Quando gli storici arriveranno a scrivere la storia dell'opposizione al regime Berlusconi, non c'è il minimo di dubbio che riserveranno un posto di rilievo alla manifestazione di oggi. Nata da nulla, cresciuta in modo del tutto anomalo rispetto alle classiche mobilitazioni partitiche della storia repubblicana, il No Berlusconi Day impone la considerazione di una serie di temi importanti. Uno di questi è lo stato di salute della società civile e la comparazione di questa manifestazione con la sua sorella girotondina di sette anni fa, sempre in Piazza San Giovanni. Un secondo tema riguarda i ceti medi italiani (più di 60% della popolazione), la loro stratificazione e potenzialità alla fine di un decennio di neo-liberismo puro, culminato in una gravissima crisi occupazionale. L'ultimo tema è il rapporto, finora sciagurato, tra società politica e società civile nella sinistra italiana.
Sul primo, colpisce subito l'entrata in scena di una nuova componente della società italiana. I giovani che si sono mobilitati oggi condividono molti dei valori dei girotondi ma sono diversi da loro. I girotondi, cresciuti culturalmente con il '68 e occupati soprattutto nel settore pubblico godevano in gran parte di un lavoro stabile e avevano in media più di quarant'anni. Erano (è lo sono tuttora ) dei ceti medi riflessivi, nel senso che sono capaci di rivolgere uno sguardo critico nello stesso tempo all'evoluzione della modernità e alle proprie attività. Ma essi erano anche economicamente integrati. Lo stesso non si può dire dei giovani che si sono mobilitati oggi. Anche loro sono cittadini critici e attivi ma fanno parte della prima generazione, nella storia della repubblica, a subire in modo massiccio la mobilità sociale discendente. Spesso possono vantarsi anche loro di un capitale culturale alto, ma di un capitale economico pressappoco inesistente. Non hanno lavoro, né prospettive di auto-realizzazione. La loro voce, quella di San Precario per intenderci, è un grido di angoscia ma anche, straordinariamente, di rispetto della legge e della Costituzione.
Il secondo punto: che potenzialità politica hanno questi due strati dei ceti medi, diversi tra di loro per età e reddito ma che oggi si trovano nella stessa piazza (e spesso sotto lo stesso tetto)? Per quanto riguarda i movimenti sociali in generale, troppo spesso si parla di fiumi carsici che scompaiano per anni per poi tornare improvvisamente in superficie. E' una metafora troppo facile e consolatoria. I ceti medi "garantiti" hanno sempre la possibilità di "uscire" dalla sfera pubblica, di ritirarsi nel privato, di auto-congratularsi sul tentativo di cambiare le cose, finito male non per colpa loro. Si può dire la stessa cosa dell'altro ceto, più giovane e colorato di viola? E' troppo presto dirlo. Ma per loro si gioca il futuro stesso. Sono più costretti a stare in trincea da un mercato del lavoro disastroso. Certamente, in un mondo del lavoro così atomizzato ci vuole una grande dose di creatività per poter restare insieme. L'abbiamo vista nella preparazione di questa manifestazione ma non sarà facile sostenere il momentum.
L'ultimo punto riguarda il rapporto con la politica. Si riuscirà questa volta ad evitare le sciagure del 2002-2003, quando i politici di sinistra giocavano, abbastanza cinicamente, a prendere tempo, cooptare qualcuno, ed aspettare che il movimento si sgonfiasse, come puntualmente si è verificato? Allora erano stati persi decine di miglia di cittadini alla politica attiva. Nulla nel comportamento del leadership del Pd promette meglio, questa volta. E non è solo una questione di responsabilità politica. Qui bisogna ripensare le categorie stesse della politica, la connessione tra società civile e partiti, tra democrazia rappresentativa e quella partecipata. Ci vuole della teoria politica all'altezza del momento. Quella vecchia e gloriosa, propria della democrazia, va difesa a tutti i costi, ma ci vogliono anche strumenti nuovi che impediscano che la piazza rimanga piena ed impotente mentre il palazzo si lecca i baffi per l'ennesima volta.
Guardo la carta d’Europa, e sento lo sforzo di quell’appendice geografica di staccarsi dal "corpaccione" asiatico protendendosi vero l’Atlantico e il Mediterraneo.
Un corpo centrale compatto, dalla Polonia alla Francia, lancia al Nord la penisola scandinava (un’Italia malriuscita) e un’esile punta danese; al Sud, una Spagna tozza e una Grecia che va in frantumi.
Al Nordovest si è distaccata la forma piumata dell’Inghilterra, e al centro del Mediterraneo quella di un’Italia chiomata, che si distende restringendosi alla vita e articolandosi alle estremità. A quella figura elegante non si addice l’immagine sgraziata dello Stivale, ma piuttosto quella di una signora, leggiadramente fluttuante sul mare. Una penisola lunga, un po’ troppo lunga, dissero gli Arabi, che la tormentarono per tanto tempo senza riuscire a possederla tutta intera, come del resto tante altre nazioni dominatrici, tranne Roma, che però la immerse in un grande impero.
Di questa un po’ eccessiva lunghezza si tratta qui, e delle vicende che hanno reso, attraverso la storia, tanto problematica e che tuttora, a distanza di centocinquant’anni, insidiano la sua definitiva unificazione.
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Il 1861, anno dell’unificazione del regno, è l’anno in cui si compie il grande moto del Risorgimento. Ma è anche quello in cui esso comincia a invischiarsi nella grande palude dell’"Antirisorgimento".
L’Antirisorgimento si sviluppa, successivamente, in tre forme storiche.
La prima è la corruzione del patriottismo risorgimentale nel nazionalismo aggressivo, che nasce dal gigantesco complesso d’inferiorità di una piccola borghesia frustrata da secoli di servitù. Cavalcando la denuncia delle fragili istituzioni democratiche create dal nuovo Stato, esso precipiterà il paese nel massacro di una guerra mondiale e nell’avventura retorica e populista del fascismo. La nazione mussoliniana è l’antitesi della patria mazziniana.
Là dove quella era concepita come parte di un generale affratellamento dei popoli europei e di un grande moto di solidarietà sociale, questa è l’espressione del primato militarmente aggressivo, e socialmente oppressivo, di un’élite violenta e dissennata.
La seconda consiste nel condizionamento dello Stato italiano da parte della Chiesa cattolica e della sua massiccia presenza a Roma. Che lo si voglia riconoscere o no, in Italia esistono due sovranità, non una: la sovranità nazionale è limitata da quella ecclesiastica. Si può fingere di non vedere. Nondimeno questa è la realtà che si esprime nei Concordati, e che tutti i discorsi sull’armonia tra le due istituzioni non riescono a dissimulare.
La terza è la questione meridionale. Il carattere antirisorgimentale di conquista del Sud da parte della monarchia sabauda si rivela immediatamente dopo che le camicie rosse sono scomparse, sostituite dalle uniformi blu dei soldati del re, nella cosiddetta «guerra del brigantaggio»: in realtà, una repressione violenta delle plebi contadine, schiacciate con la connivenza dei baroni.
È proprio nella fase più avventurosa del Risorgimento, quella rappresentata dall’unificazione con il Sud, che un’impresa nata sotto l’insegna della liberazione si corrompe in mera conquista, segnando tra le due parti del paese un solco fatale, che i tanti sforzi successivi non riusciranno a colmare.
Se, con un nuovo salto storico, approdiamo ai giorni nostri, dobbiamo domandarci quanta parte di queste tre minacce insidi ancora il nostro paese, a centocinquant’anni dal compimento della sua unità.
Certo, la minaccia fascista è scomparsa; anche se non ne è affatto scomparsa la nostalgia, che si manifesta attraverso una continua campagna di denigrazione di quel secondo Risorgimento che è stato rappresentato dalla Resistenza. Al posto del fascismo, tuttavia, si è installata nel popolo italiano un’altra forma di ripugnanza per le istituzioni della democrazia, un "anti-antifascismo" che non fa appello alla retorica nazionalista, ma a un’altra forma di populismo privatistico, non più trascendente nel sentimento patriottico, ma nel tifo calcistico.
Tutt’altro che scomparsa è la seconda insidia, quella del protettorato cattolico, che trae dal neoguelfismo una tradizione illustre.
E infine, l’insidia più grave, conseguenza del fallito compimento dell’unità, è quella costituita dalla decomposizione, presente al Nord in forme tutto sommato pacifiche, anche se bizzarramente provocatorie, e incombente al Sud nella secessione criminale delle mafie, che sequestrano zone intere della Repubblica.
Questa è la vendetta suprema dell’Antirisorgimento che il paese, a centocinquant’anni dall’unificazione, deve fronteggiare. Sarebbe triste se le sue speranze di superarla fossero tutte affidate a un’Unione Europea cui, anziché offrire l’esperienza di una ricca tradizione di diversità, si fosse costretti a chiedere di tirare la carretta di una penisola troppo lunga e sconquassata.
Ma una speranza, per quanto controversa, c’è.
L’assicurazione contro le calamità naturali per tutte le case italiane infilata nel decreto di riorganizzazione della Protezione civile in discussione oggi al Consiglio dei ministri, rischia di diventare un grande affare per pochi e l’ennesimo balzello scaricato sulle spalle di molti. Perché il governo intende rendere obbligatoria la polizza, apprestandosi a ripetere con gli immobili l’operazione fatta a suo tempo con l’Rc auto. Ma se per le automobili e le moto l’introduzione dell’obbligo era in parte giustificata dalla necessità generale e sociale di impedire che per le strade circolassero individui irresponsabili privi di copertura che una volta causato l’incidente non avrebbero saputo a chi santo votarsi per risarcire i danni, con gli immobili questa esigenza è del tutto assente. Non a caso contro la polizza obbligatoria per le case è schierato un fronte ampio, dalle associazioni dei consumatori all’Antitrust alle organizzazioni dei proprietari come la Confedilizia.
In ballo ci sono interessi corposi. Secondo la stima probabilmente al ribasso fornita dalle stesse compagnie di assicurazione il costo medio della polizza per ogni singola abitazione sarebbe di circa 180 euro all’anno. Considerando che le case in Italia sono più di 27 milioni (censimento Istat), il costo complessivo dell’assicurazione-casa sfiora i 5 miliardi, soldi che usciranno dalle tasche delle famiglie per transitare in quelle delle compagnie. Le più interessate alla faccenda sono le solite: Generali, Ina-Assitalia, Toro, Fondiaria-Sai, Mediolanum.
Sono anni che tutte quante girano intorno all’osso della polizza anticalamità non riuscendo a ottenere da governo e parlamento l’ok definitivo per una ragione o per l’altra. Questa volta, invece, le probabilità che sfondino sono molte perché l’esecutivo Berlusconi ha inserito la novità in una bozza di decreto che, secondo autorevoli indiscrezioni, quasi sicuramente andrà in porto. In primo luogo perché il provvedimento si inserisce sulla scia dell’emozione per il terremoto d’Abruzzo, e poi perché il testo ha già avuto il placet di due tra i collaboratori più ascoltati dal capo del governo in materie di questo tipo: il responsabile della Protezionecivile, Guido Bertolaso, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta.
Favorire l’introduzione di una copertura assicurativa sugli immobili contro le calamità magari anche attraverso incentivi fiscali può essere un obiettivo condivisibile, entro certi limiti e a determinate condizioni. L’insistenza sull’obbligatorietà, però, sta rendendo l’operazione indigesta. In un pareredepositato il 20 novembre di 6 anni in occasione di una proposta simile elaborata a quel tempo, l’Antitrust aveva già espresso tutta la sua contrarietà: “L’imposizione di un obbligo assicurativo contribuisce a irrigidire la domanda dei consumatori che saranno indotti ad accettare le condizioni praticate dalle imprese anche quando le considerano particolarmente gravose”. In pratica l’obbligatorietà della polizza favorisce un patto leonino a svantaggio dei cittadini.
Ovvio che le associazioni dei consumatori siano nettamente contrarie. Per il presidente di Assoutenti, Mario Finzi, per esempio, «far pagare un premio assicurativo a chi vive in zone non a rischio diventerebbe una vera e propria tassa sulla casa». Dal momento poi che il decreto del governo prevede l’intervento dello Stato “in qualità di riassicuratore di ultima istanza per la parte di danno eccedente la capacità annua complessiva del sistema assicurativo privato” ecco che si profila anche la possibilità di una gigantesca privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite. Su questo aspetto si incentrano le critiche di Federconsumatori ed Adusbef: “Non vorremmo che i profitti derivanti dall’obbligatorietà delle polizze vengano incassati dalle imprese, mentre i rischi siano assunti dallo Stato”.
Nettamente contrario alla polizza obbligatoria anche Corrado Sforza-Fogliani, presidente Confedilizia, la più grande associazione di proprietari di case, in genere molto benevola con le decisioni di questo esecutivo. “Il governo non trova 200 milioni per risolvere il problema degli affitti ai disagiati e nel contempo prepara un provvedimento per la polizza obbligatoria anticalamità” accusa Sforza-Fogliani. La conclusione è dura: “Il governo non fa quello che era nel programma della maggioranza e fa, invece, quel che non era nel programma. In entrambi i casi ne fanno le spese, oltre che gli inquilini, i condomini e i proprietari di casa”. Secondo il presidente Confedilizia l’introduzione della polizza in alcune zone del paese funzionerebbe, inoltre, come una doppia tassa in aggiunta a ciò che i cittadini già pagano per lo stesso scopo ai Consorzi di bonifica. Nel 2008 gli italiani hanno sborsato a questi enti più di 500 milioni, con punte di contribuzione in Emilia, Toscana, Veneto e Lombardia.
Avevano tentato a luglio la via ordinaria del disegno di legge per consultare il Parlamento, poi la retromarcia improvvisa, eppure il progetto era scritto e già benedetto da Ignazio La Russa. Il passaggio della Finanziaria al Senato, superate le forche caudine della Commissione e l’opposizione del Pd, spazza via qualsiasi dubbio: si può fare, entro dicembre sarà costituita la società “servizi Difesa spa”. Nel testo ora in discussione alla Camera, prima dell’approvazione definitiva della legge di bilancio, all’articolo 2 il progetto è descritto senza velature: “Ai fini dello svolgimento dell’attività negoziale diretta all’acquisizione di beni mobili, servizi e connesse prestazioni strettamente correlate allo svolgimento dei compiti istituzionali dell’amministrazione della difesa e non direttamente correlate all’attività operativa delle forze armate, compresa l’Arma dei carabinieri, da individuare con decreto del ministro della Difesa di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze... nonché delle attività di valorizzazione e di gestione, fatta eccezione per quelle di alienazione, degli immobili militari, da realizzare anche attraverso accordi con altri soggetti e la stipula di contratti di sponsorizzazione, è costituita la società per azioni denominata “Difesa Servizi Spa”, con sede in Roma. Il capitale sociale della società di cui al presente comma è stabilito in 1 milione di euro e i successivi eventuali aumenti del capitale sono determinati con decreto del ministro della Difesa, che esercita i diritti dell’azionista”. Questa è la struttura portante, semmai dei ritocchi potrebbero cambiarne la fisionomia, ma nella sostanza siamo dinanzi a una spa con azioni interamente sottoscritte dalla Difesa, ma con un vero consiglio di amministrazione – di nomine ministeriali – con uno statuto più o meno variabile. Da quel cda passeranno contratti di sponsorizzazione, compravendita immobiliare, conversione a nuovo uso di aree militari dismesse, penitenziariabbandonati. Circa cinque miliardi di euro da amministrare. Quel che preoccupa, e che l’onorevole Rosa Villecco Calipari ha denunciato in commissione, riguarda la possibilità di gestire in aree di demanio militare – quindi sottratte al controllo di organi amministrativi e istituzioni – impianti energetici: ovvero centrali nucleari e termovalorizzatori. E in tema di privatizzazioni, almeno in senso giuridico, nel prossimo Consiglio dei ministri sarà approvato il decreto legge che istituisce la Protezione civile spa. La bozza è stata consegnata ieri a Palazzo Chigi. Tutto pronto. Nonostante il ministro Tremonti sia scettico sull’operazione.
Nel raccontare la paura dei grattacieli che tremano in Dubai, i guru dell’economia dimenticano qualcosa: Dubai non è un paese, ma un mercato provvisorio. Dietro le vetrine, niente. Anche la vocazione commerciale è una leggenda del teatro dell’imbroglio. Quando il petrolio finisce, la globalizzazione trasforma i suk dei mercanti indiani (oro e perle) in padiglioni mastodontici dove tutto costa la metà. Trent’anni fa anni diventa paese di servizio per accogliere capitali da risciacquare. Nell’ultimo viaggio mi sono chiesto che senso ha concentrare tecnologie sofisticate, informatica e laboratori in un deserto bollente.
