, il più delle volte dimostrativamente nel posto di lavoro. Che non riescono a traversare indenni la nuova mobilità, i licenziamenti sempre incombenti, l’ansia che recide tranquillità e speranza, l’organizzazione del lavoro fondata sulla nuova cultura della valutazione, tutta protesa a cifrare come a scuola risultati, ritmi lavorativi, comportamenti psichici, su base quantitativa e mai qualitativa: «Una cultura di morte e per la morte», scrive Bernard-Henri Lévy sul Corriere della Sera del 17 ottobre.

Strano come negli ultimi due-tre anni la morte volontaria abbia messo radici in una terra di rivoluzioni, di regicidi. Il fenomeno si è rivelato più tenace dei sequestri di manager. Oltre ai suicidi in Telecom vanno ricordati quelli al centro Guyancourt di Renault nel 2006-2009 (4 suicidi, l’ultimo in ottobre), nella fabbrica Peugeot-Citroën di Mulhouse (6 suicidi nel 2007), nel gruppo Electricité de France (3 suicidi in 6 mesi, nel 2007).

I dati parlano di 500 suicidi l’anno per lavoro, ma gli esperti sono convinti che il numero sia assai più alto.

A Telecom i sindacati sono presenti, altrove c’è deserto sindacale e la notizia s’insabbia.

Bisognerebbe fare una raccolta delle lettere che alcuni hanno lasciato, prima di uccidersi, come si fa con le lettere dei condannati a morte. Aiuterebbe molti a capire, a rettificare parole, certezze, a vedere un’emergenza sociale dietro le intimità di una psiche. Il lavoro occupa l’intera mente dei suicidi, e l’intera esistenza. Illuminante e terribile è la lettera di Michel D, il quadro dirigente che si è tolto la vita il 14 luglio scorso. È indirizzata ai familiari e a tutti i colleghi: «Mi uccido a causa del mio lavoro a France Telecom. È l'unico motivo. Urgenza permanente, sovraccarico di lavoro, assenza di formazione, disorganizzazione totale dell’azienda: questo mi ha completamente disorganizzato e perturbato. Sono diventato un relitto, meglio farla finita». E in un post scriptum: «So che molte persone diranno che esistono altre cause (sono solo, non sposato, senza bambini). Alcuni insinueranno che non accettavo d’invecchiare. Ma no, con tutto questo mi sono arrangiato abbastanza bene. L’unica causa è il lavoro».

I rapporti degli esperti (psichiatri, medici del lavoro, sociologi, mobilitati nell’ultimo anno) individuano nel lavoro l’epicentro del terremoto suicida. Jean-Claude Delgenes, fondatore della società Technologia che studia questi casi, elenca numerosi motivi ma su uno insiste, in particolare. Il male è nella parola, dice: nella parola che perisce prima della persona, cancellando ogni legame sociale. Il flusso dell’informazione si dissecca, e il singolo si sente solo, minacciato da declassamento, controllato da troppi occhi che «lo assillano moralmente e lo spingono a lasciare l’azienda per esaurimento». La Telecom è un caso speciale, perché per oltre mezzo secolo è stata un grande servizio pubblico: il 65% degli impiegati sono tuttora funzionari dello Stato. La maggior parte dei suicidi avviene tra loro e nelle classi alte: quadri e ingegneri di 48-50 anni, sconvolti dall’avvento di cellulari e internet.

L’assenza di parola è malefica, quando non circola più e si allontana come un Dio dichiarato morto: non viene data a chi forse si salverebbe parlando, non viene ascoltata quando stentatamente è detta dal sofferente, non è scambiata tra colleghi. Qui è il crimine, e tutti sono responsabili di un’afasia proliferante e contagiosa: i manager ma anche i sindacati, i politici che non illustrano i costi della crisi e i mezzi di comunicazione. Un mondo sta finendo - il lavoro fisso, il sindacato forte che arginava le disperazioni - e l’enorme mutazione è occultata, sottovalutata.

Ivan du Roy, giornalista a Témoignage chrétien e autore di un libro sui suicidi a Telecom, ricorda che non fu diverso l’affare dell'amianto: ci vollero decenni per riconoscere che i tumori nascevano in fabbrica. Lo stesso accadrà per il nesso lavoro-suicidio (Du Roy, Orange stressé: Le management par le stress à France Telecom, Parigi 2009). Gli amministratori della compagnia hanno esitato a lungo, prima di ammettere che qualcosa non andava, a cominciare dai vocabolari. Il management attraverso la paura, denunciato da Michel D, è qualcosa che non vogliono afferrare. Per mesi, il presidente Lombard ha parlato di «moda dei suicidi».

Questo linguaggio sprezzante è mortifero, soprattutto in un’azienda che è stata servizio pubblico dove il lavoro significava fierezza, prestigio. È un linguaggio sfrontato nato dal fondamentalismo anti-statalista. Mette in luce gli ingiusti privilegi di certi lavoratori ma fa loro mancare quello che più li motiva e li aiuta: il riconoscimento, la stima di sé. La parola d’ordine è, in Francia: Il faut secouer le cocotier - bisogna scuotere l’albero di cocco. Un’espressione perfida che richiama l’usanza, osservata in alcune etnie polinesiane nell’800, di eliminare fisicamente i vecchi quando non erano più capaci di arrampicarsi sugli alberi e raccogliere il cocco. Usato oggi, il termine significa: bisogna eliminare gli improduttivi. In Italia un ministro usa vocaboli simili (fannulloni, parassiti) senza sapere che la storia di certe parole è tragica, proprio quando esse diventano popolarissime.

I sindacati sono specialmente in causa, perché spetta a loro incanalare le ribellioni, educare al nuovo, e dare ai lavoratori non illusioni ma verità. Il suicidio smaschera la loro inconsistenza, essendo una rivolta strozzata subito. Il ribelle, lo dice l'etimologia, ricomincia sempre la guerra (re-bellum). Il suo linguaggio (militanza, mobilitazione) è militare. Il suicida grida, muto, che la guerra è finita: è infinitamente stanco di storia. Come l’Amleto europeo che Valéry descrive dopo il 14-18, «pensa alla noia di ricominciare il passato, alla follia di voler sempre innovare. Barcolla fra due baratri, perché due pericoli incessantemente minacciano il mondo: l’ordine e il disordine».

Non è vero che troppa informazione è deleteria, come dicono molti governanti. La maggior parte dei suicidi lamentano di non esser mai informati, su crisi e ristrutturazioni: né dai manager, né dai sindacati, né dai politici. Sentono solo parole offensive nei loro confronti. Sentono «un’agitazione permanente chiamata pomposamente innovazione», scrivono il 28 settembre i firmatari di una lettera aperta al presidente Telecom. Invitati ossessivamente a pensare positivo, nulla li prepara psicologicamente a tempi duri, al lavoro che ridiventa necessità e pena.

Non meno responsabile è la professione giornalistica. Da tempo ormai le pagine economiche dei giornali sono monopolizzate da articoli su imprese, finanza. I servizi sul lavoro sono pressoché scomparsi. Il capo della Confindustria si esibisce quasi fosse un ministro, pur essendo rappresentante di un sindacato come altri. Lo studioso Michael Massing scrive che la stampa Usa non si occupa praticamente più dei problemi sociali (New York Review of Books, 1-12-05). Il New York Times ha 60 reporter che seguono il business, e uno che segue il lavoro.

Il respiro breve, il tempo corto: sono mali che non affliggono solo la finanza ma anche il lavoro. Tutto deve esser ottenuto subito. Chi regna è il cliente: una giusta rivalutazione del consumatore, che rischia tuttavia di ributtare il produttore nel nulla («Je suis nul - Sono nullo, sarò licenziato», dice un altro suicida nell'ultima lettera). Tutto questo è moderno e tragico al tempo stesso. Sfocia in un brave new world dove mai sfuggi al sorvegliante. Dove ti ordinano di pensare positivo, e se pensi negativo ti eliminano come i vecchi che non sanno più inerpicarsi sull’albero di cocco.

Il nuovo discorso bulgaro di Berlusconi è solo apparentemente più conciliante del diktat che sette anni fa attuò una prima pulizia etnica del video. Anzi, contiene elementi per certi versi ancora più inquietanti.

Si ammette, certo, la facoltà della stampa, e dei media in generale, di criticare il potere politico; ma questo è immediatamente personalizzato nella figura del premier, e nella sua asserita volontà d’amore e di giustizia, una volontà talmente universalistica da consentirgli di accettare (viene da dire ‘tollerare’) anche le critiche, purché, naturalmente, restino "nei confini della moderazione"; in questo caso possono essere "usate per colmare le mancanze" dell’azione di governo. Se vanno oltre, però, se cioè non sono "moderate" – se non condividono le cose che il governo fa, anziché limitarsi a criticare il modo in cui le fa – allora diventano calunnie, che "non fanno piacere a chi è calunniato"; e che per di più si ritorcono provvidenzialmente contro il calunniatore, data l’istintiva simpatia che un popolo di grande intelligenza e saggezza come l’italiano prova per i perseguitati. La critica o è ‘costruttiva’, e accetta il terreno concettuale e valoriale del potere, o è una cattiveria, e lede il vincolo sentimentale che unisce la società, e che trova espressione nell’amore (ricambiato) del leader per la "gente".

A fronte di ciò, nel discorso bulgaro si parla di «preoccupazione per l’opposizione che ci ritroviamo in Italia», motivo non ultimo, insieme alla condivisione di valori e programmi, perché l’alleanza di governo sia salda. Il nemico è alle porte, insomma, e anzi sta per entrare: da qui l’esigenza di una compatta unità delle forze nostre. Improvvisamente l’immagine della società amorevole è sostituita da accenni di guerra e di oscuri fantasmi. Il che significa, anche se a Sofia non è stato detto esplicitamente, che le riforme – della giustizia, e forse della Costituzione – si hanno da fare da soli, e non dialogando con l’opposizione, tranne che questa non accetti obiettivi e metodi del governo, limitandosi a proporre qualche variante in uno schema già definito (da altri).

Da una parte, insomma, Berlusconi propone l’immagine di una società omogenea, coesa, sostanzialmente pacificata, perché condivide – grazie a un rapporto affettivo col capo – valori e stili di pensiero, senza voci dissonanti e fuori dal coro. Una società in cui il conflitto non esiste, né quello di classe né quello ideale, né quello – aperto e proclamato – degli interessi; una società in cui le voci della critica, dei media e delle altre istanze che costituiscono la pubblica opinione, non portano altro contributo che qualche variazione su un unico tema. Una società che si compiace delle stesse evidenze, che si turba per le stesse inquietudini; una sfera pubblico-sociale anestetizzata, e certamente assai diversa da quelle che storicamente sono state le società liberali e democratiche, caratterizzate da intensa e vivacissima dialettica di posizioni, dalla violenza della polemica nella stampa, nelle accademie, nelle case editrici, nei salotti intellettuali. Una società omogenea, insomma, e una stampa allineata o molto prudente.

A ciò si contrappone una visione della politica come combattimento contro estranei o nemici, come una lotta tanto aspra che non trova moderazione e neutralizzazione neppure nelle istituzioni, nei poteri dello Stato. Queste, anziché essere interpretate come sistemi di regole intrinsecamente neutrali, la cui finalità è di lasciare sussistere il conflitto fra le parti senza essere esse stesse ‘parte’ – tranne il caso del potere esecutivo, che può essere ‘parte’, ma soltanto secondo precisi limiti –, paiono a Berlusconi sempre attraversate dall’energia della polemica, dalla partigianeria. Una sorta di iper-politicismo per cui la politica esce dalle istituzioni, le eccede continuamente, le travolge come la piena inarrestabile di un fiume, gonfio di polemicità. Tutte le magistrature sono necessariamente parziali e mai neutrali, la politica è sempre faziosità, la dismisura non può non travalicare la misura.

Sembra a volte di avere a che fare con un’applicazione domestica e in tono minore del celebre ‘politico’ di Carl Schmitt, il teorico secondo il quale la politica consiste essenzialmente nel rapporto amico-nemico. Oppure possono venire alla mente interpretazioni della politica come volontà di potenza, come grandioso e tragico destino di conflitto; una visione terribile, certo, ma anche nobile, che sta fra Nietzsche e Lenin. Ma lo sembra soltanto. Infatti, queste concezioni della politica la vedono come un’energia pubblica, che emana da un popolo, come una forza collettiva rivoluzionaria che mobilita ogni ordine giuridico-istituzionale. Berlusconi, invece, pensa alla politica come alla sua personale volontà di potenza, come a un eccesso privato che dilaga nel pubblico. In mano a lui, insomma, quello che in altri contesti è la rivoluzione che travolge le istituzioni, diventa più banalmente tentativo di prevaricazione, unito a un continuo sospetto della prevaricazione altrui.

