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Da quando ricopre la terza carica dello Stato, Gianfranco Fini ha un’aspirazione che lo domina, costante: quella a esser statista oltre che uomo politico, e a scorgere nelle trasgressioni istituzionali di Berlusconi pericoli che lui, anche se solitario, vuol diminuire o combattere. Il suo magistero, come quello di Napolitano, è delicato: egli rappresenta la nazione, non può esser presidente di parte. Ma Fini ha osato molto, ultimamente, fino a praticare quella che Albert Hirschman chiama l’autosovversione: esprimendosi su temi essenziali come l’immigrazione, i diritti civili, il testamento biologico, la laicità. Il libro che ha appena pubblicato (Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989, Rizzoli) conferma una volontà precisa, e il desiderio di pensare la democrazia italiana nel tempo lungo, prendendo congedo dai dizionari delle «parole neoideologiche» e dei luoghi comuni («Il caso di Eluana Englaro ci ha dimostrato in modo eclatante che la politica italiana tende ancora a presentarsi, nei momenti di più aspro confronto, non secondo le linee contemporanee del “fare”, ma secondo le linee novecentesche dell’ “essere”, vale a dire le linee in definitiva rassicuranti, ma immobili, dell’ “identità”»).

Proprio perché ha deciso di scandagliare nuovi mari, vorrei porre al presidente una domanda di fondo, attorno a un assioma apparentemente importante che lo guida: se sia giusto, nonché utile, perseguire sistematicamente il Male Minore, nella resistenza al degrado delle istituzioni democratiche. Se davvero la situazione sia così degradata e povera di alternative, da imporre questa classifica dei mali, basata sulle categorie economiche del più e del meno. Nelle dittature la ricerca del male minore è spesso la sola via, anche se non necessariamente la più feconda.

Spesso è un camuffamento per iniziare i recalcitranti; solo di rado ingenera i casi Schindler, che accettò il nazismo salvando 1100 ebrei. Ma nella democrazia? L’economia dei mali è usanza antica, ma ha senso farne un assioma?

L’interrogativo si pone perché tutta la politica italiana, da anni, ruota attorno a questo concetto. L’hanno interiorizzato le opposizioni, svariati giornali, anche la Chiesa. Lo difendono i centristi (nuovi o vecchi): spesso moderati per non-scelta, per calcolo breve, per conformistica aderenza all’opinione dominante. L’ultimo esempio di politica del male minore è quello di Fini nell’incontro col presidente del Consiglio del 10 novembre: per evitare il peggio - la prescrizione rapida, cui Berlusconi assillato dai processi Mills e Mediaset teneva molto - il presidente della Camera gli ha concesso il processo breve, che è una prescrizione camuffata e accorcia i procedimenti con l’eccezione di alcuni reati (non i più gravi d’altronde, essendo escluso anche il reato di clandestinità: «una semplice contravvenzione punibile con banale ammenda», commenta Giulia Bongiorno, deputato, vicina a Fini).

La giustizia lenta affligge gli italiani, ma il rimedio non consiste nel dichiarare che il processo si estingue automaticamente dopo tre gradi di giudizio per la durata complessiva di 6 anni, bensì nell’introdurre preliminarmente le riforme che consentono di abbattere i tempi. Riforme da applicare a monte, senza toccare i processi pendenti. Non si tratta di troncare i processi, ma di accelerarne il corso. Dichiarare estinto un processo perché dopo due anni non c’è sentenza di primo grado è di una gravità estrema. In certi casi, soprattutto per reati delicati con rogatorie internazionali, due anni davvero non bastano. Scansare il male maggiore è buona cosa, ma quello minore - ambiguo, sdrucciolevole - non è detto dia frutti.

Classificare i mali e le colpe è attività millenaria, in teologia e filosofia. Cominciò il cristianesimo nel IV secolo a graduarli, con Agostino, introducendo nella valutazione il calcolo economico (il filosofo Foucault parla di teologia economica). C’erano colpe più o meno nefaste, e alcune erano talmente nefaste che in assenza di alternative la Chiesa tollerava mali minori. Nell’«economia del male», sosteneva Agostino, meglio le prostitute che l’adulterio; meglio uccidere l’aggressore prima che egli uccida l’innocente. La guerra, se proporzionata e volta al bene, divenne giusta. Il fine comunque rimaneva determinante, e il fine era il perfezionamento e l’imprescindibile trasformazione dell’uomo cui esso conduce.

Secolarizzandosi, tuttavia il male minore non punta più alla perfezione-trasformazione, ma all’ottimizzazione dell’esistente e del male.

Cessa d’essere tappa d’un cammino accorto, si fa consustanziale alla democrazia, addirittura suo sinonimo. Lo descrive con maestria Hannah Arendt, negli Anni 50 e 60, con ragionamenti che sono ripresi oggi da Eyal Weizman, l’architetto israeliano direttore del Centre for Research Architecture a Londra, in un eccellente libricino intitolato Male Minore (Nottetempo 09). Marco Belpoliti l’ha recensito su la Stampa il 28-8-09.

Accade a ciascuno di cercare il male minore, nella vita individuale e pubblica. È il momento in cui urge, tatticamente, scongiurare il precipizio nel peggio. In politica spingono in questo senso la prudenza, l’astuzia. Ma il male minore rischia di installarsi, di divenire concetto stanziale anziché nomade: non ambivalente paradosso ma via aurea, con esiti e danni collaterali che possono esser devastanti, non subito ma nel lungo periodo. A forza di mitigare l’iniquità agendo dal suo interno, in effetti, sorgono insidie che la Arendt spiega bene: «Lungi dal proteggerci dai mali maggiori, i mali minori in politica ci hanno invariabilmente condotti ai primi». «Ossessionati dai mali assoluti» (Shoah, Gulag) ci abituiamo a non vedere il nesso, stretto, tra male maggiore e minore.

La mente stessa muta, quando il male minore si cristallizza in norma. Chi l’adotta tende a scordarsi, dopo, che in fin dei conti ha optato per un male. Nella memoria, l’opzione si trasfigura e si naturalizza, in politica, trasformando l’eccezione in regola: «Una misura meno brutale - scrive Weizman - è anche una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tollerabile. Quando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate più frequentemente». E applicandole con crescente frequenza, «qualsiasi senso dell’orrore verso il male si perde», non solo nei politici ma nell’insieme della nazione.

Quando Fini sceglie un piccolo male per evitare al peggio, è pur sempre nel male che resta, anche se forse a disagio: con effetti infausti sul futuro cui tiene tanto. Una successione di piccoli mali finisce infatti col produrre un male grande raggiunto cumulativamente, non fosse altro perché è impossibile calcolare l’estensione dei loro guasti.

Fini e Napolitano vengono da esperienze non dissimili. Ambedue hanno accostato i mali assoluti, avendone condivise le ideologie, e con coraggio ne sono usciti. Ambedue hanno scoperto le virtù del moderatismo pragmatico, del male minore. Ma il male minore è una trappola, se il suo essere anfibio e la miopia del pragmatismo son taciuti. Il male assoluto, paradossalmente, attenua la vigilanza: «Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente d’aver scelto a favore del male», dice la Arendt. Dimentica che l’eroe delle tragedie greche è sempre alle prese con un dilemma: con due mali più o meno terribili, con le due corna del toro infuriato. La via di Robert Pirsig, evocata da Weizman, è non privilegiare un corno piuttosto che l’altro, ma prendere il toro per le corna (Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi 1981). Il che significa: disobbedire, rifiutare il miserando gioco della torre. Oppure: «Si può gettar sabbia negli occhi del toro; si può tentare di addormentare il toro con una ninna nanna; e infine ci si può rifiutare di scendere nell’arena».

La manifestazione della Cgil, oggi a Roma, ("Il lavoro e la crisi: esigiamo le risposte") è un fatto politico importante per questa nostra Italia, sempre più mal ridotta.

Stiamo ai fatti. Ogni giorno che passa c'è un attacco e una limitazione dei principi democratici sanciti dalla Costituzione. Si è avviata una marcia verso un presidenzialismo autoritario, che vuole mettere in cantina il potere legislativo e quello giudiziario. E, di fronte a questa prospettiva evidente, c'è una sinistra politica a pezzi, che non costruisce un programma unitario, ma continua a dividersi e suddividersi, che non costruisce (e neppure lo tenta) un complesso di iniziative comuni.

In questa situazione, che non è di superficie, ma profonda (Gobetti scriveva di "autobiografia di una nazione"), la Cgil è l'unica valida forza di sinistra in campo con la capacità di sviluppare un suo dibattito interno sulle cose da fare. E ha un ruolo politico di primaria importanza, come altre volte nel passato, senza bisogno di ricordare Giuseppe Di Vittorio.

La Cgil ha il suo rapporto istituzionale e fondamentale con i lavoratori che l'attuale crisi mette in estrema difficoltà. Ci sono stati e ci sono i cambiamenti del mondo del lavoro come altre volte nel passato, ma questa volta più gravi. Si sono ridotti e si riducono sempre più i contratti a tempo indeterminato e siamo a una straordinaria crescita del precariato, cioè dell'isolamento o della solitudine dei singoli lavoratori. I grandi e straordinari cortei dei metalmeccanici degli anni caldi, della crescita economica e della contestazione, sono diventati più rari. C'è anche un problema dell'associazione sindacale dei lavoratori. Tutti ci dicono: stiamo uscendo dalla crisi, ma con più disoccupati.

Tutti questi nodi ci sono e vanno affrontati, proprio per questo la manifestazione di oggi può essere un inizio. Dopo la Cgil si tornerà in piazza, contro Berlusconi, il 5 dicembre, per una manifestazione nata dalle maglie di Internet, con l'adesione di Di Pietro e Rifondazione. Una occasione importante di partecipazione e di opposizione, in un momento di divisione interna alla maggioranza, come dimostra la bocciatura, ieri in senato, dell'emendamento su quella banca del Sud, voluta dal ministro Tremonti e bocciata dal presidente Schifani.

Dunque un inizio di ripresa sindacale, della politica e della sinistra. I grandi e antichi obiettivi dell'eguaglianza e della libertà tornano di attualità perché sono negati, tornano a essere praticabili e sono quanto mai necessari in una situazione nella quale anche il regime berlusconiano mostra segni di crisi. Il berlusconismo si conferma un aggregato di interessi particolari, che, in quanto tali, cominciano a confliggere tra loro.

Una situazione nella quale anche l'attuale potere manifesta segni di crisi accresce la pericolosità della situazione, di feudalizzazione della Repubblica, o, addirittura, di una peronizzazione.

Proprio per tutto questo siamo con la manifestazione di oggi della Cgil e anche di quelle che verranno.

Pur di acquisire il consenso della Lega a un provvedimento di vitale interesse per il loro principale, i maldestri giuristi di Berlusconi, in spregio al codice penale, patrocinano una riforma del processo che modifica profondamente il senso comune di giustizia e lo stesso orizzonte dei valori civili. Di fatto, introducono nel diritto italiano il principio della discriminazione su base etnica e di censo. Come definire altrimenti la scelta di escludere dal beneficio della prescrizione gli imputati di immigrazione clandestina? Questo prevede il disegno di legge "per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi". Una scelta inequivocabile, come del resto quella di considerare il furto e lo scippo reati più gravi della corruzione.

Esprimendo "indignazione e tristezza", lo denuncia il padre gesuita Giovanni La Manna: "La già insensata fattispecie di reato di immigrazione clandestina, semplice contravvenzione punita con un´ammenda, da oggi viene equiparata ai reati di mafia e terrorismo". Non è un paradosso. Lo straniero irregolare, se approvata la nuova legge, subirà la medesima limitazione di garanzie riservata a presunti mafiosi e terroristi.

La fretta di escogitare un salvacondotto che preservi un singolo potente dal naturale corso della giustizia genera dunque un mostro giuridico. La destra al governo, vincolata dall´allarme sociale che la sua stessa propaganda ha esasperato, agita come un vessillo la fermezza nei confronti della microcriminalità di strada e degli stranieri irregolari, sebbene in realtà oggi stia perseguendo l´impunità dei suoi vertici. Le riesce impossibile coniugare garantismo e populismo. Ridisegna piuttosto un´iniqua mappa dei cittadini meritevoli di essere protetti dalle lungaggini dei tribunali; da privilegiare rispetto ad altri, indegni perché estranei ai suoi criteri di onorabilità.

È tipico di un regime plutocratico e demagogico tollerare la corruzione come reato meno grave dello scippo. Confidando sul fatto che un´anziana cui hanno strappato la borsetta al mercato desideri giustamente la punizione severa del «suo» ladro, rassegnata viceversa all´inevitabile spregiudicatezza di chi sta troppo in alto, intoccabile. Vogliono convincerla che il governante è perseguitato per invidia o fanatismo politico. Come ricompensa, la rassicurano: lo straniero suo vicino di casa resterà perseguibile. C´è un diritto mite per la gente perbene, di cui anche lei fa parte, e un diritto implacabile per gli estranei.

La colpa originaria del clandestino sia dunque imperscrittibile. Egli appartiene a una categoria destinata a restare priva di garanzie. Il principio costituzionale dell´uguaglianza di fronte alla legge non deve riguardarlo. Tale riforma del diritto, che spacca in due la cittadinanza, trova conferma nella norma che privilegia gli incensurati rispetto a coloro che hanno precedenti penali quand´anche siano processati insieme per il medesimo reato: dopo due anni il giudice dovrà prosciogliere l´incensurato, ma non il suo complice recidivo.

La carica ideologica della norma che rende imperscrittibile la condizione di «clandestino» sovrasta i suoi effetti pratici. Sappiamo bene che il reato di immigrazione illegale minaccia l´esistenza di molti stranieri cui è scaduto il permesso di soggiorno – e non solo coloro che varcano di nascosto le nostre frontiere – senza che la salatissima multa eserciti alcuna dissuasione concreta. Ma la regola introdotta su richiesta della Lega – a dispetto dell´equità giuridica e di quanto concordato al vertice del Pdl – sancisce una novità di portata storica.

La legge introdotta di recente, come è noto, punisce con la sola sanzione amministrativa il comportamento di chi si trova in Italia senza permesso. Pochi mesi dopo, a dispetto della norma appena stabilita, ecco che un nuovo disegno di legge ingigantisce la valutazione di gravità del medesimo comportamento fino a prevederne il trattamento giuridico speciale.

Un´altra volta, con la consueta prontezza, la Lega approfitta delle difficoltà del premier imponendogli la sua egemonia culturale. Prosegue così la codificazione normativa del sentimento xenofobo, ultimo effetto di una giustizia spaccata in due.

Non è un incidente se il manifesto, che si definisce ancora «quotidiano comunista», ha elegantemente glissato sul ventesimo anniversario del 1989; non per distrazione, ci strillano da vent'anni che la distruzione del muro di Berlino segnava la fine del comunismo, «utopia criminale». Noi su quella «utopia» ambiziosa eravamo nati, ed eravamo stati i primi a denunciare nella sinistra che con essa avevano chiuso da un pezzo i «socialismi reali». Li denunciavamo nell'avversione del partito comunista e nella scarsa attenzione delle cancellerie e della stampa democratiche. Il movimento del '68 ne aveva avuto un'intuizione, ma non il tempo né la preparazione per andare oltre.

Avevamo aggiunto che almeno dalla crisi del 1974 l'egemonia dell'occidente non mirava più alla messa a morte del comunismo, ma a quella del compromesso socialdemocratico nella sua veste keynesiana. Questo ammetteva che il conflitto tra capitale e lavoro era intrinseco al sistema e per evitare involuzioni fasciste occorreva garantire il lavoro dipendente e una parte consistente di beni pubblici.

Se no anche la società europea sarebbe andata, nell'ipotesi migliore, a quella che non Lenin ma Hannah Arendt aveva definito un'americanizzazione fondata sulla libertà politica e la schiavitù sociale. Non è fin risibile, tutt'al più dipietresco, battersi contro le derive autoritarie e presidenzialiste di Berlusconi, e non solo, quando dalla metà degli anni settanta sono tornate a risuonare come novità le trombe di Von Hajek, la correzione rooseveltiana è stata definita, anche dalla nuova sinistra, statalista dunque fascistizzante, e sul «meno stato più mercato» nonché «la crisi fiscale dello stato sociale» si divagava anche sulle nostre pagine, mentre l'Unione europea si avviava con una liberalizzazione dopo l'altra?

E come si poteva non chiedersi, alla luce di questo esito, perché il gigantesco tentativo del 1917 era finito così? L'errore era cominciato quando, perché, dove? Stava in Stalin, in Lenin, in Marx? Cioè nella ipotesi stessa che fosse possibile una società libera non sovradeterminata dalla proprietà e dal mercato? Eppure, dopo la prima rivista del manifesto, i primi anni del giornale e i convegni del 1978 e del 1981, non ce lo chiedemmo più. Possiamo darci tutte le giustificazioni, per prima la difficoltà a sopravvivere come testata, ma era una resa non confessata all'egemonia della destra, del neoliberismo, dunque dei neocon negli Usa, e della Commissione in Europa.

Malamente nascosta dall'esorcismo: sono problemi del novecento, oggi sono superati dalle nuove realtà e dalle soggettività delle nuove generazioni. Come se le une e le altre ne avessero risolta almeno una. Come se oggi il presidente degli Usa, Barack Obama, non vedesse dimezzata dalle lobbies e dai poteri sistemici che pesano sul suo stesso partito, la sua riforma sanitaria, non fosse inchiodato in Medioriente e riuscisse a eliminare una sola delle pratiche che hanno dato origine alla crisi finanziaria del 2008.

La sinistra è a pezzi e noi non stiamo meglio. Né come finanze, né come peso nell'opinione, né fra di noi. «Isoletta socialista», senza padroni, non ci troviamo di fronte a qualcosa che avevamo già intravisto nei socialismi reali: produttività scarsa, demotivazione, fine di un progetto comune, ciascuno per sé, insofferenza verso gli altri? Quando ho lasciato la redazione nel 1993, battuta dall'assemblea la proposta di applicare una piccola dose di Marx anche a noi stessi, ho sperato che le cose ci avrebbero fatto crescere, che occorreva calma e pazienza. Il 10 novembre mi sono finite tutte e due. Datevi una mossa.