Si può insabbiare il deserto in una Disneyland per adulti schiacciati dai 40 gradi? Manca l’acqua, ron ron dei desalinizzatori: un litro d’acqua costa più di un litro di whisky. Accanto ad ogni aiuola un’ombra del Bangladesh, pompa in mano, giorno e notte. Chilometri di aiuole nell’illusione della primavera di plastica. Il campo da golf più lungo del mondo – Tiger Woods Gold Course – asciuga 16 milioni di litri al giorno. Ma il mare è inquinato e i filtri non ce la fanno: erba che ingiallisce, acqua potabile sempre peggio. La follia di questo verde costosissimo non è solo il consumo astronomico dell’energia per l’irrigazione, la follia sono i battaglioni di emigranti attorno a battaglioni di piante rachitiche. Dietro ogni cespuglio, un extra arabo.
E per mantenere la tradizione che non c’è più, Dubai ed Emirati passano un sussidio a chi in giardino alleva dromedari. Importazione di vasche da bagno: mangiatoie. L’erba arriva dal Pakistan. E nuove spese per mantenere in forma delle navi del deserto grasse come maiali: somali che li fanno correre. I padroni di casa sono meno di 300 mila. Un milione e 200 mila vengono da fuori. Yemenita il tassista che mi carica in albergo. Libanese chi controlla il biglietto. Fra i banchi di scuola e negli ospedali, laureati palestinesi. Voglio sapere dalla ragazza filippina, bar aeroporto: le piace stare qui? Gira gli occhi attorno, orientale guardinga: “A lei piace?”, risponde. Non mi piace. Sospira sollevata. “Un posto terribile. Alberi falsi, contratti di lavoro falsi, isole false. Non è un paese, un’illusione”. Chi fa i raggi alla valigia è egiziano. L’hostess olandese mi accompagna alla poltrona dell’airbus Emirate Airlines. Il pilota inglese annuncia il decollo appena i sudanesi delle pulizie fermano le scope. In fondo alla pista muratori sudcoreani sistemano la torre di controllo. Nella kufia beduina c’è scritto made in Taiwan.
Ma è un islam addolcito. Se in Arabia Saudita mogli e mariti possono frequentare la piscina dell’albergo solo in giorni diversi, a Dubai è permessa la trasgressione del bagno assieme. L’aereo cammina verso la partenza. Angeli custodi, militari pachistani. Sull’Awacs-spia bandiera Usa. Paese lavanderia, specie di Las Vegas dove Berlusconi si è adagiato in visita ufficiale con un occhio agli affari di famiglia. Emiro che può diventare azionista del Milan; Cavaliere che forse prende casa in un’oasi artificiale, cascate e laghetti desalinizzati. Ecco il Dubai, spazio simbolo della finanza che nasconde i milioni nella sabbia come la spazzatura proibita nei deserti africani. Follia che deve continuare altrimenti le banche si ammalano. Il miliardo degli affamati dimenticati dalla globalizzazione non può pretendere di deprimere un paradiso così.
Data storica, oggi, per l'Unione europea: insieme con il Trattato di Lisbona entra in vigore anche la Carta europea dei diritti, siglata nove anni fa, dicembre 2000, dopo un percorso non poco accidentato, e accolta, nella sinistra italiana, con alterne valutazioni. Festeggiamo l'evento con Stefano Rodotà, che della Carta è stato fra gli estensori ed è convinto sostenitore.
Rispetto al 2000, quando la Carta fu licenziata, il contesto europeo in cui oggi entra in vigore è migliorato o peggiorato, dal punto di vista della politica dei diritti?
Fra allora e oggi c'è di mezzo l'11 settembre 2001, con le tensioni securitarie che ha scatenato in tutto il mondo, Europa compresa. D'altra parte, sulla politica dei diritti ha pesato in Europa positivamente la spinta di Zapatero. Complessivamente direi che c'è un lieve peggioramento, per questo e a maggior ragione la Carta diventa più importante. Oggi comincia una nuova partita, con una doppia sfida, politica e culturale.
In un'Europa che va visibilmente a destra, e che si è data un vertice evidentemente di basso profilo?
Dal punto di vista degli assetti politici e di governo, l'avvio della nuova stagione europea non è certo esaltante. Resta vero che l'Europa è un gigante economico e un nano politico, che l'Unione «non ha un numero di telefono» e non è una potenza militare. Ed è vero che la coppia Van Romuy - Lady Ashton è debole - la situazione non sarebbe stata migliore con Blair, che sulla Carta dei diritti ha sempre espresso pesanti riserve e come inviato in Medioriente ha dimostrato una capacità politica pari a zero, mentre sarebbe stata certamente migliore con D'Alema, che nel ruolo di Mr. Pesc sarebbe riuscito a dare un segno positivo alla politica estera dell'Unione.
Nomine a parte, pensare che nella temperie internazionale di oggi l'Europa possa ambire a un ruolo politico e militare di peso rispetto alle vere superpotenze è del tutto irrealistico. Ma se ha una chance, questa sta proprio nella cultura e nella politica dei diritti. L'Europa è la regione del mondo dove la tutela dei diritti è più alta, e questa è una risorsa da giocare e far valere sulla scena internazionale, dove infatti la Carta è già diventata un punto di riferimento. Oggi che le grandi narrazioni novecentesche sono finite, l'unica narrazione che percorre il mondo globale è quella dei diritti fondamentali. Il dissidente birmano, il ragazzo cinese, la donna africana che rivendicano diritti vecchi e nuovi sono i protagonisti di un universalismo tendenziale che si afferma a partire dalla lotte sul campo. In questo processo, un'Europa che sappia mantenere e giocare la sua cultura del diritti oltre l'impronta eurocentrica che storicamente li connota può avere sì un ruolo importante.
Nella sinistra radicale italiana molti hanno obbiettato in questi anni, anche sul 'manifesto', che la Carta europea, soprattutto in materia di diritti sociali, istituisce tutele inferiori a quelle della nostra Costituzione.
Ora che la Carta entra in vigore, spero che queste polemiche ce le lasceremo alle spalle. Certo, possiamo decidere di continuare a rimarcare che sui diritti sociali la Carta è più debole della Costituzione, o viceversa, che è più forte e più avanzata nel campo dei diritti afferenti alla biopolitica (sovranità sul corpo, sui dati sensibili etc.). Ma ci conviene continuare con questa contabilità, o c'è un'altra strada da prendere? Io dico che c'è. Il fatto stesso che la Carta esista, che siamo riusciti a vararla contro le resistenze dei paesi più conservatori e più liberisti, ha profondamente intaccato il principio di legittimazione originario della Ue, che era incardinato solo sulla logica di mercato. Con la Carta si è stabilito che tutti gli atti normativi della Ue devono essere ad essa conformi.
Lo sono stati, in questi nove anni?
Sì e no. Ma intanto, le corti l'hanno presa a riferimento, e proprio sui diritti sociali: il primo caso su cui è stata invocata riguardava la retribuzione delle ferie di un lavoratore inglese. Comunque, se fino a oggi si poteva scrivere impunemente «conforme alla Carta dei diritti» su una direttiva Ue non conforme, da oggi in poi diventa possibile invocare il controllo della corte di giustizia. Lo so anch'io che il campo dei diritti sociali è quello meno risolto nella Carta, e sono il primo a soffrire, ad esempio, della mancanza di una affermazione della funzione sociale della proprietà. Ma sia su questo, sia sulla limitazione dell'iniziativa privata, sia sulla qualità dello sviluppo, la struttura assiologica della Carta, che comprende i principi della dignità, dell'uguaglianza, della libertà e della solidarietà, consente ottimi sviluppi. E certamente apre un campo di battaglia: purché la sinistra ci creda e sia pronta a giocare la partita, senza trincerarsi dietro l'assioma che il liberismo ha vinto. Io non gliela voglio dare vinta, voglio combattere, le condizioni ci sono. Finora i giuristi sono stati i più aperti al cambiamento, ora tocca anche agli altri.
Dicevi dei nuovi diritti «biopolitici». Avranno delle conseguenze sulla legislazione italiana?Per cominciare, la tutela dei dati personali metterà dei paletti alle norme securitarie, in Italia e altrove. L'articolo che recita «il corpo e le sue parti non possono costituire oggetto di profitto» è carico di conseguenze. Altro esempio, l'articolo sul vincolo familiare, che elimina la superiorità del matrimonio rispetto alla convivenza, nonché il requisito dell'eterosessualità: l'Italia e gli altri stati nazionali potranno solo «disciplinare l'esercizio» di questa norma, non violarla. Non a caso contro questo articolo la pressione del Vaticano è stata durissima, come pure su quello che limita l'obiezione di coscienza.
L'Europa è attraversata da conflitti di ogni tipo sulla religione e il suo esercizio. Da una parte c'è la sentenza della corte di Strasburgo contro l'esposizione del crocifisso nelle scuole, dall'altra in Svizzera (che non fa parte della Ue, ma dà pur sempre un'indicazione di clima) votano contro i minareti e in Italia la Lega vuole la croce sulla bandiera ...
Per la sentenza sul crocefisso la corte non a caso ha fatto riferimento alla Carta. Che rubrica la libertà di religione e di manifestazione individuale e collettiva, pubblica e privata del culto assieme alla libertà di pensiero, senza conferire alla prima alcun piedistallo. Come pure il rispetto delle diversità religiose sta assieme a quello delle diversità culturali e linguistiche. C'è insomma un riconoscimento laico, secolarizzato, della religione. Alcuni vedono un cedimento sul terreno della laicità non nella Carta ma nel Trattato, che all'art.. 17 parla di dialogo fra le chiese e le istituzioni. Ma la Carta fornisce il quadro normativo necessario per contenerlo nei limiti di una Europa laica e secolarizzata. Purché, lo ripeto, alle norme segua la politica. Il diritto può disegnare un quadro di agibilità, ma poi sta alla cultura politica raccoglierne l'opportunità e la sfida.
Pochi giorni fa l’amministrazione di una località in provincia di Mantova, governata da una coalizione Lega-Pdl, ha invitato i cittadini, con manifesti eloquenti, a denunciare i clandestini che risiedono entro i confini comunali.
D’altronde, un’esortazione analoga era stata rivolta ai medici ospedalieri, in una versione preliminare del "pacchetto sicurezza" presentata dal governo. Segni di una marcia inarrestabile, che conduce - anzi: ci ha già immersi - in un mondo nuovo. La società spiona. Che tutti sono chiamati a costruire, rafforzare, estendere. In nome della sicurezza. È strano, questo orientamento, perché contrasta con il pensiero unico dell’epoca, che ha come riferimenti la libertà e l’individuo. Riassunti nella libertà individuale. Ancora oggi, reclamata come valore irrinunciabile della nostra civiltà. Liberale (appunto) e liberata da ogni totalitarismo. Tanto più dopo il passaggio dalla comunità tradizionale alla metropoli. Fino alla nascita della "società in rete", di cui parla Manuel Castells. Dove le relazioni avvengono a distanza, senza vincoli di spazio e di tempo. A dispetto di ciò, oggi il paradigma dominante si ispira alla sicurezza. Reclama il controllo sociale. Affidato non più alla comunità, ma agli individui stessi. Oppure allo stato. O ancora: al mercato.
Ciascuno è, dunque, chiamato a difendere se stesso, la famiglia: dagli altri, da ogni altro. Mentre, fra i cittadini, c’è ampia disponibilità a delegare alle istituzioni pubbliche e ad agenzie private il compito di difenderli. A costo di cedere porzioni crescenti della nostra libertà personale. D’altronde, il territorio desertificato delle nostre infinite periferie urbane è controllato dai sistemi di videosorveglianza. Telecamere dovunque, che registrano i nostri passi e i nostri passaggi. Soggetti pubblici e privati ci spiano e filmano tutti, dappertutto. Davanti agli sportelli bancari, nei supermercati, nei giardini pubblici, nei parcheggi sotterranei e all’aperto. Senza sollevare grandi timori, fra i cittadini. Al contrario. Come rileva un’indagine di Demos-Unipolis, condotta nelle scorse settimane (per l’Osservatorio su "Sicurezza, percezione e informazione"), circa nove italiani su dieci sono favorevoli ad "aumentare la sorveglianza con telecamere in strada e nei luoghi pubblici". Circa uno su due: a "consentire al governo di monitorare le transazioni bancarie". Infine, uno su tre: a "rendere più facile per le autorità leggere la posta, le e-mail o intercettare le telefonate senza il consenso delle persone". Insomma, spioni e spiati, senza troppa angoscia, senza troppi dubbi. È il clima del tempo. Favorito dai media e dalle tecnologie. Evocare Orwell è fin troppo facile. Visto che il Grande Fratello è divenuto un format televisivo di successo globale. Archetipo di tutti i reality show. Il GF, dove i concorrenti stanno rinchiusi in una casa, ciascuno da solo contro tutti gli altri, come ha osservato Bauman. Mentre il mondo fuori li spia, a (tele) comando. Una società allo specchio, fatta di spettatori che apprendono l’arte di arrangiarsi, di guardare e di guardarsi. Dagli altri. Non a caso 7 italiani su 10 dicono che occorre cautela nel rapporto con gli altri; che ti potrebbero fregare (sondaggio Demos, novembre 2009). Dunque: ciascuno per proprio conto. Sottoposto a un "controllo continuo", in un presente istantaneo e dilatato (per evocare Deleuze). D’altronde, le nuove tecnologie della comunicazione rendono possibile ogni intrusione nel privato, immediatamente (senza mediazione). E lo rendono, anzi, di pubblico dominio. Ogni cellulare è dotato di videocamera e di apparecchio fotografico. Per cui ciascuno può riprendere chiunque, in ogni luogo. Riversarne le immagini in rete. In tempo reale. E tutti possono essere spiati e ascoltati ovunque, da soggetti pubblici ma anche privati. Per motivi di sicurezza, ma anche di interesse. Visto che le informazioni private e personali hanno un valore di mercato crescente.
Così avviene il paradosso della perdita di libertà prodotta dalla conquista della libertà. Perché la comunicazione è libertà, Internet è libertà. Come è possibile ribellarsi, opporsi, semplicemente criticare: senza apparire "nemici" della libertà? Nostalgici del tempo passato? Tuttavia, lo sconfinamento fra società della comunicazione e della sorveglianza; fra società in rete e spiona: è continuo e pervasivo. Questa tendenza ha da tempo contaminato la politica. Basta pensare, per ultimi, ai grandi "affaires" degli ultimi mesi. Berlusconi, Marrazzo. Fino alle indiscrezioni sulla Mussolini. Filmati, video, telefonate, servizi fotografici. Chissà quanti altri capitoli in preparazione o già predisposti, sul punto di irrompere, in questa saga della società spiona. Che ha, da tempo, un organo ufficiale autorevole, pubblicato - ovviamente - in rete, la cui testata recita - ovviamente - DagoSpia.
Così rischiamo di scivolare, rapidamente, lungo la deriva delatoria senza accorgercene. E di subirla senza quasi combattere. Assuefatti, più che sopraffatti.
Spinti dalla "società spiona", dove i confini tra privato e pubblico, fra noi e gli altri si confondono, anche nella vita quotidiana. Dove ciascuno si rinchiude nel (e si maschera da) privato anche in pubblico; quando è con gli altri. Dove ciascuno è osservato dagli altri e sorvegliato dal pubblico, anche nel privato. Quando si illude di essere solo. Dove tutti ? o quasi ? indossano occhiali scuri. Non per difendersi dalla luce abbagliante. (Molti li portano anche di sera, perfino di notte). Ma dagli altri. Per guardare senza essere guardati. Per puntare gli occhi sugli altri senza che gli altri possano vedere i nostri occhi.
La società spiona: in nome della sicurezza rischia di trasformarci in nemici. Non solo degli Altri. Ma anche di noi stessi.
Puntuale come un meccanismo ad orologeria arriva l’attacco alla Einaudi: una volta alla sua pervicace, quasi massonica pretesa di egemonismo; un’altra alla sua forsennata ambizione di governare il Partito (comunista, s’intende); un’altra alla sua cedevole disponibilità a farsene governare; un’altra ancora alle scelte presuntuosamente aristocratiche dei suoi redattori ed autori (gli uni e gli altri, il più delle volte, con un’insopportabile puzza sotto il naso). Questa volta l’attacco è mosso direttamente al suo fondatore ed eroe eponimo, Giulio Einaudi, appunto, responsabile, più che di aver creato la Casa editrice che ne porta ancora il nome (come sarebbe giusto), di averla disfatta. Strano: l’autore dell’attacco è una persona che conosco come seria e posata, Gian Arturo Ferrari, che per ragioni di età lascerà la carica di direttore della divisione libri della Mondadori ed ha assunto quella di presidente del Centro per il libro e la lettura, giustamente offertagli dal Ministro Bondi. Ma tant’è. Un colpo di vento può capitare a chiunque.
