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Siamo ad un altro “golpe bianco”, alla sterilizzazione delle assemblee elettive, degli organismi tecnico-scientifici: Roma viene commissariata dal governo Berlusconi. Lo era già, con risultati pratici nulli, per la mobilità e, con grottesca teatralità, per “i crolli del Palatino” da lì fino ad Ostia Antica. Adesso lo è, con la solita ordinanza del presidente del Consiglio, “nell’ambito degli interventi concernenti le linee metropolitane, i corridoi della mobilità, i sistemi innovativi di trasporto e il trasporto pubblico in sede propria, nonché delle relative opere connesse e complementari, ivi incluse quelle compensative e integrative”. Praticamente tutta Roma, in superficie e sottoterra, nelle aree costruite e in quelle (appetitose) ove costruire e “compensare”, per un lasso di tempo indefinito e probabilmente lunghissimo visto che il commissariamento coinvolge l’intero sistema delle mobilità presenti e future. E non ha data di scadenza.

La denuncia di questo nuovo, “mostruoso” accentramento di poteri da parte del premier con la messa in mora di ogni altro ente concorrente di governo è stata fatta ieri mattina nella sede del Pd. “Di sabato e con forza perché se passa questo, passa di tutto”, ha commentato il responsabile della Cultura, Matteo Orfini. “Con la massima energia perché il commissario si sostituisce in toto al Ministero e alle Soprintendenze”, ha incalzato la sua vice Rita Borioni. Grottescamente il commissario è l’architetto Roberto Cecchi il quale da marzo sarà pure il nuovo segretario generale del Ministero e che quindi “espropria” se stesso esautorando il suo Ministero.

Questa è la penultima delle ben 587 ordinanze del presidente del Consiglio con le quali ha commissariato di tutto: dal G8 della Maddalena e poi dell’Aquila al Congresso Eucaristico di Ancona, al nuovo Palazzo del Cinema del Lido. Quasi sempre con una coda di corpose cubature edilizie anche residenziali, cioè con una bella torta di affari per l’Anemone di turno. Nel caso romano siamo ad una sorta di “commissariamento preventivo”, nel senso che – come hanno fatto notare il capogruppo capitolino Umberto Marroni e il senatore Mario Gasbarri - i lavori per la Linea C procedono senza grandi intoppi e per gli altri si progetta e si opera. Perché allora azzerare addirittura 53 articoli fondamentali del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio? Il loro elenco riempirebbe lo spazio di questo resoconto. Citerò soltanto le deroghe maggiori: ovviamente alla valutazione di impatto ambientale, alla conferenza dei servizi, agli interventi conservativi imposti, alla alienabilità di beni culturali pubblici, alle procedure di trasferimento di beni pubblici, a tutti gli espropri, alle commissioni regionali e a quelle per il paesaggio. Insomma, l’intera legislazione di tutela e quella paesaggistica vengono così nullificate, come la possibilità per una Soprintendenza di intervenire e di sospendere i lavori. Il patrimonio culturale e paesaggistico romano (una bazzecola, come si sa) è in tal modo consegnato nelle mani del Commissario di governo, con tanti saluti all’articolo 9 della Costituzione (“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”).

Fra l’altro – cosa mai ammessa per i beni culturali – l’ordinanza instaura il silenzio/assenso in mancanza di una risposta delle Soprintendenze entro 30 giorni+10. Un’altra inaccettabile forzatura. Ha ragione il senatore Gasbarri a sottolineare che “coi decreti legge Berlusconi esautora il Parlamento, con le ordinanze lo salta, con la Protezione civile Spa agisce dove e come vuole, persino all’estero: siamo alla disarticolazione dello Stato democratico.” Insomma andiamo verso un vero e proprio “golpe bianco” che trova nei beni culturali e a Roma una concreta sperimentazione. Il segretario della Uil Beni culturali, Gianfranco Cerasoli, ha invitato a spulciare i rendiconti che gli uffici finanziari danno annualmente della Protezione civile. “Già lì si poteva leggere che le cose non andavano per il verso giusto.” Un’altra notazione l’ha operata l’ex direttore del servizio antisismico nazionale Roberto De Marco, esonerato con uno spoil system tutto e solo politico: “Se certe leggi non funzionano, le si riforma, le si modifica: è il compito del Parlamento. Qui siamo alla deroga senza fine, che provoca anche lo svilimento sistematico della funzione pubblica stessa”.

Un paio di domande: di fronte ad un accentramento autoritativo mai tentato, dalla Liberazione ad oggi, come mai le Regioni si mostrano così poco reattive? E la Lega Nord, non si rende conto che, col diluvio di ordinanze e di commissariamenti decisi dal trio Berlusconi-Letta-Bertolaso, regredisce lo Stato regionale, figuriamoci quello federale?

Non credo che gli studenti dell’Aquila chiedano menzogne e illusioni, quando gridano a Bertolaso e alla politica, ai magistrati e ai giornali: «Diteci che non è vero!». In realtà aspirano a quel che nella giustizia è essenziale. Esigono verdetti, ma ricordano che i processi si fanno innanzitutto per tutelare l’innocente. Chi non s’è macchiato di reati vuol sapere che non pagherà per altri in tribunale, che la colpa di alcuni non si farà collettiva. Solo se esistono responsabilità individuali anziché collettive la politica non perde senso, il bene cui si tiene non è cenere interrata. Quel che viene rifiutato è una cosa pubblica ridotta - lo dicono gli indagati nell’affare Bertolaso - a sistema gelatinoso, a una cosca che non tollera intrusioni, controlli. L’allarme è grande perché quel che vacilla è la ragion d’essere più antica della politica: la protezione dei cittadini inermi dai disastri.

Per questo lo scandalo della Protezione civile, colmo di simboli primordiali, scotta tanto. Per questo urge sapere presto chi ha colpe, chi no. Il potere dello Stato, in fondo, esiste per difendere i cittadini dalla paura, dai pericoli della natura, dalle aggressioni belliche. È chiamato Leviatano perché ha questo potere di vita e di morte, ma se protegge male non è Leviatano. Con le proprie mani porterà la propria testa alla ghigliottina. Quando decapitarono i monarchi Goethe, che non amava le agitazioni rivoluzionarie, scrisse: «Fossero stati veri re, non sarebbero stati spazzati via come con una scopa».

