Nella chiesa madre di Favara sono stati celebrati i funerali delle due povere bambine sepolte dal crollo di un edificio fatiscente del quartiere del Carmine. Alle esequie stavolta non c'è stata la rituale passerella dei politici di rilievo e per il governo non c'era nessuno. Temevano forse che qualcuno gli avrebbe chiesto conto su due fatti gravissimi compiuti di recente. Il 2 ottobre 2009, infatti, il Consiglio dei ministri aveva impugnato il piano casa della regione Basilicata perché condizionava gli ampliamenti edilizi alla predisposizione del «fascicolo del fabbricato», la carta d'identità di ogni edificio, uno strumento che esiste nei paesi civili e obbliga la proprietà a certificare la solidità degli edifici. Era previsto anche in un disegno di legge del 1999 (il 4339 bis), ma non fu mai convertito in legge e mai più ripresentato. Affermava che: «I comuni individuano le aree al cui interno sono compresi i fabbricati da assoggettare prioritariamente al programma di messa in sicurezza del patrimonio edilizio, attraverso la puntuale ricognizione del singolo fabbricato e del relativo stato di conservazione, nonché l'attuazione delle misure tese a favorirne la manutenzione programmata».
Sembrano parole scritte appositamente per Favara. Era dunque importante che almeno una regione lanciasse il messaggio culturale che è ora di mettere in sicurezza il territorio e gli edifici, così da scongiurare la morte di vittime innocenti. Il governo ha ritenuto al contrario più produttivo ubbidire alla potente associazione dei proprietari edilizi, la Confedilizia da sempre contrarissima all'introduzione di queste pur modeste regole. E, a dimostrazione del loro cinismo, l'impugnazione del provvedimento della Basilicata avvenne proprio il giorno successivo della frana di Messina in cui si contarono 35 vittime. Ma non basta ancora. A funerali appena conclusi, il consiglio dei ministri del 15 ottobre decide di impugnare un analogo provvedimento approvato dalla regione Lazio. In entrambi i casi la Confedilizia ha espresso il proprio vivo compiacimento.
E' dunque questo il motivo dell'assenza degli esponenti del governo. Rischiavano di dover essere chiamati a rispondere alla famiglia Bellavia e all'intera nazione a questo quesito: perché da noi il cieco egoismo di una categoria di super ricchi non permette di dotarsi di strumenti di civiltà, condivisi dalla totalità della popolazione italiana?
Nel paese che ha regalato per valori talvolta irrisori a poche grandi società immobiliari un immenso patrimonio abitativo pubblico, poi, è stata cancellata qualsiasi politica abitativa pubblica. Tanto che il sindaco di Favara, pur in presenza di sacche così estese di disagio abitativo, lascia 56 alloggi pubblici vuoti. Le case popolari devono scomparire dal vocabolario istituzionale, ci penseranno i famelici gruppi cui è stato regalato il patrimonio di tutti. I campanelli d'allarme sono ormai troppi, da Messina a Rosarno fino a Favara, è il ruolo dello Stato che deve essere ricostruito nella sua autorevolezza e credibilità.
LA MEGLIO GIOVENTÙ
di Valentino Parlato
La forte vittoria di Nichi Vendola nelle primarie di domenica scorsa in una regione significativa come la Puglia è molto più di un evento della cronaca politica. E non segna soltanto la crisi, forse inattesa ma certamente profonda, della segreteria Bersani. È il segno forte della crisi della politica politicante e di quel che restava dei partiti della prima e della seconda repubblica. I partiti di una volta non ci sono più e i loro vertici soffrono di un forte isolamento con scarsi rapporti con quella che una volta si chiamava la base. Si tratta soprattutto di aggregazioni populiste-privatistiche e, nel caso del Pdl, di una grande aggregazione populistica-privatistica (lo ripeto) con un leader padre-padrone, che trae la sua forza dalla personale proprietà privata di cui dispone. È un monopolista dell'informazione, che è insieme il maggior business e il maggior strumento di manipolazione che oggi esista. Berlusconi, nonostante la sua incontestabile abilità, senza le proprietà sarebbe un signor nessuno. La vittoria di Vendola e la sconfitta di D'Alema - che trascina nel baratro Bersani - segnano l'esaurirsi di una politica sedicente di sinistra (ma sottovoce) e la crisi irrecuperabile. L'interrogativo è se tutto questo può segnare una ripresa, se toccato, o quasi, il fondo, si può risalire.
Certo è stato un movimento di popolo: 200 mila votanti in sette giorni di campagna per le primarie non sono poca cosa. Ma ancora più interessante e fortemente positiva è la partecipazione di giovani, il cui allontanamento dalla politica costituisce uno dei segni più gravi della nostra democrazia. Il pericolo di questo allontanamento è un segno brutto e pesante. Ad Acquasparta, dove c'è stato un seminario, assai utile, di Articolo 21, su questo punto ha insistito anche Monsignor Paglia, parlando di un'Italia che sta perdendo l'anima. Dalla Puglia che - non dimentichiamo - è la patria di Di Vittorio (ma qualcuno lo sa? e sa chi è stato Di Vittorio?) è venuto indubbiamente un segnale positivo di possibilità di una rinascita della sinistra e dei suoi ideali di libertà, eguaglianza e fraternità.
Questo segnale dobbiamo raccoglierlo e lavorarci. Noi del manifesto, ma anche tutto quel che - nonostante tutto - in Italia rifiuta lo stato presente delle cose. C'è «il popolo viola», ma anche una molteplicità di aggregazioni impegnate e - perché no? - gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori, gli storici. Certo, davanti a noi c'è un lavoro di Sisifo. Bisogna avere impegno e pazienza. ma non c'è mai la fine della storia. Bisogna sempre tentare di ricominciare. E non è mai inutile.
NELLA FABBRICA DI VENDOLA
di Luciana Castellina
La mia giornata di scrutatrice delle primarie nelle Puglie (coadiuvanti Giusi Giannelli, ex Fgci di Bari e Rosario Rappa, segretario della Fiom) comincia da Taranto, quartiere «I Tamburi», case popolari per gli operai dell'Ilva, oggi solo 12.000, giovanissimi: media d'età 31 anni, i più anziani diventati esuberi o andati in prepensionamento perché l'amianto li ha resi invalidi o già ammazzati. Davanti al seggio, una fila già lunghissima, «parecchi hanno rinunciato» mi avverte un drappello di anziani siderurgici che sosta all'ingresso. Si vota da tre ore e sono perplessi, il segretario locale di Rifondazione è depresso: «troppe facce che non ho mai visto, tante donne, mi sa che ce la mettono...», il resto lo dice con le mani. Entro, molti vecchi compagni mi riconoscono ( da queste parti, in 62 anni di militanza comunista, sono venuta tante volte ): mi abbracciano ma, quasi scusandosi, parecchi mi dicono che voteranno Boccia, perché «così ha detto il partito» ( che nonostante tutto quello che è successo è sempre il partito). Esco allarmata: vuoi vedere, mi dico, che proprio lì dove la tradizione Pci era più forte, 45% di voti finché è esistito, va a finire male? Proprio qui dove la giunta Vendola è riuscita, per la prima volta in decenni, ad imporre all'Ilva, per legge, di installare i depuratori che hanno ridotto le esalazioni del veleno da sette nanogrammi a metro cubo a uno? «Cosa vuoi - osservano sconsolati - qui ormai alla diossina si sono abituati».
In Puglia è primavera
Le ultime ore della mia giornata le passo a Bari, su un divanetto nella stanza della «Fabbrica di Nichi», a sedere proprio accanto a lui, nervosissimo ed esausto. Fuori, dalle otto, hanno cominciato ad accalcarsi i compagni. Nella notte la conferma di quello che sapete già: 67% di media regionale, i sondaggi erano sbagliati. Ma per difetto. Alle urne 205.000 persone, parecchio di più che per le primarie interne al Pd su cui era stata tarata la distribuzione delle schede. Già nelle prime ore del pomeriggio dai seggi avevano chiesto che li rifornissero perché erano ormai senza, e si è ricorso alla fotocopiatrice. Il primo dato arriva alle 21 e 4 minuti, sul telefonino di Nicola Fratoianni, coordinatore della Sel (Sinistra, ecologia e libertà) pugliese: ad Armesano, comune salentino, 184 votanti, 32 voti per Boccia, 137 per Vendola. Ridiamo, il campione è troppo minuscolo. Poi la valanga: Tricase 80% per Nichi, idem a Fasano, al quartiere barese di Japigia al 90, 76 a Celleamare, a Triggiano 911 a 311, a Mola 841 a 187, a Copertino 736 a 199, a Lucera mille voti di distacco. Alle isole Tremiti finisce 64 a 4. Arriva anche il risultato del quartiere «I Tamburi», quello che attendo con più ansia: i compagni si erano sbagliati, quelle facce sconosciute e quelle tante donne hanno votato per il 73% in favore di Vendola. Alla diossina, per fortuna, non si erano del tutto abituati.
Nichi comincia a sorridere. Quando chiamano, direttamente sul suo cellulare, da Altamura, annunciando un 76%, gli dice «esagerati!». Poi uno scoppio maleducato ma incontenibile: è arrivato il risultato di Gallipoli, epicentro dalemiano per ragioni di politica e di vela. 204 voti per Boccia, 683 per Niki. Fuori non sanno ancora niente. Nella stanzetta-rifugio arrivano i dati non-ufficiali, per renderli pubblici è meglio aspettare quelli ufficiali. I compagni scalpitano, la folla aumenta e preme. Alle 22,30 sappiamo già qualche media provinciale, la più sfiziosa quella di Lecce, che era stata data quasi per perduta: 61,9 per cento. In totale solo sei sconfitte: Bisceglie, ma si sapeva, è la città natale di Boccia; Manfredonia, dove si concentra lo stato maggiore del Pd; Apricena; San Pietro Vernotico, Cesarano; San Ferdinando
Bisogna prendere contatto col quartier generale del Pd. Non è corretto dichiarare senza essersi accordati prima. Proviamo un po' di imbarazzo. Finalmente Fratoianni telefona al suo collega Blasi, che coraggiosamente decide che la conferenza stampa si farà nella sede della «Fabbrica di Nichi». Ho un po' di paura dell'incontinenza della folla, ormai grossissima, quando arriverà Boccia. E invece sono tutti bravissimi, gli battono persino le mani, l'onore delle armi allo sconfitto. Che poi dirà davanti a una selva di telecamere che lo prevedeva, ma che si perdono solo le battaglie che non si fanno. I due candidati del centro sinistra si impegnano adesso a marciare uniti, Nichi dice «domattina parte un treno, deve rendere l'alleanza la più larga possibile».
L'avversario adesso è Rocco Palese: lo spoglio in casa del centro sinistra non è ancora terminato che il partito della libertà scioglie i suoi tanti dubbi e annuncia che il cavallo con cui correrà sarà un pallido ex assessore di Fitto, il solo minimo comun denominatore possibile nella rissa che si è creata a destra, dove nessuno dei maggiorenti ha voluto una candidatura un po' più valida, quella dell'ex sindaco di Lecce, ex deputata e ministro di An, oggi a capo di una sua nuova formazione, «Io Sud», Adriana Poli Bortone. (L'indomani mattina se la piglia l'Udc ). Poi il fiume delle dichiarazioni, di tutti. La più singolare quella del sindaco Emiliano che avrebbe dovuto essere l'oppositore di Nichi ma non se l'è sentita: «Possiamo vincere a marzo - dice - perché il popolo del Pd ha saputo interpretare questo momento politico legando ancora una volta il destino delle Puglie a Nichi Vendola». Evviva il popolo del Pd, dunque, ma il Pd? Rutelli fa sapere che è contento di essersene andato da quel partito per non dovere escogitare frasi di rito all'annuncio della sconfitta.
Dopo la vittoria
Sono venuta nelle Puglie innanzitutto perché tornare in questa occasione al mio vecchio mestiere di inviato del manifesto era un modo per manifestare solidarietà a Vendola, ma anche perché molto curiosa di questo test, che - sia pure alterato dall'«anomalia Nichi» - poteva raccontare molte cose che vanno al di là del caso specifico; e infatti le ha raccontate.
Primo: cosa è il Pd, nel concreto? Quanto è forte la sua presa sulla società? Meglio di ogni altro me lo dice Peter Giacovelli, coordinatore della Sel di Martina Franca: «qui il Pd ha quattro consiglieri comunali e uno regionale, ma non ha più la sede, si riuniscono nell'ufficio privato del consigliere regionale. Quando abbiamo dovuto incontrarci per organizzare le primarie sono dovuti venire da noi». Ecco: un'organizzazione territoriale ormai non c'è quasi più, ma ci sono centinaia di rappresentanti degli enti locali che gestiscono in prima persona i rapporti con la società. E cui fanno capo non vere clientele (talvolta anche quelle, naturalmente, sottospecie di referenti di cooperative e di servizi municipali), ma nemmeno organizzazioni partitiche, collettivi. L'allargamento della base sociale ha poi ovviamente portato dentro al Pd anche soggetti dotati di interessi, spesso consistenti, e nelle scelte, nei conflitti che si determinano, capita di sentire il loro peso.
Secondo: cosa è l'Udc, il partito cui D' Alema voleva sacrificare Vendola? A guardarlo, qui nelle Puglie, mi è tornata in mente una prima seduta del Consiglio comunale di Roma, nel '75, in cui Lucio Lombardo Radice, neofita della carica, si rivolse con un bellissimo discorso sul cattolicesimo verso il banco della Dc dove sedevano, sbigottiti e senza capire molto, i tanti presidenti della Centrale del latte, dell'Azienda della Nettezza Urbana, i tanti piccoli centri di potere della capitale, insomma. Qui è ancora meno, è un corpaccio indistinto e transumante fra una sigla e l'altra, capibastone che dispongono di un piccolo patrimonio di voti (9,1 % alle ultime europee), parecchio clientelari, che decidono di volta in volta a chi dare. ( «Non i due forni - recita una battutaccia locale - ma dove si sforna»). Raccontarne le loro storie sarebbe troppo lungo: a Bari ci sono gli ex craxiani, parecchi perché qui nella «Bari da bere» degli anni '80 Bettino aveva stabilito un ponte privilegiato con Milano; a Barletta è invece un ex Pci entrato in rotta di collisione con il partito; molti ex Dc, ovviamente. Insomma, difficile paragonarli ai «ceti medi dell'Emilia rossa» di togliattiana memoria, e tanto meno alla rappresentanza del mondo cattolico cui Nichi, allievo fedele di don Tonino Bello, il purtroppo defunto grande vescovo di Molfetta, parla più direttamente. (Un povero presidente di circoscrizione, Francesco Ferrante, passato da poco dai socialisti autonomisti al nuovo Psi di Stefania Craxi, e cioè dal centro sinistra al centro destra, si è presentato al seggio chiedendo di votare. Gli è stata obiettata la sua recente appartenenza, ma lui si è indignato: io sono socialista, ha gridato. E alla fine lo hanno fatto votare per misericordia verso la confusione).
Interrogativo più difficile: perché, l'altro alleato che non si poteva perdere, l'Italia dei Valori, non voleva Vendola, sebbene gli slogan di Di Pietro siano tutti contro gli apparati dei partiti? Perché purtroppo dietro a quella sigla non ci sono solo girotondi, ma anche piccoli potentati locali che sono saliti sul carro ma non vogliono mettere a rischio i loro affari. E così hanno cercato di impedire al loro partito - senza riuscirci del tutto - di scegliere la candidatura del governatore.
E infine Niki: di che fenomeno si tratta? «populismo rosso», come insinua Corto Maltese (con qualche simpatia) e qualcun altro (con antipatia)? Non è così. Intanto va detto che la sua popolarità è dovuta a corpose realizzazioni della sua giunta, in particolare quelle a favore dei giovani. Prima fra tutte l'insieme di misure che vanno sotto il titolo di «Ritorno al futuro»: borse di studio per specializzarsi in Italia o all'estero, già 10.000 concesse in cambio della sottoscrizione di un «contratto etico», un impegno - non un obbligo - a tornare a lavorare nelle Puglie. E poi i «Bollenti spiriti», laboratori urbani creati in immobili pubblici ristrutturati e avviati ad ospitare attività creative. E, ancora, «Principi attivi», una sorta di concorso per idee di nuove possibili attività produttive, una sorta di microsocietà (450, su 1.500 proposte arrivate, già finanziate) per il quale le Puglie hanno ricevuto il premio dell'Unione Europea nell' «anno (il 2009) della creatività». E, ancora, il cinema, rilanciato da una straordinaria Film Commission, che ha operato sul fronte della produzione e su quello della domanda, riaprendo sale e circuiti, e dunque promuovendo occupazione. Infine, e non è poco, le energie alternative, la prima regione in Italia in questo campo, dice con giusta soddisfazione l'assessore Losappio.
Tutto questo è stato fatto non dal solo Vendola, ma insieme ad altri assessori, ovviamente anche del Pd, in particolare Minervini (che infatti ha disubbidito nelle primarie): possibile che il Pd, sparando contro Vendola, dicendo che la primavera pugliese era ormai esaurita, non si sia reso conto che azzoppava anche sé stesso? Possibile non abbia capito che era una follia barattare l'Udc, colpito proprio il giorno del voto dalla condanna a sette anni di uno dei suoi principali procacciatori di voti, Totò Cuffaro, con la straordinaria mobilitazione di giovani che si è creata a difesa della giunta e di Nichi, il solo che ha capito di cosa avevano bisogno, che non gli parla in politichese, che vince, non perché - come dice uno slogan della sua campagna - « è radicale, ma perché è radicato», innanzitutto nelle nuove generazioni? Nelle Puglie ha preso corpo un fenomeno nuovo e di grande significato, un ritorno alla politica di migliaia di giovani, i veri protagonisti di questa vittoria delle primarie. Sono cosa? «Post» di tutto: del comunismo, del moderno, del lavoro stabile, e persino, adesso, orgogliosi di essere pugliesi.
È il trionfo della società civile contro la politica dei partiti? Ne discutiamo a lungo con il sociologo Franco Cassano, l'intellettuale che più si è impegnato a fianco di Nichi. Il discorso è lungo, non siamo nemmeno sempre d'accordo, un fatto è però certo: la politica tradizionale non attira più perché ha perduto la sua investitura storica. Adesso siamo nella fase di un utilissimo bombardamento del quartier generale. Poi si vedrà. Il 28 marzo si vota. Sarà una prova dura. Ma con quei 205.000 votanti alle primarie, si è messo già insieme un bel motore, ricco del 10 per cento dell'elettorato chiamato alle urna.
MILANO — «Sono quattro legislature che la legge sui principi di governo del territorio giace in Parlamento. Tutti si dicono d’accordo, ma poi il testo non viene approvato». A quasi una settimana di distanza dall’Appello lanciato al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori Massimo Gallione esplicita ulteriormente l’umore della categoria e la visione. «Le emergenze sono due: un rischio idrogeologico gravemente trascurato e altissimo» dice Gallione tornando sui temi della lettera aperta del 20 gennaio «testimoniato da tanti disastri, da un lato, e l’esigenza di ridare fiato a unmercato che è arrivato allo stremo delle forze, dall’altro». Nelle lettera si sottolineava ad esempio la necessità di predisporre piani, «anche a lunga scadenza», al di là della gestione delle emergenze.
Dalla pubblicazione della Lettera-appello ad oggi, a livello governativo, sono filtrate indiscrezioni su un rilancio del «Piano Casa» varato lo scorso anno ma rimasto inapplicato – come conferma sempre Gallione - «in molte regioni», cui la Riforma del Titolo V attribuisce competenze decisive. In vista delle regionali di fine marzo, Silvio Berlusconi immaginerebbe un nuovo «Patto per l’Italia», con i candidati alla carica di governatore, incaricati di attuare entro i primi cento giorni di governo regionale la legge nazionale: quella che consente aumenti massimi fino al 35% delle cubature rispetto alle volumetrie già esistenti e che, dice Gallione, «mostrava una qualche potenzialità di aggredire il mercato, che finora però non è stata sfruttata, anche a causa del conflitto di competenze tra Stato e Regioni. Non ci sono i soldi pubblici per fare nuovi interventi, ma ci sono quelli privati, magari anche in seguito allo scudo fiscale».
Accanto all’esigenza di rilanciare il mercato dell’edilizia, tuttavia, restano le cifre che testimoniano «l’invecchiamento» delle strutture edilizie italiane. Sui 90milioni di vani costruiti nel dopoguerra, il 90% non ha le sufficienti capacità strutturali antisismiche e il 45% di questi sta in zone a rischio idrogeologico medio-alto. Una cifra superiore al 90%, poi, ha una capacità di contenimento della dispersione dell’energia insufficiente rispetto agli standard europei. «Mi auguro che gli aumenti di volumetria consentiti dalla legge nazionale - chiosa Gallione - possano alimentare un processo di sostituzione edilizia, di vero rinnovamento, soprattutto nelle periferie. Non è opportuno aumentare di un piano una costruzione che non rispetta standard di sicurezza».