Nel merito si possono fare, sinteticamente, tre ordini di considerazioni. Il primo è: l’«egemonia culturale» è come il coraggio, chi non ce l’ha, non se la può dare. Se fra gli anni ‘40 e i ‘70 questa egemonia l’ha avuta indiscutibilmente la Einaudi, invece di esorcizzare bisognerebbe capire. Per carità: questo non significa che nel campo dell’editoria culturale in Italia nel medesimo periodo (o quasi) non ci sia stato altro. Basta fare i nomi, per giunta a me cari sia in passato sia oggi (e credo di averlo dimostrato) di Laterza e Feltrinelli, per rendersene conto. Ma è un’altra cosa. Egemonia culturale vuol dire praticare sistematicamente le strade che, insieme con il prodotto librario, percorrono le tendenze di ricerca più vive e più di avanguardia nel proprio paese e nel mondo. Questo ha fatto in Italia la Einaudi: andare alla ricerca delle tendenze culturali più vive e più di avanguardia, ospitarle e a sua volta alimentarle. Evidentemente è questa la colpa non irrilevante che le si rimprovera oggi, dove è dominante la rincorsa all’appiattimento e alla mediocrità.
Secondo: quando si attacca la Einaudi per l’uno o per l’altro dei motivi sopra ricordati, e per altri ancora, io provo sempre l’impressione che, al di là di quella sigla editoriale, s’attacchi il meccanismo culturale che essa ha largamente praticato e che in generale va oggi incontro a difficoltà d’ogni genere. Bisogna invece ribadire questo punto: l’editoria che guarda al grande mercato non può, non potrà mai svolgere le funzioni che svolge l’editoria culturale. Anche in questo caso, certo, le eccezioni non mancano. Una collana come "I Meridiani" è culturalmente ammirevole, ma è un’altra cosa. La ricerca delle nuove strade si è svolta necessariamente altrove: in Einaudi, appunto, e, come dicevo, altrove.
Terzo: la figura del fondatore ed eroe eponimo, Giulio Einaudi. Non mi verrebbe mai in mente di definirlo megalomane: se mai, eccezionale, uno che ha pensato in grande dall’inizio alla fine della sua vita. Se vogliamo esser precisi fino in fondo, anche sul piano storico, dovremmo dire infatti che le due «grandi opere», che per sua scelta caratterizzano il passaggio fra gli anni ‘70 e gli ‘80, e dunque preludono alla crisi, - e cioè la Storia d’Italia e l’ Enciclopedia, - sono andate incontro a riuscite economiche molto dissimili (ottime la Storia, molto mediocri l’Enciclopedia), senza che di ambedue si possa mettere in dubbio il carattere pionieristico e fondativo (sul quale, per richiamare l’attenzione in concreto sul nesso editore-intellettuali-ricerca, ebbero un ruolo di primaria importanza due studiosi del calibro di Corrado Vivanti e Ruggiero Romano). Osserverò di sfuggita che l’anno medesimo della Grande Crisi usciva il primo volume della Letteratura italiana, cui si possono attribuire molti difetti, ma non quello di non essere andata benissimo sul mercato, anche in tempi molto difficili. Forse a spiegare la Grande Crisi servirebbe di più richiamare la folle corsa al rialzo degli interessi bancari fra i ‘70 e gli ‘80 che non la megalomania egemonistica del fondatore.
Ma veniamo brevemente al presente. Che bisogno ci sarebbe di attaccare così veementemente la Einaudi del passato se la Einaudi di oggi fosse un cane morto da seppellire, una sorta di scheletro vuoto intorno al quale danzare il rito dell’addio? La mia tesi è che non è così, e questo è forse ciò che spiega la durezza e l’insistenza degli attacchi. Nella mia esperienza la Casa editrice, - voglio esser chiaro: tutta la Casa editrice, dagli Amministratori delegati nominati dalla proprietà, e forse vittime di un rapido processo d’innamoramento, allo staff redazionale ai tecnici, - si è battuta in questi anni per continuare quella tradizione: cioè per restare, - non trovo altro modo per dirlo, - nel solco scavato un tempo da Giulio Einaudi (con il necessario rispetto, ça va sans dire, del nuovo e dell’imprevisto). Ci riesce? Ci riesce sempre? Fino a che punto ci riesce? Questo sarebbe un discorso più serio: ma è quello che si fa continuamente nella Casa editrice, e accanto a lei. Ritorna il sospetto già manifestato: forse è questa la Giulio Einaudi editore che dà fastidio, non quella di trenta-cinquant’anni fa. Se è così, lo sapremo presto.
Da qualche tempo son molti i politici italiani che pretendono d’aver abbandonato ogni falsità, d’aver infine compiuto l’intrepido gesto che sfata le ipocrisie, d’aver imboccato la via stretta della verità. Dopo parecchio vagare ammettono che in questione non è più l’agire del governo ma il privato destino d’un presidente del Consiglio che non è protetto da processi pendenti, e che potrebbe essere indagato per concorso in stragi mafiose.
Sentono che la terra trema sotto Palazzo Chigi e dicono, come Casini, che è inane sfasciare la giustizia pur di sbrigare un caso singolo: meglio «eliminare le ipocrisie» e riconoscere che serve una legge, la decisiva, per «salvaguardare Berlusconi». La Corte Costituzionale gli ha negato l’immunità, ma egli ha pur sempre vinto le elezioni e deve poter governare: diamogli dunque lo scudo che cerca, visto che alternative non ci sono.
Nella sostanza è il discorso di Berlusconi che vince: la magistratura impedisce alla democrazia di funzionare, quindi è eversiva. È in atto una guerra civile, insinua: uno spettro che in Italia tacita in special modo gli ex comunisti.
Le cose potrebbero tuttavia non stare così, e ci si può chiedere se uscendo da un’ipocrisia non si entri in un nuovo gioco mascherato, che vela anziché svelare. Chi ha detto che l’unica via sia lo scudo immunitario?
L’altra via stretta è la possibilità che Berlusconi si difenda non dai processi ma nei processi, come Andreotti. O la possibilità che il ceto politico tragga le conseguenze, allontanando un leader non condannato ma debilitato da troppi processi e congetture. È accaduto per molti dirigenti in molte democrazie occidentali. Quel che sorprende in Italia è che quest’alternativa, se si esclude Di Pietro, nessuno la propone: subito è detta sovversiva. Essa non presuppone il governo dei giudici, o addirittura dei pentiti. La decisione spetta alla politica, e se questa tace o s’accuccia, c’è solo la voce dei magistrati, per quanto sommessa, a esser udita. L’altra cosa sorprendente è che la tesi sul contrasto tra voto popolare e legalità intimidisca più l’opposizione che la destra.
Su questo giornale, il 23 novembre, c’è stata una presa di posizione forte, di Fabio Granata che è vicepresidente della Commissione antimafia e fedele di Fini, contro chi scredita i processi di mafia. Intervistato da Guido Ruotolo, Granata denuncia il «berlusconismo che rischia di cancellare la nostra identità: quella di chi crede nei valori della legalità, dell’antimafia, della giustizia, del senso dello Stato». Nel Pdl, egli è «guardato come un appestato», «accusato di essere giustizialista».
Ciononostante resiste: «Ho visto la gente impazzita di rabbia e dolore ai funerali di Paolo Borsellino, che (...) faceva parte della famiglia missina. Quella enorme e disperata domanda di giustizia l’ho tenuta nel cuore e per questo non potrei non sostenere chi dal ’92 cerca irriducibilmente di affermarla. Meglio un giorno da Borsellino che cento anni da Vito Ciancimino. Liberare l’Italia dalle mafie dovrebbe rappresentare il primo punto all’ordine del giorno dell’azione di qualsiasi governo». Granata non ritiene colpevoli Berlusconi e Dell’Utri ma approva le inchieste di Palermo, Caltanissetta, Firenze (le procure che investigano sulle stragi del ’92-’93). Loda il «lavoro tenace» del giudice Antonio Ingroia (il procuratore aggiunto di Palermo che indaga sul patto Stato-mafia): «Lo ricordo perfettamente accanto a Paolo Borsellino, quel giorno alla sala mortuaria per riconoscere il corpo maciullato di Falcone».
La cosa strana non è che queste parole vengano da destra. Borsellino era vicino alla destra, e quest’ultima ha una lunga tradizione di lotta alla mafia, a causa del senso dello Stato acuto (a volte sfrenato) che la anima. Ci fu l’attività di Cesare Mori in Sicilia, fra il 1924 e il ’29: attività peraltro ostacolata da dignitari fascisti che temettero il suo assedio. Apparteneva alla destra storica il senatore Leopoldo Franchetti, il primo che perlustrò il fenomeno mafioso, scrivendo nel 1876 un rapporto sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia: un classico sulla malavita. Apparteneva alla destra storica Emanuele Notarbartolo, il direttore del Banco di Sicilia che volle far pulizia e fu ucciso dalla mafia il 1° febbraio 1893. Il mandante era un senatore mafioso, processato e poi assolto.
Strano è il cedimento-fatalismo dell’opposizione, al centro e nel Pd. Ambedue vedono la legislatura divorata dai guai giudiziari d’un singolo, ma nell’essenza si dichiarano imbelli. È come se ritenessero del tutto impensabile una contromossa della politica che non sia l’accomodamento, o come diceva Gaetano Mosca nel 1900: il «lasciar andare, la fiaccona». Come se dicessero: il leader non può governare e il dilemma si risolve non ricongiungendo democrazia e legalità, ma disgiungendole. Fondando il primato della politica non su atti trasformativi, ma tutelativi.
Forse senza rendersene conto, il Pd interiorizza l’alternativa democrazia-legalità. Martedì a Ballarò Luciano Violante ne è parso prigioniero: da una parte la democrazia, dall’altra la legalità. Ha mancato di ricordare che le due cose o sono sinonimi, oppure non si ha né democrazia né legalità. Voleva probabilmente dire che non sono i giudici a far cadere un governo, tanto meno i pentiti. Ha finito col dire che non è neppure la politica (partiti, parlamento) a poterlo fare. Torna a galla l’idea leninista secondo cui la democrazia sostanziale può confliggere con quella legale. È una fortuna che Napolitano abbia detto in modo chiaro, venerdì, che spetta invece a politica e parlamento sanare i presenti squilibri.
Tutto questo avviene forse perché le indagini su politica-mafia sono a una svolta. Si accumulano verbali sempre più sinistri, che legano Berlusconi e Dell’Utri alle stragi. Ce n’è uno in particolare, quello del pentito Romeo, secondo cui nei primi ’90 «c’era un politico di Milano (il nome fattogli dal pentito Spatuzza è Berlusconi) che aveva detto a Giuseppe Graviano (un capomafia) di continuare a mettere le bombe», indicando perfino «i siti artistici dove metterle». I verbali non inducono ancora la magistratura a aprire un’indagine, ma la loro portata è oltremodo conturbante. Un sospetto malefico pesa sul presidente del Consiglio: che oltre al conflitto di interessi economici, ne esista un altro che lo espone a minacce di pentiti e carcerati mafiosi.
Il governo in realtà sostiene ben altro: la sua lotta alla mafia sarebbe dura; secondo alcuni, è sotto pressione proprio per questo. Nell’agosto scorso Berlusconi ha affermato di voler «passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha sconfitto la mafia». Né mancano dati promettenti: la legge del carcere duro inasprita (legge 41 bis), i beni mafiosi sequestrati, un gran numero di capi malavitosi arrestati.
Al contempo tuttavia son favoriti i colletti bianchi che fanno affari con la mafia. C’è lo scudo fiscale, che chiede all’evasore una restituzione minima di quel che dovrebbe (il 5 per cento), e in cambio gli consente, restando anonimo, di cancellare reati come il riciclaggio di denaro sporco (lo spiega il giudice Scarpinato sul Fatto del 15-11-09). C’è la legge sulle intercettazioni, che ostacola le inchieste sulla mafia. C’è il Comune di Fondi, in mano alle destre: tuttora non sciolto, malgrado la collusione con la mafia sia certificata da oltre un anno. Contestata da don Ciotti, c’è una legge che mette in vendita parte dei beni confiscati alla mafia, col pericolo che prestanome incensurati li riacquistino. C’è infine il processo breve: un processo morto, per i colletti bianchi collusi.
La svolta secerne sospetti a raggiera. Quelli che Franchetti chiamava i facinorosi della classe media (amministratori, politici) potrebbero aver l’impressione che il cuore dello Stato sia nelle loro mani. È sospettato il presidente del Senato Schifani, per rapporti con i fratelli Graviano e assistenza giuridica al costruttore Lo Sicco, oggi in galera per mafia. È indagato Nicola Cosentino, sottosegretario al Tesoro, per concorso esterno in associazione camorristica. Ambedue restano al loro posto, sotto gli occhi non tanto dei magistrati quanto della mafia, esperta in ricatti. Che sia l’ora della politica è evidente. Le democrazie vivono e muoiono nel funzionare o non funzionare del comportamento politico, non di quello giudiziario.
L'immagine è un quadro di Mimmo Cosenza, dal titolo "Liberista ipocrita", tratta dal sito web de il Sole 24 Ore.
In America Latina sta succedendo qualcosa di strano. Le forze di destra latino-americane sono determinate a ottenere di più, durante la presidenza Usa di Barack Obama, di quanto non abbiano ottenuto durante gli otto anni di presidenza di George W. Bush. Bush guidava un governo di estrema destra che non era minimamente in sintonia con le forze popolari latino-americane. Obama, viceversa, è alla guida di un governo centrista che sta cercando di riproporre la «politica di buon vicinato» proclamata da Franklin Roosevelt per segnalare la fine dell'intervento militare diretto degli Usa in America Latina.
Durante la presidenza Bush, l'unico tentativo serio di colpo di stato sostenuto dagli Usa è stato quello del 2002 in Venezuela contro Hugo Chavez, ed è fallito. Le successive tornate elettorali, in tutta l'America Latina e nei Caraibi, sono state vinte quasi sempre da candidati di sinistra. Il culmine è stato toccato in un meeting del 2008 in Brasile, a cui gli Stati Uniti non erano stati invitati e in cui il presidente cubano, Raúl Castro, è stato trattato praticamente come un eroe.
Da quando è diventato presidente Obama c'è stato un golpe, riuscito, in Honduras. Malgrado la condanna di Obama, la politica americana è stata ambigua e gli autori del colpo di stato stanno vincendo la loro scommessa di restare al potere fino alla prossima elezione del nuovo presidente. In Paraguay il presidente Fernando Lugo, un cattolico di sinistra, ha appena sventato un golpe militare. Ma il suo vicepresidente Federico Franco, di destra, sta manovrando per ottenere da un parlamento nazionale ostile a Lugo un colpo di stato sotto forma di impeachment. E i militari stanno affilando le armi anche in una serie di altri paesi.
Per capire questa apparente anomalia, dobbiamo analizzare la politica interna americana, e il modo in cui essa influisce sulla politica estera americana. C'erano una volta, e non tantissimo tempo fa, due grandi partiti che rappresentavano coalizioni di forze sociali sovrapposte. Il loro equilibrio interno era un po' spostato a destra per il Partito repubblicano, e un po' spostato a sinistra per il Partito democratico.
Poiché i due partiti si sovrapponevano, le elezioni tendevano a costringere i candidati presidenziali di entrambi i partiti a collocarsi più o meno al centro, per conquistare la frazione relativamente piccola di elettori «indipendenti» di centro.
Le cose non stanno più così. Il Partito democratico è la stessa ampia coalizione di sempre, ma il Partito repubblicano si è spostato molto più a destra. Questo significa che i Repubblicani possono contare su una base più piccola. Sarebbe logico aspettarsi che abbiano molti problemi elettorali. Ma, come stiamo vedendo, non è così che funziona.
Le forze di estrema destra che dominano il Partito repubblicano sono fortemente motivate e alquanto aggressive. Esse cercano di purgare tutti i politici repubblicani che considerano troppo «moderati», e di imporre ai Repubblicani al Congresso un atteggiamento uniformemente negativo nei confronti di qualunque cosa il Partito democratico, e in particolare il presidente Obama, possano proporre.
I compromessi politici non sono più ritenuti politicamente desiderabili. Al contrario. I Repubblicani vengono spinti a marciare compatti. Nel frattempo, il Partito democratico sta operando come ha sempre fatto. La sua ampia coalizione va dalla sinistra fino alla destra moderata. I Democratici al Congresso dedicano la maggior parte delle loro energie politiche a negoziare gli uni con gli altri. Questo significa che è molto difficile approvare leggi significative, come stiamo vedendo attualmente nel tentativo di riformare il sistema sanitario degli Stati Uniti.