Ma soprattutto vogliono sapere, gli studenti, che non è vero quel che gli studiosi dicono da anni e che i giudici per le indagini preliminari a Firenze ripetono quasi testualmente.

Che «viviamo una disarmante esperienza del peggio», scriveva il rapporto del Censis del 2007, aggiungendo che la nostra non era una società «ma una poltiglia cui si potrebbe sostituire il termine di mucillagine»: un «insieme inconcludente di elementi individuali e di ritagli personali tenuti insieme da un sociale di bassa lega».

Nell’ordinanza del gip, il servizio pubblico e la Protezione civile sono descritti dagli stessi indagati con vocaboli simili: un sistema gelatinoso, fatto di gente che «ruba tutto il rubabile», che confonde pubblico e privato, che in nome dell’efficienza cerca soldi e favori per sé. Un indagato dice, accennando ai lavori per il G8 della Maddalena: «C’abbiamo la patente per uccidere, cioè possiamo piglià tutto quello che ci pare». Due imprenditori sprofondano nella sguaiataggine, nei minuti stessi in cui la terra abruzzese trema. Esordisce al telefono tale Gagliardi: «Qui bisogna partire in quarta subito, non è che c’è un terremoto al giorno». Il collega Piscitelli dice che lo sa. E ride. Al che Gagliardi: «... (lo dico ) così per dire per carità... poveracci». Piscitelli: «Va buò ciao». Gagliardi: «O no?». Piscitelli: «Eh certo... io ridevo stamattina alle tre e mezzo dentro al letto». Gagliardi: «Io pure...». Diteci che non è vero è domanda di verità, è non rassegnazione al salmo 14: «Tutti sono corrotti; più nessuno fa il bene, neppure uno».

Bertolaso e gli uomini del suo dipartimento avranno modo di difendersi, distinguendo tra vero e falso. Comunque sono già ora chiamati a condotte probe: in particolare Bertolaso, perché chi presiede un’istituzione è responsabile dei propri uomini, non può degradarli a mele marce tirandosi fuori. È solo indagato, ma l’opacità estrema della Protezione civile fa tutt’uno con l’opacità del modo berlusconiano di governare. Egli ha il peso, decisivo, che Carl Schmitt attribuisce a chi ha accesso al Leviatano. È il potere dell’anticamera del potente, «del corridoio che conduce alla sua anima. Non esiste nessun potere senza questa anticamera e senza questo corridoio» (Schmitt, Dialogo sul Potere, Il Melangolo 1990).

Il corridoio non è di per sé malefico, ma in Italia è oggi colmo di insidie: tanta è la gelatina che regna indisturbata ai vertici. Nel caso specifico, il potere indiretto di chi sta in anticamera diventa speculare a quello diretto, tende a farsi anch’esso assoluto, a non rispondere a autorità superiori, a considerare i magistrati come «dipendenti pubblici» da irreggimentare perché non eletti (l’espressione è del presidente del Consiglio). Chi oggi è in simili corridoi rischia di diventare parte di un preciso disegno: disegno che distrugge la politica, tramutando la cosa pubblica in privata. Che ostentatamente governa a partire dal proprio domicilio, trasformando Palazzo Grazioli in succedaneo di Palazzo Chigi. Che estende i territori italiani sottratti alla legge. Alle regioni ampiamente controllate dalla mafia, s’aggiungono ambiti sempre più vasti, legalmente svincolati dall’imperio della legge. È inevitabile, quando l’emergenza si eternizza e si espande smisuratamente, comprendendo settori per nulla emergenziali. L’immensa Protezione civile si accentra a Palazzo Grazioli ed è messa in condizione (soprattutto se diverrà società per azioni) di eludere la rule of law. Si politicizza e si privatizza al massimo, simultaneamente.

Bertolaso è a un bivio. Avendo dimostrato non comuni capacità di proteggere i cittadini, può prendere le distanze e salvare un’opera. Nei giorni scorsi ha detto, veemente: «Sono pronto a dare la vita per convincere gli italiani che non li ho ingannati». Non gli si chiede tanto. Si spera però che non si lasci contaminare. Proprio perché possiede un’aura di Medico-senza-frontiere, Bertolaso ha molto da perdere, dalla contiguità con la gelatina di cui è fatto Palazzo Grazioli. Se ha errato, il suo errore sarà giudicato immorale, e l’immorale distingue perfettamente il bene dal male. Solo dimettendosi Bertolaso eviterà che il corridoio verso il potente diventi, come nelle parole di Schmitt, una letale «scala di servizio».

Possono essere due, i motivi di una dimissione. O si perde la fiducia dei vertici, o la richiesta nasce nella coscienza. È difficilmente pensabile che Bertolaso non abbia orecchie per questa seconda voce, vedendo la degenerazione dell’opera che dirige da anni.

Un aiuto autentico dall’alto non gli verrà, perché Berlusconi non gli somiglia: più che un immorale, lui è un a-morale. Non è Nixon pienamente conscio del male commesso che si confessa, nel 1977, al giornalista David Frost. Il film di Ron Howard lo descrive bene: la colpa lo corrode. Non così Berlusconi, ignaro di corrosioni. Egli non sa cosa sia la morale, e neppure cosa sia l’ideologia. Sventolerà l’una o l’altra, se servirà per deturpare istituzioni e contropoteri. Se non fosse a-morale non avrebbe osannato agli inizi di Mani Pulite, scatenando contro gli indagati il fuoco delle sue televisioni (lo ricordò prima di morire il tesoriere indagato della Dc, Severino Citaristi).

L’argomento che usano sia Berlusconi che Bertolaso è l’efficienza. Dice il primo: «Se un’opera è fatta bene al cento per cento e poi c’è l’1 per cento discutibile, quell’1 va messo da parte». Non è chiaro chi decida le percentuali, tuttavia. E come possa ben operare, alla lunga, una poltiglia dove si mescolano Grandi Eventi e disastri; spasso e dolore; show, morte e risate. La sindrome di impunità che regna nell’anticamera del potere, i costi maggiorati senza controllo, le imprese che si sbrigano male pur di lucrare sulla fretta: questo non è efficienza. Dalla corruzione non scaturisce efficienza.