La memoria, che in Italia non è mai diventata musica di fondo della politica come nelle nazioni che con tenacia hanno lavorato sul proprio passato (parliamo in modo speciale della Germania, ma l’esame di coscienza fu approfondito anche in Sud Africa, unendo la sete di verità al bisogno di riconciliazione), è raramente trattata, dalla nostra classe dirigente, come qualcosa che aiuta a capire perché un male è nato, perché si perpetua mutando le forme, perché i rimedi non l’hanno curato ma anzi aggravato. La memoria in Italia rischiara poco il passato e per nulla il presente: è una memoria ancillare, e quasi sempre emiplegica. Ancillare, perché asservita a questa o quella forza politica oltre che a effimere contingenze. Emiplegica, perché chi la strumentalizza fa salire in superficie solo i frammenti di passato che gli permettono di evitare, e tradire, l’esame di coscienza.
Come nel malato emiplegico, una parte della memoria storica resta immersa in un sonno scuro che consente ai ricordi di restare selettivi e che impedisce il giudizio storico. Verso la storia, parecchi politici e giornalisti hanno uno strano atteggiamento: da una parte ammettono che non possono scriverla loro, essendo troppo coinvolti nel presente. Dall’altra pretendono di dirla in prima persona, fingendo olimpiche distanze che non possiedono. Il direttore del Tg1, nel celebrare i dieci anni della morte di Craxi, accampa precisamente tale pretesa: «È arrivato il momento dice di guardare alle vicende di Craxi con gli occhi della storia».
Il ricordo degli anni di Bettino Craxi non è l’unico esempio di memoria tradita. Anche il terrorismo italiano è ricordato con metodi poco corretti, anche la storia del fascismo o di Salò. A partire dal momento in cui la memoria è maneggiata alla stregua di domestica, quel che finisce col prevalere è una visione dei mali italiani radicalmente distorta. Il male che la coscienza impone di esaminare non fu un male in sé: in fondo, lo divenne perché vinto dalla Storia. In molti casi fu perfino nobile, non meno del suo avversario. Il conflitto non è fra ragione e torto, fra giustizia e crimine, ma fra chi ha vinto e chi ha perso. In Italia si è ragionato così su Salò, e anche sul terrorismo. Prima di rientrare da Parigi a Roma per presentarsi alla giustizia, Toni Negri sostenne che il terrorismo era «superato perché vinto», e per questo non era più «di attualità». La lotta armata di per sé non era condannabile.
Lo stesso accade per la memoria di Craxi. La sua battaglia politica è considerata grande e bella, se non fosse per Mani Pulite che gli strappò la vittoria e macchiò questa compatta bellezza. Ovvio, in queste condizioni, che le colpe siano tutte esterne al soggetto («L’inferno, sono gli altri», dice Sartre) come spesso succede nella memoria dei vinti che non guardano dentro di sé, perché inebriati dall’esperienza della vittima. La memoria selettiva e ancillare ci restituisce in tal modo un Craxi grande statista, soprattutto un modernizzatore, il cui nobile progetto fallì a causa, essenzialmente, dei magistrati. Per riscoprirlo è raccomandato non solo di separare la politica dai fatti di corruzione, ma di estromettere i fatti di corruzione lasciando che resti, del leader, solo la luce. Le inchieste giudiziarie cadono nelle ombre del corpo politico emiplegico. Nietzsche parlava di memoria antiquaria, che ammobilia «con pietà o furia collezionista» un nido familiare chiuso, impenetrabile dall’esterno, conservatore del passato.
Altra cosa la memoria critica, che guarisce trasformandoci: memoria faticosa, perché gli uomini tendono a «darsi un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con quello da cui si deriva».
Senza dubbio il leader socialista fu un politico con encomiabili progetti iniziali: unificare le sinistre, rafforzando la componente socialista dell’unione e banalizzando, alla maniera di Mitterrand, l’ingresso dei comunisti nel governo; liberare sinistre e sindacati da formule errate come la scala mobile; legare il Psi al dissenso nei paesi comunisti. La sua opera di modernizzatore fu, secondo molti, la sua più grande virtù. Modernizzazione che tuttavia riuscì solo in parte. Che fu a un certo punto abbandonata, autonomamente. Che si spezzò non solo perché fortemente avversata dai comunisti ma perché Craxi smise di volerla, prepararla, attuarla.
L’azione di Craxi fu in realtà un singolarissimo impasto di intuizioni giuste e coraggiose, di spregio profondo della politica, di intreccio tra politica e mondo degli affari, di uso spregiudicato di mezzi finanziari illeciti. La corruzione non fu un dettaglio inessenziale di tale azione ma un suo torbido elemento costitutivo. Era moderno il politico che si crea spazi di potere con l’aiuto di potentati economici, e in cuor suo ritiene inefficace la via virtuosa. Il motto degli esordi craxiani fu: primum vivere, prima di tutto urge vivere e sopravvivere. In un’intervista a Eugenio Scalfari, il 3-5-90 su Repubblica, Craxi non nasconde la crisi abissale della democrazia e dei partiti: la società italiana si era irrobustita per conto proprio, dice, mentre il ceto politico era restato una chiusa corporazione, incapace di rinnovarsi. E a Scalfari che gli chiede perché, Craxi replica: «Non ci sono più ideali, si gestiscono interessi».
In fondo non sono diversi i due discorsi tenuti alla Camera durante Mani Pulite, il 3 luglio ’92 e il 9 aprile ’93. Due discorsi che descrivono la corruzione di un intero sistema politico. Questo dice la chiamata di correo del ’92: «Tutti sanno che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale.(...) Non credo che ci sia nessuno in quest’aula (...) che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Nessuno si alzò, e l’atto mancato resta la vergogna dei politici e di una classe dirigente. Una vergogna che in assenza di memoria critica s’è estesa. A Scalfari, Craxi aveva detto: «Non ci sono più ideali, si gestiscono interessi». Oggi, gli interessi particolari sono diventati ideali e il loro conflitto con la politica una cosa normale per tanti.
La modernizzazione di Craxi fallì dunque molto prima di Mani Pulite, a causa del malaffare in cui i partiti, compreso il suo, nuotavano. Fallì perché il Pci si oppose per anni all’alternanza, preferendo compromessi con la Dc che preservavano lo status quo. Fallì per l’immobilità in cui Craxi stesso sprofondò: il primum vivere divenne brama del vivere per vivere, di arraffare frammenti del presente e del potere, di non progettare più nulla. Il socialismo italiano naufragò per colpa dei socialisti, non dei magistrati: e naufragò perché più di altri aveva suscitato sì vaste attese.
Perfino alcuni successi del capo socialista andrebbero narrati in maniera meno edulcorata, censurata. Sigonella non fu un atto di autonomia verso l’America, ma la misera messa in libertà d’un gruppo terrorista (i palestinesi di Abu Abbas) che aveva ucciso proditoriamente, sull’Achille Lauro, un anziano americano in sedia a rotelle, Leon Klinghoffer, solo perché ebreo. Anche in economia Craxi non fu modernizzatore. Lo spiega bene Salvatore Bragantini, sul Corriere del 14 gennaio: sotto la guida sua e dei successori «il nostro debito pubblico è volato dal 60% al 120% del Pil; (...). Nell’escalation del debito ebbe il suo bel peso l’aumento dei costi delle opere pubbliche dovuto alle tangenti, scoperte grazie a Mani Pulite».
Oggi, censurare tanta parte del passato è utile soprattutto a Berlusconi e alla sua offensiva contro la giustizia. Se il duello è tra vincitori e vinti, e non tra buongoverno e governo corruttibile, si tratta di contrattaccare e vincere finalmente la guerra. Oggi ci si difenderà dai processi, ma restando al potere anziché fuggendo come latitanti. Stefania Craxi lo ha detto chiaramente, il 3 gennaio alla televisione: «La storia di Craxi si ripete con Berlusconi. Gli italiani allora non credettero a Craxi, ma a Berlusconi, oggi, credono». A questo serve la politica della memoria in Italia: a perpetuare la melma in cui ci troviamo, senza mai cominciare l’esame di coscienza che da essa ci libererebbe.
Costerà diverse centinaia di migliaia di euro, forse più di un milione, il crollo negli scavi di Pompei avvenuto durante i lavori ordinati da Marcello Fiore, commissario straordinario di quell’area archeologica: cinque giorni fa, il 18 gennaio, il peso di una gru avrebbe causato un crollo a catena di 30 metri di muro e di altri 20 metri sottostanti, comprese pareti con affreschi, né sono da escludersi danni anche alla «Casa dei casti amanti». Tuttavia l’incidente è circondato da un fitto alone di mistero e di segreto che sta facendo sorgere seri dubbi sulle responsabilità dell’accaduto. La denuncia non a caso parte da Italia Nostra,ma trova riscontri tra i lavoratori del sito pompeiano che confermano l’accaduto ma chiedono di mantenere l’anonimato poiché gli è stato intimato di tacere sui fatti.
I CASTI AMANTI
L’area interessata all’incidente, che non ha causato vittime o ferimenti, è quella di via dell’Abbondanza dove sono collocate la casa di Giulio Polibio e soprattutto quella dei «casti amanti»: in particolare su questa ultima domus si erano concentrati i lavori, al fine di renderla fruibile al pubblico anche a scavi non ultimati. Un progetto simile era stato creato alla fine degli anni 90, ma poi era stato accantonato per motivi di fattibilità. L’idea è stata però ripresa nell’ambito dei lavori straordinari per la valorizzazione del luogo avviati da Fiore in qualità di commissario straordinario, carica che detiene dal febbraio 2009. Lavori condotti, secondo i dipendenti del Ministero dislocati sul luogo, «in tutta fretta e senza andare troppo per il sottile», e soprattutto con grande «disinvoltura nell’uso di mezzi meccanici (come gru e scavatori, ndr.) che in un’area archeologica dovrebbero essere usati con grande cautela». C’è chi non manca di sottolineare come la passerella che si stava approntando sarebbe servita a dare visibilità alla annunciata visita di Silvio Berlusconi a Pompei. Così, l’inaugurazione anche solo parziale della «Casa dei casti amanti» sarebbe andata a maggior gloria del governo e della Protezione civile, benché gli scavi e la messa in sicurezza del luogo siano stati iniziati oltre dieci anni fa. Insorgono le associazioni per la tutela: «Il silenzio su questo incidente è grave e non mi piace affatto – sbotta Maria Pia Guermandi di Italia Nostra –, chiediamo che il Ministero faccia quanto prima un serio sopralluogo corredato da fotografie per comprendere quanto accaduto e l’entità dei danni. Oggi l’area archeologica di Napoli e Pompei è sotto la gestione di un soprintendente che si occupa della tutela (Mariarosaria Salvatore, ndr) e un commissario dedicato alla valorizzazione: a quanto si è appreso finora emerge che il dovere di tutela non sia stato esercitato a pieno».
LA TUTELA ATTIVA
Fotografa lo stato delle cose Guermandi, perché seda una parte è grottesco che un crollo causato da un mezzo meccanico come una gru o una scavatrice avvenga quando c’è un commissario che arriva dalla protezione civile, quello a cui si assiste oggi in Italia è proprio lo scontro tra l’idea di tutela, meglio ancora di «tutela attiva» – cioè rendere i luoghi d’arte e d’interesse culturale fruibili nel massimo rispetto del patrimonio – e quella di valorizzazione a tutti i costi. Per questa «valorizzazione » fatta di eventi, meglio se mediatici e a maggior gloria del politico di turno, lo strumento usato dal governo appare essere la protezione civile, a cui attraverso vari commissariamenti sono stati affidati alcuni dei luoghi di maggior interesse artistico e culturale della penisola, oltre l’area archeologica di Napoli e Pompei quella di Roma e Ostia, gli Uffizi di Firenze, la pinacoteca di Brera e così via. Per questo tipo di operazioni Fiori avrebbe le carte in regola: portato alla ribalta da Francesco Rutelli che lo volle suo vicesindaco, divenuto rappresentante del governo nell’Evento giubileo del 2000 – successivamente coordinatore delle esequie di Giovanni Paolo II (costo per lo stato italiano di 4 milioni di euro) – di lì nel 2001 è passato alla Protezione civile di Bertolaso, dove s’è dato un gran daffare nella realizzazione dell’inceneritore di Acerra – compare anche nell’inchiesta documentario «Una montagna di balle» che racconta quella vicenda – e per il G8 de l’Aquila. Da quando è arrivato a Pompei s’è occupato di mettere qualche fontanella nell’area degli scavi, di lanciare una campagna per l’adozione di cani randagi (periziabile sul sito www.icanidipompei.it) e poi di occuparsi di questi lavori la cui durata dovrebbe essere di pochi mesi al costo di 33 milioni di euro. Il crollo del 18 gennaio gli ha rovinato il suo cinquantesimo compleanno, avvenuto appena due giorni prima. Niente paura: nel futuro rimpasto di governo di cui si parla in questi giorni sarebbe pronto per lui un posto in un ministero a Roma
ROMA— Niente meglio dei titoli dell’Ansa degli ultimi due o tre anni fa capire perché Favara è lo specchio di un Paese che si sbriciola sotto i nostri occhi. Eccone un minuscolo campionario. «Palazzina fatiscente crolla a Palermo». «Crolla parte facciata casa a Venezia, evacuate tre famiglie». «Crolla solaio abitazione nel Barese, muore un’anziana». «Crolla facciata casa nell’Imperiese». «Crolla metà abitazione, sfiorata tragedia nel Cagliaritano». «Bimbo cade da balcone stabile fatiscente». «Crolla tetto abitazione centro storico di Osimo». «Crolla casa nel Materano, morto bambino di sette anni». «Crolla cornicione palazzo a Napoli, feriti due passanti».
Si potrebbe andare avanti per pagine, senza che questo freddo elenco ci dica perché l’Italia cade a pezzi. E chi ne fa le spese, alla fine, sono sempre i poveracci. Scorrendo un recente dossier del Wwf si scopre che dal 1994 sono stati riempiti di costruzioni 3,5 milioni di ettari, dei quali due milioni di terreni agricoli: come Lazio e Abruzzo messi insieme. Ormai è impossibile tracciare un cerchio di 10 chilometri di diametro «senza intercettare una zona costruita». Un fatto che indigna la Coldiretti: «In Italia i centri storici sono degradati perché si preferisce cementificare le campagne dove negli ultimi 40 anni è scomparso quasi un terzo del territorio agricolo».
L’architetto e urbanista Aldo Loris Rossi ha calcolato che un terzo del patrimonio immobiliare italiano sia a rischio. Circa 40 milioni di vani, realizzati tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1975: case tirate su senza alcuna precauzione asismica, pur essendo in zone dove la terra trema, o semplicemente costruite male. Un periodo durante il quale abbiamo assistito a un’espansione edilizia senza precedenti, proseguita selvaggiamente negli ultimi quindici anni, nonostante la popolazione sia rimasta sostanzialmente stabile. Al punto che oggi il 20% del patrimonio abitativo è vuoto: calcolo, naturalmente, per difetto, se si considerano le case abusive che continuano a spuntare come i funghi. l’Italia del piano casa e delle new town di Silvio Berlusconi è un Paese dove ci sono 120 milioni di vani abitativi, due per ogni residente. Neonati compresi. Un Paese che negli ultimi quindici anni ha approvato due devastanti condoni edilizi, che hanno regolarizzato costruzioni spesso realizzate senza osservare le minime regole di sicurezza strutturale. Soltanto in Sicilia, nei dieci anni intercorsi fra un condono e l’altro sono apparse 70.047 case abusive.
Tutto ciò è avvenuto anche a scapito dei centri storici che, appunto, cadono a pezzi. Come Favara. O Salemi, che il sindaco Vittorio Sgarbi sta cercando di salvare vendendo a un euro le case fatiscenti ai vip che si impegnano a risanarle. Meglio costruire nelle aree libere: è decisamente più redditizio. Per i costruttori come per gli amministratori. Se la stima di Rossi è realistica, significa che una casa su tre in Italia è fatiscente. Ma se è realistica anche quella della Protezione civile, allora la situazione è ancora più grave. Degli 11,2 milioni di edifici privati, 7 milioni e mezzo sono in zone sismiche. «E il 73% di questi non è protetto per il terremoto», ha detto ad Alessandra Arachi del Corriere il direttore dell’ufficio sismico Mauro Dolce.
Per non parlare del degrado del patrimonio pubblico, che il terremoto dell’Aquila, e ancora prima quello di San Giuliano di Puglia, hanno mostrato in tutta la sua spietata evidenza. Il Quaderno bianco sulla scuola messo a punto da Fabrizio Barca un paio d’anni fa rivela che, secondo alcune stime ministeriali, all’inizio di questo decennio «circa il 57% delle scuole italiane non possedeva un certificato di agibilità statica, né igienico sanitaria, e oltre il 73% era privo di certificato di prevenzione degli incendi». Secondo un’indagine pubblicata dal settimanale Panorama, nel 2008 le scuole a rischio crollo erano 9.920. In questo Paese ci sono situazioni come quella sperimentata dai vigili del fuoco di Ancona, costretti per anni ad avere il quartier generale in una palazzina dichiarata inagibile. I vigili del fuoco!
Che c’entra questo con Favara? C’entra eccome, perché dimostra quanto scarsa sia in Italia l’attenzione dello Stato e delle amministrazioni per la sicurezza. Il vicepresidente della Regione Siciliana, Michele Cimino, che oggi promette «la totale messa in sicurezza del patrimonio edilizio esistente», dovrebbe ricordare che nel 2002 i suoi predecessori in giunta approvarono la sanatoria delle costruzioni abusive sulla costa. E che il dramma della frana di Messina di qualche mese fa ha nomi e cognomi. Dal 2007 a quel terribile giorno, come ha raccontato sempre sul Corriere Marco Imarisio, la polizia municipale aveva chiesto la demolizione di ben 1.191 manufatti abusivi e pericolosi. Ma una ruspa non si è mai vista.
Ecco spiegato perché in Italia il fascicolo di fabbricato abbia incontrato così tanti ostacoli: salterebbe fuori, come dice Rossi, che una casa su tre va buttata giù o ha bisogno di interventi strutturali seri e costosi. Di che cosa si tratta? È il checkup dell’edificio fatto da ingegneri e geologi, che dovrebbe essere rinnovato ogni dieci anni. Una legge per renderlo obbligatorio sul territorio nazionale non è mai passata. La Confedilizia gli ha fatto una guerra spietata, per i costi che comporterebbe. Così la Regione Lazio, per esempio, l’ha adottato autonomamente. Ma prima il Tar, poi il Consiglio di Stato, l’hanno bocciato. E nemmeno i tentativi di ripescarlo con i piani casa regionali, hanno avuto successo. La Regione Lazio l’ha dovuto ritirare di nuovo. Mentre la Basilicata si è vista addirittura impugnare la legge dal governo. Perche conteneva l’eresia: il fascicolo di fabbricato.
Nelle classifiche dei paesi evoluti l’Italia naviga male e detiene un primato poco invidiabile, lo stile criminofilo. "Stilus" significa anche procedura. In penale, quando ho dato l’esame sessant’anni fa, era materia risibile, imparata su libercoli: fino al 1938 addirittura assente dal programma accademico; stava relegata nell’ultimo, trascurabile capitolo del corso penalistico. Carnelutti la chiamava Cenerentola.
Tra i penalisti eminenti era quasi punto d’onore schivarla, mirando diritto alla discussione nel merito: se quel fatto sia avvenuto; chi l’abbia commesso; come qualificarlo e via seguitando. Adesso rende servizi loschi. Il codice nato ventun anni fa doveva chiudere l’epoca postinquisitoria ma i legislatori non sapevano cosa significhi "processo accusatorio": significa forme sobrie, garanzie serie, agonismo leale, rigorosa economia del contraddittorio; in mano loro diventa cavillo micromaniaco, invadente, esoso, comodo nelle furberie ostruzionistiche; e la XIII legislatura completa la perversione codificando teoremi filati dalla Bicamerale (sui quali Licio Gelli vanta un diritto d’autore); sotto insegna centrosinistra spirava aria berlusconoide. La prassi attua una metamorfosi. Chiamiamola arte del sur place: difese con poche chances nel merito giocano partite dilatorie; sparisce l’autentica questione, se l’asserito reato esista e chi l’abbia commesso; futili schermaglie sfruttano i torpori dell’apparato sovraccarico, finché il tempo inghiotta i reati. Fanno storia le campagne giudiziarie dell’Unto: dopo tanto rumore resta un delitto estinto; altrove tagliava corto abolendo la norma incriminante, vedi falso in bilancio.
Dopo sette anni e mezzo al vertice dell’esecutivo, avendo sconvolto l’ordinamento nel suo privatissimo interesse, corre ancora rischi penali: persa l’immunità fornitagli dai due lodi, invalidi come la legge con cui aveva sotterrato l’appello del pubblico ministero, gioca grosso macchinando un istituto senza eguali nel museo dei mostri giudiziari. I processi italiani sono patologicamente lunghi (abbiamo appena visto perché): in proposito l’Italia figura male; cresce l’esborso alle vittime d’una giustizia tardiva; e il dl n. 1880, su cui Palazzo Madama ha votato mercoledì 20 gennaio, quadra i circoli riprendendo l’idea d’una sinistra toccata dal virus bicamerale. Eccola: imporre dei termini, scaduti i quali ogni processo ancora pendente vada in fumo; colpevoli o innocenti, tutti fuori, sotto lo scudo del ne bis in idem; allegramente liquidati i carichi pendenti, la giostra riparte. Figure da commedia dell’arte, divertenti ma non attecchiranno, finché il diritto sia ancora cosa seria. Sarà il quarto capolavoro berlusconiano abortito davanti alla Consulta.