Che cosa significa dunque questo per l'America Latina (e per le altre parti del mondo)? Bush poteva ottenere dai Repubblicani al Congresso - dove per i primi sei anni del suo regime ha potuto disporre di una maggioranza netta - quasi qualunque cosa volesse. Le vere discussioni si svolgevano nei circoli esclusivi e riservati di Bush, che per i primi sei anni sono stati sostanzialmente dominati dal vicepresidente Cheney. Quando Bush, nel 2006, perse le elezioni per il Congresso, l'influenza di Cheney declinò e la politica del governo cambiò leggermente. L'era Bush è stata segnata da un'ossessione per l'Iraq e, in misura minore, per il resto del Medio Oriente. Le energie rimaste sono state utilizzate per trattare con la Cina e l'Europa occidentale. L'America Latina è sparita dalla prospettiva del governo Bush, relegata in sottofondo. Le forze di destra latino-americane - cosa per loro frustrante - non hanno ottenuto dal governo Usa il consueto impegno in loro favore, un impegno che si aspettavano e che volevano.
La situazione di Obama è completamente diversa. Ha una base diversificata e un'agenda ambiziosa. La sua immagine pubblica oscilla tra una posizione fermamente centrista e gesti moderatamente di sinistra. Questo rende la sua posizione politica sostanzialmente debole. Sta disilludendo gli elettori di sinistra che aveva motivato durante la campagna elettorale, e che in molti casi si stanno ritirando allontanandosi dalla politica. La realtà di una depressione mondiale gli sta alienando alcuni dei suoi elettori indipendenti di centro, che temono un crescente indebitamento pubblico.
Per Obama, come per Bush, l'America Latina non è in cima alle priorità. Obama però (diversamente da Bush) sta combattendo con tutte le sue forze per restare a galla nelle acque agitate della politica. È molto preoccupato per le elezioni del 2010 e 2012 e non senza ragione. La sua politica estera è notevolmente influenzata dall'impatto potenziale che potrebbe avere su queste elezioni. La destra latino-americana sta sfruttando le difficoltà politiche interne di Obama per forzargli la mano. Essa vede che Obama non ha l'energia politica per contrastarla. Inoltre la situazione economica mondiale tende a influire negativamente sui governi attualmente al potere. E oggi, in America Latina, i partiti al potere sono quelli della sinistra.
Se Obama nei prossimi due anni avesse degli importanti successi politici (una riforma sanitaria decente, un vero ritiro dall'Iraq, un calo della disoccupazione), questo in effetti offuscherebbe il ritorno della destra latino-americana. Ma Obama otterrà questi successi?
Copyright Immanuel Wallerstein, distribuito da Agence Global, (Traduzione Marina Impallomeni)
LIVORNO. "Bancarotta a Dubai" gridano oggi gli stessi giornali che solo ieri, accompagnando negli Emirati Arabi Uniti la visita di Silvio Berlusconi, magnificavano, con la complicità estasiata dei nostri ministri di turno, il bengodi arabo, le isole cementizie che si sporgono in fogge floreali nell'instabile Golfo persico (od arabo che dir si voglia), i grattacieli record, i pomodori coltivati nel deserto per le tavole di emiri che lasciano una scia di petrodollari, lo shopping mondiale in luccicanti ed esclusivi grandi magazzini planetari che hanno trasformato la Costa dei Pirati di antica memoria, i Trucial Staes occupati dagli inglesi, nel nuovo paese dei balocchi del lusso planetario che tanto vorremmo riprodurre nelle zone franche e nei casinò a cui bramano schiere di comuni e regioni italiani.
Ancora una volta (e fino all'ultimo) il nostro governo e gran parte dei nostri media hanno peccato di provincialismo, hanno scambiato le perline per la sostanza, il luccichio per oro puro. Che Dubai e gli altri 6 emirati fratelli stessero sprofondando nella sabbia di una crescita insensata che riassumeva in sé tutte le esagerazioni dell'ipercapitalismo era cosa nota, gli articoli sulla stampa internazionale si sono sprecati, ma qualcuno pensava che pur essendo crollato il palazzo dell'economia finanziaria di rapina, potesse rimanere intatta la sua vetrina sulle rive del Golfo.
Non è così e non era già così da un pezzo (come ha scritto più volte anche questo giornale) e ben prima che scoppiasse la bolla immobiliare che sta terrorizzando le borse mondiali e che sta svelando la fragilità di una "ripresa" che deve ancora fare i conti con le mine di cui il neoconservatorismo economico ha infestato il pianeta e la sua economia, pronte ad esplodere ad ogni minimo cambio di pressione.
Gli Emirati della cuccagna erano già in crisi da un bel pezzo, nessuno voleva e poteva più comprare le case sulle isole artificiali, gli alberghi si svuotavano per la crisi (ma anche per la cacca in mare), il mondo scopriva sempre di più che quel benessere si basava su un 90% di popolazione immigrata, senza nessun diritto politico e civile, ridotta praticamente in schiavitù che costruiva per gli emiri e per i turisti dello shopping planetario un mondo artificiale, una finzione da ricchi, un tentativo maldestro quanto arrogante di addomesticare l'ambiente con i petrodollari, magari investendoli anche in futuristiche città "verdi" e in progetti di energie rinnovabili. Il greenwashing della disperazione: solo qualche giorno fa il governo indonesiano ha chiesto ai suoi immigrati negli emirati arabi di ritornare a casa per sottrarsi ad uno sfruttamento che diventava ogni giorno più inumano con il progredire di una crisi che segna la fine del sogno filo-occidentale dei monarchi arabi.
Un greenwashing della dittatura, al quale purtroppo ha partecipato anche il nostro Paese facendo passare come moderati Paesi (Arabia Saudita in testa) dove la democrazia e i diritti umani sono un sogno e dove la condizione della donna è ben peggiore di quella del tanto criticato Iran e si avvicina più a quella delle donne afghane che un tempo dicevamo di voler liberare dal burka talebano, che gli è rimasto addosso anche con l'intervento Nato.
Le borse tremano, perdono, piangono, per quel che succede al già ammirato esperimento ambientale-finanziario nel deserto costiero degli Emirati, i pasciuti regnanti rimarranno comunque straricchi e assicurano le banche occidentali rimpinzate dei loro petrodollari, le multinazionali piene di loro azioni, gli investitori traditi dal crollo del sogno immobiliare e delusi dall'incubo dell'artificializzazione dell'ambiente e della costruzione di una società fittizia, che nasconde gli schiavi ed i prezzi ambientali, ingannati dall'assicurazione che sarebbe durata in eterno la società dello scialo e dello spreco di risorse esibito come modello da raggiungere in comodi voli di Fly Emirates, come ci ricordano le maglie di notissime squadre di calcio.
Il super grattacielo da 818 metri del Dubai World rischia di diventare la torre di Babele di una globalizzazione che aveva portato il mondo a parlare lo stesso linguaggio economico, ad usare gli stessi strumenti di rapina, a proporre un unico modello, le isole artificiali rischiano di diventare le polverose arche di Noè di un'ingordigia interrotta in un Paese piccolo e già miserabile che non sembra essere riuscito a gestire una ricchezza improvvisa, un tesoro energetico che comunque finirà, che non è riuscito a non soccombere alla maledizione del petrolio.
La guerra persa dagli Emirati e da Dubai non è quella guerreggiata di Saddam Hussein, è la sconfitta della più luccicante avanguardia di uno scatolone di sabbia che la globalizzazione e l'iperconsumismo avevano trasformato in un supermarket di lusso, è la sconfitta dell'idea che dollari e volontà, artifici economici e spregiudicatezza politica, potessero realizzare un mondo nuovo ed esclusivo basato su una colossale esclusione, sullo sfruttamento di una manodopera schiavizzata che doveva far nascere dalla sabbia un Paese nuovo anche nel suo ambiente, dove si reintroduce l'orice nel deserto e si nascondono centinaia di migliaia di poveri disperati che costruiscono mega-chiese e moschee, grattacieli girevoli, isole che potrebbero diventare la nuova piccola Atlantide della peggiore globalizzazione.
Qui il giornale online Greenreport.it
Sul mercato immobiliare è in arrivo una nuova ondata di liquidità. Secondo gli esperti, infatti, circa un 20% dei soldi che rientreranno con lo scudo fiscale verrà investito nell´acquisto di case. Una somma che oscilla tra i 12 e i 18 miliardi di euro. Denaro che torna in Italia e che verrà speso soprattutto nell´acquisto di immobili di pregio. Chi ha deciso di mettersi in regola con il fisco rivolgerà la propria attenzione ai centri storici e alle migliori località turistiche. Una quota più piccola sarà destinata agli immobili commerciali e alle società di "real estate" quotate in Borsa.
Nuovi potenziali acquirenti, dunque, con una disponibilità di almeno 500mila euro. Dove andranno questi soldi? Roma, Milano, Venezia, Cortina, Forte dei Marmi. Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, prevede anche un flusso verso la Costa Smeralda per chi ha somme più alte a disposizione (fra 1 e 3 milioni di euro). Chi avrà tra i 3 e i 10 milioni di euro si concentrerà, invece, nell´acquisto di palazzine "cielo-terra" con appartamenti da affittare. Un osservatorio privilegiato per rilevare le mosse dei potenziali acquirenti "liquidi" è Milano. «Il segmento degli immobili di livello medio alto - spiega Alessandro Ghisolfi, responsabile ufficio studi Ubh - con valori compresi fra i 500 mila euro e il milione (e oltre) è oggetto oggi di maggiore interesse da parte della domanda rispetto a pochi mesi fa». Si tratta di appartamenti del valore minimo di 7-8mila euro al metro quadrato.
La potenziale domanda potrebbe contribuire al rafforzamento delle quotazioni degli immobili signorili e di pregio. «Il mancato sgonfiamento delle quotazioni delle case - spiega Luca Dondi, analista di Nomisma - che invece si è verificato in altri paesi, rappresenta per l´Italia un elemento penalizzante che impedisce di cogliere appieno i benefici derivanti dall´improvviso ritorno di capitale». Una sorta di «colpo in canna» da usare non appena il mercato si rimetterà in moto, aggiunge Briglia. Che il mercato immobiliare residenziale abbia bisogno di una forte "scossa" viene confermato dai dati resi noti ieri da Nomisma. Continua la flessione delle compravendite. Dopo il crollo del primo trimestre di quest´anno (-18,3%), il calo del secondo trimestre (-12,9%), l´emorragia nel terzo si è fermata a un -11%. E continua anche la lenta discesa dei prezzi delle case che, su base annua segnerebbe un meno -4,1%, mentre continuano ad aumentare gli sconti concessi dai venditori rispetto all´iniziale richiesta per concludere l´affare. Nomisma, inoltre, evidenzia un ulteriore peggioramento della qualità del credito nel primo semestre 2009, come testimonia l´aumento delle insolvenze nei mutui: erano l´1-1,1% fino alla primavera 2008, dopo un anno sono raddoppiate.
CAGLIARI. Il colle di Tuvixeddu potrebbe essere salvo: la sesta sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso dell’avvocatura generale e ha annullato la sentenza del Tar Sardegna del 20 aprile scorso con la quale i giudici amministrativi avevano dato il via libera agli ultimi due nullaosta concessi dal Comune di Cagliari a Nuova Iniziative Coimpresa, quelli che la sovrintendenza ai beni architettonici e ambientali aveva annullato a settembre del 2008.
I giudici di palazzo Spada hanno ascoltato nell’udienza del 24 novembre scorso le ragioni dell’avvocato dello stato Sergio Sabelli e quelle dei legali del gruppo Cualbu, gli avvocati Pietro Corda e Antonello Rossi. Si sono riservati la decisione, come sempre accade nel corso delle sessioni d’udienza a Roma. Poi però la notizia del verdetto favorevole per la sovrintendenza è trapelata attraverso i consueti canali ufficiosi ed è arrivata in Sardegna. Perché storici, ambientalisti e intellettuali cagliaritani possano gioire bisognerà però attendere il deposito della sentenza, tra due o tre settimane. Se l’esito del giudizio d’appello verrà confermato il piano di edificazione del gruppo immobiliare correrà il rischio di naufragare. Le due autorizzazioni firmate dal Comune il 25 agosto 2008 davano l’ok a un grande complesso edificato con nove unità abitative in tre corpi di fabbrica e ad altre diciotto in nove strutture più una grande residenza unifamiliare, per un totale di 14.630 metri cubi su un’area molto estesa del colle, con vista sulla necropoli punica. Coimpresa è impegnata nella costruzione di alcuni palazzi su via Is Maglias, ma quella che nel progetto viene indicata come unità insediativa E3 rappresenta il cuore del lussuoso quartiere del quale è cominciata proprio in questi giorni la commercializzazione, con una grande campagna pubblicitaria. Bloccare questa frazione del piano significa pregiudicare il progetto, già messo a rischio dalla procedura di vincolo che la sovrintendenza ai beni culturali ha avviato per le aree pubbliche di Tuvixeddu, compreso il canyon artificiale dove dovrebbe passare la strada d’accesso al nuovo quartiere.
Contro quell’iniziativa i legali del gruppo Cualbu hanno ricorso al Tar insieme a quelli del Comune, ma se le informazioni ufficiose arrivate da Roma trovassero conferma il costruttore sarebbe davanti alla più brutta delle gatte da pelare. Bocciati i due nullaosta finali, si tratterebbe di riaprire la procedura autorizzatoria ma secondo le indicazioni del Consiglio di Stato. Una su tutte, che ricalca le motivazioni con cui l’allora sovrintendente Fausto Martino aveva bocciato le autorizzazioni giudicandole affette da un “vizio esiziale”: prima di firmarle, il Comune avrebbe dovuto trasmettere la pratica alla sovrintendenza ai beni architettonici, il cui parere è indispensabile - come ha ribadito l’avvocato Sabelli - per rendere efficace il nullaosta. In questo caso, a leggere il ricorso dell’avvocatura generale dello stato, non solo sarebbe mancata la richiesta del parere, ma non risulterebbe traccia di alcuna documentazione tecnica sulla parte di progetto oggi contestata. Come dire: il sovrintendente Martino sarebbe rimasto all’oscuro di quanto Coimpresa intendeva e intende fare su Tuvixeddu, malgrado fosse proprio il suo ufficio quello demandato a esercitare il potere di controllo e di verifica. Sabelli peraltro, nel suo ricorso di ventotto pagine in cui si fa riferimento a «numerosi profili di illegittimità», punta il dito su altri aspetti della controversia e mette ancora una volta l’accento su un problema ignorato nei pronunciamenti giudiziari precedenti, quello che rappresenta il cavallo di battaglia delle associazioni ecologiste impegnate da anni nella difesa del colle punico: l’entrata in vigore del codice dei beni culturali e del paesaggio ha cambiato radicalmente la valutazione sull’impatto degli interventi edificatori in aree sensibili. Se le norme precedenti tendevano a tutelare il luogo, quelle in vigore difendono il paesaggio nella sua interezza e complessità naturale. Ora però si tratta di capire quali punti abbiano convinto i giudici di Roma a fermare i nullaosta per Tuvixeddu: forse gli errori commessi - secondo l’avvocato Sabelli - dal Tar Sardegna nella sentenza di aprile. Forse l’assenza di quel passaggio di documenti che ai comuni mortali può sembrare una formalità ma che in un giudizio amministrativo diventa decisivo.
TRIESTE - A cinquanta metri, depositi di materiali infiammabili e il sito di una centrale turbogas ad alto potenziale approvata da Roma. A cento metri il terminal di un oleodotto internazionale, con petroliere su tre pontili. Poco in là, un mega-inceneritore rifiuti (150 metri), gli altoforni di una ferriera (500 metri), depositi di formaldeide (700). Tutti potenziali inneschi a catena. Intorno, la città. Una superstrada a 120 metri, le prime case alla stessa distanza, i primi quartieri popolari a 600 metri e lo stadio a mille. Possibile che vada a incastrarsi proprio qui il rigassificatore della spagnola Gas Natural, che ha appena avuto il via libera del governo? Sì, è questo il luogo. Una baia grigia e inquinata, piena di industrie. Attorno, solo nebbia, ansia e silenzio. Ansia per l´ambiente e per il rischio di incidenti a catena. Silenzio delle istituzioni che non spiegano ed esortano a una generica fiducia. Nebbia su tutto: sui progetti, sul senso dell´operazione, sul futuro di Trieste. Nebbia sul mare più vulnerabile dell´Adriatico e sul polo energetico che nel 1972 fu colpito per primo in Europa dal terrorismo internazionale.
Tranquilli, dicono alla Gas Natural, «tutti i possibili scenari sono stati contemplati nei diversi studi di rischio». Sanno della presenza degli obiettivi sensibili attorno al loro impianto? «Ovviamente gli studi sui rischi e sul possibile effetto domino tengono conto di queste installazioni e della popolazione attorno. Studi condotti su alti standard dicono che l´impianto è sicuro. Dobbiamo operare in sicurezza per 30 anni e nessun errore sarebbe tollerabile tra noi». Uno si fida, e va a cercare conferma negli studi. Ma nell´allegato sull´effetto domino si scopre che le cartografie sono monche. Niente depositi costieri, né inceneritore e serbatoi di formaldeide. La commissione ministeriale, farcita di avvocati non specialisti di infortunistica e ambiente, ha davvero letto le carte prima di approvare il progetto? Il Governo non parla che di sicurezza, ma in materia di energia la griglia diventa un colabrodo.
