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Strade diritte, strutture basse e geometriche, il palazzo del Comune al centro dell’abitato. Mattoncini a vista. Sabaudia, cento e passa chilometri a sud di Roma, paradigma, piccolo orgoglio dell’architettura fascista, meglio detta “razionalista”; set del film di Daniele Lucchetti “Mio fratello è figlio unico”, dove Riccardo Scamarcio ed Elio Germano fanno rivivere sullo schermo la vita di Antonio e Gianni Pennacchi. Di allora, del Ventennio, c’è ancora un certo gusto nella fede politica, con il “destra-centro” blindato a ogni elezione. In apparenza. In sostanza questa cittadina di circa 20mila abitanti, è inserita in una zona, la provincia di Latina, dove “la voce grossa la fanno i grandi gruppi malavitosi”, spiega Alessandro Panigutti, direttore di “Latina oggi”, il quotidiano locale più diffuso.

E parliamo dei big di camorra, mafia e ’ndrangheta: dai “cinematografici” Casalesi (gli stessi di “Gomorra”, descritti prima da Saviano e poi da Garrone) ai Bardellino; dai Tripodo agli Alvaro fino a raggiungere gli Scissionisti. Un quadro forte, dove la stessa Sabaudia dà il suo “piccolo” contributo: basta prendere le vicende di questi ultimi mesi. Uno dei consiglieri comunali di maggioranza, Rosa Di Maio, è attualmente imputata nel maxi processo al clan avellinese dei Cava a seguito di una inchiesta della Dda di Napoli; a suo padre, un mese fa, è stato sequestrato un immobile del centro per gravi abusi edilizi. Infine è stato scoperto un esteso giro d’usura legato ai campani e gestito da un funzionario comunale andato in pensione e poi richiamato dalla stessa amministrazione di Sabaudia.

In questa realtà, incastonato tra le dune, fronte mare, sorge il Lago di Paola: sette chilometri di lunghezza per 440 ettari di acqua, inserito nel Parco Nazionale del Circeo e uno dei quattro elementi costieri di un complesso detto Zona Umida di Interesse Internazionale. È considerato Sito di importanza comunitaria dall’Europa: all’interno è stata rinvenuta una straordinaria villa Imperiale di Domiziano; alcune chiuse sono d’epoca romana. Bene, vogliono farlo diventare un porticciolo. E intorno edificare, e ancora edificare. Sono anni che ci provano e in parte ci sono anche riusciti: fino a qualche anno fa stazionavano circa 800 imbarcazioni e un cantiere navale aveva iniziato a costruire dei maxi-yacht da 36 metri. Poi marcia indietro.

L’ostacolo? La famiglia Scalfati, da generazioni proprietaria del lago, da quando, nel 1883, lo acquista dallo Stato italiano per svolgere delle attività ittiche. Sono loro, Anna e Andrea, madre e figlio, a fronteggiare, a ribattere colpo su colpo, dalla carta bollata, ai tribunali, fino a denunciare le minacce e i tentativi di alcuni imprenditori e politici locali di portare a termine il progetto. “Ho scoperto sulla mia pelle tutti i modi per esercitare pressione su una persona: è veramente dura - racconta Anna, volto noto del Tg3 -. Pensi un po’, prima hanno provato a coinvolgerci, e ci sono riusciti con mio fratello, ora consigliere della maggioranza, poi quando è stato chiaro il mio no, è partita una campagna di delegittimazione durissima, anche a mezzo stampa.

Con gran parte della popolazione del luogo schierata contro di noi, accusati di non voler offrire un rilancio economico della zona”. Ecco le intimidazioni, gli atti vandalici: “Hanno sfondato gli impianti di illuminazione, divelto alberi, insegne, danneggiato una delle chiuse, ci hanno insultato e aggredito per strada”, incalza Andrea. Poi il provvedimento che ha aperto voragini tanto grandi quanto i dubbi sulla sua legittimità: il 7 agosto del 2009, il Tribunale Superiore delle acque, una branca semi-sconosciuta della Corte di Cassazione, in seguito a un’azione giudiziaria del Comune di Sabaudia, “ha emesso un’ordinanza che non solo non ha alcun precedente in Italia, ma che non trova neppure riscontro in dottrina, scrive Gaetano Benedetto - condirettore di Wwf Italia e presidente dell’Ente Parco del Circeo -. Il Tribunale attribuisce al Comune una podestà d’indirizzo in un ambito, quello del Regolamento del parco, che invece è specificamente dell’Ente gestore dell’area protetta”.

In sostanza, secondo il Tribunale, il Lago è navigabile e il sindaco di Sabaudia può decidere le sue sorti, con un vincolo: convocare una conferenza di servizi nella quale intervengono tutti i livelli dello Stato. Ci ha provato, e per ben due volte, ma non si è presentato nessuno, né la Regione né i tre ministeri coinvolti (Politiche Agricole, Ambiente e Beni Culturali). Comunque resta un fatto: “La tesi del Tribunale apre un meccanismo nel quale gli interessi collettivi diventano subalterni ad altri”, interviene Angela Napoli, deputata del Pdl ed esponente della Commissione antimafia. È lei ad aver portato la questione in Parlamento con un’interrogazione: “Sì, perché l’anomala situazione in cui versa il Lago potrebbe essere inquadrata, vista la prossimità dell’area, nelle vicende di abusi e illegalità per la presenza delle varie cosche. Vede, lì la realtà è veramente dura, con parte della magistratura locale che in questi anni ha preferito non vedere o è stata bloccata. L’esempio principe è Fondi (distante appena 40 km da Sabaudia, ndr): un Comune in odor di mafia, non sciolto (dal ministro Maroni, ndr) per infiltrazione e dove i poteri forti condizionano tutto”. Comunque “anche il caso del Lago dimostra – continua la Napoli – come, in questa zona, le istituzioni finiscono per intrecciarsi con un certo sistema affaristico, dove poi gli interessi criminali deturpano e incidono sul bene collettivo: l’altro giorno sono andata a Paola, e le garantisco che sono rimasta allibita da quanto visto e sentito”.

“La questione criminalità in questa provincia parte da lontano e per anni ha fatto comodo a molti non vedere - interviene Alessandro Panigutti - . Qui prima è arrivata gente inviata al soggiorno obbligatorio, poi i pentiti di mafia a nascondersi, una parte di loro ha messo radici. Uno per tutti: Frank Coppola, che ha soggiornato ad Aprilia, ha annusato l’aria, si è cresciuto qualche ragazzotto, ed è partito il suo business. Poi c’è un aspetto geografico: non siamo lontani dalla Campania, e la criminalità, si sa, cerca sempre nuovi sbocchi, così sono ‘sbarcate’ le grandi famiglie. Vede, tutti parlano dei Tripodo e dei loro affari su Fondi ma loro, oramai, sono la pagliuzza. La partita è molto più complessa e giocata sul traffico di droga e l’edilizia, ed è una partita trasversale che interessa la Provincia in tutta la sua estensione”.

E torna l’edilizia. “L’anno scorso la Provincia ha presentato un progetto di rivalutazione dell’area con in copertina l’immagine di un enorme yacht - racconta Andrea Scalfati -. Un progetto che avrebbe probabilmente aperto la strada a una corsa all’edilizia speculativa. Insomma, senza alcun interesse per gli aspetti naturali, la conservazione ambientale, l’attuale micro-clima. Niente”. Una botta di cemento e via. “La verità è che qui non c’è l’ombra di tessuto sociale – conclude il direttore di Latina Oggi -, non abbiamo radici: Latina ha solo 70 anni, e si vede”.

A meno che non ci sia qualcuno, ostinato, pronto a dire “no”, e a “muso duro” come cantava Pierangelo Bertoli: “Un guerriero senza patria e senza spada con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro...”.

Al posto dei filari che con perfezione geometrica scalano in verticale le colline e le solcano come tanti graffi sulla pelle, ecco di nuovo i terrazzamenti, un po’ più arruffati, che vennero abbandonati dagli anni Sessanta, sbancati con i Caterpillar e sostituiti da sistemi di coltivazione che chiamano a "rittochino", più agevoli per i potenti trattori.

Anche Paolo Socci piallò le colline dove da decenni la sua famiglia faceva il vino. «Così si deve fare ora, dicevano tutti. E così feci anch’io». Poi si accorse che, oltre ad aver stravolto un assetto di paesaggio che durava da secoli, quel sistema da agricoltura industriale riduceva i costi, è vero, ma il vino che veniva fuori non era buono come un tempo. Sulle piazze internazionali sbarcavano bottiglie provenienti dall’est europeo o dal Sud America che, Chianti o non Chianti, scalzavano i concorrenti.

E allora si mise a studiare le tecniche tradizionali, si confrontò con l’urbanista Paolo Baldeschi, che stava elaborando un progetto di tutela dell’intero Chianti fiorentino, e capì una cosa importante: il paesaggio del Chianti era un paesaggio storico, anzi, culturale, nel senso che aveva ben poco di naturale, ed era esattamente il prodotto di una serie di adattamenti selezionati nel tempo e di regole produttive tutte orientate a ottenere un vino buono. Risuonavano nella sua memoria le parole di Emilio Sereni, quelle sul paesaggio come costruzione cosciente di una comunità, da cui discende che ogni comunità ha il paesaggio che si merita.

E così Socci invertì la rotta. Chiese e ottenne un contributo attraverso il Piano di sviluppo rurale della Toscana, che recependo norme nazionali e comunitarie favoriva la tutela dei paesaggi, e iniziò a restaurare le terrazze, segnalate qui fin dal Settecento, o a costruirle ex novo, ma con le tecniche antiche e recuperando un geniale sistema di drenaggio. Le terrazze evitano il dilavamento del terreno causato dalle piogge, che invece è favorito dal "rittochino" e dai trattori che salgono e scendono dalle colline. L’erosione, oltre ad agevolare il dissesto in caso di grandi piogge - è un fenomeno che interessa tutto l´Appennino - , fa scivolare giù la sabbia, che è essenziale per le viti ad alberello e che le terrazze, invece, custodiscono. L’erosione, inoltre, diminuisce la fertilità del terreno e impone i concimi chimici. E non è tutto: le pietre dei muraglioni sono una specie di radiatore, trattengono il calore del sole e lo rilasciano lentamente, favorendo una giusta maturazione dell’uva. Maturazione che le terrazze agevolano anche perché i filari sono orientati da Nord a Sud, e quindi incamerano più sole rispetto al "rittochino".

«Tutti questi sistemi allungavano le ore di fotosintesi», racconta Socci. «Poi sono arrivati i vigneti standard dell’agricoltura meccanizzata, venduti come un kit di montaggio». Ora sono pronte le prime bottiglie con le uve nate lungo i ciglioni della collina. Il vino si chiama "Antico Lamole. San Gioveto Terrazzi". Niente etichetta, scritto a mano. Insieme a Socci, altri proprietari di Lamole hanno o ripristinato o realizzato muraglioni a secco che seguono in orizzontale il tracciato delle colline. Non tutti abbandonano il "rittochino", ma intanto il paesaggio di Lamole va riacquistando l’antico aspetto. «Restaurare il paesaggio», dice Mauro Agnoletti, professore di agraria a Firenze e curatore del Catalogo dei paesaggi rurali storici (dove figura anche Lamole), «non è solo un’operazione estetica, pure indispensabile visto il valore che queste colline hanno assunto. Ma incontra un’esigenza della futura agricoltura: un prodotto ha più forza sui mercati se è riconducibile a una storia e a un luogo e se è il frutto di tecniche specifiche».

Socci si fa aiutare da boscaioli che vengono da Laviano, in provincia di Salerno, il paese distrutto dal terremoto del 1980, e da Rocco Falivena che di Laviano è il sindaco. Ma se per l’avvio dei lavori sono arrivati contributi pubblici, per la manutenzione non ci sono erogazioni. Il Piano di sviluppo rurale nazionale 2007-2013 stabilisce che il paesaggio è elemento essenziale per una buona agricoltura e ha dato alle Regioni la possibilità di finanziare progetti di recupero e di promuovere prodotti legati a questi paesaggi. Ma non tutte le Regioni si sono attrezzate. E senza sostegni, questo tipo di agricoltura e di paesaggi stentano.

Con l’accetta, maneggiata dal ministro leghista Roberto Calderoli, del solito emendamento alla legge finanziaria si è inferto, da Roma, un taglio secco al numero dei consiglieri comunali, si sono decapitate le circoscrizioni e i difensori civici, si è rattrappita l’autonomia di ottomila Comuni. Anni di dibattito politico azzerati di colpo. L’alibi? Ridurre il costo della politica.

Risibile perché il “risparmio” è molto relativo, mentre ben altre economie si sarebbero potute ottenere agendo sui 945 parlamentari e su migliaia di consiglieri e assessori regionali. Molti dei quali pagati svariate migliaia di euro al mese. Contro i 19 euro lordi a riunione (una volta o due al mese) dei consiglieri dei Comuni minori e il costo minimo degli eletti nelle circoscrizioni il cui incarico poteva essere reso gratuito evitando di abolire lo stesso decentramento di quartiere. Alla faccia della partecipazione e dello spirito federale.

In realtà alla Lega Nord importa la secessione di intere regioni del Nord e non un’Italia federale poggiata sulle autonomie. Ma pure agli altri maggiori partiti poco sembra interessare il ruolo dei Comuni. Ho sentito in tv protestare vibratamente soltanto l’on. Bruno Tabacci, ex Udc oggi rutelliano, esponente dell’autonomismo cattolico. Gli stessi eredi del Pci, all’epoca sensibile al ruolo delle assemblee elettive, non hanno espresso dissensi molto avvertibili. Hanno reagito i piccoli gruppi, come i Verdi di Angelo Bonelli che ha accusato Pdl e Pd di voler “monopolizzare” i consigli comunali.

Logica coerente

In effetti la riduzione del 20 per cento inferta dal centro al numero dei consiglieri (e di conseguenza degli assessori) inciderà pesantemente sulla pluralità della rappresentanza democratica: i consigli con 40 componenti, ad esempio, scenderanno a 32, quelli con 30 a 24, togliendo quasi ogni spazio ai gruppi minori (per lo più di sinistra) e alle liste locali, cioè a presenze che hanno spesso animato la vita politica locale. E’ il logico proseguimento, a livello comunale (le Province per ora ne sono fuori), della “porcata” calderoliana imposta nell’elezione di un Parlamento dal quale i piccoli gruppi sono assenti e i 945 presenti sono stati designati dai partiti e non più eletti col voto di preferenza.

Si poteva attendere di discutere la Carta delle Autonomie. Invece, dal centro e col rozzo strumento della legge finanziaria, si è dato uno schiaffo palese alle Regioni alle quali la Costituzione assegna la materia degli Enti locali. Per la quale, invero, poco e con poca creatività esse hanno fatto. Alcune hanno esteso fino al mare le Comunità Montane (oggi tutte con meno fondi) le quali invece svolgono un utile ruolo di aggregazione per i tanti micro-Comuni delle terre alte.

I “risparmi” in consiglieri (circa 35.000 posti) si avranno soprattutto in Lombardia e in Piemonte, nelle regioni cioè con la più alta polverizzazione municipale: la sola Lombardia conta 1.546 Comuni e quindi molte migliaia di consiglieri. Il Piemonte allinea oltre 1.200 torri municipali. E’ una secca riduzione dell’autonomia dei Comuni e delle stesse Regioni, e viene da lontano. Viene dalla legge che ha immesso nel sistema italiano, partendo dai “rami bassi”, una forma presidenzialista con l’elezione diretta dei sindaci e poi, via via, delle altre istituzioni. Ma così – si obietta – si è garantita stabilità alle amministrazioni. Certo, e però i consigli comunali sono stati declassati a pura cassa di risonanza. Prima disponevano di poteri a volte eccessivi. Oggi non contano quasi nulla.

Il caso Moratti

Temi di primaria importanza non passano più dai consigli, ma sono semplici atti di giunta. Davanti alle telecamere di “Report”, il sindaco di Milano, Letizia Moratti, si è, in pratica, vantata di comparire in consiglio comunale tre volte l’anno e di non rispondere, di fatto, ad un centinaio di interrogazioni consiliari.

Anni fa sarebbe successo il finimondo. Non a caso, allora, le sedute erano spesso affollate di cittadini. Oggi che senso avrebbe? Con la riduzione del 20 per cento dei consiglieri, si rattrappirà l’arco stesso della rappresentanza, si spegneranno ulteriormente il dibattito e l’interesse dei cittadini.

Aboliti nelle città piccole e medie i consigli circoscrizionali, abolito i difensori civici, la partecipazione democratica dal basso sarà un ricordo lontano: di quando la sinistra dc si batteva per essa con forza, il Partito socialista, con Aldo Aniasi e Carlo Tognoli, parlava di Repubblica delle Autonomie e il Partito comunista portava ad esempio di democrazia le assemblee elettive locali. Tutto questo con una Lega Nord che dovrebbe essere federalista e che invece ha lasciato scippare ai Comuni l’Ici (compensata solo in parte dal centro), ed ora, sempre da Roma, li spoglia di un altro pezzo di autonomia decisionale.

Al Pd vien da chiedere: non sarebbe stato “alternativo” differenziarsi a fondo da questo governo-azienda che devitalizza la democrazia a colpi di commissariamenti straordinari e di finanziarie penalizzanti per le rappresentanze di base?

Una democrazia liquefatta, dominata dal potere carismatico del capo del governo e da due partiti «virtuali» come Pd e Pdl. Lo sguardo sulla crisi italiana di Marco Revelli - sociologo, docente all'università Orientale del Piemonte e collaboratore storico del manifesto - è attonito: «Mancano perfino le parole per dichiarare ciò che si prova e il continuo spaesamento su quello che avviene».

Proviamo a trovarle, queste parole. Alberto Asor Rosa sul manifesto del 6 e del 20 dicembre parla di «golpe bianco» e di «eterna bicamerale» sulle riforme. Mentre Ezio Mauro su Repubblica dell'11 dicembre denuncia un Berlusconi tentato apertamente dallo «stato d'eccezione».

Secondo me siamo perfino oltre lo stato d'eccezione.

A che cosa ti riferisci?

Intanto ai comportamenti di Berlusconi. Che vanno al di là della violazione delle regole fondamentali e degli equilibri istituzionali propri di uno stato d'emergenza. Ma anche alle risposte incerte e oscillanti del Pd, e alla sensazione di irrealtà che tutto questo provoca. Asor Rosa denuncia la voglia di un «golpe bianco». E' evidente che se si intende la sfida alle regole fondamentali e la minaccia politica agli assetti istituzionali è davvero così. Da mesi assistiamo all'irrisione delle istituzioni da parte del capo del governo. Berlusconi si muove al di fuori delle regole con comportamenti che solo qualche anno fa avrebbero fatto inorridire la totalità degli osservatori politici. Le provocazioni verso il capo dello stato e la corte costituzionale, l'irrisione del ruolo del parlamento, le esternazioni internazionali violentemente offensive verso le nostre istituzioni democratiche. Gli attacchi ai giudici. La novità non è che i giudici indaghino. E' che c'è un capo del governo che è chiamato in causa così tante volte e per reati così gravi, sulla base di riscontri che potranno o meno portare a una condanna, ma che non sono pure invenzioni.

E il Pd?

Il Pd, ogni volta, a caldo denuncia la gravità della cosa e il giorno dopo già la tratta come normalità. E' questa oscillazione che produce uno spaesamento radicale in cui tutto è vero e nulla è vero. In cui è la retorica del discorso politico a guidare la realtà modificandola costantemente. Questo scarto tra parole e realtà è devastante. Berlusconi alza il tiro, si direbbe consapevolmente, come parte di una strategia retorica a favore della propria onnipotenza. Dimostra che ha la possibilità di spararle sempre più grosse e di passarla sempre liscia. Può farlo perché l'opposizione è debole ma anche perché è ondivaga. Oggi lo critica e domani lo assume come un interlocutore fondamentale per ridefinire le linee generali del comune assetto democratico.

Faccio l'avvocato del diavolo. Ma Berlusconi è stato eletto dagli italiani. E al di là del suo potere mediatico ed economico tocca corde condivise da milioni di cittadini. È realismo o no trattare con lui?

Prendere atto è un conto. Trattare è un altro. L'opposizione ha diverse scelte, dalla denuncia più radicale alla normale dialettica parlamentare. Può mobilitare le piazze, battersi con durezza in parlamento, agire nelle varie sedi istituzionali, informare adeguatamente l'opinione pubblica. Oppure può dichiarare semplicemente la propria indisponibilità a dialogare su quelle basi. Di sicuro non si può contemporaneamente denunciare la gravità di quello che avviene e il giorno dopo dimenticarselo. Quello che sta avvenendo in parlamento denuncia uno scollamento spaventoso dell'opposizione con lo stato d'animo di chi l'ha votata.