Tutto ciò non è né rassicurante né innocuo, soprattutto se è diventata la nuova costituzione materiale del nostro Paese, e se diventerà – come sostengono e auspicano esponenti della maggioranza – la nuova costituzione formale. Infatti, lo scenario che prevede istituzioni politiche ‘calde’ percorse da spasimi di polemicità, e la società civile ‘fredda’, libera da conflitti e unificata semmai nel tepore pacificante dell’amore, è un’inversione quasi perfetta dell’Abc della moderna democrazia: è l’immagine, non rassicurante ma inquietante, di una democrazia autoritaria.

«Lo vedi, stanno iniziando ad abbandonarci. Lo sapevo». Così il mio caposcorta mi ha salutato ieri mattina. Il dolore per la protezione che cercano di farmi pesare, di farci pesare, era inevitabile. La sensazione di solitudine dei sette uomini che da tre anni mi proteggono mi ha commosso. Dopo le dichiarazioni del capo della mobile di Napoli che gettano discredito sul loro sacrificio, che mettono in dubbio le indagini della Dda di Napoli e dei Carabinieri, la sensazione che nella lotta ai clan si sia prodotta una frattura è forte. Non credo sia salutare spaccare in due o in più parti un fronte che dovrebbe mostrarsi, e soprattutto sentirsi, coeso. Società civile, forze dell’ordine, magistratura. Ognuno con i suoi ruoli e compiti. Ma uniti. Purtroppo riscontro che non è così. So bene che non è lo Stato nel suo complesso, né le figure istituzionali che stanno al suo vertice a voler far mancare tale impegno unitario. Sono grato a chi mi ha difeso in questi anni: all’arma dei Carabinieri che in questi giorni ha mantenuto il silenzio per rispetto istituzionale ma mi ha fatto sentire un calore enorme dicendomi «noi ci saremo sempre».

Mi ha difeso l’Antimafia napoletana attraverso le dichiarazioni dei pm Federico Cafiero De Raho, Franco Roberti, Raffaele Cantone. Mi ha difeso il capo della Polizia Antonio Manganelli con le sue rassicurazioni e la netta smentita di ciò che era stato detto da un funzionario. Mi ha difeso il mio giornale. Mi hanno difeso i miei lettori.

Ma uno sgretolamento di questa compattezza è malgrado tutto avvenuto e un grande quotidiano se ne è fatto portavoce. Ciò che dico e scrivo è il risultato spesso di diversi soggetti, di cui le mie parole si fanno portavoce. Ma si cerca di rompere questa nostra alleanza, insinuando «tanti lavorano nell’ombra senza riconoscimento mentre tu invece…».

Chi fa questo discorso ha un unico scopo, cercare di isolare, di interrompere il rapporto che ha permesso in questi anni di portare alla ribalta nazionale e internazionale molte inchieste e realtà costrette solo alla cronaca locale. Sento di essere antipatico ad una parte di Napoli e ad una parte del Paese, per ciò che dico per come lo dico per lo spazio mediatico che cerco di ottenere. Sono fiero di essere antipatico a questa parte di campani, a questa parte di italiani e a molta parte dei loro politici di riferimento. Sono fiero di star antipatico a chi in questi giorni ha chiamato le radio, ha scritto sui social forum "finalmente qualcuno che sputa su questo buffone". Sono fiero di star antipatico a queste persone, sono fiero di sentire in loro bruciare lo stomaco quando mi vedono e ascoltano, quando si sentono messi in ombra. Non cercherò mai i loro favori, né la loro approvazione. Sono sempre stato fiero di essere antipatico a chi dice che la lotta alla criminalità è una storia che riguarda solo pochi gendarmi e qualche giudice, spesso lasciandoli soli. Sono sempre stato fiero di essere antipatico a quella Napoli che si nasconde dietro i musei, i quadri, la musica in piazza, per far precipitare il decantato rinascimento napoletano in un medioevo napoletano saturo di monnezza e in mano alle imprenditorie criminali più spietate. Sono sempre stato antipatico a quella parte di Napoli che vota politici corrotti fingendo di credere che siano innocui simpaticoni che parlano in dialetto. Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi dice: «Si uccidono tra di loro», perché contiamo troppe vittime innocenti per poter continuare a ripetere questa vuota cantilena. Perché così permettiamo all’Italia e al resto del mondo di chiamarci razzisti e vigliacchi se non prestiamo soccorso a chi tragicamente intercetta proiettili non destinati a lui. Come è accaduto a Petru Birladeanu, il musicista ucciso il 26 maggio scorso nella stazione della metropolitana di Montesanto che non è stato soccorso non per vigliaccheria, ma per paura.

Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi mal sopporta che vada in televisione o sulle copertine dei giornali, perché ho l’ambizione di credere che le mie parole possano cambiare le cose se arrivano a molti. E serve l’attenzione per aggregare persone. Sarò sempre fiero di avere questo genere di avversari. I più disparati, uniti però dal desiderio che nulla cambi, che chi alza la testa e la voce resti isolato e venga spazzato via com’è successo già troppe volte. Che chi "opera" sulle vicende legate alla criminalità organizzata e all’illegalità in generale, continui a farlo, ma in silenzio, concedendo giusto quell’attenzione momentanea che sappia sempre un po’ di folklore. E se percorriamo a ritroso gli ultimi trent’anni del nostro Paese, come non ricordare che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani – esposti molto più di me e che prima di me hanno detto verità ora alla portata di tutti – hanno pagato con la vita la loro solitudine. E la volontà di volerli ridurre, in vita, al silenzio.

Sono sempre stato fiero, invece, di essere stato vicino a un’altra parte di Napoli e del Sud. Quella che in questi anni ha approfittato della notorietà di qualcuno emerso dalle sue fila per dar voce al proprio malessere, al proprio impegno, alle proprie speranze. Molti di loro mi hanno accolto con diffidenza, una diffidenza che a volte ha lasciato il posto a stima, altre a critiche, ma leali e costruttive. Sono fiero che a starmi vicino siano stati i padri gesuiti che mi hanno accolto, le associazioni che operano sul territorio con cui abbiamo fatto fronte comune e tante, tantissime persone singole. Sono fiero che a starmi vicino sia soprattutto chi, ferocemente deluso dal quindicennio bassoliniano, cerca risposte altrove, sapendo che dalla politica campana di entrambe le parti c’è poco da aspettarsi. Sono sempre stato fiero che vicino a me ci siano tutti quei campani che non ne possono più di morire di cancro e vedere che a governare siano arrivati politici che negli anni hanno sempre spartito i propri affari con le cosche. Facendo, loro sì, soldi e carriera con i rifiuti e col cemento, creando intorno a sé un consenso acquistato con biglietti da cento euro.

È stato doloroso vedere infrangersi un fronte unico, costruito in questi anni di costante impegno, che aveva permesso di mantenere alta l’attenzione sui fatti di camorra. È stato sconcertante vedere persone del tutto estranee alla mia vicenda esprimere giudizi sulla legittimità della mia scorta. La protezione si basa su notizie note e riservate che, deontologia vuole, non vengano rese pubbliche. Sono stato costretto a mostrare le ferite, a chiedere a chi ha indagato di poter rendere pubblico un documento in cui si parla esplicitamente di "condanna a morte". Cose che a un uomo non dovrebbero mai essere chieste.

Ho dovuto esibire le prove dell’inferno in cui vivo. Ho esibito, come richiesto, la giusta causa delle minacce. Sento profondamente incattivito il territorio, incarognito. Gli uni con gli altri pronti a ringhiarsi dietro le spalle. Molti hanno iniziato a esprimere la propria opinione non conoscendo fatti, non sapendo nulla. Vomitando bile, opinioni qualcuno addirittura ha detto "c’è una sentenza del Tribunale che si è espressa contro la scorta". I tribunali non decidono delle scorte, perché tante bugie, idiozie, falsità? Addirittura i sondaggi online che chiedevano se era giusto o meno darmi la scorta. Quanto piacere hanno avuto i camorristi, il loro mondo, lì ad osservare questo sputare ognuno nel bicchiere dell’altro?

Dal momento in cui mi è stata assegnata una protezione, della mia vita ha legittimamente e letteralmente deciso lo Stato Italiano. Non in mio nome, ma nel nome proprio: per difendere se stesso e i suoi principi fondamentali. Tutte le persone che lavorano con la parola e sono scortate in Italia, sono protette per difendere un principio costituzionale: la libertà di parola. Lo Stato impone la difesa a chi lotta quotidianamente in strada contro le organizzazioni criminali. Lo Stato impone la difesa a magistrati perché possano svolgere il loro lavoro sapendo che la loro incolumità fa una grande differenza. Lo Stato impone la difesa a chi fa inchieste, a chi scrive, a chi racconta perché non può permettere che le organizzazioni criminali facciano censura. In questi anni, attaccarmi come diffamatore della mia terra, cercare di espormi sempre di più parlando della mia sicurezza, è un colpo inferto non a me, ma allo stato di salute della nostra democrazia e a tutte le persone che vivono la mia condizione. Sento questo odio silenzioso che monta intorno a me crea consenso in molte parti

Sta cercando il consenso di certa classe dirigente del Sud che con il solito cinismo bilioso considera qualunque tentativo di voler rendere se non migliore, almeno consapevole la propria terra, una strategia per fare soldi o carriera.

Ma mi viene chiesta anche l’adesione a un "codice deontologico", come ha detto il capo della Mobile di Napoli, il rispetto delle regole. Quali regole? Io non sono un poliziotto, né un carabiniere, né un magistrato. Le mie parole raccontano, non vogliono arrestare, semmai sognano di trasformare. E non avrò mai "bon ton" nei confronti delle organizzazioni criminali, non accetterò mai la vecchia logica del gioco delle parti fra guardie e ladri. I camorristi sanno che alcuni di loro verranno arrestati, le forze dell’ordine sanno in che modo gestire gli arresti che devono fare. Lo hanno sempre detto a me, ora sono io a ribadirlo: a ognuno il suo ruolo. La battaglia che porto avanti come scrittore è un’altra. È fondata sul cambiamento culturale della percezione del fenomeno, non nel rubricarlo in qualche casellario giudiziario o considerarlo principalmente un problema di ordine pubblico.

Continuare a vivere in una situazione così è difficile, ma diviene impossibile se iniziano a frapporsi persone che tentano di indebolire ciò che sino a ieri era un’alleanza importante, giusta e necessaria. So che è molto difficile vivere la realtà campana, ma c’è qualcuno che ci riesce con tranquillità. Io non ho mai avuto detenuti che mi salutassero dalle celle, né me ne sarei mai vantato, anzi, pur facendo lo scrittore, ho ricevuto solo insulti. Qualcuno dice a Napoli che è riuscito a fare il poliziotto riuscendo a passeggiare liberamente con moglie e figli senza conseguenze. Buon per lui che ci sia riuscito. Io non sono riuscito a fare lo scrittore riuscendo a passeggiare liberamente con la mia famiglia. Un giorno ci riuscirò lo giuro.

© 2009 Roberto Saviano. Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

Mancano ancora Matera, Campobasso, Savona, Carugate, Cerveteri, Ciriè e qualche altra ma la lista delle città italiane che vogliono le Olimpiadi 2020 si allunga in modo significativo. Dopo Venezia e Roma si sono infatti aggiunte ufficialmente, in attesa di nuove ed estrose candidature, Palermo e Bari. E a questo punto non c’è più dubbio: magari il Cio non assegnerà i Giochi a nessuna delle nostre brave concorrenti, ma sul podio ci andiamo di sicuro: quello del ridicolo.

A premere per la candidatura di Chicago alle Olimpiadi 2016 volò a Copenaghen, inutilmente, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama.

Quale credibilità può avere un Paese dove una cosa seria come la candidatura ai Giochi, affare costosissimo che richiede un immenso sforzo finanziario, viene annunciata in Sicilia dall’assessore regionale al turismo (col sindaco Diego Cammarata offeso: «Potevate almeno dirmelo...») e in Puglia dall’assessore comunale allo sport? Cos’è: un gioco a chi mette per primo il cappello sulla sedia?

Una manovra per dare vita a un comitato di studio (poltrone) e poi a un comitato promotore (altre poltrone) e poi a una struttura operativa progettuale (altre poltrone) e via così di prebenda in prebenda? Come ultimo tedoforo a Bari vedrei bene la D’Addario», ha ghignato subito il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, figurandosi la escort barese in marcia col cero in pugno. Quanto a Palermo, ogni battuta sarebbe di troppo: parlano già i precedenti. Ma sul serio torna a proporsi per questo appuntamento mondiale una città dove allo stadio di «Italia 90» non sono bastati 19 anni anni per demolire come previsto le tribune provvisorie che non avevano l’agibilità?

Dove quello di baseball fatto per le Universiadi (che non prevedevano il baseball) non hanno visto una partita? Dove il Velodromo dei Mondiali di Ciclismo cade a pezzi e il palazzo dello sport distrutto da un fortunale non hanno i soldi per rifarlo perché si son dimenticati di chiedere i soldi all’assicurazione con cui avevano una polizza da 95 mila euro?