Vari i motivi. Consideriamone alcuni. Esiste l’articolo 112 della Costituzione: l’azione penale è obbligatoria; se non agisce, il pubblico ministero, deve chiedere un provvedimento che lo sciolga dall’obbligo, perché rebus sic stantibus l’accusa sarebbe insostenibile; e rimane aperta la via d’ulteriori apporti. Azione obbligatoria, quindi irretrattabile: ciascuno dei due caratteri implica l’altro; mosse dall’attore pubblico, le ruote girano da sole, mentre nei sistemi anglosassoni può desistere (allora drops the prosecution); quando cambia idea, chieda l’assoluzione; il giudice dirà se vi sia o no un colpevole. Questo sistema esclude processi evanescenti allo scadere dei termini: equivarrebbero all’accusa lasciata cadere; ogni procedimento bene aperto, dove non ricorrano fatti estintivi del reato, esige la decisione nel merito (salvo un singolo caso, il non liquet previsto dall’articolo 202, comma 3, qualora il segreto di Stato interdica la prova sine qua non). L’articolo 112 della Costituzione è tra i più aborriti nel bestiario nero del monarca; e sappiamo cosa covi quando elucubra revisioni costituzionali: procure agli ordini del ministro affinché i possibili affari penali passino nel filtro delle convenienze. Sedici anni fa chi voleva insediare in via Arenula? Cesare Previti, uomo sicuro.
Secondo profilo d’invalidità: l’occupante scatena un terremoto pro domo sua; il mostro deve valere nei giudizi pendenti; così stabilisce l’articolo 2, escludendo appello e Cassazione (irragionevolmente: articolo 3 della Costituzione). Anche in tali limiti la novità affossa procedimenti a migliaia: è amnistia sotto nome diverso, anzi l’effetto risulta più grave, perché l’amnistia estingue i reati, mentre qui, svanendo il processo, non consta niente, e magari esistono prove più chiare del sole; ma le amnistie richiedono leggi votate in ogni articolo da due terzi delle Camere (articolo 79 della Costituzione).
Terzo profilo (stiamo enumerando i macroscopicamente rilevabili). I processi lunghi non dipendono da operatori poltroni, hanno cause organiche: ipertrofia legislativa, apparato povero, gli pseudogarantismi sotto la cui ala l’augusta persona guadagnava tempo; né questa politica criminofila vuol rimuoverle. Supponiamo che un processo su sette sconfini dai termini estinguendosi. La giustizia penale diventa lotteria: essere o no quel fortunato dipende da imponderabili, fuori d’ogni criterio legale, nella sfera del caso (tanto peggio se fosse manovrato sotto banco); Bridoye, racconta Rabelais, emetteva sentenze tirando i dadi. Valutato secondo l’articolo 3 della Costituzione, l’intero meccanismo appare perverso. La ventesima legge ad personam salva l’ipotetico corruttore nel caso Mills, perché il procedimento pende davanti al Tribunale da oltre due anni, id est un quarto della pena massima. Supponiamo una notitia criminis precoce, indagini rapidissime, udienza preliminare trascinata ad defatigandum e altrettanto il dibattimento: scaduti due anni, scatta il praestigium; il processo era fuoco fatuo; Monsieur ridiventa innocente, anche se le prove lo inchiodano, quando l’ipotetico reato sarebbe prescritto solo in otto anni (articolo 157 codice penale), anzi dieci, contando gl’incrementi da fatti interruttivi. I numeri misurano l’assurdo dell’avere un padrone senza barlumi d’etica.
Dunque il Padre Costituente era un Padre Deformante. La norma del cosiddetto processo breve scardina il diritto dei cittadini ad avere giustizia, il dovere dello Stato di amministrarla, l´interesse del Paese ad una regola di base della convivenza civile come l´uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Soprattutto, con l´esecutivo che usa come un´arma personale il legislativo per bloccare il giudiziario, quella norma vanifica il principio della separazione dei poteri, senza il quale, come diceva la Dichiarazione dei diritti dell´uomo del 1789, una società "non ha una costituzione".
Questo è il vero punto su cui istituzioni, partiti e cittadini devono riflettere. È ben chiaro che le regole del gioco di un sistema si cambiano tutti insieme. Ma a patto che nessuno, intanto, manometta per sua personale urgenza alcune regole fondamentali, prima ancora che il confronto abbia inizio. Chi lo fa, è inaffidabile per due ragioni: perché nessuna riforma condivisa inizia con un colpo di mano, e soprattutto perché nessuna stagione costituente può fondarsi su un salvacondotto.
Con questa legge di privilegio, Berlusconi ha in realtà già riformato da solo il sistema, a forza, sovraordinando il suo potere al diritto, mentre il concetto politico-giuridico di Stato punta ad una sintesi tra potere e diritto, eliminando la forza dall´ambito delle istituzioni. Siamo davvero di fronte ad un "brusco spostamento tra politica e giustizia". La prima regola democratica è prenderne atto, ed essere conseguenti.
Fatima è bellissima. Coi suoi 12 anni e l'ambra dell'oriente a colorarle gli occhi, il viso, le labbra. Ieri ha messo gli abiti buoni, i pantaloni e la maglia delle occasioni importanti. Fatima avrebbe dovuto parlare davanti al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e al ministro dell'Istruzione, Mariastella Gemini, nella «Giornata della legalità» organizzata al liceo artistico di Reggio Calabria, in Italia, nel paese in cui vive da diversi anni dopo la fuga della sua famiglia dal Libano.
Ma aveva il velo Fatima. Rosa, dipinto con disegnini bianchi a dare un tocco gioviale e sbarazzino al suo copricapo, un hijab per bambina. L'aveva stretto in testa, così da non far scivolare nemmeno un capello lungo la fronte, come vuole la tradizione islamica. Eppure, per poter parlare, l'avrebbe dovuto togliere. È il sindaco Domenico Lucano a raccogliere l'indignazione della vice preside della scuola media di «Monasterace-Riace» che, da due giorni, faceva la spola col capoluogo per accompagnare la bimba alle prove del suo discorso. Era tutto pronto. Ma, lungo il tragitto, il cellulare dell'insegnante è squillato almeno 5 volte. Dall'altro capo del telefono, un non meglio precisato «direttore» le raccomandava che Fatima, per poter intervenire, avrebbe dovuto togliere il velo.
Racconta la professoressa: «Mi hanno detto che si trattava di un semplice accorgimento per una questione di suscettibilità». Incredibile, ma vero. E dalla vicenda prende subito le distanze una funzionaria del ministero della Pubblica istruzione presente alla cerimonia di ieri. Spiega il punto di vista ufficiale: «Come Fatima sono stati molti i bambini esclusi per una questione di tempo e organizzazione. Anche loro avevano regolarmente svolto le prove». In ossequio a una scaletta rigida e inflessibile si è dovuta prendere una scelta: «Sul palco, a ogni modo, è salita un'altra piccola straniera, polacca e studentessa di Rosarno. Si è quindi preferito far intervenire una compagna di Fatima, italiana e anche lei impegnata fra i banchi di Riace, semplicemente per non tracciare differenze fra stranieri e italiani». Equità, dunque. E nessun caso di razzismo. Anche se, presente a una riunione nella presidenza del liceo artistico, convocata d'urgenza da tutti gli interessati sospinti dai giornalisti, un amministrativo della scuola di Riace, presente al momento delle telefonate fra la vice preside e l'incognito «direttore», ha parlato di «pressioni arrivate dal ministero dell'Interno».
Dal Viminale, secondo la sua testimonianza, sarebbe partita l'offensiva al velo islamico di una bimba che avrebbe voluto dire che «a Riace si sta bene». All'amministrativo, però, la funzionaria del ministero ha risposto con un sorriso: «Ma figuriamoci». Pure la piccola, confusa da tanto clamore, ammette che le è stato chiesto di levare il copricapo islamico: «Ovviamente ho detto di no». Adesso, la mamma di Fatima vuole andare fino in fondo a una storia che ha visto sua figlia protagonista inconsapevole: «Voglio denunciare tutti. Voglio che i giornali ne parlino». Il suo sdegno ha raggiunto persino il Capo dello Stato che, con madre e figlia, strette nel velo delle loro radici, si è concesso una fotografia. La mamma di Fatima l'ha detto a Napolitano, gli ha raccontato che la sua bimba avrebbe dovuto parlare dal palco. Non le è stato concesso. Il Presidente, travolto da abbracci, saluti e affetto, potrebbe non aver compreso. E solo nel tardo pomeriggio la presidenza ha diffuso un comunicato ufficiale per precisare che: «Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha incontrato e salutato direttamente la piccola Fatima... come è del resto documentato dalle riprese televisive e dalle immagini fotografiche dell'iniziativa». Alla mamma di Fatima resta solo la rabbia. Cose del genere non le erano «mai accadute». Lì, a Riace, paese della tolleranza e dell'integrazione, dove il sindaco Lucano è diventato un simbolo della lotta alla discriminazione razziale, «mai si sarebbe verificato un così spregevole episodio».
Ritorno alla scuola del più forte
di Alba Sasso
Annidato in un emendamento a una legge sul lavoro un colpo mortale al sistema scolastico italiano. In pratica la soppressione dell'obbligo scolastico ma solo per alcuni : «i meno volenterosi». A questi ragazzi si indica sbrigativamente un'altra strada: quella dei percorsi di apprendistato. L'apprendistato è una non scuola e un non lavoro. Una parte dei ragazzi continuerà a studiare, un'altra sarà dirottata a un semilavoro precario e sottopagato. Altro che valenza formativa del lavoro! E vogliamo ancora credere che le imprese abbiano voglia di formare la propria forza lavoro, quando i contratti di apprendistato sono serviti in questi anni a tutt'altro: a ridurre le retribuzioni e ad aggirare le norme per l'applicazione dello Statuto dei lavoratori, dal momento che gli apprendisti sono esclusi dal numero dei dipendenti?
Qualche mese fa un rapporto di Bankitalia dimostrava come sia produttivo l'investimento in istruzione. E in questo ultimo anno molti paesi europei e gli Stati uniti hanno affrontato la crisi finanziaria economica e sociale investendo massicciamente nel settore della conoscenza.
In Italia invece un pauroso salto all'indietro. Drammatico in un Paese dove, come documenta l'Istat, ancora nel 2008 il 47% della popolazione italiana ha come titolo di studio più elevato solo la licenza di scuola media inferiore. Non c'è solo l'assurdità di cancellare l'obbligo di istruzione almeno fino a sedici anni, presente in tutti i paesi civili. C'è una brutale volontà di ritorno al passato: di cancellare quel nesso tra istruzione e sviluppo che fu alla base della riforma della scuola media unica del '62 e persino di negare l'idea positivista d'inizio secolo, secondo la quale il progresso sociale doveva misurarsi con la necessaria alfabetizzazione di vasti strati della popolazione.
Una scelta confusa e pasticciata (a quindici anni e quindi dopo un anno di permanenza nella scuola secondaria). Ma qualcuno pensa a queste ragazzi e ragazzi più fragili culturalmente, più deboli socialmente sballottolati da un percorso all'altro ai quali si nega formazione e futuro?
In realtà dietro tutto questo c'è un'idea precisa di società - la società del più forte - e di governo - forte con i deboli e debole con i forti. E c'è un attacco alla democrazia perché è scelta di democrazia, quella di un paese che riesce a garantire livelli diffusi di istruzione al più alto numero di cittadini, combattendo l'idea che la formazione serva solo a selezionare i migliori, piuttosto che a intercettare e valorizzare le capacità specifiche di ognuna e ognuno. La scuola non può essere «un ospedale che cura i sani ed espelle i malati», ma deve essere un luogo, che continuando a garantire a tutti l'accesso all'istruzione , è in grado di intercettare il merito dovunque si nasca e da qualsiasi famiglia si provenga.
Questa norma -sottratta a ogni discussione- e che bisogna cancellare subito è un attacco alla democrazia sostanziale, è una scorciatoia per non affrontare con riforme vere il tema drammatico della dispersione scolastica . Una ferita per tutto quanto costruisce civiltà, democrazia e futuro per il Paese e per le nuove generazioni.
Obbligo scolastico? In officina
di Francesco Piccioni
Si dice: «l'istruzione fa la differenza», perché permette di aumentare sia la produttività generale che lo stipendio individuale. Quindi, cosa fa questo governo? Permette di trascorrere l'ultimo anno di istruzione obbligatoria (il secondo anno delle superiori, in un percorso regolare) sotto forma di «contratto d'apprendistato». Gli «accordi di Lisbona», nel 2000. avevano fissato l'anno appena iniziato come il traguardo da tagliare per una matura «economia della conoscenza». Ben arrivata, Italia!
La Commissione lavoro del Senato, ieri mattina, ha approvato un emendamento - presentato dalla maggioranza - al disegno di legge sul lavoro, collegato alla Finanziaria. In cui è previsto che l'apprendistato possa valere a tutti gli effetti come assolvimento dell'obbligo dell'istruzione. Avete presente quel che fanno già spontaneamente molti genitori poveri, nei territori più arretrati? Non mandano più i figli a scuola, perché servono le loro braccia per portare a casa qualche euro in più. Si chiama «dispersione scolastica» e viene da decenni combattuta in molte forme. Ora non più. Diventa legalissima, anzi, equivale «quasi» a un titolo di studio, purché avvenga «solo» tra i 15 e i 16 anni di età.
Un ministro incommentabile come Maurizio Sacconi ci ha tenuto a rilasciare il suo personale giudizio su questa misura: «Non si tratta per nulla di anticipare l'età di lavoro, ma di consentire il recupero di un giovanissimo demotivato a seguire gli altri percorsi educativi attraverso una più efficace modalità di apprendimento in un contesto lavorativo. Si tratta in ogni caso di una possibilità in più e del riconoscimento comunque che il lavoro è parte del processo educativo di una persona». C'è da pensare, dunque, che si possa prima o poi essere messi al lavoro anche prima dei 15 anni, tanto sempre «educazione» è. Non a caso, il testo risulta in conflitto con almeno due leggi esistenti da molto tempo: l'obbligo scolastico e l'età minima per poter lavorare, entrambe fissate a 16 anni.
Immediate le reazioni politiche e sindacali, con il Pd che tramite Fioroni - ex ministro dell'istruzione - parla di «inaccettabili salti indietro nella formazione»; l'Idv di «governo ignorante che incita all'ignoranza». La Cgil vi nota «l'abbassamento dei diritti», criticando la becera «propaganda» sui temi del «lavoro per i i giovani e la lotta al sommerso». Critiche senza appello arrivano anche dalle assai più bendisposte (di solito) Cisl e Uil, che parlano di «emendamento da ritirare».
Tra l'allarmato e l'ironico, invece, la reazione dei diretti interessati. Mentre la Fgci invita il presidente Napolitano a non controfirmare il testo (che dovrebbe iniziare il percorso in aula già lunedì prossimo), la Rete degli studenti coglie il nesso tra il testo e i fatti di Rosarno: «e ora tutti a raccogliere le arance!». Complice anche l'altro ministro, Brunetta, che nei giorni scorsi aveva straparlato di una «legge per mettere fuori di casa» chi aveva più di 18 anni di età.
Il decreto lavoro, frutto di mediazioni con il Pd, contiene anche un'unica cosa positiva: il ripristino della gratuità per le cause di lavoro (che era stata cancellata proprio per scoraggiare i lavoratori dal far ricorso contro licenziamenti, ecc). Ma il punto sull'apprendistato «istruttivo» è davvero l'elemento che mette in chiaro l'idea di società che anima questa maggioranza. I giovani in difficoltà con l'assolvimento dell'obbligo scolastico sono, com'è noto, quelli con alle spalle famiglie decisamente povere. Avallare la possibilità di mandarli al lavoro appena un anno dopo la licenza media - a prescindere oltretutto dal merito scolastico - significa, com'è stato osservato subito, «bloccare la possibilità di mobilità sociale».
Peggio ancora, visto che proprio ieri è stato approvato dalla Camera anche il regolamento di riforma delle superiori, che prevede tra l'altro la soprpessione di migliaia di cattedre. Il combinato disposto è quindi chiarissimo: chiudere con l'istruzione «diritto universale» e «risparmiare» sul personale, riducendo la platea dei potenziali «clienti». Persino il senatore Rusconi, del Pd, è stato costretto a riesumare la definizione di «indirizzo classista» per questo schema.
I Cobas, che ieri stavano protestando davanti Montecitorio insieme alla Cgil e altri settori del mondo della scuola, hanno perciò confermato senza esitazioni lo sciopero generale della scuola, proclamato per il prossimo 12 marzo.
Nessuno, neppure un fantuttone, può dividersi a metà specie se una metà è destinata a governare Venezia, che è una città del mondo, una specie di città Stato, come Parigi, Milano, Amburgo, Istanbul, New York. città che richiederebbero, se mai, tre sindaci a tempo pieno e non un sindaco part time E invece Renato Brunetta è il candidato sindaco della Pdl e ha già annunziato che resterà ministro per la Pubblica amministrazione e l´Innovazione, terrà il doppio incarico. Dunque nei giorni pari Brunetta realizzerà la riforma dello Stato, «la più grande riforma mai progettata per l´Italia» (sono parole sue), e nei giorni dispari si occuperà dell´inquinatissima Marghera e delle raffinerie senza futuro industriale, del waterfront di Mestre, del porto turistico e della destinazione dei terreni, che erano agricoli, acquistati dall´amministrazione Cacciari nella zona di Tessera, del progetto di trasformare in appartamenti alcuni alberghi storici del Lido... E ovviamente asciugherà Piazza San Marco, sistemerà il turismo, le Biennali, il festival del cinema, il Mose, l´università, il Casinò.
Ma fermiamoci un attimo. Su Brunetta si può usare l´ironia, ma su Venezia no. E dunque, per una volta, abbiamo deciso di affrontare seriamente il ministro più rumoroso d´Italia e di invitarlo a non offendere la città straordinaria della quale legittimamente sogna di fare il sindaco, una delle città più amate del mondo. Non è più questione di prendere in giro la sua vanità, i suoi eccessi, i suoi insulti, l´idea che ha di se stesso come economista da Nobel, la voglia di mortificare tutti i mondi dove secondo lui ancora si annida la sinistra: gli statali, i professori, i magistrati, i giornalisti, i disabili, i donatori di sangue, i registi, gli attori, gli studenti, i poliziotti pancioni... Fingiamo che Brunetta sia un uomo politico animato da buone e sane intenzioni verso la città dove è nato, ammettiamo che davvero voglia il bene della sua difficilissima e bellissima Venezia. Ecco: Brunetta fa bene a concorrere ad una carica di forte responsabilità che da sola gli riempirebbe le giornate, ma deve dimettersi da ministro se non vuole diventare uno di quegli assenteisti che combatte. Gli assenteisti, citiamo testualmente Brunetta «in Italia sono quelli che fanno due lavori», quelli che fanno male due lavori, non potendone o non volendone fare uno bene.
Anche l´economista Francesco Giavazzi, in un editoriale del Corriere della sera di lunedì scorso, con passione e competenza veneziane, gli ha spiegato, e senza la nostra ironia, che l´amministrazione di «una città bizantina e complicata come Venezia» non è compatibile «con le sue responsabilità di ministro», e insomma Venezia non può avere «un sindaco a mezzo servizio».
A meno che Brunetta non abbia scoperto che il suo ministero è inutile, e che erano fuochi fatui e botti paesani tutte quelle dichiarazioni con la baionetta inastata contro i collassatori dello Stato e i fannulloni, contro i terroristi molli del doppio lavoro che rubano lo stipendio e in realtà si occupano d´altro... Brunetta ne converrà: quando farà il ministro sarà un sindaco fannullone, e quando farà il sindaco sarà un ministro fannullone.
Pure il conflitto di interessi dovrebbe spaventare Brunetta perché governo ed enti locali hanno spesso esigenze contrapposte o difformi e il governo stanzia (o non stanzia) finanziamenti che i sindaci contestano, e non c´è città d´Italia che non abbia una questione aperta con il governo. E basterà qui ricordare che la riforma federalista, che è stata già approvata, trasferisce la proprietà dei beni culturali (cioè l´intera Venezia) dallo Stato alla Città. Come si vede stavolta non è solo questione di fannulloni e fantuttoni. È in gioco l´amministrazione di uno dei pezzi di territorio più importanti d´Italia. A Brunetta piace fare come Figaro, e pensare che tutti lo vogliono e tutti lo cercano. Ma qui finisce che non lo trovano.
ll Consiglio dei Ministri del prossimo venerdì 22 gennaio dovrebbe approvare la riforma della scuola superiore. Nei nuovi curricoli dei licei e degli istituti tecnici e professionali, in via di definizione, la geografia scompare del tutto - o quasi. Non si sono sentite proteste, al proposito. Ad eccezione di quelle sollevate, comprensibilmente, dalle "associazioni di categoria" (in testa l'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e la Società Geografica Italiana), che hanno lanciato un appello accorato (su www.aiig.it e www.luogoespazio.info). Ma c'è da dubitare che troveranno grande ascolto. I problemi che contano e appassionano sono ben altri. Anche se il territorio continua ad essere evocato, per ragioni politiche e polemiche. I confini: vengono chiamati in causa quando c'è da respingere i clandestini. Frontiere invisibili divengono muri visibili per marcare la distanza dagli "stranieri". Per alimentare domanda di sicurezza, per richiamare la comunità perduta. Il nostro piccolo mondo che scompare, schiacciato dal grande mondo che incombe. Così si invocano le ronde, senza poi formarle. E i "confini" della città sono marcati da cartelli segnaletici che, accanto al nome di città "straniere" gemellate, avvertono: non vogliamo "stranieri", guai ai "clandestini". (Quasi che i clandestini si dichiarassero come tali, apertamente, all'ingresso della città).