E' vero però anche il viceversa. Berlusconi legittima anche chi guida il Pd. Pensa a Veltroni, che quando c'era Prodi vince le primarie e poi va a stringere la mano a Berlusconi per la nuova legge elettorale. Lo stesso, oggi, sembra voler fare anche D'Alema.

Il vero «stato di eccezione» riguarda almeno tutto l'ultimo triennio. La dialettica politica avviene in un sistema instabile, in un contesto di liquefazione istituzionale iniziato proprio a ridosso della nascita del Pd e del Pdl. E' quello il punto di cedimento strutturale della Repubblica. La nascita del Pd e, simmetricamente, del Pdl ha determinato due cose: 1) lo sconvolgimento di tutto il sistema dei partiti, con due partiti virtuali ma a pretesa egemonica che sono nati istantaneamente come se fossero un prodotto liofilizzato; e 2) la scelta prematura di Pd e Pdl, prima ancora di essere costituiti, di accordarsi per riformare l'assetto istituzionale del paese.

Basti pensare che il Pdl ha aperto solo ora il suo tesseramento...

E' nato su un predellino grazie a una decisione carismatica del suo capo. Ma anche il Pd ha fatto le sue primarie sul segretario prima ancora di nascere. E' nato in una forma plebiscitaria e burocratica insieme. L'eletto (Veltroni) era stato deciso da una burocrazia non di partito ma di partiti ed è stato poi confermato dal lavacro plebiscitario. Questi due partiti virtuali si consideravano entrambi egemonici nel proprio campo. E anticipavano in sé un bipartitismo tutto da costruire e dagli esiti incerti. Un'apertura al buio, diremmo nel linguaggio del poker.

Ma entrambi hanno fallito. Il "terribile" referendum bipartitico che ha fatto cadere Prodi, Berlusconi l'ha sabotato per non rompere con la Lega. E oggi in parlamento ci sono cinque partiti e fuori ancora di più. Di bipartitismo non parla più nessuno.

Quel fallimento ha lasciato le sue macerie. In questo vuoto esiste una sola potenza: l'azione del capo carismatico legibus solutus. E' il carisma il potere che riempie il vuoto della scomparsa dei partiti. Che capitalizza, con la forza della parola del leader, la natura di non-partito del Pdl. E svela l'impotenza di un Pd che orfano di quella strategia originaria non ne ha ancora trovata un'altra.

Però il limite di Pdl e Pd Fini e Bersani l'hanno segnalato. Il primo lotta contro il clima «da caserma», il secondo aspira a un «partito bocciofila» ma più robusto. Non è una correzione di rotta significativa?

Fini è orfano del suo partito sciolto nell'ectoplasma Pdl. E Bersani a sua volta è la vittima del fallimento di Veltroni. Ma è difficile per entrambi tirarsi su aggrappandosi al proprio codino come il barone di Münchausen. Se sbagli il varo della nave poi è difficile governarla. Non so con quali strumenti Bersani potrà rimediare al disastro.

Quale è il vizio congenito del Pd?

La fusione fredda è fallita. È un partito che si è costruito su retoriche mediatiche e ha cancellato tutte le culture politiche da cui nasceva perché le riteneva un ostacolo all'assemblaggio finale. Gli resta una struttura economica - le cooperative - e tante amministrazioni locali.

Quei sindaci-cacicchi con cui carsicamente non manca la tensione.

Senza una cultura politica condivisa è difficilissimo regolare il rapporto tra centro e periferia.

Disegni un panorama parlamentare devastato. E fuori dalle camere?

Vedo un paese politicamente arreso e moralmente anestetizzato in ampie componenti. Un paese che sta in piedi per una rete ancora fitta di persone perbene, serie, che concentrano le energie sulla propria professione - insegnante, giudice, medico, libero professionista, lavoratore... L'Italia sta in piedi grazie a chi si sforza di far funzionare ospedali e scuole, i servizi pubblici, chi fa bene il proprio lavoro. Insegnanti e giovani che ci credono ancora, magistrati che non si arrendono di fronte al potere, chi guida un treno o un tram e cerca di farlo andare nonostante le porcherie a cui assiste. Intendiamoci, ci sono anche molti sindaci e assessori che credono ancora in qualcosa anche se sono soli, non più sostenuti dai loro partiti. Conosco centinaia di iniziative locali contro l'impoverimento dovuto alla crisi. Fatte da soli, senza i partiti, con il volontariato. E non ho incontrato una sola di queste persone perbene, di destra o di sinistra, che accetti quello che sta facendo Berlusconi. Nessuno che accetti che un uomo così sia chiamato a ridisegnare il quadro democratico.

Mi sembri troppo pessimista. Non c'è neanche un raggio di sole?

Lo «stato d'eccezione» un vantaggio ce l'ha: che chi non ci sta può riconoscersi facilmente. Che i diversi si vedono l'un l'altro. Serve una nuova classe dirigente perché quella attuale ha fallito. E se vogliamo un nuovo inizio da dove si può ripartire? Dall'autoselezione dei «ribelli».

E chi sarebbero questi «ribelli»?

È l'Italia che resiste. Gli operai che difendono il lavoro, i liberi professionisti che difendono la dignità, gli insegnanti che difendono un'idea di cultura, i politici che non ci stanno, i giornalisti che non si arrendono...

Però mi pare che il tuo discorso prescinda completamente dal declino di Berlusconi. Che non è affatto onnipotente, non solo per motivi anagrafici.

Distinguiamo Berlusconi dal berlusconismo. Il berlusconismo come stile di vita ha stravinto. Anche a sinistra. Ha colonizzato le anime al di là del suo bacino elettorale. È entrato nella testa di buona parte dei politici, che accettano uno stile di comunicazione orribilmente personalizzata. Accettano un sistema che ha distrutto la sfera pubblica cancellando la distinzione col privato. Che ha celebrato il trionfo della continua auto-contraddizione e affermato la relatività di ogni affermazione. La comunicazione collettiva è guasta. E tale rimarrà anche dopo Berlusconi. Se oggi per qualche miracolo giudiziario Berlusconi dovesse farsi da parte, il carattere liquido del nostro sistema politico non verrebbe superato, anzi, si frantumerebbe in tante direzioni diverse. In un quadro così polverizzato sarebbe da verificare chi avrebbe la forza di una nuova egemonia. Non la sinistra, sono quasi sicuro. Forse una destra mostruosa, o i territorialismi, o la chiesa. Certo, la persona Berlusconi è logora. Ma dopo l'incidente a piazza Duomo si sono tutti allineati al suo stile e si sono accomodati nella sua soap opera...

Veramente tutti tranne uno...

Di Pietro. Chapeau. Di questi tempi condivido tutto di Di Pietro. Perfino il suo italiano.

Ma perché?

Perché richiama alla realtà. Pronuncia parole legate a un mondo dotato di senso.

Anche quando è un senso, come dire, "carcerario"?

Anche il carcere fa parte della realtà. Piaccia o non piaccia. Di Pietro non è di sinistra. Però evoca una dimensione in cui le cose riacquistano un significato.

Ma non è una contraddizione con quello che dicevi all'inizio? Di Pietro è il leader mediatico di un partito molto virtuale che controlla in modo padronale, altro che Bersani o Berlusconi.

Però dentro quel sistema virtuale rompe la soap opera berlusconiana con alcuni dati di realtà. Per esempio dire in televisione che un'indagine di mafia è un fatto grave, soprattutto se è coinvolto un dirigente politico e istituzionale, è certo un gesto mediatico. Ma ripristina un tratto di realtà.

Le nefandezze di questo governo sono ben rappresentate dall'Ispra, acronimo di «Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale», cosa che all'Italia serve come il pane. Oggi è un mese che i lavoratori dell'Ispra stanno sui tetti dell'Istituto in via Casalotti a Roma. In sei mesi sono stati già licenziati 430 ricercatori e il prossimo anno altri rischiano di fare la stessa fine. Eppure molti sostengono che la «green economy» è la chiave per la crescita del prossimo futuro. Ma non è solo l'ignavia della ministra dell'ambiente a pesare. «Lo Stato ammazza la ricerca», sostiene uno slogan dei ricercatori dell'Ispra. Lo Stato è questo governo che non ha trovato un po' di milioni di euro - rispetto a una finanziaria da oltre 10 miliardi - per potenziare un istituto fondamentale per l'economia italiana.

La responsabilità maggiore è, ancora una volta, di Giulio Tremonti. Ieri il ministro dell'economia nella tradizionale conferenza di fine anno ha sostenuto che è sbagliato ironizzare sui 100 milioni destinati nella finanziaria per le micro misure. Spiegando: «che ci sia una quota minima destinata dai parlamentari ai loro territori è un elemento di democrazia». Insomma, con la finanziaria blindata e i voti di fiducia si difende la democrazia.

Per Tremonti «l'Italia ha dimostrato una forte tenuta nella crisi». Quale crisi? Quella che è stata negata per quasi un anno? Quella che ora sta apparentemente alle spalle? Quella che ha fatto crescere di 2 punti in dodici mesi il tasso di disoccupazione che seguiterà a crescere anche nel 2010 e nel 2011? La crisi che in due anni ha fatto precipitare il Pil italiano di quasi il 6%, peggio di tutti gli altri paesi industrializzati? Inutile rivolgere queste domande al ministro. Tremonti, invece, seguita a lodare il suo condono tombale per gli evasori che hanno portato soldi all'estero. Parole simili le aveva pronunciate nel 2002 quando aveva varato un condono simile (poi reiterato) con la promessa di lotta senza quartiere all'evasione fiscale. Ma perché non rendere noti i nomi degli evasori?

Ieri si è vantato perché 100 miliardi di Euro (quasi 200 mila miliardi di lire) sono rientrati dall'estero. Se non fossero mai usciti e se gli evasori ci avessero pagato le tasse, staremmo tutti meglio e, forse, gli onesti pagherebbero meno tasse. Che non piacciono a nessuno, ma c'è chi le può evadere e chi no. E Tremonti, sistematicamente, tifa per chi le tasse le ha evase e a favore di un Ponte, per la costruzione del quale nessun privato ha voluto metterci un euro. Tra pochi giorni entreranno in vigore i nuovi coefficienti pensionistici. Dal primo gennaio a chi va in pensione sarà pagata una rendita inferiore del 3-4 per cento a quella che avrebbero incassato prima. E con gli anni le pensioni diventeranno sempre più magre. L'età anagrafica cresce e il sistema pensionistico non è in grado di continuare a pagare le stesse prestazioni, è la giustificazione. La soluzione: lavorare di più. Giusto. Ma come si fa? La disoccupazione giovanile è esplosa e in una fase di crisi e ristrutturazioni violente (modello Termini Imerese) i lavoratori sono attaccati con i denti al loro lavoro, non vogliono mollarlo, vorrebbero evitare cassa integrazione e licenziamenti. E per farlo si arrampicano sui tetti. Ma il governo ignora e non ammazza solo la ricerca, ma la vita di milioni di persone.

Un po´ di populismo, a mio parere, affiora anche in paesi diversi dal nostro. Sono tramontate le ideologie, si sono indeboliti i partiti, e personaggi come Blair in Inghilterra, Sarkozy in Francia hanno raccolto i voti per la loro personalità piuttosto che per i loro programmi. Per le sue doti personali Barack Obama, un afro-americano privo di un retroterra politico o sociale, è diventato presidente degli Stati Uniti. La straordinaria carriera di Silvio Berlusconi nella vita pubblica, senza un partito vero e proprio alle spalle, non è pertanto un fenomeno unico al mondo.

È vero, tuttavia, che ogni paese foggia il populismo (se così vogliamo chiamarlo) a modo suo, e noi stiamo vivendo da ormai quindici anni un populismo all´italiana. Un leader come Berlusconi sarebbe inconcepibile in qualsiasi altra democrazia occidentale. Le sue frasi, il suo comportamento, le sue ostentazioni sono state descritte tante volte in articoli e libri, in Italia e fuori, e si è attribuita la grande ostilità che ha suscitato in metà del paese alle cause più disparate: si è tirata in ballo, scioccamente, un´invidia atavica degli italiani verso i ricchi, o l´insofferenza, attribuita al retaggio comunista, verso le regole liberali, che prevedono l´alternanza al governo di destra e sinistra. Alexander Stille, in un articolo pubblicato di recente in queste pagine, è stato l´ultimo, in ordine di tempo, a dimostrare che il comportamento e il linguaggio di Berlusconi, oltre al suo passato e alla sua spregiudicatezza, hanno contribuito a radicalizzare la vita politica italiana. Quali che siano le cause della radicalizzazione, comunque, sono sempre più frequenti gli appelli a spegnere il fuoco, ad attenuare i toni. Tutto giusto: l´Italia ha bisogno di un governo che governi, e di un´opposizione costruttiva. Ma temo che gli appelli siano destinati a cadere nel vuoto.

C´è infatti un ostacolo insormontabile: la giustizia. Il populismo potrà anche essere, come io credo, una tendenza visibile in altri paesi occidentali; ma il protagonista del populismo all´italiana ha un passato burrascoso, e molti conti aperti con la giustizia. È proprio per difendersi dai processi, dalle "toghe rosse", dai "comunisti" delle procure che Silvio Berlusconi ha deciso quindici anni fa di fare politica. Adesso i giudici, sia pure a lento passo, col loro passo, avanzano inesorabili, e sempre più si avvicinano. Ormai incombono. La fuga dalla giustizia, dopo la cancellazione del lodo Alfano, è diventata pertanto l´ossessione di Berlusconi: gli impedisce di governare, sembra quasi che gli impedisca di ragionare. Non pensa ad altro. Per sciogliere il nodo c´è una sola strada: qualche legge ad personam, che metà del paese, se non più, giudicherebbe una grande ingiustizia, un´infamia. Singoli uomini politici di vocazione pragmatica potrebbero scendere a compromessi. Ma di fronte a nuovi abusi il paese più che mai sarebbe diviso in due; la turbolenza, invece di placarsi, sarebbe destinata a crescere.

Certo l´Italia ha bisogno di tranquillità, ha bisogno di un governo efficiente; di governanti che non siano distratti dalla guerra continua, in Parlamento e fuori. Gli appelli alla pacificazione fra un centro-destra che ha pieno diritto di governare fino al termine del suo mandato, e un´opposizione costruttiva, sono sacrosanti. Ma il ritorno a una vita politica normale sarebbe possibile, come hanno scritto negli ultimi tempi autorevoli giornali stranieri, solo se Berlusconi decidesse di uscire di scena.

Come Benedetto Croce, che nel ´48 invocava il suo celebre "Veni, creator spiritus" sull´assemblea convocata per scrivere la tavola delle leggi della Repubblica, così Giorgio Napolitano oggi sembra rievocare il ritorno di un impossibile «spirito costituente». Ma nelle parole del capo dello Stato c´è in realtà l´eco nostalgica per un tempo che non ritornerà.

È necessario auspicare che dall´aggressione al premier in Piazza Duomo possa nascere un «ripensamento collettivo». È giusto richiamare ancora una volta le forze politiche al senso di responsabilità e al «massimo di condivisione e di continuità nel tempo» che la gravità della fase economica e sociale richiederebbero. È doveroso appellarsi alle aspettative di quell´Italia sana che lavora e fatica, e all´esigenza di non lacerare quel «tessuto unitario» così solido e vitale.

È scontato, infine, rinnovare l´invito a fermare «la spirale di una crescente drammatizzazione delle tensioni tra le parti politiche e tra le istituzioni». Ma cosa può germogliare da tanta speranza, nel discorso pubblico italiano? Al di là della retorica sul "dialogo" e della polemica sull´"inciucio", maggioranza e opposizione parlano linguaggi incompatibili e alludono a scenari inconciliabili. Il presidente della Repubblica, da politico idealista ma realista, è il primo a rendersene conto, se si costringe ad ammettere che per le grandi riforme, economiche e politiche, non si vede «un clima propizio nella nostra vita pubblica». La ragione è più semplice di quello che la propaganda dominante vorrebbe far credere. Per il centrodestra, nella versione bellica di Berlusconi e a dispetto della sua fresca ispirazione "ghandiana", la parola "riforme" è una fantomatica esigenza collettiva che serve per vestire di qualche dignità una drammatica urgenza privata. Questo è l´assioma intorno al quale il presidente del Consiglio dispiega la sua geometrica potenza: una legge ad personam, che salvandolo dai processi pendenti, trasformi lo stato di diritto in "stato di eccezione". Tutto il resto, dall´elezione diretta del premier al Senato federale, viene dopo. Sono semplici corollari, utili alla sua biografia personale o alla sua geografia coalizionale. Se non c´è lo scudo processuale a breve per il suo capo, a prescindere dal tempo lungo delle modifiche per via costituzionale del Lodo Alfano e dell´immunità parlamentare, il Pdl non può concepire altre riforme di struttura. Per il centrosinistra, nella versione pragmatica di Bersani e a dispetto della controversa esegesi dell´intenzione dalemiana, si tratta di scegliere, molto semplicemente, se accedere o meno al "patto scellerato": fidarsi del Cavaliere, ingoiando la diciassettesima legge-vergogna per tentare uno sbocco all´eterna transizione italiana. Per ora il Pd sembra resistere al canto delle sireneberlusconiane. Dice no allo scambio nelle camere oscure, e opportunamente rilancia una sua agenda di riforme politiche, istituzionali e sociali nelle Camere parlamentari. E fa bene: le riforme appartengono al patrimonio genetico e culturale della sinistra italiana. Sono il suo dna storico e politico. Non bisogna aver paura di avere coraggio, come diceva Aldo Moro negli anni di confronto più serrato con Enrico Berlinguer. Napolitano tutte queste cose le sa, anche se non può dirle in chiaro. Ma da questa consapevolezza nasce il suo attuale pessimismo della ragione. Che lo costringe a tamponare per l´ennesima volta le forzature costituzionali di Berlusconi e le storture politiche della sua maggioranza. La farsa di un «governo che non può governare», e che invece in questi due anni, con la clava di ben 47 decreti legge, «ha esercitato intensamente i suoi poteri e non ha trovato alcun impedimento» finendo con l´umiliare il Parlamento. La leggenda di una giustizia che non funziona solo perché abitata da toghe rosse e pm politicizzati, mentre il giusto processo riformato nell´articolo 111 della Costituzione esigerebbe ben altri interventi a beneficio dei cittadini. Nel rispetto dell´«intangibile principio di autonomia e indipendenza della magistratura», ma anche di quel «senso del limite» che dovrebbe caratterizzare sempre i magistrati, chiamati a non esorbitare mai dai propri compiti e a non sentirsi mai investiti di «missioni improprie» (come forse è accaduto ad esempio in qualche passaggio del parere rilasciato dal Csm sul processo breve). Poi il romanzo del "presidenzialismo di fatto" e della sedicente "costituzione materiale" che ormai sopravanzerebbe la Costituzione formale: Napolitano, su questo, è stato netto come mai era stato, ripescando «l´illusione ottica» denunciata a suo tempo da Leopoldo Elia in quelli che scambiano «per mutamento costituzionale ogni modificazione del sistema politico», e aggiornandola con un esplicito riferimento alla modificazione della legge elettorale. E infine l´opera buffa del«complotto», tante volte messa in scena dal presidente del Consiglio e mai come stavolta sconfessata senza pietà dal presidente della Repubblica. Non c´è complotto possibile, di fronte a un governo che ha una maggioranza schiacciante. E persino di fronte alla tanto esecrata Costituzione, che per Berlusconi è un «ferrovecchio sovietico», mentre è il presidio più forte per le regole democratiche e per le istituzioni repubblicane. Quale può essere il terreno per «riforme condivise», in questo abisso di sensibilità politica e di cultura costituzionale? Oggi non c´è risposta. O meglio, ce ne sarebbe una sola, da non confondere con il conservatorismo costituzionale. Nel suo discorso alle alte cariche Napolitano vi accenna, quando parla di una «visione costituzionale» che dovrebbe accomunarci tutti e di un «gioco politico democratico» che andrebbe ancorato alla stabilità delle istituzioni. Nel suo "Intorno alla legge" Gustavo Zagrebelski è più esplicito, quando scrive di «volontà di Costituzione o il nulla». La Costituzione come "pactum societatis", presupposto per una convivenza civile, pacifica e costruttiva.

Se manca questo presupposto, si precipita nella kantiana "repubblica dei diavoli". La Costituzione diventa campo di battaglia e di sopraffazione. Non è forse questa la deriva italiana di questi ultimi anni?

Ho letto con molto interesse l’articolo del nostro collaboratore Alexander Stille (figlio di tanto padre) pubblicato venerdì scorso su Repubblica. Spiega perché chi si opponga alla politica del Pdl non può che concentrare le sue critiche su Silvio Berlusconi. Non è questione di distinguere la parola "nemico" dalla parola "avversario", la parola "odio" dalla parola "opposizione". Su queste differenze lessicali potremmo (inutilmente) discutere per pagine e pagine senza cavarne alcun risultato, come pure potremmo discutere sulla personalizzazione degli scontri politici in altri paesi.