Il governatore Raffaele Lombardo dice che lui non capisce proprio le perplessità degli scettici: «Non vedo perché non possiamo ambire a ospitare le Olimpiadi». Cos’avrà mai la città di santa Rosalia meno di Sydney, Londra o di Pechino? Ciò che gli dà più fastidio, dice, «è l’atteggiamento razzista di Galan, che avevamo avuto modo di notare già in occasione della polemica su Baaria». Il suo assessore al turismo e allo sport, Nino «Mortadella» Strano, noto agli italiani perché il giorno della caduta di Prodi si riempì la bocca al Senato di fette di «Bologna» col pistacchio, è ancora più rassicurante: «Quando ho letto che si erano già candidate sia Venezia che Roma ho ritenuto doverosa una proposta formulata dal Sud. E quale migliore città di Palermo per ospitare le olimpiadi?».

Il passato? Iiiiih, stavolta sarà diverso: «Siamo in grado di mettere in moto una macchina ciclopica». Ciclopica. E le ferrovie ottocentesche che viaggiano ancora coi tempi delle «littorine»? Gli acquedotti che perdono acqua e obbligano decine di migliaia di cittadini a rifornirsi con le autobotti? Le autostrade mai finite da decenni come la Catania-Siracusa? Le colline che franano al primo acquazzone portandosi via le case e le persone? Le aree industriali cosparse di cadaveri di edifici diroccati che non vengono rimossi? La spazzatura che invade le strade palermitane come quando Goethe scriveva che i bottegai buttavano tutto in mezzo alla via col risultato che essa «diventa sempre più sudicia e finisce col restituirvi, a ogni soffio di vento, il sudiciume che vi avete accumulato»? E la manutenzione quotidiana dell’esistente? Non ci vorrebbe lì, l’impegno ciclopico? Guai a dirlo.

L’accusa è automatica: disfattisti, leghisti, anti-meridionalisti! Eppure sono palermitani quelli che ieri hanno riso per primi. Palermitano è l’editore Enzo Sellerio: «E i promotori chi sono, Andersen e i fratelli Grimm?». Palermitano l’attore Pino Caruso: «Allora mi candido al Nobel». Palermitano il giornalista Enrico Del Mercato che su La Repubblica siciliana ha chiesto dove mai credono, gli autori della pensata, di poter trovare i soldi se Atene per i suoi Giochi ha speso 12 miliardi di dollari e Pechino 40,9 e dove credono di mettere la gente se in tutta la provincia ci sono 25.787 posti letto e cioè troppo pochi (anche a lasciare a casa gli spettatori e gli accompagnatori e tutti gli altri) perfino per i soli atleti e i cronisti, che a Pechino furono rispettivamente 11 mila e 21 mila.

Conosciamo l’obiezione: ma le Olimpiadi sarebbero proprio l’occasione per fare le cose! La «data catenaccio» per il grande riscatto! Esattamente quello che è stato detto le altre volte. E com’è finita? La prima data catenaccio furono i Mondiali 1990. In calendario c’erano tre partite: rifecero lo stadio (30 miliardi preventivati: 50 spesi) con quelle tribune posticce mai più rimosse, costruirono un capannone abusivo (la fretta...) per la sala stampa che nonostante l’impegno ad abbatterlo è ancora lì, pretesero tutte le deroghe possibili sugli appalti per finire in tempo l’aeroporto completato sette anni dopo l’ultima partita. Per non dire del treno da Punta Raisi a Palermo, la cui prima corsa sarebbe avvenuta nel 2001. Cioè quando erano finiti da 11 anni i Mondiali in Italia, da 7 quelli in Usa, da 3 quelli in Francia e stavano per arrivare quelli in Giappone e Corea.

E la seconda data-catenaccio? Per avere un’idea di come organizzare i mondiali di ciclismo del 1994, pensarono di andare a vedere come i norvegesi avessero organizzato i loro. E volarono a Oslo in 120: assessori, deputati, portaborse, mogli, cuochi e i musicisti di una banda folk preceduti via terra da un tir così carico di prodotti siciliani che vennero pagati sei milioni di solo sdoganamento. Perché tutte quelle mogli? «Che dovevamo fare?», si ribellò l’assessore Sebastiano Spoto Puleo, «Poi ci dicevano che siamo i soliti siculi che lasciano a casa i fimmini!».

La terza data, quelle delle Universiadi, non fu meno indimenticabile. Non solo per i relitti di impianti sportivi lasciati alle spalle, sui quali avrebbero fatto un’inchiesta dura il settimanale Il Palermo e una relazione micidiale la Corte dei conti, ma per un viaggetto sventato solo all’ultimo istante dalla magistratura.

Questa volta, nella scia della trasferta norvegese, avevano deciso di andare in Giappone, per vedere i mondiali universitari di Fukuoka, in 231. Il solito giro di deputati, funzionari e amici più gli «artisti» per uno show per i nipponici: 30 sbandieratori di Siena, 30 trampolieri emiliani, 30 gondolieri veneziani, 30 Pulcinella napoletani... Tutti all’Hyatt Residence: mezzo milione di lire a testa al giorno. L’assessore al turismo Luciano Ordile spiegò che era il minimo: «Mi dicono che un caffé costa 10 mila lire». E l’ultima data catenaccio? Chi se li dimentica, i campionati militari di Catania del 2003? Dovevano essere ai primi di settembre ma, rinvia oggi e rinvia domani, riuscirono ad aprirli solo a dicembre: «Eh, che sarà mai, a Catania sempre bello è!».

Macché: un freddo islandese. Ideale per l’atletica. Risultato: l’unico record mondiale battuto e ineguagliabile fu la gara d’appalto per una serie di costosi servizi di appoggio. La bandirono di venerdì pomeriggio con scadenza alle 12 del martedì e l’obbligo, nonostante il weekend di mezzo, di mandar le offerte per posta. Prodigio: ci fu chi ci riuscì. Una sola società. E chi era uno dei soci? Il figlio dell’allora senatore e assessore comunale Nino Strano. Lo stesso Strano di oggi? Lui. Pensa che strano..

Ancora una volta, vicino Messina, una frana ha spazzato via vite umane, povere case e le loro suppellettili e ricordi. Qualcuno ha detto che non è stata colpa della natura, ma dell'"uomo", quasi genericamente malvagio e nemico della natura; in realtà la colpa è della forza del denaro e della speculazione e di un potere politico attento agli interessi degli affari e dei soldi, anche a costo del disprezzo della vita umana e della natura.

L'acqua fa il mestiere per il quale è stata predisposta dall'inizio del pianeta, come fonte della vita, non di morte: cade ogni anno sulla superficie della Terra in quantità abbastanza costante e abbastanza prevedibile da luogo a luogo, da stagione a stagione. L'acqua raggiunge il terreno e scorre verso il piano lungo i fianchi delle valli, e poi nei canali e nei torrenti e poi nei fiumi più grandi fino al mare; nel cadere sulla superficie della terra l'acqua viene a contatto con le rocce e il terreno e ne sposta le parti più leggere che diventano sabbia e limo, che scendono per gravità, depositandosi nelle parti più basse, creando quei beni utili agli esseri umani come le fertili pianure alluvionali e le spiagge. In questo suo instancabile e provvidenziale andare, l'acqua da vita ai vegetali, disseta gli animali, assicura la vita umana.

E la vegetazione, in tutte le sue forme, dai prati agli alberi, alla macchia spontanea, è anche fondamentale nel regolare la forza che l'acqua esercita nel disgregare e spostare il terreno; le foglie sono state inventate dal Padreterno proprio perché attenuano la forza erosiva dell'acqua. Nel corso dei millenni e dei secoli le acque si sono assicurato lo spazio in cui muoversi a seconda della loro velocità, cambiando talvolta il loro corso e riservandosi degli spazi in cui adagiarsi nei periodi di piogge più intense e di piene dei fiumi.

"Purtroppo" le pianure e le zone accanto ai torrenti e ai fiumi e ai laghi sono quelle più pregiate per gli insediamenti umani; i terreni agricoli si sono estesi anche sulle rive dei fiumi nelle zone che la natura aveva riservato a se stessa per far espandere le acque di piena; case e villaggi e poi città e fabbriche hanno occupato i fianchi delle valli e i fondo valle e le rive dei fiumi, dei laghi e del mare creando ostacoli al moto delle acque; così quando vi sono piogge più intense, le acque aumentano di velocità e di forza erosiva e cercano con violenza uno spazio per scendere a valle spostando masse di terra, alberi e addirittura edifici e ponti e strade.

Tutto qui; le frane e le alluvioni e i costi e i dolori e i morti sono dovuti al fatto che alcuni "soggetti economici", nel nome del proprio interesse "economico", hanno edificato o occupato gli spazi che dovrebbero essere liberi per il moto delle acque incanalando fiumi e torrenti in prigioni di cemento; altri, sempre per motivi "economici", per guadagnare spazi edificabili, hanno distrutto, anche col fuoco degli incendi, gli alberi e la vegetazione spontanea e le macchie, per cui le acque hanno finito per muoversi con maggiore violenza sul suolo; molte pratiche agricole intensive hanno reso il terreno più esposto all'erosione che sposta a valle la terra fertile.

Terra, fango, detriti, ramaglie, alberi, rocce, trascinati dalle acque sempre più veloci, diventano un "tappo" fisico dei corsi di acqua e ne facilitano l'uscita dalle loro vie naturali. E' il quadro che si è visto nei paesi intorno a Messina oggi e che si vede in tutti i casi di frane e alluvioni che divorano, da decenni, ogni anno in Italia, miliardi di euro di ricchezza e centinaia di vite umane. L'unica nostra difesa sarebbe "lo Stato" che, se operasse per il bene pubblico, dovrebbe impedire, con le leggi e con il loro rispetto, dal livello nazionale a quello delle amministrazioni locali, la costruzione di opere, private e pubbliche, edifici e strade e ponti, eccetera, nei luoghi che sarebbero riservati al moto delle acque; che dovrebbe ricostruire la copertura vegetale vietando la distruzione del verde e dei boschi e dovrebbe provvedere alla pulizia del greto di canali, torrenti e fiumi per assicurare il regolare fluire delle acque.

Purtroppo le leggi, che sono giustamente attente a punire la violenza ai privati, sono silenziose, talvolta compiacenti, quando si tratta di impedire la violenza di privati --- e talvolta dello stesso stato --- contro la natura, cioè contro la vita di altri cittadini. Anche se è certo che tale violenza si manifesterà periodicamente, sotto forma di disastri e morti e dolori. Ogni volta che lo stato dovrebbe dire a un cittadino che "non deve" costruire in una golena o in una lama o nel greto di un torrente o in una zona franosa, sta zitto, perché bisogna "fare", costruire, anche se ciò sarà pagato da altri e da tutti, oggi e in futuro. Eppure, con leggi e con una buona amministrazione, si può "fare" e assicurare lavoro e case e strade, costruendo diversamente, in altri luoghi, proteggendo il suolo contro l'erosione con il rimboschimento, combattendo gli incendi.

E le leggi ci sono state; nel 1985 la legge 431 stabiliva che dovevano essere sottoposte a vincolo le rive dei torrenti e dei fiumi e del mare, la legge 183 del 1989 (venti anni fa) stabiliva regole di difesa del suolo e delle acque; e così prevedevano le leggi "Sarno" (267 del 1998), e Soverato (365 del 2000), emanate dopo i rispettivi disastri idrogeologici. Tutte leggi non applicate o violate, o rimandate o vanificate da condoni. Si sentono promesse e programmi in vista di future elezioni, ma non sento nessun impegno di aggiornare e far rispettare le leggi che impediscono gli interventi sul territorio nocivi per la vita futura degli italiani.

Se proprio i futuri governi locali e nazionali non hanno "il coraggio di dire no" alla speculazione, all'egoismo, all'avidità che si mangiano il territorio italiano, alla violenza contro la natura, almeno abbiano il pudore di smetterla con i piagnistei sui cadaveri che sono generati dalla loro incapacità di prevedere e prevenire le cause, che sono sotto gli occhi di tutti, delle morti e dei dolori e dei costi di ieri, di oggi, di domani e dopodomani.