Vedere per credere. Gli studi di impatto spesso riportano solo i cognomi degli estensori e quasi mai sono firmati; talvolta semplici powerpoint, relazioni semi-anonime allegate copia-incolla. C´è persino una fondamentale traduzione in italiano nettamente difforme dall´originale spagnolo, anonima e con logo alterato. Un geometra inorridirebbe, ma i ministri non hanno visto nulla. Nemmeno il sottosegretario all´ambiente Roberto Menia, che è pure triestino. «Se questa roba me l´avesse data uno studente come tesi di laurea, gli avrei detto di ripassare dopo sei mesi», ha detto ieri il professor Marino Valle, specialista europeo di energia e sicurezza. Un esempio? In un corposo documento firmato - questo sì - da José Maria Medina Villaverde, l´acqua fredda scaricata nella baia sale miracolosamente in superficie anziché stagnare sul fondo e l´effetto accumulo delle centinaia di milioni di metri cubi di mare sputati a bassa temperatura dall´impianto è ignorato. Quintali di documenti su tutto lo scibile umano (dalla meteorologia all´impiantistica) attribuiti sempre agli stessi cognomi, spesso illustri sconosciuti. Profili di temperature relativi a zone ben diverse dalla baia o prelevati da Internet; sottostima della bora (36 km orari a fronte di 100) nel calcolo della rotta d´accesso delle navi, con misurazioni prese non a Trieste ma al largo di Caorle.
È così che si valutano i progetti energetici, si studiano i piani d´intervento della Protezione civile e si applica la "legge Seveso" sui disastri a catena? Arriveranno altri dodici impianti così in Italia. Taranto è nella stessa posizione di Trieste, con un rigassificatore incollato alla città in attesa di via libera. E con gli stessi dubbi sulle procedure. «Ho la gente nel panico» lamenta Fulvia Premolin, sindaco di Dolina, comune limitrofo all´impianto. E Nerio Nesladek, sindaco di Muggia: «Nessuno si è fatto vivo per spiegare». Il fatto è che qui pochi hanno dimenticato quelle bombe piazzate 37 anni fa da Settembre Nero sotto i depositi di petrolio della Siot e quel rogo che ci mise giorni a spegnersi e fu visto a centinaia di chilometri.
Ignorata dalla politica, ieri la comunità scientifica ha cercato di rompere il muro di silenzio. Pensate, è stato detto, a un mare che gela in un istante e a una nube di gas altamente infiammabile che lo ricopre e fa tabula rasa: basta un innesco minimo, e l´onda di calore si estende alla città e agli impianti vicini. Chi è contrario all´operazione chiede che la cattedrale energetica venga realizzata altrove, possibilmente off shore. Ma la paura è soprattutto ambientale. L´impianto succhia 800 mila metri cubi d´acqua al giorno: tutta quella della baia tra Muggia e Trieste passerebbe tre volte l´anno nella sua pancia. Il mare, già rimescolato con i fanghi inquinanti per i pompaggi, verrebbe sterilizzato con 70 tonnellate di cloro attivo l´anno e si raffredderebbe di alcuni gradi. Per uno degli spazi più chiusi dell´Adriatico il rischio è il collasso.
Altra sorpresa: il progetto non è mai stato approvato dalla Regione né discusso in Provincia. «Rispetto a dieci anni fa, è scomparsa la figura di un garante indipendente e autorevole», lamenta Giacomo Costa, luminare di chimica all´università. «La collettività è stata lasciata sola di fronte a un balletto di cifre e a una cosa troppo complessa da capire» conferma Adriano Bevilacqua, del sindacato regionale Vigili del fuoco. Che qualcosa non funzioni lo dimostrano le due indagini avviate dalla magistratura penale, irregolarità accertate dalla Finanza, e 5 ricorsi al Tar di cui uno (primo caso in Italia) di un comune straniero, Capodistria, confinante con Trieste. Il caso ormai è internazionale: la Slovenia teme inquinamenti delle acque e interferenze con i traffici portuali, e ha espresso forti perplessità ai ministri Frattini e Prestigiacomo in visita giorni fa a Lubiana.
La domanda ricorrente è: cosa accade quando il metano liquido a meno 162 gradi e la pressione di 85 Bar finisce in mare? «Vaporizza all´istante - risponde Gas Natural - Il vantaggio della miscela a base di metano è che è più leggera dell´aria. Perciò tutto sale in alto senza impatti sull´ambiente marino». Ma gli scienziati dicono il contrario. Ieri esperti sloveni hanno presentato un filmato in cui si vede lo sprigionarsi di una nube fitta che ristagna a lungo, poi si espande di 600 volte. Lo scenario è da fantascienza. È una nube pesante che entra anche nei tombini e, se prende fuoco, è capace di generare un irraggiamento da 5 kilowatt per metro quadro con effetti a catena su depositi di carburante, fabbriche, abitazioni. Ma le ansie riguardano anche la navigazione. Il nuovo traffico navale pesante come convivrà con la pesca, i traghetti, le crociere, il diporto e i commerci? L´ammiraglio della Capitaneria dice che 120 gasiere l´anno non sono un problema. Ma il collega di Chioggia ha istituito attorno al "suo" rigassificatore off shore due aree di interdizione concentriche, la maggiore di due chilometri e mezzo di raggio. Precauzione che, a Trieste, significherebbe la semiparalisi del movimento navi.
Intanto si va avanti al buio, con una politica energetica sibillina, procedimenti separati e una cabina di regia in atteggiamento subalterno. Mentre Gas Natural accelera, un´altra corporation, la Endesa (ora E.On), è in corsa per la costruzione di un secondo rigassificatore in mezzo al golfo. Nel contempo la Snam progetta una conduttura di metano da Trieste a Grado, la Lucchini-Severstahl parte con un turboimpianto i cui effetti sull´atmosfera non sono stati spiegati, e si parla anche dell´arrivo di gas russo a Monfalcone dopo gli accordi Putin-Berlusconi. Quali piani di sicurezza si possono fare in un caos simile? Sembra il Terzo Mondo. La foce del Niger. E invece è Italia.
Postilla
Non si capisce perché queste malvagità debbano essere consentite alla foce del Niger. Lì non ci sono uomini?
Una Finanziaria lunare. Ci sono articoli, commi, e subemendamenti, ma manca l’Italia. In particolare, manca l’Italia in crisi. Il Paese fatto di operai che perdono il lavoro, impiegati che aspettano gli aumenti contrattuali, studiosi che puntano alla ricerca, famiglie con bimbi piccoli da accudire, scolari iscritti alla scuola dell’obbligo, poliziotti impegnati per la sicurezza, magistrati e insegnanti. Manca tutto questo nel testo arrivato alla Camera: per ora ci sono solo i tagli «lineari» (metodo pericolosissimo, perché non distingue tra la qualità della spesa) decisi un anno fa e solo in parte recuperati con accordi successivi, per esempio sulla sanità e sulla scuola. Sulla carta il deficit migliora per 7,5 miliardi: nella realtà non è affatto detto che il rigore sia rispettato.Mai costi sociali di quel taglio ci sono tutti. Dopo la riunione della consulta economica del Pdl di ieri, nel centrodestra si è arrivati a un primo accordo (oggi seguirà un nuovo vertice con la Lega), da cui il relatore della Finanziaria è uscito con una lista di misure da finanziare: welfare, sviluppo e enti locali.
Ancora slogan: nessuna cifra di dettaglio. Solo la «dotazione» di 4 miliardi, il ricavato dello scudo fiscale. Un’entrata una tantum, per interventi una tantum. Nessun disegno strutturale, nessuna politica economica: fuori dal tavolo gli sgravi fiscali (che sia Irpef o cedolare sugli affitti). Restano risposte spot, mentre l’economia frana: gli italiani affrontano da soli la crisi più drammatica di tutti i tempi.Nona caso dall’opposizione Pier Luigi Bersani invoca una reazione «corale» alla crisi.
FAMIGLIE E LAVORATORI
Anche «Famiglia Cristiana» ha lanciato il suo j’accuse: neanche un euro per le famiglie. Non si accenna nemmeno al bonus famiglia (900 milioni) per le famiglie disagiate, mentre la social card è utilizzata dallametà della platea prevista in origine. Non ci sono i 400 milioni per la non autosufficienza, che il pd ha chiesto ieri di ripristinare. mancano 8 milioni per fronteggiare l’influenza A, non ci sono aiuti per i neonati. In primo piano ildrammadei precari, che restano in gran parte fuori dal welfare. nel loro caso chi perde il lavoro va a casa senza nessun aiuto. Eppure Silvio Berlusconi aveva detto che il governo non avrebbe lasciato a casa nessuno. Il ministero del lavoro starebbe lavorando a una mini-copertura,ma ancora non si conoscono i dettagli. E intanto la crisi corre. Aumenterà di qualche punto il sussidio della disoccupazione, ma i «paletti» sono davvero troppo bassi per fermare l’emorragia di lavoro. Nel «pacchetto» di Maurizio Sacconi compare anche una sorta di sanatoria contributiva (ancorauncondono), che aiuterebbe a coprire le misure messe in campo. Probabile poi la proroga degli sgravi sui premi aziendali, sempre che le aziende continuino ad erogarli. Resteranno senza rinnovi contrattuali i tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici.
SOLIDARIETÀ, RICERCA, FUTURO
Manca ancora il 5 per mille (che pure Giulio Tremonti si vanta di aver inventato),mancano tagliati gli aiuti all’economia «verde»:non si vedono gli sgravi sulle ristrutturazioni per il risparmio energetico. Ancora pochi fondi all’Università alla scuola (da finanziare persino i libri di testo), le missioni all’estero. Insomma, è una manovra senza futuro. Tremonti aspetta solo che passi la nottata. Ma così nella Penisola resterà notte fonda. v
Dunque Berlusconi ha fatto sapere che è intenzionato a «dire tutto» in Tv, magari a reti unificate, per dimostrare che «è in corso una persecuzione giudiziaria». Si potrebbe osservare che da parecchi anni avrebbe dovuto «dire tutto», e dirlo davanti ai giudici, come sono tenuti a fare tutti i cittadini, innocenti o colpevoli quando sono coinvolti in affari di giustizia. Se volesse, ma purtroppo non nutriamo fiducia, entrare davvero nell´ampio contenzioso che lo contrappone non tanto alla magistratura ma alla Legge, farebbe bene a ripassare l´esaustivo dossier compilato in proposito da Giuseppe D´Avanzo (Repubblica del 18, 20 e 23 us). Il nostro cronista ha squadernato di fronte ai lettori, come reperti di anatomia patologica, il numero dei processi in cui è stato implicato il presidente del Consiglio: 16 e non 106, come l´interessato abitualmente affabula, il loro svolgimento preciso e la loro conclusione, laddove vi è stata. Alla fine ha suggellato l´inchiesta con una "moralità", tratta da Shakespeare, allorquando in "Misura per misura" il potente Lord vicario, rivolto alla donna che lo accusa, esclama, sicuro di sé: «La mia menzogna avrà più peso della tua verità!». Citazione che mi ha convinto solo in parte. Non vi è dubbio, infatti, che il potere abbia contato nei secoli quasi sempre più della verità, tanto che i rari casi di trionfo della giustizia sono stati portati ad esempio per i posteri, come quando Renzo e Lucia riuscirono infine a sposarsi. E pur tuttavia, nella annosa vicenda giudiziaria che inquina l´Italia, c´è qualcosa d´altro che si sovrappone alla eterna prevaricazione del forte sul debole.
La vergogna italiana è più specifica e attuale. Appartiene alla storia recente e senza di essa non si spiega. Si può definire come un generalizzato stravolgimento del senso delle cose, con un agglutinarsi degli opposti, non più distinguibili: il bene e il male, il delitto e l´innocenza, la volgarità e lo stile, e soprattutto, ciò che nella coscienza comune, non solo nel codice, fino a tempi recenti, era vietato e ciò che non lo era.
Il riscontro fattuale di questo fenomeno abbastanza unico, almeno nelle democrazie liberali, emerge nella cosiddetta persecuzione giudiziaria di Berlusconi. Quel che più colpisce è che nei dibattiti televisivi, nelle proposte di buona volontà di chi vorrebbe liberarsi del ricorrente impiccio, togliendolo in qualche modo dall´agenda, in quanti, avendo smarrito ogni logica ispirata alle costituzioni occidentali, blaterano di intangibilità dell´eletto di fronte alla chiamata in giudizio per reati di diritto penale, verificatisi nell´attività privata e non politica degli inquisiti, ebbene in tutta questa casistica ciò che ricorre non è la proclamazione dell´innocenza del reo, ma la denuncia della prevaricazione dei giudici.
Così, non solo per i sodali di stretta osservanza del Cavaliere, ma per i tanti che, pro bono pacis, cercano scappatoie parlamentari ed anche per milioni di elettori che hanno assimilato all´agire pubblico, l´ideologia del tifoso, per cui i propri campioni hanno sempre ragione e vanno sostenuti anche quando segnano un gol con le mani o rubano la partita, avendo corrotto l´arbitro, ebbene per tutti costoro che Berlusconi sia colpevole o innocente sembra non contare più nulla. Del resto Berlusconi stesso non dice mai: «Io sono innocente e lo dimostrerò davanti al giudice!». Il problema centrale non se lo pone neppure. Semplicemente esige di essere sottratto da ogni e qualsivoglia giudizio.
Ha portato in Parlamento i suoi legali perché gli cucinino provvedimenti ad hoc e, quando si è reso conto che neanche questo basta, fa escogitare altre sanatorie. Sarebbe stato più semplice votare all´inizio della Legislatura una legge di poche righe: «Tutti i reati di qualunque tipo, anche ricadenti sotto il profilo del diritto penale, eventualmente commessi prima, durante e (già che ci siamo, ndr) dopo l´esercizio del suo mandato politico dal presidente del Consiglio non sono soggetti ad azione giurisdizionale né possono essere perseguiti in alcun modo».
Cosa è giusto e cosa è ingiusto? Chi è innocente e chi colpevole? Se non siamo più capaci di rispondere a questi elementari interrogativi, tutto il resto è vaniloquio. Certo, tutto questo è cominciato prima di Berlusconi, prima ancora che scoppiasse Tangentopoli.
Quando la democrazia italiana era bloccata dalla guerra fredda e pagava il costo di una indispensabile e salvifico compromesso, perché il Paese non scivolasse verso lo scontro interno sanguinoso e neppure finisse in un regime autoritario di destra, i costi crescenti del funzionamento della macchina politica furono concordemente ripartiti. Gli uni percepivano una specie di Iva illegale su tutti gli affari, in specie quelli pubblici, tradotta in tangenti suddivise in quote di partito; gli altri si alimentavano attraverso i finanziamenti provenienti dall´Urss e con un aggio sull´attività delle cooperative. Gli uomini attraverso cui, a diversi livelli, transitavano i soldi, erano sovente disinteressati e non trattenevano un centesimo per se stessi. Altri non lo erano e lucravano anche personalmente. Cominciò lì a confondersi il concetto di onestà. Al centro e a sinistra il finanziamento illegale non si connotava come immorale. Nell´opinione pubblica prevalse l´idea che erano «tutti ladri», ma anche che il furto era una necessità insita nella politica. Quando crollò il Muro di Berlino andarono ad esaurimento i finanziamenti a sinistra mentre maturava nella stragrande maggioranza di chi sborsava quell´Iva aggiuntiva, dell´inutilità del pedaggio, una volta dissolta la minaccia comunista. I partiti crollarono su se stessi e Tangentopoli si affermò come una grande operazione di pulizia.
Riempiendo un vuoto i magistrati a volte andarono al di là del limite che avrebbero dovuto auto imporsi. Tutti, però, plaudirono, soprattutto a destra ma anche fra gli ex comunisti che si illudevano di averla scampata. Le macerie del cattolicesimo democratico lombardo veneto fecero da concime alla Lega. In tutto il resto d´Italia si affermò in breve tempo l´unico che avesse ancora i soldi, Silvio Berlusconi. Armato dell´arma assoluta delle Tv è assai più forte, convincente, pervasivo degli agit-prop comunisti di un tempo e delle «madonne pellegrine» che li fronteggiavano. Tantissimi italiani si sono convertiti al suo verbo. Così avviene che non ci sia ribellione etica nei confronti di un capo del governo gravato da un´accusa gravissima, già ampiamente provata, quella di corruzione giudiziaria. Sancita non dai cosiddetti «procuratori rossi» ma dalla Corte di Cassazione che nel luglio del 2007 ha confermato la condanna di Previti (il Cav. voleva nominarlo Guardasigilli!) e degli altri imputati nel processo Mondadori per il seguente reato: «A norma del 110, 319 ter e 321 del codice penale perché Berlusconi Silvio, Previti Cesare, Acampora Giovanni, Pacifico Attilio in concorso tra loro... promettevano e versavano somme di denaro a Metta Vittorio, magistrato della Corte d´Appello di Roma, affinché questi violasse i propri doveri di imparzialità... allo scopo di favorire la famiglia Mondadori/Formenton – e in conseguenza Silvio Berlusconi – nel giudizio che la vedeva opposta dinanzi alla Corte di Appello civile di Roma alla Cir dell´ing. Carlo De Benedetti». Nella stessa sentenza si confermava di non doversi procedere verso Silvio Berlusconi per intervenuta prescrizione, in quanto colpevole al momento dei fatti di corruzione semplice, non aggravata dalla corruzione in atti giudiziari, entrata in vigore poco dopo, nel 1992. Quale uomo politico del mondo libero, a cominciare dal Presidente degli Stati Uniti, gravato da una simile e comprovata accusa, sarebbe tollerato alla testa del governo, al di là di quanti voti abbia ottenuto?