In un editoriale sul Corriere del 30 gennaio, Sergio Romano dice una cosa assai giusta, su Blair, Sarkozy e Schröder. Denuncia la propensione a mescolare pubblico e privato, a edificare carriere «sull’immagine e sulla comunicazione piuttosto che sulla buona gestione della Cosa pubblica», e conclude: «Il giudizio politico non ha bisogno di scranni, parrucche e banco degli imputati, secondo le liturgie della giustizia (...). La vera punizione, molto più grave di una semplice sentenza, è la fine di una brillante carriera». Se giornalisti prestigiosi come lui dicessero le stesse cose sull’Italia di oggi, e l’avessero detta molti anni fa, forse gli studenti dell’Aquila si sentirebbero meno soli, meno scoraggiati, meno impotenti. Poveri magari, ma non poveracci

MILANO - Emergenza continua. Per L’Aquila - devastata dal terremoto - come per le bufale campane ammalate di brucellosi. Per la drammatica esplosione di un vagone carico di gas alla stazione di Viareggio ma anche per il Congresso europeo delle famiglie numerose o per le regate della Louis Vuitton Cup. La protezione civile dell’era Bertolaso è una multinazionale da 700 dipendenti che nei nove anni sotto la guida del suo potentissimo capo-dipartimento ha cambiato volto e moltiplicato la sua potenza di fuoco. Le catastrofi e le loro conseguenze restano, se così si può dire, il suo core business. Ma un’escalation di ordinanze della presidenza del Consiglio - 330 del Governo Berlusconi dal 2001 al 2006, 46 dell’esecutivo Prodi e più di 250 dal ritorno del Cavaliere a Palazzo Chigi - ha portato sotto il cappello del super-commissario degli appalti tricolori un po’ di tutto: i lavori per mettere in sicurezza gli scavi di Pompei come i festeggiamenti per il quattrocentesimo anniversario della nascita di San Giuseppe da Cupertino, le piscine dei mondiali di Nuoto e persino la riesumazione delle sacre spoglie di Padre Pio.

La fabbrica delle emergenze, vere o presunte, muove soldi. Stanziamenti totali in due lustri: 10 miliardi. Si tratta solo di una stima, visto che solo il 22% delle ordinanze governative quantifica gli stanziamenti pubblici. Denaro speso a pioggia. Senza troppi controlli. Spesso in deroga, in nome della cultura emergenziale, a piani regolatori e a norme di trasparenza degli appalti. Sotto lo scudo spaziale della protezione civile - insieme a opere necessarie come le case de L’Aquila e alle cattedrali nel deserto della Maddalena (327 milioni ad oggi gettati al vento) - sono finite così le iniziative più esotiche: i provvedimenti necessari per sistemare il traffico a Napoli, i rifiuti di Palermo, il via vai di gondole e vaporetti a Venezia, l’anno giubilare paolino, le rotonde per i Mondiali di ciclismo a Varese.

Milioni su milioni capaci di creare autentiche fortune private quasi dal nulla. Prendiamo i bilanci delle società i cui nomi sono emersi nell’inchiesta di Firenze. La Anemone di Grottaferrata - che ha costruito il palazzo delle conferenze per il mancato G8 sardo e alcune piscine per i mondiali - ha visto il suo giro d’affari decollare dai 10 milioni del 2007 ai 37 del 2008 «in forza - spiega la relazione di gestione del gruppo - di appalti della pubblica amministrazione». La fiorentina Giafi del gruppo Carducci, battuta sul filo di lana da una società di Anemone nel maxi appalto da 62 milioni per il Parco della Musica nell’ambito delle celebrazioni per i 150 anni d’Italia (altra pseudo-catastrofe a gestione protezione civile) si è consolata con i lavori per l’albergo ricavato per il G-8 dall’ex ospedale della Maddalena. I suoi ricavi sono raddoppiati in due anni a 88 milioni. E il bilancio racconta bene di chi è il merito: «Il governo in carica - recita testuale - mostra di aver preso coscienza del fatto che bisogna colmare il gap infrastrutturale del paese». Un’emergenza che, come tale, va trattata dalla Protezione civile. Con tutto il decisionismo e la disinvoltura usciti dalle intercettazioni telefoniche di questi giorni. Un boom di entrate (+50% in due anni) hanno realizzato pure la Igit - cui la Bertolaso Spa ha affidato la ristrutturazione dell’aeroporto perugino di Sant’Egidio (25 milioni) e quella (da 58 milioni e secretata) del carcere di Sassari - e la Archea associati, lo studio fiorentino dell’architetto Marco Casamonti, dalle cui telefonate è partita l’inchiesta della magistratura. Proprio l’inchiesta ha cominciato a delineare lo scenario di intrecci tra gli alti burocrati delle opere pubbliche e alcune imprese che sono entrate in un sistema "gelatinoso" come lo ha definito il gip nell’ordinanza: quello che ha assicurato appalti facili e ha permesso di gonfiare i costi dei lavori. La diversificazione ha finito però per drenare un po’ della liquidità destinata alla gestione delle emergenze reali. Bertolaso negli ultimi nove anni ha dovuto occuparsi dei viaggi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, del congresso eucaristico di Osimo e dei giochi del Mediterraneo. I suoi attuatori finali come Angelo Balducci hanno dovuto mettere la firma sotto note spese che con l’affare delle catastrofi naturali, in apparenza, hanno ben poco a vedere. A Pratica di Mare, per realizzare la scenografia un po’ kitsch necessaria al successo del summit Nato-Russia del 2002, la protezione civile ha speso 36 milioni, tra cui 74mila euro per "facchini e trasporto statue", un milione per spuntare a regola d’arte prati e siepi e 42mila euro per i cartelli necessari alla viabilità. Il risultato paradossale è che a furia di emergenze farlocche rischiano di venir meno - complice lo stato dei conti pubblici - i soldi per quelle reali. Bertolaso ha già messo nero su bianco i suoi dubbi. Lo stanziamento per il suo dipartimento nel 2009 è stato "solo" di 1,6 miliardi di euro. «Soldi che non bastano per prevenire e gestire le emergenze del futuro», assicura il bilancio dell’ente, lamentando il taglio del 18% dagli 1,9 miliardi disponibili l’anno precedente. All’orizzonte incombono l’Expo 2015 in odore di commissariamento, le Olimpiadi 2020, il Gran Premio d’Italia di Formula 1 a Roma. Servono nuovi soldi pubblici. Le emergenze d’oro, in Italia, non finiscono mai.