Bellezze naturali all’asta. Lo Stato vuol fare cassa ma la Toscana si ribella

Giuliano Fontani

Lo Stato ha bisogno di soldi e per questo sta vendendo, all’asta, alcuni “pezzi” pregiati della Toscana. Con l’obiettivo di fare cassa, dopo lo scudo fiscale per il rientro dei capitali dall’estero, ecco la vendita dei beni ambientali, i gioielli di famiglia.

Non desta meraviglia che in Toscana a rischiare di più sia l’isola d’Elba, dove il demanio possiede spiagge e campagne su cui da sempre sono puntati gli occhi degli speculatori edilizi. Ma sono in vendita anche beni “minori”, appartamenti, appezzamenti di terra, magazzini, perfino cabine telefoniche. Una strategia politica tesa a monetizzare, che non risparmia neppure gli “affitti”, vale a dire le concessioni demaniali.

«Quel che meraviglia e che ci sentiamo di contrastare - dice l’assessore regionale Paolo Cocchi - è la mancanza di concertazione con gli enti territoriali. Anche la Regione qualche volta è nella necessità di vendere, ma l’ha sempre fatto tenendo conto delle osservazioni delle amministrazioni interessate, delle loro prospettive di sviluppo, dei loro progetti. Qui invece, come nel caso di Pianosa, si calano dall’alto decisioni, senza alcun confronto. E’ il metodo, anzitutto, ad essere sbagliato».

La vendita di Capo Bianco. Il caso più emblematico, ma anche il più importante, riguarda la spiaggia di Capo Bianco, all’asta con una base di centodiecimila euro. Un pezzo di paradiso che il Comune di Portoferraio è deciso a difendere con gli strumenti a sua disposizione. Non avendo il denaro per partecipare e vincere l’asta, l’amministrazione locale deve fare di tutto per rendere difficile, se non impossibile, la vendita ai privati.

E’ quel che pensa di fare il sindaco di Portoferrario, Roberto Peria, che ha dato mandato agli uffici comunali di trasformare l’area in invariante strutturale. Ciò significa che adesso e neppure in futuro a Capo Bianco non si potrà murare neppure un mattone.

«Intendiamo intervenire con decisione - sottolinea il sindaco Peria - per evitare speculazioni su un bene che rappresenta un pezzo della nostra identità. Se proprio qualcuno vorrà comprare l’ex batteria di Capo Bianco, si dovrà rassegnare a coltivare fagioli...».

Le spiagge all’asta. La partita è aperta. In questo contesto si inserisce un altro capitolo che tiene in allarme centinaia di operatori turistici toscani, tenuti appesi al “gancio” del rinnovo delle concessioni demaniali. Il ministro Giulio Tremonti sembra molto attento nel seguire l’applicazione della direttiva europea che rimette tutto in gioco, alla scadenza dei contratti, per quanto riguarda la titolarità dei bagni e la loro gestione. La logica che sta dietro la normativa europea è chiara: concessioni all’asta al termine dei sei anni di contratto.

Le amministrazioni locali, da Massa alla Versilia, hanno già detto che per il momento non intendono applicare la normativa europea e tutto andrà avanti come prima. Ma fino a quando?

«Un primo effetto - spiega Francesco Belli, presidente dei balneari di Marina di Pietrasanta - si è già avuto: i concessionari stanno bloccando gli investimenti. Chi può dare il torto a loro, se non hanno sicurezza sul tempo degli ammortamenti?».

Non manca, ovviamente, la dietrologia di sempre. Chi si vuol favorire? E’ la domanda che i balneari rivolgono maliziosamente al governo: in tempi di crisi industriale, le sole risorse che non si possono delocalizzare sono quelle strettamente legate al territorio. Dunque si aspetta che sia qualche multinazionale del turismo a partecipare ai bandi di gara e a vincere le aste?

Dall’altra parte ci sono gli argomenti di chi sostiene le regole del libero mercato, della logica del massimo profitto, con lo Stato imprenditore di se stesso che non guarda in faccia a nessuno pur di tutelare i propri interessi.

La Regione cerca di contemperare le due esigenze. Dice l’assessore Cocchi: «Stiamo predisponendo un provvedimento di legge-ponte, che prevede una breve deroga alle scadenze contrattuali, in attesa di esaminare i piani di investimento degli operatori turistici».

«Per anni - questa la conclusione - i governi si sono dimenticati di fissare regole precise, adesso si vuole passare a una disciplina ferrea in tempi radicalmente brevi, senza calcolare cosa accadrebbe nel settore in caso di un’applicazione rigida delle norme».

Se lo Stato mette all’asta il nostro tesoro

Mario Tozzi

Ma è possibile mettere in vendita un’isola o una montagna? Nell’Italia del terzo millennio sì, e non solo isole, ma anche parchi naturali, frammenti di territori di pregio, paesaggi incontaminati, insomma tutto quello per cui il nostro è stato per secoli il giardino d’Europa. Tutto nasce quando i nostri padri stilarono l’articolo 9 della Costituzione. Anzi, quando lo scrissero una seconda volta, eliminando una parola fondamentale.

Una parola fondamentale, presente nella prima stesura: «I monumenti storici, artistici e naturali del paese costituiscono patrimonio nazionale e sono sotto la protezione dello Stato», invece di «La Repubblica (...) tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

La natura appunto, cancellata, aggiungendo al danno delle guerre quello dell’oblìo giuridico-istituzionale. E infine il colpo di grazia, una legge dello Stato che rinuncia a proteggere i suoi valori culturali, naturali o artistici: la famigerata Patrimonio S.p.A. e la sua collegata Infrastrutture S.p.A. con cui si mette a garanzia del denaro necessario alle opere pubbliche il patrimonio inalienabile dello Stato. Gli strascichi di quei provvedimenti stanno producendo danni ancora oggi. In pochi pensano oggi che il paesaggio non sia un bene culturale e che un parco vada tutelato né più né meno della Cappella Sistina o di Venezia. Il collegamento fra cultura e natura è molto stretto: il nostro bene più prezioso non è tanto la somma di monumenti e bellezze naturali, ma il contesto, quello che rende unico nel mondo un paese che pone a fulcro della propria identità nazionale e della memoria collettiva il patrimonio culturale e naturalistico.

In una sciagurata storia cominciata con Veltroni e Melandri e finita con Urbani - ma che inizia da quando si parlò di arte come “petrolio d’Italia” (!) - il valore venale del patrimonio culturale (e naturalistico) diventa qualcosa da investire per fare altro (le opere pubbliche), una risorsa da spremere, dando la tragicomica impressione di essere arrivati al fondo del barile mentre si hanno aspirazioni da quinta potenza industriale del mondo. Nessuno dice che si porrà in vendita l’isola di Budelli ma è grave che intanto sia diventato teoricamente possibile.

Se si gestiscono i beni ambientali e culturali in ottiche di mercato il cittadino viene alienato di un patrimonio che è prima di tutto collettivo e viene trasformato in un mero consumatore; distinguendo la gestione dei beni dalla tutela si potrebbe poi avere l’impressione che privato sia comunque meglio che pubblico, magari riferendosi erroneamente all’esperienza americana i cui musei sono in realtà tutti in perdita: qualcuno sembra pensare che il Getty campi solo su biglietti e gadget, mentre è sostenuto soprattuto da donazioni a fondo perduto.

Che ci sia qualcosa di altro sotto è chiaro: se si voleva far fruttare i soli beni di minor pregio non c’era bisogno di questa legge, lo si poteva tranquillamente fare prima e, anzi, lo si doveva. Il dubbio è che al pratone vicino alla ferrovia nessuno sia interessato e che le mani vogliano esser allungate sui beni di valore e sulle aree naturali ancora intatte, del resto se si ha bisogno di molti denari si devono mettere a garanzia i pezzi pregiati. E - se è vero che è meglio non fare una lista dei beni certamente inalienabili per non lasciarne fuori nessuno - perché non si rendono noti quelli eventualmente alienabili, per tacitare appetiti male indirizzati?

L’autore è Presidente del Parco dell’Arcipelago toscano

La caccia alle guardie organizzata dai ladri della politica sembra concludersi, dopo quindici anni, con la diciannovesima legge ad personam, forse la peggiore. Solito nome accattivante, «processo breve». Solita traduzione: «Impunità per Berlusconi».

Un colpo di spugna definitivo sui due processi in corso del premier, la corruzione dell’avvocato Mills e l’evasione fiscale sui diritti televisivi. Berlusconi con tutta evidenza mentiva quando ha giurato, dopo la bocciatura del Lodo Alfano, che si sarebbe difeso «come un leone» in tribunale smontando le tesi accusatorie. Al coraggio del leone, preferisce sempre la strategia del caimano.

Oltre all’impunità del premier, la legge garantisce quella di migliaia di altri nei processi in corso, dai crac Parmalat e Cirio allo scandalo dei rifiuti a Napoli. Anche qui, i soliti effetti collaterali della guerra di Berlusconi ai magistrati. Decine di migliaia di cittadini, compresi i risparmiatori truffati da Tanzi e Cragnotti, vedono svanire le residue speranze di ottenere giustizia.

La maggioranza aveva promesso un testo in grado di «mettere d’accordo destra e sinistra» e in un certo senso ha mantenuto. La legge è giudicata «imbarazzante» dal giurista Antonio Baldassarre, vicino al centrodestra, e «indecente» dal capogruppo democratico Anna Finocchiaro, che l’ha sbattuta contro il muro. Dalle prime reazioni pare compatto anche il fronte dell’opinione pubblica internazionale, senza tante distinzioni fra conservatori e socialisti, Europa e America, Est e Ovest, nel considerare l’ultima trovata salva-ladri del premier l’ennesima buffonesca manifestazione di un regimetto che sputtana l’Italia nel mondo.

Poiché si tratta per l’’appunto della diciannovesima legge ad personam in materia di giustizia, tocca ripetersi. La prima osservazione è che il testo, come i precedenti, è incostituzionale. In presenza di una costituzione democratica (ma per quanto ancora?) e più in generale della logica, è arduo far passare la corruzione come reato meno grave dello scippo. Oppure sostenere che un incensurato accusato di reati gravissimi si debba privilegiare rispetto a un cittadino già condannato, magari per un furto di motorino. È assai probabile che la Consulta boccerà anche questa legge. Ma nel frattempo il presidente del Consiglio più furbo degli ultimi 150 anni l’avrà scampata ancora una volta. Almeno per i processi in corso. Per quelli a venire, si sta provvedendo con la riesumazione dell’immunità parlamentare. «I tempi sono maturi» annunciano festanti gli azzeccagarbugli in Parlamento. Sono infatti trascorsi tre lustri e più da Mani Pulite. È vero che restiamo gloriosamente in cima alla classifica delle nazioni più corrotte. Ma ormai la gente si è abituata e il tanfo di mazzette, tangenti sulla sanità, appalti truccati, è diventato un profumo di buon governo.

Che fare? Se Berlusconi e i suoi servi si ripetono, bisogna almeno sperare che l’opposizione non ricalchi il copione dei precedenti, piuttosto inutili. L’opposizione tutta, in Parlamento con le sue varie sigle, e nella società. Si può e si deve sperare che il Pd di Pier Luigi Bersani riesca ad affrontare questa sfida senza se e senza ma, con la decisione necessaria. Si può sperare che i moderati di Pier Ferdinando Casini e il neo convertito Francesco Rutelli, capiscano che questa battaglia non c’entra con la destra o la sinistra o il centro, ma con la difesa dello stato di diritto tout court. Si deve sperare che Antonio Di Pietro non ricominci gli appostamenti alle mura del Quirinale. Perché qui non si tratta soltanto di discutere una firma, ma di raccoglierne milioni. Non è questione di riempire una piazzetta di lazzi, ma di convocare nelle strade della protesta milioni di cittadini. Soltanto con una grande rivolta dell’Italia onesta si potrà mettere fine a una vergogna che dura da quindici anni, alla mortificazione del diritto da parte di una classe dirigente con troppi scheletri nell’armadio. Soltanto così si potrà salvare la faccia del Paese nel mondo, anche la faccia di chi è abituato a voltarla sempre da un’altra parte.

Ci sono località che mai diventerebbero note se non per gli scempi che vi si compiono. San Nicola Varco è una di queste, né più né meno che altre campagne del Mezzogiorno dove quotidianamente un esercito di invisibili popola le campagne per conto di altri che beneficeranno del loro lavoro. Ogni tanto assurgono agli onori della cronaca, e quando accade è perché è avvenuto qualcosa di molto spiacevole. Vuoi che la camorra spari alla cieca come a Castelvolturno un anno fa, vuoi che qualcuno decida che non si può vivere in mille come bestie in un tugurio.

È quello che è accaduto ieri nella Piana del Sele, una delle campagne del sud a più alto tasso di utilizzo di extracomunitari al nero, dove da sempre i caporali sono i veri boss del territorio per conto dei loro mandanti, padroni e padroncini proprietari di terre. È la terra del pomodoro, delle fragole e delle mozzarelle, e sarebbe perfino un bel posto se invece che a spezzarsi la schiena nei campi ci si andasse a sdraiare in spiaggia al sole.

Non è così, e per questo gli immigrati del ghetto di San Nicola Varco sono stati sgomberati su ordine della magistratura. Motivo: la loro situazione igienica e ambientale non era più tollerabile. Una soluzione perfino auspicabile, se in un paese in cui il tasso di ipocrisia è inversamente proporzionale a quello di intolleranza qualcuno si fosse degnato nel frattempo di pensare a una sistemazione più dignitosa. Anche perché a mandarli via davvero non ci pensa proprio nessuno. Chi rimpiazzerebbe così tante braccia a buon mercato?

Eppure basterebbe volgere lo sguardo poco lontano. «La vera utopia non è la caduta del muro, ma quello che ho visto in Calabria», ha detto Wim Wenders presentando ieri a Berlino il film sulla straordinaria accoglienza ai rifugiati di Scilla, Riace e Badolato. Proviamo ad ampliare queste piccole crepe nel muro dell'ipocrisia.

Ora ce la racconteranno come una grande riforma "erga omnes", che tutela l’interesse di tutti i cittadini. Un compromesso sofferto e importante, che difende lo «stato di diritto» finora vulnerato da una magistratura politicizzata e inefficiente. E invece il "lodo" Berlusconi-Fini sulla giustizia è l’ennesima e scandalosa legge su misura, che copre gli interessi di una singola persona. Un patto scellerato e indecente, che conferma lo «stato di eccezione» in cui è precipitata la nostra democrazia. I due leader erano arrivati a questo faccia a faccia in condizioni molto diverse.

Il presidente del Consiglio, scoperto dalla bocciatura del Lodo Alfano, era agito dalla necessità di risolvere ancora una volta per via legislativa le sue passate pendenze di natura giudiziaria, e di salvarsi anche dai rischi futuri. Obiettivo irrinunciabile, per non perdere il governo. Il presidente della Camera, schiacciato dalla formidabile pressione mediatica e politica della macchina da guerra berlusconiana, aveva l’opportunità di uscire dall’angolo nel quale lo stava relegando il Pdl, e di salvare anche il suo profilo istituzionale. Obiettivo raggiungibile, per non perdere la faccia. L’accordo raggiunto, anche se umilia il dettato costituzionale e distorce l’ordinamento giuridico, soddisfa le esigenze del capo del governo e della terza carica dello Stato.

Il disegno di legge che sarà presentato nei prossimi giorni (e qui sta il salvacondotto del premier e del suo avvocato Ghedini) conterrà la riforma del processo, che diventerà "breve". Non potrà durare più di sei anni, cioè due anni per ciascun grado di giudizio. Formalmente, una giusta risposta all’insopportabile lunghezza dei processi italiani, che durano mediamente sette anni e mezzo nel civile e 10 anni nel penale. Sostanzialmente, un colpo di spugna su due processi che vedono coinvolto il Cavaliere: il processo Mediaset per frode fiscale sui diritti televisivi (che con le nuove norme decade a fine novembre) e il processo Mills per corruzione in atti giudiziari (che a "riforma" approvata decade nel marzo 2010).

Ma nello stesso disegno di legge (e qui sta la via di fuga di Fini e del suo avvocato Bongiorno) non ci saranno le norme sulla prescrizione breve, che lo stesso Berlusconi avrebbe voluto inserire nel testo e Fini gli ha chiesto di espungere per non incappare nel no di Giorgio Napolitano. Questa norma, che ridurrebbe di un terzo la prescrizione dei reati la cui pena edittale è inferiore ai 10 anni, non si può proprio infilare in una "riforma", per quanto sedicente o bugiarda possa essere. Renderebbe ancora più estesa, e dunque insostenibile, la già colossale amnistia che si realizzerà con la modifica del "processo breve". L’opinione pubblica non la capirebbe. E il Quirinale, ammesso che possa considerare costituzionalmente legittima l’abbreviazione del processo, sicuramente non firmerebbe anche l’abbreviazione della prescrizione. Meglio soprassedere, per ora. Questo è lo schema. Questo è lo "scambio". Che riproduce del resto un metodo già collaudato nelle passate legislature: Berlusconi chiede 1000, sapendo che si potrà accontentare di 100. Gli alleati glielo concedono, facendo finta di avergli tolto 900. È così. È sempre stato così. Almeno quando in gioco ci sono le due questioni cruciali, sulle quali il Cavaliere non ha mai ceduto e mai cederà: gli affari e la giustizia.

Certo, a Berlusconi avrebbe fatto più comodo portare a casa l’intero pacchetto. Il "processo breve" porta all’estinzione del processo stesso, e quindi copre il premier sul passato. La "prescrizione breve" porterebbe alla decadenza del reato, e quindi lo coprirebbe anche su eventuali inchieste future. Ma per ora gli conviene accontentarsi. Nulla vieta, magari durante il dibattito parlamentare sul ddl, di ripresentare la norma sulla prescrizione breve con un bell’emendamento intestandolo al solito, apposito peone della maggioranza (come insegna l’esperienza delle precedenti leggi-vergogna varate o tentate del premier, dalla Cirielli alla Nitto Palma, dalla Cirami alla Pittelli). Oppure, perché no, nulla vieta di tradurre subito in legge quello che ormai possiamo chiamare il "Lodo Minzolini", cioè la reintroduzione dell’immunità parlamentare, avventurosamente ma forse non casualmente suggerita dal (o al) direttore del Tg1 in un editoriale televisivo di due sere fa.