La cronaca di oggi reca un invito alla ribellione contro un giornale – questo giornale – perché «parla male del governo». È difficile cercar di ragionare con un presidente del Consiglio dei Ministri che scatena il suo uditorio contro due pilastri del sistema politico, non solo di quello italiano: la libertà di opinione, incluso il sacrosanto diritto di critica della libera stampa e la funzione di supremo garante del nostro ordinamento svolta dal presidente della Repubblica. È una violenta semplificazione del sistema fondato sulla separazione dei poteri fondamentali e sulla gelosa tutela dei diritti sanciti dalla Carta costituzionale, sottratta per definizione alle turbolenze della politica quotidiana. Di questo attacco, indiscutibilmente eversivo, vorremmo qui esaminare pacatamente l´unico argomento su cui si regge, che è questo: l´eletto del popolo, chi possiede la maggioranza del consenso popolare, non deve essere criticato né può sottostare alle regole dei normali cittadini. Chi lo critica o lo ostacola boicotta il paese intero che lui incarna per effetto dell´investitura popolare. Da tempo in Italia si fa un uso quotidiano, aggressivo ma anche fastidiosamente lamentoso e piagnucoloso del principio di maggioranza. Si dice: la maggioranza parlamentare ha il diritto di governare . Il governo è l´espressione della maggioranza degli elettori, dunque le leggi varate dalla maggioranza non debbono essere ostacolate dalle minoranze. I ministri rivendicano il diritto-dovere di comandare e di essere obbediti. Un preside di scuola non obbedisce al ministro della Pubblica istruzione? Un magistrato applica una sentenza e consente la sospensione delle cure a un malato terminale? Ecco fioccare dalla maggioranza disobbedita ispezioni, minacce, ritorsioni. E il principio è sempre quello: gli eletti del popolo rappresentano la maggioranza e non debbono essere ostacolati. La punta massima di questa tendenza è stata toccata dagli avvocati/parlamentari di Berlusconi che hanno sostenuto davanti alla Corte costituzionale che il leader eletto dal popolo è non un primo tra pari ma il primo sopra tutti e perciò sottratto alla legge comune: un principio che solo il papato teocratico del Medioevo tentò di sostenere, sia pure in nome di Dio. Alla ambizione del leader e dei suoi corrisponde un sentimento di frustrazione, un misto di rabbia e di violenza impotente ogni volta che nei campi più diversi, dalla giustizia all´economia, dalla politica alla religione, non si riesce ad applicare il principio dell´incontrastato diritto della maggioranza di comandare. Comandare, non governare. Ci sono minoranze religiose in Italia ma l´unico insegnamento obbligatorio è quello della religione cattolica . C´è un milione di disoccupati ma la maggioranza se la cava bene e di quelli non s´ha da parlare. C´è un giornale che critica e domanda: è un nemico, non si risponde e si chiede di boicottarlo. Il diritto della maggioranza di cancellare la minoranza si declina anche in chiave locale: e così via l´italiano , avanti i dialetti; via dal nord gli insegnanti e i presidi meridionali; via la minoranza degli immigrati, per definizione senza diritti. Intanto la maggioranza si prepara a infliggerci l´obbligo di cure forzate anche per chi vorrebbe avere il diritto di scegliere la sua morte, a saldo del conto livoroso aperto col caso Englaro. Così, passo dopo passo, è tornato in vigore il principio che ciò che vuole il capo eletto dalla maggioranza deve essere legge per il popolo, senza che nessun altro organo dello stato possa opporsi. Come il borghese gentiluomo di Molière, il nostro presidente del Consiglio e i suoi parlano in prosa senza saperlo: una prosa non neoliberale come mostrano di credere gli ossequienti commentatori dell´establishment italiano, ma vetero-dittatoriale. E perché inconsapevoli della lingua che usano , osano sostenere che per l´ideologia neoliberale chi ha avuto l´investitura dal popolo deve comandare senza intralci. Da qui le continue grida di un fastidio volgarissimo anche nei modi (ci vorrebbe altro che Monsignor Della Casa) verso le lentezze del potere legislativo, l´autonomia del potere giudiziario, la funzione di garanzia della Presidenza della Repubblica, la stessa carta costituzionale e la Corte che si ostina - con indubbio coraggio civile - a tutelarla. C´è chi prova a alleggerire la tensione suggerendo di ricorrere al bromuro. Ma queste sono manifestazioni di una sindrome assai più grave di una alterazione di umore individuale: una sindrome che si riassume nell´idea che il capo dell´esecutivo non debba conoscere limiti alla sua volontà in quanto espressione mistica della volontà di tutti. Come ha osservato Hanna Arendt, questa idea si fonda su di una finzione: la maggioranza finge di essere la totalità e facendo di questo la regola di una democrazia senza costituzione, schiaccia i diritti delle minoranze e cancella il dissenso senza nemmeno ricorrere alla violenza. Sono parole da meditare in un paese come il nostro dove dissenso e diritti di minoranza stanno scomparendo silenziosamente e la costituzione è sotto attacco.

In Italia c´è stato chi ha spiegato bene come sia nato e quanti problemi abbia posto il principio di maggioranza: è stato Edoardo Ruffini, autore di un profilo storico del principio maggioritario uscito nel lontano 1927 , mentre il padre suo Francesco Ruffini , maestro del giovane Bobbio, pubblicava i suoi «Diritti di libertà» per le edizioni di Piero Gobetti. Edoardo Ruffini spiegò qui e in altri studi, ripresi e stampati poi tra il 1976 e il 1977, come il principio maggioritario avesse dovuto fare i conti nella sua lunga e non lineare storia col problema della tutela dei diritti delle minoranze, garantiti per esempio nel caso degli Stati Uniti d´America sottraendo le leggi fondamentali all´arbitrio della maggioranza. Le ragioni di quella ricerca si radicavano nella coscienza dell´autore e trovarono un esito nelle sue scelte di cittadino. Per lui i diritti individuali della libera coscienza erano il limite insuperabile da opporre alla dittatura di una maggioranza che tendeva alla soppressione delle minoranze. Edoardo fu, accanto al padre Francesco, uno dei dodici professori che non si piegarono all´infamia del giuramento di fedeltà al regime fascista e persero di conseguenza la cattedra.

Dodici su dodicimila. Una trascurabile minoranza: «sublimato all´un per mille», scrisse la stampa del regime. E il regime, che dal consenso della maggioranza aveva fatto nascere uno stato totalitario, tirò dritto per la sua strada. Oggi sappiamo come finì.

la Repubblica

La leggenda del premier eletto dal popolo

di Ilvo Diamanti

"Presidente eletto dal popolo". Così si definisce Silvio Berlusconi. Sempre più spesso, da qualche tempo. Per rivendicare rispetto dai molti nemici che lo assediano.Ma, al tempo stesso, per marcare le distanze dall´altro presidente. Giorgio Napolitano. Il Presidente della Repubblica. Il quale, al contrario, è "eletto dal Parlamento". Anzi da una parte di esso. Perché Napolitano non è "super partes", ma di sinistra. Come tutte le altre istituzioni dello Stato. Corte Costituzionale e magistratura in testa. Non garanti. Ma soggetti politici. Di parte. Per questo Berlusconi non ne accetta le decisioni, ma neppure il ruolo. In pratica: considera le istituzioni dello Stato – e quindi la Costituzione – inadeguate. Peggio: illegittime. Meno legittime di lui, comunque. Presidente eletto dal popolo.

Queste affermazioni, sostenute a caldo e a tiepido dal premier, dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, si fondano su premesse discutibili, anzitutto sul piano dei fatti. Dati per scontati. Che scontati non sono.

Il primo fatto è che Berlusconi sia un presidente "eletto dal popolo". È quanto meno dubbio. Perché l´Italia non è (ancora) un sistema presidenziale. I cittadini, gli elettori, votano per un partito o per una coalizione. Non direttamente il premier o il presidente. Anche se, dopo il 1994, abbiamo assistito a una progressiva torsione delle regole elettorali e istituzionali in senso "personale". Senza bisogno di riforme. Così, nella scheda elettorale, accanto ai partiti e alle coalizioni viene indicato anche il candidato premier. (Come ha lamentato, spesso, Giovanni Sartori). Tuttavia, non si vota direttamente per il premier, ma per i partiti e gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per questo, non è un presidente eletto dal "popolo". Semmai dal "Popolo della Libertà". Da una maggioranza di elettori, comunque, molto relativa. Alle elezioni politiche del 2008 il partito di cui è leader Berlusconi, il Pdl, ha, infatti, ottenuto il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Intorno a un terzo del "popolo", insomma. Peraltro, prima di unirsi con An, fino al 2006, il partito di Berlusconi era Forza Italia, che non ha mai superato il 30% dei voti (validi). Al risultato del Pdl si deve, ovviamente, aggiungere il 10% (o l´8%, a seconda della base elettorale prescelta) ottenuto dalla Lega. I cui elettori, però, non hanno votato per Berlusconi. Visto che al Nord la Lega ha sottratto voti al Pdl, di cui è alleata e concorrente. E quando ha partecipato al governo (come in questa fase) si è sempre preoccupata di fare "opposizione". Questa considerazione risulta ancor più evidente se si fa riferimento al risultato delle recenti europee. Dove si è votato con il proporzionale e con le preferenze personali. Il Pdl, il partito di Berlusconi, ha infatti ottenuto il 35,3% dei voti validi, ma il 33% dei votanti e il 21,9% degli aventi diritto. Lui, il Presidente, ha personalmente ottenuto 2.700.000 preferenze. Il 25% dei voti del Pdl, ma meno del 9% dei votanti. Il risultato "personale" più limitato, dal 1994 ad oggi.

Tutto ciò, ovviamente, non intacca la legittimità del governo e del premier. Semmai la sua pretesa di interpretare la "volontà del popolo".

D´altronde, si vota una volta ogni cinque anni, mentre i sondaggi si fanno quasi ogni giorno. Per cui, più che sul voto, il consenso tende a poggiare sulle opinioni. Sulla "fiducia". Ma stimare la "fiducia" dei cittadini è un´operazione difficile e opinabile. Che non coincide con il consenso elettorale. Non si capirebbe, altrimenti, perché, se davvero – come sostiene Berlusconi – il 70% degli italiani ha fiducia in lui, alle recenti elezioni europee il Pdl si sia fermato al 35%, la coalizione di governo al 45% e le preferenze personali per il premier al 9% (dei voti validi).

La fiducia, inoltre, è difficile da misurare. Per ragioni sostanziali, ma anche metodologiche. Soprattutto attraverso i sondaggi. Dipende dalle domande poste agli intervistati. Dagli indici che si usano. Alcuni fra i principali istituti demoscopici (come Ipsos di Nando Pagnoncelli e Ispo di Renato Mannheimer) utilizzano una scala da 1 a 10, per analogia al voto scolastico. Per cui l´area della "fiducia" comprende tutti coloro che danno a un leader (o a un´istituzione) la sufficienza (e quindi almeno 6). Oggi, in base a questo indice, circa il 50% degli italiani esprime fiducia nel premier Berlusconi (le stime di Ipsos e Ispo, al proposito, convergono). Mentre a fine aprile, dopo il terremoto in Abruzzo, superava il 60%. Ciò significa che negli ultimi mesi la "fiducia" del popolo nel premier si è ridotta, anche se risulta ancora molto ampia. Tuttavia, anche accettando questi indici, un 6 può davvero essere considerato un segno di "fiducia"? Ai miei tempi, nelle scuole dell´obbligo – ma anche al liceo – era una sufficienza stretta. Come un 18 all´università. Che si accetta per non ripetere l´esame. Ma resta un voto mediocre. Basterebbe alzare la soglia, anche di pochissimo, un solo punto. Portarla a 7. Per vedere la fiducia nel premier (e in tutti gli altri leader) scendere sensibilmente. Al 37%. Più o meno come i voti del Pdl. Con questi dati e con queste misure appare ardita la pretesa del premier di parlare in "nome del popolo". Tanto più che, con qualunque metro di misura, il consenso personale verso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, risulta molto più elevato. Fino a una settimana fa, prima della recente polemica, esprimeva fiducia nei suoi confronti circa l´80% degli italiani, utilizzando come voto il 6. Oltre il 50%, con una misura più esigente: il 7. Lo stesso livello di consenso raccolto dal predecessore, Carlo Azeglio Ciampi. Anche da ciò originano le tensioni crescenti tra il premier e il Presidente della Repubblica. Nell´era della democrazia del pubblico. Maggioritaria e personalizzata. Dove i media sono divenuti lo spazio pubblico più importante. E il consenso è misurato dai sondaggi. Nessuno è "super partes". Sono tutti "parte". Tutti concorrenti. Avversari o alleati. Amici oppure nemici. Anche Napolitano, soprattutto Napolitano. Per la carica che occupa e la fiducia che ottiene. Agli occhi di Berlusconi, impegnato a costruire la leggenda del "presidente votato e voluto dal popolo". Non può apparire amico.

Corriere della sera

Lodo, no dal 72 per cento. Consensi alti al premier

di Renato Mannheimer

Agli italiani, ormai da molti anni, non piacciono — a torto o a ragione — i privilegi concessi agli esponenti politici. Quando, in occasione di tangentopoli, venne revocata l’immunità parlamentare, l’opinione pubblica reagì con soddisfazione. Da allora il «sentimento» è rimasto per molti versi lo stesso. Per questo, non sorprende più di tanto il fatto che, di fronte al quesito relativo ai benefici previsti dal Lodo Alfano, l’ampia maggioranza della popolazione (72%) bocci il provvedimento. In particolare, il 58% dichiara di non condividere «per nulla» la legge in questione: a costoro si affianca il 14% che afferma comunque di condividerla «poco».