La sensazione che solo certe imprese potessero “passare” nella ricostruzione dell’Aquila circolava. Le intercettazioni ora confermano che c’era chi rideva per i grassi affari che sentiva avvicinarsi mentre la polvere era alta sulle macerie e sotto di esse giacevano morti e feriti. Trecentosette morti. Non v’è dubbio che la ricostruzione post-terremoto sia un’emergenza ed esiga regole differenti da quelle ordinarie. E però regole. Certe e trasparenti. La ricostruzione dell’Irpinia richiese una commissione d’inchiesta parlamentare, presieduta da Scalfaro. Però sui restauri di beni culturali, curati dal soprintendente Mario De Cunzo, non vi fu ombra. Come sulla ricostruzione di Napoli (commissario Maurizio Valenzi, capo dell’ufficio tecnico Vezio De Lucia): neanche un avviso di garanzia. «Anzi - ricorda De Lucia - ricevemmo l’elogio della commissione Scalfaro e dei magistrati». Lo stesso per la vasta area del sisma umbro-marchigiano del 1997 e per quella del più lontano terremoto del Friuli.Nonè vero quindi che i commissariamenti portino con sé le degenerazioni che stanno emergendo ora, con l’ormai consueto contorno di escort.

Qui c’è di più e di peggio: qui siamo di fronte alla costruzione di un vasto arcipelago di “zone franche” dove norme, procedure, controlli, trasparenze ordinarie non esistono più, e dove ogni cosa è predeterminata, non dall’intero governo, ma dal presidente del Consiglio. Tutto nasce infatti da una sigla:Opcm. Ordinanza del presidente del consiglio dei ministri. Un decreto legge dovrebbe pur sempre essere convertito dalle Camere. L’Opcm parte da vari spunti e dà luogo all’emergenza e al commissariamento.

È successo per i Mondiali di nuoto, che stavano per affogare e che, col medesimo arrestato Angelo Balducci quale commissario, si sono svolti lasciando impianti nuovi del tutto incompleti, seri sospetti di abusi e una scia di inchieste giudiziarie. Per l’area archeologica di Roma si è costruito a tavolino un terrificante quanto improbabile scenario di crolli commissariando tutto (anche Ostia che sta benissimo). La raffica di Opcm, di ordinanze, riguarda anche situazioni dubbie come la creazione della “grande Brera”, commissario Mario Resca, fresco direttore generale alla valorizzazione, per lavori da50 milioni. Di cui avrà, oltre allo stipendio annuo di 160.000 euro lordi, il 5%. Cifra sbalorditiva che i “normali” soprintendenti, anche i più stimati, non hanno visto in tutta una onorata carriera. L’ordinanza del presidente del Consiglio plana ovviamente su alcune colossali torte immobiliari, come l’Expo 2015 di Milano. Ci sono ritardi? Si commissaria. E nell’ordinanza si elencano le normative ordinarie che “saltano”: quelle sulle valutazioni di impatto ambientale, sugli espropri, sui vincoli derivanti dai piani urbanistici e di pubblica utilità, sulle procedure per le bonifiche (e sì che a Milano è in atto una maxi- inchiesta sulla bonifica di Montecity a Rogoredo, implicato Giuseppe Grossi, bonificatore a oltranza, con una decina di Ferrari in garage, socio per la centrale elettrica di Casei Gerola del Mario Resca di Brera), via anche quelle su appalti e sub-appalti nonché le norme del Codice del paesaggio, e quindi niente più Soprintendenze a operare molesti controlli. Tutto avverrà in regime di “deroga integrale”. Finalmente! Con la Protezione Civile SpA - in mano alla presidenza del Consiglio e quindi al duo Berlusconi&Bertolaso, con Tremonti tagliato fuori - il cerchio si chiude. In una sola persona si concentrano tre ruoli: politico (sottosegretario o magari ministro), amministrativo (capo dipartimento) e operativo (capo della Protezione civile). Inusitata concentrazione di poteri “in deroga” alle leggi sulla trasparenza e quindi sulla concorrenza e, insieme, palese privatizzazione di un bel pezzo di Pubblica Amministrazione. Non basta (ma Bossi e i suoi “dormono all’umido”?, come in Lombardia). Con ciò le Regioni sono in un angolo e con esse ogni embrione di Stato federale. Per i rischi idrogeologici sono stati appena nominati tre supercommissari, lo stesso avverrà per il nucleare. L’accentramento non è più nelle mani del governo,ma del duo Berlusconi& Bertolaso. Il Parlamento? Lavori a convertire i decreti legge del governo. Poi si vedrà. v

CAGLIARI. Per ora la norma salva-Cualbu, la contro-modifica del Codice Urbani destinata a garantire le ultime due autorizzazioni paesaggistiche indispensabili per completare il controverso intervento edilizio su Tuvixeddu, non andrà al voto del Senato. Inserita fra gli emendamenti ai punti 7.8, 8.10, 8.11 del disegno di legge 1955, in discussione ieri a palazzo Madama, la proroga dell’efficacia dell’articolo 146 del Codice del paesaggio - di sei mesi oppure di un anno - è saltata per via delle perplessità manifestate da alcuni parlamentari nel passaggio in commissione. Quindi per ora resta l’ultima formulazione della norma, entrata in vigore a fine anno: le richieste di nullaosta paesaggistici dovranno passare all’esame di merito da parte della sovrintendenza architettonica e paesaggistica, che fino al 31 dicembre 2009 poteva esprimere solo un parere di legittimità. Non torneranno in campo le regioni e i comuni in sub-delega.

Per la Nuova Iniziative Coimpresa, che si è vista bocciare definitivamente dal Consiglio di Stato le due autorizzazioni concesse nell’agosto 2008 dal comune di Cagliari, è un brutto colpo. Perchè se l’amministrazione Cappellacci si è mostrata molto benevola nei confronti del progetto di edificazione privata del colle punico, la Sovrintendenza architettonica e paesaggistica si è battuta su ogni fronte giudiziario per fermarlo.