Eccolo, il "paesaggio" di questo drammatico autunno italiano. Ancora una volta, in questo Paese si straccia il contratto sociale e costituzionale, che ci vuole tutti uguali davanti alla legge. Si sospende l’applicazione dello stato di diritto, che ci vuole tutti ugualmente sottoposti alle sue regole. In nome della "volontà di potenza" di un singolo, e di un’idea plebiscitaria e populista della sua fonte di legittimazione: sono stato scelto dagli elettori, dunque i cittadini vogliono che io governi. O in nome della "ragion politica" di un sistema: non c’è altro premier all’infuori di me, dunque io e solo io devo governare. Questo c’è, oggi, sul piatto della bilancia della nostra democrazia. Lo "stato di eccezione", appunto. Quello descritto da Carl Schmitt. Che è simbolo dell’autoritarismo poiché sempre lo "decide il sovrano". Che si presenta "come la forma legale di ciò che non può avere forma legale". Che è "la risposta immediata del potere ai conflitti interni più estremi". Che costituisce un "punto di squilibrio fra diritto pubblico e fatto politico", poiché precipita la democrazia in una "terra di nessuno".

Se questa è la portata della sfida, occorre che il Pd si mostri all’altezza di saperla raccogliere. Di fronte a questa nuova distorsione della civiltà repubblicana non basta rifugiarsi nella routinaria ripetizione di uno slogan generale al punto da risultare quasi generico. Sì a riforme della giustizia, no a norme salva-processi, sostiene Pierluigi Bersani. Sarebbe ora che il centrosinistra cominciasse a spiegare qual è, se esiste, la "sua" riforma della giustizia. Ma nel far questo, dovrebbe anche spiegare all’opinione pubblica, con tutta la forza responsabile di cui è capace, che quella di Berlusconi non è una riforma fatta per i cittadini, ma solo un’altra emanazione della sua "auctoritas", che ormai sovrasta ed assorbe la "potestas" dello Stato e del Parlamento.

La partita vera, a questo punto, è più alta e più impegnativa. Si può continuare a tollerare uno "stato di eccezione" sistematicamente decretato da Berlusconi? E il Pd vuol giocare fino in fondo questa partita, mobilitando su di essa la sua gente e sensibilizzando su di essa tutti gli elettori? Scrive Giorgio Agamben che quando "auctoritas" e "potestas" coincidono in una sola persona, e lo stato di eccezione in cui essi si legano diventa la regola, allora «il sistema giuridico-politico diventa una macchina letale». Il Paese sarebbe ancora in tempo per fermarla, se solo se ne rendesse conto.

Massimo Giannini Lo stato d’eccezione

Quando "auctoritas" e "potestas" coincidono in una sola persona il sistema giuridico-politico diventa una macchina letale. La Repubblica, 11 novembre 2009

Ora ce la racconteranno come una grande riforma "erga omnes", che tutela l’interesse di tutti i cittadini. Un compromesso sofferto e importante, che difende lo «stato di diritto» finora vulnerato da una magistratura politicizzata e inefficiente. E invece il "lodo" Berlusconi-Fini sulla giustizia è l’ennesima e scandalosa legge su misura, che copre gli interessi di una singola persona. Un patto scellerato e indecente, che conferma lo «stato di eccezione» in cui è precipitata la nostra democrazia. I due leader erano arrivati a questo faccia a faccia in condizioni molto diverse.

Il presidente del Consiglio, scoperto dalla bocciatura del Lodo Alfano, era agito dalla necessità di risolvere ancora una volta per via legislativa le sue passate pendenze di natura giudiziaria, e di salvarsi anche dai rischi futuri. Obiettivo irrinunciabile, per non perdere il governo. Il presidente della Camera, schiacciato dalla formidabile pressione mediatica e politica della macchina da guerra berlusconiana, aveva l’opportunità di uscire dall’angolo nel quale lo stava relegando il Pdl, e di salvare anche il suo profilo istituzionale. Obiettivo raggiungibile, per non perdere la faccia. L’accordo raggiunto, anche se umilia il dettato costituzionale e distorce l’ordinamento giuridico, soddisfa le esigenze del capo del governo e della terza carica dello Stato.

Il disegno di legge che sarà presentato nei prossimi giorni (e qui sta il salvacondotto del premier e del suo avvocato Ghedini) conterrà la riforma del processo, che diventerà "breve". Non potrà durare più di sei anni, cioè due anni per ciascun grado di giudizio. Formalmente, una giusta risposta all’insopportabile lunghezza dei processi italiani, che durano mediamente sette anni e mezzo nel civile e 10 anni nel penale. Sostanzialmente, un colpo di spugna su due processi che vedono coinvolto il Cavaliere: il processo Mediaset per frode fiscale sui diritti televisivi (che con le nuove norme decade a fine novembre) e il processo Mills per corruzione in atti giudiziari (che a "riforma" approvata decade nel marzo 2010).

Ma nello stesso disegno di legge (e qui sta la via di fuga di Fini e del suo avvocato Bongiorno) non ci saranno le norme sulla prescrizione breve, che lo stesso Berlusconi avrebbe voluto inserire nel testo e Fini gli ha chiesto di espungere per non incappare nel no di Giorgio Napolitano. Questa norma, che ridurrebbe di un terzo la prescrizione dei reati la cui pena edittale è inferiore ai 10 anni, non si può proprio infilare in una "riforma", per quanto sedicente o bugiarda possa essere. Renderebbe ancora più estesa, e dunque insostenibile, la già colossale amnistia che si realizzerà con la modifica del "processo breve". L’opinione pubblica non la capirebbe. E il Quirinale, ammesso che possa considerare costituzionalmente legittima l’abbreviazione del processo, sicuramente non firmerebbe anche l’abbreviazione della prescrizione. Meglio soprassedere, per ora. Questo è lo schema. Questo è lo "scambio". Che riproduce del resto un metodo già collaudato nelle passate legislature: Berlusconi chiede 1000, sapendo che si potrà accontentare di 100. Gli alleati glielo concedono, facendo finta di avergli tolto 900. È così. È sempre stato così. Almeno quando in gioco ci sono le due questioni cruciali, sulle quali il Cavaliere non ha mai ceduto e mai cederà: gli affari e la giustizia.

Certo, a Berlusconi avrebbe fatto più comodo portare a casa l’intero pacchetto. Il "processo breve" porta all’estinzione del processo stesso, e quindi copre il premier sul passato. La "prescrizione breve" porterebbe alla decadenza del reato, e quindi lo coprirebbe anche su eventuali inchieste future. Ma per ora gli conviene accontentarsi. Nulla vieta, magari durante il dibattito parlamentare sul ddl, di ripresentare la norma sulla prescrizione breve con un bell’emendamento intestandolo al solito, apposito peone della maggioranza (come insegna l’esperienza delle precedenti leggi-vergogna varate o tentate del premier, dalla Cirielli alla Nitto Palma, dalla Cirami alla Pittelli). Oppure, perché no, nulla vieta di tradurre subito in legge quello che ormai possiamo chiamare il "Lodo Minzolini", cioè la reintroduzione dell’immunità parlamentare, avventurosamente ma forse non casualmente suggerita dal (o al) direttore del Tg1 in un editoriale televisivo di due sere fa.

Eccolo, il "paesaggio" di questo drammatico autunno italiano. Ancora una volta, in questo Paese si straccia il contratto sociale e costituzionale, che ci vuole tutti uguali davanti alla legge. Si sospende l’applicazione dello stato di diritto, che ci vuole tutti ugualmente sottoposti alle sue regole. In nome della "volontà di potenza" di un singolo, e di un’idea plebiscitaria e populista della sua fonte di legittimazione: sono stato scelto dagli elettori, dunque i cittadini vogliono che io governi. O in nome della "ragion politica" di un sistema: non c’è altro premier all’infuori di me, dunque io e solo io devo governare. Questo c’è, oggi, sul piatto della bilancia della nostra democrazia. Lo "stato di eccezione", appunto. Quello descritto da Carl Schmitt. Che è simbolo dell’autoritarismo poiché sempre lo "decide il sovrano". Che si presenta "come la forma legale di ciò che non può avere forma legale". Che è "la risposta immediata del potere ai conflitti interni più estremi". Che costituisce un "punto di squilibrio fra diritto pubblico e fatto politico", poiché precipita la democrazia in una "terra di nessuno".

Se questa è la portata della sfida, occorre che il Pd si mostri all’altezza di saperla raccogliere. Di fronte a questa nuova distorsione della civiltà repubblicana non basta rifugiarsi nella routinaria ripetizione di uno slogan generale al punto da risultare quasi generico. Sì a riforme della giustizia, no a norme salva-processi, sostiene Pierluigi Bersani. Sarebbe ora che il centrosinistra cominciasse a spiegare qual è, se esiste, la "sua" riforma della giustizia. Ma nel far questo, dovrebbe anche spiegare all’opinione pubblica, con tutta la forza responsabile di cui è capace, che quella di Berlusconi non è una riforma fatta per i cittadini, ma solo un’altra emanazione della sua "auctoritas", che ormai sovrasta ed assorbe la "potestas" dello Stato e del Parlamento.

La partita vera, a questo punto, è più alta e più impegnativa. Si può continuare a tollerare uno "stato di eccezione" sistematicamente decretato da Berlusconi? E il Pd vuol giocare fino in fondo questa partita, mobilitando su di essa la sua gente e sensibilizzando su di essa tutti gli elettori? Scrive Giorgio Agamben che quando "auctoritas" e "potestas" coincidono in una sola persona, e lo stato di eccezione in cui essi si legano diventa la regola, allora «il sistema giuridico-politico diventa una macchina letale». Il Paese sarebbe ancora in tempo per fermarla, se solo se ne rendesse conto.

Vissuti diversi precipitano nel ventennale del crollo del Muro di Berlino, come diversi erano i vissuti che precipitarono vent'anni fa sull'evento, anche all'interno di quella sinistra radicale che respinse la conversione al verbo neoliberal adottata con la svolta della Bolognina dalla maggioranza del Pci. Il resoconto corrente delle posizioni, attestato sulla divisione fra «oltrepassatori» e «nostalgici» del comunismo, non ne rende conto. C'erano, per cominciare, differenze generazionali che pesavano non poco nella valutazione, e prim'ancora nella percezione emotiva, di quello che stava accadendo. Nella generazione che si era formata con la guerra, la Resistenza e poi la guerra fredda, il crollo del Muro significava il venir meno di un campo di appartenenza, per quanto già in precedenza criticato, e per qualcuno anche il tornare a galla di un incubo: raccontano le cronache postume che Alessandro Natta, ad esempio, reagì alle notizie che arrivavano da Berlino esclamando «Ha vinto Hitler», e non era certo l'unico, nel Pci e fuori dal Pci, a essere preoccupato dal ritorno della «Grande Germania».

Per la generazione che si era formata con il Sessantotto e contro i carri sovietici a Praga, il crollo del Muro significava invece la fine di un comunismo di stato e di partito con cui il «suo» comunismo libertario non si era mai identificato: crollava finalmente una gabbia che aveva resistito troppo a lungo. Vado con l'accetta naturalmente e me ne scuso, perché molte e variegate erano anche le linee di scorrimento fra queste differenze e infatti, fra differenze e linee di scorrimento, in quei mesi si discusse e si litigò, a sinistra, con una passione mai più ritrovata - se non, forse, su quell'altro evento decisivo che è stato l'11 settembre 2001. Il fatto è però che anche adesso che a sinistra ogni passione è spenta, molto di questo spegnimento ha ancora a che fare con i noccioli induriti o non sciolti di quell'anno.

Che infatti pare ieri, anche se è passato un ventennio densissimo di fatti e di misfatti per l'intera umanità, il mondo ha cambiato faccia con la globalizzzaione e tutti ragioniamo con categorie mutate. Bisognerebbe riponderare con pacatezza le ragioni e i torti di quella passione di allora, e filtrarli con la consapevolezza del dopo. Nella generazione della guerra fredda, ad esempio, l'incubo del ritorno della grande Germania era eccessivo; ma la percezione che col vento di libertà che spirava da Est sarebbe arrivata anche la tempesta di una nuova e durissima egemonia capitalistica da Ovest era giusta. Ed era viceversa sottovalutata dalla generazione successiva; che però aveva ragione a puntare sulle nuove contraddizioni, i nuovi conflitti e le nuove soggettività che si sarebbero dispiegati in un mondo solcato da fratture diverse da quelle geopolitiche e ideologiche novecentesche. Erano differenze che non avrebbero smesso, in seguito, di riflettersi in differenti letture della globalizzazione e differenti concezioni dell'agire politico.

Venti anni tuttavia non sono passati invano. A tutti, compresa la sinistra che allora scelse il verbo neoliberal, il ventennale che si celebra in questi giorni offrirebbe sul piatto un'agenda politico-culturale che invece tutti stentano a formulare con la necessaria convinzione. Come spesso capita, è un'agenda che si ricava facilmente, oltre che dall'analisi dei fatti, leggendo all'incontrario quella dell'ideologia dominante. Quest'ultima, in venti anni, non si è spostata di un millimetro, si è solo autoconfermata, fino a diventare un recitativo che non solo non rispecchia la realtà ma la contraddice. Il recitativo ripete che con il crollo del Muro ha vinto la democrazia, dando a questa parola la pienezza di un'autoevidenza che di evidente, invece, non ha più nulla.

E' precisamente da quando ha vinto la guerra fredda che la democrazia ha cominciato infatti a svuotarsi, a deformarsi, a decostituzionalizzarsi. E' precisamente da quando ha sconfitto il totalitarismo comunista che ha cominciato a far affiorare, come da un passato rimosso, rigurgiti del totalitarismo fascista che si insinuano nelle pieghe della passività politica, delle vocazioni plebiscitarie, dei culti del Capo. Ed è precisamente da quando ha vinto sullo stato sociale sovietico che la democrazia ha perso quel correttivo del welfare state che ne ha fatto nella seconda metà del 900 qualcosa di più credibile e più stabile dei regimi liberali d'inizio secolo. Nel corso di vent'anni, questa deformazione democratica ha percorso a Ovest il vecchio e il nuovo continernte, quasi un riflesso tellurico della scossa sistemica dell'89.

Metterla al primo posto dell'agenda politico-culturale è urgente, anzi indilazionabile. Per riparare i danni del fronte occidentale, ma non solo. Anche per decrittare il paradosso e la sorpresa di questo ventennale. Il paradosso è che la vera potenza vincente del ventennio non è l'America democratica ma la Cina non democratica. La sorpresa è che nell'America democratica una riforma sanitaria di valore epocale, con la sua iniezione di welfare sul liberismo sfrenato che fu, ha ottenuto il sì del congresso proprio allo scoccare del ventesimo compleanno del crollo del Muro.

Noi, docenti universitari di ruolo attivi in diversi atenei e facoltà, seguiamo con crescente apprensione le vicende dell'università italiana e le scelte assunte in proposito dal governo. Decidiamo di prendere pubblicamente la parola dopo avere letto il ddl di riforma dell'università,un progetto che ci sembra giustificare le più vive preoccupazioni soprattutto per quanto attiene alla governance degli atenei (per il previsto accentramento di potere in capo ai rettori e a consigli di amministrazione non elettivi, fortemente esposti agli interessi privati) e per ciò che concerne la componente più debole della docenza: decine di migliaia di studiosi, giovani e meno giovani, che da molti anni prestano la propria opera gratuitamente o, nel migliore dei casi, in qualità di assegnisti o borsisti, nel quadro di rapporti di collaborazione precari.

Le novità che il governo prospetta in materia di governance degli atenei ci paiono prive di qualsiasi ambizione culturale e di ogni volontà di risanare effettivamente i problemi dell'università pubblica, e ispirate esclusivamente a una logica autoritaria e privatistica, tesa a una marcata verticalizzazione del processo di formazione delle decisioni a discapito dell'autonomia degli atenei. Riteniamo che l'università debba cambiare, ma occorre a nostro giudizio procedere in tutt'altra direzione, salvaguardando il carattere pubblico dell'università e favorendo la partecipazione democratica di tutte le componenti del sistema universitario. Quanto previsto per la vasta area del precariato ci sembra profondamente iniquo e irrazionale, tale da mettere a repentaglio la funzionalità di molti dipartimenti.

I tagli alle finanze degli atenei e la nuova normativa per l'accesso alla docenza preludono all'espulsione in massa dal sistema universitario di persone meritevoli, stimate anche in ambito internazionale, che da tempo lavorano nell'università italiana, tra le ultime in Europa per quantità di docenti di ruolo e tra le più sfavorite per rapporto docenti/studenti. Al di là della retorica sul valore strategico della conoscenza e della ricerca, il governo - ostacolando i nuovi accessi, conservando le vecchie logiche baronali e non introducendo alcuna misura preventiva contro il malcostume accademico - pianifica un enorme spreco di risorse finanziarie, impiegate per la formazione di tanti studiosi ai quali sarà impedito l'accesso ai ruoli dell'università, e una perdita secca in termini di capacità, competenza ed esperienza, che rischia di determinare un incolmabile divario tra l'Italia e i Paesi più avanzati.