I parchi fra luci e ombre. Le luci: intorno al sistema delle aree protette italiane girano circa 2 miliardi di fatturato e 86 mila occupati. Quindi i parchi servono a tutelare paesaggi pregiati, generano cultura e reddito. Le ombre: i parchi sono pochi, se ne istituiscono sempre meno, i finanziamenti calano, imperversano le aggressioni edilizie. Questi dati emergono da un libro bianco di Federculture e Federparchi, il primo rapporto sul grande patrimonio culturale che i parchi custodiscono - paesaggi, centri storici, beni artistici, valori comunitari, tradizioni e anche lingue minoritarie e pratiche artigianali -, ma che talvolta viene vissuto come un inciampo allo sviluppo ed è minacciato da insediamenti residenziali e turistici, strade, cave... «I parchi sono un grande sistema per conservare la biodiversità», dice Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi, «ma anche uno strumento di coesione sociale e di promozione economica».
Il rapporto viene presentato domani a Roma (presso la Società Geografica Italiana, a Villa Celimontana). Da esso viene fuori anche l´immagine di una gestione tutt´altro che florida. «Il 70 per cento dei parchi è amministrato direttamente da Province o Regioni, mentre sarebbe necessario affidarli a enti specifici», dice Roberto Grossi, presidente di Federculture. Solo in 2 dei 24 parchi nazionali sono vigenti dei "piani regolatori", nonostante la legge del ´91, che disciplina tutta la materia, imponga che questi siano varati diciotto mesi dopo la nascita di un parco. «Quella legge ha esaurito la sua spinta», spiega Massimo Zucconi, responsabile parchi di Federculture. «Negli anni successivi al suo varo si passò da 600 mila a un milione 600 mila ettari di aree protette e nacquero 18 dei 24 parchi nazionali. Ma dal 2003 ci si è fermati, è stato istituito solo un altro parco e sono diminuiti i finanziamenti».
I parchi in Italia sono 1.144 (nazionali, regionali e d´altro genere). In essi abitano 4 milioni e mezzo di persone e sono presenti il 70 per cento dei Comuni con meno di 5 mila abitanti, segno che i parchi non sono solo natura, ma anche paesaggi urbani. Però la superficie protetta è poca, 3 milioni e mezzo di ettari, solo l´11,69 per cento del territorio nazionale: siamo indietro rispetto alla media dell´Unione europea (18,4), molto indietro rispetto alla Germania (59,4), ma anche all´Estonia (36,3), alla Polonia (29,2) e alla Repubblica ceca (25,9).
I finanziamenti pubblici sono scarsi: 241 milioni nel 2008 (lo 0,015 per cento del Pil). E nel 2009 c´è un taglio, per i parchi nazionali, del 10 per cento. Alcuni parchi incamerano risorse dalle proprie attività, ma in media solo per il 12 per cento. Con una vistosa eccezione, quella dei Parchi della Val di Cornia, in Toscana, un esempio virtuoso: qui nel 2007 si è raggiunto il pareggio, con biglietti e altre attività. Questi sei parchi (fra gli altri, quello archeologico di Populonia e quello archeominerario di San Silvestro) sono gestiti da una società per il 90 per cento controllata dai Comuni, per il 10 da privati. Molti albergatori, ristoratori, gestori di stabilimenti sono diventati azionisti e sono sorte nuove attività (circa una trentina, con un fatturato di 4 milioni di euro). Presidente della Val di Cornia è stato Zucconi, che però nel 2007 ha dovuto lasciare perché aveva alle spalle già tre mandati. Ma anche perché contrario a una serie di progetti dei Comuni che minacciavano l´integrità dell´area protetta.
E qui spunta il rischio più grande, accresciuto dai Piani casa. «I piani paesaggistici delle Regioni sono pochi», insiste Zucconi, «e quasi mai pongono dei limiti ai Comuni, incapaci di fronteggiare la spinta poderosa della speculazione immobiliare». E nei parchi, dove i paesaggi sono più pregiati, i valori fondiari sono un boccone sul quale si avventano in molti.
«Io non do consigli a nessuno. Ma il Quirinale ha il potere dell’ultima firma. Se un provvedimento non va si rinvia alle Camere. Io non uso aderire ad appelli, ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. È una speranza che ottenga tanti consensi»
E mai come in questa occasione l’ex capo dello Stato, da vero «padre nobile» della Repubblica, lancia il suo atto d’accusa contro chi è responsabile di questo «imbarbarimento» e di questa «aggressione»: Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a «colpi di piccone» i principi sui quali si regge la Costituzione, cioè «la nostra Bibbia civile».
«Vede - ragiona Ciampi - la mia amarezza deriva dalla constatazione ormai quotidiana di quanto sta accadendo sulla giustizia, ma non solo sulla giustizia. È in corso un vero e proprio degrado dei valori collettivi, si percepisce un senso di continua manipolazione delle regole, una perdita inesorabile di quelli che sono i punti cardinali del nostro vivere civile». Vale per tutto: non solo i rapporti tra politica e magistratura. Le relazioni tra potere esecutivo e Parlamento, tra governo e presidenza della Repubblica, tra premier e organi di garanzia, a partire dalla Corte costituzionale. L’intero sistema istituzionale, secondo Ciampi, è esposto ad un’opera di progressiva «destrutturazione». «Qui non è più una questione di battaglia politica, che può essere anche aspra, come è naturale in ogni democrazia. Qui si destabilizzano i riferimenti più solidi dell’edificio democratico, cioè le istituzioni, e si umiliano i valori che le istituzioni rappresentano. Questa è la mia amara riflessione...».
Ciampi, forse per la prima volta, parla senza mezzi termini del Cavaliere, e di ciò che ha rappresentato e rappresenta in questo «paesaggio in decomposizione». «Mi ricordo un bel libro di Marc Lazar, uscito un paio d’anni fa, nel quale io e Berlusconi venivamo raccontati come gli estremi di un pendolo: da una parte Ciampi, l’uomo che difende le istituzioni, e dall’altra parte Berlusconi, l’uomo che delegittima le istituzioni. Mai come oggi mi sento di dire che questa immagine riassume alla perfezione quello che penso. Io ho vissuto tutta la mia vita nelle istituzioni e per le istituzioni, che sono il cuore della democrazia. E non dimentico la lezioni di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana del 1797: alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini, le istituzioni oltrepassano i limiti delle generazioni. Ma poi, a rendere vitali le istituzioni, occorrono gli uomini, le loro passioni civili, i loro ideali di democrazia. Ed io, oggi, è proprio questo che vedo mancare in chi ci governa...».
L’ultimo capitolo di questa nefasta «riscrittura» della nostra Costituzione formale e materiale riguarda ovviamente la giustizia, il Lodo Alfano e ora anche il disegno di legge sul processo breve con il quale il premier, per azzerare i due processi che lo riguardano, fa terra bruciata dell’intera amministrazione giudiziaria corrente. Anche su questo la condanna di Ciampi è senza appello: «Le riforme si fanno per i cittadini, non per i singoli. L’ho sempre pensato, ed oggi ne sono più che mai convinto: basta con le leggi ad personam, che non risolvono i problemi della gente e non aiutano il Paese a migliorare». Fa di più, l’ex presidente della Repubblica. E si spinge a riflettere su ciò che potrà accadere, se e quando questa nuova legge-vergogna sarà approvata: «Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica». Ciampi non nomina Napolitano, ma fa un riferimento implicito a Francesco Saverio Borrelli: «Credo che per chi ha a cuore le istituzioni, oggi, l’unica regola da rispettare sia quella del "quantum potes": fai ciò che puoi. Detto altrimenti: resisti».
Lui stesso, nel suo settennato sul Colle, ha resistito più volte alle spallate del Cavaliere. Dalla legge Gasparri per le tv alla riforma dell’ordinamento giudiziario di Castelli: «È vero, ma ho fatto solo il mio dovere. C’è solo una cosa, della quale mi rammarico ancora oggi: il mio unico messaggio alle Camere, quello sul pluralismo del sistema radiotelevisivo e dell’informazione. Allora era un tema cruciale, per la qualità della nostra democrazia. Il Parlamento non lo raccolse, e da allora non si è fatto niente. Oggi, e basta guardare la televisione per rendersene conto, quel tema è ancora più grave. Una vera e propria emergenza».
Ma in tanto buio, secondo Ciampi c’è anche qualche spiraglio di luce. Per esempio l’appello lanciato su Repubblica da Roberto Saviano, che chiede al premier di ritirare la legge sull’abbreviazione dei processi, la «norma del privilegio». «Io - commenta il presidente emerito della Repubblica - per il ruolo che ho ricoperto non uso firmare appelli. Ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. Risponde a uno dei principi che mi hanno guidato per tutta la vita. E il fatto che abbia ottenuto così tante adesioni rappresenta una speranza, soprattutto per i giovani. È il vecchio motto dei fratelli Rosselli: non mollare. Loro pagarono con la vita la fedeltà a questo principio. Qui ed ora, in Italia, non c’è in gioco la vita delle persone. Ma ci sono i valori per i quali abbiamo combattuto e nei quali abbiamo creduto. In ballo c’è la buona democrazia: credetemi, è abbastanza per non mollare».
Lungaggini burocratiche e ipoteche dal valore esorbitante. Ecco perché, grazie a un emendamento alla Finanziaria, i beni confiscati alla Mafia ora rischiano di tornare nella disponibilità di Cosa Nostra.
C’è chi dice si estenda per 150 ettari e chi ne aggiunge altri 90 del terreno confinante. Si trova vicino a Polizzi Generosa, Palermo, Sicilia. Michele Greco, il «Papa» di Cosa nostra, lo acquistò dalla società Sat: un colpaccio perché quel feudo era il simbolo, l’ennesimo, dello strapotere del boss dei boss. C’era un’ipoteca, importante, e la questione andava risolta. Subito. La pratica fu seguita direttamente dal clan dei Croceverde che chiamarono i Salvo e detto fatto ne ottennero in quindici giorni la sospensione, con decreto del ministero delle Finanze. Poi, quando il «Papa» fu arrestato, il potere temporale sui suoi beni andò a farsi benedire e Verbuncaudo fu confiscato. E assegnato al Comune di Polizzi nel 2007, che lo accettò a patto che venisse destinato ad un’associazione impegnata nel sociale. Si individuò la Cooperativa «Placido Rizzotto Libera Terra», ma ecco che rispunta l’ipoteca. La cooperativa non può pagarla, il Comune neanche. Verbuncaudo rischia di essere venduto, malgrado sia stato assegnato perché mancano i soldi per l’ipoteca. C’è già chi è pronto ad acquistarlo, gente potente. Si tratta dei familiari di Greco. Sono cinque anni che fanno pressione con i loro avvocati.
Ma se alla Camera non viene cassato l’emendamento alla Finanziaria votato al Senato - presentato da Maurizio Saia, (ex An) quello che Gianfranco Fini definì «un imbecille», quando accusò di lesbismo Rosy Bindi ministro della Famiglia - sono 3213 i beni confiscati alla malavita e non ancora assegnati che rischiano di finire sul mercato. Le cosche sono pronte. Perché rimettere le mani su quella «robba» attraverso prestanome è facile, e perché farlo equivale a confermare che i tentacoli si spezzano ma sono pronti a ricrescere. E dove non arrivano le casse dello Stato e degli enti locali arrivano quelle di Cosa nostra.
RICORDATE ENRICO NICOLETTI?
Il «cassiere» dellaBanda della Magliana, Enrico Nicoletti, aMonte San Giovanni, nel Frusinate, possedeva un fabbricato a cui tiene ancora parecchio. È la casa natale dei genitori, legami affettivi che non si spezzano mai. Anche quello potrebbe tornare sul mercato. Idem per l’azienda bufalina con terreno, 8 ettari e oltre 2000 capi di bestiame fino al 2005, a Selvalunga, nel Grazzanise, dove Walter e Francesco Schiavone (Sandokan, boss dei Casalesi)hanno fatto il bello e il cattivo tempo. Don Luigi Ciotti ha l’elenco pronto di tutti gli immobili. «a rischio»: li venderà simbolicamente martedì mattina a Roma alle ore 11 presso la Bottega della legalità «Pio La Torre» in via dei Prefetti 23. Batterà lui stesso l’asta, perché a volte devi ricorrere a questi gesti simbolici se vuoi scuotere coscienze che basta troppo poco per riaddormentarle. Saia con il suo emendamento al Senato ha fatto sì che se passano 90 giorni dalla confisca senza assegnazione tutto torna sul mercato. «Con l’approvazione di questo emendamento è tradito l’impegno assunto con il milione di cittadini che nel ’96 firmarono la proposta di legge sull’uso sociale dei beni confiscati alla mafia - dice Don Ciotti -. Se la Camera confermasse la decisione di vendere all’asta gli immobili sarebbe enorme il rischio di restituirli alle stesse organizzazioni criminali». Virginio Rognoni, cofirmatario della legge Rognoni-La Torre è incredulo: «Venderli è una sconfitta per lo Stato, l’emendamento è un atto molto grave che non ha giustificazioni ».
Nella sua relazione presentata al governo nel novembre 2008 il commissario straordinario, Antonio Maruccia, magistrato di Cassazione, diceva, tra l’altro: «Le proposte conclusive del Cnel si sono concentrate, avuto riguardo alla destinazione dei beni, nella indicazione della necessità di vietare la vendita dei beni, per evitare che possano essere nuovamente acquistati, tramite prestanomi, dagli stessi soggetti a cui sono stati sottratti». Inoltre, il Cnel, nelle «osservazioni e proposte » del 29 marzo 2007 ribadiva la necessità di «affidare a una nuova struttura, specializzata ed avente solo tale funzione, il compito di gestire il transito dei beni dalla confisca alla collettività, dotando la stessa di poteri, finanziamenti e personale tecnico e specialistico necessario ». Stesse conclusioni nella Relazione approvata all’unanimità dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie nel novembre 2007, relatore Giuseppe Lumia, che si occupò proprio dei beni confiscati. Si legge: «Il punto critico attiene proprio alla particolare origine dei beni, che sono divenuti demaniali per effetto dell’azione di prevenzione; tale origine determina la continua pressione della criminalità destinataria dei provvedimenti, tesa al recupero dei beni o, quantomeno, a renderli inutilizzabili, in un’ottica che suona come aperta sfida alle istituzioni incaricate di affermare la sovranità delle ragioni democratiche ». Per questo, secondo la Commissione, è necessario non far rientrare la gestione e la destinazione di quei beni alle competenze generali dell’Agenzia del Demanio. Sarebbe molto più indicata un’ Agenzia centrale, ribadisce il documento, anche sulla base di tutte le audizioni effettuate durante l’indagine. Ma l’Agenzia centrale non è mai nata. L’emendamento, invece, sta lì, in attesa di essere definitivamente licenziato alla Camera.
Le 5 cooperative modello
sui terreni della malavita
È grazie alla legge 109 del ’96, quella di iniziativa popolare che prevede l’utilizzo dei beni confiscati per fini sociali, che sono nate realtà come quella delle5 cooperative Libere Terre che oggi operano in Puglia, Sicilia e Calabria. Ci lavorano il 30% di soggetti svantaggiati, i nomi delle cooperative, in alcuni casi, ricordano le vittime della malavita. Come la «Placido Rizzotto», il sindacalista ucciso dalla mafia nel 1948, o la «Pio La Torre», massacrato nell’ 82. Le 5 cooperative sociali hanno un capitale sociale di 279.301 euro, un patrimonio netto di quasi 1milione 400 mila euro e un fatturato che supera i tre e mezzo. Ci lavorano 103 persone. Racconta Alessandro Leo, di Terre di Puglia: «Diamo lavoro a 30 persone, in maniera stabile, oltre agli stagionali durante il periodo della raccolta. L’impatto sul territorio è incisivo, facciamo regolari contratti. Sembra normale detta così, ma qui in Puglia per le persone non è normale lavorare in regola anche se per brevi periodi». La cooperativa è nata nel 2008, grazie a giovani pugliesi che hanno deciso di lavorare per il riutilizzo dei beni confiscati alla Sacra Corona Unita, la «quarta mafia», «che sembra domata ma non dorme», dicono a «Terre di Puglia». Non dorme perché restano gli affari criminali. È tutto qui il significato della restituzione alla società dei beni confiscati alle cosche assume un valore fondamentale: «Ci aiuta ad affermare un’idea di cooperazione sociale che vince nella legalità, nella qualità e nella sostenibilità ». dice Leo. Per questo dicono no all’emendamento Saia. M. Z.