Impossibile stabilire se l’iniziativa del ministro Sandro Bondi di rimodificare il Codice Urbani, per ora abortita, sia riferita al caso di Cagliari o no. Di certo il dietrofront - motivato con problemi organizzativi degli uffici ministeriali - avrebbe favorito il costruttore di Fonni. Che avrebbe potuto ripetere la procedura autorizzatoria - come ha annunciato in un’intervista - rivolgendosi alla Regione. Ora invece, se a Roma non inventeranno altri artifizi normativo, l’interlocutore del costruttore sarà il sovrintendente Gabriele Tola, mentre resta il dubbio sulla responsabilità dell’ufficio regionale dei beni culturali: il ministero ha già nominato la nuova dirigente, che prenderà servizio lunedì prossimo. Ma il direttore uscente Elio Garzillo, nemico pubblico del progetto Tuvixeddu, attende per il 18 febbraio l’esito del ricorso d’urgenza presentato al giudice del lavoro. (m.l)

L’Italie est-elle un pays normal ? L’anomalie que représente Berlusconi - le fait qu’il concentre le pouvoir politique et médiatique, qu’il utilise le Parlement comme «usine» à fabriquer des lois destinées à le sauver des tribunaux, qu’il vomisse sur la magistrature, qu’il critique sans arrêt la Constitution, qu’il réduise la politique à des blagues et des déclamations histrionesques, qu’il traîne derrière lui les casseroles de ses scandales sexuels - inciterait à répondre non.

Mais il y a plus. Ce qui frappe, par exemple, c’est qu’après avoir été qualifiée de laboratoire avant-gardiste de l’Europe, l’Italie, aujourd’hui, régresse à un statut «provincial». Sa classe politique elle-même est provinciale, voyage peu, ne parle que rarement anglais. Le rôle central encore attribué à la télévision demeure «années 80». On va «en» télévision endimanché, tout est entertainment, pub, talk shows hurlés, fesses et dentelles, les émissions d’enquête sont rarissimes, celles, de réflexion, auxquelles participeraient philosophes, historiens, sociologues, psychanalystes ou hommes de sciences n’existent pratiquement pas. Un soir sur deux, sur Rai Uno, animée par un inamovible journaliste doucereux et caudataire, il y a Porta a porta, sorte de messe à laquelle participent toujours les mêmes leaders politiques, et qui n’est pas loin de remplacer Chambre et Sénat. Très rarement, dans le public des émissions politiques, sportives ou de variété, on voit un Noir ou un Métis.

Nouvelle province, l’Italie perd des points dans à peu près tous les classements, qu’ils concernent l’école, la santé, l’écologie, les droits, la culture (budget massacré) et même la technologie. Encore récemment, après Bob Geldof, reprochant au gouvernement d’équilibrer son budget sur le dos des pauvres, c’est Bill Gates en personne qui est intervenu pour accuser Berlusconi («Les gens riches dépensent beaucoup plus d’argent pour régler leurs problèmes personnels, comme la calvitie, qu’ils ne le font pour combattre le paludisme») de réduire de moitié les aides publiques au développement promises devant les caméras, faisant de l’Italie «le pays européen le plus avare».

Même régression au niveau informatique. Sait-on qu’en raison du décret Pisanu la connexion wireless à Internet dans un lieu public, un aéroport ou un cybercafé est soumise à la présentation d’une carte d’identité ? Que les crédits pour le développement du haut débit sont gelés depuis 2008, que du côté de la majorité, des voix se lèvent pour demander le contrôle de social networks tels que Facebook ? Que des pétitions sont signées partout, demandant au gouvernement d’«émanciper Internet» de normes législatives pénalisant le futur du pays, lequel, pour l’accès à la Toile, est déjà «arriéré et sous-développé par rapport au reste de l’Europe» ? Il est vrai que Berlusconi est homme de télévision old style, pour qui Internet est dangereux, parce que «liquide», incontrôlable - et hors de son empire.

Mais c’est au niveau sociétal que la régression est la plus nette. Berlusconi mobilise tellement l’attention qu’à l’étranger on ne voit pas très bien que le fait majeur est plutôt une «liguisation» de la société, entraînant une dégradation morale et civique, sinon une «barbarisation» de l’Italie. La Ligue du Nord d’Umberto Bossi - dont l’organe, La Padania, écrivait : «Quand allez-vous nous libérer des nègres, des putes, des voleurs extracommunautaires, des violeurs couleur noisette et des gitans qui infestent nos maisons, nos plages, nos vies, nos esprits ? Foutez-les dehors, ces maudits !» -, alliée décisive du parti de Berlusconi, a fait élire ses hommes, dont plusieurs sont ministres, dans un nombre considérable d’administrations, a diffusé partout ses valeurs et son langage, dédouané et rendu normal le discours xénophobe. Il faudrait une bibliothèque vaticane pour énumérer les discours d’incitation à la haine raciale, d’homophobie, d’«anti-méridionalisme», prononcés par ses leaders. Qu’on regarde sur YouTube des vidéos de Monsieur Mario Borghezio, ou qu’on écoute quelques extraits d’émissions de Radio Padania : dans aucun pays on tolérerait un tel déchaînement de haine, et de bêtise, xénophobe ! On défend les valeurs chrétiennes, la famille, le travail, on veut la croix sur le drapeau italien et le crucifix dans les écoles, mais le ministre de l’Education prévoit d’imposer un quota d’étrangers dans les classes, le ministre de l’Intérieur a voulu instituer des rondes de surveillance (bide colossal, heureusement, personne ne s’étant présenté pour les constituer), a instauré comme délit le seul fait d’être un étranger sans papiers. Une petite star de la politique, chef d’entreprise à la droite de l’extrême droite, pressentie pour être sous-secrétaire au Welfare parce que bien aimée de Berlusconi (à propos duquel elle avait dit : «il est obsédé par moi, mais il n’aura pas mon…», ou «il n’aime les femmes qu’à l’horizontale»), s’est distinguée finement en déclarant que «Mahomet était un pédophile». Un fanatique (un élu) tenait à désinfecter les trains empruntés par des Nigérianes, un autre (élu aussi) voulait «éliminer tous les enfants (rom) qui volent les personnes âgées» et, interrompu par les applaudissements du «peuple de Padanie», invitait les musulmans à aller «pisser dans leurs mosquées».D’autres encore ont mis le feu à des baraquements d’immigrés, proposé des wagons de trains ou des lignes de bus séparés pour Italiens et étrangers… Discriminations en tous genres, agressions, ratonnades, crimes parfois, banderoles et cris racistes dans les rassemblements de la Ligue, véritable chasse à l’homme noir, avec bâtons et fusils, qui évoque, pour la presse internationale, le Ku Klux Klan, et qui, au ministre de l’Intérieur, fait dire : «Nous avons fait preuve de trop de tolérance envers les immigrés.»