Siamo orfani dei confini che, tuttavia, non riconosciamo. E non conosciamo più. Come il territorio. Rimozione singolare, visto che mai come in quest'epoca le identità ruotano intorno ai riferimenti geografici. L'Oriente e l'Occidente. Che, dopo la caduta del muro di Berlino, non sappiamo più come e dove delimitare. In Italia, il Nord e il Sud. La Lega Nord e il Partito del Sud. Si rimuove la geografia mentre la geografia si muove. Insieme ai confini. Centinaia di comuni vorrebbero cambiare provincia. Oppure regione. E molte province si spezzano; mentre, parallelamente, ne nascono altre di nuove. E se guardiamo oltre i nostri confini abbiamo bisogno di aggiornare le mappe. Un anno dopo l'altro. Per de-finire i paesi (ri)sorti in seguito al crollo degli imperi geopolitici. Per "nominare" contesti senza nome oppure ignoti, un attimo prima, il cui nome è rivendicato da popoli che ambiscono all'indipendenza. Da minoranze che vorrebbero venire riconosciute e da maggioranze che ne reprimono le pulsioni. Così, scopriamo, all'improvviso, dell'esistenza di Cecenia, Abkhazia, Ossezia, Timor Est. Mentre Cekia e Slovacchia sono, da tempo, felicemente divise. Ma molti non lo sanno e continuano a "nominare" la Cecoslovacchia.
In questo paese - ma non solo in questo - il "popolo" più detestato è quello Rom. Gli zingari. Accusati di molte colpe - talora a ragione. La principale fra tutte: non avere una patria. Una residenza. Rifiutarla. Troppo, per una società che ha dimenticato il territorio - sepolto sotto una plaga immobiliare immensa e disordinata. Ma continua a evocare le "radici". E non sopporta chi è nomade. Sempre altrove.
Questa società: non ha più bisogno di mappe, bussole, atlanti, carte geografiche. Basta il Gps. Ciascuno guidato da un satellitare o dal proprio cellulare. In auto ma anche a piedi, in giro per la città. Una voce metallica, senza accento, intima. "Ora girare leggermente a destra, poi andare dritto per 100 metri". Ma se finisci contromano, una marea di auto che ti corre (in)contro; oppure davanti a un muro, a un divieto di circolazione, e ti fermi, preoccupato, si altera: "Andare dritto!!". E quando cambi direzione, per non essere travolto, non si rassegna e ordina: "Ora fare inversione a U". Anche se hai imboccato una strada a senso unico.
La società del Gps è popolata di persone etero-dirette, che si muovono senza un disegno, né un progetto. Non sanno dove andare e neppure dove sono. Questa società - questa scuola - non ha bisogno di geografia, né di geografi. Ma neppure della storia: visto che la geografia spiega la storia e viceversa. Questa società - questa scuola - questo paese: dove il tempo si è fermato e il territorio è scomparso. Dove le persone stanno ferme. Nello stesso punto e nello stesso istante. In attesa che il Gps parli. E ci indichi la strada.
( 21 gennaio 2010)
Il viceré Bertolaso I sale trionfalmente al soglio di imperatore di tutti gli appalti con il decreto legge, varato la settimana scorsa dal Consiglio dei ministri e adesso in discussione al Senato, che "privatizza" la Protezione civile della nazione trasformandola in una Spa. Altro che la gerarchia dei ministri stilata ufficialmente dal suo mentore Gianni Letta.
Guido Bertolaso, dottore in medicina, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e capo del Dipartimento della Protezione civile, scala di fatto l'ordine protocollare superando in termini di potere reale non solo Frattini, Maroni e Alfano, i primi tre nella classifica lettiana, ma anche Giulio Tremonti, custode dei cordoni della borsa. Perché più e meglio di come ha fatto fin qui potrà spendere come vuole un numero imprecisato di miliardi di euro pubblici senza alcun controllo, autorizzazione o rendiconto e, se occorre, con la secretazione, come è avvenuto per il G8 che avrebbe dovuto svolgersi all'isola della Maddalena e fu infine trasferito all'Aquila terremotata. Potrà spendere ad libitum Bertolaso non solo per frane, incendi e terremoti, ma per qualunque "Grande evento" sia giudicato degno, nei confini della Repubblica e nell'orbe terracqueo, di un "decreto emergenziale".
I ministeri tacciano sotto il tallone di Tremonti e la Corte dei Conti si metta l'animo in pace. I controlli sono off limits nei confronti di "B&B".Già soprannominata "Bertolaso Spa" tra i senatori di tutte le parti da noi interpellati che stanno esaminando il decreto, la "Protezione civile servizi Spa" diventa di fatto se non il più grande, certamente il più autonomo ente appaltatore della Repubblica, con una quasi totale deroga alle tradizionali norme di legge per i fondi in transito da palazzo Chigi e destinati ai più svariati scopi: dalle gare ciclistiche, alla celebrazione di santi, dai party di Stato ai viaggi del Papa, dalle piscine alle discariche, dal traffico delle gondole in laguna alle regate, dagli alberghi di lusso agli scenari di cartapesta per i vertici internazionali. Come quello - tripudio del kitsch curato da Berlusconi in persona - che fece sorridere i ministri convenuti per il vertice Nato-Russia di Pratica di Mare. Per spingersi prossimamente alla gestione dell'Expò di Milano del 2015 e alle Olimpiadi del 2020 contese tra Roma e Venezia, che Berlusconi e Letta vogliono nelle mani della seconda "B", quella di Bertolaso.
Una macchina di potere così travolgente da spostare ulteriormente dalle sedi dei ministeri e naturalmente del Parlamento e delle Autorità di controllo fino a palazzo Chigi la barra del potere reale della ditta Berlusconi & Bertolaso, che sotto l'ala nobile del Gentiluomo di Sua Santità Gianni Letta, della cultura dell'emergenza ha fatto una scienza di potere infinitamente più sofisticata rispetto a quella della prima repubblica, che prevedeva complesse "cupole" per la spartizione di favori, potere e ricchezze, magari attraverso i titoli in cui erano convertiti i fondi neri dell'Iri, di cui il sottosegretario Letta ha diretta conoscenza, avendone riscossa a suo tempo una quota pari a circa un miliardo e mezzo di lire di allora.
Sbaglierebbe chi credesse che l'emergenza della "Bertolaso Spa" si sostanzi soltanto nei terremoti, nelle frane, nelle esondazioni, negli incendi, che pure ogni anno non ci fanno mancare niente. Tutto è ormai emergenza in questo paese: dal quattrocentesimo anniversario della nascita di San Giuseppe da Copertino, celebrato in provincia di Lecce con l'ordinanza "emergenziale" 3356, al congresso eucaristico nazionale, previsto ad Ancona dal 4 all'11 settembre 2011, di cui Bertolaso è già commissario, per ora con una dote di soli 200 mila euro da spendere per la buona riuscita dell'evento. Spiccioli, bazzeccole, pinzillacchere. Ben altri sono gli interessi che sotto la voce "Protezione civile" fanno fluire centinaia e centinaia di milioni. Spesso agli amici e agli amici degli amici.
Tra il 2001, quando Bertolaso venne nominato capo della Protezione civile e i primi cinque mesi del 2009, la presidenza del Consiglio ha emesso 587 "ordinanze emergenziali", di cui solo una parte riferita a calamità naturali. Il resto a "Grandi eventi", o presunti tali. Pare che nessun organo di controllo da noi interpellato sia in grado al momento di sapere esattamente quanto la coppia "B&B" è riuscita a spendere negli ultimi anni, senza alcuna pastoia o controllo di legittimità. Ma ha prodotto una stima attendibile Manuele Bonaccorsi, autore di un dossier intitolato Potere assoluto - La protezione civile ai tempi di Bertolaso, appena pubblicato e che la Cgil, che giudica il nuovo decreto sulla protezione civile "improprio e anticostituzionale", illustrerà sabato prossimo all'Aquila in una manifestazione di protesta dei Comitati dei terremotati contro la "Protezione Civile Spa". Tra il 3 dicembre 2001 e il 30 gennaio 2006 la presidenza del Consiglio ha varato 330 ordinanze. Di queste, sono pubblici gli stanziamenti di 75 ordinanze, che valgono circa un miliardo e 490 mila euro. Non si tratta di un campione rappresentativo, ma è un dato che consente una stima. Nei cinque anni, tramite ordinanze della Protezione civile, in spregio alle norme sugli appalti e le assunzioni, sarebbero stati spesi 6,5 miliardi. Se si fa il calcolo su 587 ordinanze della presidenza del Consiglio in meno di nove anni, si arriva a 10,6 miliardi. Una somma sufficiente - giudicano gli autori del dossier - a costruire un blocco di potere indistruttibile, segreto e libero da qualsiasi regola.
Capite allora perché l'imperatore di tutti gli appalti, che il centrosinistra considerava uno dei suoi, dichiara nelle interviste che tra tutti i quattordici governi in cui ha "servito", il Berlusconi quater è "il migliore"? Figlio di un pilota dell'aeronautica militare, medico nel Terzo mondo stipendiato dalla Farnesina e pars magna a Roma di una società immobiliare operante nel comprensorio dell'Olgiata, gran giocatore di golf con il suocero Guido Piermarini, campione del generone romano, da giovane medico l'idolo di Guido Bertolaso era il medico dei derelitti Albert Schweitzer. Poi, al seguito di Giulio Andreotti, l'aspirante medico dei derelitti scoprì che era meglio curare i potenti della terra che i diseredati della terra.
Dieci anni fa era ancora nessuno. "Io lo conoscevo bene", racconta Luigi Zanda, oggi vicepresidente dei senatori del Pd, che nel 2000, quando era presidente dell'Agenzia del Gran Giubileo, lo incontrò come vice di Francesco Rutelli, sindaco di Roma e commissario all'evento. "Abile nella soluzione dei problemi, aveva un ego smisurato", secondo Zanda, che oggi guida in Parlamento le legioni degli oppositori alla "Bertolaso Spa", che, oltre alla Cgil, allinea per ora la Conferenza delle Regioni, presieduta da Vasco Errani, e l'Associazione dei comuni di Sergio Chiamparino.
Oltre a uno schieramento bipartisan che non ne può più della ditta "B&B", covata dietro le quinte da Gianni Letta e dal suo sistema di potere, curato da ambasciatori che, a suo tempo, figurarono come reclutatori della Loggia P2 di Licio Gelli, impegnata soprattutto a riciclare tangenti con la complicità della banca del Vaticano. Come il mitico Luigi Bisignani, che oggi, ufficialmente manager di una società tipografica torinese, in realtà svolge per conto di Letta le funzioni di portavoce dei potentissimi sottosegretariati di palazzo Chigi. "B&B", più la "L" di Letta.
"Quella cui assistiamo - dice Zanda - è una picconata allo Stato, una sovrapposizione abnorme tra un capo Dipartimento, un direttore generale che dovrebbe ispirarsi all'imparzialità, e un sottosegretario controllore-controllato, cui, per di più, col nuovo decreto, si implementano i poteri. Nella repubblica democratica italiana non è mai accaduto che un membro del governo abbia avuto contemporaneamente la carica di sottosegretario e di direttore generale. È come se il ministro dell'Interno Maroni fosse anche il capo delle polizia. Per la serie: continuiamo a picconare questo ex Stato di diritto".
Legibus solutus, anche a causa del caratteraccio arrogante e litigioso nonostante il Premio Santa Caterina da Siena appena ricevuto, il pio Bertolaso rischia col suo sistema di potere di incappare in quei piccoli granelli che, se sottovalutati, possono inceppare il meccanismo. Tra le centinaia di delibere emergenziali passate negli anni passati del suo potere da palazzo Chigi, destinate a moltiplicarsi con il decollo del decreto "B&B", ce n'è qualcuna che proprio non può passare indenne a qualche sacrosanta verifica giudiziaria. A parte l'inchiesta "Rompiballe", che coinvolge Bertolaso nelle vicenda del discutibile riciclaggio dei rifiuti napoletani, fiore all'occhiello del berlusconismo, vogliamo magari parlare degli appalti secretati per il G8 della Maddalena, confluiti in una piccola società di Grottaferrata, Castelli Romani, di nome Anemone, come il suo titolare, personaggio riconducibile ai cari del commissario bertolasiano Angelo Balducci? O dei venti inutili poli natatori sorti a Roma ad uso dei soliti palazzinari, facendo carta straccia dei piani regolatori, per i Mondiali di nuoto del 2009?
Quella volta fu un figlio del Balducci, oggi stimato presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, a tentare il business milionario su un territorio prossimo alla via Salaria che rischia di affogare sotto il Tevere ogni volta che fa due gocce d'acqua. Tanto era sfrontata la speculazione del giovane Balducci, che qualche magistrato proprio non la digerì. Ora la "Protezione Civile Spa" della premiata ditta "B&B", punta con tanti amici costruttori a luoghi secchi e desertici. E soprattutto, liberata con la privatizzazione dagli ultimi lacci dei controlli, a nessuna interferenza di giudici rossi.
C'è una gran voglia di voltare pagina e guardare avanti. Quello che è stato un Paese riconosciuto e rispettato per la sua politica, la sua cultura, la civiltà dei rapporti sociali, è ormai identificato con l'impasse in cui è caduto a causa di un conflitto di principio al quale, finora, non si è trovata soluzione. Sono quasi vent'anni che il nodo si stringe, dalla fine della cosiddetta prima repubblica a questa situazione, che rischia d'essere la fine della seconda. La terza che si preannuncia ha tratti tutt'altro che rassicuranti.
Siamo probabilmente al punto di una sorta di redde rationem, il cui momento culminante si avvicina. Sarà subito dopo le prossime elezioni regionali. A meno che si trovi una soluzione condivisa, che si addivenga cioè a un compromesso. È possibile? E quale ne sarebbe il prezzo? Se consideriamo i termini del conflitto - la politica contro la legalità; un uomo politico legittimato dal voto contro i giudici legittimati dal diritto - l'impresa è ardua, quasi come la quadratura del cerchio. Per progressivi cedimenti che ora hanno fatto massa anche nell'opinione pubblica, dividendo gli elettori in opposti schieramenti, i due fattori su cui si basa lo stato di diritto democratico, il voto e la legge, sono venuti a collisione.
Questa è la rappresentazione oggettiva della situazione, che deliberatamente trascura le ragioni e i torti. Trascura cioè le reciproche e opposte accuse, che ciascuna parte ritiene fondate: che la magistratura sia mossa da accanimento preconcetto, da un lato; che l'uomo politico si sia fatto strada con mezzi d'ogni genere, inclusi quelli illeciti, dall'altro. Se si guarda la situazione con distacco, questo è ciò che appare come dato di fatto e le discussioni sui torti e le ragioni, come ormai l'esperienza dovrebbe avere insegnato, sono senza costrutto.
I negoziatori che sono all'opera si riconosceranno, forse, nelle indicazioni che precedono. Ma, probabilmente, non altrettanto nelle controindicazioni che seguono.
Per raggiungere un accordo, si è disposti a "diluire" il problema pressante in una riforma ad ampio raggio della Costituzione. Per ora, la disponibilità dell'opposizione al dialogo o, come si dice ora, al confronto, è tenuta nel vago (no a norme ad personam, ma sì a interventi "di sistema" per "riequilibrare" i rapporti tra politica e giustizia), è coperta dalla reticenza (partire da dove s'era arrivati nella passata legislatura, ma per arrivare dove?) o è nascosta col silenzio (la separazione tra potere politico, economico e mediatico, cioè il conflitto d'interessi, è o non è questione ancora da porsi?).
Vaghezza, reticenza e silenzio sono il peggior avvio d'un negoziato costituzionale onesto. La materia costituzionale ha questa proprietà: quando la si lascia tranquilla, alimenta fiducia; quando la si scuote, alimenta sospetti. Per questo, può diventare pericolosa se non la si maneggia con precauzione. Tocca convinzioni etiche e interessi materiali profondi. Non c'è bisogno di evocare gli antichi, che conoscevano il rischio di disfacimento, di discordia, di "stasi", insito già nella proposta di mutamento costituzionale. Per questo lo circondavano d'ogni precauzione. Chi si esponeva avventatamente correva il rischio della pena capitale. Per quale motivo? Prevenire il sospetto di secondi fini, di tradimento delle promesse, di combutta con l'avversario. Quando si tratta di "regole del gioco", tutti i giocatori hanno motivo di diffidare degli altri. La riforma è come un momento di sospensione e d'incertezza tra il vecchio, destinato a non valere più, e il nuovo che ancora non c'è e non si sa come sarà. In questo momento, speranze e timori si mescolano in modo tale che le speranze degli uni sono i timori degli altri. È perciò che non si gioca a carte scoperte. Ma sul sospetto, sentimento tra tutti il più corrosivo, non si costruisce nulla, anzi tutto si distrugge.
Il veleno del sospetto non circola solo tra le forze politiche, ma anche tra i cittadini e i partiti che li rappresentano. Nell'opposizione, che subisce l'iniziativa della maggioranza, si fronteggiano, per ora sordamente, due atteggiamenti dalle radici profonde. L'uno è considerato troppo "politico", cioè troppo incline all'accordo, purchessia; l'altro, troppo poco, cioè pregiudizialmente contrario. Sullo sfondo c'è l'idea, per gli uni, che in materia costituzionale l'imperativo è di evitare l'isolamento, compromettendosi anche, quando è necessario; per gli altri, l'imperativo è, al contrario, difendere principi irrinunciabili senza compromessi, disposti anche a stare per conto proprio. La divisione, a dimostrazione della sua profondità, è stata spiegata ricorrendo alla storia della sinistra: da un lato la duttilità togliattiana (che permise il compromesso tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana sui Patti Lateranensi), dall'altro l'intransigenza azionista (che condusse il Partito d'azione all'isolamento).
Tali paragoni, indipendentemente dalla temerarietà, sono significativi. Corrispondono a due paradigmi politici, rispettivamente, la convenienza e la coerenza: una riedizione del perenne contrasto tra l'etica delle conseguenze e l'etica delle convinzioni. L'uomo politico degno della sua professione - colui che rifugge tanto dall'opportunismo quanto dal fanatismo e cerca di conciliare responsabilmente realtà e idealità - conosce questo conflitto e sa che esistono i momenti delle decisioni difficili. Sono i momenti della grande politica.
Ma da noi ora non è così. Ciò che è nobile nei concetti, è spregevole nella realtà. La buona convenienza appare cattiva connivenza. Il sospetto è che, dietro un gioco delle parti, sia in atto la coscientemente perseguita assimilazione in un "giro" di potere unico e autoreferenziale, una sorta di nuovo blocco o "arco costituzionale", desiderando appartenere al quale si guarda ai propri elettori, che non ci stanno, come pericolo da neutralizzare e non come risorsa da mobilitare. Vaghezza, silenzi, e reticenze sono gl'ingredienti di questo rapporto sbagliato, basato sulla sfiducia reciproca. È banale dirlo, ma spesso le cose ovvie sono quelle che sfuggono agli strateghi delle battaglie perdute: in democrazia, occorrono i voti e la fiducia li fa crescere; la sfiducia, svanire.
Il sospetto si dissipa in un solo modo: con la chiarezza delle posizioni e la risolutezza nel difenderle. La chiarezza si fa distinguendo, secondo un ordine logico e pratico, le cose su cui l'accordo c'è, quelle su cui potrebbe esserci a determinate condizioni e quelle su cui non c'è e non ci potrà essere. La risolutezza si dimostra nella convinzione con cui si difendono le proprie ragioni. Manca l'una e l'altra. Manca soprattutto l'idea generale che darebbe un senso al confronto costituzionale che si preannuncia. Così si procede nell'ordine sparso delle idee, preludio di sfaldamento e sconfitta. Per esempio, sulla difesa del sistema parlamentare contro i propositi presidenzialisti, la posizione è ferma? Sulle istituzioni di garanzia, magistratura e Corte costituzionale, fino a dove ci si vuol spingere? Sul ripristino dell'immunità parlamentare c'è una posizione, o ci sono ammiccamenti?
Quest'ultimo è il caso che si può assumere come esemplare della confusione. Nella strategia della maggioranza, è il tassello di un disegno che richiede stabilità della coalizione e immunità di chi la tiene insieme, per procedere alla riscrittura della Costituzione su punti essenziali: l'elezione diretta del capo del governo, la riduzione del presidente della Repubblica a un ruolo di rappresentanza, la soggezione della giustizia alla politica, eccetera, eccetera. L'opposizione? Incertezze e contraddizioni che non possono che significare implicite aperture, come quando si dice che "il problema c'è", anche se non si dice come lo si risolve. Ci si accorge ora di quello che allora, nel 1993, fu un errore: invece del buon uso dell'immunità parlamentare, si preferì abolirla del tutto. Fu il cedimento d'una classe politica che non credeva più in se stessa. Ma il ripristino oggi suonerebbe non come la correzione dell'errore, ma come la presunzione d'una classe politica che non ama la legalità. Occorrerebbe spiegare le ragioni del rischio che si corre, nell'appoggiare questo ritorno; rischio doppio, perché una volta reintrodotta l'immunità con norma generale, la si dovrà poi concedere all'interessato, con provvedimento ad personam. Due forche caudine per l'opposizione. Ma allora, perché?