Negli Stati Uniti per esempio lo scontro personalizzato è una prassi durissima e assolutamente normale. Basta ricordare (ed è appena un anno fa) la polemica senza esclusione di colpi tra Obama e Hillary Clinton durante le primarie, quella tra Gore e Bush nella corsa alla Casa Bianca, la campagna dei giornali che portò alle dimissioni di Nixon e Bill Clinton ad un passo dall’"impeachment" all’epoca dello scandalo Lewinsky.

Eppure in nessuno di quei casi i protagonisti avevano mai personalizzato su di sé il partito o la parte politica che rappresentavano come è avvenuto per Silvio Berlusconi.

Ma chi lo ha detto meglio di tutti e con maggiore attendibilità è stato Denis Verdini. Il suo non è un nome molto noto, eppure si tratta d’un personaggio di primissimo piano: è il segretario del Pdl, il numero uno dei tre coordinatori di quel partito e soprattutto il co-fondatore di Forza Italia.

Quando Berlusconi decise di scendere in campo nell’autunno del 1993, affidò la costruzione del partito ai due capi di Publitalia, la società che raccoglieva la pubblicità per il gruppo Fininvest, nelle persone di Dell’Utri e di Verdini. Il primo è da tempo distratto da altri affanni; Verdini è invece nel pieno del suo impegno politico.

Nell’articolo pubblicato dal Giornale il 18 dicembre Verdini elenca gli obiettivi che il Pdl si propone di realizzare nei prossimi mesi e descrive come meglio non si potrebbe il ruolo di Berlusconi. «Lui ha costruito la figura del leader moderno – scrive Verdini – anzi ha costruito la leadership come istituzione. Per affrontarlo anche gli altri partiti dovranno affidarsi ad una leadership e se non riusciranno a farlo saranno sempre sconfitti. Ma anche i "media" non potranno esimersi dal concentrare sul leader la loro attenzione se vorranno cogliere il vero significato di quanto accade».

Segue l’elenco degli obiettivi: smontare la Costituzione e adeguarla alla Costituzione materiale; cambiare il sistema di elezione del Csm e quello della Corte costituzionale; riformare la giustizia separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei giudicanti; concentrare nella figura del premier tutti i poteri dell’Esecutivo e sancire che tutti gli altri poteri siano tenuti a collaborare lealmente con lui perché lui solo è l’eletto del popolo e quindi investito della sovranità che dal popolo emana.

Quest’articolo è infinitamente più preoccupante delle esagitate denunce e liste di proscrizione lanciate da Cicchitto in Parlamento, da Feltri e da Belpietro sui loro giornali e dai vari "pasdaran" del berlusconismo di assalto. Verdini l’ha scritto il 18 dicembre quando già Berlusconi era tornato ad Arcore ed aveva avviato la politica del dialogo con l’opposizione. Esso contiene dunque con lodevole chiarezza le condizioni di quel dialogo, con l’ovvio preliminare che essi comportano e cioè il salvacondotto in piena regola riguardante i processi del premier.

Da qui dunque bisogna partire, tutto il resto è pura chiacchiera.

* * *

I giornali di ieri hanno dato notevole risalto alla battuta di D’Alema sull’utilità ed anzi la necessità, in certi momenti della vita politica, di far ricorso agli "inciuci". La parola "inciucio" denomina un compromesso malandrino tra parti politiche avversarie, un compromesso sporco e seminascosto che contiene segrete pattuizioni e segreti benefici per i contraenti, nascosti al popolo-bue.

Per esemplificare la sua battuta sull’utilità dell’inciucio D’Alema ha citato la decisione di Togliatti di votare, nell’Assemblea costituente del 1947, per l’inclusione del Concordato nella Costituzione italiana. Ma l’esempio è stato scelto a sproposito: la costituzionalizzazione del Concordato tra lo Stato e la Chiesa non fu affatto un inciucio ma un trasparente atto politico con il quale il Pci, distinguendosi dal Partito socialista e dal Partito d’azione, dichiarò la sua contrarietà a mantenere viva una contrapposizione tra laici e cattolici.

Si può non concordare con quella posizione; del resto la sinistra ha sempre privilegiato le lotte sociali rispetto alle cosiddette libertà borghesi, iscrivendo tra queste anche la laicità che non fu mai un cavallo di battaglia del Pci. Si può non condividere ma, lo ripeto, l’inciucio è tutt’altra cosa e D’Alema lo sa benissimo.

Credo di sapere perché D’Alema ha scelto di usare quel termine così peggiorativo: vuole stupire, gli piace esser citato dai "media", è una civetteria di chi, essendo molto sicuro di sé, sfida e provoca e si diverte.

È fatto così Massimo D’Alema. I compromessi gli piace descriverli, teorizzarli, talvolta anche tentarne la realizzazione, annusarne il cattivo odore, sicuro che se gli riuscisse di farli sarebbe comunque lui a guidarli verso l’utilità generale perché lui è più bravo degli altri.

In realtà non è riuscito a metterne in pista nessuno. Ma la sua provocazione ha suscitato preoccupazioni nel suo partito e parecchie reazioni. Si è dovuto parlare di lui per l’ennesima volta. Sarà contento perché era appunto ciò che voleva.

I suoi contraddittori hanno deciso che bisognerà spostare il tiro sui problemi economici ai quali il governo ha dedicato pochissima attenzione. Sarà su di essi che si svolgerà il grande confronto tra la sinistra e la destra.

È vero, il governo non ha fatto nulla, la nostra "exit strategy" dalla crisi è del tutto inesistente e farà bene l’opposizione e il Pd a darsene carico, ma il centro dello scontro non sarà questo. Il centro dello scontro l’ha indicato Verdini, sarà sullo smantellamento della Costituzione. Sul passaggio dallo Stato di diritto allo Stato autoritario.

* * *

Berlusconi vuole il dialogo. Che cosa vuol dire dialogo? Lo spiega quasi ogni giorno sul Foglio Giuliano Ferrara. Lo spiegano gli editorialisti terzisti "ad adiuvandum": dialogo vuol dire mettersi d’accordo sul percorso da seguire e poi attuarlo con leale fedeltà a quanto pattuito. Insomma un disarmo. Unilaterale o bilaterale? Vediamo.

Berlusconi chiede: la legge sul legittimo impedimento come strumento-ponte che lo metta al riparo fino al lodo Alfano attuato con legge costituzionale; rottura immediata tra Pd e Di Pietro; riforme costituzionali e istituzionali secondo lo schema Verdini. In contropartita Berlusconi promette di parcheggiare su un binario morto la legge sul processo breve e di "riconoscere" il Pd come la sola forma di opposizione. Va aggiunto che Berlusconi non pretende che il Pd voti a favore della legge sul legittimo impedimento; vuole soltanto che essa non sia considerata dal Pd come un ostacolo all’accordo sulle riforme.

Vi sembra un disarmo bilaterale? Chiaramente non lo è. Chiaramente sarebbe un inciucio di pessimo odore.

In una Repubblica parlamentare il dialogo si svolge quotidianamente in Parlamento. Le forze politiche presentano progetti di legge, il governo presenta i propri, il Capo dello Stato vigila sulla loro costituzionalità, i presidenti delle Camere sulla ricevibilità di procedure ed emendamenti nonché sul calendario dei lavori badando che anche i progetti di legge formulati dall’opposizione approdino all’esame parlamentare.

Non si tratta dunque di un dialogo al riparo di occhi indiscreti ma d’un confronto aperto e pubblico, con tanto di verbalizzazione.

Quanto alla richiesta politica di rompere con Di Pietro, non può essere una condizione in vista di una legittimazione di cui il Pd non ha alcun bisogno e che la maggioranza non ha alcun titolo ad offrire. Come risponderebbe Berlusconi se Bersani gli chiedesse di rompere con la Lega? Che non è meno indigesta di Di Pietro ad un palato democraticamente sensibile ed anzi lo è ancora di più?

La conclusione non può dunque essere che l’appuntamento in Parlamento. Il punto sensibile è l’assalto alla Costituzione repubblicana. Ci sarà un referendum confermativo poiché sembra molto difficile una riforma condivisa. A meno che il premier non receda dai suoi propositi che, nella versione Verdini, sono decisamente eversivi. Uso questa parola non per odio verso chicchessia ma per amore verso lo Stato di diritto che è condizione preliminare della democrazia.

Siti Unesco, Venezia è solo quartultima

Italia Nostra: «Segnale preoccupante, troppi progetti distruttivi»

di Alberto Vitucci

Venezia è un sito Unesco «patrimonio dell’umanità». Ma iul suo territorio è conservato malissimo. Una bocciatura senza appello quella che arriva dalla classifica sui 94 siti più importanti del mondo stilata da National Geographic.

Venezia si piazza soltanto al quartultimo posto, con una valutazione di 46 su 100. peggio hanno fatto soltanto le Galapagos, Portobello (Panama) e la valle di Kathmandu (Nepal). Ai primi posti i fiordi norvegesi, e le città di Vezelay (Borgogna) e Granada (Andalusia). «Un segnale molto preoccupante», commenta in un comunicato la sezione veneziana di Italia Nostra, «rivolto soprattutto a coloro che perseguono per questa città progetti distruttivi. Il motto delle città prime classificate è infatti quello della sostenibilità e della lentezza. A Venezia c’è chi insegue ancora il mito della velocità con i progetti di sublagunare».

419 esperti da tutto il mondo in maniera assolutamente anonima hanno contribuito a stilare la classifica dei siti meglio conservati, a quarant’anni dalla loro denominazione. Duri i giudizi scritti da coloro che hanno visitato la città. «Il problema principale», dicono, «è l’invasione del turismo, che ha ormai cacciato gli abitanti e le forme di vita originarie».

«Quasi quasi», scrivono, «c’è da pentirsi di essere venuti per aver contribuito così alla sua invasione e al deterioramento». I siti Unesco del mondo, definiti «Patrimonio dell’Umanità» sono in tutto 830. 94 quelli più famosi, tra cui appunto Venezia, oggetto dell’ultima indagine. «Un giudizio che deve preoccupare», continua Italia Nostra, «e far riflettere chi ama veramente questa città. Un modello che per secoli il mondo ha ammirato, e che ora si sta avviando verso il declino inseguendo ritmi di vita che sembrano più moderni e redditizi». (a.v.)

Cacciari: «La sublagunare fino al Lido»

Il sindaco al convegno: «Solo i privati possono recuperare i palazzi»

di Silvia Zanardi

«Un collegamento veloce dall’aeroporto di Tessera al centro storico serve e va fatto. Se si pensa alla sublagunare, però, bisogna far sì che arrivi fino al Lido. Altrimenti, è un progetto che non ha senso». Al convegno sul turismo il sindaco Cacciari è stato chiaro: «Sarà compito della prossima amministrazione comunale pensarci. Ma, se arriveranno i fondi necessari alla realizzazione di quest’opera, non è pensabile che si fermi all’Arsenale, deve proseguire anche verso il Lido».

Se Venezia si sta portando avanti in tema di logistica (con il Passante di Mestre, i nuovi terminal a Tessera e al Porto, il People Mover, la riqualificazione di Piazzale Roma), per Cacciari è il Lido ad essere ancora in forte difficoltà. Ma bisogna puntare al rilancio: «I problemi di accesso vanno risolti e sveltiti al più presto - ha detto il sindaco - con investimenti pari ad 800 milioni si interverrà sulle aree dell’ex Ospedale al Mare e sulla riqualificazione alberghiera; verrà costruito un nuovo Palazzo del Cinema che sarà probabilmente il più grande centro congressi d’Italia. Il Lido è alla vigilia di una rivoluzione e il turismo deve prendere piede anche qui». E la rivoluzione non riguarderà solo il Lido ma anche Mestre. «Mestre non è un dormitorio, la gente ci deve andare anche perché c’è qualcosa da vedere» continua Cacciari.

«Sono state inaugurate tre nuove fondazioni: Vedova, Bru e Pinault - dice ancora il sindaco - Tre nuovi luoghi ricchi di cultura d’eccellenza, recuperati grazie all’impegno dei privati. Dicendo questo, mi rivolgo agli ultraconservatori stupidi che hanno sempre delle riserve, quando si tratta di recuperare e riadattare edifici di pregio. Nei palazzi non si possono fare case popolari, se non sono le fondazioni o i privati ad occuparsene, sono destinati a sparire».

Sulla metropolitana sublagunare e i suoi effetti andate alla cartella dedicata all'argomento, , e in particolare leggete l’articolo di Alberto Vitucci dell’agosto 2005 e il nostro commento.

Nelle prime ore della mattina di venerdì 18 dicembre qualcuno ha strappato via la targa di metallo con la scritta "Arbeit macht frei" che sovrastava l´ingresso del lager di Auschwitz. È stato un gesto deliberato, preparato accuratamente: solo questo è quel che sappiamo per ora.

Non conosciamo gli autori: ma sappiamo perché l´hanno fatto e come si chiama il loro delitto. Si tratta del furto non di un pezzo di metallo ma di un simbolo sacro alla memoria dell´umanità. È dunque un reato di lesa memoria umana quello che è stato consumato.

Qualcuno forse si chiederà perché quel simbolo non fosse sorvegliato, perché non ci fosse una polizia speciale a impedire l’azione criminale. Ebbene noi non crediamo che si debba proteggere a forza quel simbolo: è l’umanità intera che deve sapere quale soglia altissima di rispetto e di tutela debba alzarsi nella mente di tutti davanti a quel pezzo di metallo. È da lì che deve emanare una forza capace di tenere lontana ogni volontà aggressiva. Come la biblica Arca dell’Alleanza che si tutelava da sola folgorando l’incauto che allungava la mano per sostenerla, la scritta di Auschwitz deve bruciare gli infami che hanno consumato il sacrilegio. La scritta "Arbeit mach frei" significa Auschwitz, Auschwitz significa la Shoah: e queste sono le colonne d’Ercole oltre le quali l’umanità intera è entrata in una nuova storia, ha scoperto il paesaggio devastato del mondo nuovo, ha saputo che Dio era morto. A chi voleva continuare a vivere in un mondo dove si respirava un’aria densa delle ceneri di milioni di morti, si impose un solo comandamento: ricordare. Uno solo: ma non fu facile accettarlo.

Nell’opera della ricostruzione, tra le macerie della guerra, i pochi testimoni sopravvissuti alla Shoah incontrarono enormi difficoltà a farsi ascoltare. Il processo lungo e difficile attraverso il quale quella storia è stata non spiegata, non compresa – impossibile comprendere, impossibile spiegare – ma almeno raccontata per ricomposizione di indizi e dati statistici è sufficiente a mostrare la difficoltà di ricordare ma anche l’assoluta necessità della memoria. È un dovere intollerabile e inevitabile. Che sia intollerabile lo sappiamo bene. L’asportazione della scritta di Auschwitz lo dimostra. Molti sono i percorsi battuti per raggiungere lo stesso effetto: aggiustando l’arredo del campo, inserendovi simboli e presenze religiose istituzionali, mettendo via via a rischio la desolazione di uno spazio che la presenza immateriale di milioni di vite cancellate ha reso l’unico vero spazio sacro della storia umana dopo la cesura irrecuperabile tra passato e futuro che si chiama Shoah.

Perdita di memoria: è questo che si vuole ottenere. Lo tentarono gli aguzzini che cancellarono coi forni crematori l’esistenza delle vittime e si preoccuparono di nascondere le tracce di quel che avevano fatto. Lo hanno tentato poi in vario modo gli avamposti dei narratori accademici della storia con le loro faticose elaborazioni sul "passato che non passa". Erano solo le avanguardie di un’umanità che voleva inghiottire a ogni costo quel groppo intollerabile. E tuttavia da allora una legge non scritta, incisa nei cuori, ci dice che c’è un solo dovere, una sola legge obbligatoria per chi vuole continuare a vivere nel mondo che ha conosciuto la Shoah: ricordare.

È per questo che ogni anno milioni di visitatori compiono un pellegrinaggio che è l’ultima sopravvivenza del sacro nella quale l’umanità tutta, senza distinzioni di culture o di religioni, è obbligata a riconoscersi: la visita ai lager nazisti, quella minuscola città sacra che occupa uno spazio immenso, quella vasta necropoli senza tombe di cui Auschwitz è la capitale. È da lì in poi che la storia del mondo è cambiata. Se è vero che ciò che ci costituisce come esseri umani è la memoria, è un fatto indiscutibile che solo lì è nato il legame di memoria che ha unificato la nostra specie. Al di sopra delle appartenenze nazionali e delle identità culturali e religiose, tutti sono obbligati a riconoscersi in quel simbolo e a guardare a quella scritta che oggi è stata rubata.

Noi tutti sappiamo che ricordare la Shoah, ricordare Auschwitz, è l’unico modo che ci rimane per metterci in guardia da noi stessi. Perciò quella scritta deve tornare al suo posto: è un reperto sacro. Né si dovrà sopportare che gli autori di questo crimine contro l’umanità restino impuniti. Il loro atto è un’offesa a milioni di morti, un delitto contro i viventi di oggi e di domani, un attentato al legame di memoria che ci unisce al passato e che vogliamo trasmettere al futuro.

Il prefetto Michele Lepri Gallerano è stato defenestrato senza tanti complimenti. Non è più il rappresentante del Governo in città. La nomina al suo posto della dottoressa Lamorgese, vice capo di Gabinetto del ministero dell’Interno, è avvenuta ieri mattina durante il consiglio dei Ministri. Michele Lepri Gallerano, arrivato il 10 di agosto, a Venezia è rimasto quattro mesi e sette giorni. Ieri i leghisti veneziani hanno brindato, perché chiesta la testa del Prefetto al loro ministro dell’Interno Roberto Maroni, puntuale la «cacciata» è arrivata. Lepri Gallerano, che sarebbe andato in pensione ad agosto, «paga» il fatto di non aver comunicato al ministro Maroni il trasferimento, la notte del 25 novembre, delle famiglie sinti di Mestre dal vecchio al nuovo campo. Durissimi i commenti dal centrosinistra. Il sindaco Cacciari: «Pazzesca vendetta politica».

Campo Sinti, la Lega dà lo sfratto al prefetto

Non avvisò il ministro Maroni del trasloco

di Carlo Mion

Michele Lepri Gallerano è stato defenestrato senza tanti complimenti calpestando la sua specchiata carriera prefettizia. Non è più il rappresentante del Governo in città. Al suo posto è stata nominata Luciana Lamorgese. Si tratta di una vendetta leghista.

La nomina della dottoressa Lamorgese, vice capo di Gabinetto del ministero dell’Interno, è avvenuta ieri mattina durante la riunione del consiglio dei Ministri. Michele Lepri Gallerano è stato nominato Commissario dello Stato alla Regione Sicilia. Arrivato il 10 di agosto, a Venezia è rimasto esattamente quattro mesi e sette giorni.

Ieri i leghisti veneziani hanno brindato, perchè chiesta la testa del Prefetto al loro ministro dell’Interno Roberto Maroni puntuale la «cacciata» è arrivata. Lepri Gallerano, che sarebbe andato in pensione ad agosto, «paga» il fatto di non aver comunicato al ministro Maroni il trasferimento, la notte del 25 novembre, delle famiglie sinti di Mestre dal vecchio al nuovo campo. Una dimenticanza imperdonabile nella forma, fanno sapere dagli ambienti del ministero. Di sicuro una svista che non ha consentito alla Lega locale di fare «caciara» durante il trasloco avvenuto di notte.

Francesca Zaccariotto, che con l’onorevole Corrado Callegari ha fatto di tutto per farla pagare al Prefetto colpevole di averle tolto il palcoscenico per la «caciara» attorno ai sinti, ieri ha dato una nuova spiegazione sul motivo della cacciata. «Se il Consiglio dei Ministri ha deciso il trasferimento dell’attuale prefetto Michele Lepri Gallerano, evidentemente sono state fatte tutte le valutazioni e le verifiche del caso. Mi sono fatta portavoce del ministro Maroni nella richiesta di ispezione al campo sinti di Mestre per verificare le modalità di passaggio dalla vecchia alla nuova struttura - spiega Zaccariotto - e non posso che prendere atto che la mia richiesta è rimasta inevasa». Quindi il ministro dell’Interno impartisce ordini al Prefetto attraverso il Presidente della Provincia. Un nuovo modo, «casereccio», di intendere la gestione del ministero dell’Interno. Del resto come pensano debba essere il ruolo, secondo i leghisti, del Prefetto appare chiaro anche dalle dichiarazioni di Alberto Mazzonetto: «Benvenuto alla dottoressa Lamorgese, primo Prefetto donna a Venezia. Con la sua sensibilità di sicuro saprà risolvere i problemi di ordine pubblico e di abusivismo che ci sono in centro storico e in terraferma». A pennello calzano le osservazioni del consigliere regionale dei Verdi Gianfrmco Bettin: «La rimozione del Prefetto per motivi biechi di mera vendetta politica, rappresenta un atto nello stile dei regimi autoritari», ha detto Bettin. «Come già i fascisti la nuova casta padana, vorace di poltrone, prepotente e intollerante, vuole dei podestà: al posto del federalismo vogliono i federali. Troveranno pane per i loro denti». Che la «cacciata» del prefetto sia un episodio pesante per la nostra provincia si misura anche dal fatto che sia l’Idv che l’onorevole Delia Murer presenteranno delle interrogazioni parlamentari. Di certo il nuovo Prefetto non troverà una situazione tranquilla.