Il tesoro
che fa gola alla malavita
Grazie al lavoro svolto dal Commissario Straordinario reintrodotto dal governo Prodi nel 2007 dopo che Berlusconi lo aveva eliminato nel2003,è stato fatto un enorme lavoro. Si stima che il valore dei beni confiscati e destinati si aggiri intorno ai 725 milioni di euro, 225 dei quali risalgono agli ultimi 18 mesi,contro i 500dei dodici anni precedenti. I beni immobili confiscati sono 8.933: di questi 5407 sono stati destinati allo Stato e agli enti locali per fini sociali, come prevede la legge. 313 sono usciti dalla gestione del Demanio per vari motivi, mentre 3213 sono ancora da destinare. Secondo l’emendamento alla Finanziaria se nonvengono assegnati entro 90 giorni (che possono diventare 180 in caso di operazioni molto complesse), sono destinati alla vendita. Alla vendita provvede il dirigente dell’ufficio territoriale dell’Agenzia del Demanio.
Il “papello”
In due punti Riina chiedeva
«basta sequestri di beni»
In ben due punti il «papello», cioè la lista di richiesteche Totò Riina avrebbe inviato allo Stato per proporreunatreguadopola strage di Capaci, faceva riferimento alla legge Rognoni La Torre e quindi al sequestro dei beni di mafia. Esattamente al punto 3 compare, in modo esplicito, la richiesta di operare una «revisione della legge Rognoni La Torre». Il concetto viene ribadito, in modo specifico e articolato, al punto 10. La frase di Riina è:«misureprevenzione - sequestro non familiari». La formulazione è un po’ oscura ma il concetto, a giudizio degli analisti, è sufficientemente chiaro. Quel «non familiari» che segue la parola «sequestro» sta a significare che le misure della Legge Rognoni La Torre avrebbero dovuto colpire solo i beni strettamente riconducibili al boss ma non quelli dei suoi familiari. Ecco la «riforma» che Cosa Nostra desiderava.
Possono le istituzioni sopravvivere in un ambiente in cui la loro delegittimazione diviene una deliberata strategia politica? Che cosa accade quando il rispetto della Costituzione è costretto a rifugiarsi in luoghi sempre più ristretti? Stiamo percorrendo una anomala e inquietante via italiana all’estinzione dello Stato?
L’Italia sta diventando un perverso laboratorio dove elementi altrove controllabili si combinano in forme tali da infettare l’intero sistema. E il contagio si diffonde dalla politica all’intera società, dove ogni giorno vengono messi in scena il degrado del linguaggio, il disprezzo delle regole, l’esercizio brutale del potere. Di fronte a pretese e interventi particolarmente devastanti, come quelli che stravolgono la legalità in nome dell’interesse di uno solo, si evoca lo "stato d’eccezione", una categoria politica costruita per giustificare l’esercizio autoritario del potere di governo e che, tuttavia, rivela una sua nobiltà intellettuale che non si ritrova nelle miserabili prassi italiane di questi tempi. Che sono ormai così diffuse e radicate da impedire che si parli dello stato d’eccezione come di qualcosa appunto eccezionale. Come si è parlato di "emergenza permanente", per imporre logiche autoritarie e manomettere i diritti, così è ragionevole definire lo stato delle cose italiane come uno "stato d’eccezione permanente".
Sono gli stessi principi costituzionali ad essere regolarmente violati, a cominciare da quello di eguaglianza. Non dimentichiamo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il "lodo Alfano" proprio per il suo contrasto con quel principio. Dobbiamo ricordarlo ancora oggi di fronte alle proposte di approvare una legge costituzionale che riproponga i contenuti di quel testo: anche questo tipo di legge deve rispettare l’eguaglianza. Lo ha sottolineato fin dal 1988 la Corte costituzionale, affermando che i «principi supremi» dell’ordinamento italiano non possono essere «sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali». Tra questi principi spicca proprio quello dell’eguaglianza tra i cittadini.
Ma la diseguaglianza è stata codificata da molte leggi, è penetrata profondamente nella società, sta creando categorie di "sottocittadini". Nella vergogna del "processo breve" vi è la maggior vergogna dell’esclusione dai benefici degli immigrati clandestini. Questa erosione delle basi della convivenza nega l’universalità dei diritti fondamentali, legittima il rifiuto dell’altro e del diverso, e così apre le porte a quei fenomeni di razzismo e omofobia che rischiano di diventare una componente stabile del panorama italiano.
Una volta messi da parte i principi, la distorsione del sistema istituzionale diventa inevitabile e quotidiana, e non è più sufficiente a spiegarla il richiamo del conflitto d’interessi incarnato dal presidente del Consiglio. Si è manifestata una nuova forma di "Stato patrimoniale", dove si mescolano risorse pubbliche e private, l’influenza politica si sposa con la pressione economica, le aziende della galassia berlusconiana diventano snodi politici determinanti. Lo rivelano, tra l’altro, non solo il continuum Mediaset/Rai e gli annunci di normalizzazione di canali televisivi ancora un po’ fuori dal coro, ma anche le manovre che riguardano l’assetto complessivo delle telecomunicazioni, la proprietà dei giornali, il sistema finanziario.
Un potere che si è progressivamente concentrato in poche mani, con una idea proprietaria dello Stato che cancella gli altri soggetti istituzionali e azzera ogni controllo. Conosciamo la deriva che sta travolgendo il Parlamento, espropriato d’ogni funzione, e che ha portato alla clamorosa decisione di una "serrata" di dieci giorni della Camera dei deputati, decisa dal suo Presidente per denunciare l’impossibilità di lavorare. Un fatto davvero senza precedenti, che avrebbe dovuto provocare reazioni forti, che è stato piuttosto ricondotto alle schermaglie tra Fini e Berlusconi. La funzione legislativa è saldamente nelle mani del Governo attraverso i decreti legge e le leggi delega, e grazie al diffondersi delle "ordinanze di protezione civile", sottratte a qualsiasi controllo parlamentare e che contengono sempre più spesso norme di carattere generale, ben al di là delle emergenze che le giustificano. Ma è soprattutto la dimensione costituzionale ad essere evaporata. La Costituzione non appartiene più al Parlamento, tant’è che d’ogni legge in corso di discussione si discute se il presidente della Repubblica la firmerà o no, quali siano i rischi di una dichiarazione d’illegittimità da parte della Corte costituzionale. I custodi della Costituzione sono altrove, e la stessa Carta costituzionale rischia di veder mutato il suo significato se una istituzione centrale, il Parlamento, si comporta come se le fosse estranea.
Molte aree istituzionali vengono così desertificate, prendendo anche a pretesto vere o presunte inefficienze. Si documentano i ridottissimi tempi di lavoro del Parlamento e se ne trae spunto per denunciare i deputati fannulloni, non per indicare misure per rivitalizzare il Parlamento, possibili già oggi. La stessa tecnica è adoperata per attaccare la magistratura e legittimare l’ennesima legge ad personam, quella sul processo breve, giustificata con l’argomento della ingiustificata durata dei processi. Ma è del 1999 la riforma dell’articolo 111 della Costituzione che parla di una loro "ragionevole durata", sono anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo ci condanna per le lungaggini della giustizia, sono decenni che il dissesto dell’amministrazione giudiziaria può essere definito "una catastrofe sociale". Così sensibile al problema, la maggioranza di centrodestra non ha mosso un dito nella fase di governo tra il 2001 e il 2006, assai interventista in materia di giustizia, ma non per approvare misure e attribuire risorse per tagliare i tempi processuali, bensì per andare all’assalto dell’indipendenza della magistratura. E oggi vuole profittare di questa situazione per sottrarre Berlusconi ai processi e assestare un colpo ulteriore all’efficienza e alla credibilità della magistratura.
Un "dialogo" sulle riforme costituzionali, e la stessa politica quotidiana dell’opposizione, non possono ignorare tutto questo. E bisogna ricordare che la Costituzione si conclude con un articolo che oggi esige particolare attenzione. È scritto nell’articolo 139: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol dire, banalmente, che non si può tornare alla monarchia. Significa che il nostro sistema costituzionale presenta una serie di caratteristiche che definiscono la "forma repubblicana" e che non possono essere modificate senza passare ad un regime diverso. È proprio quello che non si stanca di ripetere, con sobrietà e fermezza, il Presidente della Repubblica.
La piazza del NO-B-day
di Norma Rangeri
Per come è nata (dalla comunità di Facebook), per come ha saputo contenere la voglia di alcuni partiti di metterci il cappello, per come sta crescendo, e per i contenuti della piattaforma che ne sta disegnando il volto, quella del 5 dicembre sarà una manifestazione inedita. Politicamente, culturalmente, anagraficamente. A due mesi dalla straordinaria manifestazione del 3 ottobre sulla libertà di stampa, nella stessa piazza si incontreranno i soggetti sociali che in questo momento politico, drammatico e confuso, sentono di non avere una rappresentanza e tentano di costruirla attraverso la rete.
Prendere la parola e comporre un'agenda di sinistra. E' possibile, necessario di fronte a una sinistra radicale frantumata nei mille pezzi, a un Pd incapace di offrire una cornice, ideale e morale, in grado di contrastare e sostituire il campo occupato dal marketing politico della destra berlusconiana.
Il no-B-day nasce e si sviluppa subito dopo la bocciatura del lodo Alfano, contro Berlusconi e lo sfascio della democrazia costituzionale, per ristabilire il principio della legge uguale per tutti. Cresce anche contro la privatizzazione dei beni comuni, la precarizzazione del lavoro intellettuale, la risoluzione della crisi attraverso la creazione di uno sconfinato esercito di riserva, contro il razzismo, contro il monopolio dell'informazione. I lavoratori di Eutelia con studenti, precari, giuristi, immigrati e artisti saliranno sul palco e mostreranno, insieme, legati come i nodi di una rete, forme di autorganizzazione divise e sommerse, escluse dal gioco del potere e della sua rappresentazione pubblica.
L'Italia legge meno, cresce il consumo di televisioni tematiche e aumenta il popolo di internet, lo documenta l'ultimo rapporto del Censis sulla comunicazione. Spiegando che la diminuzione del tempo dedicato alla lettura, nei giovani e nei ceti più acculturati, è occupato dai social-network. Di più: il 54 per cento degli utenti della rete fa parte di gruppi di interesse, ha sottoscritto appelli, ha partecipato a eventi sociali e manifestazioni politiche. Lo studio fotografa un cambiamento, ci piaccia oppure no, delle forme di aggregazione, dei rapporti personali, del modo stesso di sentirsi parte di una comunità. Qualcosa di nuovo e di diverso dal vecchio grillismo («se viene Napolitano gli diamo il posto d'onore», dicono gli organizzatori).
Con la manifestazione del 5 dicembre, le connessioni virtuali possono diventare reali, agire nel dibattito generale, sviluppare una dimensione politica, condizionare i partiti (le forze politiche saranno in piazza, fra la gente, nei gazebo), chiamandoli alla responsabilità di una risposta. Se ne saranno capaci.
In difesa della Costituzione
diDomenico Gallo
La manifestazione in programma per il 5 dicembre, convocata attraverso una straordinaria mobilitazione politica dal basso, è frutto della crescente consapevolezza che siamo precipitati in un tempo politico drammatico in cui è messa in gioco la sopravvivenza della Costituzione, cioè della nostra patria, in quanto la Costituzione è la patria dell'ordinamento politico.
Non possiamo non vedere che questo luogo politico, la Repubblica democratica con il suo patrimonio di beni pubblici repubblicani, è stato invaso da un esercito di occupazione che si sta impegnando con la massima solerzia a smantellare tutti (proprio tutti) i beni pubblici repubblicani. Non si tratta soltanto della seconda parte della Costituzione che viene contestata e delegittimata ogni giorno con gli attacchi ai giudici, alla corte Costituzionale ed al presidente della Repubblica (quando si mette di traverso), ma anche della prima parte, con l'attacco ai beni fondamentali della vita, come l'acqua, ed ai fondamenti della dignità umana e dell'eguaglianza, fino alla riesumazione strisciante delle leggi razziali.
Quando le truppe tedesche hanno invaso l'Italia, tutte le forze vive, tutti i patrioti, si sono opposti ed hanno unito i loro sforzi creando il Comitato di Liberazione Nazionale, nel quale sono confluite forze e culture diverse (dai comunisti ai badogliani), che hanno messo da parte le loro divergenze per perseguire l'obiettivo comune della salvezza della patria.
In questa contingenza storica, di nuovo un pericolo mortale minaccia la patria-Costituzione. Come avvenne con la Resistenza, ora come allora, occorre chiamare a raccolta tutte le energie spirituali, tutte le culture, tutte le forze politiche e tutti gli uomini di buona volontà, che riconoscono nella Costituzione la loro patria, ad agire con fermezza.
Di fronte a questa esigenza, tutte le forze politiche, che riconoscono valore ai beni pubblici repubblicani, devono mettere da parte le differenze (non cancellarle) ed impegnarsi in una fortissima unità d'azione per scacciare l'esercito di occupazione che dilaga nel territorio della patria. Non esistono alternative all'unità.
L'unità è imposta dalla legge elettorale che, attraverso lo strumento del premio di maggioranza impone che un solo esercito possa sfidare le forze di occupazione.
Anche se le radici del malessere della democrazia italiana vengono da lontano, è stato lo sciagurato scioglimento dell'Unione, nel 2008, a determinare questo disastro. Lo scioglimento dell'Unione è stato come lo sbandamento dell'esercito italiano l'8 settembre: ha tolto di mezzo il principale ostacolo all'occupazione della patria da parte dell'esercito invasore.
Se la posta in gioco è la sopravvivenza della democrazia repubblicana, cioè della patria, allora tutte le forze si devono coalizzare, tutte le energie devono essere chiamate a raccolta. Non si può dire, come irresponsabilmente si è fatto nel 2008: questo sì, questo no.
Solo una forte mobilitazione popolare dal basso può ricomporre l'unità delle forze democratiche intorno ai valori supremi della Costituzione per rovesciare la corsa verso l'abisso e riaprire il futuro alla speranza.
Agli estremi confini orientali, dove le colline friulane si preparano a diventare Slovenia, sorge Cividale del Friuli, perla medievale, antica capitale patriarcale e longobarda, cittadina con uno dei più vasti e ben conservati centri storici della Penisola, tanto da essere candidata italiana a ottenere il riconoscimento dell’Unesco di patrimonio dell’umanità. Su tanta bellezza sta per abbattersi la sciagura del nord-est, la furia edificatrice: un bel conglomerato urbano a cui hanno dato il nome di Cividale 3 (saltando, per fortuna, Cividale 2). L’ideona è della banca del posto, la Popolare di Cividale, l’unico istituto di credito locale rimasto solo, ricco e felice dopo la grande stagione delle concentrazioni bancarie.
Il suo presidente, Lorenzo Pelizzo, è da 40 anni padre padrone della banca. Il mondo è cambiato, sono caduti il Muro, la Prima Repubblica, la frontiera con l’Est, ma lui è restato saldamente alla guida del suo istituto, vera macchina del consenso locale, passando dalla vecchia Dc ai nuovi umori berlusconian-leghisti, più longevo di Fidel Castro e in gara con Kim Il-sung. Ora Pelizzo ha deciso di vincerla, la gara, preparando il mausoleo, o la piramide, che lo renderà immortale: Cividale 3, con la nuova sede della banca e tutt’attorno una città, un grande centro commerciale, uffici, abitazioni.
Un’operazione da 80 milioni di euro da realizzare sull’area della Italcementi, vecchia fabbrica chiusa da tempo, struggente monumento di archeologia industriale. Quando la banca padrona comanda, la giunta di centrodestra obbedisce. E così l’ideona di Pelizzo è diventata progetto del sindaco Attilio Vuga e della maggioranza che governa Cividale del Friuli. Pelizzo ha deciso senza consultare nessuno e l’amministrazione comunale ha ratificato. Ha scelto lui, senza alcun concorso, il progettista: non un professionista di fama internazionale, ma l’architetto Francesco Morena, che si è fatto le ossa con qualche centro commerciale in Cina e ora s’appresta a stravolgere la cittadina del Friuli con linee e volumi che s’ispirano – dice – a “Guerre stellari” e a “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, non senza una spruzzata di reminescenze celtico-longobarde (vedere per credere: http://europaconcorsi.com).