Perché, si dice, se non ci sono aperture, il confronto non inizia nemmeno e la maggioranza andrà avanti per conto proprio. Appunto: dove non c'è il consenso, avendo i voti, vada avanti e poi, senza l'apporto dell'opposizione, ci potrà essere il referendum, dove ognuno apertamente giocherà le sue carte. Ne riparleremo.
Forse per scelta forse per caso, il numero in edicola di Internazionale fornisce una specie di sintesi delle due opposte modalità in cui si può dare e vivere la condizione di migrante nel mondo globale: la scelta di vivere da stranieri in un paese diverso dal proprio in condizioni di signoria, e la costrizione a vivere da marginali in un paese diverso dal proprio in condizioni di semischiavitù. La prima viene raccontata da un articolo di Stéphane Remael tratto dall'Economist, che si interroga sul fenomeno crescente degli «esuli volontari» che caratterizza la vita delle grandi metropoli globali: «Per la prima volta nella storia - scrive Remael - essere stranieri è diventata una condizione del tutto normale in ogni parte del mondo», non solo negli Stati uniti dove «nessuno può essere straniero perché tutti sono stranieri» o nelle capitali europee, ma anche in paesi come la Corea del Sud, in cui quasi la metà della popolazione dichiara di non aver mai parlato con uno straniero ma il numero degli stranieri residenti è raddoppiato negli ultimi anni. Complessivamente, «nel mondo industrializzato la media dei nati all'estero da genitori stranieri è più dell'8 per cento», una cifra impensabile fino a pochi decenni fa, e al suo interno una percentuale rilevante è costituita da quanti e quante decidono di sradicarsi: per insofferenza verso il proprio paese, per disfarsi dei vincoli e dei condizionamenti in cui sono nati, per reinventarsi in una terra e in una lingua straniera tornando in un certo senso alla felicità della scoperta e dell'esplorazione del mondo propria dell'infanzia. È la condizione classicamente rappresentata dalla figura dell'artista cosmopolita, ma oggi estesa a una élite globale più vasta e composita.
Al polo opposto ci sono i nuovi schiavi di Rosarno e di tutte le periferie, a partire da quelle metropolitane, della «economia-mondo» di cui parlava Wallerstein, i luoghi destinati dal turbocapitalismo alla produzione e riproduzione di una gerarchia sociale incardinata sulla doppia discriminazione di classe e di razza, che esplode saltuariamente ma puntualmente in forme violente e irrapresentabili secondo i parametri classici del conflitto. Sui fatti di Rosarno, «Internazionale» riporta alcune corrispondenze di inviati stranieri (del Nyt, di Le Monde, del Paìs e del quotidiano Le Pays del Burkina Faso), che si interrogano, come gli italiani ma col vantaggio di uno sguardo sgombro dagli stereotipi italiani sul Sud, sulla miscela esplosiva di schiavitù, razzismo e criminalità organizzata che ha innescato la miccia della rivolta, della «caccia al negro» e della «pulizia di Stato»; Le Pays, in particolare, scrive che se questo è il prezzo da pagare per un soggiorno clandestino in Europa gli africani farebbero meglio a desistere, e tutti sottolineano l'inerzia delle istituzioni italiane nel prevenire e la solerzia di Maroni nel dare la colpa alla tolleranza dell'immigrazione clandestina invece che a quella dell'illegalità diffusa.
I due fenomeni tuttavia, quello della scelta di espatriare e quello della costrizione a emigrare, per quanto apparentemente opposti sarebbero da considerare più unitariamente, non solo per l'ovvia ragione che entrambi si collocano nel quadro degli «sconfinamenti» del mondo globale, né solo perché a ben guardare nel primo filtrano elementi e sentimenti - il senso di perdita della lingua materna, la nostalgia dell'origine - che siamo abituati ad attribuire al secondo, e viceversa nel secondo sono riconoscibili, a fianco alla costrizione, spinte di libertà analoghe a quelle che muovono il primo. In un saggio davvero notevole per ricchezza e precisione d'analisi scritto a commento della rivolta delle banlieu del 2005 (su «Potere destituente» de «La Rose de Personne», Mimesis 2008), Etienne Balibar li associa dal punto di vista della produzione, nelle democrazie contemporanee, di un'area di «doppia esclusione» e di eccedenza dalla rappresentanza, che destabilizza la politica «aprendo un vuoto nel suo seno, o esponendola a mutazioni catastrofiche, a meno di rifondare le istituzioni del conflitto su base allargata». Sia i «troppo poveri» costretti a vivere da stranieri in terra altrui (l'under class degli immigrati, dei precari, degli esclusi), sia i «troppo ricchi» che scelgono di farlo (l'upper classs di proprietari, intellettuali, quadri del capitalismo multinazionale), si collocano di fatto oltre lo statuto della cittadinanza nazionale, i primi perché ne vengono tenuti fuori, i secondi perché non hanno interesse ad accettarne i vincoli (a partire da quello fiscale). Priva di rappresentanza politica, questa doppia eccedenza si espone alla potenza di una rappresentazione mediatica che ha buon gioco a tralasciare i «troppo ricchi» e a ingabbiare i «troppo poveri» nella figura dei nuovi paria, del corpo estraneo alla comunità, dello straniero pericoloso e minaccioso, del «negro» virtualmente criminale, lasciato nell'invisibilità quotidianamente e portato a visibilità solo quando e in quanto si ribella violentemente prestandosi così, volente o nolente, alla spettacolarizzazione. A Rosarno come nelle banlieu, infatti, «spettacolare» è l'insorgenza violenta, e pertanto ambivalente: soggetta alla criminalizzazione del discorso mediatico, ma anche capace, come tutti i fenomeni mediatici, di «incarnare il fantasma» di una minaccia che l'ordine politico costruisce ai suoi bordi con la violenza dell'esclusione, e che dai suoi bordi lo disgrega.
Le immagini di Haiti devastata non dicono per intero il disastro, come quasi sempre accade nelle grandi calamità naturali. Dicono il punto terminale di una storia lunga, accorciandola e sforbiciandola d’imperio. Ritraggono la tragedia ignorando le tragedie già avvenute: tremando, la terra le inuma ancor più profondamente. Raffigurano in modi sconnessi lo sguardo di un bambino salvato, struggente di bellezza, e il fulgore tremendo dei machete impugnati da superstiti a caccia di cibi, acqua, medicine. Orrore, bellezza, empatia, discordia: sono frammenti caotici di un tutto inafferrabile. Sono istantanee, e ogni istantanea è la punta di iceberg che restano inesplorati. Vediamo solo questa punta, commossi da eventi estremi.
Facendo uno sforzo sentiamo l’odore di morte, descritto dai reporter. La base dell’iceberg, quel che viene prima del sisma, s’inabissa sotto le macerie con i morti. È il terribile destino di parole come umanità, soccorsi umanitari, guerre umanitarie: parole cui si ricorre in simili emergenze e che cancellano la storia, eclissano le responsabilità dei grandi e dei piccoli, dei singoli e delle autorità pubbliche. Parole che narrano una catastrofe solo naturale, non anche umana e politica. Per questo è così prezioso il giornalismo scritto. La televisione mostra solo un pezzetto di realtà, più o meno bene (i telegiornali italiani meno bene della Bbc).
Twitter cattura l’urlo di Munch. Solo lo scritto ha la respirazione lenta della storia. Solo lui può dire quel che era prima del punto terminale, e come possa succedere che l’acme sia questo e non un altro, se possibile meno esiziale.
Le fotografie delle catastrofi sono sempre in qualche modo taroccate. Ci viene «rifilata» una realtà, contorta magari inconsciamente. Privilegiando un riquadro e trascurandone altri falsifichiamo l’immagine, come ben spiegato in un blog attento alle manipolazioni visive (G.O.D., Ghostwritersondemand): ci lamentiamo dei trucchi, «ma siamo noi i grandi rifilatori». Noi che aggiustiamo le foto dei cataclismi, i reportage, trasformando individui e popoli in nuda umanità indistinta alle prese con la natura e sconnessa dalla pòlis. Foto e telecamere mostrano la mano che soccorre, non quella che ha distrutto e aumentato la vulnerabilità d’un Paese. Denunciano la natura matrigna della natura, non della politica; l’eclisse di Dio, non dell’uomo imputabile. Basta leggere su La Stampa i due articoli scritti da Lucia Annunziata, il 14 e 16 gennaio, per scoprire dietro l’Ultimo istante e l’Ultimo uomo una miserabile storia fabbricata dai politici.
Qualcosa in realtà l’intuiamo, osservando i filmati trasmessi dai Caraibi. Sembra di vedere il bastimento di schiavi neri in fuga dall’Africa, che dopo essersi ammutinati sequestrano nel racconto di Melville il comandante Benito Cereno e si autogovernano con crudeli leggi del taglione: la nave si chiama San Dominick, ai nostri tempi Haiti. E proprio a Haiti Melville pensava: il primo luogo dove gli schiavi neri si liberarono negli Anni 90 del Settecento, inneggiando sotto la guida del leggendario Toussaint L’Ouverture alla rivoluzione francese. Pensava alla grandezza delle rivoluzioni e alle rovine che provocano quando perpetuano il tumulto e non si danno leggi stabili. Haiti somiglia a quella nave, divenuta isola.
Anche a Port-au-Prince, come nel naviglio San Dominick, regna l’anomia che secerne despoti. Chi guarda il dramma nei Caraibi non vede autorità locali, che tengano ordine. Non vede poliziotti né ministri haitiani, ma solo potentati e organizzazioni esterni. L’assenza di immagini parla più di quelle esibite, anche qui.
La storia occultata sotto la punta dell’iceberg eccola: è un inarrestabile sanguinario regolamento di conti fra cleptocrazie e fra mafie che oggi usano l’isola per i traffici di droga. È fatta di un’emancipazione gloriosamente iniziata e mai finita, perché sempre ha preferito le dittature generate dall’anarchia rivoluzionaria alle istituzioni che durano. I geologi dicono che identici terremoti, in Paesi ben amministrati, non seminano morte sì vasta. Lo sostiene la sismologa Kate Hutton: vent’anni fa, un terremoto di eguale forza colpì il Sud di San Francisco. Fece 63 morti, non 100-200.000 come a Haiti.
La mano dello Stato non si vede a Port-au-Prince perché non c’era neanche prima, se mai c’è stata. È il motivo per cui sono nate baraccopoli così cadenti e indifese a Port-au-Prince, scrive la scrittrice Amy Wilentz: se i morti son tanti è perché l’agricoltura, degradata, ha spinto migliaia di contadini a inurbarsi negli slum di quella che veniva chiamata Perla delle Antille. I terremotati abruzzesi lo sanno, pur non avendo subito un sisma analogo. Se le case non fossero state costruite con la sabbia, se lo Stato avesse contrastato le speculazioni mafiose, il sisma sarebbe stato diverso: cataclismi dello stesso tipo in Giappone non fanno morti.
Anche dietro la mano internazionale che corre in aiuto, anche dietro quella di Obama, c’è una lunga storia di peccati di omissione e di inani interventismi. Scrive il quotidiano Independent che occorre una «politica globale delle catastrofi». Ma anche questi appelli sono foto che ci rifiliamo a vicenda. Il disfarsi di Haiti rivela ed esige di più: rivela che aiuti umanitari e allo sviluppo vanno ripensati, perché fallimentari, e organizzati prima dei cataclismi. Fallimentari furono in primis gli interventi stabilizzatori americani, specialmente di Clinton. Washington tutto ha fatto, impossessandosi nella sostanza dell’isola, tranne rafforzare il suo Stato, le sue infrastrutture: ha installato dittatori, poi li ha cacciati, poi re-insediati (è il caso del sacerdote-presidente Aristide, negli Anni 90) senza mai scommettere sulle capacità locali di rendere l’isola meno vulnerabile ai ricorrenti sismi e uragani (con case meno cadenti, quartieri meno malavitosi, politiche del territorio più affidabili).
Da un secolo, Washington «manda alternativamente nell’isola marines e spedizioni di aiuti umanitari - senza mai salvarla. (....) Haiti è un neo purulento sul volto di due delle più luminose pagine di storia del nostro mondo: la rivoluzione francese e quella americana» (Lucia Annunziata, La Stampa 14-1-10). Lo strazio umanitario ha questo di peculiare: cancella ogni errore, di governi locali o di potenze esterne o di mafie. Mette in scena un male interamente naturale, che fa tabula rasa della storia. Non a caso lo chiamano Apocalisse: parola da evitare, perché nell’Apocalisse non c’è più modo di correggersi. O gli danno il nome di male assoluto, estirpandolo dalla catena storica delle causalità e fantasticando globali empatie umane che oltrepassano la politica.
Il racconto di Kleist sul terremoto del Cile racconta il naufragare di leggi e responsabilità. Quando l’uomo è solo di fronte alla natura non resta che il fato, e «tremendo appare l’Essere che regna sopra le nubi»: «Pareva che tutti gli animi fossero riconciliati, dopo che v’era rintronato il colpo spaventoso. Nella memoria non sapevano risalire più in là di esso». Impietoso, Kleist racconta come la memoria si vendichi, nel mondo non immaginario ma reale. Basta un attimo e la riconciliazione si spezza, proprio come a Haiti: nel mondo reale ci sono i tumulti, i machete, le guerre per il cibo, l’assenza di polizia locale e di Stato.
L’umanitario fa parte della modernità rivoluzionaria come la fotografia e la Tv. Il suo sguardo si fissa sull’ultimo attimo: «Nella memoria non risale più in là». Urge invece risalire, far politica ricordando: anche su scala mondiale. Dice Kafka che bisogna «inoltrarsi nel buio con la scrittura, come se il buio fosse un tunnel». L’immagine fotografica livella ogni cosa, del tutto ignara che ogni buio è un tunnel, anche quando a prima vista pare piatto.
Esistono problemi visibili e altri invisibili. A prescindere – direbbe Totò – non solo dalla realtà ma anche dalla percezione. La disoccupazione, ad esempio, esiste: nella realtà e nella percezione. Ma parlarne è da irresponsabili e mostrarla anche peggio.
Basta pensare alla reazione del Governo di fronte alle stime fornite dalla Banca d’Italia, che considera il tasso di disoccupazione «reale» superiore al 10%: 2.600.000 persone. Un calcolo scorretto e fantasioso, secondo il ministro Sacconi. Perché associa ai disoccupati anche i cassintegrati cronici e i «lavoratori scoraggiati». Quelli, cioè, che rinunciano a cercare occupazione perché ritengono la situazione sfavorevole. Un’operazione scorretta, quella praticata dalla coppia Epifani-Draghi.
Entrambi disfattisti e, implicitamente, comunisti. Imprenditori delle fabbriche che producono pessimismo, come li ha definiti il premier Berlusconi. Seminano sfiducia e rischiano, in questo modo, di alimentare una crisi che ormai è alle spalle. Anche se i cittadini non sembrano accorgersene. Afflitti da una "percezione" diversa – e distorta. La disoccupazione, infatti, preoccupa il 37% degli italiani, secondo la recente indagine di Demos per Unipolis (si veda in www.demos.it) sulla (in)sicurezza. Il 2,5% più dell’anno scorso, ma il 7% più di due anni fa. È motivo di angoscia, non solo in Italia, anche nel resto d’Europa. Il 51% dei cittadini della UE (dati Eurobarometro) la indica fra le due principali emergenze da affrontare. E il 40% aggiunge anche la crisi economica.
Tuttavia, nel nostro paese, questa percezione è anti-italiana. In contrasto con gli interessi nazionali e con la rappresentazione mediale della realtà. Infatti, se si prendono in considerazione i telegiornali di prima serata delle reti Rai e Mediaset (rapporto dell’Osservatorio di Pavia per Unipolis, dicembre 2009), alla disoccupazione e alle difficoltà economiche delle famiglie, nel periodo fra il 18 ottobre e il 7 novembre 2009, viene dedicato il 7% delle notizie "ansiogene". Quelle, cioè, che raccontano fatti e contesti critici. L’anno prima, nello stesso periodo, lo spazio delle notizie riferite ai problemi economici e dell’occupazione sui telegiornali delle reti pubbliche e private era oltre 4 volte superiore: 27%. Due anni prima, nell’autunno 2007, intorno al 16%. Per cui la disoccupazione c’è, si sente e fa paura. Ma non si deve dire troppo forte. E comunque non si vede.
Una analisi condotta dall’Osservatorio di Pavia (per Unipolis) in alcune settimane del 2008-9 sui telegiornali delle reti pubbliche di alcuni paesi europei, sottolinea come il numero delle notizie dedicato dal Tg1 al problema della disoccupazione sia circa un terzo rispetto ad Ard (Germania), un quarto rispetto alla Bbc (Gran Bretagna), un quarto a Tve (Spagna) e, infine, sei volte meno rispetto a France 2. Inutile rammentare il diverso trattamento riservato alla criminalità comune. Di gran lunga l’argomento «ansiogeno» più trattato dalla tivù italiana. In misura nettamente più ampia rispetto al resto d’Europa. D’altra parte, la criminalità e la violenza spaventano ma piacciono al pubblico, come ha osservato Quentin Tarantino. Uno che se ne intende. Inoltre, esercitano sull’opinione pubblica effetti politici diversi dalla disoccupazione e dalla crisi economica. Penalizzano la sinistra e il centrosinistra, il cui consenso è legato a una idea di sicurezza «sociale» proiettata nel futuro.
Mentre oggi la concezione della sicurezza è schiacciata sull’individuo e sulla famiglia, la dimensione sociale si è sbriciolata e del futuro si è perduta traccia. Così i lavoratori e – ancor più – i disoccupati scompaiono. Non solo perché le grandi fabbriche chiudono e le piccole aziende, flessibili e intermittenti, si confondono nel territorio. Anche perché non hanno appeal, presso coloro che scrivono l’agenda dei media. In particolare: nella tivù. Le morti: occupano i palinsesti televisivi se diventano tragedie collettive. Oppure se si tratta di piccoli omicidi, catalogati nella criminalità "comune". Mentre gli incidenti sul lavoro non interessano. Nell’autunno del 2009 in Italia i Tg Rai e Mediaset di prima serata dedicano loro lo 0,2% delle notizie "ansiogene". L’anno prima, sull’onda emotiva sollevata dalla tragedia della ThyssenKrupp, avevano conquistato il 2,6% delle notizie. Cioè, anche allora, quasi nulla.
Da ciò una conclusione, un po’ desolata e desolante, ma difficile da contraddire. Gli operai: fanno notizia quando bruciano in tanti e tutti insieme. Le morti quotidiane sul lavoro – 1120 nel 2008 – sono definite eufemisticamente: "bianche". Per cui: poco visibili e dunque poco rilevanti. Perché, al tempo della "democrazia del pubblico", la "rappresentanza" dipende sempre più dalla "rappresentazione". In altri termini: dalla capacità di "fare notizia", apparire, comunicare. Gli operai non contano, i disoccupati ancor di meno. Figurarsi: sono non-operai. Non-lavoratori. Lavoratori esclusi oppure scoraggiati. Mettono tristezza, a chi li guarda. Suscitano pessimismo. Per cui è meglio non mostrarli.
Il reality-show della crisi quotidiana che coinvolge le persone e le famiglie: non interessa agli autori della scena mediatica. A coloro che orientano l’informazione. Così, i lavoratori (disoccupati, scoraggiati, minacciati), per esistere e resistere, invece di rivolgersi al sindacato, salgono sulle gru, si gettano dai ponti, a volte si suicidano. O bloccano ferrovie e autostrade. Aziende. Talora, sequestrano dirigenti e imprenditori. Atti violenti? Reati? Certo. In un paese dove la violenza e i reati vanno in scena quotidianamente - e in primo piano. Sui giornali e nei telegiornali, al centro dei talk-show, al cuore dell’infotainment. Per sfidare l’audience della criminalità comune, bisogna fare cose eccezionali. Parafrasando Humphrey Bogart: «È lo spettacolo bellezza! E tu non ci puoi fare niente. Niente».
In viaggio con Lilianh, da Ground zero alle macerie di Haiti, di Stefano Liberti
ONU «Mai un disastro così grande nella nostra storia»,di Fausto Della Porta
Quando i morti saranno stati sepolti, di Leonardo Padura Fuentes
Bush e Clinton, la strana coppia in soccorso del paese caraibico, di Matteo Bosco Bortolaso
Nelle bidonville nessuno scava. Un formicaio di ombre disperate, di Federico Mastrogiovanni
Hanno zero. La «radio loyalty» di Little Haiti, di Tiziana Rinaldi Castro
Soccorsi armati. Obama e l'imperialismo degli aiuti, di Tommaso Di Francesco
In viaggio con Lilianh, da Ground zero alle macerie di Haiti
di Stefano Liberti
«Quando la tragedia bussa alla tua porta, devi reagire». Lilianh ha un volto paffuto, un fisico gigantesco e un sorriso tirato che nasconde appena una preoccupazione palpabile. Lilianh è una haitiana-americana e si è precipitata in questo inferno direttamente da New York. Quando ha saputo che il terremoto che aveva devastato e sconvolto la sua isola, quando ha pensato che anche la zia Susanne - quello che restava della sua famiglia - poteva essere finito sotto le macerie, ha avuto un groppo al cuore. Ha capito che la tragedia bussa alla tua porta quando meno te lo aspetti, come era successo in quel giorno di settembre del 2001 in cui lei, paramedica, si era trovata a scavare sotto le macerie di Ground Zero alla ricerca di superstiti. Ha quindi deciso che il destino andava affrontato di petto: bisognava andare a vedere che ne era di sua zia e cosa era rimasto della sua isola in mezzo ai Caraibi.