Chiediamo al governo di fermarsi, ma ci rivolgiamo anche al mondo universitario affinché faccia sentire la propria voce e manifesti con forza le proprie ragioni e preoccupazioni. Non difendiamo lo status quo: invochiamo una riforma seria che ampli gli spazi di partecipazione, salvaguardi il carattere pubblico dell'università e tuteli l'autonomia della didattica e della ricerca. Non ignoriamo l'esigenza di verificare la qualità dell'insegnamento e del lavoro scientifico di ciascun docente: esigiamo l'adozione di rigorose procedure di valutazione, non graduatorie improvvisate e funzionali a campagne di stampa più o meno denigratorie, ma criteri oggettivi, adeguati alle diverse specificità disciplinari e capaci di rilevare anche i pregi, internazionalmente riconosciuti, della ricerca italiana. Non auspichiamo un reclutamento ope legis: chiediamo lo stanziamento delle risorse necessarie a consentire l'accesso ai ruoli, previo concorso, di quanti abbiano acquisito, negli anni del precariato, comprovate competenze e attitudini professionali. L'università pubblica non può essere governata in modo autoritario né gestita con criteri ragionieristici. Il lavoro di quanti ne garantiscono l'attività deve essere riconosciuto e tutelato. La conoscenza è una risorsa del Paese e un diritto fondamentale che la Costituzione riconosce a ciascun cittadino.

(Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Giuseppe Ugo Rescigno, Gaetano Azzariti, Massimo Villone, Giorgio Lunghini, Riccardo Bellofiore, Riccardo Realfonzo, Adriano Prosperi, Angelo d'Orsi, Alessandro Portelli, Gianpasquale Santomassimo, Alberto Burgio, Alessandro Dal Lago, Salvatore Palidda, Michele Prospero, Franco Piperno, Annamaria Rivera e altri)

Per adesioni:
perluniversitapubblica@gmail.com

Il muro di Berlino cadde sulla testa della sinistra italiana come il giorno del Signore nella prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «Voi sapete bene che il giorno del Signore arriverà come un ladro, di notte. Proprio quando la gente dirà “Pace e sicurezza”, improvvisa piomberà su di essi la rovina, allo stesso modo che arrivano alla donna incinta i dolori del parto. E non scamperanno». Per alcuni nel partito comunista italiano fu proprio così: Alessandro Natta, che fino all’88 aveva guidato il Pci, confidò a Claudio Petruccioli (era il 10 novembre, poche ore dopo la notte fatale) che «Hitler aveva vinto».

Fu in quei giorni che il suo successore, Achille Occhetto, cominciò a parlare, alla Bolognina, della Cosa: non riuscì ancora a darle un nome, ma sentì che per scampare bisognava subito inventarsi un partito nuovo e soprattutto un nome che facesse dimenticare il passato con i suoi tanti pensieri falsi, le sue doppie verità, le sue volontarie impotenze. Per molti militanti fu una scossa, perché il passato non lo dismetti in una notte alla maniera in cui Stalin dismetteva storie e compagni, cancellandone le tracce.

Perché il nuovo non puoi definirlo una Cosa, solo perché hai paura di usare parole tragicamente disonorate come progetto, ideologia, meta. Non solo: se i vertici cambiarono così prontamente strada, vuol dire che per decenni avevano nascosto alla base il vero: se avessero parlato prima, non avrebbero permesso che l’Italia restasse senza alternanza per quasi mezzo secolo.

Da allora sono passati vent’anni, e gli eredi del Pci ancora soffrono quel congedo precipitoso, quel vocabolario che d’un colpo si svuota. Ci sono parole che lasciano l’impronta anche se son nebbia, e un destino simile toccò alla Cosa. Al posto dell’idea del mondo, comparve questo sostantivo che è un annuncio, un guscio che si promette di riempire: «un nome generico - scrive il Devoto - che riceve determinazione solo dal contesto del discorso». Tutto da allora è stato futuro appeso a un contesto indeterminato: anche le primarie, cui si era chiamati a aderire senza saper bene a cosa si aderisse.

Anche la speranza di coniugare le due forze fondatrici della repubblica: il socialismo e il cattolicesimo, dimenticando (lo storico Giuseppe Galasso l’ha ricordato il 30 agosto sul Corriere della Sera) il terzo incomodo che è la tradizione laica, liberale, radicale. Riesaminando l’ultimo ventennio, Arturo Parisi parla del controllo che le nomenclature dell’ex Pci hanno finito con l’acquisire sull’Ulivo, e del patto stretto da esse con i falsi innovatori dello stesso partito. I candidati segretari regionali provenienti dai Ds erano nelle ultime primarie il 75 per cento del totale, facendo «coincidere la geografia elettorale del Pd con i confini del voto comunista» e sconfiggendo l’Ulivo (intervista a Gianfranco Brunelli, Il Regno 16/2009).

Forza indispensabile della sinistra ma non bene identificata, l’ex Pci l’ingombra con il peso, non leggero, di una storia ripudiata. Sono anni che espia, fino all’eccesso, un passato di cui tuttavia non vuol parlare. Il centrismo, i toni bassi, la tregua fra i poli, la politica senza contrapposizioni: siamo in un paese dove il principale partito di sinistra, vergognandosi del passato, non fa vera opposizione per tema di somigliare a quel che era. Dallo spirito dell’89 ha appreso poco. Lo stato di diritto, l’onestà delle élite, la scoperta del conflitto sale della democrazia: la liberazione dell’89 ha preso da noi la forma di Mani Pulite, senza lambire la politica. Inutile prendersela con i magistrati, se l’ansia di rigenerazione hanno finito con l’esprimerla solo loro. Bersani ha preso atto, ieri, che dialogo è ormai una «parola malata e ambigua».

L’espugnazione dell’Ulivo e del Pd non crea identità. Anche il socialismo italiano fu espugnato così: usurpandolo, non integrandolo e cercando di capire l’altrui tracollo oltre che il proprio. Anche per il socialismo italiano la caduta del Muro spuntò infatti come un ladro notturno. Le metamorfosi del Pci sono una storia di crudele appropriazione, ma il socialismo è non meno colpevole di questo furto di vocaboli e identità. Non è mai riuscito a divenire dominante, come nel resto d’Europa. E quando con Craxi volle disputare la rappresentanza della sinistra al Pci non seppe trarne le conseguenze: continuò nei suoi doppi giochi, prospettò l’unità delle sinistre senza rinunciare a spartire potere, non si rinnovò moralmente ma degradò sino a divenire il simbolo della corruttela italiana.

In un lucido saggio sull’Italia, lo storico Perry Anderson descrive un partito socialista che ingenera il berlusconismo, spiegando come questi sia erede dell’ultimo Psi più che della Dc (London Review of Books, 21-3-02). La spregiudicatezza di Craxi è un tratto speciale e irripetibile della nostra cultura. Altrove lo spregiudicato è figura settecentesca che combatte pregiudizi, dogmi: non coincide con l’uomo senza scrupoli. Da noi i due tratti si confondono, e spregiudicatezza è encomiabile virtù di chi sprezza le regole, la legge, l’etica, nella certezza che il potere renda tutto lecito se non legale. L’intera classe dirigente ne è responsabile, e non stupisce che da decenni l’agenda della politica sia dettata da Berlusconi.

Occhetto sperava forse in una svolta autentica. Sperava in una carovana che viaggiando associasse forze diverse, e temeva la caserma anelata da Massimo D’Alema. Un timore che si rivelò giustificato, ma che non vede il solo D’Alema sul banco degli imputati. Questi fu almeno chiaro: l’Ulivo non gli piacque mai. Più colpevoli furono i falsi innovatori, che promettevano senza mantenere: che non hanno esitato, come Veltroni, a distruggere l’ultimo governo Prodi.

Ciononostante è D’Alema la persona chiave del ventennio. In qualche modo è restato quel che era, senza più dogmi ma con inalterata volontà di potenza. Dei comunisti ha la stessa insofferenza verso il dissenso, lo stesso fastidio freddo verso la stampa indipendente. Sono sue e non di Berlusconi frasi come: «I giornali? È un segno di civiltà non leggerli. Bisogna lasciarli in edicola». La morte temporanea dell’Unità, nel 2000, lo testimonia. Michele Serra parlò di delitto perfetto su la Repubblica: «La fine dell’Unità, forse più ancora della Bolognina, illumina lo sconquasso identitario della sinistra italiana. Ne racconta le insicurezze, i complessi di inferiorità, l’incerto e poco lineare incedere verso una modernità spesso vissuta da praticoni».

Vivere la modernità da praticoni è l’abbandono dell’ideologia, in nome dell’antidogmatismo. Il fatto che le ideologie totalitarie siano perite, non significa che un partito possa solo vivere di volontà di potenza, e su essa fabbricare inciuci. Che possa continuare a ricevere il colore da discorsi effimeri. Dotarsi di un’ideologia vuol dire avere un sistema coerente di immagini, metafore, princìpi etici. Vuol dire pensare un diverso rapporto con gli stranieri, la natura, il lavoro che muta, l’immaginario. A differenza della politica quotidiana, l’ideologia ha una durata non breve ma media, e la durata non è imperfezione. È perché non aveva idee sull’informazione di massa e sulla società di immigrazione che la sinistra fu travolta da Berlusconi. Che non seppe adottare, subito, una legge sul conflitto d’interesse. Che giunse sino a chiamare la Lega una propria costola.

Perry Anderson ritiene che la nostra sinistra sia invertebrata. Una Cosa appunto, senza scheletro: un metamorfo, come nel film di Carpenter. Il suo sogno ricorrente è quello d’un paese normale: un’altra Cosa - imprecisa, mimetica - che dall’89 cattura gli spiriti. La sinistra invertebrata ha corteggiato Clinton, Blair, Schröder, tessendo elogi del moderatismo, del centrismo. Vita normale, per la sinistra, ha significato sin qui smobilitazione ideologica, conformismo: il nuovo ancora lo si aspetta.

Se non si corresse il rischio di fare un regalo a Mediaset, favorendo la concentrazione televisiva e pubblicitaria privata costituita dall’azienda del premier, forse bisognerebbe dire che è arrivata l’ora di non pagare più il canone d’abbonamento alla Rai. L’ora, cioè, dell’obiezione fiscale. O comunque, della disdetta collettiva, in forza di una protesta popolare e civile. Con la demolizione della terza rete, ultimo bastione di quella riserva indiana in cui è stata confinata l’informazione televisiva non ancora asservita al governo in carica, si completa la manovra di accerchiamento del servizio pubblico, con l’occupazione "manu militari" dell’azienda di viale Mazzini e la sua definitiva normalizzazione. Questo non è che l’epilogo di un lungo assedio in cui si intrecciano interessi privati e pretese di egemonia politica. L’assalto finale al Palazzo di vetro della televisione pubblica, tutt’altro che trasparente e luminoso.

Il declassamento annunciato di Rai Tre da rete nazionale a rete regionale, attraverso la rimozione del direttore Paolo Ruffini, non corrisponde però soltanto a un "escamotage" per smantellare trasmissioni considerate scomode o irriverenti: da Ballarò di Giovanni Floris a Che tempo che fa di Fabio Fazio, per arrivare fino al talk-show satirico Parla con me di Serena Dandini. Già questo, per la verità, sarebbe di per sé grave e preoccupante. E non tanto sul piano politico, del pluralismo interno o dell’indipendenza professionale; quanto proprio sotto l’aspetto del palinsesto, della produzione, della varietà e articolazione di scelte offerte al pubblico dei telespettatori.

Ma il progetto per così dire federalista che punta a trasformare la terza rete in una Repubblica televisiva separata, in una diaspora permanente di tg e programmi locali, insomma in un’appendice di viale Mazzini, minaccia in realtà di ridurre tutta la Rai da tv di Stato a tv di regime, mortificando l’identità e il ruolo istituzionale del servizio pubblico in funzione di una subalternità assoluta al governo e alla sua maggioranza. Se è vero che quest’ultima beneficia in Parlamento di una sia pur legittima maggiorazione, prodotta dal sistema elettorale vigente, è altresì vero che non gode di una maggioranza effettiva di voti e di consensi nel Paese. E ciò, evidentemente, rende ancora più abusiva la colonizzazione politica di viale Mazzini da parte del centrodestra, guidato da un premier-tycoon che è anche il principale concorrente privato dell’azienda pubblica.

Si dirà, magari, che in fondo è sempre stato così, che la Rai gravita da sempre nell’orbita governativa. Ovvero, per usare un’espressione di Bruno Vespa, che storicamente l’azienda ha considerato il partito di maggioranza come il proprio azionista di riferimento. Eppure, a parte la questione irrisolta del conflitto d’interessi in capo a Berlusconi, è stata proprio la presenza della terza rete a rappresentare finora un presidio di autonomia, a garanzia della minoranza, se non un alibi o una foglia di fico.

Ricordiamo tutti che, ai tempi della vituperata Prima Repubblica, questo fu il risultato di una spartizione fra maggioranza e opposizione, con l’appalto di Rai Tre e del Tg3 al vecchio Pci: era l’epoca della celebre "Tele Kabul", affidata all’esperienza e alla professionalità del povero Sandro Curzi. E sappiamo bene che, all’interno delle reti e delle testate giornalistiche, imperava (e continua a imperare) la legge della lottizzazione fra i partiti, le loro correnti e sottocorrenti. Ma la terza rete, al di là di certi estremismi e faziosità, ha rappresentato tuttavia un surrogato di alternativa, una zona franca, uno spazio di libertà, mentre oggi la sua amputazione rischia di compromettere la stessa ragion d’essere del servizio pubblico.

Con la forza profetica dei suoi arcani sondaggi, recentemente il capo del governo ha predetto che, in seguito al comportamento della Rai nei suoi confronti, l’evasione del canone è destinata a passare dal 30 addirittura al 50 per cento. Senza ricorrere all’ausilio di indagini demoscopiche, c’è da meravigliarsi semmai che ciò non sia ancora avvenuto. In rapporto al servilismo di gran parte dell’informazione – e in qualche caso anche dell’intrattenimento – propinato quotidianamente ai cittadini abbonati, la quota di evasione dovrebbe arrivare anzi al 65 per cento, corrispondente all’area elettorale che ha votato contro o comunque non ha votato a favore del centrodestra.

Sta di fatto che il servizio pubblico esiste in tutti i Paesi democratici e in alcuni di questi, a cominciare dalla Gran Bretagna della mitica Bbc, è finanziato soltanto dal canone d’abbonamento. Ora, se ne esiste uno al mondo in cui la sua funzione è assolutamente necessaria, questo è proprio il nostro, dominato dall’anomalia del conflitto d’interessi e ancor prima dalla concentrazione televisiva e pubblicitaria. L’obiettivo prioritario, piuttosto, resta quello di affrancare la Rai dalla sudditanza alla politica e dalla subalternità al governo.

Non c’è scritto in nessuna legge che in Italia la tv pubblica debba gestire tre reti: e infatti non accade altrove. Ma non c’è scritto neppure che un solo operatore privato ne debba detenere altrettante, in concessione dallo Stato. Né tantomeno che lo stesso soggetto controlli poi quelle pubbliche direttamente dalle stanze di Palazzo Chigi. Prima di abolire o disdire il canone, è necessario allora ridurre la concentrazione televisiva ed eliminare il conflitto d’interessi che condizionano l’intero sistema dell’informazione nel nostro Paese.

Da Parigi l'Ocse ci ha informati che il superindice dell'economia (una sorta di termometro) rileva «forti segnali di crescita in Italia, Francia, Gran Bretagna e Cina». A palazzo Chigi, Berlusconi come una molla ha rilanciato il dato Ocse e i suoi fedeli hanno calcato la mano, sostenendo che la sinistra dovrebbe vergognarsi di spargere allarmismo e riconoscere la bontà dell'azione di governo che sta portando l'Italia fuori delle secche della crisi.

Nessun dubbio che i dati Ocse siano positivi. Ma l'organizzazione parigina dice anche: stiamo attenti. E chiede di leggere i dati con cautela perché - è la sintesi - potrebbero nascondere non tanto una forte crescita, ma una crescita modesta rispetto al potenziale di lungo termine. Come dire: non c'è solo «un miglioramento dell'attività economica», ma più verosimilmente un attenuarsi del sentiero di crescita. Insomma, l'economia torna a salire, ma a livelli infimi. E non a caso, l'Italia tornerà - se tutto va bene - agli stessi livelli del Pil del 2007 soltanto nel 2013.

Sostiene l'Ocse che «una ripresa è chiaramente visibile negli Stati uniti». Vero: lo conferma il dato positivo del Pil nel terzo trimestre. Ma non tutto fila liscio e la conferma è arrivata ieri: in ottobre sono stati distrutti altri 190 mila posti di lavoro e le persone in cerca di occupazione sono ulteriormente aumentate, toccando quota 15,7 milioni, 558 mila in più in un solo mese. Il comunicato diffuso dal dipartimento al lavoro ci dice che dall'inizio della recessione (dicembre 2007) sono stati distrutti 8,2 milioni di posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è salito al 10,2%.

Alcuni giorni fa, dagli Usa avevamo anche saputo che la produttività sta salendo a ritmi pazzeschi, mentre i salari stanno diminuendo. Bene per i profitti, malissimo per l'economia. Non solo per gli effetti sociali, ma anche per quelli più economici: la crescente disoccupazione e la riduzione dei salari, stanno portando a una contrazione della domanda, esaltata solo da quella dei consumi di «lusso». Anche gli investimenti ristagnano: perché quando la domanda di consumi è bassa, la produttività in crescita e la capacità produttiva inutilizzata a livelli storicamente molto alti, le imprese non sentono il bisogno di investire.

Noriel Roubini, l'unico economista ad aver previsto la crisi, nei giorni scorsi con un saggio (pubblicato in Italia da Sole 24 ore) ha messo in guardia da questo tipo di ripresa e dalle follie finanziarie che stanno gonfiando nuove bolle speculative. Il messaggio è chiaro: senza una ripresa dell'economia reale, questa (ripresa) sarà effimera, di breve durata. Ma come fare per consolidarla, senza ripercorrere il vecchio modello di sviluppo che inevitabilmente condurrà a nuove crisi? Per Keynes certe decisioni di investimento non possono essere lasciate in mano al capitale privato. Senza essere così «estremisti» e pretendere la socializzazione dei mezzi di produzione, di spazio per la mano pubblica ce n'è in abbondanza. Per favorire la ripresa dell'accumulazione privata, sostituirla, se assente (anziché tagliare risorse come per la banda larga) e stimolare i consumi pubblici.