Luciana Lamorgese, ha 56 anni ed è sposata con due figli. E’ nata a Potenza ed è Prefetto dal 2003. Ha svolto la sua carriera da Prefetto esclusivamente al ministero dell’Interno dove si è occupata del personale. Ma a quanto pare il ministro Maroni la ritiene all’altezza.

Cacciari durissimo:

«Pazzesca vendetta politica»

di Roberta De Rossi

Il siluramento del prefetto? Parla di «vendetta politica», di «assoluta assenza di senso dello stato» e di comportamento «da ducetti» il sindaco Massimo Cacciari, a margine della conferenza stampa sul Carnevale. «La Lega ha dato una dimostrazione pazzesca di vendetta politica»: «Un comportamento di assoluta assenza di senso dello stato e mancanza di rispetto per un leale servitore dello stato», attacca. Aggiungendo: «Non è possibile che persone che hanno responsabilità politiche si comportino come piccoli ducetti di partito, con un atteggiamento distruttivo verso le istituzioni».

Per essere ben sicuro di non essere travisato, Cacciari ha anche scritto di sua mano al computer un lungo comunicato per stigmatizzare la «rimozione» del prefetto Lepri Gallerani, al quale manifesta «tutta la mia stima e vicinanza», e «tutto il mio rammarico per non aver potuto fare più di quel che ho fatto per impedire una tale indecente decisione». Si tratta - ha scritto ancora Cacciari - di «un episodio di gravità eccezionale, sia per le modalità con cui avviene sia per i motivi che ne sono alla base».

«A Venezia da soli quattro mesi, il dottor Lepri Gallerano», ricostruisce Cacciari, «è stato rimosso per ragioni esclusivamente politiche, anzi per vendetta politica. In buona sostanza, al di là di ipocrite frasi fatte in burocratese, gli si imputa di non essere riuscito a impedire il trasloco della comunità Sinti di via Vallenari nel nuovo villaggio. Fatto doppiamente e gravemente sbagliato», trattandosi di un trasferimento che «non si poteva impedire ciò che era stato già riconosciuto atto legittimo non solo dalle sentenze del Tar, ma anche da quella del Consiglio di Stato». In secondo luogo, prosegue il sindaco, «il prefetto in nulla poteva interferire riguardo a una decisione che l’Amministrazione comunale era pienamente titolata e autorizzata ad assumere, specie dopo che l’Asl 12 aveva dichiarato del tutto inagibile il vecchio campo per gravissime carenze igienico-sanitarie e di fronte all’avanzare della stagione invernale». «Ora, non essendo riusciti a impedire tale trasloco per le vie che la legge e il diritto consentono», afferma Cacciari, «si vuole colpire, con quella che, ripeto, considero una volgare vendetta politica, un funzionario dello Stato di provata lealtà che non ha colpa alcuna»: «un pesante avvertimento a tutti coloro che non si inchinino prontamente ai voleri strumentali di una politica rozza, intollerante e, ancor prima e peggio, stupida».

Ma perché mai nel momento della più convinta solidarietà di tutti a Berlusconi, ed anche nel momento in cui, pur sollevati dal verificare che si è trattato dell´azione di uno squilibrato, tutti ci si è fatti carico del pericolo di effetti imitativi, del riemergere in frange psicologicamente instabili e socialmente frustrate di tentazioni alla violenza, che arrecherebbe danni gravissimi alla società italiana; perché, dunque, proprio in questo momento la pulsione alla violenza polemica ha prevalso ancora una volta? Perché l´amor di patria, la solidarietà repubblicana, il senso di responsabilità non hanno frenato la virulenza dell´assalto?

Eppure conviene riflettere freddamente anche su ciò, alla stregua di un test del profondo mutamento del paradigma politico italiano, esplicitamente definito e perfezionato nel discorso di Bonn, uno spartiacque ancora non pienamente avvertito, tra un «prima» e un «dopo», di cui, però, già s´intravede il profilo. Occorre, quindi, rileggere quel testo nei suoi propositi pratici e nei presupposti ideologici. Del resto anche le affermazioni del capo del Pdl a Milano, hanno rappresentato un post scriptum al dettato di Bonn e, dopo aver ribadita una concezione esplicitamente illiberale dei rapporti tra un leader eletto e tutti gli organi istituzionali di garanzia, è stata colmata una dimenticanza e messa sotto accusa, al pari della magistratura, del Consiglio Superiore e della Presidenza della Repubblica, la Tv pubblica, in quanto nasconderebbe al popolo le incrollabili verità berlusconiane, secondo quella esigenza di obbedienza pronta e rispettosa, propria dei mass-media dei regimi assoluti.

Il proclama di Bonn resta, quindi, una specie di Tavola dei Comandamenti, già espressi altre volte ma qui elevati a contro-sistema globale e coerente per il tempo prossimo, venturo. Come ha scritto Ezio Mauro («Repubblica» 11/12) «siamo entrati nello stato di eccezione: ed è la prima volta nella storia della nostra democrazia». E Scalfari constata: «Il quadro di compatibilità… possibile per sessant´anni fino a quando le diverse posizioni politiche si confrontavano in un quadro di valori e principi condivisi… è ormai andato in pezzi».

Al centro vi è l´avanzare di una ideologia che non considera più la riforma costituzionale, perno del disegno d´assieme, come una normale riforma tendente alla efficienza e all´aggiornamento della Carta al mutare dei tempi. In questo caso ogni riforma dell´ordinamento, concordata o meno da tutto lo schieramento, tesa, poniamo, all´adeguamento al federalismo e/o alla ridefinizione dei ruoli tra magistratura inquirente e giudicante o, addirittura, alla introduzione di un presidenzialismo alla francese o all´americana, ogni riforma, dicevamo, è accettabile. A condizione che essa resti ancorata a un sistema di compatibilità con la democrazia liberale, se non mira, dunque, ad eliminare e distruggere i valori ispiratori che preesistono alla stesura stessa della Carta. Questi valori poggiano su due principi: il voto popolare non deve degenerare in dittatura della maggioranza, il leader eletto non diviene, pertanto, detentore di un potere assoluto, il suo operato si svolge nell´ambito delle leggi, la giurisdizione esercitata dalla Magistratura resta indipendente e si applica egualmente al leader eletto e a tutti i cittadini, la libertà d´informazione seguita a svolgersi senza condizionamenti da parte dell´Esecutivo, quale che sia la maggioranza di cui goda.

Il secondo principio vige almeno dal XVIII secolo nei governi moderati, durante i quali le monarchie assolute maturarono in monarchie costituzionali. È venuto vieppiù declinandosi nel XIX e XX secolo negli Statuti e nelle Carte fondative degli Stati liberal democratici, in netta contrapposizione, anche teorica, con i regimi assoluti nazi-fascisti e comunisti. Questo principio, che nessuna riforma in uno stato liberal democratico può rimettere in discussione, si chiama equilibrio, distinzione e indipendenza tra i poteri istituzionali: il Parlamento, l´Esecutivo, l´Ordine giudiziario, la Corte suprema, che garantisce e certifica il rispetto della Costituzione, il Capo dello Stato, con poteri più o meno incisivi a seconda del sistema in atto, ma, comunque, garante simbolico e rispettato dell´unità nazionale, vigile custode del bilanciamento istituzionale.

Chi si pone fuori o, peggio, contro questo paradigma imprescindibile mira ad un cambio di regime. Orbene Berlusconi delegittimando il potere giudiziario, negando validità alle sentenze della Corte costituzionale, contestando le funzioni di equilibrio e di rappresentanza degli ultimi tre Presidenti della Repubblica e, soprattutto, affermando la sua primazia assoluta e operando per distruggere l´imperio della Legge in nome dell´unzione popolare diretta, espone un programma anti liberale, tipico dei populismi. Se avesse successo il punto d´arrivo vedrebbe l´instaurarsi di un potere personale a scapito di ogni altro potere di riequilibrio, controllo, giurisdizione. Non credo che sia l´ignoranza a suggerire a Berlusconi una delegittimazione della Corte in base al fatto che i suoi membri sarebbero in parte stati designati da presidenti della Repubblica di sinistra. Egli dovrebbe conoscere che la Corte suprema degli Stati Uniti, al cui modello si sono ispirate dal dopoguerra tutte le altre, è depositaria indiscussa e da nessuno mai contestata della corrispondenza di ogni legge federale alla Costituzione, pur se tutti i suoi 9 membri sono nominati a vita esclusivamente dagli inquilini che via via si succedono alla Casa Bianca, repubblicani o democratici che siano. Poiché queste cose Berlusconi le ha viste almeno al cinema, resta inquietante la domanda: «Quale suggello di fedeltà alla sua maggioranza pretende dai membri della Consulta?».

Lo stesso vale per la delegittimazione della magistratura ordinaria, compresa quella giudicante, composta, come ha ripetuto nella serata milanese, da «funzionari pubblici che stanno lì per concorso» e, dunque sarebbero tenuti ad adeguarsi alla volontà degli eletti dal popolo e del leader che ne impersona le virtù. In altre parole la funzione giurisdizionale non discende dall´indipendenza istituzionale dei giudici e dalla loro autonoma interpretazione delle leggi, ma dall´essere strumenti tecnici esecutivi di un potere derivante dall´unzione elettorale. Non è un caso se i supporter del pensiero berlusconiano si richiamino su questi punti (Consulta e Magistratura) a Palmiro Togliatti. Il pensiero teorico del capo del Pci si collocava, infatti, coerentemente, pur con i noti «correttivi all´italiana», in una concezione totalitaria e verticale dello Stato, sia pure a bassa intensità, (la «via italiana» alla «democrazia progressiva») con alla testa un ventaglio di partiti federati e egemonizzati a lungo termine da un partito guida, depositari della volontà del popolo, e dai quali discendevano una serie di «cinghie di trasmissione» gerarchicamente ordinate, incaricate di realizzarla, in una unica armonia d´operosi intenti. Il paradosso togliattiano non appare dunque nel richiamo dei berlusconiani così gratuito, quanto una voce dal sen sfuggita.

È bene anche ricordare a quanti, soprattutto i leghisti, ripetono a gran voce che, appartenendo la sovranità al popolo, una volta essa sia sancita dal voto, ciò renderebbe alla radice impossibile ogni vulnus della democrazia, che così storicamente non è. Il consenso delle maggioranze è necessario ma non bastevole. I regimi totalitari godettero per lungo tempo di un autentico consenso popolare di massa, cui non mancava la messa cantata d´accompagno di tanti intellettuali. Ma oggi dovremmo sapere che ciò che distingue i regimi non è solo il consenso, persino quello legittimo, ma i limiti istituzionali che esso incontra in un sistema di poteri costituzionali equilibrati e indipendenti. E soprattutto nel rispetto dei valori di libertà, che non uscire stravolti da una maggioranza che può durare a lungo ma è pur sempre di passaggio.

Servono due parole per rispondere all´onorevole Cicchitto, che scambiando l´aula di Montecitorio per un bivacco piduista si è permesso di accostare il nome di Repubblica a quello dell´aggressore di Berlusconi in piazza Duomo.

Il presidente Napolitano aveva appena invitato tutti, davanti alla gravità dell´episodio di Milano, a fermare la pericolosa esasperazione della polemica politica. E Berlusconi aveva ricevuto la solidarietà di amici e avversari - da Fini a Casini a Bersani, a Repubblica naturalmente - nella condanna senza riserve, da posizioni che sono e restano diverse, di un gesto folle e criminale.

Ieri Cicchitto si è incaricato di ripristinare immediatamente il clima di guerra, senza il quale l´anima più ideologica e rivoluzionaria (nel senso di Licio Gelli, non di Mussolini) della destra non riesce a sopravvivere e ad esprimersi. Per lui, la mano dell´aggressore di Berlusconi «è stata armata da una spietata campagna di odio, il cui obiettivo è il rovesciamento di un legittimo risultato elettorale». A condurre questa campagna secondo Cicchitto è il network dell´odio composto dal gruppo Repubblica-Espresso, dal Fatto, da Santoro, da Travaglio (definito in Parlamento «terrorista mediatico») dal partito di Di Pietro e dai pubblici ministeri che indagano su Berlusconi.

Poche ore dopo Cicchitto insieme con la Lega e con Tremonti è partito all´assalto del presidente della Camera Fini, che si era permesso di definire la scelta del governo di porre la fiducia sulla legge finanziaria certo legittima, ma «deprecabile» perché impedisce all´aula di esprimersi sulla manovra. Anche il ministro Bondi si è immediatamente accodato all´attacco pubblico a Fini.

Chi critica il governo, chi manifesta un´opinione non conforme, sui giornali, in Parlamento o in televisione, diventa un nemico del Paese, un avversario della sovranità popolare, un fomentatore d´odio, e arma fisicamente la mano degli aggressori.

Cicchitto invece è un uomo delle istituzioni. Non sa concepire una via repubblicana al berlusconismo, una declinazione costituzionale del potere, una fisiologia democratica del rapporto tra governo e contropoteri, che preveda un confronto anche duro con l´opposizione e con la stampa. Non conosce il concetto laico di pubblica opinione, solo la raffigurazione mistica del popolo che soppianta i cittadini, con la sacralità e il sacrilegio dei sentimenti contrapposti di amore e odio che prendono il posto del consenso e del dissenso, categorie politiche dell´Occidente, ma non dell´Italia berlusconiana.

A questo avvelenatore di pozzi, piccolo imprenditore dell´odio ideologico che attribuisce ad altri, dobbiamo soltanto ricordare quel che abbiamo scritto domenica sera, quando uno squilibrato ha colpito il presidente del Consiglio: nel discorso pubblico democratico la piena libertà di Berlusconi di dispiegare le sue politiche e le sue idee (che difendiamo senza riserve da ogni assalto violento) coincide con la nostra piena libertà di criticarlo. Lo abbiamo fatto davanti alle sue contraddizioni negli scandali estivi, davanti alle sue menzogne chiedendogliene conto ogni giorno, davanti agli attacchi al nostro giornale e ai grandi media stranieri, davanti agli insulti alla Consulta e al Quirinale, davanti al progetto di squilibrare la Costituzione sovraordinando il suo potere per liberarsi dagli istituti di garanzia. Cicchitto si rassicuri. Lo rifaremo, appena le forzature ripartiranno, com´è inevitabile visto che servono a sfuggire i giudici e la giustizia.

Chi scambia la critica per odio e il lavoro giornalistico per violenza è soltanto un irresponsabile antidemocratico, mimetizzato dietro la connivenza di chi tacendo acconsente. Chi poi vuole usare la debolezza momentanea di Berlusconi colpito al volto e la solidarietà repubblicana che è arrivata al leader per trarne un miserabile vantaggio politico, non merita nemmeno una risposta. Stringere la mano al Premier ferito è doveroso, condannare l´aggressione è obbligatorio, far passare le leggi ad personam è impossibile. Tutto qui. Le mozioni vanno distinte dalle emozioni. Il populismo non può pensare che uno choc emotivo centrifughi tutto, il diritto, la costituzionalità, i doveri dell´opposizione.

Se Cicchitto pensa che questo momento delicato della vita repubblicana possa imbavagliare Repubblica, annacquando il suo giornalismo, si sbaglia. Il Paese, soprattutto nei momenti di confusione, si serve facendo ognuno la sua parte. La nostra è quella di informare: soprattutto degli abusi del potere, nell´interesse dei cittadini.

Sono passati due giorni dall'aggressione a Silvio Berlusconi in piazza del Duomo e si può tentare di ragionare a mente fredda. Certo esprimere il dispiacere, e anche solidarietà, al presidente del Consiglio. Ma in fasi di tensione (e ci siamo per la crisi della democrazia e dell'economia) queste aggressioni sono nel conto. Quanti bravi sindacalisti sono stati presi a bullonate? Qualche critica dovrebbe, forse, farsi ai due servizi d'ordine, privato e pubblico, che avrebbero dovuto fermare in tempo l'aggressore. Scrivere che se lo è meritato o accusare «i mandanti morali» non ha senso. Ma è certo, già lo fanno, l'agglomerato che si fa chiamare «Popolo della libertà» speculerà al massimo sull'episodio e magari metterà la piccola riproduzione del Duomo di Milano sulla propria bandiera, già santificano la faccia insanguinata di Silvio.

Siamo in una difficile, pericolosa crisi politica e democratica e Berlusconi cerca di trarne il massimo profitto. Mettendo in difficoltà «certi politici del centro destra» (così titolava ieri il Giornale) e innanzitutto Fini, scatenandosi ancora di più nell'attacco all'opposizione contro la quale ha ripetuto per tre volte «vergogna, vergogna, vergogna».

Tentando sempre di ragionare a mente fredda, è chiaro che il Cavaliere (in difficoltà) ha guadagnato un punto con il colpo sferrato dal provvidenziale Tartaglia. Adesso promuovere una manifestazione di piazza contro Berlusconi è più difficile, ma non per questo si deve mollare. Bisogna costruire con pazienza una serie di iniziative in difesa della Costituzione, dei diritti dei lavoratori, dei disoccupati, dei giovani che vanno a scuola. Avendo per obiettivo immediato la fuoriuscita di Berlusconi da Palazzo Chigi per stroncare il suo tentativo non tanto di presidenzialismo (Obama deve tener conto del Congresso) ma di diventare il padrone assoluto di questo nostro paese.

Gridare e denunciare non basta (o serve a poco). Le forze che sono fuori del regno di Berlusconi (dove c'è un po' di maretta) debbono costruire una vera e positiva piattaforma di opposizione, un programma di governo. Non basta dire - ma occorre insistere nel dirlo - che Berlusconi liquida democrazia e Costituzione. Occorre produrre un programma, da discutere con i cittadini (anche con quelli che votano Berlusconi per puro disimpegno), che definisca obiettivi concreti per la ripresa della democrazia, dell'occupazione, della scuola. I partiti, che ancora ci sono, i sindacati, le cooperative, le associazioni politiche e culturali, alcune trasmissioni televisive (penso a «Report», «Anno Zero», «Ballarò») dovrebbero attivare la comunicazione tra loro. Costruire un fronte non solo di liberazione nazionale, ma di rinascita della Repubblica, finora soffocata e mortificata non solo da Berlusconi, ma anche, dalla moltiplicazione e prevalenza degli interessi di gruppo o di singoli su quello di noi tutti, della Repubblica. il manifesto, nella modestia delle sue forze, ma con la tenacia e la passione che lo anima (più o meno bene da quasi quarant'anni) si impegna a essere di questa partita.

p.s. Articolo 21 promuove una grande iniziativa nazionale unitaria a difesa della Costituzione. Siamo con Articolo 21.

Postilla

Anche noi

C’è un’anomalia al vertice istituzionale dello Stato. L’abbiamo scritto varie volte ed Ezio Mauro l’ha di nuovo precisato con chiarezza subito dopo il discorso di Silvio Berlusconi all’assemblea del Partito popolare europeo a Bonn. L’anomalia sta nel fatto che il presidente del Consiglio e capo del potere esecutivo disconosce l’autonomia del potere giudiziario; disconosce la legittimità degli organi di garanzia a cominciare dal Capo dello Stato e dalla Corte costituzionale e ritiene che il premier, votato dal popolo, detenga un potere sovraordinato rispetto a tutti gli altri.

Questa situazione – così ritiene il premier – esiste già nella Costituzione materiale, cioè nella prassi politica e nella convinzione dello spirito pubblico, ma non è stata ancora introdotta nella Costituzione scritta e ad essa si appoggiano i poteri di garanzia e la magistratura per contestare la Costituzione materiale. Bisogna dunque modificare la nostra Carta anzi, dice il premier, bisogna cambiarla adeguandola allo spirito pubblico. Lui si farà portatore di quel cambiamento, prima o poi. Quando lo giudicherà opportuno. A quel punto la situazione sarà pacificata, un nuovo equilibrio sarà stato raggiunto, il governo potrà lavorare in pace, i processi persecutori contro il presidente del Consiglio saranno celebrati solo quando il suo mandato sarà terminato e la sovranità della maggioranza sarà in questo modo tutelata.