Non è partita subito, in modo impulsivo. Prima ha provato a procurarsi le informazioni per affrontare al meglio il viaggio, chiamando amici e conoscenti ad Haiti. Ma i telefoni rimanevano muti e, quando suonavano, lo facevano a vuoto. A quel punto ha pensato di comporre il numero di emergenza pubblicizzato in bella mostra dalla rete televisiva Cnn, ma una signora con voce gentile ma ferma le ha detto che loro si occupavano soltanto degli scomparsi di nazionalità americana. «Una cosa assurda. Ho guardato in modo ossessivo tutti i servizi televisivi, cercando notizie. Ma dicevano tutti la stessa cosa: Terremoto a Port-au-Prince. Migliaia di morti. Crollata la casa bianca (il palazzo presidenziale ndr). Nessuno che desse indicazioni più dettagliate su quali parti della città fossero state colpite».
Così ha preso Adam, il figlio diciottenne, e si è imbarcata su un aereo per Miami, poi su un altro volo con destinazione Santo Domingo. Arrivata nella capitale della Repubblica dominicana, per portare a termine la sua missione ha affittato una macchina. Quando incontriamo Lilianh e Adam all'aeroporto di Santo Domingo, sono ancora lontani centinaia di chilometri dalla loro meta finale: il quartiere popolare di Canapé vert, su un collina di Port-au-Prince, dove vive da una vita la zia Suzanne.
Il tragitto è stato lungo e penoso; attraverso una frontiera intasata di camion d'aiuti e affollata dei feriti che andavano a cercare conforto e cure nel più ricco paese vicino. Poi, man mano che ci si avvicinava a Port-au-Prince, sempre più vistosi sono comparsi i segni del cataclisma. Prima qualche muro crepato. Poi case crollate, pezzi d'asfalto saltato. Lilianh, che ha fatto la soldatessa nell'esercito americano, non è persona da lasciarsi andare a facili emozioni: mantenendo il sangue freddo continua a dirsi che «quando ti aspetti il peggio, se poi arriva il meglio è una notizia doppiamente bella».
Port-au-Prince la accoglie come una città ferita, mutilata. L'effetto sembra quello di un massiccio bombardamento: edifici accartocciati su se stessi, cadaveri rigonfi abbandonati per strada e che cominciano ad annerirsi per il sole battente. Uomini e donne feriti. Lei si guarda intorno e ripete una sola frase: «My god, che disastro». E poi un sospiro: «Che ne sarà della zia Suzanne?».
La città distrutta sfila lenta dietro il nostro sguardo. Folle di persone senza più una casa si aggirano come stordite, apparentemente senza meta. Un gruppo di ragazzi s'è spalmato il dentifricio sotto gli occhi: così pensano di potersi proteggere da eventuali epidemie. Altri scavano a mani nude tra i detriti. Ogni tanto, sopra le macerie, spunta un casco di qualche squadra di soccorso, che continua a cercare nonostante le flebili speranze. Davanti a un palazzo, un cartello fornisce un'indicazione ai soldati americani che cominciano a vedersi per la città (molti altri sono in arrivo): «Benvenuti soldati americani. Cadaveri all'interno».
Insieme a Lilianh ricostruiamo la topografia di una città che non c'è più e che non sarà mai più la stessa. «Lì c'era una scuola» dice indicando il cumulo di mattoni e resti di un palazzo raso al suolo. Attraversiamo la capitale. Vediamo al Casa bianca, il palazzo del presidente della Repubblica, collassata. Saliamo sulle colline verso Canapé vert. I nomi dei vari quartieri vengono declinati in modo quasi automatico da Lilianh, sempre più inquieta. Sembra quasi che ci stiamo avvicinando all'epicentro dell'ecatombe.
Entriamo a Canapé vert e siamo accolti da un tanfo insopportabile. Fermiamo la macchina e cominciano una lunga camminata tra palazzi crollati, macerie accatastate, cadaveri abbandonati. «Quella è la casa della zia Suzanne», indica in lontananza Lilianh. Nel punto che lei segnala si vedono solo resti di case crollate.
Ma la donna non sembra perdersi d'animo. Nonostante la fatica, scavalca tre o quattro edifici, trascina passi malfermi tra le rovine, altri minuti di angoscia. Quando arriviamo al punto in cui c'era l'appartamento della zia, Lilianh riconosce un uomo. Lo saluta. Gli fa una domanda in creolo. Lui risponde. Lei scoppia in un pianto dirotto. Un secondo dopo anche Adam, che il creolo non lo capisce, si scioglie in lacrime. Poi si lanciano tutti e due in una precisa direzione.
In mezzo a uno spiazzo, sdraiata su un materassino, giace incolume la zia Suzanne. L'abbraccio è immenso. Le lacrime sgorgano a fiumi. L'emozione è fortissima e coinvolge tutti. La zia racconta come è scampata al cataclisma. «Ero in camera da letto, quando ho sentito il botto. La casa è crollata, eccetto il soffitto sopra la stanza in cui stavo. Sono riuscita a uscire dalla finestrella e mi sono arrampicata tra i pezzi della casa del vicino». A vedere questa donna di ottantaquattro anni dal fisico esile, si fa difficoltà a immaginare tutte quelle acrobazie. Eppure è accaduto: la signora è viva, sorride e dice che vuole restare lì, vicino alle sue cose, e non vuole andare in hotel.
«Questa è la mia casa, questa è la mia città, per quello che rimane» dice alla nipote che la invita invece a seguirla negli Stati Uniti, a New York. Intorno i suoi vicini approvano. La salutano come una miracolata. Lilianh quasi non riesce a parlare dalla gioia che le esplode dentro: «L'avevo detto. Quando ti aspetti il peggio e arriva il meglio, la felicità è doppia». Poi si guarda intorno e soffoca il suo sorriso. Vede le case che conosceva bene. Vede quello che ne resta. Chiede notizie delle persone che vivevano lì dentro. Molti sono morti, alcuni si sono salvati. Tutti, senza eccezione, hanno perso la casa e sono ormai alla quinta notte all'addiaccio. Tutta Port-au-Prince si prepara a un'altra notte di paura. Un altra notte di abbandono, tra le macerie, i cadaveri e il tanfo pestilenziale che sembra avvolgere tutto e tutti.
ONU «Mai un disastro così grande
nella nostra storia»
di Fausto Della Porta
Il più grande disastro dalla fondazione, nel 1945, delle Nazioni Unite (Onu). Così ieri Elisabeth Byrs, portavoce dell'Organizzazione internazionale, ha definito il terremoto di Haiti, mentre gli aiuti continuano ad arrivare col contagocce a una popolazione ormai stremata. «I palazzi di governo sono collassati, ci manca il supporto delle infrastrutture locali» si è giustificata Byrs da Ginevra. Secondo la funzionaria, i danni prodotti dal sisma scatenatosi martedì sono peggiori di quelli causati, nel 2004, dallo tsunami nella provincia indonesiana di Aceh.
Ieri è stato il governo haitiano a fornire altre, approssimative, stime di questa catastrofe che si aggrava di ora in ora: il ministro dell'interno Antoine Bien-Aime ha detto che 50.000 cadaveri sono già stati recuperati, ma che alla fine delle operazioni di soccorso i morti potrebbero essere tra 100.000 e 200.000, mentre 3/4 della capitale, Port-au-Prince, sarebbero interamente distrutti. Gli haitiani in possesso di passaporto straniero si stanno accalcando nei pressi dell'aeroporto della capitale - dove l'esercito statunitense ha messo su un ufficio mobile d'immigrazione - nel tentativo d'imbarcarsi sui voli in arrivo coi primi aiuti umanitari.
Secondo testimoni e fonti giornalistiche sul posto, molte persone con pacchi e bagagli sulla testa o sulle spalle, altre ammassate su automobili o camion si stanno dirigendo verso le campagne, contando sull'ospitalità di amici o parenti. Nelle campagne la situazione sarebbe migliore, per l'assenza di grandi edifici di cemento. «Ho aspettato per due giorni, ma non è arrivato nulla, neanche una bottiglia d'acqua» ha raccontato Yves Manes, incamminato lentamente sulla strada con la moglie.
Il segretario generale dell'Onu Ban Ki Moon dovrebbe arrivare oggi ad Haiti per portare la sua solidarietà alle vittime del terremoto di martedì e allo staff dell'Onu sull'isola caraibica. Ban ha annunciato che intende anche valutare la situazione e degli sforzi internazionali di assistenza. Ma è chiaro ormai che il comando delle operazioni è stato assunto dagli Stati Uniti e sarà Washington, quando già domani dovrebbe aver dispiegato sull'isola 10.000 soldati, a dettare tempi e modi delle operazioni umanitarie.
«Alla radio ci hanno detto che Obama ci sta inviando aiuti. Ma dove sono? Spiegatelo a tutta questa gente. Quanto ancora dobbiamo aspettare?» ha dichiarato alla Reuters Donade Mars, che ha improvvisato un campo di rifugiati sul prato antistante la residenza del primo ministro. Nella notte tra venerdì e ieri è arrivata - riferisce la France presse - la prima nave carica d'aiuti, banane e carbone.
È sceso a 13 il numero degli italiani che al momento risultano dispersi ad Haiti, per tre connazionali «si teme fondatamente il decesso», due funzionari delle Nazioni Unite e una persona rimasta sotto le macerie di un supermercato crollato. A fornire l'aggiornamento è stato il portavoce della Farnesina Maurizio Massari da Tunisi dove ieri pomeriggio è arrivata la delegazione italiana a seguito del ministro degli Esteri Franco Frattini. Al momento continuano le ricerche dei nostri connazionali in ospedali, obitori e in tutti i punti dove è stata segnalata la presenza di italiani.
Quando i morti saranno stati sepolti
di Leonardo Padura Fuentes*
Haiti è stato il primo paese indipendente dell'America latina. La colonia francese di Saint Domingue, che occupava la metà occidentale dell'isola di Hispaniola, negli ultimi anni del secolo XVIII vide bruciare le piantagioni di caffè e di canna da zucchero che tanta ricchezza avevano dato alla metropoli europea. Il fuoco lo appiccarono gli schiavi neri, portati dall'Africa o già nati nella colonia, che ebbero l'ardire di pensare che il sogno illuminista di libertà, uguaglianza e fraternità fra gli uomini riguardasse anche loro, i più sfruttati e diseguali. Tuttavia uomini, in fin dei conti.
La sfida lanciata al mondo e alla storia dai neri e dagli ex-schiavi hatiani, sembrò troppo audace e presto si sarebbe rivoltata in una sorta di maledizione secolare. Da allora Haiti divenne un teatro di invasioni e occupazioni, di dittature e violenza, di miseria, dolore e ignoranza, di paura e fanatismo. Sconfitti i sogni e l'utopia, Haiti si convertì in una finestra dell'inferno sulla faccia della terra.
Haiti è il paese più povero dell'emisfero occidentale, il più analfabeta, il più colpito dalla violenza e dalle malattie, il più affamato e insalubre. Dieci milioni uomini, donne e bambini, quasi tutti neri, vivono su un pezzo di terra dove periodicamente affiora la violenza nel modo in cui si esprime fra i più poveri, incolti e spossessati: in forme radicali e senza limiti. A Haiti, ogni giorno, muoiono di fame, denutrizione, malattie curabili e desolazione centinaia di bambini, vecchi e donne.
Fino a quando la furia della natura ha sconvolto la capitale haitiana, il 12 gennaio, e l'ha devastata, lasciando una numero di morti e feriti ancora non precisabile, chi parlava di Haiti? Chi si ricordava di Haiti e della sua eterna agonia?
Oggi i governi di molti paesi esprimono il loro dolore e offrono la loro solidarietà umanitaria a un paese desolato. Grazia a un terremoto uscito dalle maledizioni dell'Apocalisse (anche se un'ira così non può essere divina), si parla di Haiti, si aiuta, ci si ricorda di Haiti. Gli aiuti che stanno arrivando e arriveranno al paese sicuramente salveranno vite, daranno da mangiare ad affamati e un rifugio a chi ha perso tutto. Ma quando sarà passata l'onda chi continuerà ad aiutare Haiti?
Le decine di migliaia di morti che oggi giacciono sotto le macerie di una città poverissima, nelle fosse aperte alla meglio e perfino per strada, inducono una straordinaria commozione. Però quelli che morivano di fame e disperazione un giorno prima, chi commuovevano?
Ora, quando si parla di Haiti, si dovrebbero usare parole che non siano solo di condoglianze ma anche, e soprattutto, di speranza: Haiti ha bisogno dell'aiuto che sta arrivando oggi ma anche di quello che reclamava da molto tempo prima, l'aiuto che le permetterebbe di uscire dalla sua ancestrale miseria, dalla sua ignoranza spessa, dalla sua povertà, che sono altrettanto e più devastanti del più devastante dei terremoti.
La furia della natura ha ricordato a tutti noi che Haiti esiste. Speriamo che domani, quando la tragedia sarà scomparsa dai titoli dei giornali e dagli appelli degli organismi internazionali, quando questi morti di oggi saranno stati sepolti, non ci dimentichiamo che Haiti continua a esistere, povera e miserrima, e che gli haitiani continueranno a morire se non si cambia il destino tragico che un mondo ingiusto ha riservato agli eredi di quegli schiavi che due secoli fa lottarono per la libertà, l'uguaglianza e la fraternità fra gli uomini. Come se fossero possibili.
* Scrittore e giornalista cubano
Bush e Clinton, la strana coppia in soccorso del paese caraibico
di Matteo Bosco Bortolaso
A volte ritornano. E stavolta il parterre è notevole. Il terremoto ad Haiti ha riportato sul palcoscenico globale George W. Bush e Bill Clinton, due ex presidenti, chiamati da Barack Obama per coordinare l'impegno degli Stati uniti per aiutare e, si spera, far rinascere il paese caraibico. Una strana coppia. I due leader vengono da schieramenti opposti, ma «in queste ore difficili, l'America rimane unita», ha sottolineato Obama.
Ieri il giardino delle rose della Casa Bianca ha ospitato un inedito menage à trois, con il più recente inquilino ad aprire le danze. «Vi voglio ringraziare, a nome del popolo americano, per aver deciso di tornare al servizio del paese», ha detto Obama rivolto ai suoi predecessori dopo un mini-vertice nell'ufficio ovale, un luogo «che entrambi conoscono bene», ha ricordato il presidente. I due dovranno guidare «una tra le maggiori operazioni di soccorso nella storia degli Stati uniti» e «un massiccio impegno per raccogliere fondi» tra privati ed enti pubblici, coordinando gli aiuti a stelle e strisce. Si tratta, secondo l'attuale presidente Usa, di una missione il cui successo non potrà essere misurato «in giorni e settimane, ma mesi ed anni». Bush e Clinton, insomma, non dovranno occuparsi solo delle risorse necessarie alla popolazione terremotata nell'immediato, ma mettere in cantiere la rinascita del fragile paese.
Obama ha quindi passato la parola a Bush, di cui ha ricordato l'impegno per lo tsunami in Asia nel 2004 ma non quello per salvare New Orleans dall'uragano Katrina nel 2005. Immediatamente dopo lo tsunami asiatico, in maniera molto simile, vennero ancora convocati due ex presidenti: lo stesso Clinton e il padre di Bush.
L'ex presidente repubblicano, arrivato dal Texas dopo un anno esatto di assenza da Washington, si è detto felice di poter aiutare, ed ha rispolverano il lessico religioso che avevano caratterizzato i suoi otto anni di Casa Bianca: lui si impegnerà per mettere in moto la «compassione» degli americani, i quali si sono già mostrati «devoti» nel contribuire alla ricostruzione del paese. «Il modo più effice per aiutare è con il denaro - ha ricordato Bush - molte persone vogliono mandare coperte ed acqua...just send cash, mandate soldi». Quindi la parola è passata a Clinton, che ha ripercorso con aria sobria e compassata gli ultimi mesi da inviato speciale delle Nazioni unite proprio ad Haiti, «in contatto costante» con leader e popolazione locali.
Il triplice appello, lanciato pure sul web (ClintonBushHaitiFund.org) si affianca ad altre iniziative umanitarie portate avanti dai vip americani: dalla first lady Michelle Obama, che è riuscita a raccogliere 6 milioni di dollari, all'attore impegnato George Clooney, che la settimana prossima sarà su Mtv per convincere i più giovani ad aprire il portafoglio. E c'è poi l'impegno ufficiale degli Stati uniti a stanziare 100 milioni di dollari.
Ieri ad Haiti è arrivata il segretario di Stato Usa - e moglie di Bill - Hillary Clinton, con l'obiettivo di discutere la situazione direttamente con il presidente haitiano René Préval. All'andata, il suo aereo ha portato risorse di prima necessità, e al ritorno ha caricato diversi americani che volevano lasciare Port-au-Prince.
«Aiuteremo direttamente e personalmente il popolo di Haiti con il nostro continuo appoggio, con la nostra solidarietà e con la nostra simpatia», ha detto il capo della diplomazia di Washington prima di partire. Hillary Clinton, in particolare, ha sottolineato che per il momento gli Stati uniti si concentreranno sul «recupero fisico di strade e edifici» per poi continuare quel piano di ricostruzione del paese già in atto negli anni passati, che la responsabile degli esteri ha definito «positivo».
Gli americani hanno preso ufficialmente il controllo dell'aeroporto di Port-au-Prince, che dopo il sisma di martedì era diventato «una giungla», secondo il responsabile degli aiuti umanitari dell'Onu, John Holmes. La gestione americana dell'aerostazione ha suscitato però le critiche della Francia, che si è vista negare temporaneamente l'atterraggio di un aero-ospedale. I voli verso la capitale haitiana sono talmente tanti che la congestione è inevitabile. Per di più il porto della città rimane ancora inutilizzabile.
Nelle bidonville nessuno scava
Un formicaio di ombre disperate
di Federico Mastrogiovanni
Port-au-Prince è un cumulo di macerie e di corpi. La puzza di morte si appiccica addosso. Per le strade, all'improvviso compaiono decine di accampamenti improvvisati, delimitati da pietre e pezzi di calcinaccio: la gente che ha perso la casa e non sa dove andare si sistema in mezzo alle carreggiate, anche per paura di nuovi crolli, dovuti al peso degli edifici, a scosse di assestamento o conseguenza del sisma di martedì scorso, il più forte degli ultimi 200 anni.
Passando da Rue Dalmas, una delle arterie della capitale haitiana maggiormente colpite dal sisma, si stagliano le gru al lavoro tra le macerie della prigione. Qui sotto sono sepolti molti detenuti e guardiani, ma molti altri prigionieri sono riusciti a salvarsi e a scappare. Secondo testimoni e agenzie stampa, il violento incendio divampato al palazzo di Giustizia sarebbe opera di questi fuggitivi, intenzionati a distruggere i loro fascicoli. La fuga ha generato una violenta caccia all'uomo da parte delle forze dell'ordine e della Minustah, la missione Onu che dal 2004 ha il compito di stabilizzare il paese dopo la cacciata di Aristide.
Ma le ricerche sono concentrate soltanto in alcuni punti della città, come l'hotel Montana, in centro, mentre nella gran parte di Port-au-Prince, soprattutto nelle bidonville, nessuno scava. Non si è nemmeno iniziato, perché non ci sono mezzi per farlo.
Si aprono fosse comuni per raccogliere le decine, forse centinaia di migliaia di morti senza un volto né un nome, semplicemente spazzati via da un terremoto che non ha scalfito le case dei ricchi, costruite con criterio e materiali resistenti.
«Questo disastro non sarebbe successo se queste case fossero state costruite seguendo le elementari norme antisismiche», sostiene Fiammetta Cappellini, capo missione ad Haiti della Ong Avsi. «Dopo tre giorni stiamo ancora contando i morti e i dispersi, ma non si riesce a calcolare con precisione. Sono troppi».
Nel centro città, in Rue Nasone, i morti sono accatastati sulla strada, coperti, nel migliore dei casi, da striminziti lenzuoli, ma vengono anche trasportati a braccia, dai parenti, su carretti trainati da animali. I più fortunati, hanno una bara.
Port-au-Prince è un formicaio di gente che vaga per le strade cercando superstiti, trasportando feriti, oppure sotto shock, assediando i pochi ospedali che danno soccorso e le tendopoli allestite alla meglio da volontari e istituzioni delle Nazioni unite.
«Il problema vero qui è che tutti questi cooperanti e le forze internazionali non hanno un buon coordinamento», sostiene Philippe, cooperante francese aspettando una riunione nel centro logistico delle Nazioni unite allestito all'aeroporto. «La funzione di coordinamento la dovrebbe svolgere la Ocha, l'agenzia Onu che si occupa di gestire tutte le forze sul campo in casi di emergenza umanitaria, ma finora non sembra che siano stati in grado di coordinarsi in modo efficace. Poi le comunicazioni sono precarie. Fino a due giorni fa nemmeno gli integranti della Minustah erano in grado di comunicare adeguatamente tra loro».
Gli aiuti arrivano, ma ancora non si è iniziato a distribuirli sistematicamente alla popolazione.