All’origine del sentimento di giustizia c’é un sentimento naturale di vendetta – gli utilitaristi lo chiamavano sentimento "animale" per sottolinarne l’utilitá immediata per l’individuo ma anche la necessitá della sua rieducazione. È un sentimento "naturale" nel senso che viene prima di ogni educazione morale e intellettuale, prima della riflessione ragionata e delle istituzioni, e serve a orientare la nostra risposta all’ambiente in vista della nostra sopravvivenza, il bene primario.

Uno dei padri fondatori del liberalismo, John Locke, sosteneva per questo che benché capaci di naturale giudizio morale e di ragionevolezza, gli esseri umani non riescono a vivere fuori dello stato per una ragione molto semplice: perché non sanno essere imparziali. Quando vengono offesi o danneggiati giudicano in maniera parziale perché danno a se stessi e alle proprie cose un valore sproporzionato in eccesso. Per questo serve un giudice esterno: una norma che non sia fatta né da chi ha subito il danno (giustizia come vendetta) né da chi il danno vuole perpetrarlo (giustizia come licenza) ma da chi si mette ipoteticamente nella condizione ideale di un giudice disancorato o di chi non é parte in causa e che per questo riesce a valutare spassionatamente. Su queste premesse riposa la possibilitá di creare la pace sociale.

La civilitá puó essere a ragione definita come un processo faticoso, e a quanto pare mai compiuto, per superare o domare il sentimento "animale" della giustizia come vendetta e ritorsione in un sentimento riflessivo che sappia giudicare a prescindere dalle passioni che l’ingiustizia provoca nella vittima o dagli interessi che un comportamento equo può imporre di sacrificare. Come si può intuire, ragionare secondo giustizia é un esercizio tutt’altro che spontaneo e facile: l’educazione che i genitori ci impartiscono quando siamo bambini e che l’obbedienza delle leggi ci conferma quando siamo adulti é un segno di quanto sia innaturale ragionare secondo giustizia e quanto venga invece spontaneo farci guidare dall’istinto di proteggere noi stessi e le nostre cose con tutti i mezzi e sopra tutto e tutti. Lo Stato di diritto, la norma uguale per tutti, l’autonomia della sfera giuridica da quella politica sono gli esiti piú importanti di questo grande e difficile cammino della civiltà dalla naturalità del sentimento di vendetta al sentimento ragionato di giustizia.

In Italia si assiste a una trasvalutazione dei valori, a un rovesciamento vero e proprio del sentimento di giustizia per cui si sente dire con rituale frequenza e impudica chiarezza che i giudici perseguitano o che la giustizia si vendica, mentre la giustizia vera sarebbe quella più vicina ai propri desideri e interessi. Ovviamente la giustizia che si fa vendetta é un atto gravissimo. Ma quando ciò succede si é già fuori della giustizia, si é già nella dimensione del reato, per giudicare del quale é comunque necessaria una visione della giustizia come imparzialità. Per questo é sempre sbagliatissimo e improvvido associare la giustizia alla persecuzione o alla vendetta, anche quando per le ragioni le più diverse si dissente dall’operato dei giudici. Ed é sbagliatissimo soprattutto quando a fare questi proclami non sono cittadini ordinari che chiacchierano davanti a un bicchiere di vino, ma invece uomini delle istituzioni e mezzi di informazione. Siamo qui di fronte a un caso di stravolgimento di quella che é la relazione impersonale ordinata dalla legge tra il cittadino (potenzialmente tutti senza distinzione) che può aver o ha violato la legge e il magistrato che ha il compito di verificare che ciò sia avvenuto per poter giudicare il reato, comminare la pena e così restaurare l’integrità della legge.

Quando questa relazione viene stravolta dichiarandola vendicativa e questo stravolgimento addirittura esaltato in nome di più vera giustizia e fatto passare nel linguaggio ordinario si produce gravissimo danno non tanto o soltanto alle istituzioni, ma anche e soprattutto alla nostra personale sicurezza, poiché a cadere insieme al senso di giustizia é la fiducia reciproca (se giustizia é vendetta di chi ci si può più fidare?) e con essa la tranquillità della vita quotidiana. E purtroppo questo stravolgimento valoriale e linguistico ha effetti che sono difficili perfino da immaginare e controllare e che vanno ben al di là del fatto specifico per il quale esso é stato ad arte creato, ovvero la protezione degli interessi particolari di chi ci governa.

Il paradosso é che proprio colui dal quale vengono le accusa di persecuzione rivolte ai giudici, poi quando deve trovare un argomento di difesa del suo operato si appella proprio a una giustizia dei giudici. Rispondendo alle domande di Bruno Vespa sulla sua ricattabilitá, il Presidente del consiglio ha detto che quando nei suoi «confronti sono state avanzate richieste che secondo il giudizio [suo] e dei [suoi] legali si configuravano come ricattatorie, [egli si é] immediatamente rivolto all’autorità giudiziaria» – e se questo é vero é perché egli stesso deve presumere che questa autorità sia imparziale e per questo meritevole di autorità.

«Odio i viaggi e gli esploratori», una frase indimenticabile, che apre il volume forse più letto e conosciuto di Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici (1955), una frase che rimane impressa indelebilmente anche nei lettori che non odiano affatto i viaggi e gli esploratori e che prediligono quella letteratura di viaggio al cui genere l'opera da cui è tratta nonostante tutto appartiene e che ha stimolato generazioni di viaggiatori e di ricercatori che si sono avventurati alla ricerca di tropici più o meno tristi. Una frase paradossale, dunque, che sembra riassumere i molteplici paradossi che caratterizzano l'opera e il pensiero di Lévi-Strauss: probabilmente l'antropologo più celebre e influente del Novecento, che tuttavia ha lasciato più critici che allievi, la cui opera è guardata con venerazione e rispetto ma per lo più scorsa frettolosamente dalle generazioni più recenti di studiosi.

L'antropologo francese ha avuto la singolare fortuna di poter assistere, nel corso della sua lunga vita, non solo al culmine della propria notorietà e del prestigio accademico e scientifico, ma anche al declino dell'interesse per le proprie opere, fin quasi alla tacita emarginazione, e infine alla lenta riscoperta e rivalutazione che si è fatta strada solo negli ultimi anni.

Sotto il segno dell'universale

L'opera immensa e straordinaria di Lévi-Strauss riscuote spesso reazioni contrastanti e diametralmente opposte: alcuni lo ammirano senza riserve e sono affascinati dallo stile raffinato ed elegante, mentre altri rimangono infastiditi e insofferenti di fronte al linguaggio a volte oscuro e a un argomentare fluido e sfuggente.

Eppure la figura di Lévi-Strauss segna una profonda trasformazione nella storia dell'antropologia: la disciplina, dopo aver assorbito gli stimoli e le sollecitazioni dovuti alla sua opera, non è stata più la stessa di prima. Il pensiero dell'autore di Tristi Tropici ne ha modificato la fisionomia, ne ha trasformato il ruolo e le prospettive, ne ha rinnovato l'autorevolezza e la notorietà. Lévi-Strauss ha rappresentato un genere di antropologia diversa da quella resa celebre, per esempio, da Malinowski: una ricerca dettagliata e approfondita di una singola realtà etnografica attraverso la ricerca lunga e sistematica sul terreno, lo sforzo di vivere come un nativo e di narrarne il significato e le implicazioni.

L'antropologia lévi-straussiana è piuttosto una ricerca comparativa di ampio respiro, che si propone di esplorare l'ampio spettro delle differenze e delle somiglianze tra le società umane per mettere in luce ciò che di universale le accomuna e le sottende. La sua opera sulle Strutture elementari della parentela (1949) ha costituito per oltre mezzo secolo un riferimento obbligato per gli studi antropologici e ha segnato una svolta nel modo di affrontare lo studio dei sistemi sociali. Quello che appariva come un caotico groviglio di usanze, costumi, regole e proibizioni estremamente variabili da una cultura all'altra comincia a prendere forma, sotto il rigoroso e sistematico esame dell'antropologo, mostrando l'esistenza di una serie di principi fondamentali che stanno alla base di tutta una vasta serie di fenomeni.

Le varie forme di prescrizione matrimoniale, che stabiliscono chi si può (o si deve) e che non si può (o non si deve) sposare, rimandano a un numero limitato di principi strutturali riconducibili al modello dello scambio. L'apparente disordine e confusione della variabilità culturale trova la propria giustificazione e possibilità di spiegazione attraverso l'individuazione di un nucleo di principi strutturali universali. Forse un meccanismo troppo semplice per spiegare adeguatamente la molteplicità dei fenomeni e delle situazioni empiriche, come è stato messo in evidenza dagli studi successivi, tuttavia il salto di qualità che quest'opera ha consentito di fare è stato immenso e ha fornito argomenti di discussione e di riflessione per i successivi cinquant'anni di studi e di ricerche.

Per Lévi-Strauss, questa ricerca di ordine nel caos delle percezioni e delle rappresentazioni è un'esigenza che si manifesta non soltanto nel lavoro dell'antropologo, ma più in generale in ogni sistema culturale umano. L'uomo è essenzialmente un «animale simbolico», la sua caratteristica fondamentale e universale consiste nel costruire un sistema di categorie attraverso cui dare ordine e significato al mondo che lo circonda. Così come ogni lingua si fonda su una particolare articolazione e scelta dei suoni, ciascuna cultura elabora un complesso sistema di classificazione della realtà, che si basa anch'esso su un numero limitato di regole e di principi ma che può dare luogo a un'immensa varietà di rappresentazioni.

È grazie all'opera di Lévi-Strauss, in particolare al suo volume sul Pensiero selvaggio (1962), che si è affermato ampiamente il principio secondo cui i popoli extra-europei non sono semplicemente dominati da un pensiero «magico», da superstizioni e credenze assurde e irrazionali, da concezioni empiricamente infondate, ma dispongono di complessi e articolati sistemi di classificazione e di descrizione del mondo. La conoscenza del mondo naturale, degli animali, delle piante, del territorio manifestata da molti popoli indigeni si rivelava, grazie alle pagine dell'antropologo francese, di un'inaspettata profondità e accuratezza. Non solo, ma questa propensione a classificare, osservare, descrivere, è stata ricondotta da Lévi-Strauss a una universale qualità intellettiva dell'uomo, che è indipendente dalle esigenze immediate di ordine materiale.

La famosa frase, rivolta in modo critico alla teoria utilitaristica di Malinowski, in cui si afferma che gli animali per il pensiero indigeno sono non tanto «buoni da mangiare» quanto soprattutto «buoni da pensare», costituisce per l'antropologia un momento di svolta decisivo: viene di colpo restituita a tutta l'umanità, anche a quella più lontana ed esotica, la dignità intellettuale, la capacità di interrogarsi e di osservare, la curiosità di indagare e di scoprire, la necessità di porsi delle domande e di cercare delle risposte. A molti antropologi della seconda metà del Novecento questa enfasi posta da Lévi-Strauss sulla dimensione intellettiva della cultura è sembrata eccessiva e squilibrata: lo si è accusato di mentalismo e di intellettualismo, di trascurare in modo indebito gli aspetti più materiali dell'esistenza, come i condizionamenti ecologici e le esigenze della produzione economica, la dimensione corporea e le pratiche ad essa collegate. Tuttavia, rimane a Lévi-Strauss l'indiscutibile merito di aver portato una ventata di aria fresca in un settore che era rimasto a lungo intriso da radicati pregiudizi e da prospettive obsolete.

La sua insistenza sul fatto che il pensiero umano funziona dappertutto secondo meccanismi identici e che gli uomini «hanno sempre pensato altrettanto bene» ha contribuito in modo decisivo ad abbandonare l'idea che vi fossero differenze sostanziali nelle facoltà intellettive e nelle capacità riflessive tra le società umane.

Nel regno del mito

A partire dagli anni Cinquanta, i principali lavori teorici di Lévi-Strauss si sono rivolti a un campo di studi particolare e alquanto inconsueto: quello dei miti. La scelta sembra apparentemente bizzarra: perché interessarsi per tanti anni e con tanto impegno a quel coacervo di storie improbabili, a quei racconti apparentemente incoerenti e fantasiosi provenienti dalle lontane foreste dell'Amazzonia o dagli altopiani delle Montagne Rocciose? Tuttavia, anche in questo caso, Lévi-Strauss è stato in grado di mostrare come dietro quell'insieme caotico di eventi e di narrazioni, che raccontano di incesti e di assassini, di uomini e di animali, di luoghi misteriosi e di poteri sovrumani, esisteva un ordine, un disegno nascosto. Sovrapponendo e confrontando fra loro una versione con l'altra, un racconto con un altro, cominciavano a emergere alcune linee guida che dimostravano come i creatori di quelle narrazioni avessero cercato di rispondere ad alcune importanti questioni, che riguardano anche noi, uomini e donne del XXI secolo.

L'analisi delle mitologie delle Americhe conduce Lévi-Strauss a individuare un sistema di pensiero in cui la distinzione tra la natura e la cultura svolge un ruolo centrale. In realtà, secondo Lévi-Strauss, questo tema è fondamentale per l'umanità nel suo complesso: come spiegare altrimenti la spontanea facilità con cui tendiamo a distinguere in modo netto e reciso tra noi umani e gli altri animali? Perché abbiamo la tendenza a porre una barriera tra l'uomo e, poniamo, il cane e lo scimpanzé e caso mai siamo disposti a riconoscere una certa affinità maggiore tra noi e il nostro cagnolino piuttosto che con una scimmia abitatrice delle foreste, quando la distanza genetica che ci separa da quest'ultima è molto più piccola di quella esistente tra noi e il cane e quando la distanza tra cane e scimmia è molto più grande di quella tra gli uomini e i primati?

Per rispondere a tali interrogativi occorre prendere in considerazione il ruolo del pensiero simbolico come fonte per la costruzione di un ordinamento del mondo in cui l'uomo vive. Tuttavia, le diverse società umane risolvono in modo diverso gli stessi interrogativi fondamentali e l'analisi delle mitologie amerindiane consente di mettere in luce proprio le modalità attraverso le quali quelle società hanno sviluppato il rapporto tra la natura e la cultura. Nella definizione del mondo umano e nella sua contrapposizione al mondo circostante, molte culture americane hanno sottolineato non tanto la radicale separazione e incommensurabilità tra una dimensione e l'altra, quanto piuttosto le varie forme di mediazione che rendono possibile il passaggio tra natura e cultura, tra animalità e umanità, tra continuo e discontinuo.

Nei lunghi percorsi tortuosi che si addentrano nell'intrico delle mitologie americane e si snodano nei quattro ponderosi volumi delle Mythologiques (1964-1971), l'autore mostra come ogni mito richiami altri miti, della stessa popolazione e di altre popolazioni, più o meno vicine, in un continuo processo di rifrazioni e di trasformazioni. Dal sovrapporsi e intersecarsi dei motivi mitici comincia poco a poco a delinearsi un certo ordine, in cui il tema della cucina costituisce il fattore ricorrente. Il fuoco infatti costituisce un elemento di distinzione per eccellenza tra gli uomini, che padroneggiano il fuoco e mangiano cibi cotti, e gli altri animali, che fuggono impauriti alla vista del fuoco e che si nutrono di cibi crudi. Il fuoco costituisce così un essenziale strumento di trasformazione: è grazie all'impiego del fuoco che gli uomini sono in grado di trasformare il cibo crudo, prodotto della natura, in cibo cotto, risultato dell'intervento della cultura. I miti che narrano l'origine del fuoco sono poi connessi, in vario modo, con altri miti che raccontano l'origine dei maiali selvatici, che costituiscono la fonte principale di cibo ottenuto attraverso la caccia, e quindi la materia prima su cui si esercita l'arte della cucina. Questi a loro volta richiamano altri due elementi: il tabacco e il miele.

Che cos'hanno in comune il miele, il tabacco e il fuoco da cucina? Lévi-Strauss mostra, con un talento e una raffinatezza di riflessione ineguagliabili, come il miele costituisca una sorta di alimento già «cotto», cioè preparato, allo stato di natura, quindi senza l'intervento dell'uomo. Il tabacco, invece, richiede, per essere consumato, di venire bruciato: si ha così una sorta di eccesso di intervento culturale, che pone il tabacco in relazione con gli esseri soprannaturali. Così mentre il miele è un prodotto elaborato da esseri non umani (le api), il tabacco è un prodotto il cui consumo culturale implica la sua distruzione, per aspirarne il fumo. Tutti questi racconti finiscono quindi per parlare delle stesse cose e per elaborare in vari modi il tema delle molteplici forme di passaggio dal mondo naturale al mondo culturale e viceversa.

Allievo e testimione dei primitivi

Le analisi di Lévi-Strauss sono complesse, intricate, si sviluppano per centinaia di pagine e non sono quindi facilmente ripercorribili. Molti autori le considerano elaborazioni cervellotiche e infondate. Tuttavia, il lettore che abbia la pazienza di scorrere quelle pagine ne rimarrà affascinato e coinvolto: non potrà sfuggire alla sensazione che quelle storie, apparentemente strane e sconnesse, devono essere prese sul serio e, con esse, i loro lontani e remoti creatori. E allora il ricordo corre inevitabilmente alla lezione inaugurale, tenuta nel 1960 al Collège de France, al termine della quale l'antropologo francese volle tornare con il pensiero ai popoli della foresta tropicale presso i quali aveva svolto le sue prime ricerche e di cui si definì «loro allievo e loro testimone». Generazioni di antropologi si sono sforzati e ancora si sforzeranno in futuro di sviluppare le profonde conseguenze e implicazioni di questa affermazione, per alcuni aspetti sorprendente, di Claude Lévi-Strauss.

Ancora una volta una sentenza prevedibile, ben argomentata giuridicamente, non suscita le riflessioni che meritano le difficili questioni affrontate, ma induce a proteste sopra le righe, annunci di barricate, ambigue sottovalutazioni.

Dovremmo ricordare che le precedenti decisioni italiane, che avevano ritenuto legittima la presenza del crocifisso nelle aule, erano state assai criticate per la debolezza del ragionamento giuridico, per il ricorso ad argomenti che nulla avevano a che fare con la legittimità costituzionale. E, considerando il fatto che la nostra Corte costituzionale aveva ritenuto inammissibile per ragioni formali un ricorso in materia, s’era parlato addirittura di una "fuga della Corte", nelle cui sentenze si potevano ritrovare molte indicazioni nel senso della illegittimità della esposizione del crocifisso.