Cela suscite peu de réactions en Europe. Et c’est sans doute en ce sens que l’Italie est le plus «provincialisée» : on la regarde de loin et de haut, tout en l’aimant pour sa cuisine, son art et ses paysages, on ne la prend guère au sérieux, ni dans le bien, ni dans le mal. Qu’on imagine ce qui se passerait dans les rues de Londres, de Paris, de Berlin ou d’ailleurs si la Ligue du Nord était un parti, disons, autrichien, ou français, et si Umberto Bossi s’appelait Jörg Haider !

L'Italia di Berlusconi, un paese che si imbarbarisce



L'Italia è un paese normale? L'anomalia rappresentata da Berlusconi - il fatto che concentri in sé il potere politico e mediatico, che utilizzi il Parlamento come un'azienda destinata a fabbricare leggi che lo salvino dai tribunali, che vomiti insulti sulla magistratura, che critichi continuamente la Costituzione, che riduca la politica a un cumulo di barzellette e dichiarazioni istrioniche, che porti con sé il peso dei suoi scandali sessuali - tutto questo spingerebbe a rispondere di no. Ma c'è di più.



Ciò che colpisce, ad esempio, è il fatto che dopo essere stata considerata il laboratorio-avanguardia dell'idea di Europa, l'Italia è oggi regredita a uno status 'provinciale'. La sua stessa classe politica è provinciale, viaggia poco, soltanto di rado parla inglese. Il ruolo centrale ancora attribuito alla televisione immobilizza il paese negli anni Ottanta. Si va in televisione agghidati, tutto è intrattenimento, pubblicità, talk show urlato, sederi e pizzi, le trasmissioni di inchiesta sono rarissime e di conseguenza quelle a cui potrebbero partecipare filosofi, storici, sociologi, psicanalisti o uomini di scienza praticamente non esistono.Una sera su due Rai Uno manda in onda Porta a Porta, un talk show condotto da un giornalista dolciastro, una sorta di messa a cui partecipano sempre gli stessi leader politici, e che non è lontana dal rimpiazzare Camera e Senato. Molto di rado nelle trasmissioni politiche, sportive o di varietà compare una persona di colore. Nuova provincia, l'Italia perde punti praticamente in ogni settore, dalla scuola alla sanità, all'ecologia, ai diritti, alla cultura (budget massacrato) e anche alla tecnologia. Di recente, dopo Bob Geldof che rimproverava il governo di pareggiare il bilancio alle spalle dei poveri, è stato Bill Gates in persona ad accusare Berlusconi ("I ricchi spendono molti più soldi per risolvere i loro problemi personali, come la calvizie, di quanto non facciano per combattere la malaria") di aver ridotto della metà i fondi pubblici per lo sviluppo promessi davanti alle telecamere, facendo dell'Italia "il più avaro paese europeo".

Nel “processo breve” a se stesso celebrato da Enzo De Luca al congresso Idv, mancavano la pubblica accusa e un’informazione decente che conoscesse le carte. C’era solo l’imputato, che infatti si è assolto fra gli applausi, raccontando al popolo dipietrista quel che aveva già fatto credere al suo partito, il Pd. E cioè che è stato rinviato a giudizio due volte per truffa allo Stato, associazione a delinquere, concussione e falso per un’opera buona: aver consentito agli ex lavoratori dell’Ideal Standard di continuare a godere della cassintegrazione. Naturalmente è una superballa. Quei lavoratori sono disoccupati. Che cosa è successo davvero? Non si tratta delle accuse di un pm impazzito (Gabriella Nuzzi, cacciata da Salerno dopo aver osato indagare su De Luca e sulla fogna politico-giudiziaria di Catanzaro, vedi caso De Magistris). Si tratta delle ordinanze di rinvio a giudizio firmate da due gup, due giudici terzi. Lo stabilimento altamente produttivo dell’Ideal Standard di Salerno fu chiuso, i dipendenti finirono in mobilità, i suoli industriali che valevano miliardi vennero ceduti a prezzi irrisori a un gruppo di speculatori-immobiliaristi dell’Emilia Romagna (terra cara all’allora ministro dell’Industria, Pier Luigi Bersani).

Questi scesero a Salerno, finanziati da banche emiliane e venete e da una finanziaria di San Marino, per realizzare un’operazione irrealizzabile, fittizia – il parco marino Sea Park – e così strappare indebitamente la cassintegrazione e incamerare sontuosi finanziamenti pubblici. Uno dei beneficiari dell’operazione – come han ricostruito i giudici – fu il costruttore Vincenzo Grieco, amico di De Luca e proprietario dei terreni sulla litoranea orientale, destinata al Sea Park da un’apposita variante urbanistica illegittima che trasformò i suoli da agricoli in turistici. I modenesi della Sea Park avrebbero versato a Grieco fondi neri per 29 miliardi di lire e promesso al comune di Salerno di versarne altri 22 di oneri concessori non dovuti, con garanzia fideiussoria. I 29 miliardi sarebbero finiti sui conti della famiglia di Grieco e da questo prelevati in contanti per distribuirli un po’ in giro. Il gruppo Sea Park fu poi costretto a sputare altri 6 miliardi extra-bilancio, con assegni bancari girati per l’incasso a un collaboratore di Grieco, che li parcheggiò su un conto Unicredit per essere poi prelevati in contanti o girati su conti della famiglia Grieco. Nonostante il salasso, la Sea Park non riuscì a ottenere la proprietà dei terreni di Grieco, che, oltre a tutti i soldi incamerati, seguita pure a lucrare sull’aumento della rendita fondiaria dei terreni, gentile omaggio della giunta De Luca. Intanto il gruppo emiliano, spolpato dai salernitani, è ridotto sul lastrico.