Manifesta invece il proprio consenso per la legge poco meno di un italiano su quattro (24%) (è bene ricordare che gran parte dei giudizi espressi dalla «gente comune» sono formulati solamente sulla base della propria impressione, del proprio generico orientamento, senza particolari competenze in campo giuridico o, talvolta, politico).

Risultano particolarmente in disaccordo col provvedimento i più giovani, specie se laureati, i residenti al Nord-Ovest e, in generale, nelle grandi città. Ma il dato più significativo — e inaspettato per alcuni — concerne l’orientamento politico.

Non sorprende, infatti, la grande percentuale di contrari tra gli elettori del Pd e dell’Idv (86%). Ma colpisce il fatto che i votanti per il centrodestra risultino assai più divisi fra loro, tanto da suggerire l’esistenza, di una vera e propria frattura di opinioni al loro interno. Se è vero, infatti, che grosso modo metà degli elettori per la coalizione di governo (45% per il Pdl, 42% per la Lega) manifesta il suo sostanziale accordo col provvedimento, è vero anche che una percentuale simile (anche se lievemente maggiore: 51%) esprime al contrario perplessità.

Si tratta di una delle rare volte in cui si intravede l’emergere di dubbi diffusi all’interno dell’elettorato di centrodestra su di un provvedimento proposto dal governo. Può essere il segnale del principio di una più generale disaffezione, ma, molto più probabilmente, è solo la reazione isolata ad un singolo provvedimento, i cui contenuti risultano poco condivisi dalla «cultura politica» degli italiani, compresa buona parte dell’elettorato di centrodestra. Insomma, le perplessità paiono riguardare soprattutto il merito della legge in sé. Tanto che il livello di popolarità del presidente del Consiglio non pare essere stato intaccato da quanto è accaduto. Il consenso per Berlusconi, rilevato proprio il giorno dopo gli episodi e le esternazioni seguite alla bocciatura del Lodo, risulta infatti sostanzialmente simile a quanto emerso il mese precedente e rimane poco sotto il 50%.

In definitiva, malgrado tutto — le polemiche, i toni aspri, le proteste — la fiducia popolare nel Cavaliere pare restare assai diffusa (anche se con un lieve decremento rispetto ai livelli raggiunti la scorsa primavera). E’ quantitativamente molto inferiore a quella riscossa dal presidente della Repubblica (che gode del favore dell'88% dei cittadini), ma rimane elevata, tanto da superare ancora oggi quella relativa a molti presidenti del Consiglio del passato. Insomma — sorprendentemente per molti osservatori italiani e stranieri — il Cavaliere continua a mantenere il proprio legame col suo elettorato, anche se si accresce di intensità la disapprovazione nei suoi confronti tra i suoi oppositori. Senza che, tuttavia, il loro numero si sia sin qui ampliato più di tanto.

AdessoBarack Obama andrà in giro per il mondo con quel peso: che lo premia in anticipo, lo lega, lo segna. Il comitato di Oslo non premia un’azione, una carriera compiuta. Premia forze impalpabili eppure decisive come la parola, la speranza suscitata, l’attesa che somiglia a un’enorme sete, il valore attribuito da un leader all’imperio della legge e della Costituzione, più forte di ogni convenienza. Ricompensa uno stile, un essere nel mondo che non è in sintonia con il predominio americano e la sua dismisura, la sua hybris nazionale. Siamo abituati a pensare che la speranza sia poco più di uno scintillio ineffabile, essendo fatta di cose non avvenute, malferme.

Siamo abituati a pensare che la parola, diversamente dall’atto, sia fame di vento. Che ripensare la politica e le sue routine sia vano. Non è così. Abbiamo solo dimenticato che la parola è tutto nei testi sacri che fondano le civiltà, compresa la nostra. Per il Siracide, nella Bibbia, «meglio scivolare sul pavimento che con la lingua», e «un uomo senza grazia è pari a un discorso inopportuno».

Da ora Obama porta questo fardello. Deve ancor più dar senso alla parola, e in primo luogo tenerla. Lui stesso è parso colto da tremore, all’annuncio. Era serio davanti al microfono, come Buster Keaton che non ride mai. Faceva pensare a quei profeti o sentinelle turbati dall’appello, che ammutoliscono o «hanno un gran bue sulla lingua», come nella Bibbia o nell’Agamennone di Eschilo. Ha detto: «Onestamente non credo di meritarlo», intendendo che ancora non è divenuto quello che pure già è - una transformative figure. La notizia lo ha «sorpreso e reso umile», nel Nobel vede non una gratificazione ma una «chiamata all’azione». I premi mettono sempre spavento. Se non lo mettono, più che chiamare lusingano.

La parola che già oggi fa di Obama una figura trasformativa concerne questioni essenziali: la coscienza che la solitaria superpotenza americana è un’impotenza, se non cerca la cooperazione col mondo; l’ascolto dell’altro e la mano tesa giudicati indispensabili, purché a essi non si opponga il pugno che non s’apre. E ancora: inutile provare a fermare gli Stati aspiranti all’atomica, quando il nucleare è l’unico passaporto di potenza e quando i Grandi non cominciano da se stessi, riducendo i loro esorbitanti arsenali. Anche questo cambiamento ha risonanze bibliche. Dice ancora il Siracide: «Quando un empio maledice un avversario, maledice la propria psiche». Inferni e assi del male non sono fuori: vedere anche in se stessi il male che suscita caos è inizio di conversione e guarigione.

Obama non fa discorsi facili, è un comunicatore ma non un semplificatore: il suo discorso sulla razza, a Philadelphia il 18 marzo 2008, il discorso al Cairo del 4 giugno 2009 e quello del 17 maggio 2009 all’università cattolica di Notre Dame in Indiana, il discorso infine su clima, disarmo nucleare e multilateralismo, all’Onu il 23 settembre, non sono lisci, non hanno due colori, uno puro e uno impuro. Neppure la chiusura di Guantanamo è facile e ancor meno la rinuncia agli antimissili in Est Europa, che mette fine alla strategia del divide et impera nel Vecchio Continente e sicuramente urta il complesso militare-industriale Usa. Sono discorsi che educano alla complessità, e a vedere le cose da più punti di vista, non uno solo.

I cambiamenti decisivi esordiscono così: dalla parola e dallo sguardo su di sé. Non eravamo avvezzi a questo con i presidenti Bush, con Reagan e Clinton. Paziente, ostinato, Obama tenta di far capire che la potenza Usa non ha il destino manifesto che la mette sopra le altre e ne fa un’eccezione, «città sulla collina» come nel messianesimo politico teorizzato nell’800. Il punto da cui parte è il precipizio: il declino della supremazia Usa dopo la fine dell’Urss, in politica ed economia; il dominio non solo contestato ma inefficace. Come gli europei presero atto che la hybris nazionalista aveva prodotto mostri, e dopo il ’45 escogitarono l’Unione per recuperare in Europa le perdute sovranità nazionali, Obama scopre che sovrano è chi può far seguire l’azione alla parola, non opera da solo, calcola le conseguenze di quel che fa. A cominciare dalla guerre: quella finita in Iraq, e quella che stenta a finire in Afghanistan. Anche qui il Nobel è fardello. Difficile l’escalation chiesta dai militari, con un sacco sì ingombrante da trascinare.

Ma c’è anche qualcosa di conturbante nel Nobel, di ominoso. Il premio è come dato in grande fretta, come se non vi fosse molto tempo e occorresse lanciare un segnale subito. A circondare Obama infatti non ci sono solo attese, speranze. C’è, sempre più acuta, un’immensa fragilità, se non un pericolo che incombe. Thomas Friedman ha scritto un articolo impaurente, il 29 settembre sul New York Times. Racconta di un clima in America che non tollera l’intruso, che trama tribali ordalie: che ricorda, tenebroso, l’atmosfera in Israele prima dell’omicidio di Yitzhak Rabin. Rabin aveva preso il Nobel con Arafat e Peres, nel ’94. L’anno successivo, il 4 novembre, il colono estremista Ygal Amir l’uccise ma alle sue spalle c’era un’opposizione che lo demonizzava da tempo, Netanyahu in testa con il Likud e molti rabbini.

Lo stesso sta avvenendo in America. Nei manifesti ostili e in numerosi discorsi dell’opposizione e di giornalisti astiosi, Obama appare come un alieno comunista, ma secondo l’analista Philip Kennicott è altra la colpa che gli viene imputata: non il socialismo ma il suo essere afro-americano, meticcio, dunque antiamericano (Washington Post 6-8-09). Su Facebook è apparso un sondaggio che chiede se Obama debba o no essere ucciso. Con risposte a scelta tra «sì-no-forse» e «sì, se taglia la sanità».

Tutto questo il Presidente nero non l’ignora. Sappiamo che l’ha messo in conto fin dalla candidatura. Ciononostante insiste: nel voler trasformare il proprio paese, nel dire che da una specie di conversione urge ricominciare. Per questo la parola è tanto importante: perché disturba, scavando. Chi a Oslo ricompensa questa cocciutaggine sembra anche tremare per la sua vita. Chi dice che il premio giunge troppo presto non sa quel che dice e che accade, è cieco alla campagna di odio disseminata negli Stati Uniti.

Obama impersona l’America complicata, che diffida di sé. Non la nazione di Bush che si compiace nel parlar perentorio e approssimativo, ma l’America della grande contorta letteratura, della musica, del cinema, che ragiona sottile e resuscita le parole di John Quincy Adams, il segretario di Stato che nel 1821 dice: «L’America non si avventura nel mondo in cerca di mostri da abbattere. Essa auspica la libertà, l’indipendenza di tutti. È campionessa solo della propria libertà, indipendenza. Si batte per grandi cause con la compostezza della sua parola e la benigna simpatia del suo esempio. (...) Potrebbe divenire dittatore del mondo: non sarebbe più padrona del proprio spirito».

Obama dice spesso che la sua ascesa è frutto di americani come Reinhold Niebuhr, un autore che stima per aver raccomandato al paese non il messianesimo politico ma l’umile consapevolezza dei propri limiti. Solo una cultura di questo genere poteva permeare le svolte del Presidente. Solo in un’America simile, la discendente di un’adolescente schiava nera stuprata da un padrone bianco poteva divenire first lady degli Stati Uniti.

I gesti e la parole possono molto. Creano storie e cammini nuovi. Willy Brandt che il 7 dicembre 1970 cade d’un tratto in ginocchio di fronte al memoriale del ghetto distrutto di Varsavia non aveva ancora riconosciuto la linea Oder-Neisse tra Germania e Polonia. Quel gesto cambiò tutto, prima che lo scabro itinerario cominciasse. Così Obama a Philadelphia, al Cairo, a Notre Dame, all'Onu.

Prendete un luogo benedetto dagli dei, in questo caso una valle pedemontana, che si snoda magnifica tra colline, ulivi, vigneti, boschi e pascoli. Piantateci un'industria impattante, in questo caso un cementificio con la sua brava miniera di marna per la materia prima. Non succede niente. Sono gli anni '60, la gente emigra ancora dalle campagne, la fabbrica viene accolta con gioia perché significa occupazione, lavoro, sicurezza del pane.

Mettete quella stessa situazione quasi cinquant'anni dopo, cioè adesso. Il cementificio è ancora lì, la "coltivazione" di marna s'è mangiata le colline dietro alla fabbrica, il filone si sta esaurendo e gli impianti della cementeria sono diventati obsoleti. Pronti, richiesta di ammodernamento e richiesta di concessione per una nuova "coltivazione", da iniziarsi in una delle oasi naturalistiche della zona, di cui buona parte è inserita in un parco naturale. Stavolta qualcosa succede, non c'è più fame, c'è un'altra sensibilità per il territorio e per i suoi prodotti di pregio. La gente protesta, fa petizioni, ricorsi, manifestazioni, l'ultima proprio oggi, in mattinata.

Perché il territorio da salvare è nientemeno che la Valpolicella, zona di produzione di vini di eccellenza, il rosso doc, il Recioto, l'Amarone. Vini che non solo hanno deliziato e deliziano i palati di mezzo mondo ma hanno costruito negli anni un'economia di pregio, legata anche alla gestione intelligente di una valle che, seppur selvaggiamente urbanizzata, resta una delle perle della provincia di Verona.