Nella decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha ritenuto quella esposizione in contrasto con quanto disposto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non v’è traccia alcuna di sottovalutazione della rilevanza della religione, della quale, al contrario, si mette in evidenza l’importanza addirittura determinante per quanto riguarda il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e la libertà religiosa degli alunni. La sentenza, infatti, sottolinea come la scuola sia un luogo dove convivono presenze diverse, caratterizzate da molteplici credenze religiose o dal non professare alcuna religione. Si tratta, allora, di evitare che la presenza di un "segno esteriore forte" della religione cattolica, quale certamente è il crocifisso, "possa essere perturbante dal punto di vista emozionale per gli studenti di altre religioni o che non ne professano alcuna".

Inoltre, il rispetto delle convinzioni religiose di alcuni genitori non può prescindere dalle convinzioni degli altri genitori. È in questo crocevia che si colloca la decisione dei giudici di Strasburgo che, in ossequio al loro mandato, devono garantire equilibri difficili, evitare ingiustificate prevaricazioni, assicurare la tutela d’ogni diritto.

Non si può ricorrere, infatti, all’argomento maggioritario, come incautamente aveva fatto il Tar del Veneto, che per primo aveva respinto la richiesta di togliere il crocifisso dalle aule, ricorrendo ai risultati di un sondaggio che sottolineava come la grande maggioranza degli interpellati fosse a favore del mantenimento di quel simbolo.

Un grande teorico del diritto, Ronald Dworkin, ha ricordato che «l’istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev’essere ancor più sincera». La garanzia del diritto, fosse pure quella di uno solo, è sempre un essenziale punto di riferimento per misurare proprio la tenuta di uno Stato costituzionale.

Guai a considerare la sentenza di ieri come un documento che apre un insanabile conflitto, che nega l’identità europea, che è "sintomo di una dittatura del relativismo", addirittura "un colpo mortale all´Europa dei valori e dei diritti". Soprattutto da chi ha responsabilità di governo sarebbe lecito attendersi un linguaggio più sorvegliato. Non vorrei che, abbandonandosi a queste invettive e parlando di una "corte europea ideologizzata", si volesse trasferire in Europa lo stereotipo devastante dei giudici "rossi", che tanti guai sta procurando al nostro paese. Allo stesso modo sarebbe sbagliato se il fronte "laicista" cavalcasse il pronunciamento per rilanciare una battaglia anti-cristiana.

Mantenendo lucidità di giudizio, si dovrebbe piuttosto concludere che la sentenza della Corte europea vuole sottrarre il crocifisso a ogni contesa. In questo è la sua superiore laicità. Viviamo tempi in cui la difesa della libertà religiosa non può essere disgiunta dal rispetto del pluralismo, da una riflessione più profonda sulla convivenza tra diversi. L’ossessione identitaria, manifestata anche in questa occasione e che percorre pericolosamente i territori dell’Unione europea, era lontanissima dai pensieri e dalla consapevolezza che ispirarono i padri fondatori dell’Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, che proprio quando si scrisse la Convenzione sui diritti dell’uomo nel 1950, quella sulla quale è fondata la sentenza di ieri, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a "radici cristiane", che avrebbero introdotto un elemento di divisione nel momento in cui si voleva unificare l’Europa, anche intorno all’eguale diritto di tutti e di ciascuno. Dobbiamo rimpiangere quella lungimiranza?

Questa sentenza ci porta verso un’Europa più ricca, verso un’Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi, dove acquista pienezza quel diritto all’educazione dei genitori che i cattolici rivendicano, ma che deve valere per tutti. Libera anche il mondo cattolico da argomentazioni strumentali che, pur di salvare quella presenza sui muri delle scuole, riducevano il simbolo drammatico della morte di Cristo a una icona culturale, ad una mediocre concessione compromissoria ai partiti d’ispirazione cristiana (così è scritto nella memoria presentata a Strasburgo della nostra Avvocatura dello Stato). L’Europa ci guarda e, con il voto unanime dei suoi giudici, ci aiuta.

Ieri mattina splendeva un sole freddo su Grant Park, in riva al lago Michigan, un vero e proprio mare interno: quasi zero gradi sotto un cielo terso spazzato dal vento. In questo parco, un anno fa, il 4 novembre 2008, Barack Obama aveva celebrato la sua vittoria di fronte a una folla immensa tra la cui esultanza quasi incredula mi ero aggirato per cogliere l'irripetibilità del momento storico. A mezzogiorno di ieri invece gli attivisti di Chicago hanno chiamato a una manifestazione proprio per l'anniversario di quell'elezione. Quanto diversi i due raduni: l'uno, un anno fa, immenso, oceanico in una notte quasi calda, brulicante di umanità; l'altro sparuto, in una mattina fredda, nel centro città semivuoto durante le ore di ufficio. Ma anche lo stato d'animo è opposto. Un anno fa l'aspettativa, persino eccessiva, dell'«ora è tutto possibile», e insieme la fierezza di avere vinto. Adesso invece una prudenza ansiosa, l'urgenza di criticare e di spingere dal basso, frenata dalla volontà di non indebolire il presidente, di non mettergli i bastoni tra le ruote.

Colpiva ieri la cautela dei manifestanti, proprio perché questi militanti sono il nucleo duro del «popolo di Obama», di quelle centinaia di migliaia di attivisti la cui dedizione aveva reso possibile la vittoria del primo presidente nero della storia Usa. Un anno è periodo troppo breve per tracciare il bilancio di una presidenza, ma i tempi della politica americana sono così frenetici che già oggi i candidati stanno decidendo le strategie da adottare per le elezioni di metà mandato ( mid term ) che si terranno tra un anno esatto e che rinnoveranno la totalità della Camera dei deputati e un terzo del Senato. Per ora, il presidente ha una maggioranza comoda alla Camera e una netta (anche se non a prova di ostruzionismo) al Senato. Ma se i cittadini non saranno convinti da questo primo anno, i democratici potrebbero andare in minoranza al Congresso, rendendo così impraticabile qualunque riforma auspicata da Obama.

È il dramma della politica Usa: le elezioni non finiscono mai, visto che subito dopo quelle di mid term già incombono le primarie per le presidenziali del 2012. La domanda che ieri inquietava i dimostranti era: Obama ha davvero voltato pagina rispetto all'America di Bush? Sta davvero iniziando una nuova stagione per gli Stati uniti? Malgrado le inquietudini dei militanti Usa, la risposta è positiva, anche se con qualche cautela e alcune riserve. Il bilancio di questo primo anno di Obama va infatti articolato su diversi piani.

La dimensione simbolica Il primo, e decisivo, terreno su cui Obama ha davvero voltato pagina, è quello simbolico . Non si sottolineerà mai abbastanza quale rivoluzione mentale sia stata l'elezione di un presidente afroamericano in una paese in cui il razzismo è ancora fortissimo, anche quando è sotterraneo. Non solo: l'annuncio della chiusura di Guantanamo, la fine del programma di extraordinary renditions (rapimento e deportazione clandestina dei sospetti terroristi in paesi che praticano la tortura) sono stati il segnale più chiaro di un nuovo modo di concepire il ruolo della potenza americana. Il discorso al Cairo sui rapporti con l'Islam ha gettato alle ortiche ogni riferimento alla disgraziata idea dello «scontro di civiltà», all'atmosfera da «nuova crociata» che era invalsa sotto George Bush jr. Il metodo con cui in aprile e settembre Obama ha condotto i summit dei G20 a Londra e a Pittsburgh, ha reintrodotto nelle trattative internazionali quel multilateralismo tanto disprezzato da Dick Cheney. Né va sottovalutata, dal punto di vista simbolico, la sovraesposizione mediatica del presidente che si è posto sempre sotto i riflettori, sempre usando (e i critici dicono abusando) del suo carisma.

Anche in questo Obama ha voltato pagina, spendendo a piene mani il suo capitale politico. Di questo protagonismo e di questa svolta simbolica, il riconoscimento più sensazionale (e meno atteso) è stato il premio Nobel per la pace di cui è stato insignito a ottobre. La dimensione simbolica e la manovra economica sono i due terreni che hanno monopolizzato il primi tre mesi di presidenza. In quel periodo Obama si è spinto il più lontano possibile in tutti i campi in cui poteva procedere a titolo personale, a colpi di decreti ( presidential orders ), in cui non doveva dipendere da un'elusiva maggioranza al Senato: perché, se è vero che i democratici dispongono di 59 seggi su 100, è anche vero che almeno 6 dei loro senatori si situano più a destra di Attila, veri e propri reazionari in politica economica e sociale (come si vede sul terreno della riforma sanitaria).

Proprio ieri alcuni dati mostravano che si moltiplicano i segnali di ripresa (produzione industriale in crescita, profitti boom per la Ford, costruzione di nuove case in salita), anche se bisogna andarci cauti perché questi dati sono pompati dalla necessaria ricostituzione degli stock che erano stati svuotati e dagli incentivi al consumo, che presto o tardi s'interromperanno. Qualunque sia però il giudizio sulla manovra di Obama, un risultato positivo è certo: ha interrotto la spirale discendente che stava portando il mondo in uno spaventoso baratro economico. Le vittorie incerte Il rovescio della medaglia è che questo risultato è stato conseguito concedendo tutto e di più ai banchieri e alla finanza di Wall street, senza chiedere in cambio nulla, condonando tutte le loro malefatte, socializzando le perdite accettando che i profitti continuino a essere privatizzati. E soprattutto lasciando il mercato del lavoro in una situazione disastrata.

Obama e i suoi consiglieri sono rimasti prigionieri dell'idea liberista che, per far ripartire l'economia, bisogna finanziare i ricchi e sgravare i miliardari: da qui la rabbia di tanta sinistra Usa che si è sentita tradita dalla munificenza con cui la presidenza Obama ha ricoperto d'oro le banche mentre ha solo tamponato il disagio sociale: ma senza il pacchetto obamiano, metà degli insegnanti Usa sarebbero oggi per strada. La disoccupazione resta il nodo su cui l'anno prossimo gli elettori giudicheranno la sua presidenza: senza segnali di ripresa del mercato del lavoro, il disincanto si farà sentire. D'altronde solo un errore prospettico aveva permesso di non cogliere il vistoso appoggio fornito da Wall street alla candidatura di Obama. Più in generale, la sinistra Usa rimprovera a Obama il suo desiderio di piacere a tutti, di farsi accettare da tutti, la sua sincera aspirazione a un mondo bipartisan , e quindi la sua riluttanza ad andare allo scontro. Un desiderio niente affatto ricambiato dai repubblicani o dalla finanza che interpretano lo spirito bipartisan come pura remissività. Da quest'ansia per il consenso a ogni costo nascono tutti i problemi della politica obamiana.

Una qualche riforma sanitaria vedrà probabilmente la luce, ma a prezzo di una formulazione che tutti prevedono abborracciata e costosa: anche qui si tratta di vedere se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto. Già il fatto che una riforma sarà approvata è un risultato storico, dopo che da più di mezzo secolo tanti presidenti ci hanno provato invano. La sua formulazione ibrida e pasticciata può indicare però un'occasione persa. Per restare alla politica interna, anche sul tema dell'immigrazione Obama paga lo scotto del piede in due staffe, per cui non riesce a portare avanti la regolarizzazione dei clandestini, mentre deve rassicurare la frange xenofobe dell'elettorato punendo gli imprenditori che assumono immigrati in nero. Così Obama si sta alienando i latinos che costituiscono una delle fette più importanti del suo elettorato, senza per altro lenire l'ostilità dei conservatori che pretendono leggi leghiste. L'incapacità di andare allo scontro fa sì che in gran parte della politica estera la svolta sia rimasta più simbolica che reale, con la notevole eccezione dei rapporti con la Russia (con l'abbandono dello scudo spaziale in Europa orientale), e dell'America latina (con il netto miglioramento del clima con il Venezuela di Chavez e la Cuba di Raul Castro). Il discorso del Cairo non ha prodotto nulla sul conflitto israelo-palestinese su cui anzi si assiste a una progressiva acquiescenza di Washington alle tesi oltranziste del governo di destra di Netanyahu. E naturalmente su tutta l'area pesa l'incognita dell'escalation in Afghanistan: a tutt'oggi non è ancora chiaro se Obama avrà la forza di opporsi ai desiderata dei suoi generali che chiedono l'invio di altri 40.000 soldati, o se, per tenere buoni tutti, accetterà di mandare rinforzi, anche se non tutti quelli richiesti.

A un compromesso ci è già arrivato con i servizi segreti quando ha in pratica messo in cantina l'idea di abrogare il Patriot Act, la legge liberticida approvata l'indomani dell'11 settembre 2001, e quando ha rimandato alle calende greche l'idea di chiudere le altre prigioni clandestine, come quella di Bhgram in Afghanistan (Guantanamo invece pare proprio che sarà chiusa). Insomma, su tutti i punti su cui dovremo valutare la presidenza Obama il risultato è incerto: la partita è ancora aperta su disoccupazione, immigrazione, pace in Medio oriente, disimpegno da Iraq e Afghanistan (in Iraq sono destinati a restare più di 50.000 soldati dopo il «ritiro totale» del 2011). L'unico equivoco definitivamente chiarito è quello in cui era caduta la sinistra mondiale che aveva investito Obama di attese messianiche, addirittura rivoluzionarie, quasi che gli Usa avessero eletto un presidente antiamericano, una sorta di Gorbaciov statunitense che distruggesse dall'interno il suo impero. Ma a differenza che in Urss, negli Usa un siffatto leader verrebbe cancellato subito, con uno scandalo o una pallottola. E in realtà lo scopo più volte dichiarato di Obama è di rafforzare la potenza Usa, di fare in modo che anche il XXI sia un «secolo americano».

Solo che aspira a «un impero del bene», crede sinceramente che il modello americano possa portare pace prosperità al mondo. Ambisce a essere il leader del capitalismo buono. Più di questo non gli si può, anzi è sbagliato chiedere, ed è già tanto se riuscirà a realizzare almeno una parte del suo progetto.

«Andate via», urla il guardiano uscito da un casotto prefabbricato, in cima a un´altura. Non sono le tombe di Tuvixeddu che sorveglia, i duemila sepolcri che vanno dall´età punica a quella imperiale, ma i cantieri disseminati in quest´area archeologica fra le più pregiate del Mediterraneo. A Tuvixeddu si costruisce. Le prime palazzine nella necropoli stanno sorgendo lungo via Is Maglias. Sono edifici di sei piani, un assaggio della colata di cemento che potrebbe sversarsi intorno alla collina che si erge nel cuore della città. Annullati dal Consiglio di Stato i vincoli che la giunta regionale di Renato Soru aveva imposto, gli edifici vengono su a poche decine di metri dal punto in cui si concentra la maggior parte delle sepolture, in una zona compresa nell´area archeologica, dove gli studiosi ritengono possano esserci altre sepolture, che resterebbero per sempre inesplorate.

Il guardiano caccia chiunque si avvicini. Come se le tombe non fossero un oggetto degno di visita. In totale i metri cubi previsti fra Tuvixeddu e il colle alle sue spalle, Tuvumannu, sono 260mila, grosso modo una cinquantina di palazzi. Un quartiere residenziale con vista su una delle pochissime sopravvivenze di archeologia punica, che finirebbe assediata e che invece respirerebbe, come insegna l´abc della valorizzazione, se fosse circondata da una zona di rispetto. Senza palazzi e senza niente. Solo brani di quel paesaggio aspro, ma ricco di una vegetazione che sfoggia orchidee, fichi d´india e piante di capperi.

Tuvixeddu è vilipesa da anni, trasformata in una discarica. Vi si accede intrufolandosi fra i palazzi, senza un accesso, senza un´indicazione, attraverso una rampa che da via sant´Avendrace sbuca in un cementificio abbandonato. E da qui ci si arrampica, fino a che non spunta il guardiano. La necropoli sembra un corpo estraneo alla città, poco conosciuto, mal tollerato. Oltre alle case, in fondo alla stretta gola di un canyon che sta ai bordi della collina, una specie di spettacolare fiordo senz´acqua, scorrerà una strada a due corsie che aggirerà la necropoli e si infilerà in un tunnel. La collina fu scelta come luogo di sepoltura nel VI secolo a. C., dopo la conquista della Sardegna da parte dei cartaginesi. E venne usata fino ai primi secoli dopo Cristo. L´altura sorge di fronte allo stagno di Santa Gilla, luogo delicatissimo oltre il quale c´è il mare. Ma di questo affaccio non si conserverà traccia, dato che fra il colle e lo stagno stanno ergendosi altri tre edifici che sfiorano i 500mila metri cubi e che occluderanno la vista del mare da Tuvixeddu e di Tuvixeddu dal mare.

All´assedio dei palazzi si oppone la Direzione regionale dei beni culturali, retta da Elio Garzillo. Si sono mobilitati intellettuali come lo scrittore Giorgio Todde e archeologi come Simonetta Angiolillo, Alfonso Stiglitz e Giovanni Lilliu. In prima fila Maria Paola Morittu di Italia Nostra, e Legambiente. Sono venuti a Cagliari gli inviati del Times e della Süddeutsche Zeitung. Ma gli strumenti a disposizione di chi difende Tuvixeddu non sono tanti. Nell´agosto del 2008 il Consiglio di Stato ha bocciato il vincolo della Regione e il Comune di Cagliari (che è sempre stato favorevole alla lottizzazione, sostenendo che in cambio delle case sarebbe stato realizzato un parco archeologico) ha rilasciato i nullaosta per costruire. Nullaosta a loro volta cancellati dall´allora soprintendente Fausto Martino. Ma contro questo provvedimento è stato presentato ricorso al Tar da parte dei costruttori. E il Tar ha dato loro ragione. Per novembre si attende la sentenza definitiva del Consiglio di Stato, che potrebbe dare il via libera alle edificazioni. Con il rischio che altre tombe facciano la fine delle quattrocento sepolture trovate dagli operai che lavoravano alle fondazioni di una mezza dozzina di edifici sorti nel 2000. Quelle tombe vennero segnalate, catalogate e poi seppellite per sempre da migliaia di metri cubi di cemento.