L’anomalia ha notevoli dimensioni. Il fatto che Berlusconi l’abbia descritta e raccontata con parole sue in un congresso del Partito popolare europeo cui appartiene, denuncia di per sé la gravità di questa situazione, ma ancora di più questa gravità emerge dal fatto che non vi siano state contestazioni in quell’assemblea. L’Unione europea riconosce e fa propria una carta di diritti che vale per tutti gli Stati membri. Di questa carta i principi dello Stato di diritto e dell’indipendenza dei poteri costituzionali sono parte integrante. Sicché è molto preoccupante che uno dei principali esponenti del Partito popolare europeo, a chi gli chiedeva un commento sul discorso di Berlusconi, abbia risposto: è una questione interna alla politica italiana. Quando si tratta dei principi della costituzionalità europea non esistono questioni interne dei singoli Stati membri che possano sfuggire al vaglio degli organi dell’Unione. Credo che questo problema andrebbe formalmente sollevato dinanzi al Parlamento di Strasburgo e dinanzi al presidente del Consiglio dei ministri dell’Unione.

Per quanto riguarda il nostro "foro interno" per ora l’anomalia resta, ma verrà al pettine nei prossimi giorni sulla questione che più sta a cuore al premier, quella cioè della sua posizione giudiziaria rispetto ai tribunali della Repubblica. Lì avverrà il primo scontro. È ormai evidente che il metodo della "moral suasion", utilmente praticato dai nostri Capi di Stato nei confronti del governo fin dai tempi di Luigi Einaudi, non vale più. Esso è stato possibile per sessant’anni fino a quando le diverse posizioni politiche si confrontavano in un quadro di valori e principi condivisi; ma questo quadro di compatibilità è ormai andato in pezzi. Le varie istituzioni e i poteri dei quali ciascuna di esse ha la titolarità sono dunque l’uno in presenza degli altri senza più ammortizzatori di sorta. Gli angoli non sono più arrotondabili ma spigolosi. Il rischio è una prova di forza interamente istituzionale.

L’anomalia berlusconiana ci ha condotto a questo punto, a questo rischio, a questo pericolo. Molti pensavano che tutto si riducesse a problemi di galateo e di linguaggio. Non era così ed ora la dura sostanza è emersa in tutto il suo rilievo.

* * *

Abbiamo scritto più volte che l’anomalia populista è presente in modo particolare nello spirito pubblico del nostro paese. Ma non soltanto. La tentazione autoritaria è presente in molti altri luoghi. Autoritarismo e populismo spesso sono fusi insieme e costituiscono una miscela esplosiva, ma talvolta sono disgiunti. La vocazione al cesarismo a volte è alimentata dal conservatorismo di opinioni pubbliche sensibili agli interessi di classe e alla difesa di privilegi. Oppure dall’emergere di interessi nuovi che chiedono riconoscimento e rappresentanza.

Nella storia moderna la tentazione autoritaria è stata molto presente nell’Europa continentale, talvolta con modalità aberranti oppure con caratteristiche innovative. Ma ha innescato in ogni caso processi avventurosi, forieri di guerre e di rovine materiali e morali. I principi di libertà ne sono stati devastati.

Di solito quando ci si inoltra in questo tipo di analisi si rievoca l’esperienza del fascismo italiano. Esso avviò anche alcuni processi innovativi, ottenuti tuttavia con la perdita della libertà, con l’esasperazione demagogica del nazionalismo e con un generale impoverimento della società. Ma un altro esempio, con caratteristiche molto diverse, era già avvenuto in Europa un secolo prima e fu il bonapartismo. Andrebbe storicamente ripercorso il bonapartismo perché rappresenta una vicenda per molti aspetti eloquente di come si passa da una fase rivoluzionaria ad una fase moderata e poi ad una svolta autoritaria che aveva in grembo la fine del regime feudale, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, pagando però queste innovazioni con milioni di morti in un quindicennio di guerre continue e con la perdita della libertà.

Il generale Bonaparte rappresentava un’anomalia rispetto al regime moderato del Direttorio, nato sulle ceneri del Terrore robespierrista. La sua vocazione autoritaria non aveva nulla di populistico ma era appoggiata da un’opinione pubblica che voleva a tutti i costi una pacificazione. Napoleone fu visto come lo strumento di questa pacificazione e fu l’appoggio di quell’opinione pubblica che gli consentì un colpo di Stato che non costò neppure una vittima. Il 18 brumaio del 1799 suo fratello Luciano Bonaparte, presidente dell’assemblea dei Cinquecento, con l’appoggio del generale Murat, sciolse quell’assemblea con la scusa che essa era piena di giacobini e consegnò il potere a suo fratello Napoleone. Il seguito è noto.

Non abbiamo nulla di simile, non c’è un generale Bonaparte, non c’è un generale Murat, non ci sono fantasmi militareschi. Ma c’è un’opinione pubblica spaccata in due e una classe dirigente anch’essa spaccata in due. C’è una tentazione autoritaria. C’è una maggioranza conservatrice formata da piccoli e piccolissimi imprenditori e lavoratori autonomi che sperano di ricevere tutela e riconoscimento. E c’è un’ampia clientela articolata in potenti clientele locali, legate al potere e ai benefici che il potere è in grado di dispensare.

Questa è l’anomalia. La quale ha deciso di non esser più anomalia ma di rimodellare la Costituzione. Non riformandone alcuni aspetti ma cambiandone la sostanza. Non più equilibrio tra poteri e organi di garanzia, ma un solo potere sovraordinato rispetto agli altri. L’Esecutivo che si è impadronito, con la legge elettorale definita "porcata" dai suoi autori, del potere legislativo e si accinge ora a mettere la briglia al potere giudiziario e agli organi di garanzia.

Sì, bisogna rivisitarla la storia del 18 brumaio del 1799 perché c’è un aspetto che ci può riguardare molto da vicino. Del resto, anche il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 va riletto e meditato. Ci sono momenti storici nei quali l’assetto di uno Stato viene sconvolto e capovolto. Dopo nulla sarà più come prima. Nessuno si era reso conto di ciò che stava per accadere. Quando accadde era ormai troppo tardi per impedirlo.

Post Scriptum. La vicenda Spatuzza-Graviano ha dato luogo a qualche fraintendimento che è bene chiarire. A me Spatuzza non piace affatto e i Graviano meno ancora, ma la cronaca ha le sue regole che vanno rispettate. E perciò ricordiamo: Spatuzza ha dichiarato in processo di aver saputo dell’accordo con Berlusconi e Dell’Utri da Giuseppe Graviano. Il quale ha rifiutato di deporre e ha detto che parlerà solo quando sarà venuto il momento di parlare. Chi invece ha detto di non aver mai conosciuto Dell’Utri e tanto meno Berlusconi è il fratello Filippo Graviano, del quale Spatuzza non ha mai parlato. Questo dice la cronaca e non altro.

Opposizione debole - Potere senza confini - Carey, il managing editor di The Nation: il potere totalizzante di Berlusconi da noi sarebbe impossibile - Obama "ignora" perché non ha dialogo con la vostra opposizione, che è debole e non minaccia la tenuta del premier - Il sistema politico italiano è in crisi: c’è un signore che ha raccolto nelle sue mani un potere senza confini, usato per fini privati

NEW YORK - Svegliati, America. La corruzione? Le escort? «E pensare che basterebbe far parlare i fatti. Nessuna crociata: basterebbe che l’America sapesse. Basterebbe che i giornali americani dessero regolarmente notizia di tutte le accuse che gli vengono mosse e state sicuri che il Congresso e il Presidente esiterebbero a mostrarsi vicini a Berlusconi. Anzi». Anzi? «Quell’amicizia sbandierata in Italia, che l’America oggi ignora, imbarazzerebbe il Congresso. Imbarazzerebbe il Presidente. Qualcuno comincerebbe a porsi delle domande. E sarebbero bei problemi».

Roane Carey ne è convinto. «Questa storia è imbarazzante e disturbing, preoccupante, anche per noi americani». Carey è il managing editor di The Nation, il magazine di Katrina Vanden Heuvel che conta tra i suoi collaboratori Naomi Klein, Toni Morrison e Michael Moore, e che a questa "storia imbarazzante" ha dedicato, tra i primi negli Usa, inchieste e reportage. La scorsa settimana una corrispondenza di Frederika Randall sui "pillow talk" del premier (come gli anglosassoni definiscono le conversazioni intime di due partner sessuali) ha riacceso l’attenzione americana sul caso.

L’America si è dunque svegliata? Il caso Berlusconi è in prima pagina da Londra a Berlino. La vicenda-escort imbarazza l’opinone pubblica di mezzo mondo. E qui? Per Silvio ieri c’era l’amico Bush e oggi l’amico Obama.

«Distinguiamo. Chiaro che l’Italia è un alleato importante soprattutto per il supporto in Iraq e in Afghanistan. Finché non è un problema, Berlusconi è un alleato. Ma da qui a dire che è un amico...».

Raccontata da Roma è così: anche dopo il G8 il film è quello. Possibile che Obama non sappia?

«Ma non scherziamo. Obama sa: briefing giornalieri, consiglieri che lo informano. Obama sa. Ma può permettersi di ignorare per due motivi. Il primo: la pressione dell’opinione pubblica. Non c’è. L’America è distratta. La recessione si mangia tutto. Quel poco di esteri di cui si parla è sempre quello: l’Iraq, l’Iran. Per voi europei è diverso: un francese, un inglese, un tedesco sono interessati a quel che si coltiva nell’orto del vicino: potrebbe attecchire anche da lui».

E il secondo motivo?

«La mancanza di pressione e dialogo con la vostra opposizione. Non avete una sinistra forte e anche questo l’amministrazione Usa lo sa. Per Berlusconi nessuna minaccia politica vera. E per Obama, che pure è un presidente progressista, è un problema. Ma la vera questione resta la prima: la pressione dell’opinione pubblica e della stampa Usa».

Perché ne è così convinto?

«Il sistema politico italiano è in crisi. Attacchi alla libera stampa come succede solo in Iran e Nord Corea. Questa si chiama democrazia a rischio. Succede in Italia, Europa, Occidente. E non è una storia da raccontare?».

Insomma Berlusconi è un problema della democrazia e come tale non è solo una storia italiana: riguarda tutti.

«Ho provato a cercare un Berlusconi qui da noi. Non c’è. Michael Bloomberg? Sì, un imprenditore che si butta in politica. Un imprenditore dei media, pure. Ma seppure a New York siamo sempre a livello locale. E poi i casi non sono comparabili. In Italia c’è un signore che ha raccolto nelle sue mani il potere economico e il potere politico. Un potere senza confini, totalizzante. Lo usa per attaccare la stampa, per coprire le sue vicende private. No, qui sarebbe inconcepibile. Ripeto: nessuna crociata. Ma come può l’America continuare a tollerarlo lì da voi?».

L'incontro di questi giorni a Milano tra il Presidente Napolitano e i familiari delle vittime di Piazza Fontana è stato un momento simbolico, ma nel 40° anniversario della strage non possono bastare le commemorazioni. La strage di Piazza Fontana è imprescrittibile non solo sul piano giudiziario ma anche sul piano storico-culturale, perché è un evento che ha condizionato la storia del nostro Paese ed ora è possibile far avanzare i confini della verità ed arretrare quelli del «mistero» che in realtà già in buona parte non è tale. Dopo il processo di Catanzaro, giunto comunque alle soglie della verità, le indagini condotte a Milano negli anni '90 dall'Ufficio Istruzione hanno fatto fare un salto di qualità.

Si conosce molto della strategia e del meccanismo operativo dell'operazione che si è conclusa il 12 dicembre e anche se non sono state affermate responsabilità di singoli imputati, nelle stesse sentenze di assoluzione è scritto che non è ormai più dubbio che la paternità dell'ideazione e dell'esecuzione degli attentati risalga ai neofascisti veneti di Ordine Nuovo aiutati da ufficiali dei Servizi Segreti di allora.

Ma oggi è possibile andare oltre, nuovi spunti di indagine emergono dal lavoro di ricerca di Paolo Cucchiarelli che nel libro Il segreto di Piazza Fontana ha riportato tra l'altro la confessione quasi completa ricevuta da un neofascista romano e altri elementi nascono spontaneamente quasi per forza propria da nuovi testimoni che accettano di raccontare. È stata trovata grazie alla Procura di Brescia l'agenda del 1969 di Giovanni Ventura con le annotazioni che sembrano confermare post-mortem il racconto del pentito Carlo Digilio, ci sono le prime confessioni sugli attentati che hanno preceduto la strage come le due bombe alla Stazione Centrale di Milano dell'8/8/1969, sembra ormai chiaro quale esplosivo sia stato utilizzato.

E l'ex-capo del Sid, generale Maletti, da molti anni latitante in Sud-Africa, sembra disposto a riferire quanto sa pur di poter tornare, molto anziano com'è, in Italia. L'Ufficio Istruzione che, nell'isolamento e tra lo scetticismo aveva sviluppato le indagini negli anni '90 è un ufficio investigativo che da molti anni non esiste più.

C'è chi potrebbe raccogliere e completare oggi questo lavoro: gli uffici inquirenti milanesi che hanno dato con successo svolte ad indagini come quelle sull'omicidio Calabresi, sulle nuove Brigate Rosse, su Abu Omar. L'impegno e l'entusiasmo dimostrati in questi e in altri casi anche per Piazza Fontana possono portare a nuovi elementi di conoscenza di quanto avvenuto. Sarebbe un risarcimento per le vittime e la città che si è sentita tradita dalle istituzioni.

Le carte arrivate sembrano ancora in attesa ma la richiesta di riprendere le indagini presentata in luglio con decisione ed argomenti dal difensore dei familiari delle vittime, deve essere ascoltata.

Non farlo sarebbe una pagina negativa. Il nostro Palazzo di Giustizia, così vicino a Piazza Fontana, scriverebbe forse l'unica pagina bianca della sua storia giudiziaria, una storia di cui la città è stata sinora giustamente orgogliosa.

L’autore è il giudice di Milano che ha riaperto l'inchiesta su Piazza Fontana

Come se non bastassero tutti i lutti e i disastri: l’Italia è un paese dalla memoria corta e così malgrado le frane e le alluvioni, nel79% dei Comuni che hanno partecipato all’indagine di Legambiente e Protezione civile, «Ecosistema rischio 2009», c’è ancora chi vive in aeree a forte rischio idrogeologico. Nel 28%dei casi, poi ci sono interi quartieri mentre nel 54% fabbriche e industrie. In alcune zone, concentrate nel 20% dei comuni, ci addirittura strutture ricettive turistiche o «sensibili». Stiamo parlando di 5.581 comuni che ballano sull’incognita «tenuta» di fronte a piogge forti, di questi 1700 sono a rischio frana, 1.285 a rischio alluvione e 2.596 che le rischiano entrambe. «Il nostro territorio è reso ancora più fragile dall’abusivismo, dal disboscamento dei versanti e dall’urbanizzazione irrazionale - si legge nell’indagine di Legambiente e Protezione Civile -. Sono la Calabria, l’Umbria e la Valle D’Aosta le regioni con la più alta percentuale di comuni classificati a rischio (il 100%), subito seguite dalle Marche (99%) e dalla Toscana (98%)».

ITALIA INDIETRO TUTTA

Ad oggi soltanto il7%delle amministrazioni comunali ha delocalizzato le abitazioni dai luoghi a rischio, mentre soltanto nel 3% dei casi si è provveduto a spostare aziende e fabbriche. Quindici comuni su cento non si sono dotati di piani urbanistici che mettano paletti all’edificazione, a riprova del fatto che in una situazione così drammatica e in presenza di forti ritardi nel prevenire i disastri, l’impatto dei condoni edilizi emanati dai vari governi Berlusconi, sia stato devastante. «Le frane che hanno colpito inmaniera drammatica Ischia e Messina - dice Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente - sono l’ultima tragica testimonianza di quanto sia urgente invertire la tendenza nella gestione del territorio. La continua e intensa urbanizzazione lungo i corsi d’acqua e in prossimità di versanti fragili e instabili, fa si che il nostro Paese sia fortemente esposto ai rischi del dissesto idrogeologico». Desolante anche lo stato di manutenzione ordinaria dei corsi d’acqua. il 36% dei Comuni non se ne preoccupa. A questo si sommano intubazioni lungo torrenti e fiumare, discariche abusive e costruzioni negli alvei, «È necessario iniziare ad abbattere le costruzioni abusive e puntare decisamente sulla delocalizzazione delle strutture a rischio», ha sottolineato Cogliati Dezza. In questo senso il Piano casa approvato dal governo di certo non aiuta, «in molti casi peggiora la situazione accrescendo i rischi, perché può consentire nuove deroghe senza alcun rispetto per le regole della prevenzione del rischio idrogeologico».

VIRUS E CONDONI

L'abusivismo per Guido Bertolaso, capo della protezione civile. è «il virus che ha interessato il nostro Paese » e va bloccato. Come funziona è chiaro: «Oggi è una capanna, tra sei mesi un insediamento più permanente, tra 12mesi ci saranno i mattoni, tra 36 mesi sarà condonato, e dopo 10 anni ci ritroviamo con quello che è successo a Giampilieri». Ma, aggiunge, «alla natura non gliene frega niente della sanatoria. Se non si imposta una cultura della prevenzione potremmo anche stanziare grandi somme di denaro ma non otterremmo alcun risultato». Cita i due fiumi, il Tevere e l’Aniene, dove «ci sono circoli sportivi frequentati da politici, magistrati, e alti funzionari che non sembrano accorgersi di niente». Resta da chiedersi se le stesse osservazioni il sottosegretario Bertolaso le abbia fatte anche a Berlusconi, di fronte a condoni e Piano casa. L’unica buona notizia è che l’82% dei comuni possiede un piano di emergenza da mettere in atto in caso di frana e alluvione che nel 54% dei casi è stato aggiornato negli ultimi due anni.

Le città perdono forma. E diventa più difficile distinguerle dalla non-città. Al tempo stesso si costruisce a ritmi che, così vorticosi, in Italia non si vedevano dal dopoguerra. I due fenomeni sono connessi. Ma il problema è: come si comportano di fronte a queste vicende gli urbanisti, coloro i quali, per statuto culturale, sono addetti a capire quel che sta accadendo e semmai sarebbero tenuti anche a intervenire perché le trasformazioni non siano proprio tremende?

La parola crisi è la più frequente che si senta pronunciare quando due o più urbanisti si siedono al tavolo di un convegno. Qualcun altro, come Leonardo Benevolo, parla apertamente di "tracollo". Benevolo, classe 1923, è uno dei padri della disciplina, in Italia e non solo. Da più di trent’anni vive sopra Brescia, a Cellatica. Qui si rifugiò dopo aver abbandonato Roma e l´università e per seguire uno degli esperimenti più riusciti dell’urbanistica italiana fra anni Sessanta e Settanta, appunto, la pianificazione di Brescia. «Oggi in Italia l’urbanistica è un’attività screditata», spiega arrotando bene la erre, «considerata con fastidio, e preferibilmente accantonata. Nei programmi elettorali e nel comportamento delle istituzioni centrali questo capitolo è scomparso da tempo. Nelle amministrazioni periferiche, Regioni, Comuni e Province, ha un posto secondario, con uffici ridotti al minimo e disponibilità economiche precarie; nella vita privata dei cittadini italiani compare quasi solo come un ostacolo sgradito, da eludere o eliminare. Dovunque se ne parla malvolentieri, e il meno possibile».

Non è stato sempre così. «L’urbanistica era uno degli argomenti più popolari nel dibattito politico e culturale del dopoguerra e per alcuni decenni almeno. Basti rammentare le discussioni sul piano regolatore di Roma, negli anni Cinquanta». E oggi, invece? «Oggi gli atti urbanistici sono diventati enormi pacchi di carte, inconsultabili ed ermetici. La corrispondenza fra gli atti e le trasformazioni reali è difficile o impossibile da accertare. Governanti e governati, per motivi diversi, condividono il desiderio di trascurare, o far semplicemente a meno di questa disciplina. In questa vicenda io vedo un elemento paradossale». Quale? «Tutto questo avviene mentre per il paesaggio, per le modificazioni portate in esso dall´uomo, l´interesse è cresciuto e cresce anche nel nostro paese».

L’urbanistica arretra proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di essa. Grandi trasformazioni investono i paesaggi, sia quelli non costruiti che quelli urbani: ma quante di queste sono culturalmente sorvegliate, per non dire regolate, da chi per mestiere dovrebbe farlo? «Si costruisce per il mercato», è la risposta che dà Paolo Berdini, altra generazione rispetto a Benevolo, che insegna alla Facoltà di Ingegneria di Tor Vergata, a Roma. Berdini ha provato a mettere ordine fra i numeri che indicano, spesso in conflitto fra loro (da una parte cifre allarmistiche, da un’altra molto accomodanti), quanto suolo è stato consumato in Italia. Circa 10 milioni di stanze, fra il 1995 e il 2006, dice l’Istat. Che vuol dire, sommate ai capannoni industriali, ad altre iniziative produttive e alle infrastrutture, 750 mila ettari in un decennio, cioè quanto tutta l´Umbria e, ogni anno, quanto una città come Ravenna. Il problema è, sottolinea Berdini, che la popolazione italiana è cresciuta nello stesso periodo di 1 milione 900 mila abitanti, «quasi esclusivamente emigranti, persone cioè che, salvo eccezioni, non hanno la minima possibilità di accesso alle case che si costruiscono».