Fumane è un paese di circa 4.000 abitanti e sorge all'imbocco della cosiddetta "Val dei Progni", che, tra strapiombi e torrenti (progno è il nome dialettale che indica un piccolo corso d'acqua), sale verso Molina e il Parco delle Cascate, una delle meraviglie del Parco Naturale Regionale della Lessinia. Proprio qui, dove la strada comincia a salire, nel 1962 inizia la propria attività la Cementi Verona S.p.A., oggi Industria Cementi Giovanni Rossi S.p.A., che produce e vende leganti idraulici. Allora la strada principale del paese non aveva costruzioni ai lati e l'Amarone era un vino gustato da pochi eletti. Nel corso degli anni Settanta il cementificio viene ampliato e dotato di un secondo forno, viene aggiunto un nuovo mulino per il cemento e, nei primi anni Ottanta, mentre il costo del petrolio continua a crescere, si introduce il carbone come combustibile. Il cementificio ha circa cento dipendenti, con un indotto di altre centocinquanta persone, cifra occupazionale tuttora invariata. Quello di Fumane non è l'unico stabilimento del gruppo Cementi Rossi, che ha sede a Piacenza. Nella città emiliana ci sono il cementificio principale e il centro di ricerca, l'altro impianto di produzione è a Pederobba (Treviso), dove si bruciano come combustibile 60mila tonnellate all'anno di pneumatici, mentre a Ozzano Monferrato (Alessandria) il forno è disattivo ed è rimasto il centro di macinazione. Nel complesso l'industria è una realtà produttiva di rilievo sul mercato nazionale - l'Italia è il secondo produttore europeo dietro la Spagna - ed è inserita, attraverso la compartecipazione con Holcim, multinazionale di cementi e aggregati (da cui Rolcim, società di cui la Cementi Rossi detiene il 40%), sul mercato internazionale.Per quanto riguarda Fumane, non vi è alcun dubbio che il cementificio sia, come scritto nei documenti di presentazione dei recenti progetti, "cittadino della Valpolicella". Nemmeno i relativamente nuovi atteggiamenti verso l'ambiente - che hanno dato vita a due associazioni, "Valpolicella 2000" e "Comitato Fumane Futura", in prima linea nella battaglia per la dismissione dell'industria cementiera - hanno smosso il profondo convincimento di una discreta parte di popolazione. Nel corso del nostro "giro di perlustrazione" a Fumane, una delle maestre della scuola elementare, situata esattamente all'angolo della strada che va al cementificio, con i bambini che giocano in un cortile affumicato dagli scarichi dei camion, ci ha detto che lei abita da quarant'anni in paese e sta benone, «che il cementificio sia nocivo, è tutto da vedere». E, in effetti, come darle torto? La "sbattellata" di concessioni, rinnovi di concessioni e pareri favorevoli dei vari enti locali collezionata dal cementificio, a fronte di domande di ammodernamento che prevedono la costruzione di un camino alto 103 metri con l'utilizzo di 120mila tonnellate di "rifiuti non nocivi" (di cui 80mila tonnellate di ceneri pesanti) nella miscela cementizia, oltre allo scavo di una nuova miniera in zona protetta, danno in tutto ragione all'insegnante poco ecologista.

Il 22 dicembre 1999 il Distretto Minerario di Padova autorizza il rinnovo della concessione mineraria "Monte Noroni" per la durata di 25 anni a decorrere dall'aprile del 2000; il 6 agosto 2009 la Giunta Provinciale, convocata dal vicepresidente Luca Coletto (già condannato con altri cinque leghisti, tra cui il sindaco di Verona Flavio Tosi, per propaganda razzista), esprime «giudizio favorevole di compatibilità ambientale» sul progetto di ammodernamento del cementificio; il 20 agosto 2009 la Giunta Provinciale, convocata dal presidente Giovanni Miozzi (An), esprime «giudizio favorevole di compatibilità ambientale» sul progetto relativo alla «riduzione del consumo di materie prime naturali nel processo produttivo mediante utilizzo di rifiuti non pericolosi»; l'1 settembre 2009 la Provincia di Verona, Settore Ambiente, approva il progetto presentato dalla Cementi Rossi per la riduzione del consumo di materie prime naturali nel processo produttivo, mediante utilizzo di rifiuti non pericolosi e rilascia l'Autorizzazione Integrata Ambientale, esclusivamente per quanto attiene la realizzazione dell'impianto di recupero rifiuti, finalizzata alla durata dell'esercizio provvisorio. Provvede anche, secondo le normative vigenti, a fornire le prescrizioni di legge sul trasporto, stoccaggio e gestione dei suddetti rifiuti.

In realtà il cementificio già da anni utilizza sostitutivi di materia prima in quantitativi ridotti, non «per bruciarli - ci tiene a precisare l'ingegner Pierandrea Fiorentini, responsabile ambientale della Cementi Rossi - anche se lo abbiamo fatto per due anni con le farine animali ai tempi di "mucca pazza". Ora vorremmo smantellare i forni "Lepol" che non sono più attuali e sostituirli con un'unica linea costituita da un forno a cicloni, che riduce le emissioni, soprattutto l'ossido di azoto, ed ottimizza le prestazioni. Siamo consapevoli che l'aspetto paesaggistico è importante e siamo disponibili ad ogni confronto con i soggetti pubblici interessati a minimizzare l'impatto della nuova linea».

Il "confronto" è una vera e propria battaglia senza esclusione di colpi. Sulla barricata gli ambientalisti e le loro associazioni, che chiedono, con una petizione, la «revoca di tutte le autorizzazioni per fermare questo progetto insensato, nocivo ed esclusivamente speculativo», preparando nel contempo una serie di ricorsi e organizzando costantemente iniziative sul territorio. La settimana scorsa erano fuori dal teatro Filarmonico di Verona, dove si svolgeva la 28a edizione del prestigioso "Premio Masi", azienda vitivinicola di proprietà, da sei generazioni, della famiglia Boscaini. Proprio a Sandro Boscaini, attuale presidente di Masi, chiedevano conto, con grandi cartelli che recitavano "Amarone o Rifiuti?", "Recioto o Cemento?", della mancata presa di posizione dei viticoltori rispetto ai progetti del cementificio: «Diciamolo chiaramente e sinteticamente - dicono Daniele Todesco, presidente di Valpolicella 2000, e Mimmo Conchi, presidente del Comitato Fumane Futura - la Cementi Rossi deve chiudere il ciclo produttivo. Lo sviluppo dell'economia basata sulla valorizzazione del territorio collide con lo sfruttamento del territorio che, in quella zona, è ormai totalmente fuori posto. Non stanno insieme perché si danneggiano e questo è quanto. Tant'è vero che l'allarme lanciato dal cementificio sull'esaurimento del filone di marna che stanno scavando, motivo per cui hanno chiesto una nuova concessione a Marezzane (vedi box), è strumentale. Vogliono creare allarme occupazionale, il cementificio chiude perché la miniera si è esaurita. Studino invece il modo corretto di uscirne, riconvertendo magari. Intanto potrebbero escludere i rifiuti dal processo produttivo e nel frattempo prepararsi ad una dismissione onorevole». Una proposta forte, su cui il Comune di Fumane, con il sindaco di centrodestra Domenico Bianchi, già amministratore per quindici anni ai tempi della Dc - sostituito poi da una giunta di centrosinistra che ha perso le elezioni nel giugno di quest'anno - dovrebbe avere l'ultima parola: «La precedente giunta - dichiara Bianchi - aveva già chiuso la vicenda dando l'ok del Comune, che sarebbe compensato dal cementificio con la realizzazione di opere pubbliche (la nuova scuola elementare, ndr). Se la Regione dicesse no agli scavi a Marezzane, i discorsi sarebbero già definiti. Per noi la salute dei cittadini non ha prezzo e non ha colore e quindi attualmente ci stiamo prendendo il tempo per riflettere ma potremmo arrivare a pensare ad una consultazione popolare con il coinvolgimento dei Comuni vicini. Le emissioni non si fermano ai confini».

La manifestazione

Una mattina a passeggio per i boschi di Marezzane

Il ritrovo è fissato per le 10.30 a Malga Biancari, in località Girotto (Marano di Valpolicella). Si camminerà sul sentiero, tra prati e boschi, per raggiungere lo straordinario "balcone" panoramico di Marezzane, involontario testimone di tutte le contraddizioni di questo territorio. A monte una corona splendente di montagne e verdi canaloni (vaj), a valle gli scavi e il cementificio. Grazie alle firme raccolte durante la marcia dello scorso anno, Marezzane è diventata uno dei "luoghi del cuore" (iniziativa del Fai-Fondo per l'ambiente italiano) più segnalati d'Italia. Ora la Cementi Rossi (vedi l'articolo sopra) vorrebbe iniziare una "coltivazione" mineraria proprio qui, a ridosso della zona Sic (Sito di Interesse Comunitario) di Molina, punto di congiunzione tra la Valpolicella e la Lessinia. Già oggetto di interrogazioni in Regione (ente che ha la competenza per questo tipo di concessioni) da parte dei consiglieri dell'opposizione Gianfranco Bettin, Gustavo Franchetto e Piero Pettenò, in cui si ricorda che l'ente parco nel 2000 era ricorso al Tar per bloccare gli scavi, Marezzane è un sito di pregio non solo naturalistico, con la presenza di un'area in cui crescono una trentina di specie di orchidee selvatiche. Conserva infatti siti di grande importanza archeologica e paesaggistica. Un paradiso che minaccia di sparire, dove oggi si potrà pranzare e ascoltare buona musica.

Aumenti volumetrici del 10%, rinnovabili, demolizioni e ricostruzioni nel regolamento approvato dal Consiglio dei Ministri

09/10/2009 -Procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità sui beni immobili vincolati. La proposta di regolamento, approvata in via preliminare nel Consiglio dei Ministri di oggi, potrebbe modificare l’articolo 146 del Decreto Legislativo 42/2004, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.

Obiettivi: L’iniziativa giunge dopo il fallimento del decreto legge governativo sul Piano Casa, mai approvato a causa dei contrasti con gli enti locali.

Pur non apportando le liberalizzazioni previste dal piano per il rilancio delle costruzioni attraverso l’aumento delle cubature e gli interventi di edilizia libera, vengono proposte diverse semplificazioni e tipologie di intervento. Data la vastità dei territori assoggettati a vincolo paesaggistico, è stato infatti rilevato come ogni anno le migliaia di istanze presentate riguardino interventi di lieve entità, che costituiscono il 75% delle domande totali di autorizzazione paesaggistica. La conseguenza è la congestione degli uffici degli enti locali, e delle soprintendenze, che hanno funzioni di codecisione nel procedimento autorizzatorio.

Riduzione dei tempi: Il regolamento si propone un generale snellimento delle procedure. I tempi per il rilascio dell’autorizzazione potrebbero ridursi da 105 a 60 giorni. E' previsto infatti lo screening immediato delle istanze per decidere se l'intervento possa essere sottoposto a procedura ordinaria o semplificata. Al momento la verifica da parte dell’ente locale impegna 40 giorni, il parere della Soprintendenza ne impiega 45, mentre sono necessari 20 giorni per l’emanazione del provvedimento definitivo.

Con la nuova norma, invece, l’ente locale dovrebbe pronunciarsi entro 30 giorni. Il procedimento si bloccherebbe poi automaticamente nel caso di un suo parere negativo. La Soprintendenza potrebbe esprimersi in 25 giorni. Nettamente ridotta inoltre la predisposizione del provvedimento finale, con un tempo che passerebbe a 5 giorni.

Snellimento burocratico: Necessari meno documenti, che potrebbero anche essere presentati per via telematica, con un notevole alleggerimento degli oneri a carico dei privati. Le pratiche allo sportello potrebbero invece restare per le imprese industriali e artigiane. Le istanze dovrebbero essere corredate solo da una relazione paesaggistica semplificata, redatta dal professionista sulla base di una scheda-tipo, contenente l'attestazione di conformità dell'intervento alla disciplina del paesaggio e alla vigente normativa urbanistica.

Interventi ammessi: Tra gli interventi di lieve entità rientrano l’installazione di antenne paraboliche, pannelli solari e fotovoltaici, oltre che l’adeguamento alle misure antisismiche.

Possibili anche gli incrementi volumetrici fino al 10% e non oltre i 100 metri cubi, le demolizioni e ricostruzioni nel rispetto della sagoma e della volumetria precedente, gli interventi su porte, finestre e coperture, l’eliminazione delle barriere architettoniche, la realizzazione o modifica di autorimesse pertinenziali, tettoie, pensiline e gazebo.

Nelle disposizioni rientrano anche i lavori pubblici di piccola entità, come arredi urbani, adeguamento della viabilità e allacci alla rete elettrica e telefonica su pali di altezza non superiore ai 6 metri.

Se approvato in via definitiva, il regolamento potrebbe superare le previsioni delle leggi regionali per il rilancio dell'edilizia, che già prevedono aumenti delle cubature e procedimenti più o meno aggravati per il rilascio delle autorizzazioni nelle aree sottop

Qui anche i documenti citati

Massimo Giannini La notte della Repubblica

Sappiamo bene che la notte della Repubblica berlusconiana è appena agli inizi. E sappiamo altrettanto bene che, con il Cavaliere, a scommettere sul peggio non si sbaglia mai. Ma vorremmo rassicurare il presidente del Consiglio: non c’è bisogno di aspettare il prossimo strappo costituzionale, o la prossima intemperanza verbale, per vedere «di che pasta è fatto», come minaccia lui stesso. L’avevamo capito da un pezzo.