Di fronte al centro logistico di Medici senza frontiere Belgio, nel «ricco» quartiere di Petionville, si ammassano feriti bisognosi di cure. «Qui ci occupiamo dei casi meno gravi - racconta Nadine, una giovane infermiera haitiana - abbiamo comunque poche risorse e poco posto». E infatti i corpi si ammucchiano negli spazi comuni, uno sull'altro in discesa sulle rampe dei garage, buttati su teloni, cartoni, lenzuoli.
Le ossa vengono aggiustate con steccature di cartone e garza, si fa come si può.
Uno scenario dantesco in cui, col passare dei giorni, la mancanza di cibo, acqua e carburante si fa sempre più drammatica. Le poche pompe di benzina disponibili sono presidiate dai caschi blu nel caos di traffico e gente, per impedire disordini e sommosse.
Nel quartiere di Cité du Soleil, uno dei più poveri della città, si fa la fila per fare rifornimento di acqua da alcuni pozzi. Ma l'acqua non è potabile. È acqua di scolo di una città che non ha un sistema fognario, le cui strade sono una fogna a cielo aperto che si pulisce quando piove, portando tutto a valle.
Cala il buio su Port-au-Prince, la città del buio, dove la corrente - se va bene - c'è per 4 o 6 ore al giorno, in tempi di normalità.
Un predicatore col megafono gira per le strade del centro, seguito da un gruppetto di persone. «La fine del mondo è vicina, preparatevi a ricevere la fine del mondo. Non si sa quando arriverà ma sarà molto presto».
Col buio, l'atmosfera diventa più irreale. Ombre ammucchiate, sdraiate, vaganti. Qualcuno balla, canta e prega davanti a ciò che rimane della sua casa disintegrata, affinché Dio lo aiuti a superare un nuovo giorno all'inferno.
HANNO ZERO
La «radio loyalty» di Little Haiti
di Tiziana Rinaldi Castro*
NEW YORK - La comunità haitiana a New York è forte e ben radicata e a Brooklyn, su Nostrand Avenue, dai ristoranti lungo la strada mi raggiungono come un'onda gli odori irresistibili del Mais Moulu con sauce pois, una sorta di polenta accompagnata da una salsa a base di legumi, e delle frittelle di dentice. Mi imbarazza la forza degli odori: questa nozione, appresa con la fame, con il sonno e con la sete, che la vita continua, anche quando si ferma il cuore di un'intera nazione, anche quando la morte sembra la più forte. Ma non c'è musica: né Kompa né Meringue si odono dai negozi lungo la strada.
All'altezza di Beverly Road mi fermo davanti alla stazione di Radio Soleil. Si è formato un pannello di persone dinanzi alle porte a vetro che danno sulla strada. Ci sono cronisti: una ragazza italiana con una videocamera, della Rai; una reporter dal quotidiano madrilegno Publico e una ragazzina del New York Times. Una giovane donna, con lunghe e folte trecce, si alza e si avvicina.
«Puoi aiutarmi?» mi chiede «sto cercando mia madre. È ad Haiti, il suo paese d'origine, in visita con amici. Si chiama Marie Angie Barthilemy, ha 52 anni, io sono Sandra».
«No, non posso aiutarti, ma posso scriverne».
«Mia sorella Beatris, in California, è un soldato della Marina; è riuscita a parlarle un attimo ieri, prima che la comunicazione si interrompesse; poi più niente».
«Era certa che la voce fosse la sua?»
«Sì, sia ringraziato Dio».
Ora si avvicina un signore, elegante, come vestono qui, attenti al dettaglio: la cravatta, le scarpe a punta, il cappotto, il cappello sopra i capelli corti.
«Sono Mikel Faostin, ho una sorella lì, non sono riuscito a parlarle. Ma Dio è grande e ci aiuta, Dio ci guarisce. Qualsiasi cosa accada».
Non così speranzosa Margareth Petithomme che, occhi gonfi sul volto stravolto dall'ansia e dalla fatica, mi guarda angosciata. In una mano tortura un fazzoletto, nell'altra tiene stretto un mucchio di fotografie.
«Signora» le chiedo contrita «da quando non dorme?».
«Da martedì, se ci provo ho gli incubi».
«Chi ha lì?»
«Mia madre, mia sorella, mio nipote. Abitano a tre, quattro isolati dai corpi» risponde prima di contorcere il volto in una maschera di disperazione. Mi mostra le foto: donne sorridenti, bambini, un cielo blu all'orizzonte.
«Abita qui vicino?»
«No, a Canarsie».
Ma è venuta qui, a Flatbush, nella sede di Radio Soleil che vanta 500.000 ascoltatori tra il milione e mezzo di haitiani che vivono negli Stati Uniti. È parte del fenomeno qui chiamato Radio Loyalty, una forma di lealtà alla madrepatria tipica della popolazione haitiano-americana, una patria povera ma dove anche gli shoeless - gli scalzi - hanno una radio a transistor per ascoltare le notizie.
Cerco il presidente della radio, Ricot Dupuy. È al telefono, nell'ultima stanza della radio, un telefono per ogni orecchio. Quando mi vede sulla porta mi comunica bruscamente che non ha tempo per me.
«Vorrei solo sapere cos'è stato fatto finora qui».
Mi guarda svuotato, come a dire: cosa vuole che possiamo fare noi, da qui? Affretta tuttavia la conclusione di entrambe le telefonate.
«Da martedì i nostri ascoltatori ci portano liste di nomi dei loro cari e noi le mandiamo in onda. Siamo in diretta con Radio Signal Fm a Port Au Prince. C'è un sito internet, www.yele.org, che sta organizzando la raccolta dei fondi da mandare ad Haiti. Per il resto ancora niente. Vada alla chiesa St. Therese de Lisieux, le sapranno dire di più». È esausto Ricot e spesso si ferma guardando il computer o gli cade l'occhio su di una lista di nomi e mi chiede di ricordargli cos'è che stava dicendo. E no, non trova l'indirizzo della Chiesa.
Torno in anticamera, su cui, attraverso una parete a vetri, si apre una sala trasmissioni. C'è una ragazza piena d'energia, vibrante, fattiva: Augla. Mi avvicino per parlarle ma mi precede un giovane uomo, gli occhi gonfi, il volto mangiato dalla paura.
«Per favore aiutatemi, non ce la faccio più» esclama tendendole un foglio pieno di nomi e indirizzi «sono giorni che chiamo, nessuno risponde». Augla scorre la lista con gli occhi e anch'io. Più volte, accanto ai nomi dei parenti, le parole Delmas 65 e Delmas 41. Augla lo rassicura che trasmetterà subito i nomi.
«Per favore» continua a implorare l'uomo.
«Come ti chiami?» gli chiedo commossa.
«Gilbert Racine, vengo da Pelham, nel Bronx. Mio padre e mio zio sono partiti domenica. Io non ce la faccio più». Le braccia penzoloni, il corpo appoggiato al muro, gli occhi supplici, come se questa radio oppure io potessimo ridargli sani e salvi i suoi parenti. Ho paura che svenga.
«Si sieda, per favore, Gilbert» lo prego ma qualcuno gli fa altre domande e io seguo Augla fuori dalla sala trasmissioni. Mi racconta: «Sono una volontaria, non faccio parte della radio. Studio all'università, qui a Brooklyn. Ma non potrei andare a scuola, ora. Voglio aiutare la mia comunità».
Guarda in direzione di Gilbert Racine e dice a voce bassa:
«Come faccio a dirgli che Delmas è la zona più colpita, che a Delmas non c'è rimasto niente?»
«E tu, chi hai lì?» le chiedo, sperando di scordarmi quel che mi ha appena detto.
«La famiglia di mia madre: povera donna, è distrutta. E a mia nonna si è alzato il diabete; sono 12 anni che non vede i suoi figli. È convinta che ora, se anche li rivedrà, saranno morti».
'Se anche li rivedrà'. Si riferisce alle fosse comuni che ora dopo ora si riempiono nei cimiteri di Port Au Prince: corpi senza un nome, senza una preghiera, senza un addio.
Esco e attraverso la strada. Dal barbiere "Impeccable", è contento Guy Bonny, che ha parlato con suo fratello proprio stamattina.
«La casa forse è pericolante, ma lui no», mi annuncia. In chiesa, invece, non c'è nessuno: «Domani sera», mi consiglia la ragazzina che ha aperto la porta della sagrestia. Mi dirigo verso la stazione di Radio Po Nou, anch'essa su Nostrand Avenue, non lontana.
«È con la melàs, il gas che ci fornisce Chavez, che funzionano i generatori della nostra radio gemella a Cap Haitien, nel nord di Haiti» mi spiega il signor Jude Joseph, direttore della radio. «Lo Stato non ci fornisce elettricità». È stanco Jude, «sono due notti che non dormo, il cellulare squilla in continuazione»» spiega, alzando le spalle.
«Sono venuto qui per aiutare la mia famiglia» racconta invece il signor Gaspard «lavoro in questa radio 24 ore al giorno ma è così che sono riuscito a costruire il Club Sportif a Port Au Prince: un campo sportivo, un campo da tennis, ristorante, studio di registrazione, parrucchiere. E ho dato lavoro a tanti nella mia terra. Oggi mi hanno chiamato: "Stiamo tutti bene, boss, ma del club non è rimasto niente" hanno detto». Scuote la testa, «Tutti seduti nel campo sportivo, a guardare le stelle. Vivi, almeno» conclude. Di fronte alla notizia della sua colossale perdita è stoico il signor Lynch Gaspard. È una cosa - lo stoicismo - che noti spesso nella comunità haitiana. E allo stoicismo si accompagna l'orgoglio e la fierezza di un popolo piegato - ma non spezzato - dalla povertà e dall'inefficienza di governi dittatoriali o debolissimi, divorati dalla corruzione e da un vergognoso militarismo. Eppure è del glorioso passato di Haiti che si fa forte questo popolo laborioso e intraprendente. E leale sia ad Haiti che agli Stati Uniti, con cui il legame è forte da ben due secoli e mezzo: Haiti è stata la prima repubblica afrocentrica nelle Indie occidentali, dopo una rivolta che, prima sotto il comando dell'eroico Toussaint L'Ouverture, ex schiavo della colonia francese, e poi del suo alleato Jean-Jacques Dessalines, costò alla Francia post-rivoluzionaria ma ancora schiavista 50.000 soldati. Durante la rivoluzione americana Haiti mandò un contingente di ben 6000 soldati per combattere gli inglesi in Georgia e nella Carolina del Sud. Sempre al fianco degli Stati Uniti, ha combattuto in entrambe le guerre mondiali. E, come scordare Jean Baptist Pointe Du Sable, fondatore della città di Chicago? Tornando verso la metro, penso ad una storia che mi ha raccontato Augla Pierre: «Una donna ha portato una lista di nomi dei suoi fratelli, che erano partiti proprio martedì perché era morta la madre. Lei sarebbe partita oggi, ora non sa più per quanti funerali».
Penso al terremoto dell'Irpinia che inghiottì tremila persone della mia terra, la notte in cui tutti noi ragazzi crescemmo di botto. E penso che la terra trema da sempre, senza né amarci né odiarci, perché nulla è sacro agli Dei. E allora, testarda, cerco di figurarmi il numero di morti a Port Au Prince, che supera forse i centomila, ma con fatica - come quando si guardano le stelle nel cielo d'estate e si perde contatto con il presente. Mi immagino anche che, fra due settimane, come succede sempre quando la morte visita le terre dei poveri, non se ne parlerà più.
* Autrice dei romanzi Il lungo ritorno e Due cose amare e una dolce (E/O), vive a Brooklyn
Soccorsi armati
Obama e l'imperialismo degli aiuti
di Tommaso Di Francesco
«Che fa Obama, il primo presidente nero degli Stati uniti?» chiede davanti a una telecamera un giovane tra i disperati superstiti che si aggirano per l'inferno di Port-au-Prince devastata da una catastrofe che non ha pari. Viene fatto di rispondere che quel giovane non sa ancora quel che ha deciso Obama, non può saperlo. Oppure lo sa fin troppo bene, e s'interroga sui limiti di questo intervento.
Perché Obama ha fatto tantissimo, forse troppo: ha parlato due-tre volte dalla Casa bianca, l'ultima volta è comparso dalla massima tribuna americana preceduto dai suoi ministri, schierati al lato della tribuna, non era accaduto nemmeno per la decisione di escalation della guerra afghana. E ha preso la decisione d'inviare seimila marine, e subito dopo di aggiungercene altri diecimila, quasi la metà di quelli che stanno partendo in guerra per Kabul. Là c'è il terrorismo - senza nominarlo - di al Qaeda da combattere, qui c'è il terremoto, vale a dire il terrore della natura aiutata dalle devastazioni ambientali dell'uomo, il terrore della morte da disastro, della fame, della disperazione. E, nel più perfetto stile presidenziale Usa, ha nominato responsabili della task force per Haiti i due ex presidenti, Bill Clinton - protagonista delle sconfitte politiche dell'America nella gestione della crisi haitiana dal 1994 in poi - e addirittura George W. Bush, che tutti ricordano come «grande esperto» di disastri naturali nel caso dell'uragano Katrina e degli effetti mortali a New Orleans.
Così, in questa che qualcuno vorrebbe come grande eterogenesi dei fini dove un gigantesco apparato di guerra sarebbe ora a disposizione delle forze del bene, stanno arrivando ad Haiti già le prime migliaia di militari. Quando servirebbero sedici mila medici e personale infermieristico, ingegneri, psicologi, panettieri e cuochi. Hanno invece tute mimetiche i marines, quelle delle guerre, sui vistosi elmetti ancora portano la luce dei puntamenti laser di armi sofisticatissime, imbracciando mitra voluminosi. Se ne arriveranno sedici mila, vorrà dire montagne di spedizioni solo per sostenere la vita dei soldati americani (quattro pasti al giorno, acqua, viveri, sanità, vettovaglie, tende per dormire). L'assetto di guerra, si dirà, alla fine servirà ai civili e intanto serve subito a fugare i malintenzionati col machete che assaltano gli aiuti che devono essere protetti - e alle rivolte dei poveri contro i quartieri dei ricchi intatti nonostante il terremoto come risponderanno i soldati Usa, con i bombardamenti?
È un doppio - una doppiezza? - quello tra militare e civile che non serve e non ha pagato nemmeno nelle zone della guerra afghana e irachena. Tanto meno ad Haiti, dove più che di un corpo di spedizione militare servirebbe una polizia internazionale abituata allo scopo. Ma nessuno mette in evidenza che ci troviamo di fronte all'ennesima occasione persa: quella di restituire potere politico, centralità, ruolo e intervento alle Nazioni unite, peraltro colpite ad Haiti dai crolli anche perché presenti con le proprie strutture e, in queste ore, nonostante tutto quasi le uniche con il Pam e i medici dell'Oms a soccorrere davvero la popolazione.
Esiste, purtroppo, una geopolitica dei disastri. Valse per l'ormai più che dimenticato tsunami che sconvolse il sud est asiatico solo cinque anni fa. E vale tuttora, con gli Stati uniti che hanno deciso un «intervento militare contro il terremoto»: non è un paradosso, le cose stanno proprio così. Non sarà che tra un anno, quando della tragedia di Haiti si parlerà molto meno, avremo in più, insieme a decine di migliaia di fosse comuni, qualche base militare americana strategicamente posizionata ad Haiti - quasi fosse la 51 stella dell'Unione - tra Venezuela e Cuba a ridosso di Guantanamo, e impegnata da subito a controllare la pericolosa immigrazione dei disperati in fuga dalle macerie del terremoto?
Non facciamoci illusioni: senza la centralità di una organizzazione umanitaria internazionale con cui costruire un vero potere d'intervento civile, quale solo l'Onu può essere - e che è l'unico che infatti abbia stanziato 550milioni di aiuti civili - il bisogno di soccorsi per sopravvivere crea solo subalternità e ad Haiti è destinato solo a riprodurre sudditanza all'imperialismo degli aiuti e alle politiche economiche shock e di chi li comanda.
Perchè, a più di un anno dal commissariamento e dalla nascita, l'Ispra, l'ente nazionale che dovrebbe occuparsi dello stato di salute del nostro territorio, ancora non ha uno statuto, nè una mission? Le ricerche, quelle europee soprattutto, scivolano via insieme ai contratti non rinnovati (250, solo tra gennaio e giugno 2009), i tecnici e gli amministrativi denunciano la progressiva spoliazione delle competenze, la struttura commissariale è del tutto sorda e, quel che è peggio, una vicenda che ha attirato l'attenzione del Financial Times e di Science, la rivista scientifica più influente e più letta al mondo, sembra non importare un granchè alla ministra competente.
«È uno zibaldone, non ci si capisce niente». I ricercatori temono che l'intento sia quello della privatizzazione della ricerca e della tutela dell'ambiente. Preoccupazioni fondate, a quanto pare. L'agenzia nazionale ambientale, occupandosi di monitoraggi e controlli, dovrebbe essere un ente terzo mentre il ministro sembra volerne fare una specie di propria succursale, spogliandola progressivamente delle proprie funzioni. Come? «Esternalizzando le funzioni di Ispra, derivate dai tre enti precedenti, a società private o apparentemente tali», afferma Bracchi. Per esempio alla Sogesid Spa, società in house del ministero dell'ambiente, costituita all'inizio degli anni Novanta dalla cessata Cassa per il Mezzogiorno e oggi interamente partecipata dal ministero dell'economia.
Molti dei settori in cui opera Sogesid (che ha sedi in tutte le regioni del Mezzogiorno e ai cui vertici c'è Vincenzo Assenza, parente del ministro Prestigiacomo dicono i rumors) sono gli stessi di cui dovrebbe occuparsi l'Ispra: valutazione di impatto ambientale, messa in sicurezza e bonifica di siti contaminati, monitoraggio e vigilanza in materia di rifiuti, e via dicendo. Con la differenza però che Sogesid può, per statuto, ricevere commesse pubbliche senza gara. E può anche poi decidere di subappaltare a esterni quelle stesse commesse. Anzi, questo è quanto avviene nella maggioranza dei casi, sostiene Bracchi in una recente interrogazione parlamentare. Non solo: «Sogesid svolge attività di Manpower per il ministero, costituendo occasione per assumere personale bypassando le procedure concorsuali obbligatorie». Nel bilancio Ispra 2010 la struttura commissariale ha iscritto risorse per svariati milioni di euro, sostiene il sindacato Usi-Rdb, «e in mancanza di personale è facile immaginare che tali attività saranno esternalizzate».
A fare scuola è stato il caso dell'emergenza idrica nelle isole Eolie, dove Sogesid è riuscita ad avere in affidamento il progetto per il ciclo integrato dell'acqua (38 milioni di euro stanziati), togliendo lavoro ad altre imprese e senza nessun beneficio per i cittadini che continuano a pagare l'acqua potabile come oro. Lo scioglimento di Sogesid è stato chiesto a più riprese da diversi parlamentari, ultimamente è stata fatta richiesta di un'audizione da parte dell'ad: «Sono passati otto mesi e ancora niente».
E non è tutto perchè, in materia di rischio idrogeologico, il decreto legge di riforma della Protezione civile, la cui legge di conversione è ora al Senato, contiene la possibilità per la ministra di proporre la nomina di commissari straordinari. Tanti quanti ne serviranno per gli interventi di messa in sicurezza del territorio, e con una clausula non da poco, ha svelato Italia Oggi giovedì: per i commissari nominati dalla Prestigiacomo non varrà la regola prevista per tutti gli altri e cioè il mancato obolo nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi.
Mi sono chiesto molte volte perché in Italia le associazioni imprenditoriali non protestino mai o quasi mai contro le nostre stringenti e anacronistiche politiche dell´immigrazione. Altrove sono le rappresentanze dei datori di lavoro ad alzare la voce quando si abbassano le quote di ingresso, impedendo l´arrivo di nuovi immigrati. Chi paga il lavoro di altri ha tutto da guadagnare nell´avere manodopera a basso costo, come quella immigrata. Paradossalmente in Italia sono invece i sindacati, tra le cui fila ci sono molti lavoratori poco qualificati che possono legittimamente temere la competizione salariale dei nuovi arrivati, che si sono opposti, soprattutto per ragioni ideologiche, alla chiusura delle frontiere, mentre le associazioni di categoria sono state silenti nell´accogliere leggi, come la Bossi-Fini, che impongono vere e proprie forche caudine ai lavoratori e datori di lavoro che vogliano mettersi in regola. Perché?
La risposta ci viene da vicende come quella di Rosarno e dalla prima indagine rappresentativa degli immigrati clandestini, condotta in Italia. Gli immigrati arrivano comunque perché le restrizioni sugli ingressi non vengono minimamente rispettate. Sarà così fin quando continueremo a tollerare il lavoro nero: gli immigrati vengono da noi sfidando ogni restrizione perché in Italia si trova facilmente lavoro senza aver bisogno di avere un permesso di soggiorno. Quindi i datori di lavoro trovano comunque le braccia a basso costo di cui hanno bisogno. Ma c´è di più: dato che si tratta di immigrati irregolari, in attesa di regolarizzare la loro posizione, possono pagarli ancora meno di quanto pagherebbero gli immigrati regolari. È una forma più o meno esplicita di ricatto: o accetta queste condizioni, oppure il lavoratore viene denunciato o comunque non aiutato a regolarizzarsi alla prossima sanatoria. Reati come quello di immigrazione clandestina servono solo a permettere di meglio esercitare questo ricatto, non certo a ridurre gli arrivi di irregolari.