L’enorme quantità di palazzi non ha, insiste Berdini, alcuna corrispondenza con la domanda (nel frattempo, infatti, di edilizia popolare o comunque a prezzi contenuti se ne fa pochissima in Italia). E allora a che cosa è legata? «Evidentemente ad altri fattori, per esempio al fatto che il fiume di denaro virtuale creato dall’economia finanziaria doveva trovare luoghi in cui materializzarsi: le città e il territorio». Ma non doveva essere proprio l’urbanistica a regolare il modo in cui città e territori si davano assetti compatibili con lo spazio e con le persone che li abitano, senza lasciare che a decidere fossero solo le leggi del mercato, comprese quelle di un mercato impazzito, i cui sussulti fanno tremare quel paradiso - o inferno – dell’urbanistica globale che è Dubai?

Di fronte alla forza del mercato sembra si possa fare poco. «L’urbanistica moderna nasce in ambito liberale e anzi proprio di economia capitalista per affrontare un problema che il mercato, cioè la spontaneità dei meccanismi individuali, non riusciva ad affrontare». Edoardo Salzano parte da lontano, dal primo piano regolatore della storia, realizzato a Manhattan nel 1811, per spiegare la crisi di oggi. Ex assessore ed ex preside della Facoltà di Pianificazione a Venezia, dirige eddyburg.it, il più frequentato sito in materia di città e territorio, un pozzo di documenti, di interventi e di denunce provenienti dall’Italia e dall´estero. Dice Salzano: «L’urbanistica ha perso la sua dimensione collettiva, si adegua a una società appiattita sull´io e si piega ad aggiustare, a mitigare tecnologicamente le trasformazioni che avvengono sul territorio, senza cercare soluzioni alternative al pensiero dominante, che è poi quello sempre forte della speculazione edilizia». Ma le trasformazioni sono necessarie, ci sono sempre state... «È vero: ma di quali interventi ha bisogno oggi il nostro paese, di quartieri-dormitorio di lusso o di un piano di difesa del suolo?»

Passano sopra la testa degli urbanisti i Piani-casa - ampliamenti per mezzo milione di abitazioni (stima l’Associazione costruttori), demolizione e ricostruzione di 16 mila fabbricati - che ogni Regione ha approvato per conto proprio, spezzettando l´Italia come un vestito di Arlecchino. E poco c’entreranno gli urbanisti con la legge sugli stadi, chiamata così nonostante i campi di calcio occuperanno solo un’infinitesima parte di nuovi quartieri per migliaia di abitanti. Emblematica anche la ricostruzione dell’Aquila: venti insediamenti e un centro storico abbandonato a sé stesso senza un´idea complessiva di cosa potrebbe essere la città del futuro. «È solo attraverso la mediazione dell’urbanistica che la società costruisce il proprio spazio e gli conferisce la propria impronta», insiste Salzano.

L’urbanistica, si insegna all’università, è quella disciplina nella quale convergono saperi scientifici e umanistici, e che dopo un’indagine sulla realtà fisica e sociale di un territorio, pianifica trasformazioni e conservazioni, misurando gli effetti in tempi lunghi e in spazi vasti, e mediando fra gli interessi generali - i bisogni di chi quel territorio abita - e quelli dei privati, in particolare dei proprietari dei suoli. L’urbanistica, poi, offre soluzioni alla politica. Ed è qui un altro nodo che, secondo molti, si è aggrovigliato sempre di più fino a formare una matassa inestricabile. Se l’urbanistica è in crisi, la politica lo è di più.

I Comuni finanziano gran parte del proprio bilancio con gli oneri di urbanizzazione, i soldi incassati rilasciando concessioni edilizie. Sono deboli di fronte al proprietario di un suolo che chiede di poter costruire, anche se le case che sorgeranno servono soprattutto ad accrescere la sua rendita. E gli urbanisti sono spesso schiacciati in questo meccanismo. «In molti di loro», racconta una non urbanista, Paola Bonora, geografa dell’Università di Bologna, curatrice con Pier Luigi Cervellati di Per una nuova urbanità (Diabasis, pagg. 213, euro 21), «prevale un senso di disincanto malizioso e compiaciuto. L’espansione edilizia viene descritta con rassegnazione e disinteresse: ma raramente le mille etichette per raccontare ciò che accade si accompagnano a una seria denuncia degli effetti devastanti del consumo di suolo e a una coerente proposta politica. Nelle facoltà di Architettura c’è un ritorno alla tecnica e poca attenzione ai contesti territoriali in cui calano gli interventi. Da tempo ci si è invaghiti della crescita illimitata: e l’ubriacatura continua».

Ieri è finita la lunga transizione italiana. Siamo entrati nello stato d´eccezione: ed è la prima volta, nella storia della nostra democrazia. Si apre una fase delicata e inedita, che chiude la seconda Repubblica su una prova di forza che non ha precedenti, e non riguarda i partiti ma direttamente le istituzioni.

Silvio Berlusconi ha scelto una sede internazionale, il Congresso a Bonn del Partito Popolare Europeo, per attaccare la Costituzione italiana (annunciando l´intenzione di cambiarla) e per denunciare due organi supremi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, accusandoli di essere strumenti politici di parte, al servizio del «partito dei giudici della sinistra» che avrebbe «scatenato la caccia» contro il premier.

Il Presidente della Camera Fini ha voluto e saputo rispondere immediatamente a questo sfregio del sistema istituzionale italiano, ricordando a Berlusconi che la Costituzione fissa «forme e limiti» per l´esercizio della sovranità popolare, e lo ha invitato a correggere una falsa rappresentazione di ciò che accade nel nostro Paese. Poco dopo, lo stesso Capo dello Stato ha dovuto esprimere «profondo rammarico e preoccupazione» per il «violento attacco» del Presidente del Consiglio a fondamentali istituzioni repubblicane volute dalla Costituzione. Siamo dunque giunti al punto. L´avventurismo subalterno del concerto giornalistico italiano aveva cercato per settimane di dissimulare la vera posta in gioco, nascondendo i mezzi e gli obiettivi del Cavaliere, fingendo che la repubblica fosse di fronte ad un passaggio ordinario e non straordinario, tentando addirittura di imprigionare il partito democratico nella ragnatela di una complicità gregaria a cui Bersani non ha mai nemmeno pensato.

Ora il progetto è dichiarato. Da oggi siamo un Paese in cui il Capo del governo va all´opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane, nelle quali non si riconosce, dichiarandole strumento di un complotto politico ai suoi danni, concordato con la magistratura. È una denuncia di alto tradimento dei doveri costituzionali, fatta dal Capo del governo in carica contro la Consulta e contro il Presidente della Repubblica. Qualcosa che non avevamo mai visto, e a cui non pensavamo di dover assistere, pur pronti a tutto in questo sciagurato quindicennio.

Tutto ciò accade per il sentimento da abusivo con cui il Primo Ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida. Lo domina un senso di alterità rispetto allo Stato, che pretende di comandare ma non sa rappresentare. Lo insegue il suo passato che gli presenta il conto di troppe disinvolture, di molti abusi, di qualche oscurità. Lo travolge la coscienza dell´avvitamento continuo della sua leadership politica, della maggioranza e del governo nell´ansia di un privilegio di salvaguardia da costruire comunque, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, trasformando il potere in abuso. La politica è cancellata: al suo posto entra in campo la forza, annunciata ieri virilmente dal palco internazionale dei popolari: «Dove si trova uno forte e duro, con le palle come Silvio Berlusconi?».

La sfida è lanciata. E si sostanzia in tre parole: stato d´eccezione. Carl Schmitt diceva che «è sovrano chi decide nello stato d´eccezione», perché invece di essere garante dell´ordinamento, lo crea proprio in quel passaggio supremo realizzando il diritto, e ottenendo obbedienza. Qui stiamo: e non si può più fingere di non vederlo. Berlusconi si chiama fuori dalla Costituzione («abbiamo una grande maggioranza, stiamo lavorando per cambiare questa situazione con la riforma costituzionale»), rende l´istituzione-governo avversaria delle istituzioni di garanzia, soprattutto crea nella materialità plateale del suo progetto un potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani, che si bilanciano tra di loro: la persona del Capo del governo, leader del popolo che lo sceglie nel voto e lo adora nei sondaggi, mentre gli trasferisce l´unzione suprema, permanente e inviolabile della sua sovranità.

Siamo dunque alla vigilia di una forzatura annunciata in cui lo stato d´eccezione deve sanzionare il privilegio di un uomo, non più uguale agli altri cittadini perché in lui si trasfigura la ragion di Stato della volontà generale, che lo scioglie dal diritto comune. Si statuisca dunque per legge che il diritto non vale per Silvio Berlusconi, che il principio costituzionale di legalità è sospeso davanti al principio mistico di legittimità, che la giustizia si arresta davanti al suo soglio. La teoria politica dà un nome alle cose: l´assolutismo è il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento di poteri concorrenti, l´autoritarismo è il potere che non specifica e non riconosce i suoi limiti, il bonapartismo è il potere che istituzionalizza il carisma, la dittatura è il comando esercitato fuori da un quadro normativo.

Avevamo avvertito da tempo che Berlusconi si preparava ad una soluzione definitiva del suo disordine politico-giudiziario-istituzionale. Come se dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolvibile, introiettala e costituzionalizzala; ne uscirai sfigurato ma pacificato, perché tutto a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza. I grandi camaleonti sono invece corsi in soccorso del premier, spiegando che non è così. Hanno ignorato l´ipotesi che pende davanti ai tribunali, e cioè che il premier possa aver commesso gravi reati prima di entrare in politica, e l´eventualità che come ogni cittadino debba renderne conto alla legge. Hanno innalzato la governabilità a principio supremo della democrazia, nella forma moderna della sovranità popolare da rispettare. Hanno così dato per scontato che il diritto e la legalità dovessero sospendersi per una sola persona: e sono passati ai suggerimenti affettuosi. Un nuovo lodo esclusivo. E intanto, nell´attesa, il processo breve. E magari, o insieme, il legittimo impedimento, possibilmente tombale. Qualsiasi misura va bene, purché raggiunga l´unico scopo: il salvacondotto, concepito non nell´interesse generale a cui i costituenti guardavano parlando di guarentigie e immunità, ma nell´esclusivo interesse del singolo. L´eccezione, appunto.

Ma una democrazia liberale si fonda sul voto e sul diritto, insieme. E il potere è legittimo, nello Stato moderno, quando poggia certo sul consenso, ma anche su una legge fondamentale che ne fissa natura, contorni, potestà e limiti. Il principio di sovranità va rispettato quanto e insieme al principio di legalità. Perché dovrebbe prevalere, arrestando il diritto davanti al potere, e non in virtù di una norma generale ma nella furia di una legge ad personam, che deve correre per arrivare allo scopo prima di una sentenza? Come non vedere in questo caso l´abuso del potere esecutivo, che usa il legislativo come scudo dal giudiziario? È interesse dello Stato, della comunità politica e dei cittadini che il premier legittimo governi: ma gli stessi soggetti hanno un uguale interesse all´accertamento della verità davanti ad un tribunale altrettanto legittimo, che formula un´ipotesi di reato. Forse qualcuno pensa che il Presidente del Consiglio non abbia i mezzi e i modi e la capacità per potersi difendere e far valere le sue ragioni in giudizio? E allora perché non lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche nel caso dell´uomo più potente d´Italia, ricongiungendo sovranità e legalità?

L´eccezione a cui siamo di fronte ha una posta in gioco molto alta, ormai. Qualcuno domani, messo fuori gioco da Napolitano e Fini, condannerà le parole di Berlusconi, ma ridurrà lo sfregio costituzionale del premier a una questione di toni, come se fosse un problema di galateo. Invece è un problema di equilibrio costituzionale, di forma stessa del sistema. Siamo davanti a un´istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente, perché Berlusconi di fatto minaccia elezioni-referendum su un cambio costituzionale tagliato su misura non solo sulla sua biografia, ma della sua anomalia.

Per questo, com´è chiaro a chi ha a cuore la costituzione e la repubblica, bisogna dire no allo stato d´eccezione. E bisogna aver fiducia nella forza della democrazia. Che non si lascerà deformare, nemmeno nell´Italia di oggi.

Al cuore dello stato

di Valentino Parlato

Siamo a una crisi istituzionale, dell'equilibrio tra i poteri costituzionali della Repubblica, come non ne ricordo. A questo punto mi viene da scrivere che siamo alla vigilia di un colpo di stato o al 25 luglio di Silvio Berlusconi (per i più giovani ricordo che il 25 luglio il Gran consiglio fascista liquidò Benito Mussolini). L'aggressività smodata del presidente del consiglio è sintomo della sua insicurezza e, quindi, della volontà di fare il colpo di stato, sferrare l'attacco finale. Vorrei ricordare che il 12 ottobre di quest'anno Il Giornale (la proprietà è nota) scriveva: «Se eleggessimo noi l'uomo al Quirinale?» L'annuncio della volontà di fare dell'Italia una repubblica presidenziale, non all'americana, ma piuttosto fascista.

Silvio Berlusconi ha scelto il congresso del Partito popolare europeo, a Bonn, per sferrare un attacco durissimo, e con la volgarità che si accoppia alla violenza, alla magistratura, alla Corte costituzionale e ai presidenti della Repubblica (gli ultimi tre, tutti di sinistra e tutti responsabili dei suoi guai). In sintesi l'attacco centrale è alla Costituzione che va violata, roba di un passato da rigettare. Mai un riferimento negativo al fascismo o, positivo, alla resistenza o anche alle potenze che sconfissero Hitler e Mussolini. Di conseguenza, il suo stato maggiore chiama a una grande manifestazione a Milano dei suoi sostenitori.

A Bonn non mi risulta che abbia avuto applausi, la Merkel si è tenuta al no comment. In Italia ci sono state le reazioni non solo di Di Pietro, ma anche di Fini che ha voluto ricordare a Berlusconi gli articoli 1, 134 e 136 della Costituzione che per Fini è ancora vigente. E, sempre Fini, si augura che «il premier trovi modo di precisare meglio il suo pensiero». Ma un Berlusconi che proclama, anche a Bonn, di «avere le palle» non rettifica. Sarebbe un suicidio. Anche il Quirinale (dove c'è il terzo presidente di sinistra) ha espresso «profondo rammarico e preoccupazione» per «il violento attacco» alla Costituzione. Bene, ma questo non mi sembra tempo di «rammarichi». Eloquente il silenzio (almeno fino a ieri sera) del presidente del Senato.

Ripeto, e temo di non sbagliare, siamo alla liquidazione della Costituzione e di tutti i poteri costituenti, compreso il Parlamento. Occorre produrre, d'urgenza una risposta proporzionata al pericolo. E, francamente Bersani, il segretario del maggiore partito di opposizione, non può limitarsi a dar ragione a Napolitano e dire che i popolari europei, sentendo Berlusconi si sono resi conto dei pericoli del populismo. Lui, Bersani e il suo partito, che fanno?

Oggi a Roma c'è una grande manifestazione sindacale, di lavoratori qualificati e importanti: pubblico impiego e istruzione: lo Stato e la cultura. Non possono fermarsi alle legittime e giuste rivendicazioni sindacali. Debbono andare oltre. In queste settimane è in gioco la democrazia, l'eguaglianza (almeno formale) tra i cittadini.

Tutti dobbiamo metterci in movimento: non possiamo attendere tranquilli la grande manifestazione di Milano per l'aspirante duce Silvio Berlusconi.

Rodotà: «Errore il dialogo Adesso va isolato»

intervista di Andrea Fabozzi

«Siamo al punto: dopo aver praticamente chiuso il parlamento, dopo aver ridotto il Consiglio dei ministri a un comitato di affari del presidente del Consiglio, ecco che Berlusconi annuncia la sospensione dei diritti costituzionali. Perché è questo il significato dell'attacco alle istituzioni di garanzia». Stefano Rodotà commenta con preoccupazione le parole di ieri di Silvio Berlusconi. E aggiunge: «Qualcuno mi aveva detto che ero stato eccessivo a scrivere che in Italia c'era il rischio dell'estinzione dello stato costituzionale di diritto ma è esattamente quello che sta succedendo. Nella cultura di Berlusconi non c'è la democrazia. È un padrone delle ferriere con l'attitudine a identificare l'interesse generale con il suo interesse personale».

L'interesse e la volontà generale, spiega Berlusconi, si è manifestato al momento del voto. Bisogna lasciarlo governare.

Il voto popolare non scioglie dall'osservanza dalle leggi. È un postulato elementare dello stato di diritto. Viceversa dobbiamo parlare di stato monarchico o assoluto che evidentemente è quello che ha in testa Berlusconi quando propone le riforme istituzionali. Dunque stiamo attenti. Per il cavaliere i poteri indipendenti non esistono. Sono automaticamente opposizione. Ossessivamente comunisti. E così la corte Costituzionale diventa un partito della sinistra ma Berlusconi neanche sa qual è la provenienza dei giudici costituzionali, se lo sapesse non parlerebbe così. Il discorso di ieri è chiarissimo: o si sta con chi ha vinto le elezioni ed è in testa nei sondaggi oppure si sta fuori. Ecco perché dice che è finita l'epoca della ipocrisia: è partito all'assalto delle istituzioni d garanzia.

Lei vede un salto di qualità in questi attacchi? Siamo al punto di non ritorno?

C'è un effetto reiterazione, questo è innegabile. Gli attacchi ci sono già stati, giusto un anno fa Berlusconi lanciò il suo affondo contro il capo dello stato a proposito del decreto per Eluana Englaro. Questa da una parte è la conferma di un atteggiamento consolidato ma dall'altra è il segnale gravissimo di una escalation che non si vuole in nessun modo arrestare. E così ieri, dopo aver detto mille volte che non si deve denigrare il nostro paese, in una sede istituzionale all'estero ha denigrato le massime istituzioni di garanzia del paese, il presidente della Repubblica e la Consulta.

Ma quest'ultimo affondo lo ha travestito da difesa del parlamento. Lì si fanno le leggi - ha detto - e i giudici della Consulta si mettono di traverso.

La risposta è molto semplice. Giudicare le leggi è il mestiere della corte Costituzionale. Se non lo facesse tradirebbe la sua missione. Diciamo pure che la Consulta si muove sempre con grandissima prudenza e se stanno crescendo le sue occasioni di intervento è perché c'è un'escalation nel mettere da parte la Costituzione. Non è la Corte che va sopra le righe ma il parlamento che sta uscendo dal circuito costituzionale corretto.

Di fronte a una situazione del genere la Costituzione prevede qualche rimedio o garanzia?

No, non ce ne sono perché la Costituzione è stata scritta da persone che avevano la democrazia nel sangue. Mentre adesso assistiamo a un'estraneità totale alla dimensione costituzionale. Se Berlusconi avesse il minimo senso della legalità costituzionale non direbbe queste cose.

E dunque che fare?

In questo momento tutti coloro che hanno un qualsiasi ruolo all'interno delle istituzioni devono prendere una posizione esplicita e pubblica per misurare la distanza tra chi ritiene che le istituzioni siano questo e chi ancora crede che le istituzioni siano il cuore della democrazia. E soprattutto, lo dico senza mezzi termini, con Berlusconi che segue questa linea devastante di politica istituzionale non si può avere nessun dialogo. Serve un cordone sanitario, fino a oggi l'atteggiamento del cavaliere e dei suoi pasdaran è stato troppo sottovalutato. Pensi alla discussione che si fa ogni volta che viene presentata una nuova legge, è davvero un fatto inedito. La prima preoccupazione è: «Napolitano la firmerà?». E la seconda: «Supererà l'ostacolo della Consulta?». Non c'è prova migliore di quanto il riferimento alla Costituzione sia ormai fuori dalla logica parlamentare. La maggioranza è un gruppo politico che come il capo Berlusconi ha da tempo deciso di vivere ai margini della legalità costituzionale. Non parlo di un rischio, parlo di quello che è già avvenuto.

Nuovi modelli di gestione del territorio: l’”utopia concreta” del Laboratorio di progettazione ecologica del Politecnico di Milano. Da il manifesto, 10 dicembre 2009 (m.p.g.)

Alberto Ziparo

A ognuna delle sempre più frequenti catastrofi «naturali» che colpiscono il fragile territorio italiano, offeso quotidianamente nei suoi ecosistemi fondamentali, cresce la denuncia dell'insensata distruzione del Bel Paese.