Abbiamo avuto una prima conferma due sere fa, subito dopo la sentenza che ha bocciato il Lodo Alfano, con le accuse infamanti contro Giorgio Napolitano. Poi una seconda conferma ieri sera, con il farneticante documento del Pdl che rilancia le accuse incongruenti contro la Consulta. A lasciare basiti non è solo la violenza politicamente distruttiva degli attacchi contro tutti gli organi di garanzia: presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, giudici ordinari. Ma è anche e soprattutto la valenza tecnicamente "eversiva" del ragionamento con il quale il premier (purtroppo sempre insieme ai docili maggiorenti del suo partito) sta delegittimando, in un colpo solo, le tre più alte magistrature della Repubblica. Di fronte a tanta irresponsabilità, conforta il comunicato col quale i presidenti di Camera e Senato hanno fatto quadrato intorno al Quirinale. Ma questo atto dovuto (voluto fermamente da Fini e a quanto si racconta subito passivamente da Schifani) non basta a ridimensionare la portata di uno scontro istituzionale inaudito e pericoloso.

Le parole che Berlusconi ha pronunciato l’altro ieri, prima in strada poi in diretta televisiva, andranno studiate a fondo. Servono a comprendere la vera essenza del moderno populismo plebiscitario che, in nome di un suffragio universale trasformato in ordalia personale, snatura lo Stato di diritto perché uccide, allo stesso tempo, sia lo Stato che il diritto. La prima affermazione del Cavaliere è la solita invettiva anti-comunista. «Napolitano, voi sapete da che parte sta... Poi abbiamo giudici della Corte costituzionale eletti da tre Capi di Stato della sinistra che fanno della Corte non un organo di garanzia ma un organo politico». Ma quando, poco più tardi, il presidente della Repubblica replica che lui «sta dalla parte della Costituzione», scatta l’escalation del premier: «Non mi interessa quello che dice Napolitano. Io mi sento preso in giro e non mi interessa, chiuso».

Quel «preso in giro» non può passare inascoltato. Infatti più tardi (nel confortevole salotto di Porta a Porta, dove il beato cerimoniere Bruno Vespa non si degna neanche di difendere Rosy Bindi dagli insulti da trivio del premier e di un inqualificabile Castelli) il Cavaliere rincara la dose dei veleni. «Su Napolitano ho detto quello che penso: non ho nulla da modificare sulle mie dichiarazioni che potrebbero essere anche più esplicite e più dirette». Un’allusione tanto vaga quanto pesante. E poi: «Il presidente della Repubblica aveva garantito con la sua firma che la legge sarebbe stata approvata dalla Consulta, posta la sua nota influenza sui giudici di sinistra della Corte». Vespa, ossequioso, tace. Parla il leader dell’Udc Casini, per fortuna: «È un’accusa inaccettabile nei riguardi di Napolitano». Ma il premier non arretra. Anzi, porta il colpo finale: «Non accuso il capo dello Stato, prendo atto di una situazione in cui c’erano certi suoi comportamenti e sappiamo tutti quali relazioni intercorrano tra i capi dello Stato e i membri della Consulta. Sono da anni in politica, so quali siano i rapporti che intercorrono».

Con questa micidiale miscela di allusioni e intimidazioni (indegnamente condita dalla ridicola accusa del Pdl alla Consulta per aver «sviato l’azione legislativa del Parlamento») si celebra la negazione della democrazia liberale. Non si scherza sulla pelle delle istituzioni repubblicane. Se Berlusconi è a conoscenza di trattative politiche avvenute sottobanco tra i palazzi del potere intorno al Lodo Alfano, ha il dovere di denunciarle con chiarezza, raccontando fatti e facendo nomi e cognomi davanti al Parlamento e al Paese. Ma poiché, con tutta evidenza, non ha in mano nulla se non il suo disperato furore ideologico, allora ha il dovere di tacere, e soprattutto di chiedere scusa. Ma non lo farà. Le sue parole dissennate tradiscono la sua visione "originale" e del tutto illiberale del costituzionalismo democratico.

Nello schema del Cavaliere, Napolitano (o perché aveva promulgato a suo tempo lo scudo salva-processi per il premier o perché gli aveva «promesso» riservatamente non si sa cosa) avrebbe dovuto fare ciò che la Costituzione gli vieta: interferire nella decisione dei giudici della Consulta, convincendoli a dare via libera al Lodo Alfano. Avrebbe dovuto, lui sì, chiedere ai giudici una «sentenza politica», che violasse apertamente la legge con l’unico obiettivo di proteggere il «sereno svolgimento» della legislatura. In questa logica, aberrante, non esiste la «leale collaborazione» tra istituzioni, ma il banale "collaborazionismo" tra complici. Non esistono il "nomos", le regole, la divisione dei poteri e il "check and balance". Esistono l’anomia, l’arbitrio, la potestà illimitata del leader consacrato per sempre dall’investitura popolare. Non esistono organi di garanzia sovrani e indipendenti, che decidono autonomamente, ciascuno nel proprio ambito e secondo i principi sanciti dalla Carta fondamentale. Esistono solo semplici emanazioni del potere esecutivo, che condiziona le altre istituzioni e comanda, in un meccanismo di pura cinghia di trasmissione, il legislativo e il giudiziario.

Quali altre estreme forzature del quadro politico-istituzionale dobbiamo attenderci, nei prossimi giorni e nei prossimi mesi? Quale piano inclinato sta prendendo, questa anomala democrazia italiana dove l’"autoritas" del Principe rivendica il primato indiscusso sulla "potestas" delle istituzioni? Già si evocano nuove riforme della giustizia da usare come una clava contro i magistrati, e magari come ennesimo trucco "ad personam" per fermare qualche processo. Viene in mente Ehud Olmert che, sospettato per corruzione, si dimette dicendo: «Sono orgoglioso di aver guidato un Paese in cui anche un primo ministro può essere indagato come un semplice cittadino». Ma l’Italia non è Israele. Il coraggio dei giudici della Consulta, la tenuta del presidente della Repubblica, la tenacia del presidente della Camera, rappresentano una speranza. Ma non nascondiamocelo: il Potere, quando non vuole riconoscere che la democrazia è limite, fa anche un po’ paura.

Disastro Italia

Tommaso Cerno

Fango e morte potevano colpire dovunque. Le case di Giampilieri sono le case di tutta Italia, così come le vittime dell'alluvione di Messina. Non solo in Sicilia poco o nulla è stato fatto per prevenire la seconda, tragica frana in meno di due anni. Ora sappiamo che quel disastro potrebbe ripetersi. In ogni momento, in ogni angolo del Paese. Lo sussurrano dalla Calabria all'Umbria, dalla Toscana al Piemonte, molti sindaci che ormai quando piove non dormono nemmeno più. E lo conferma l'ultimo rapporto nazionale sul rischio frane e alluvioni, redatto dalla Protezione civile e da Legambiente nello scorso novembre. È tutto scritto in ottanta pagine che non lasciano dubbi: "Sono ben 5.581 i centri abitati a rischio idrogeologico", denuncia il dossier. Significa che il dramma di Messina poteva capitare nel 70 per cento dei Comuni, in montagna o in pianura, nelle metropoli o nei piccoli paesi sparsi sulla pedemontana. Non è finita qui: "Spesso le opere di messa in sicurezza si trasformano in alibi per continuare a costruire". Ovvero molti cantieri, spacciati dalle amministrazioni locali per "manutenzione dei bacini", coprono le speculazioni edilizie lungo fiumi e torrenti. Proprio nella "zona rossa", quella a più alto rischio di calamità naturali.

E così le immagini della Sicilia fanno ancora più rabbia. Perché stavolta la distesa indistinta di fango, l'acqua nera che porta via tutto, le urla dei superstiti che chiedono aiuto nel buio della notte, i cadaveri allineati a terra e avvolti da coperte e teli di plastica, si potevano davvero mettere in conto. L'ha detto anche Silvio Berlusconi agli sfollati, in mezzo a tronchi, cemento, mattoni e carcasse di auto: "Avevamo previsto il disastro". Quello che il premier non ha spiegato, invece, è quanto fosse facile quella previsione. L'indagine 'Ecosistema rischio' era stata presentata dal capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, meno di un anno fa. Eccola. Contiene la classifica dei Comuni a rischio inondazione, l'elenco dei pericoli per gli abitanti, il conteggio ufficiale dei ritardi imputabili a governatori e sindaci. Si legge che la Sicilia è ultima nella graduatoria della prevenzione, con l'8 per cento di interventi adatti a mitigare l'allarme idrogeologico. Sembra un presagio del disastro che ha spazzato la costa orientale, dove i turisti di solito si godevano i Giardini Naxos. In quel dossier c'è Giampilieri e c'è quel che resta di Scaletta Zanclea. Ma c'è anche molto altro: "Dei quasi 1.500 Comuni monitorati, il 77 per cento mostra abitazioni minacciate da frane e alluvioni, quasi il 30 per cento ha interi quartieri esposti e oltre la metà vede sorgere in zone non idonee fabbricati industriali", spiega il rapporto.

Un allarme nazionale che, ancora una volta, è rimasto inascoltato. La Corte dei conti lo conferma in una relazione del 6 aprile scorso, dove parla di "anomala lentezza" ed evidenzia un "mancato o tardivo avvio degli interventi pur in presenza di specifici finanziamenti". Carenze e degrado non della sola Sicilia, ma diffusi in tutto il Paese. Gli amministratori si difendono agitando le richieste di "stato di calamità naturale" dopo le continue frane degli ultimi 15 anni. Che responsabilità hanno loro? Eppure un colpevole sembra esserci. È il cemento selvaggio, che ha l'effetto di una bomba inesplosa. Speculazioni, che il nuovo piano casa del governo Berlusconi farà proliferare, anziché ridurre. Gli scempi vanno da Nord a Sud. Interi quartieri pagati con i fondi anti-alluvione risultano edificati in aree ad alta pericolosità. In Liguria come in Calabria sono spuntati edifici dove non si sarebbe dovuto gettare nemmeno un metro cubo di cemento. Non sono casi isolati: "Il 73 per cento dei Comuni ha realizzato opere di messa in sicurezza di corsi d'acqua e dei versanti, che però rischiano di accrescere la fragilità del territorio piuttosto che migliorarne la condizione", osservano i tecnici. Il resto lo fa il maltempo, come un detonatore. I temporali autunnali, improvvisi, sono ormai forti come uragani. È capitato lungo i sette chilometri di litorale fra Messina e Catania, così come era già successo altre volte nelle vallate alpine e nelle città d'arte. Piovono anche 200 millimetri l'ora, quando in un anno il totale dovrebbe essere di 800. E quell'acqua si accumula come dietro una diga: il terreno non assorbe più, gli alberi non la trattengono e lei, viscida e scura, trascina via tutto ciò che incontra, come a Giampilieri.

E come potrebbe capitare altrove: "Un Comune su quattro non fa praticamente nulla per prevenire i danni da alluvione, nel 42 per cento dei casi non viene svolta nemmeno la manutenzione ordinaria dei corsi d'acqua", dice il rapporto. Solo cinque sindaci su cento hanno ordinato di spostare le case: praticamente nessuno. Genova, Casale Monferrato, Napoli, Palermo, Carnia o Valtellina... È un viaggio nell'Italia delle quotidiane leggerezze burocratiche e delle colpevoli omissioni. Storie di ordinaria follia edilizia. C'è il supermercato sul fiume Pescara, il centro commerciale Megalò a Chieti Scalo (costruito su un'area definita "altamente pericolosa" dalla stessa Regione che aveva concesso l'autorizzazione solo cinque mesi prima). Ma c'è anche Crotone: dopo che nel 1996 il fiume Esadro allagò la cittadina e fece sei morti, si ricostruì sulle macerie. Più di prima. Quattro anni dopo, il fango travolse un campeggio nell'alveo del fiume Beltrame a Soverato. Altre 13 vittime. Chiunque avrebbe deciso di spostare quei centri da un'altra parte, "delocalizzarli", come da giorni va ripetendo Bertolaso. E invece no: trionfano cemento, centri direzionali, mega-market, bar, casermoni, negozi e parcheggi multipiano. "Pur sapendo che i fiumi tornano a colpire nello stesso luogo anche più volte negli anni", avvertono gli esperti. E che la paura dell'alluvione non sparirà dalla memoria dei superstiti, pronta a riemergere quando non te l'aspetti.