Gli subentra un consorzio di società immobiliari e del ramo rifiuti capitanato da un faccendiere bresciano pregiudicato, Angelo Tiefenthaler. De Luca appoggia anche lui per un fantomatico programma di “riconversione industriale”, utilissimo per ottenere indebitamente le indennità di mobilità e cassa straordinaria per gli ex lavoratori Ideal Standard. Al posto del parco marino, si dice, nascerà un centro turistico-commerciale e, al posto dell’Ideal Standard, un bell’inceneritore. Invece spunta una centrale termoelettrica, opera della multinazionale svizzera Egl e gemella di quella di Sparanise (raccontata dal Fatto a proposito delle liaisons fra finanza rossa emiliana e clan Cosentino). Per queste vicende la pm Nuzzi aveva chiesto al gip l’arresto di De Luca e al Parlamento l’autorizzazione a usare certe sue intercettazioni indirette. Richieste respinte. Il gip distrusse addirittura le bobine gettandole nell’inceneritore, anziché attendere la decisione della Consulta (che di lì a poco ne decretò la piena utilizzabilità); subito dopo il fratello del gip, Luca Sgroia, diventò segretario dei Ds di Eboli e aprì la campagna elettorale per De Luca sindaco di Salerno. E ora chi ha stomaco forte lo elegga pure governatore della Campania.

In un mondo che sta mutando in profondità e a ritmi rapidissimi, l’Europa ha una reputazione forse immeritata ma non lontana dalla realtà.

Appare come potenza addormentata, che non partecipa alla storia del presente, capace solo di adombrarsi quando è trascurata e non consultata. Non l’ha svegliata la fine della guerra fredda. Non sono bastate a destarla le vicissitudini di un dominio americano sul mondo che da unipolare che era dopo l’89, si è infranto prima in guerre fallimentari, poi nella crisi finanziaria del 2008.

Crisi che perdura, che ha accelerato l’emergere di nuove potenze (Cina, India, Brasile), che ha scalfito il primato non solo dell’America ma dell’Occidente.

Questi eventi erano occasioni straordinarie di risveglio, che gli europei tuttavia hanno sistematicamente mancato. La tendenza a ripetere lo stesso errore significa che c’è del metodo, nella loro follia: più precisamente, c’è l’abitudine a vivere in illusioni che son dure a morire e scambiate con la realtà. Non si spiega altrimenti il malcontento imbronciato con cui i governi hanno reagito alla sfida che lunedì è venuta da Washington: Obama non avrebbe intenzione, dopo esperienze deludenti, di recarsi al vertice euro-americano di Madrid convocato in aprile dalla presidenza spagnola dell’Unione. Come bambini schiaffeggiati, gli europei fanno il muso: Obama ­ si dicono tutti allibiti ­ ci tratta come se non esistessimo. Avevamo tanto sperato in lui ed ecco che si disinteressa all’Europa: è segno che il suo mito è finito, fallito. «C’era una volta Obama», scrivono i commentatori ignorando, in unisono con i governi, la bolla di menzogne in cui l’Europa vive.

Se non fossero ignari è il contrario che scriverebbero: «C’era una volta l’Europa», prima che il sonno la sommergesse. Dovrebbero ringraziare Obama, che denunciando la malattia invita il continente a divenire la potenza che non vuol essere. Ma il risveglio è difficile, in Paesi che di bugie lusinghiere si nutrono: sull’economia, sull’America, su se stessi. Delle molte chimere che dominano in Europa a due anni dalla crisi, quella che riguarda l’America non è l’unica ma è tra le più nefaste.

La malattia europea è oggi fatta di cecità. Cosa non capiamo, precisamente, della crisi? Non ne capiamo la natura perché chiudiamo gli occhi alle mutazioni che essa suscita, sia economiche sia politiche. Non vediamo il mondo post-americano, post-atlantico, che sta emergendo: mondo di cui Obama è espressione. È questa incomprensione che ci rende, agli occhi statunitensi, poco interessanti: noi stessi siamo incapaci di curiosità, di un interessamento che vada oltre l’utile immediato. Lo spiega con lucidità un opuscolo scritto nel novembre scorso da Jeremy Shapiro e Nick Witney per il Council of Foreign Relations creato in Europa dalla Fondazione Soros.

L’avvento di Obama nasce dalla coscienza di questo mondo post-americano.

Nuove potenze salgono grazie alla crisi, non più occidentali. Vecchie industrie faticano a sopravvivere e innovare, in continenti ricchi destinati comunque a crescere di meno.

La potenza americana non dismette la propria forza, ma la sua leadership è deteriorata. Chi denuncia il declino di Obama non vede che il declino oltrepassa la sua persona ed è un fenomeno che proprio lui si trova a dover governare. Il suo presunto disinteresse all’Europa nasce da qui: il Presidente constata che questa consapevolezza non esiste in Europa. Che da noi regna una nostalgia della perduta stabilità atlantica, della vecchia indiscussa egemonia Usa. I vertici istituzionalizzati Europa-Usa sono manifestazioni, ai suoi occhi, di quest’immobile rimpianto: sono luoghi dove non si discutono le cose essenziali, per il semplice fatto che l’Europa come soggetto non vuole esistere. Luoghi dove sulla sostanza prevale il processo, caro agli europei: i lunghi elenchi di temi, il parlare che elude l’agire.

Deluso dal precedente vertice di Praga, Obama teme che anche la riunione di Zapatero finisca in un processo di Madrid.

Il fastidio del Presidente dice qualcosa di importante su di noi, più che su di lui. Dice la nostra incapacità di proposte, e di difendere interessi e convinzioni con un’unica voce governante, non con relazioni bilaterali privilegiate. Dice l’immensa paura europea d’un conflitto con Washington: conflitto vissuto alla stregua d’una colpa anche da finti riottosi come la Francia. Dice la stasi di un continente che non sa entrare nell’era post-americana, né riconoscere come l’Europa non sia più cruciale per la sicurezza Usa. Dipende dagli europei se Obama ricorre a gesti indisponenti per dire, ai sordi volontari, verità ineludibili: la guerra fredda è finita; alla vecchia alleanza atlantica tenete più voi che noi.