Eppure quasi subito l'agenda politica e mediatica nazionale dimentica le varie Sarno, Scaletta di Messina, L'Aquila (a meno di farne set per i propri show televisivi) e continua a propinarci Grandi Opere, Megaeventi, Piani Casa - operazioni quasi sempre socialmente inutili e ecologicamente dannose, ma soprattutto insensate per i territori di riferimento, segnate cioè dalla perdita di quello che i geografi territorialisti chiamano senso del contesto, e oltre tutto spesso destinate a fallire dal punto di vista economico-finanziario, come è stato il caso, per esempio, delle Olimpiadi di Torino (o anche - uscendo dall'Italia ma restando nel tema delle Grandi Opere - dell'EuroTunnel).

Un'idea degli anni '60

Interpretare la bizzarria - o più propriamente l'assurdità - delle attuali politiche territoriali non è facile: anche le analisi legate alle ricadute del modello di sviluppo quantitativo e globalizzato non bastano più. Non si spiegherebbe infatti come mai si vogliano collegare territori le cui relazioni declinano, o perché in un paese come l'Italia, dove già esiste una ventina di milioni di stanze vuote, si discuta da quasi un anno di un Piano Casa Straordinario per realizzarne un altro milione. In realtà oggi non si costruisce né per il mercato sociale, né per il mercato libero, ma per alimentare, anche tramite la rendita edilizia e fondiaria, i meccanismi di quella finanziaria (acquisire immobili e tenerli vuoti, ma a prezzo e a valore alto, oppure prendere commesse per opere, che magari non si realizzano, ma costituiscono mezzi utili a tenere alto l'indicatore di mercato del titolo di riferimento).

Nonostante i continui ridimensionamenti e l'accattivante slogan di presentazione «Nutrire il Pianeta, produrre energia per la vita» (che sembra coniato da Al Gore per la campagna di Obama), anche l'Expo 2015 di Milano si caratterizza per la bigness delle opere legate alla manifestazione (padiglioni, alberghi, attrezzature, infrastrutture) che vanno ad alimentare - più che la Terra - le già gravi congestioni di cemento, di traffico, di rumore, di veleni, da cui è segnato e intossicato l'ambiente metropolitano milanese.

Con il volume Produrre e scambiare valore territoriale. Dalla città diffusa alla forma urbs et agri, da poco uscito per Alinea (pp. 270, euro 30), gli studiosi del Laboratorio di progettazione ecologica coordinati presso il Politecnico di Milano da Giorgio Ferraresi ricorda però come esistano - e siano praticabili - scenari alternativi all'insensato «modello Grandi Opere» e come, proprio nell'hinterland milanese, si stiano realizzando.

Gli studiosi, che fanno capo al programma territorialista di ricerca nazionale coordinato da Alberto Magnaghi, hanno realizzato il loro studio reinterpretando e arricchendo progetti e piani istituzionali, scientifici, sociali, prodotti negli anni scorsi per l'area meridionale - a prevalente vocazione agricola - del capoluogo lombardo. E lo scenario che prospettano per il Parco Agricolo Sud Milano di fatto «decostruisce e ricontestualizza» una idea che risale agli anni Sessanta, quando era in auge per le aree metropolitane «l'ideologia dei Piani Intercomunali» (i Pim) e il Parco Agricolo veniva considerato come lo strumento per bloccare «il declino del primario nella parte sud dell'area metropolitana».

Il ruolo delle fiumare

Oggi quell'idea viene riproposta con ambizioni che vanno oltre l'ambito della disciplina urbanistica e mirano a una innovata relazione tra agricoltura, territorio, ambiente e paesaggio. Lo scenario proposto dai territorialisti milanesi costituisce infatti la traduzione in termini compiuti e concreti del concetto di «sviluppo locale auto-sostenibile», proposto da Alberto Magnaghi. Non solo: quello che il Laboratorio propone è una «nuova estetica dell'abitare» nella quale dinamiche sociali e nuovi stili di vita si coniugano con regole territoriali riattualizzate - muovendo dai rapporti virtuosi che spesso nel passato si allacciavano nella comunità tra territorio ed economia, ambiente e società, allorché «ciascuna civiltà depositava sul territorio i suoi oggetti, ma sempre in coerenza, non in contrasto, con l'assetto ecologico e con il patrimonio culturale esistente». Un uso sapiente del territorio, di cui i paesaggi rurali conservano abbondanti tracce nei beni etnoantropologici dismessi appena qualche decennio fa.

Manlio Rossi Doria, antesignano di quei «pianificatori di contesto», cui appartengono i territorialisti, racconta per esempio del ruolo svolto dalle fiumare nei territori meridionali, «elementi di collegamento e cerniera tra l'osso e la polpa, i rilievi montani e le piane o le fasce costiere, su cui insistono comunità assai coese, sistemi dotati di forte organicità e coerenza interna, ad un tempo economici e ambientali, paesaggistici, sociali e territoriali». Oggi, all'uscita dalla modernità, il Parco Agricolo Sud Milano può giocare un ruolo analogo, fornendo a problemi drammaticamente attuali, nella disciplina come nella società, indicazioni utili per bloccare il consumo eccessivo di suolo, la proliferazione di costruzioni insensate, la distruzione dell'ambiente.

Ma il Laboratorio di progettazione ecologica (che oggi e domani al Politecnico di Milano organizza un seminario internazionale intitolato, come il volume, Produrre e scambiare valore territoriale) va oltre, e nello scenario del Parco agricolo «porta al governo, anzi all'autogoverno» i nuovi stili di vita, ipotizzando tra l'altro la nascita e lo sviluppo di inedite formazioni sociali attorno a valori e risorse presenti - possibili sponde solidali per «le moltitudini in dissolvenza nella società liquida». Con lo scenario di Parco Agricolo, spiega Ferraresi, «si avanza insomma una proposta di utopia concreta, e già operabile almeno su alcuni punti qualificanti e comunque radicata dentro esperienze sociali di cooperazione e su studi e progetti in corso, sebbene a Milano, non si sia ancora giunti, se non in casi isolati, a definire politiche pubbliche».

Filiere corte, ma flessibili

Nel proporre «il ruolo fondamentale del cibo, dei cicli ambientali e di una nuova agricoltura» per una pianificazione non settoriale, il lavoro del Laboratorio prova a rispondere al cruciale quesito su quale sia oggi il senso dell'uso del territorio. A differenza dei modelli immaginifici dettati da una «politica mediatica» che prevede la proliferazione di strutture quasi sempre inutili e dannose, gli studiosi del Politecnico propongono una funzione di valore territoriale, che ricomponga il paesaggio e sancisca un innovativo valore d'uso per lo spazio agricolo, non più legato (come era al tempo dei Pim) alla massimizzazione delle rese per la vendita, ma alla qualità della nuova domanda sociale - dalle richieste di consumatori ecologici, equi e collettivi (per esempio i gas, gruppi di acquisto solidale) alle esigenze di strutture particolari (negozi biologico/biodinamici o mercatini produttori/consumatori), alle «filiere corte» (cicli locali produzione-consumo).

Filiere, spiegano gli studiosi del gruppo di lavoro, che «si possono allargare, per favorire, per esempio, relazioni corto-lunghe socialmente virtuose, tra produzioni di qualità provenienti dai Sud e il consumo equo e solidale occidentale».

Se infatti il Parco è agricolo, lo scenario è ben più ampio, attraversa temi e discipline diverse e ridefinisce nell'ambito del territorio le relazioni «tra produzione, consumo, natura, cultura e società», in modo da fornire non solo un nuovo disegno, ma un senso forte del contesto per le comunità che abitano e abiteranno nell'area.

In questo modo si affronta una delle conseguenze più evidenti di una economia del territorio, qual è quella attuale, sempre più finanziaria e «virtuale», e alla produzione di bigness che la accompagna: lo stravolgimento delle intenzioni - anche le più intelligenti - delle recenti esperienze di governance urbana e territoriale, convinte di poter mediare tra grandi interessi e domanda del mercato e costrette a produrre spazi spesso piegati (e piagati) esclusivamente dai primi. Temi, questi, su cui si sofferma Pier Carlo Palermo nel recente volume I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo (Donzelli, pp. 188, euro 27 ).

Razionalità comunicativa

Più in generale, si tratta di assumere le difficoltà dei soggetti di governance e delle istituzioni politiche tout court, di fronte alle nuove questioni poste dalla crisi economica (alle quali si tende a rispondere riproponendo gli stessi meccanismi che l'hanno provocata - comprese le relazioni tra economia reale e finanziarizzazione) e ambientale (rispetto alla quale si avanzano soprattutto declaratorie). Su questo punto basta riprendere una posizione consolidata nel programma territorialista - ottimamente chiarita nel volume di Anna Marson, Archetipi di territorio (Alinea, pp. 286, euro 22) - che da tempo sottolinea come, per fruire di quei beni comuni che derivano dagli elementi fondamentali della nostra vita, sia necessario liberarsi una volta per tutte dalla «ubriacatura di mercato» che ha colpito fino a ieri anche vasti strati della sinistra.

Ma anche questo non basta, se non si coglie che, rispetto a simili problemi, l'innovazione, anche scientifica, può giungere solo da chi il territorio lo abita e lo «agisce», sia pure con la discontinuità dei «nomadi», quali oggi siamo un po' tutti. Come scrive Giorgio Ferraresi in Produrre e scambiare valore territoriale, «nascono nuove culture, un filone di pensiero e di modalità e finalità dell'azione radicalmente altro rispetto a quella ragione strumentale e alla sua potenza tecnologica che si è appropriata della modernità e che ha sottomesso o emarginato ogni altra forma di ragione e comportamento, nutrendo di sé il dominio dell'urbano e il degrado del territorio». In luogo di contesti che producono merci da vendere o spazio da privatizzare (e magari quotare in borsa), se ne propone una profonda, concreta, utilità virtuosa: «il porsi della questione ambientale nella trasformazione del territorio pone al centro i mondi di vita, la forma della razionalità comunicativa che li governa e la ricerca di senso del mondo e delle azioni. I suoi codici di azione e comportamento sono basati sulla cura dell'ambiente e nelle relazioni primarie e su esperienza, sapienza e responsabilità del vivere il presente quotidiano e il futuro, del generare».

Influenze anglosassoni

Lo scenario finale prefigurato dal lavoro del Laboratorio di progettazione ecologica oppone ai disagi e ai disastri della città diffusa una nuova figura di forma urbis et agri, che prende spunto anche dalla tradizione anglosassone del town and country planning e prospetta un paesaggio di qualità in un ambiente ricostituito. E soprattutto stili di vita legati a esperienze innovative che con le loro domande di un uso attento dei beni materiali o di cura dei luoghi, promettono una nuova qualità del vivere e dell'abitare. Nella coniugazione virtuosa e innovativa di territorio urbano e agricoltura, ambiente e cultura, paesaggio e società, ipotizzata dai territorialisti milanesi, lo slogan dell'Expo 2015, «Nutrire il Pianeta, produrre energia per la vita», svuotato di senso dalle scelte che l'operazione comporta, può ritrovare una valenza concreta.

Una pugnalata

di Valentino Parlato

Cari lettori e cari compagni, questo governo si conferma nemico di tutte le libertà. Il 3 di ottobre in piazza del Popolo, a Roma, c'è stata una grande e animata manifestazione per la libertà di stampa. La risposta dell'attuale governo ci ha messo poco ad arrivare. Con un mirato emendamento alla finanziaria ha reso incerta l'entità dei contributi diretti che vengono assegnati in favore delle cooperative di giornalisti e dei giornali di partito. Sarà così il governo a decidere ogni anno quanto dare ai giornali politici cooperativi e non profit. Viene negata ogni idea di autonomia di una parte importante dell'informazione italiana, e cancellate le condizioni della sua sopravvivenza. Una legge di sostegno all'informazione, nata già nel 1981 e consolidata negli anni, viene messa radicalmente in discussione da un emendamento alla finanziaria di cui nessuno ha potuto discutere. Si passa dalla legge uguale per tutti all'arbitrio di chi governa.

Pensando a questa risposta alla manifestazione del 3 ottobre per la libertà di stampa, dovremmo avere qualche preoccupazione, forse anche maggiore, per che cosa si prepara a rispondere il governo all'enorme manifestazione del 5 dicembre a piazza San Giovanni. Quella di ieri, coma ha scritto sull'Unità Vincenzo Vita «è una pugnalata alla schiena».

Con questa pugnalata molti giornali indipendenti, e il manifesto in particolare, sono stati condannati a morte in attesa di esecuzione. Abbiamo le settimane contate. Se vogliamo sopravvivere e continuare la lotta a Berlusconi e al berlusconismo imperante dobbiamo reagire. Noi del collettivo del manifesto facendo un giornale migliore e più efficace. Dobbiamo lavorare di più e meglio se non vogliamo che il Cavaliere possa aggiungere la testata del manifesto ai suoi, già numerosi, trofei. Ma anche voi, lettori e sostenitori, nuovi e antichi, dovete impegnarvi in questo scontro. Scrivendoci, criticandoci, dandoci suggerimenti, ma anche dandoci munizioni per resistere e combattere.

Innanzi tutto comprate tutti i giorni il giornale, preparatevi a comprare il numero speciale a 50 euro, che sarà in edicola il 17 dicembre prossimo, abbonatevi e fate abbonare, sottoscrivete. So che, forse esagero, ma se mille di voi ci mandassero mille euro ciascuno, farebbero un milione di euro e la sicurezza di altri mesi di combattimento.

Scrivete e fate scrivere. In questa nostra deteriorata Italia è ancora possibile combattere ed evitare una sconfitta definitiva che peserebbe non solo su di noi, ma anche sui nostri figli. Il berlusconismo - sono d'accordo con Alberto Asor Rosa - non ha pennacchi e camicie nere ma è peggio del fascismo. Prospetta una dittatura morbida e torbida, che produce un'epidemia di corruzione morale e intellettuale. Con le nostre poche, ma tenaci forze, resistiamo e pensiamo, progettiamo la controffensiva. Anche Berlusconi finirà con lo scoppiare. Ricordiamoci il «non mollare» di chi ha fatto cadere il fascismo.

La notte della stampa

di Roberto Natale*

Queste righe sono dedicate a chi ancora pensa che il 3 ottobre sia stato esagerato ritrovarsi in tanti in piazza del Popolo a difendere la libertà dell'informazione, perché «guarda quanti giornali trovi in edicola». Un bell'esempio di rispetto del pluralismo il governo lo ha dato in questi ultimi giorni con la Finanziaria: venerdì notte ha presentato a sorpresa alla Commissione Bilancio della Camera un emendamento con il quale ha anticipato di un anno la soppressione del cosiddetto "diritto soggettivo" per i giornali di partito, cooperativi e no profit a percepire i contributi diretti dello Stato. Dall'inizio dell'anno prossimo, avranno difficoltà estreme ad approvare i bilanci e a contrattare con le banche, molte testate - all'incirca cento - dei più diversi orientamenti: l'Unità e Il Secolo, la Padania e Europa, Liberazione e Avvenire, il manifesto e il quotidiano in lingua slovena Primorski Dnevnik, solo per citarne alcune. Voci non solo di partiti (veri, esistenti), ma di gruppi sociali e di minoranze linguistiche. Tremonti aveva già provato il taglio nel 2008, ma il Parlamento lo aveva indotto a fare retromarcia. Ora è tornato all'attacco, ed in Commissione non c'è stata alcuna possibilità di modifica del testo, che arriverà blindato in aula, a partire da domani.

Incivile il metodo, al quale ben si addice la presentazione notturna e quasi furtiva dell'emendamento: nessuna forma di interlocuzione con le rappresentanze di un'area editoriale che coinvolge 2000 giornalisti e 2500 poligrafici, nessuna traccia di quel coinvolgimento vantato dal sottosegretario Bonaiuti quando si era trattato di far approvare il regolamento per l'editoria. E incivile il contenuto: si riducono i fondi per i contributi diretti (che negli ultimi 4 anni sono già scesi da 240 milioni di euro a meno di 180) in maniera indiscriminata, senza distinguere fra giornali veri e testate allergiche all'edicola. Non c'è nemmeno la possibile nobiltà del rigore, di quel rigore che tanta parte dell'editoria cooperativa, di partito, no profit chiede da tempo, stufa di vedersi accomunata a esperienze finte al limite della truffa e di sentir spirare un'aria ostile che considera spreco clientelare ogni intervento pubblico. Nel quadro di una editoria già pesantemente segnata dal calo della pubblicità e delle copie vendute, questo intervento rischia di assestare a tante esperienze il colpo di grazia. Nell'Italia dei conflitti di interesse, degli editori che hanno troppe altre attività, degli squilibri clamorosi tra risorse per la tv e per la carta stampata, non accetteremo che l'unica riforma sia lo strangolamento delle voci non allineate alla logica del nostro anomalo mercato. Aspettiamo da un anno gli Stati Generali dell'editoria che il governo aveva annunciato sull'esempio della Francia. Lì sono stati realizzati in pochi mesi; qui, dopo l'annuncio, stiamo vedendo soltanto i tagli. No, non si può proprio tollerare. Contiamo che, nelle prossime settimane, lo capiscano anche i parlamentari, chiamati a decidere se il pluralismo sia ancora un valore.

* Presidente Fnsi

Carta straccia di governo

di Matteo Bartocci

Tagli all'editoria, Giulio Tremonti ci riprova. Per il ministro dell'Economia e il governo la parola pressoché unanime del parlamento a difesa del pluralismo dell'informazione è carta straccia.

L'ultima versione della finanziaria approdata di soppiatto in commissione bilancio alla camera venerdì sera, infatti, cancella con un tratto di penna il «diritto soggettivo» ai fondi pubblici per l'editoria dal 2010. Tutto il faticoso compromesso raggiunto nell'ultimo anno e mezzo tra forze politiche, governo, giornali di partito, di idee e no profit è di nuovo azzerato per un atto di imperio del ministro dell'Economia. L'articolo 53bis della manovra cancella la certezza del contributo pubblico stabilito dalla legge del 1981 e mette a rischio la sopravvivenza di 92 testate (tra cui il manifesto), che impiegano circa 2mila giornalisti (il 18% del totale, fonte audizione del sottosegretario Bonaiuti del 19 marzo 2009 alla commissione cultura della camera) e quasi 2.500 dipendenti tra poligrafici, tecnici, impiegati amministrativi. Con un indotto di collaborazioni occasionali valutabile in altre 20mila persone. Un taglio pesante nonostante il finanziamento del 2007 (erogato alla fine del 2008) non sia impossibile per le casse pubbliche: 178 milioni di euro. Un dato, va ricordato, in netto e costante calo negli ultimi anni anche per un minimo di «pulizia» nell'erogazione dei contributi pubblici.

L'imboscata di via XX settembre non è piaciuta al Pd ma nemmeno alla maggioranza, che fino a ieri mattina aveva presentato due sub-emendamenti soppressivi (uno firmato da Silvana Comaroli della Lega, l'altro dall'ex An Marcello De Angelis del Pdl). Emendamenti che se messi ai voti avrebbero certamente battuto il governo come sempre è accaduto negli ultimi anni (dal governo D'Alema in poi) quando il parlamento si è potuto esprimere sull'argomento. Così non è stato. Dopo l'intera notte di domenica a discutere, come un sol uomo la maggioranza ieri mattina ha dovuto ritirare le sue proposte di modifica. Un «serrate i ranghi totale» su cui si è speso perfino Gianni Letta in prima persona. Il «primo ministro ombra» è dovuto intervenire direttamente nei corridoi della commissione per sedare i deputati furiosi con Tremonti, assicurando che ai «problemi» dell'editoria si metterà mano con un altro provvedimento successivo, forse con l'immancabile «milleproroghe» di fine anno. Un ordine al di scuderia al quale non è estraneo nemmeno Gianfranco Fini, almeno per la parte ex An.

Il presidente della camera infatti non ha battuto ciglio sull'ennesima forzatura scelta dal governo, che ha presentato un testo senza discussioni approvato poi in 35 minuti. L'opposizione ha abbandonato i lavori per protesta e giura di ripresentare le modifiche più significative su famiglia, Abruzzo ed editoria in aula domani. Certo però che se dovesse arrivare il voto di fiducia su finanziaria e fondi per l'editoria calerebbe il sipario finale, visto che è da escludere un intervento del senato nel finale.

Una mannaia finanziaria ma anche politica. Da un lato l'oscurità sulla cifra dei contributi del 2010 (che lo stato eroga effettivamente solo nel 2011) impedirebbe alle imprese di chiudere i bilanci dell'anno prossimo. Dall'altro «un contributo pubblico alla stampa indipendente finisce di fatto nell'arbitrio del principe», spiega Lelio Grassucci di Mediacoop, l'associazione che raccoglie gli editori no profit e in cooperativa. Il governo deciderebbe ogni anno come e quanto dare.