I disperati che raccoglievano le arance a Rosarno guadagnavano 18 euro al giorno, con una paga oraria di due euro. Avevano paghe cinesi in un paese in cui il costo della vita è quasi cinque volte superiore che a Pechino, dove peraltro i datori di lavoro offrono agli immigrati un alloggio, seppur precario. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo, la televisione ha fatto vedere in che condizioni vivevano gli immigrati di Rosarno. La Bbc, che aveva denunciato casi come quelli di Rosarno più di un anno fa senza stimolare alcuna reazione da parte delle autorità nazionali o locali, ha sottolineato come fossero condizioni peggiori che nelle baraccopoli dei paesi in via di sviluppo.
Questo uso delle leggi dell´immigrazione per pagare ancora di meno il lavoro degli immigrati non è limitato al solo Mezzogiorno. Anche al Nord chi è senza permesso di soggiorno o in attesa del suo rinnovo viene pagato, a parità di altre condizioni (tipo di lavoro, età, qualifica e genere), molto di meno di chi è in regola. Questo fatto emerge da un´indagine svolta da Erminero&Co per conto della Fondazione Rodolfo Debenedetti, nei mesi di novembre e dicembre 2009, in 8 città italiane ad alta densità di immigrati (Alessandria, Bologna, Brescia, Lucca, Milano, Prato, Rimini e Verona). Sin qui i dati sugli immigrati venivano raccolti mediante interviste a persone casualmente estratte dall´Anagrafe, che non contiene chi non è regolarmente in Italia. Oppure c´erano state indagini presso i centri della Caritas o di altre organizzazioni umanitarie che forniscono assistenza agli immigrati: il problema con questo metodo di rilevazione è che raccoglie informazioni solo su quegli immigrati irregolari che hanno talmente bisogno di vitto e alloggio da correre il rischio di rivolgersi a dei centri nei pressi dei quali ci potrebbero essere più frequenti controlli di polizia. L´indagine svolta nelle 8 città si è basata, invece, sul campionamento casuale di isolati, in aree ad alta densità di immigrati.
Ecco i primi dati: il 40 per cento di coloro che non hanno un permesso di soggiorno viene pagato meno di 5 euro all´ora contro il 10% tra chi è in regola. Otto irregolari su dieci lavorano anche il sabato e in quattro su dieci anche la domenica; tra chi ha un permesso di soggiorno queste percentuali sono significativamente più basse.
Chi assume un lavoratore immigrato, traendo benefici dal basso costo del suo lavoro, dovrebbe contribuire a sostenere le spese per la sua integrazione (scuola, sanità e servizi sociali) e pagarlo al punto da fargli raggiungere uno standard di vita tale da permettergli una convivenza civile con la popolazione autoctona. Da noi, invece, avviene esattamente l´opposto. Si entra facilmente ma poi la regolarizzazione è un percorso ad ostacoli che attribuisce un forte potere contrattuale al datore di lavoro. Insomma le nostre leggi sembrano essere fatte apposta per aumentare i benefici privati dell´immigrazione e per socializzarne i costi. Tra questi costi bisognerebbe aggiungere anche quello di non permettere agli immigrati di avere diritti civili. È un costo anche quello perché se avessero una voce, una rappresentanza a livello locale e nazionale, il loro disagio potrebbe esprimersi in modo civile, prima che si superi il livello di guardia.
Dunque, appena 62 anni fa (un fiato per la storia) erano italiani, erano calabresi i clandestini che tentavano di passare in Francia. Eravamo noi i senegalesi, i maghrebini, i disperati d’Europa. Nessuno vuole ricordare: dai leghisti del Nord ai berlusconiani del Sud. Il sonno della memoria genera mostri come il razzismo. Gli interessi di “rapina” fanno il resto. Perché la Rai - che ne ha diritti ancora per un po’ - non proietta in ore possibili "Il cammino della speranza" (1950) di Pietro Germi, odissea di clandestini siciliani diretti in Francia?
Dall’800 trenta milioni di italiani sono andati per il mondo come muratori, minatori, fonditori, scaricatori, braccianti agricoli, ecc.
I lavori che i locali respingevano e che, da anni, anche i giovani italiani rifiutano, nello stesso Sud dove la disoccupazione giovanile è altissima.
È per questo, non per buonismo, che importiamo braccia. Salvo poi - là dove le mafie controllano tutto - pagarli, alloggiarli, trattarli da schiavi. Troppo comodo. Possibile che Stato, Regioni, Comuni, sindacati non possano fare nulla di positivo, di preventivo, di tempestivo in materia?
«Noi ce ne andiamo, voi però qui restate, qui dovete vivere»: questo il messaggio degli uomini in fuga da Rosarno. Uomini? Quasi nessuno li ha chiamati così. È un’altra la parola che è emersa, gridata dalle squadre dei giustizieri della notte, ripetuta in tutte le cronache: negri. E la parola ha suggerito subito l’altra gemella e nemica: bianchi.
Noi che restiamo qui dobbiamo prendere atto di come è cambiato il paesaggio dove da oggi dovremo vivere: che non sarà più solo quello morale della violenza collettiva, o quello materiale del degrado dei luoghi, o anche quello sociale e politico di uno stato assente sostituito dalla ‘ndrangheta, oppure quello storico di un paese «troppo lungo» che giorno dopo giorno visibilmente si spezza, come ha scritto in un libro appassionato Giorgio Ruffolo. Da questo momento, accanto ai problemi del sud, alla questione dell’immigrazione clandestina, ai disastri dell’insicurezza prodotta dal decreto sicurezza, un altro problema è sorto che va al di là di tutto il resto e segna una tappa mai prima toccata o immaginata nell’Italia che credevamo di conoscere: la tappa segnata da una parola: «negri».
Ricorderemo questa data come l’ingresso nel vocabolario dell’Italia incivile della parola chiave, quella che cambia il mondo e lo semplifica, quella che fa del rapporto fra esseri umani una guerra di razze e un conflitto di colori, dove il nero muore e il bianco vince. La cosa da tempo si avvertiva nell’aria, serpeggiava negli stadi, luogo germinale della lingua nuova: ma è solo da oggi che la novità si è imposta collettivamente con l’evidenza delle immagini e con l’urlo collettivo delle folle. Per misurare quante cose sono cambiate in un colpo solo basta ricordare l’assassinio di Jerry Essan Masslo, il rifugiato sudafricano ucciso a Villa Literno il 25 agosto 1989. Non lo chiamarono «negro» le cronache di allora: e dei suoi assassini si parlò come di una banda di criminali. Oggi al posto dell’assassinio isolato si è cercata, voluta e rischiata una strage. Ronde notturne, posti di blocco, automobili con uomini armati di fucili, agguati, spari, grida, ferocia, paura, corpi sanguinanti di altri uomini in mezzo a paesaggi devastati, a rifugi primitivi: dove avevamo già visto queste scene? È una sequenza che finora avevamo visto solo nei film americani, quelli sul Ku Klux Klan e sulla lunga tragedia del razzismo degli Stati Uniti. Le scene di Rosarno trasmesse dalla televisione sembravano spezzoni di quei vecchi film dove i bianchi americani armati di fucili andavano a caccia di schiavi fuggiaschi.
Dunque proprio quando l’elezione alla presidenza di Barack Obama ha siglato la vittoria della battaglia per la fine della separazione razziale, ecco che la crisi italiana diventa una crisi in bianco e nero - semplice, violenta, insolubile, come quella di cui scriveva Charles Silberman mezzo secolo fa nel libro che leggemmo con quel titolo. Ma l’analogia delle parole e la distanza dei tempi e dei modi mostrano che rispetto alla difficile crescita della società americana l’Italia si avvia lungo la strada di un declino civile senza sbocco, in controtendenza rispetto a quel mondo americano dove la lunga lotta per i diritti dei neri d’America ha realizzato il sogno di Martin Luther King. Da noi si apre uno scenario inedito, un panorama assurdo, una realtà sgangherata che ha solo un punto in comune con quello tragico e secolare del razzismo dell’America negriera: la parola.
Negri quelli che se ne vanno, bianchi noi che restiamo. Loro, prima di andarsene, hanno gridato: siamo uomini come voi. Ma l’esito della battaglia ha dimostrato che noi non siamo uomini come loro e che per loro non c’è posto fra di noi. La lingua quotidiana è cambiata. Il mondo mentale degli italiani è diventato da un giorno all’altro un mondo in bianco e nero. E questa è l’essenza linguistica della regressione civile, perché la parola porta con sé la semplificazione del mondo e la radicalizzazione del conflitto. Lo porta in una realtà da sempre storicamente e umanamente vicina al continente africano. E questo prova quanto la crisi sia grave.
Con questa novità dobbiamo fare i conti. La parola «negro», cadendo sull’Italia intera dai fatti di Rosarno, ha prodotto un effetto che ricorda, pur tra molte differenze, l’essenziale di quello che accadde quando le leggi razziali del 1938 portarono per la prima volta nella vita quotidiana la parola «ebreo» . Un bel libro di Rosetta Loy ha raccontato come quella parola producesse l’effetto di far scomparire delle persone. Anche con la parola «negro» l’effetto è stato quello. Stavolta la scomparsa non è stata sotterranea e silenziosa come allora: è avvenuta sotto gli occhi di tutti con scene piene di rumore e di grida. Tutti abbiamo visto centinaia di uomini neri andarsene sotto scorta dal paese dei bianchi. Così si è manifestata ancora una volta la potenza dello stereotipo razziale che sostituisce al volto concreto dell’essere umano una silhouette, una maschera da colpire e distruggere. E lo stereotipo del «negro» è senza ombra di dubbio il più semplificato e il più immediatamente efficace.
Da questo fondo cupo bisognerà pur risalire. E come per la parola «ebreo» bisognerà cercare di capire come e perché quella parola sia caduta oggi sul nostro contesto civile. Bisognerà riportare alla memoria degli italiani le pagine oscure della loro storia, quelle che non si ricordano volentieri, risalire alle responsabilità storiche del paese Italia nel percorso di delitti e di tragedie che hanno conferito a quella parola un suono sinistro. Grazie all’opera solitaria e coraggiosa dello storico Angelo Del Boca sappiamo ormai che cosa sia stata l’Africa nella coscienza degli italiani, conosciamo di quali tragedie e di quali delitti sia stato fatto il colonialismo italiano, quante atrocità siano state commesse dalle truppe italiane mentre le canzonette della propaganda fascista solleticavano gli istinti di violenza del maschio italiano sulle «faccette nere» delle donne abissine. Ma ci vorrà ben altro che qualche lezione di storia per risalire da questo abisso.
L'avvio di queste elezioni regionali e i bagliori della caccia al lavoratore immigrato a Rosarno illuminano di una luce sinistra quel che, forse, resta della sinistra. Quella che conoscevamo non c'è più. Il Pd, ricco solo di contrasti interni, per un verso è al guinzaglio dell'Udc di Casini (fa bene Clemente Mastella a dire: «Se in Puglia vince Boccia, Casini sarà il candidato premier del centrosinistra»), nel Lazio è messo in tilt dalla mossa a sorpresa della Bonino, in Umbria esibisce ricchezza di divisioni interne, nelle altre regioni non va meglio.
Le sinistre resistenti non stanno tanto bene, ma bisogna dare atto a Nichi Vendola di averle smosse con la sua giusta e ostinata resistenza all'intimazione di mollare il governo della Puglia e di contentarsi di qualche premio di consolazione. La resistenza di Vendola ha prodotto la ripresa di contatti tra le componenti di quella che chiamerei «sinistra resistente», ma fino a ieri divisa e conflittuale. C'è stato un incontro positivo tra Vendola e Ferrero e la prima pagina di Liberazione del 7 gennaio si presentava con una grande foto di Ferrero e Vendola sorridenti. All'interno una vivace intervista ancora a Vendola («Casini ha lanciato l'opa sul Pd»).
Queste forze potrebbero presentare liste comuni alle regionali. In tanto disastro un segno buono. Ma attenti: non si tratta di rifare un Arcobaleno e tanto meno di incollare quel che c'è. Quel che c'è, quel che queste forze oggi sono, non basta. Bisogna ricostruire i fondamenti politici, sociali e culturali per costruire una sinistra adatta ai tempi e alle trasformazioni della società. Gli accordi elettorali sono utili, ma insufficienti di fronte alla crisi presente.
Alcuni mesi fa questo giornale aveva invitato Ferrero e Vendola a un forum presso la nostra sede per discutere del che fare (ma anche dell'essere) di forze che vogliano essere di sinistra nel nuovo secolo. Purtroppo quell'invito (forse intempestivo) non ebbe accoglienza: lo ripetiamo. Questo manifesto, che ha alle spalle una combattiva storia di sinistra, anche di rottura con il Pci, è ben consapevole, testardamente consapevole, che deve impegnare tutte le sue forze (purtroppo non grandi) nel lavoro di ricostruzione della sinistra italiana. Luigi Pintor in un editoriale del 24 aprile del 2003 scriveva «La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena. Non sono una opposizione e una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo». E Pintor concludeva: «Non deve vincere domani, ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un'era che ce ne sta privando in forme mai viste».
Ciascuno nella sua autonomia, speriamo ogni giorno a «invadere il campo». La via delle trovate astute è quella del suicidio.
Il futuro in cui siamo già immersi comincia nella piana di Gioia Tauro: a Rosarno in provincia di Reggio Calabria (un’autentica guerriglia urbana è ancora in corso), come a Castel Volturno e a Reggio stessa, dove la ’ndrangheta ha voluto intimidire i magistrati con un attentato alla procura generale. Il futuro comincia a Rosarno perché i principali problemi della nostra civiltà si addensano qui: le fughe di intere popolazioni dalla povertà e dalle guerre (guerre spesso scatenate dagli occidentali, generatrici non di ordine ma di caos); le vaste paure che s’insediano come nebbie, intossicando la vita degli immigrati e dei locali; le cruente cacce al diverso; il dilagare di una mafia esperta in controllo mondializzato.
A ciò si aggiunga l’impossibilità di arrestare migrazioni divenute inarrestabili, perché da tempo non si trovano italiani e cittadini di Paesi ricchi disposti a fare, allo stesso salario, i lavori fatti da africani. Si aggiunga l’ipocrisia di chi crede che la risposta consista in un’identità monoculturale da ritrovare.
E la menzogna di chi non sopporta lo sguardo inquieto e assicura: abbiamo già praticamente vinto le mafie, Gomorra appartiene al passato, è «un vecchio film in bianco e nero», come dice Maroni. Non per ultimo, si aggiunga lo Stato che perde il controllo del territorio e il monopolio della violenza: i neri a Rosarno combattono contro ronde private di locali, infiltrate da ’ndrangheta e armate di fucili. Il pensiero della Lega è egemonico e le rivolte vengono associate, dal ministro Maroni, non alle mafie ma all’immigrazione clandestina che si promette di azzerare sanando ogni male. È inganno anche questo. Quando in Francia s’infiammarono le banlieue, nel novembre 2005, Romano Prodi disse che il fenomeno, mondiale, non avrebbe risparmiato l’Italia. Fu deriso e non creduto.
Non era menzogna invece. È vero che l’Italia ha da anni una reputazione cupa, e impaura a tal punto immigrati e fuggitivi da suscitare, nei loro animi, il senso di schifo di cui parla Balotelli. Gran parte dell’Europa ha una cupa reputazione, ma questo non scusa i nostri misfatti e silenzi: il silenzio del sindacato soprattutto, abituato a proteggere pensionati e operai delle grandi industrie (ormai dei privilegiati) e del tutto afasico sull’intreccio mafia, immigrati, sfruttamento. Il massimo della spudoratezza è raggiunto quando i nostri ministri citano Zapatero o Sarkozy, quasi che gli errori altrui nobilitassero i nostri. Quasi che non esistesse, in Italia, quel sovrappiù che è il potere malavitoso. Le rivolte di questi giorni discendono dal fallimento dello Stato e lo rivelano. È la conclusione cui giunge il prezioso libro di Antonello Mangano, scritto sui ventennali disastri di Rosarno e Castel Volturno. Il titolo è: Gli africani salveranno Rosarno - E, probabilmente, anche l’Italia (Terrelibere.org 2009).
Le rivolte odierne hanno infatti una storia alle spalle, occultata dai politici e da molti giornali. Coloro che a Rosarno hanno reagito con ira distruttiva a un’ennesima aggressione contro i lavoratori neri (due feriti a colpi di carabina, giovedì) sono gli stessi che nel dicembre 2008 si ribellarono alla ’ndrangheta. Erano stati feriti quattro immigrati, e gli africani fecero qualcosa che da anni gli italiani non fanno più. Scesero in piazza, chiedendo più Stato, più giustizia, più legalità. Contribuirono alle indagini dei magistrati con coraggio, rompendo l’omertà e rischiando molto.
Denunciarono gli aggressori a volto scoperto, pur non essendo protetti da permessi di soggiorno. È vero dunque: gli africani salveranno Rosarno e forse l’Italia, come scrive anche Roberto Saviano. Poco prima della rivolta a Rosarno si erano ribellati gli africani a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, rispondendo a una sparatoria di camorristi che aveva ammazzato sei immigrati.
Quel che è accaduto dopo è una sciagura prevedibile, e per rendersene conto basta vedere come vivono, gli africani dell’antimafia. Sono eloquenti più di altri i video di Medici senza Frontiere, che parlano di crisi umanitaria nella piana di Gioia Tauro. Il rapporto che Msf ha redatto nel 2008 ha un titolo ominoso: «Una stagione all’inferno», come il poema di Rimbaud. Difficile descrivere altrimenti gli africani che vivono in stabilimenti industriali abbandonati, come la cartiera «La Rognetta» a Rosarno, o l’oleificio dismesso presso Gioia Tauro. Dentro l’oblò del silos per l’olio: giacigli di stracci. Tutt’intorno, fuochi e soprattutto rifiuti, montagne di rifiuti tra cui vagano, tristi ombre, esseri umani che si costruiscono alloggi di cartone o tende senza sanitari. Vedere simili paesaggi ricorda Gaza, gli slum pachistani: non è vita primitiva ma l’osceno connubio tra architetture industriali moderne, indigenza estrema e apartheid. Un africano dice sorridendo a Medici senza Frontiere: «Tra l’una e le quattro di notte inutile provare a dormire. Troppo freddo».
Ci nutriamo volontariamente di menzogne, come il protagonista nel poema di Rimbaud, quando diciamo che quest’oscenità nasce dall’eccessiva tolleranza verso i clandestini. Abbiamo chiamato noi gli africani a raccogliere aranci, consci che nessuno lo farà a quel prezzo e per tante ore (25 euro per un giorno di 16-18 ore; 5 euro vanno a caporali mafiosi e autisti di pullman). E la tolleranza denunciata da Maroni non è verso i clandestini ma verso le condizioni in cui vivono clandestini o regolari.
Dopo aver tollerato tutto questo, e versato nella regione milioni di euro finiti in tasche sbagliate, ogni stupore è fuori luogo. I tumulti odierni non sorprendono: se questi africani non son uomini, come s’intuisce nei video, impossibile che non sboccino, prima o poi, i Frutti dell’Ira di John Steinbeck. Scritto nel ’39 durante la Grande depressione, il libro Furore poteva sperare, almeno, nel New Deal di Roosevelt che noi non abbiamo.
Ne abbiamo tuttavia bisogno, di un New Deal, che metta fine all’apartheid e non si limiti a spostare immigrati come mandrie da un posto all’altro. Perfino i poliziotti, spiega Antonello Mangano, dicono che la risposta non può essere solo punitiva, che gli africani sono una comunità mite, che le migrazioni continueranno. Con l’estendersi delle catastrofi climatiche saranno enormi, gli esodi. Non è vero che la questione della cittadinanza viene per ultima. Le grandi crisi si affrontano con grandi scommesse iniziali, fondatrici di nuove solidarietà. Non è vero neppure che i liberal e la Chiesa sono retrogradi, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere. Pensare in grande l’integrazione è preparare oggi il futuro.
Dicono che l’identità stiamo smarrendola, a forza di rinunciare alle nostre radici e di convivere con diversi che ci condannano al meticciato.
Anche questa è menzogna. In realtà siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato tuttavia, ma perché la nostra identità non è più quella curiosa, accogliente, porosa che fu nostra quando emigravamo in massa e incontravamo violenza. È un ottimo viatico l’ultimo libro di Gian Antonio Stella (Negri Froci Giudei - L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli 2009): si scoprirà che la mutazione già è avvenuta, nel linguaggio della Lega e nella disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo.
L’identità che abbiamo perduto, la recuperiamo solo se non tradiamo quella vera inventandone una falsa. Solo se sblocchiamo le memorie e ricordiamo che le sommosse antimafia dei neri prolungano le rivolte italiane condotte, sempre in Calabria, da uomini come Peppe Valarioti e Giannino Losardo, i dirigenti comunisti uccisi dalle ’ndrine nel 1980. Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana. Le scuole non hanno bisogno delle quote del ministro Gelmini (non più di tre alunni su dieci per classe in tutta Italia, come se Gesù avesse imposto quote di accesso alla stalla di Betlemme: non più di tre Magi). Hanno bisogno di insegnare il mondo che muta. Altrimenti sì, è l’inferno di Rimbaud: «L’Inferno antico: quello di cui il Figlio dell’Uomo aperse le porte».