Nota

Eddyburg ha seguito con attenzione e partecipazione la vicenda di Tuvixeddu-Tuvumannu. Sono decine, a partire dal gennaio 2005, i documenti e gli articoli inseriti. Appena avremo tempo li raccoglieremo in un’apposita cartella. La maggior parte sono nella cartella “SOS - Sardegna”, ma li potete vedere anche lavorando sull’elenco che vi comparirà inserendo il nome “Tuvixeddu” nella finestra “cerca” di eddyburg, in cima a ogni pagina.

C’è allarme, da qualche tempo, su Obama e il suo cambiamento. Aumentano gli scontenti, specie nella sua base. Crescono campagne d’odio, in un partito repubblicano divenuto semi-fascista. Si moltiplicano le accuse di scarsa fermezza, sveltezza. Il cambiamento promesso il giorno dell’elezione, il 4 novembre 2008, ancora non si vede del tutto. Spesso pare smentito: su sicurezza e libertà, il Presidente è sospettato di proseguire, intimidito, alcuni costumi di Bush. Ciascuna di queste accuse ha una sua ragion d’essere. Ma tutte sembrano come cieche, incapaci di vedere la profondità della crisi americana e la tenace volontà con cui il Presidente l’affronta, non schivando pericoli e ostacoli ma andando ogni volta lì dove le loro radici sono più potenti, per studiarle e smontarle.

Quel che i critici non vedono è al tempo stesso la forza delle resistenze al cambiamento, i mali troppo antichi per esser sveltamente sanati, e il mutamento già avvenuto del clima mondiale. È come fossero impermeabili alla pedagogia della verità inaugurata da Obama sin dal primo giorno: «La strada è lunga e ripida, disseminata di sconfitte e inciampi. Non arriveremo alla meta in un anno, e forse neppure in quattro».

Obama si trova a guidare un paese che è, da molti punti di vista, la terra desolata di T.S. Eliot: un cumulo di immagini infrante.

È sempre ancora il paese più inventivo, e «la sua influenza resterà molto grande rispetto alla modestia della sua condotta», dice Kissinger. Ma la caduta, non solo economica, è tangibile. La Cina che diventa il primo creditore degli Stati Uniti, il dollaro che diffonde instabilità perché riflette la crisi di una sola nazione pur restando moneta mondiale, son segni di un equilibrio internazionale che si ricostruisce su basi diverse - un po’ come in Europa prima del ’14 - con l'America che non è più l’unica, la più sana, la più esemplare delle potenze. Le guerre di Bush contro il terrore volgono al fallimento, non solo in Iraq da cui Obama s’è ritirato. L’esitazione del Presidente sull’aumento di truppe in Afghanistan è segno di serietà: l’appoggio al regime corrotto di Karzai ha avuto come risultato la conquista talebana di oltre metà Afghanistan, e un’insurrezione antiamericana ormai disgiunta da taleban e Al Qaeda. Senza Obama, Karzai non sarebbe stato costretto a rifare le elezioni che aveva truccato.

Viene poi il disastro mentale, culturale: il disastro di un nazionalismo che ha radici secolari, e più volte è divenuto malattia acuta, apocalittica convinzione d'esser sempre nel bene trionfante. L’ideologia messianico-affaristica di Bush non è che l’apice di un'onda lunga, che risale alla seconda metà dell’800, e che vede nell’America una nazione eletta a guidare il mondo, la lucente città sulla collina che redime e rieduca la terra peccaminosa perché tale è il suo destino manifesto. Obama fa i conti anche con questa tradizione, che ha avuto come epigono farsesco Bush jr. e s’è impersonata in Wilson nel ’14-18, in Reagan negli Anni 80.

Anche qui non siamo che agli inizi, e Obama ha cominciato l'opera con un’ambizione più grande ancora di quella di Roosevelt, prima del ’39. Allora Washington rispose al collasso economico con il protezionismo, l’isolazionismo. Obama affronta ambedue i collassi, e proprio nel momento in cui cura il paese apre al mondo. Stabilisce un nesso fra le due crisi - sul piano interno una democrazia parlamentare corrosa dalle lobby e un potere esecutivo screditato da continue trasgressioni della legge e della costituzione; sul piano esterno il tracollo del prestigio Usa - e con atti e parole mostra di volerle combattere confutando certezze fin qui incrollabili.

Prima certezza messa in questione: quella di esser nel giusto, sempre. Una certezza smisuratamente dilatata dopo la guerra fredda. Sicure d’aver vinto grazie alla loro egemonia culturale, economica, politica, tre amministrazioni hanno dimenticato una verità elementare: è molto più facile per il vinto imparare dalle sconfitte, che per il vincitore apprendere dalla vittoria. Vincitrice, l’America ha smesso nell’89 di pensare, senza costruire il dopo. Negli anni dello scontro con l’Urss era stata la guida del mondo libero. Caduta l’Urss ha voluto divenire guida del mondo, quello libero e quello da liberare: potenza che non tollera rivali, persuasa d'esser sempre, sola, nel giusto. I neo-conservatori hanno perfino vagheggiato la replica dell’impero romano. Le abitudini della guerra fredda, che avevano favorito la sconfitta dell'avversario, son divenute vizi che frenano ogni capacità di capire il mondo e ridisegnarlo. Anche qui, il clima è mutato e risultati si vedono: in Iran, Iraq, nei discorsi sull’Islam, negli impegni su disarmo nucleare e clima, nel taglio ad alcune spese militari.

Obama è figlio dei movimenti civili che infransero il mito nazionalista del faro di libertà. È l’erede di chi lottò contro la guerra in Vietnam e l’odio razziale. Anche per questo suscita repulsioni così violente, non per quello che fa ma per quello che è e dice: sul rispetto dell’altro, del diverso. Per come ha commentato, mercoledì, la legge contro i crimini fondati sull’orientamento sessuale.

Il tempo della delusione forse verrà, se deve. Ma in una battaglia appena iniziata è insensato dar per scontata la disfatta, trasformare la speranza in vizio, e decretare già ora che il Presidente non si libererà da quella che lo storico Anders Stephanson chiama la «sovranità globale», la chimerica predestinazione americana al bene (Destino manifesto, Feltrinelli 2004). Sino a oggi, in fondo, l’America non aveva vissuto quel che l'Europa ha sperimentato nel ’45: la scoperta inorridita di sé, della propria insolenza nazionalista, e la svolta che rappresentò l'abbandono - tramite l’Europa unita - della sovranità assoluta degli Stati. Anche se non ha davanti a sé città annientate, l'America conosce un tracollo mentale non diverso.

Ma è un bivio difficile, perché antichi sono i mali, e lenta la cura. La coalizione di interessi che blocca il cambiamento è portentosa. Perché non continuare a spendere e arricchirsi come in passato, lasciando i deboli a terra, visto che comunque resteremo i primi nel mondo e che non si vedono in giro città rase al suolo? Questa la doppia presunzione, interna e mondiale, che ha visto nascere una superpotenza solitaria con i piedi d'argilla, perché dotata di un modello sociale che lascia più di 30 milioni di americani senza protezione sanitaria.

Resistono le lobby, le assicurazioni private, e quello che Eisenhower chiamava il complesso militare-industriale. Per questo è già un progresso grande: la riforma sanitaria è difficile, per quarant’anni è stata impossibile, e tuttavia Obama la farà. Smettere le guerre e tornare al multilateralismo è lento, eppure qualcosa già si muove.

Molto dipende da come son vissute in casa le mutazioni, e questo non vale solo per l'America.

Lo vediamo anche in Italia: i cambiamenti sono visti come qualcosa che spetta ai governi, non al cittadino che dopo il voto si scopre responsabile. Le società non sono traversate da grandi movimenti civili. L'America di Johnson abolì la segregazione razziale perché spinto da una corrente vasta che mai si scoraggiò. Obama non ha alle spalle simili movimenti ma una società più inerte, atomizzata, capricciosa.

Anche l’Europa può molto. Può mostrare che il suo modello di sovranità condivisa è la via. Anche per questo è un bene che la candidatura di Blair alla presidenza stia tramontando. Non tanto perché ha partecipato alla guerra in Iraq, ma perché l’Inghilterra è l’unica nazione importante, in Europa, che non ha rinunciato al mito, menzognero ormai anche per gli Stati Uniti, della sovranità assoluta. È un bene che Helmut Schmidt, il grande vecchio, abbia detto il vero: sarebbe pericoloso se un antieuropeo, per di più carismatico, diventasse il nostro portavoce in un’America che sta cambiando.

Mancano pochi giorni all’anniversario della caduta del muro di Berlino. Ma, vent’anni dopo, l’entusiasmo non è più lo stesso. Anche se il 1989 ha segnato il nostro tempo. Perché quel muro marcava una divisione al tempo stesso geopolitica, economica, ideologica. Fra sistemi democratici e regimi comunisti, liberismo e dirigismo. Fra mercato e statalismo. La sua caduta ha prodotto effetti violenti. Anche da noi. In Italia. Il regime più socialista dell’Occidente. Visto l’intreccio fra economia, politica e stato. Il muro, in Italia, è crollato qualche anno dopo. Nel 1992. Ha seppellito la prima Repubblica. Il partito comunista più importante dell’Occidente costretto a cambiar nome, pelle e identità. I partiti di governo, spazzati via da Tangentopoli, ma anche dalla fine della rendita di posizione garantita dall’anticomunismo.

Vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, quindici anni dopo il crollo della prima Repubblica, l’emozione si è un po’ raffreddata. Non solo per effetto del tempo, della routine. È l’impressione che altri muri siano sorti al loro posto. Alcuni, negli stessi luoghi del passato. Anzitutto, il comunismo. In Italia non se n’è mai sentito parlare così tanto come da quando non c’è più. Comunisti. Tutti coloro che stanno a sinistra. Di Berlusconi. Anzi: tutti quelli che sono contro di lui. D’altronde, il suo successo politico si deve anche – e in buona misura – a questo. Aver tenuto vivo l’anticomunismo senza – e dopo – il comunismo. Al posto del muro di Berlino: il muro di Arcore. Per costringere l’elettorato di centrosinistra dentro gli stessi confini del Fronte Popolare nel 1948. Anche se da allora è cambiato tutto, nella politica e nella società. Proprio per questo, però, le passioni si scatenano – talora – più violente di prima. Perché non sono in gioco diverse idee della storia e del futuro. Ma stili di vita, opinioni, valori che riguardano la vita quotidiana. E al posto dei partiti ci sono le persone. I leader. Pubblico e privato: senza soluzione di continuità. Sotto gli occhi di tutti. Comunicati sui media. Per cui le differenze vengono ribadite, gridate. Scavano solchi profondi. Mentre ieri erano (auto) evidenti e riconosciute.

Il muro di Berlino. È crollato insieme allo statalismo e al trionfo del mercato e del privato. Ma oggi, dopo il disastro della finanza globale, in Occidente si assiste al ritorno dello Stato. Invocato dovunque e soprattutto in Italia. Per proteggere i settori sociali colpiti dalla crisi. Sempre più ampi. Ma reclamato anche dagli attori del mercato stesso. Gli imprenditori. Perfino le banche. Cosa farebbero senza il soccorso dello Stato?

E poi gli Stati nazionali. La fine del muro di Berlino ne annunciava la crisi. Insieme ai confini. Parallelamente al rafforzarsi di altre – e nuove – entità sovranazionali. Sono sempre lì. Evocati e invocati. Attenti a rivendicare la loro autorità. All’interno dei loro confini. Per quanto cambiati profondamente, rispetto a vent’anni fa. Si veda la "grande" Germania ri-unita. Così pronta a tutelare il proprio interesse nazionale.

Certo, il crollo del muro ha allargato ad Est le frontiere d’Europa. Ci ha avvicinati all’Oriente. E ha favorito il flusso di milioni di cittadini. Attraverso confini sempre più aperti. E noi, impauriti dal numero crescente degli immigrati: ci fingiamo "padroni a casa nostra". Invochiamo altri muri. Nuovi muri. Per terra e per mare. Ma, soprattutto, erigiamo nuovi confini davanti e intorno a noi. Preferiamo non vedere. Non confonderci. Con gli stranieri: che restino tali.

La caduta del muro di Berlino, vent’anni fa. Ha allungato la nostra storia recente. Ci ha ributtato indietro, ben oltre gli anni Ottanta. Fin dentro agli anni Settanta. Con cui non abbiamo mai saputo fare i conti. Così, quarant’anni dopo, abbiamo abbattuto anche il muro del Sessantotto. Liquidato senza rimpianto da molti critici. Talora, gli stessi protagonisti di quella stagione. Non ce n’era bisogno, in realtà. Il Sessantotto era già finito da tempo. Ma al suo posto è emerso l’antisessantottismo. Di chi invoca il ritorno dell’autorità perduta. Dei padri e dei professori. Delle istituzioni e dei valori della tradizione.

Nuovi muri. Che, paradossalmente, ridimensionano trasformazioni sociali e conquiste civili importanti, che parevano irreversibili. Basta pensare alla divisione di genere. Tante lotte e tante contestazioni. Nel privato e nel pubblico. Il femminismo. Le pari opportunità. Contro la segregazione femminile nelle carriere. Nel lavoro, nelle professioni. Contro l’immagine della donna-oggetto. Per ritrovarci, oggi, in un paese di veline. Dove le misure che contano, per le donne, non riguardano certo il quoziente intellettivo. Dove la sessualità è esibita come segno di potere. Usata come merce sui media. Dove si ironizza su Rosy Bindi, «più bella che intelligente». Neanche cinquant’anni fa…

Fra tanti nuovi muri che sorgono intorno a noi, solo uno pare definitivamente crollato. Quello fra le generazioni. Padri e figli. Professori e studenti. Anziani e giovani. Duro da scalare, per i ragazzi. Marcava il cambiamento. L’innovazione sociale. Oggi non c’è più. Perché i ventenni, nati nel 1989 (come il mio figlio maggiore), sono impegnati ad affrontare il loro eterno presente. Precari per definizione. In bilico. Senza passato e senza futuro. E senza territorio, vista la loro confidenza con le tecnologie della comunicazione ("Info-nauti", li hanno definiti nei giorni scorsi Luigi Ceccarini e Martina Di Pierdomenico su Repubblica.it). Mentre gli adulti latitano e i vecchi sono scomparsi. Vista l’ostinazione con cui insistiamo a dirci tutti – eternamente – giovani.

Così, vent’anni dopo, è difficile non cogliere un po’ di nostalgia. Del Muro. Quand’era uno solo. Visibile. A modo suo, rassicurante. Capace di separare il giusto dall’ingiusto e il bene dal male. Mentre oggi che è crollato – e il mondo è più largo e più aperto – incontriamo muri ovunque. Piccoli e invisibili. Siamo noi stessi a costruirli. Per bisogno di riconoscerci. Per paura di perderci. Per paura.

Uno dei quesiti messi in evidenza dalla sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano è se il capo del governo sia, in Italia, un primus inter pares oppure un primus super pares . In nome della «costituzione formale» (il testo della costituzione vigente) la Corte ha ribadito che è un «primo tra pari». Ma in Italia viene invece diffusa l’idea che la costituzione formale sia oramai superata da una «costituzione materiale » per la quale Berlusconi incarna la volontà della maggioranza degli italiani; il che gli attribuisce il diritto, in nome del popolo, di scavalcare, occorrendo, la volontà degli organi che non sono eletti dal popolo (tra i quali la Corte costituzionale e il capo dello Stato). Ora, la distinzione tra costituzione formale e costituzione materiale, e cioè la prassi costituzionale, è una distinzione largamente accolta dalla dottrina. Ma si applica al caso in esame?

Precisiamo bene la tesi. Intemperanze verbali a parte, la tesi di fondo di Berlusconi è che lui ha il diritto di prevalere su tutti gli altri poteri dello Stato (questione di diritto), perché lui e soltanto lui è «eletto direttamente dal popolo» (questione di fatto). Va da sé che se l’asserzione di fatto è falsa, anche la tesi giuridica che ne deriva risulta infondata. Allora, Berlusconi è davvero un premier insediato «direttamente » dalla volontà popolare?

Per Ilvo Diamanti questa asserzione è «quantomeno dubbia» perché è smentita da tutti i dati dei quali disponiamo. Purtroppo è vero che sulla scheda elettorale viene indicato il nome del premier designato dai partiti (un colpo di mano che fu a suo tempo lasciato incautamente passare dal presidente Ciampi); ma il fatto resta che il voto viene dato ai partiti. Pertanto il voto per Berlusconi è in realtà soltanto il voto conseguito dal Pdl. Che ha ottenuto nel 2008 (cito Diamanti) «il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Insomma, intorno a un terzo del 'popolo'». Aggiungi che in questa maggiore minoranza (o maggioranza relativa) sono inclusi i voti di An, in buona parte ancora fedeli a Fini; e che se guardiamo agli anni precedenti FI non ha mai superato il 30%. Deve anche essere chiaro che il voto per FI, e ora per il Pdl, non equivale automaticamente ad un voto per Berlusconi. Una parte degli elettori di destra vota contro la sinistra, non necessariamente per Berlusconi. Fa una bella differenza.

Dunque la tesi del popolo che si identifica, quantomeno nella sua maggioranza assoluta di almeno il 51%, con un leader che vorrebbe onnipotente (o quasi), è di fatto falsa. Chi la sostiene è un imbroglione oppure un imbrogliato. E questa conclusione è dettata dai numeri.

Ciò fermato, torniamo alla costituzione materiale. In sede di Consulta gli avvocati di Berlusconi hanno sostenuto che per la costituzione vivente (come dicono gli inglesi) il principio che vale per Berlusconi è che sta «sopra », che è un primus super pares . E siccome è possibile che questa formula l’abbia inventata io in un libro del 1994, mi preme che non venga storpiata. Io l’ho usata per precisare la differenza tra parlamentarismo classico e la sua variante inglese e anche tedesca del premierato. Ma in Italia il fatto è che questa variante non è mai stata messa in pratica. E dunque in Italia non c’è differenza, a questo proposito, tra costituzione formale e costituzione materiale. Come dicevo, la tesi del premierato di Berlusconi voluto dal popolo è seppellita dai numeri. Sul punto, il punto è soltanto questo.