Lo schiaffo di Tremonti però è diretto non solo al parlamento e al mondo dell'informazione ma anche ad alcuni avversari interni al governo e al Pdl. Innanzitutto al ministro delle attività produttive Claudio Scajola, che a luglio aveva ottenuto l'aumento della Robin Tax ai petrolieri per l'editoria e l'anticipo dei fondi previsti a discapito delle Poste, un ente centrale nella tremontiana Banca del sud. E al sottosegretario Paolo Bonaiuti che è delegato all'informazione e che dopo una trattativa complessa durata un anno aveva licenziato un regolamento di riforma che sarebbe entrato in vigore nel 2011. Azzerare tutto significa riportare di nuovo il timone del finanziamento pubblico nelle mani di via XX settembre.

Pd, il sindacato dei giornalisti e i giornali interessati non ci stanno. Già domani ci sarà una conferenza stampa della Fnsi alla camera per denunciare i pericoli dell'ennesimo cambio in corsa delle regole per un settore, l'informazione, sotto attacco su tanti piani, dalle querele del presidente del consiglio contro articoli sgraditi al mai risolto conflitto di interessi a regole «di mercato» che premiano sempre gli stessi a discapito di pluralismo e indipendenza richiesti da una democrazia compiuta.

E' passato un anno è di quei promessi «stati generali dell'editoria» che dovevano riformare il settore e fare pulizia in modo condiviso e trasparente non c'è traccia. Quello di Berlusconi non è il primo governo insofferente verso i giornali scomodi

Articoli di Mariagrazia Gerina, Pietro Spataro, Toni Jop, Maria Zegarelli

Rivoluzione viola, un milione per dire:

Berlusconi dimettiti

di Mariagrazia Gerina

C’è chi se l’è dipinto in faccia, chi ci scrive sopra la rabbia, chi la speranza. Chi lo sventola contro il cielo azzurro. E lo fa avanzare come una nuova bandiera, un desiderio di rivoluzione, per le vie di Roma, da piazza della Repubblica a piazza SanGiovanni. Quel colore viola, lasciato libero dai partiti in oltre sessant’anni di Repubblica. Che, nel linguaggio cromatico, sta tra cielo e terra, tra passione e intelligenza. E significa «metamorfosi, transizione, voglia di essere diversi». Nessuno l’aveva considerato fin qui. Se l’è preso il popolo del «no B. Day». E in un pomeriggio, dopo quindici anni di berlusconismo, antiberlusconismo, girotondi, lo ha fatto diventare «urlo, abbraccio, amore per questo paese », prova a prestargli le parole Roberto Vecchioni, «tutta la gamma dei sentimenti» che la politica è ancora in grado di suscitare. «Nessuna cupezza, nessuna aria di sconfitta», contempla la scena dal palco il grande vecchio del cinema italiano, Mario Monicelli. L’identikit più bello di quel popolo sceso in piazza a chiedere a Berlusconi di dimettersi, lo fa Francesca Grossi, da Massa Carrara, venuta a Roma con suo marito e con i suoi due bambini di 11 e 13 anni. «Siamo di sinistra, usiamo la democrazia con fiducia, non so ancora per quanto - dice -, ci diamo da fare persino nei consigli di classe, vogliamo far sentire la nostra voce, far sapere che siamo tanti, che c’è un’Italia che dà il benvenuto ai marocchini e tiene le porte aperte». E però, dice Francesca, sciarpa viola al collo: «Ci sentiamo poco rappresentati, il nostro essere presenti sventolando il colore viola di questa sinistra sguinzagliata cisembra l’unica forma di rappresentanza rimasta». Lo dice tutto d’un fiato, come si dicono le cose che stanno a cuore. Poi si ferma, guarda avanti. E si domanda: «Ci ascolteranno?».

L’altra Italia

Chissà. Ma mentre parla, alle sue spalle, prende corpo l’altra Italia scesa in piazza per essere «presente». L’Italia dell’antimafia e della Costituzione. «Abbassate le bandiere dei partiti», ripete almegafono unragazzo con i capelli biondi. Davanti a lui, un mare di agende rosse come quella del giudice Borsellino, portate in civile processione da ragazzi che quandoquell’agenda sparì erano appena bambini. Al posto delle bandiere, un gruppetto di signore sventola la Costituzione. «Bisogna ricominciare dalla base in questo paese». Su tutto giganteggiano le lettere cubitali di un verbo semplice, da rivolgere direttamente al premier, senza mediazioni: «Dimettiti». «Ridacci l’Ita- lia, vattene ad Hammamet». E poi: «Fuori la mafia dallo stato». «Caserta non è uguale a Cosentino». «Mangano e Dell’Utri a voi, i nostri eroi Falcone e Borsellino», scandisce il popolo «no B Day». Le stesse parole che il fratello Borsellino scandisce dal palco. Un intervento durissimo e applauditissimo. «A me delle escort non importa nulla, sono qui perché la mafia esca dallo stato, la presenza di Berlusconi e Schifani nelle istituzioni è un vilipendio».

«Dovevamo essere trecentomila, siamo più di un milione», esultano gli organizzatori. Una lezione per tutti i partiti, non solo per Berlusconi. Per l’Idv che corre a prendersi la prima fila. Per le tante bandiere rosse. E per il Pd che arriva in ordine sparso». «A cui ricorda che il Pd - dice Vecchioni - è un progetto vasto, nonsolo partitico». Il popolo del «No B Day» li ha votati un po’ tutti, con delusione e speranza. C’è persino chi incoraggia l’alternativa a destra: «Meno male che Gianfranco c’è». «Guarda se in piazza oggi ci sono io vuol dire che questo paese può cambiare davvero», dice Riccardo Fabbri, 38 anni, impiegato. «Io - spiega - ero l’italiano medio, miimportava solo del calcio, della tv e delle donne, poi però a vedere come hanno distrutto questo paese mi sono inc... anche io».

Tanti giovani, molti lavoratori

«Tiriamo l’Italia fuori dal fango»

di Pietro Spataro

Francesco ha 17 anni, Angelica 65. Davide è disoccupato, Manuela è precaria, Amedeoè piccolo imprenditore. Violetta e Ilaria sono studentesse, Valeria un’insegnante. Storie diverse che si incontrano in questo bellissimo corteo: si toccano, si mischiano, si danno forza stando insieme. Tante persone che hanno un tratto comune: vogliono un’altra Italia. Più giusta, più uguale, più libera, più democratica. Antiberlusconismo? Forse. Ma non basta a spiegare l’esplosione di gioia e di colori, i canti, gli slogan, le parole. Questa è gente che ha voglia di futuro. Di un futuro in cui nonci sia più Berlusconi. Già si definiscono il «popolo viola» e portano la freschezza e la velocità di un movimentonato sulwebche accetta la presenza, ingombrante, delle troppe bandiere di partito. Fanno pensare ai “girotondi”masono davvero un’altra cosa.

La meglio gioventù. Gioiosi ed esuberanti, inventano gli slogan migliori e sono dappertutto. Francesco Blaganò ha 17 anni, studente, è arrivato da Lamezia Terme. Tiene lo striscione che apre il corteo: “Berlusconi dimissioni”. Dice: «Il problema è questa Italia colpita al cuore dal malaffare. Non vogliamo arrenderci, ci siamo per smuovere le coscienze». Poco distante Davide, 20 anni, romano, si fa fotografare sotto la locandina di un film intitolato «L’intoccabile» il cui attore protagonista è Berlusconi. «Che faccio? Mi chiamano inoccupato. Sono qui perché mi dissocio e non solo per Berlusconimaper quello che ci sta dietro: le nubi chimiche, i veleni, la nostra vita rovinata». Arianna sventola una delle poche bandiere del Pd.Ha29 anni. E’ unpo’ arrabbiata. Spiega: «L’opposizione si fa in Parlamento ma anche in piazza. Noi siamo qui, speriamo che il Pd se ne accorga ». Fulvio e Giuseppe, studenti ventenni, vengono da Lecce. «Siamo qui per stanchezza, per sofferenza. Nonne possiamo più. Vogliamo vedere un’altra scena.Ce la faremo?». Violetta ha 18 anni e fa la ragazza sandwich: denuncia la disuguaglianza della vita. Dice: «Se sei figlio di papà vai avanti, altrimenti ti fermi. E’ il senso della riforma Gelmini. I miei genitori sono impiegati, indovina un po’ che speranze avrò?». Urlano, nessuno riuscirà ad ammutolirli.

Lavoratori d’Italia.

Pensi di trovare schiere di giustizialisti inferociti e invece raccogli decine di storie di lavoratori che sono qui soprattutto per difendere la loro dignità. Fabio Frati è uno di questi. Era impiegato Alitalia ora è in cassa integrazione con 850euro eun figlio invalido. «Noi siamola testimonianza della cura Berlusconi. Siamo 10 mila in tutta Italia, un vero massacro sociale». Ida ha 47 anni, lavora in un’azienda ceramica in crisi vicino Reggio Emilia. «Sono separata con due figli e sono in contratto di solidarietà. Ma secondo voi ce la posso fare con poco più di mille euro al mese?». Il lavoro che non c’è, quello che si rischia di perdere, quello precario. Nicola ha 27 anni e viene dalla Sardegna. Fa il ferroviere. «Ho un contratto precario, lavoro 12 ore per900 euro. Eloro pensano allo scudo fiscale e ai processi di Berlusconi». Dice uno striscione: “Sono casertano non sono Cosentino”. Manuela ha 34 anni, è precaria in aeroporto. «Ma tu ti fideresti di uno come Cosentino? Io però sono qui anche per altro: per unmio amico che la Gelmini ha cacciato via dalla scuola, per mia cugina che è senza stipendio da cinque mesi». Chi ascolterà questa Italia? Protesta civile. Ci sono anche loro, quelli che pensano che il regime sia alle porte. Roberto ha 63 anni, pensionato, faceva il dirigente in un’azienda petrolifera. Marcia con un cartello che dice “Come Veronica nun te regghe più”. Spiega: «Ho finito le parole, non ce la faccio più. Non sopporto la volgarità e l’incultura di questi signori». Davide si è sistemato sulla scalinata di una Chiesa con un cartello che recita “Berlusconi vattene, per fare politica servono mani pulite”. E’ vestito di grigio e lo scambiano tutti per il parroco. Gli urlano “grazie”. Lui sta al gioco. Poi dice: «Sono semplicemente unc ittadino incazzato contro Berlusconi che vuole fare il monarca». C’è spazio anche per la poesia. Angelica, 65 anni, viene da Milano. Innalza un cartellino sui cui sono scritti versi di Giuliano Scabia: «Svegliati Italia / scrollati dal fango che ti ammalia ». Dice: «E’ la verità: siamo immersi nel fango». Ormai è buio. Piazza San Giovanni è strapiena e il corteo è ancora in via Merulana. Si balla, si canta. Ragazzi e anziani insieme, generazioni diverse in cerca del “colore della libertà”. Una signora in unangolo tiene altoun cartello minuscolo come tanti fatti in casa. Dice: «Quando la tigre è nella tua casa non discutere come cacciarla». Il «no B day» è finito. Oggi comincia il dopo. Chi caccerà la tigre? V

Pensieri e parole sul palco

«Siamo cuore e cervello dell’ Italia che vogliamo»

di Toni Jop

«Madov’è la sinistra? Dov’è il Pd? Dov’è l’opposizione? Dov’è la Chiesa rispetto alle molte isole di schiavitù che oggi fioriscono in Italia?»: Ulderico Pesce, attore, lo chiede a una piazza sterminata di teste e bandierementre cala la sera su San Giovanni. E la piazza s’infiamma firmando un non-sense meraviglioso, poiché tra i marmi vaticani, il verde e l’asfalto c’è proprio l’anima della sinistra, l’anima dell’opposizione, moltissimi cattolici, l’anima del Pd, per non parlar dei suoi leader, in buon numero scesi in strada col popolo della rete. Così, quel palco allestisce una sorta di drammaturgia analitica, una «doccia » emozionale in cui «vuotare il sacco », i bisogni frustrati, le pulsioni troppo a lungo mediate. Pesce sa il fatto suo quando urla: «Senza il cuore la sinistra è niente, senza emozioni è niente». E racconta dei lager italiani in cui vengono rinchiusi gli emigrati, dei caporali che smistano le «risorse umane» da un campo di mele a uno di pomodori, a una strada lungo cui prostituire il corpo. Chiede aiuto; dice che, per far qualcosa di utile, basta appoggiare la sua richiesta di rendere riconoscibile, come avviene in altri paesi europei, il nome del produttore, adesempio, su ciascun barattolo di pelati. Sembrerà strano, ma questo piccolo accorgimento burocratico sarebbe in grado di sventare trucchi e truffe ai danni dello Stato, della popolazione, dell’Europa, dei lavoratori trattati come schiavi. Ovazione per lui, come, poco prima, per Salvatore Borsellino che aveva chiesto all’Italia di rivendicare il suo diritto di mandare a casa il premier, sottraendo questo potere alle cosche che ora potrebbero considerarlo un insufficiente. Niente, sul palco, accade secondo una liturgia convenzionale, tranne forse lo stile dei due giovani conduttori che fanno quel che possono per aggraziare di maniera una scena di suo così anomala. Due ragazze ventenni che raccontano della loro esperienza in una cooperativa attiva sui terreni fino a poco fa appartenuti alla mafia, a Corleone. Dario Fo che vola surreale sul mare di bandiere, giurando di non aver quasi camminato per arrivare in piazza, perché trascinato sospeso dall’onda di quel milione di persone, per lui sono la certezza che le cose cambieranno; Franca Rame che recita una stanza dedicata soprattutto alle donne, a quelle inchiodate dalla cultura del premier come a quelle offese dalla violenza maschile mentre qualche asta, nei pressi del palco, porta in alto le coppe di un reggiseno. Moni Ovadia, che tuona sul tradimento, sullo scippo, sul furto del nostro vocabolario democratico ad opera di unsolo uomoin grado oggi di controllare e decidere le nostre esistenze. Di fronte, aggiunge Moni, ad una opposizione incerta, malferma. Due messaggi video, uno con lo sdegno verso i nostri tempi di Antonio Tabucchi; un altro per Giorgio Bocca che chiede, anche lui, all’opposizione e al Pddi fare delle scelte di campo. Aveva aperto Monicelli, unresistente di lungo corso e di lunga memoria che ha avuto l’«impudenza» di salutare la classe. Operaia. «Viva l’Italia», canta Vecchioni, bello e discreto, e la piazza gli fa eco e balla, perché era festa grande. Di liberazione.v

Rosy superstar tra i viola

Il Pd c’è, sfila l’opposizione

di Maria Zegarelli

«Rosy, per fortuna ci siamo. Hai sentito quanta gente ha detto “se non foste stati qui ci saremmo sentiti orfani”? ». Dialogo fra Giovanna Melandri e Rosy Bindi, alle sei del pomeriggio. Per fortuna ci sono andati i leader del Pd, si ripetono tra di loro, perché questa rivoluzione viola che è arrivata dal mondo virtuale e si è imposta in quello reale è imponente, molto di più di quanto si aspettavano gli organizzatori, molto di più di quanto vi racconteranno i tg e il bollettini della questura e del Viminale. Per fortuna che c’erano i leader del Pd, dal suo presidente, Bindi, al vice Scalfarotto, all’ex segretario attuale capogruppo alla Camera Dario Franceschini, a Ignazio Marino, Paola Concia, e tanti altri ancora. Perché quando attraversano il corteo il popolo Pd - un sacco di gente - li riconosce e va a ringraziarli. IL POPOLO E LE BANDIERE Un popolo discreto e rispettoso della manifestazione «che non è dei partiti ma della società civile», arrivato senza le bandiere perché così era stato deciso e invece una volta qui si accorge che l’Italia dei valori ne ha portate a pacchi, come i cappellini. Idem Rifondazione comunista, Sl, i Verdi. E così capita che Silvana, del circolo Pd di Trastevere, cuore rosso di Roma, fa un cenno ai suoi ed ecco che ne spuntano una trentina, salta quel telo viola dallo striscione e campeggia la scritta Pd. Rosy Bindi fatica a farsi largo, la fermano ad ogni passo. «Rosy sei l’unica con le palle», le grida unragazzo, e lei «lo prendo come un complimento ».Duegiovani stranieri le offrono una birra, ragazzi di Bergamo vogliono le foto. «Sei grande presidente, però certo Bersani poteva pure esserci... ». «Bersani è qui», porta la mano sul cuore, «non c’è, non c’è» le risponde un gruppo di donne. Il «partito è qui, c’è n’è tanto in questo corteo », risponde una, due, cento volte. Nonle piacciono tutte queste bandiere, «non è giusto che i partiti siano arrivati con le loro bandiere, dovevano venire con il viola o fare come me, un nocciola neutro. Bisogna avere rispetto di questo popolo, di tutta questa società civile che oggi è qui». Poco più indietro Ivan Scalfarotto dice che non ci sono polemiche perché, è stato giusto così: esserci senza metterci il cappello. E però che fatica trovare la collocazione senza rischiare di finire sotto le bandiere dell’Idv o di Rifondazione. Così capita anche che la Bindi per sfuggire la falce e il martello finisca tra i «viola» - «perchè sono di sinistramanon comunista» -senza accorgersi in tempo che dietro c’èuncartello con su scritto «Berlusconi tromba meno». Atletico scatto in avanti. Applausi quando arriva Dario France- schini che si piazza affianco a Marino, «il congresso è finito», scherzano. «Ci sono tantissimi giovani, è una novità straordinaria», commenta Franceschini con Jean Leonard Tuadì. «Per fortuna che ci siete»: se lo sentono dire un’infinità di volte. Perché loro, quelli che vogliono ancora credere sia possibile mandare a casa il premier ci sono e hanno invaso la capitale per dimostrarlo. E non sono «un popolo di frustrati»,comequalcuno nel centro destra vorrebbe sostenere, «è un popolo di indignati», precisa Bindi. «Indignazione costruttiva », la definisce Debora Serracchiani. I PARTITI Parecchi striscioni più avanti, sotto il fiume di bandiere Idv, c’è Antonio Di Pietro. Dice che oggi non vuole fare polemica con il Pd e Pierluigi Bersani. Forse lo farà da domani perché le elezioni regionali sono alle porte, le alleanze ballano sul tavolo dei partiti. Idv o Udc con il Pd? Ecco, se ne riparla domani. «Oggi è la prima giornata di resistenza attiva prima di dare la spallata finale a un governo piduista e fascista», dice Tonino. Paolo Ferrero invece fa polemica con il Pd: «Hanno scelto di non aderire, mi sembra un errore grave, ormai l’opposizione la fa il paese». Oliviero Diliberto si gode la piazza «Se ci fosse tutta l’opposizione saremmo ancora più forti, forse il Pd si sarà pentito di nonaver aderito». No, Pierluigi Bersaninon si è pentito. Dice: «Questa gente dimostra che era giustononmetterci il cappello sopra. Al Pd come partito adesso spetta tradurre questa energia contro in un’alternativa a Berlusconi. Ed è quello che faremo». V Euforici i promotori «Ce l’abbiamo fatta» FRANCESCO COSTA La reteÈil giorno più felice della mia vita», dice Gianfranco Mascia ai piedi del palco. Probabilmente è stato anche uno dei più faticosi, e come per lui la stessa cosa si può dire delle tante persone che hanno lavorato all'organizzazione della manifestazione. Il loro 5 dicembre è cominciato quasi all’alba, ma probabilmente è fuorviante parlare di giornate che iniziano e finiscono: da un paio di settimane il lavoro è andato avanti in modo praticamente ininterrotto, tra riunioni, email e telefonate, senza momenti di cesura netta tra un giorno e l'altro. Il primo atto della giornata è stata la gestione degli arrivi: quasi un migliaio di pullman sono arrivati in mattinata da tutte le regioni d'Italia, e per facilitare le operazioni e gli spostamenti gli organizzatori avevano impartito nei giorni scorsi delle istruzioni precise sui luoghi di ritrovo, suddividendoli secondo la regione di provenienza. Unsuccesso anche la gestione del servizio d'ordine, che era stato costituito mettendo insieme un gruppo di volontari reclutati sul web e tra le associazioni e i partiti aderenti. Qualche riunione nei giorni scorsi, una struttura piramidale che assegnava un coordinatore per ogni venti persone e un determinato tratto del percorso per ogni squadra. Tutto tranquillo, comunque: «Non avevamo paura di disordini, ma sappiamo che potevano esserci dei provocatori». Il bilancio finale, naturalmente, è più che positivo. «Sapevamo che non avremmo potuto sbagliare nemmeno una virgola, ce l'abbiamofatta », dicono i promotori mentre scendono dal palco, euforici e senza più un filo di voce. «Quello che chiediamo adesso a tutti i politici che hanno aderito è un impegno concreto sul conflitto di interessi. Nonci fermiamo qui». Insomma, ci hanno preso gusto.

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