Legambiente lo aveva denunciato già 16 mesi fa, nel rapporto choc 'E se piovesse come allora?', a dieci anni esatti dalla tragedia di Sarno, il 5 maggio 1998, quando la montagna travolse interi paesi, seppellendo 160 persone sotto il fango. Eppure in Italia nemmeno questo basta. Si costruisce ancora senza regole, segnala la Corte dei conti. "Emergono non poche perplessità", scrivono i magistrati contabili riferendosi ai lavori di sistemazione di alvei e versanti mai appaltati dal lontano 2002. "Risulta ovvio chiedersi come possano essere considerati urgenti interventi che, a distanza di anni, non sono stati nemmeno avviati". Senza parlare di quelli ancora in fase di progettazione e di quelli abusivi. Addirittura nella stessa Sarno, pochi giorni dopo la frana si scavavano le fondamenta di una casa non autorizzata. Un'altra era già in costruzione nel luogo dove c'era stata la prima vittima, un bambino. E l'elenco è lungo, come quello dei morti che produce. Al Vallone di Santa Lucia, anche questo considerato ad alto rischio esondazioni, sono spuntate palazzine irregolari, una addirittura sulla sorgente già utilizzata in passato dalle ecomafie come deposito di rifiuti.

È una cronistoria di illeciti che torna tragicamente di attualità. Sia nelle tre regioni italiane dove il 100 per cento dei comuni è classificato "a rischio" (Calabria, Umbria e Valle d'Aosta). Sia in quelle dove l'allarme riguarda l'80 o il 90 per cento dei centri abitati. Solo in quattro (Trentino Alto Adige, Veneto, Puglia e Sardegna), infatti, almeno la metà degli edifici non corre pericoli. Equivale a dire che in Italia dovrebbero essere svuotati da abitazioni, insediamenti produttivi, attività agricole circa 30 mila chilometri quadrati, se si vorranno scongiurare altre Messina. È un'area vasta quanto Lombardia e Liguria insieme, e sempre più in emergenza man mano che aumenta l'intensità delle piogge (cresciuta del 5 per cento nell'ultimo secolo). Dal disastro di Sarno ad oggi, i morti sono stati oltre trecento e i danni causati dall'acqua ammontano a una decina di miliardi di euro. Eppure secondo i calcoli del ministero dell'Ambiente di soldi ne servirebbero molti di più. Per mettere in sicurezza l'intero territorio ci vorrebbero 43 miliardi, di cui 27 diretti al Nord e al Centro, 13 al Sud e tre sulle coste. Fondi che a bilancio non ci sono e che, anche quando c'erano, non venivano spesi bene. "Sono 787 le amministrazioni che risultano svolgere un lavoro di prevenzione del rischio idrogeologico negativo". Equivale a due terzi dei comuni monitorati. I virtuosi? "Solo quattro in tutta Italia raggiungono la classe di merito ottimo", spiegano alla Protezione civile. Con casi che hanno dell'incredibile. A Genova il torrente Bisagno è coperto nel tratto finale, e sopra ci passa viale Brigate Partigiane. È da lì che le acque invasero la città durante l'alluvione del 1970, la 'Dolcenera' che uccise 44 persone. Bene, il Comune sta spendendo 170 milioni per aumentare la portata di quelle condotte sotterranee, "eppure a monte, dove il torrente non ha spazio per defluire, si continua a edificare". A La Spezia, a pochi chilometri dalla foce del Magra, il rapporto punta l'indice contro l'Anas, che progetta uno svincolo stradale. E gli esempi sono centinaia.

Anche il Tevere resta in emergenza dall'alluvione del dicembre 2005 che, oltre all'Umbria, aveva messo in allarme Roma e Fiumicino. Si è arrivati al 2008, quando la piena di dicembre mobilitò i soccorsi nella capitale. Così, a gennaio sono partiti il piano di pulizia, il censimento delle strutture galleggianti e il nuovo rilievo dei fondali. Che non sono ancora terminati. In Valle d'Aosta, invece, sono stati investiti 500 milioni in opere di canalizzazione, anche qui fra le polemiche, come nel caso del torrente Comboè. A pochi mesi dalla sistemazione delle sponde, "i vigili urbani furono costretti a chiudere due strade dopo una forte pioggia durata una sola notte".

E avanti così. Dei venti capoluoghi italiani, diciassette sono considerati a rischio idrogeologico dal ministero e dell'Unione delle Province, già dal 2003. Tutti tranne Venezia, Trieste e Bari. Una sola cosa sembra funzionare bene: i soccorsi. La Protezione civile ha sedi e mezzi capaci di arrivare dappertutto. Otto sindaci su dieci hanno varato un piano per le emergenze. Peccato che, quando i volontari si mettono al lavoro, ci siano già morti da seppellire e sfollati da sistemare nelle tende o negli alberghi. Come a Messina. E chissà ancora dove.

Cemento boomerang

Marco Guazzetti

In Sicilia fondi irrisori per la difesa. E spesi spesso per barriere pericolose. Come la muraglia che minaccia un paese ma protegge l'azienda del sindaco

Lo scaricabarile corre più veloce dell'onda di fango che ha cancellato i palazzi del messinese, uccidendo almeno venticinque persone e facendone scomparire altre dieci sotto montagne di detriti. Prima ancora che il problema dei fondi, dei miliardi necessari per risanare regioni ferite dal disboscamento e dalle colate di cemento, viene la questione delle competenze. Prima ancora di individuare le zone a rischio, in Italia bisogna scoprire chi se ne deve occupare. E nel rispetto di quali regole. La pianificazione, il controllo e la tutela sono affidati a Stato, Regioni e Comuni, Genio e Protezione civile. E fanno tutti a gara l'uno contro l'altro. Oggetto del contendere i Pai, i piani per l'assetto idrogeologico. Tocca ai Comuni scriverli. Ma non ci sono i quattrini per realizzarli. Dichiarazioni del premier Berlusconi a parte (per l'emergenza Sicilia ha promesso una "somma analoga" a quanto dato all'Abruzzo), l'unica riserva finanziaria per cercare di puntellare la penisola potrebbe venire l'Unione Europea. In Sicilia gli unici interventi concreti sono stati resi possibili proprio dai fondi della programmazione comunitaria. Con la prima tranche (2000-2006) è stato finanziato un piano di assetto idrogeologico che conta su 107 bacini. Per ognuno c'è un accurato piano di stralcio, indicando criticità e stima dei fondi necessari. Sono quasi tutti pronti. Da due anni, però, il vuoto. Non ne vengono preparati quasi più: quelli approvati dalla giunta regionale si contano sulle dita di una mano. La leva finanziaria è comunque partita. In questi anni in Sicilia sono stati investiti quasi 180 milioni di euro, garantendo una copertura pari al 72 per cento del territorio regionale. Una somma di pari importo, in arrivo sempre da Bruxelles, verrà spesa da qui al 2013. Fa parte di un maxi finanziamento per la difesa del territorio: 801 milioni di euro. I soldi andranno spalmati nei prossimi quattro anni. Basteranno? No, sono solo un'aspirina per la Sicilia, regione dove, proprio grazie al lavoro della task force del Pai (54 tra geologi e ingegneri, tutti precari, che vedono il loro contratto rinnovarsi di triennio in trienno), sono state censite 21.249 zone di dissesti.

Che il meccanismo non funzioni correttamente emerge a chiare lettere proprio dai piani. Impossibile finanziare tutti i Comuni. Soltanto per il torrente Timeto servirebbero 23 milioni di euro. Non sempre, poi, le richieste sono chiare. Nel compilare le tabelle del fabbisogno finanziario, i tecnici regionali annotano come gli elaborati di molti Comuni si distinguano per "poca attendibilità nella qualificazione contenuta della scheda".

Leggere i piani dopo la catastrofe provoca grande amarezze. Perché quelle schede testimoniano un disastro annunciato. Tra le carte del Pai siciliano è impossibile rintracciare Giampilieri (vedi box a pag. 47). Eppure, dopo l'allarme per la frana di due anni fa, il Genio civile di Messina ha proposto un progetto da 11 milioni di euro ma con ordinanza commissariale ne sono stati stanziati appena tre. La spesa s'è fermata a soli 45 mila euro: è stata realizzata come unica barriera di protezione una rete metallica di contenimento e un corridoio di mattoni. Una rete e un muretto per cercare di frenare un'intera montagna, che infatti l'ha spazzata via. I rischi di Scaletta Zanclea, invece, sono cristallizzati nel piano regionale numero 102. Risale al 2006. Trenta le aree di rischio individuate nel comune, quattro le indicazioni R4, massimo grado di rischio per dissesto idrogeologico. Proprio in quel documento, che descrive l'area compresa tra il bacino del torrente Fiumedinisi e Capo Peloro, sono raccolte le immagini di Scaletta prima dell'Apocalisse. Vengono fissate delle precise richieste del Comune, proprio per rendere sicuri quei borghi ora sepolti dal fango: si chiedono 12, 8 milioni di euro. Ma viene ammessa una spesa di poco più di un milione. "Alle parole devono seguire fatti. I piani non bastano", spiega con amarezza Anna Giordano, responsabile del Wwf, "e mi chiedo quale credibilità abbia oggi che si scaglia contro il partito del cemento ma prima ha chiuso gli occhi. Qui sono capaci di realizzare un aeroporto sul letto di una fiumara".

Sono molti tra gli ambientalisti a temere che i Pai divengano armi improprie per ferire ancor di più montagne e fiumi. Il Wwf lancia il suo j'accuse proprio da Fiumedinisi, in provincia di Messina. Lì il primo cittadino è Cateno De Luca, deputato regionale del Movimento per l'Autonomia, partito del presidente Lombardo. Le associazioni hanno inviato alla Procura di Messina un esposto corredato da un dossier fotografico: spiegano che i fondi per il rischio idrogeologico sarebbero stati utilizzati per realizzare una muraglia di cemento armato.

Una barriera di 700 metri di lunghezza per 10 di altezza, definita inutile per bonificare il territorio. All'inizio anche la Regione aveva stoppato il progetto, ipotizzando violazioni allo schema originale. Ora il muro è quasi completo: sorregge una zona destinata alla creazione di ville residenziali e soprattutto protegge un centro benessere in fase di costruzione. Di chi è quel centro benessere? Appartiene alla Dioniso srl e sarà realizzato grazie a un contratto di quartiere siglato nel 2006 con la Regione. Fino a un anno e mezzo fa proprio Cateno De Luca deteneva il 70 per cento delle quote di Dioniso. E ora il sindaco e deputato regionale difende a spada tratta le scelte sulla prevenzione: per sbloccare il progetto, ha spiegato che l'argine serve a difendere il paese dalle esondazioni. Aspettando la prossima piena, tutti sanno che non è così. Il muro è stato costruito sulla sponda opposta al centro abitato. Prevedono che l'acqua rimbalzerà dritta verso le case. Per tutti sarà un disastro ancora più grave, soltanto i soci della Dioniso resteranno all'asciutto e potranno godersela in tutta bellezza.

Scandalo a Roma a margine dei Mondiali della scorsa estate: violate norme urbanistiche e paesaggistiche. Tra gli indagati anche Giovanni Malagò

ROMA, 8 ottobre 2009 - Era nell’aria: il pm della Procura della Repubblica di Roma, Sergio Colaiocco, aveva nel cassetto da tempo il decreto di sequestro per undici impianti sportivi della capitale. Ieri il Gip Donatella Pavone ha dato il via libera alle richieste della Procura e questa mattina sono stati posti i sigilli da parte della polizia municipale a strutture abusive, ancora in fase di edificazione, nei circoli Roma 70, Polisportiva Parioli tiro a volo, Roma team sport, Polisportiva Città futura. Sigilli, inoltre, anche alle strutture già ultimate nei circoli Acqua Aniene, Cristo Re, Axa Immobil sport, Real sport village, Associazione Agepi, Villa Flaminia, Sport 2000. Erano già stati sottoposti a sequestro gli impianti del Salaria Sport Village, Tevere Remo, Gav New city, Flaminio sporting club. Il gip nelle ordinanze di sequestro ipotizza, a vario titolo, la violazione delle norme urbanistiche, paesaggistiche, per le opere realizzate senza l'intesa con il Comune di Roma che non ha riscosso oneri concessori per circa cinque milioni di euro.

le indagini — Nel mesi scorsi era stato iscritto nel registro degli indagati il Commissario dei Mondiali Claudio Rinaldi. Gli indagati sono ora una trentina: oltre a Rinaldi sono sotto inchiesta i presidenti e responsabili legali dei circoli oggetto oggi di sequestro e tra questi anche il presidente del circolo Aniene e presidente anche del comitato organizzatore dei Mondiali di nuoto, Giovanni Malagò. Quelli posti sotto sequestro sono tutti impianti realizzati con la finalità, in alcuni casi non rispettata, di essere utilizzati per la rassegna iridata. La procura sta indagando, oltre sulle presunte violazioni edilizie contestate oggi, anche su presunti abusi commessi all'epoca della gestione dall'ex Commissario di "Roma 2009", Angelo Balducci, attualmente presidente del Consiglio superiore del lavori pubblici per quanto riguarda la vicenda del "Salaria Sport Village" di Settebagni in cui sono state realizzate, e sequestrate, opere di ampliamento per 160 mila metri cubi con piscine e foresterie.Anche il suo successore Claudio Rinaldi era stato iscritto nei mesi scorsi nel registro degli indagati.

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