Ha scelto, senza gara, anche l’imprenditore che ha realizzato la bonifica dell’area: guarda caso il vicepresidente della banca, Adriano Luci che, con qualche conflitto d’interessi, è anche presidente dell’Associazione industriali di Udine. L’opposizione ha tentato di fermare il progetto. Agli inizi, da solo, Domenico Pinto (Rifondazione comunista). Poi un comitato di cittadini e intellettuali animato dall’avvocato di Cividale Rino Battocletti che ha raccolto le adesioni, tra gli altri, del poeta Andrea Zanzotto, dell’urbanista Leonardo Benevolo, dello scrittore Giorgio Pressburger, dell’artista Renato Calligaro, dell’ex direttore artistico del Mittelfest Moni Ovadia... E di Altan, che ha disegnato la vignetta-manifesto del comitato contro l’abbattimento della ciminiera Italcementi: un simbolico azzeramento della memoria ripreso, messo su YouTube e trasformato dalla giunta in una festa notturna di dubbio gusto, genere catastrofico. La fase uno ora è terminata: l’Italcementi è stata completamente rasa al suolo. Ma manca ancora l’operatore immobiliare che, in tempi di crisi, s’imbarchi nell’avventura di costruire.
Dopo cinque trimestri col segno meno abbiamo finalmente visto un segno più. Tecnicamente siamo fuori dalla recessione. Ma è un rimbalzo flebile e fragile.
Per consolidarlo abbiamo bisogno che riparta la domanda interna. Con 3 dollari che comprano 2 euro difficilmente sarà il consumatore americano, che per giunta farebbe bene a tirare la cinghia per ridurre il proprio indebitamento, a portarci fuori dalle secche. Gli italiani hanno fortemente aumentato la propensione al risparmio dall’inizio della crisi, destinando ai risparmi circa il 15 per cento del reddito disponibile. Per rilanciare i consumi si chiede in questi giorni a più voci di abbassare le tasse. Le richieste arrivano sommesse un po’ da tutte le innumerevoli rappresentanze di interesse che pullulano sul nostro territorio. Stranamente queste chiedono di abbassare le proprie di tasse e non quelle di chi potrebbe alimentare i consumi.
Si invocano, ad esempio, tagli all’Irap e all’Ires, più che riduzioni dell’Irpef. Ma anche chi è genuinamente convinto che il problema dei bassi consumi sia legato alle tasse evita accuratamente di porsi una domanda fondamentale: le tasse non c’erano già prima del calo dei consumi? E perché gli italiani hanno risparmiato di più durante la crisi? Non sarà forse perché quelli che possono permetterselo stanno accantonando risorse a scopo precauzionale, per proteggersi di fronte ai tanti rischi che la crisi ha posto loro di fronte? Con un futuro così incerto, si può capirli. È quello che farebbe ogni bravo capofamiglia.
Chi vuole davvero sostenere i consumi, anziché cercare una scusa per abbassare le proprie di tasse, dovrebbe perciò pensare prioritariamente ad offrire risposte a queste crescenti preoccupazioni delle famiglie, chiedendo al governo per quanto possibile di farsene carico. Ci sono una serie di rischi da cui solo lo Stato può proteggerci. Nessuna assicurazione privata, infatti, offre assicurazioni contro la disoccupazione. E la previdenza privata non ci tutela dal rischio di arrivare alla fine della vita lavorativa con risorse inadeguate per il nostro sostentamento perché abbiamo subito molte interruzioni della nostra vita lavorativa o perché non siamo più autosufficienti e abbiamo bisogno di continua assistenza. Quando non ci pensa lo Stato, ci deve perciò pensare l’individuo a tutelarsi da questi rischi, risparmiando anziché comprarsi una lavatrice o un’automobile. Essendo avverso al rischio finirà per risparmiare fin troppo. La stessa copertura potrebbe essere fornita da un’assicurazione collettiva, sottraendo ai consumi molto meno risorse.
La prima cosa da fare per sostenere i consumi è perciò ampliare la copertura delle assicurazioni sociali. Gli italiani devono essere certi di poter contare su di loro nel caso ne avessero bisogno. In questa crisi non abbiamo purtroppo esteso le assicurazioni sociali a chi ne aveva maggiore necessità (i lavoratori temporanei) e abbiamo reso meno sostenibili, dunque meno credibili, le assicurazioni già esistenti. Stiamo uscendone con meno assicurazione sociale di prima. Sono stati estesi i trattamenti di Cassa Integrazione, cosiddetti "in deroga", che non richiedono alcun contributo da parte di chi li ottiene. Per queste ragioni rischiano di diventare uno dei tanti strumenti temporanei che rimangono per sempre. Vuol dire scardinare l’assicurazione contro la disoccupazione che, per funzionare, ha bisogno di tanti contribuenti, imprese e lavoratori che versano i contributi e si proteggono insieme da un rischio che può riguardare chiunque. La scelta dei beneficiari dei trattamenti in deroga è poi discrezionale, dunque non si offrono certezze a chi ha paura di perdere il lavoro. Sono infine diversi da Regione a Regione, a seconda delle disponibilità. Nessuno può essere certo di riceverli nel caso perdesse l’impiego.
Non meno grave la situazione dell’assicurazione previdenza pubblica. La spesa è ulteriormente aumentata in rapporto al reddito generato nel nostro paese. Ormai un euro ogni tre raccolti fra tasse e contributi sociali serve a pagare le pensioni già in essere. Per ripianare i conti dell’Inps occorrono crescenti trasferimenti dalla fiscalità generale: più del 35 per cento del bilancio dell’ente quest’anno verrà dalla tassazione generale, anziché dai contributi dei lavoratori, erosi non solo dalla demografia, ma dal calo dell’occupazione. Tant’è che si parla di un imminente condono contributivo che servirebbe a fare affluire soldi alle casse dell’Inps. Sarebbe devastante per il sistema contributivo. Per convincerci che non lo si farà davvero, ormai non bastano più le rassicurazioni dei ministri. Sono state troppe volte smentite. Servirebbe un impegno cogente a non varare più condoni, magari scolpito sulla nostra Costituzione. In ogni caso, un sistema per un terzo coperto dalla fiscalità generale non è un’assicurazione. È un sistema che grava anche su chi sulla carta non dovrebbe pagare ed è chiaramente insostenibile. Talmente costoso da togliere risorse che servirebbero a coprire gli anziani dal rischio di non autosufficienza. Chi può allora dare torto agli italiani che decidono di assicurarsi da soli?
Rimane un mistero: perché molti sindacalisti ed illustri esponenti di Confindustria si ostinano a elogiare pubblicamente il nostro sistema di assicurazione sociale nonostante sia pieno di buchi, squilibrato e riduca i consumi che si vorrebbe tanto sostenere per uscire dalla crisi? Una risposta forse ce l’abbiamo, ma vorremmo tanto che non fosse quella giusta: non sarà forse perché questi trattamenti selettivi e discrezionali danno loro il potere di decidere a chi dare gli aiuti e a chi no? Per favore diteci che non è così.
Giardini di cemento accanto ai prati verdi. Per il nuovo stadio “Delle Aquile”, da edificare sui 600 ettari di proprietà dei fratelli Mezzaroma sulla Via Tiberina, “la nuova casa della Lazio”, il Presidente Claudio Lotito aveva fatto i conti senza il fiume. Alberghi, campi sportivi, parcheggi, piscine, uffici, musei tematici. Il tutto in un’area a forte rischio esondazione del Tevere. Il terreno, che dopo la costruzione delle strutture, avrebbe visto il suo valore moltiplicarsi, forse rimarrà tale. Campagna romana senza gloria. I tifosi ironizzano: “Avremmo giocato a pallanuoto”, Lotito, contestato, tace. Storia non dissimile per la Roma di Rosella Sensi, che avrebbe individuato nella“Massimina-La Monachina”, area non edificabile (perché dichiarata “destinazione agricola”), il luogo eletto per il futuro impianto della società. Richiedendo la cancellazione dei vincoli del piano paesaggistico adottato dalla Regione, che prevede di legiferare proprio in materia di tutela dell’Agro Romano.
A Firenze, per i suoi parchi tematici torniti da negozi, Diego Della Valle aveva individuato la zona di Castello. Le ruspe di Ligresti e il non ostracizzante interesse dell’ex sindaco Leonardo Domenici, dopo un intenso traffico di intercettazioni telefoniche, avevano allarmato la magistratura. Tutto sotto sequestro da parte della Procura della Repubblica (con malcelata rabbia del patron di Tod’s) e nuova linfa al progetto, da parte dell’uomo (nuovo?) del palazzo toscano, Matteo Renzi. Si decide a giorni e Castello non ha perso appeal. Renzi si era orientato verso Osmannoro (proprietà del costruttore Fratini) e Ligresti, per cui la questione non è relativa, attende comunque il via libera.Senza imparare dai propri errori, la storia si ripete. A quasi vent’anni dalla sbornia di Italia ‘90, col suo corollario di stazioni ferroviarie abbandonate, progetti iniziati e lasciati a metà del guado, indagini, arresti e processi, ecco riapparire una nuova crociata. Immaginare stadi avveniristici è la moda del momento. Costruirli, il passaggio successivo. Le arene del paese sono vuote. Dopo Milan e Inter, nella classifica dei 50 club europei capaci di riempire tribune e gradinate, l’Italia occupa la retroguardia. La Juve è fuori e dentro il recinto, ma oltre il 30° posto, resistono Napoli, Lazio e Fiorentina. Lontanissime dal Manchester United, capace di trascinare all’Old Trafford, una media di oltre 75.000 persone a gara.
Per eliminare la burocrazia, il Ddl 1881: “Disposizioni per favorire la costruzione e la ristrutturazione degli impianti sportivi”, giunge al momento giusto. Nel progetto di legge firmato (per quanto valgano le categorie) da 32 deputati di centro, destra e sinistra, in testa Butti del Pdl, si postula la rivoluzione. In seguito ad un accordo di programma tra la società sportiva che vuole realizzare la struttura e la Regione, infatti, ogni procedura avrà una corsia preferenziale e i tempi non potranno superare i dieci mesi. Obbiettivo principe, gli Europei del 2016, non ancora assegnati ma prospettati come l’avvento del Messia dall’intero movimento calcistico.
Il termine per avanzare le candidature è il 15 gennaio e in molti, hanno cominciato a correre. In un pallone che lamenta modesti incassi complessivi se paragonati a quelli inglesi o spagnoli, i presidenti hanno iniziato a far cadere carte topografiche e plastici dall’alto. Ventiquattro società hanno presentato il loro progetto. Come in Dogville di Lars Von Trier, esistono realtà virtuali ed effettive. Un mondo di proiezioni economiche e un altro pianeta, quello politico, non indisposto ad assecondare le brame di chi nel calcio, scorge una slot machine potenzialmente fruttuosa.
Approvata senza indugi al Senato, la legge sui nuovi stadi italiani, è passata senza intoppi anche al vaglio della VII commissione cultura, scienza e istruzione della Camera dei Deputati, con una deliberante che ha evitato il voto in Aula e il parere consultivo delle commissioni Ambiente e Lavori Pubblici. Alla prova del voto definitivo però, non è detto che tutto fili liscio.
"Si dovrà sentire il parere di tutti", afferma Fabio Granata del Pdl aprendo a parziali modifiche del testo. Oltre le veline entusiastiche e le vuote enunciazioni, si è affacciato il sospetto della speculazione edilizia. Legambiente l’ha detto senza indugi: “È la più grande del dopoguerra, lo sport non c’entra niente”. Milioni di metri cubi di cemento, griffati da architetti celebri (c’è anche l’onnipresente Fuksas), con un impatto significativo e distante dall’ecologia su enormi zone ancora non edificate della prima periferia. Evadere dalle città, sembra essere infatti il primo imperativo. Il fatto che gli stadi attuali, siano stati eretti in aree “sottoposte a vincoli urbanistici e monumentali”, viene sventolato come un grave problema di ordine pubblico, da risolvere, in maniera equanime, distribuendo tessere per i tifosi, biglietti nominali (criticati dall’Uefa e unico caso europeo) e patenti di libera azione ai palazzinari.
Che gli impianti italiani siano vecchi non è una menzogna. Quasi ottuagenari per età media, nelle 126 strutture utilizzate da società professionistiche, ben 69 hanno una capienza inferiore ai 10.000 posti. Su sei miliardi di giro d’affari complessivo a stagione, (quasi mezzopunto di Pil), solo una piccola fetta, meno del 5 per cento, arriva dagli stadi. Per Juventus, Roma, Milan e Inter, la casa ospitante non vale più del 15% complessivo degli introiti. In Inghilterra, la percentuale degli incassi derivanti dagli stadi (rispetto al fatturato) sale fino al 42%. Quasi tre volte. Qui però si va molto oltre la modernizzazione.
A fondo valle, esaurita la forza argomentativa di cifre e grafici, rimangono i sospetti. Di passaggio agognato da “stadio calcistico” a “stadio produttivo” (multifunzionalità dell’impianto, aree specifiche destinate all’intrattenimento e alla cultura) si parla da anni. Una formula, denunciano i detrattori, (in testa moltissime sigle ultras), volta ad affinare gli appetiti di chi sogna un nuovo boom. Costruzioni di centri residenziali e commerciali, privatizzazione degli impianti esistenti, modificazione di destinazioni d’uso delle aree pubbliche.
Il tutto, naturalmente, attingendo con generosità al denaro pubblico. Deformando gli esempi inglesi (Taylor Act, 170 milioni di Sterline destinate alla costruzione di costosissime cattedrali) e tedeschi, l’Italia s’è desta.
In un Paese che riduce al di sotto della minima soglia di accettazione, le erogazioni per servizi essenziali (scuola, ricerca, giustizia e sanità), il tema divide. Bianco o nero, senza mediazioni.“Con la scusa degli Europei di calcio, si stanno facendo passare scelte in cui a pesare sono interessi immobiliari di tipo speculativo”, dice Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente che attacca la parte della legge riguardante i “complessi funzionali”. Nel Ddl, insieme allo stadio, si può costruire anche un nuovo quartiere con attività commerciali, ricettive, di svago, unitamente a insediamenti residenziali. Da realizzarsi addirittura “in aree non contigue all’impianto”. Per facilitare il tutto, un piano triennale di intervento straordinario (soldi pubblici) che prevede la concessione di “contributi destinati all’abbattimento degli interessi sul conto capitale degli investimenti”. Davanti a un cataclisma simile, Alfredo Cazzola non avrebbe lasciato il Bologna in un amen. Romilia, l’arena che avrebbe dovuto sostituire il glorioso Dall’Ara, posta lontano dai portici, tra Budrio e Medicina, tramontò all’inizio di agosto di due anni fa. Anche in quel caso, parchi tematici, villette a schiera per 30mila mq, rischio esondazione e 234 ettari lontani da autostrade e ferrovie.
I tifosi avrebbero dovuto, in estate e in inverno, sobbarcarsi quasi due chilometri a piedi dalla stazione più vicina. La provincia bocciò senz’appello il piano Cazzola “Non esistono le condizioni per procedere in un ambito agricolo ancora integro”. Cazzola non si trattenne: “Da oggi, tutti sanno che a Bologna non si può più investire” e cedette l’impresa ai Menarini, anch’essi costruttori non disinteressati a un progetto simile che ora langue, in una partita a scacchi tra Pd e Udc, nelle segrete stanze di Palazzo D’Accursio. Diversi ma non troppo, i casi di Palermo e Genova. In Sicilia, Maurizio Zamparini, smania. Accantonato il disagiato quartiere, Zen, il presidente punta sul Velodromo. Zampa vuole comprare l’area “Per innalzare l’impianto e altre opere sportive, ludiche e commerciali”. Ineluttabilmente, Zampa bussa al Comune. “Chiederò di venderci i terreni e fare presto con le autorizzazioni”, mischiando voglia di cambiamento e pretesa nell’abusato richiamo “all’orgoglio siciliano”. Ultima stazione, Genova. Il “Ferraris” è tra gli italiani, il più inglese tra gli stadi. Nonostante ciò, è allo studio il progetto di abbatterlo. Nuovo contenitore: introiti e appalti. Per il parlamentare del Pd, Roberto Della Seta, “La costruzione di nuovi stadi è solo un pretesto per dare mano libera ai poteri forti”.
Intanto gli ultras non rimangono in silenzio. “Il solo costo dei biglietti per una famiglia di 4 persone si aggira in media sui 200 euro. Quante persone potranno sottrarre dal bilancio familiare 5000 euro a stagione?” replica Lorenzo Contucci, avvocato. In realtà chi ha un basso salario non può più permettersi lo stadio: “Si sta operando una sostituzione antropologica dei tifosi. Una pulizia etnica di classe”. Anche senza giungere a tanto, un piano esiste. L’isola che non c’è, prevede doppiopetto e invito. Il resto di niente, è una partita in tv. Senza rumore, urla, voci, passioni. Intorno fluttuano figure colorate. Da una parte all’altra, come in un acquario.