A ben vedere nella nostra Italia siamo a una crisi dello Stato, non dico dello stato democratico, ma dello stato in quanto tale. Provo a segnalarne i sintomi. Mai in Italia, a mia memoria, c'era stata una grande manifestazione di protesta della polizia. Cortei e slogan contro il governo e i suoi ministri. E ora si «sospende» il parlamento. Mai, almeno in queste forme, c'era stato un conflitto così esplicito e violento tra il governo e la magistratura, tra l'esecutivo e il potere giudiziario (il potere legislativo, allo stato attuale, è un non potere e questo aggrava la situazione).

Una crisi dello stato è - è stato sempre - un affare serio, dal quale di solito si esce o con una rivoluzione o, com'è probabile, dati i tempi, con una controrivoluzione, con una messa in frigorifero della democrazia. Preoccupa così non poco che sia stata decisa la sospensione del parlamento per dieci giorni perché il governo deve aggiustare la riforma finanziaria per la quale ha fatto solo promesse. Mai come in questi tempi è stato così evidente il rapporto tra crisi della politica, dei grandi obiettivi e ideali, e crisi della democrazia. Senza democrazia la politica si riduce ad affari privati di gruppi di potere, e questa caduta in basso della politica mortifica, porta sempre più in basso il valore della democrazia.

In questa situazione anche la caduta di Berlusconi (magari per la scarlattina) fa prevedere, temo, un ulteriore disordine con esiti deboli e autoritari e potenzialmente molto più autoritari nella debolezza crescente della politica e della democrazia. Un potere legislativo debole e burocratizzato, con la polizia che scende in piazza per protestare e la magistratura sotto attacco di un esecutivo personalizzato - in una persona malata - non annunciano niente di buono. A meno che queste proteste democratiche dentro lo stato non si saldino con le nuove emergenze e istante sociali.

Ps. I magistrati accusati da Berlusconi di essere comunisti hanno replicato affermando che le loro toghe sono rosse sì ma del sangue versato nell'adempimento del loro dovere. Verità sacrosanta. Ma, vorrei aggiungere: comunisti non è un insulto. È una lunga storia che non è finita e noi del manifesto che continuiamo a definirci «quotidiano comunista» non pensiamo affatto di autoinsultarci.

Via libera del consiglio dei ministri al ddl Gelmini sull'università: la figura del ricercatore diventa a tempo determinato, cambiano le modalità di elezione dei rettori. Studenti e docenti sul piede di guerra.

Ricercatori solo a tempo, nel limbo l’attuale precariato. Senato accademico svuotato di poteri effettivi e studenti “infilati” ovunque, ma solo come operazione di facciata. Test di accesso persino per le borse di studio per il merito, un fondo a cura dell’Economia e non dal Miur. Riscrittura degli Statuti, pena il commissariamento e ore dei prof certificate e verificate. Ecco la riforma della Gelmini. Meno democrazia e più potere al Cda con l’ingresso delle aziende private e ai rettori. E la protesta dell’Onda è già dietro l’angolo. Un disegno di legge di riforma in 15 articoli che dopo il via libera del Consiglio dei ministri comincerà il suo iter al Senato, affinché il ddl Aprea sull’istruzione in fondazione possa avere una corsia privilegiata.

NUOVI STATUTI O COMMISSARIAMENTO Entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge le università statali dovranno modificare i propri statuti, rispettando vincoli e criteri: ridurre le facoltà, massimo 12 negli Atenei più grandi e i dipartimenti. Le università vicine possono federarsi. E ancora: personale esterno nei nuclei di valutazione, snellire i componenti del Senato accademico e dei Cda. Se la governance non verrà rivista, 3 mesi di deroga, poi il commissariamento.

CDA CON DENTRO I PRIVATI Sarà aperto al territorio, enti locali e mondo produttivo il consiglio di amministrazione. Attribuzione al Consiglio di amministrazione delle funzioni di indirizzo strategico, competenze sull’attivazione o soppressione di corsi e sedi. Il Cda sarà composto di 11 componenti, incluso il rettore e una rappresentanza elettiva degli studenti. Il mandato sarà di 4 anni, quello degli studenti solo biennale. Scompare la figura del direttore amministrativo e subentra quella del direttore generale con compiti di gestione e organizzazione dei serviti, Un vero manager. Il Cda non sarà elettivo, ma fortemente responsabilizzato e competente, con il 40% di membri esterni. Il presidente del cda potrà essere esterno. Il direttore generale avrà compiti di grande responsabilità e dovrà rispondere delle sue scelte, come un vero e proprio manager dell’ateneo.

FONDO PER IL MERITO Istituito presso il ministero dell’Economia (e non dell’Istruzione) il fon-do per «sviluppare l’eccellenza e il merito dei migliori studenti». La gestione è affidata a Consap Spa. Erogherà borse e buoni ma non a pioggia: per accedere bisognerà partecipare a test nazionali.

RECLUTAMENTO PROF. Per i docenti arriva l’abilitazione nazionale di durata quadriennale assegnata sulla base delle pubblicazioni da una commissione sorteggiata tra esperti nazionali e internazionali. Solo chi ha l’abilitazionepuò partecipare ai concorsi di Ateneo che avverranno sulla base di titoli e del curriculum con i bandi pubblicati anche sul sito della Ue e del Miur.

RICERCATORI SOLO A TEMPO Niente più concorsi per i ricercatori a tempo indeterminato. Solo contratti a termine di 3 anni rinnovabili con selezioni pubbliche. Dopo il 3° anno lo studioso può essere chiamato dall’Ateneo per un posto docente.

BILANCI TRASPARENTI Verrà introdotta una contabilità economico- patrimoniale uniforme, secondo criteri nazionali concordati tra i ministeri dell’Istruzione e del Tesoro. Debiti e crediti saranno resi più chiari nel bilancio. È previsto il commissariamento per gli atenei in dissesto finanziario.

LARGO AI PRIVATI

DECIDERANNO SU TUTTO

Le perplessità dei tecnici, i dubbi sul ruolo delle Fondazioni Il rischio di avere anche 600 docenti per facoltà. E su tutto anche le parti condivise, l’incubo dei soldi, che non ci sono

Senza soldi non si canta la Messa, è il detto. E senza soldi la decantata riforma dell’Università varata ieri andrà da nessuna parte, secondo gli esperti. Una riforma che introduce pesantemente nella gestione il ministero dell’Economia, senza che sia chiaramente definito il margine di competenze, rispetto a quelle del ministero dell’Istruzione, Università e ricerca. Il rischio vero è che si riduca l’autonomia universitaria, dal momento che sono aperte le porte all’ingresso di privati nei consigli di amministrazione. E nella foga propagandistica di ridurre i corsi universitari, si limita a dodici il numero di facoltà sia negli atenei delle grandi città che in quelli più periferici con meno iscritti.

Secondo Rino Falcone, ricercatore dell’Istituto Scienze e tecnologie cognitive del Cnr, membro del coordinamento dell’Osservatorio della Ricerca, già collaboratore del ministro Fabio Mussi, ci sono parecchi punti di criticità nella riforma Gelmini (o meglio, Gelmini-Tremonti, con relativi complimenti paternalistici del secondo ai «giovani ministri crescono»). Falcone osserva che sono state raccolte alcune indicazioni dell’ex ministro Mussi: il codice etico che eviti i passaggi di cattedre per via parentale e l’incompatibilità per conflitto d’interessi; il mandato temporaneo per i rettori (non più di due per un massimo di otto anni); la riduzione dei settori scientifico-disciplinari. E, nonostante Mariastella Gelmini inizialmente aveva detto di non volerla adottare, è stata varata l’Agenzia di valutazione (introdotta da Mussi con un decreto poi convertito in legge) per la valutazione delle università e degli enti di ricerca, la cui attuazione richiede tempi molto lunghi, e finanziamenti.

I punti critici: «la messa sotto tutela del ministero dell’Univerità e ricerca rispetto al ministero dell’Economia », osserva Falcone, «che dovrà autorizzare molti interventi», quindi si prevede un’influenza forte del Tesoro sulla vita degli atenei, al di là delle competenze di spesa. E basti pensare ai tagli sui precari attuati nella scuola da Gelmini per conto di Tremonti.

Atenei privatizzati. Un punto «preoccupante», secondo Falcone è «la possibilità che si offre ai privati di contribuire significativamente alle decisioni strategiche delle università con l’ingresso nei Cda di almeno il 40 per cento di esterni con competenze gestionali-amministrative». Il che si tradurrà in un «travaso di poteri » dal Senato accademico ai Cda. Università come aziende, quindi, tanto più con l’ampliata possibilità per gli atenei di trasformarsi in Fondazioni private (prevista per legge l’anno scorso). La porta aperta ai privati dà il via ai tagli di fondi alle università, ed il rischio è «un deterioramento del tessuto di conoscenza del paese», intaccando unsistema che è ancora considerato forte sul piano internazionale, prova nei sia la fuga di cervelli. Sulle fondazioni, lo storico di destra Franco Cardini scrisse su Il Secolo nel luglio 2008 che tale trasformazione sarebbe stata «il passaggio da una concezione culturale comunitaria a una patrimoniale e privatistica del sapere», da una università di tutti con i suoi limiti a una «costosa università per ricchi », salvando forse alcuni atenei privatizzandoli, ma mandando «a farsi benedire il diritto allo studio: o meglio, lo studio come diritto».

Facoltàsuperaffollate: La riduzione indifferenziata a 12 facoltà per tutte,sembra scriteriata: avverrà che «La Sapienza» di Roma avrà le stesse 12 facoltà dell'università di Urbino, arrivando, nel caso di Roma,a dei mostri con 600 docenti per facoltà. Dei mega organismi nei quali sarà impossibile prendere qualsiasi decisione collegiale.

Ricercatori: se l’introduzione della «tenure track» (tre anni di contratto e un rinnovo di tre anni previo seconda valutazione, e poi l’eventuale assunzione come professore associato) allinea l’Italia agli altri paesi, secondo Falcone un altro punto critico può venire dalla «duplicazione delle modalità di reclutamento». Ovvero, se parallelamente resta in vigore l’attuale sistema, il concorso sulla base dell’abilitazione nazionale, ci sarà una pericolosa duplicazione di sistemi. E permane il rischio dell’ingresso pilotato previo raccomandazioni e favoritismi. Insomma, la riforma al momento è solo abbozzata, lo stesso testo completo non è reperibile, al di là della «copertina» illustrata nel Consiglio dei ministri, e bisogna vedere cosa succederà con i decreti attuativi. Ma, nell’insieme, ne risulta una «chiara riduzione dell’autonomia universitaria, e uno schema più dirigista» degli atenei stessi, conclude Falcone.

La vicenda parlamentare del testamento biologico ha conosciuto ieri una violenta accelerazione. Era imprevedibile? Non credo. Troppi segnali si erano accumulati negli ultimi tempi, troppe convenienze politiche si erano svelate perché si potesse prestar fede a qualche apertura, peraltro ambigua, venuta dalla maggioranza. La chiusura immotivata del confronto in Commissione, allora, assume un triplice significato. Smentisce la tesi secondo la quale la maggioranza è sempre disposta al dialogo, mentre l´opposizione è arroccata intorno a immotivate posizioni di rifiuto. Rivela una prepotenza che si dà una veste giuridica incostituzionale. Conferma la subordinazione della politica del governo a quella vaticana: non è un caso che la decisione del Pdl sia venuta all´indomani dell´incontro tra Gianni Letta e Benedetto XVI.

1. Giochi di potere. Da tempo in Vaticano vi era una fila lunga, e mortificante, di politici che portavano le loro offerte, racchiuse soprattutto in quel contenitore allettante che si chiama appunto testamento biologico e che sprigiona veleni tali da inquinare non solo l´ambiente istituzionale, ma l´intera società. Un´offerta sacrificale, dove le vittime sono le persone alle quali si vuole negare il diritto di decidere liberamente sulla fine della loro vita. Tutto questo è all´interno di un gioco politico che, da una parte, vuole rinsaldare i rapporti tra governo e Vaticano e, dall´altra, rende evidente una concorrenza tra i partiti di maggioranza, dove la Lega si offre alla Chiesa come l´interlocutore più affidabile, il vero partito cristiano.

Dopo che Bossi aveva esibito i suoi incontri ai più alti livelli, con la Segreteria di Stato e con il presidente della Cei, Berlusconi ha fatto la sua mossa. Debole com´è, bisognoso di una rinnovata legittimazione vaticana, ha cercato di tornare al centro del gioco, accettando la richiesta vaticana di tenere fermo l´impianto proibizionista e autoritario della legge sul testamento biologico. Inammissibile ingerenza della Chiesa o, invece, crescente debolezza della politica italiana? La risposta è nei fatti, nella sempre più marcata accettazione delle posizioni della Chiesa in tutte le materie che riguardano le decisioni sulla vita: la procreazione, con le resistenze contro la legittima utilizzazione della pillola Ru486; le relazioni personali, con la perdurante ostilità al riconoscimento delle unioni di fatto; il morire, appunto con la pretesa di cancellare la possibilità di libere scelte delle persone. In queste materie delicatissime si è ormai realizzata una cogestione tra governo italiano e governo vaticano.

2. Obiezione di coscienza. Per sfuggire a questa stretta e recuperare un po´ di autonomia per i parlamentari, si era invocata la loro libertà di coscienza, di cui lo stesso presidente della Camera si era fatto garante. Anche questa mossa rischia ora di essere vanificata. E però bisogna sottolineare che si tratta comunque di una iniziativa inadeguata rispetto alla specifica situazione che abbiamo di fronte. Infatti, quando le decisioni parlamentari incidono direttamente sul diritto delle persone di governare la loro vita, la questione della libertà di coscienza deve essere considerata anche, o soprattutto, da un diverso punto di vista. Qui la libertà di coscienza da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: quando si affrontano i temi "eticamente sensibili", la libertà di coscienza dei legislatori può divenire massima, mentre finisce con l´essere minima quella delle persone alle quali si rivolge la legge. Ci si deve chiedere, allora, se siano in sé legittimi interventi legislativi tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, il diritto di ciascuno di governare liberamente la propria vita.

3. Habeas corpus. Questa è l´antica formula con la quale il sovrano si impegna a "non mettere la mano" sul corpo dei cittadini. È l´impegno che il sovrano democratico, l´Assemblea costituente, rinnova quando, nell´articolo 32 della Costituzione dedicato al diritto fondamentale alla salute, conclude perentoriamente che "la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Il Parlamento non può ignorare tutto questo, deputati e senatori debbono ricordare che, scrivendo quelle parole, l´Assemblea costituente era ben consapevole di porre un limite invalicabile al loro potere, di individuare un´area non solo sottratta all´arbitrio delle maggioranze parlamentari, ma indecidibile dal legislatore, dunque un luogo dove neppure la legge può penetrare. Questa logica costituzionale è sovvertita dal testo in discussione alla Camera. Il diritto fondamentale all´autodeterminazione è cancellato, perché si esclude il valore vincolante delle decisioni della persona riguardanti la fine della vita; e perché si impone a tutti l´obbligo di sottoporsi all´alimentazione e alla idratazione forzata, di cui abusivamente si nega il carattere di trattamento terapeutico, ignorando l´opposta opinione di quasi tutta la comunità scientifica proprio per cancellare il diritto, da lungo tempo riconosciuto, di rifiutare le cure. Siamo di fronte a un grave tentativo di impadronirsi della vita delle persone, di una mossa autoritaria che altera il rapporto tra Stato e cittadino. Cercando di reagire a questa deriva pericolosa, venti parlamentari della maggioranza avevano scritto al presidente del Consiglio una "lettera sul disarmo ideologico", proponendo "una riserva deontologica sulla materia del fine vita, demandando al rapporto tra pazienti, familiari, fiduciari e medici la decisione in ordine a ogni scelta di cura".

Da anni insisto sulla necessità di analizzare il rapporto tra la vita e le regole sottraendolo in generale alla pretesa di un diritto pervasivo, che si fa strumento di una politica che vuole impadronirsi della libertà delle persone. Ma non basta invocare un´assenza del diritto, che potrebbe poi lasciare il campo libero a qualsiasi incursione autoritaria. Bisogna seguire l´indicazione costituzionale e fondare l´autonomia della persona sul riconoscimento dell´intangibilità di tale autonomia. Una norma sobria, una soglia legislativa minima che riconosca che la zona dell´essere può essere "recintata" solo dallo stesso interessato. Se, invece, si confermerà la strada segnata dal testo già approvato dal Senato, non ci si dovrà poi meravigliare se la terribile e "politica" Corte costituzionale farà il suo mestiere e interverrà per eliminare le inammissibili limitazioni alla libertà delle persone. Non v´è dubbio, infatti, che siamo di fronte a un testo violentemente ideologico e giuridicamente sgangherato.

4. Privato e pubblico. Questo vuol forse dire che, rifiutando ogni intervento invasivo del legislatore, si deve pure invocare pure un generale disinteresse pubblico per le questioni di vita? La stessa Commissione parlamentare, ieri così irragionevolmente chiusa, ha approvato un testo per garantire l´accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore. Qui la presenza del legislatore non è invasiva o abusiva, non si sostituisce alla volontà della persona, ma consente a ciascuno di prendere le proprie decisioni in condizioni di vera libertà. Lo stesso accade quando si prevede una indennità per i familiari che assistono in casa una persona in stato vegetativo: lo ha fatto in febbraio l´Assemblea nazionale francese, lo ha appena deciso la Regione Lombardia. Qui il rapporto tra la vita e le regole non è affidato alla prepotenza, ma alla creazione di servizi adeguati, di un ambiente nel quale vengono rimossi gli ostacoli che limitano l´esercizio libero della volontà. Questo è il vero compito al quale la Repubblica, per rispetto della Costituzione, non può sottrarsi.

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