La minaccia americana di snobbare l’Europa potrebbe essere un’occasione preziosa, per smettere le illusioni e costruirsi un destino. Se è vero che Obama è stanco dell’Europa proteiforme che gli si accampa davanti con una sfilata di rappresentanti in competizione fra loro, vuol dire che urge un’unità più stretta, anche più antagonista. In una lettera a Van Rompuy, il Presidente che guiderà il Consiglio europeo nei prossimi tre anni e che per giovedì ha convocato un vertice d’urgenza, il liberale Guy Verhofstadt dice allarmato che è l’ora di accelerare l’integrazione, e di guardare in faccia il mondo che muta: un mondo in cui la forza appartiene alle Unioni vaste e non agli inutilizzabili Stati-nazione.

Non vedere il mondo post-americano va di pari passo con la cecità fronte a uno sconquasso che non è solo economico ma politico. Non c’è praticamente governo europeo che dica ai propri elettori il vero stato delle cose: che spieghi come la crisi sarà lunga, come nulla sarà come prima perché proprio quel prima ha condotto al disastro. Vediamo in questi giorni come il nascondimento della verità contamini anche i discorsi sulla crisi dell’auto.

È così anche nei rapporti con l’America. Shapiro e Witney sono espliciti: non è colpa degli Stati Uniti ma degli europei, se la discussione s’insabbia. All’origine c’è l’affastellarsi di quattro grandi illusioni.

L’illusione di poter ricavare qualcosa da rapporti bilaterali o dalla Nato, piuttosto che dalla nascita d’un rapporto Unione-Usa. L’illusione che l’Europa resti cruciale per la sicurezza Usa. L’illusione che gli europei possano affermarsi considerando l’armonia atlantica un fine in sé, un feticcio, quando proprio di dispute c’è bisogno perché l’America ascolti. L’illusione infine che l’America veda nell’Europa un’intelligenza superiore, anche se inattiva. È l’illusione ­ scrivono gli autori ­ che ebbero i Greci nell’impero romano, fino a quando si accorsero che Cicerone li chiamava, spregiativamente, graeculi.

Alla base di queste chimere c’è quella riguardante lo Stato-nazione.

«Dopo l’attentato alle Torri e la crisi del settembre 2008 ­ scrive Verhofstadt ­ è nato un nuovo ordine mondiale, impietoso con le (ormai sorpassate) illusioni nazionali di gran parte degli Stati europei». I fatti lo confermano: nelle politiche già comunitarie (commercio, concorrenza, moneta) l’Europa è potente, udibile, ascoltata. Non lo è affatto nei settori che gli Stati custodiscono con sovranità che sono simulacri. Verhofstadt è convinto che, se l’Unione avesse avuto un unico leader, al vertice di Copenhagen sul clima la catastrofe sarebbe stata minore.

Il rapporto con l’America è analizzato severamente da chi oggi chiede più Unione: l’Europa è accusata di voler sempre compiacere e sempre ingraziarsi Washington, con relazioni privilegiate da cui ci si aspettano ricompense che ­ Blair lo sa ­ non giungono mai. Difendere i propri interessi col muso duro, agire indipendentemente in Medio Oriente, meditare sulla guerra afghana senza farne un capitolo dei rapporti euro-americani: questo è ricominciare la storia.

Il sonno è confortevole, pensano gli europei. Meglio aspettare che la tempesta passi: «Calati juncu ca passa la china», càlati giunco ché passa la piena, dice il motto mafioso fatto proprio dai governi dell’Unione. Sarkozy ha ostentato indifferenza, giovedì, dopo un incontro con Angela Merkel: «Dov’è il dramma se Obama non viene?». Il guaio è che il dramma persiste, anche se il giunco si piega. L’Europa rischia l’irrilevanza. Rischia di essere un continente messo fuori gioco in irresistibile declino. È quello che accadrà, se non si sveglia in tempo.

Il centro storico è uno di quei temi che sembravano oramai avviati a un'inesorabile oblio. Parlarne era considerato peggio che retrò, una manifestazione di cattivo gusto, di ostinata pervicacia, quasi che alla semplice enunciazione di queste due parole associate dovessero istantaneamente fiorire tappeti di muffa. Dopo anni di esclusiva concentrazione sulla salvaguardia degli edifici e del tessuto della città storica, di dibattiti infiniti - fino, in effetti, alla perversione - sul restauro filologico e tipologico, urbanisti, architetti, antropologi e sociologi hanno cominciato a guardare ai margini, alle periferie, alla città diffusa, alle metropoli informali, soprattutto alle persone oltre che alle pietre, e ai modi di abitare gli spazi urbani, anche quelli apparentemente privi di qualità.

A questo fondamentale e condivisibile allargamento di prospettiva è subentrata una fascinazione tardiva, acritica e grossolanamente ideologica per qualsiasi forma urbana alternativa al centro storico: importando con un paio di decenni di ritardo i grandi classici della letteratura postmoderna come Le quattro ecologie di Los Angeles di Reyner Banham (Einaudi) o Learning from Las Vegas di Robert Venturi (Edizioni Cluva), e naturalmente l'intera produzione di Rem Koolhaas, si è arrivati a postulare che non esiste più differenza tra centro e periferia, che tutto è junkspace, che la battaglia contro lo sprawl è una bieca espressione di moralismo veteromodernista, e infine, in una «libera» interpretazione degli studi postcoloniali, che solo lo sguardo del maschio bianco occidentale può disprezzare la vita nelle favelas.

Il mercato editoriale è stato sommerso da elogi della villetta, della tangenziale, degli outlet e dei centri commerciali (detti anche superluoghi o nuovi spazi pubblici), delle gated communities, dell'energia comunitaria degli slum o dell'ingegnosità della baracca in lamiera. Roba facile da argomentare, basta un repertorio da vittime del razionalismo e qualche bella foto di bambini felici sul prato o nel rigagnolo fognoso e il gioco è fatto: una formula che permette di eludere con eleganza l'unico tema che forse valga la pena trattare: l'espropriazione continua e progressiva dello spazio vitale a opera del mercato immobiliare.

Un grande convegno che si è tenuto a Palermo il 5 e 6 febbraio, Centri storici e città contemporanea, e un libro appena pubblicato da Clean edizioni - L'Aquila. Non si uccide così anche una città?, a cura di Georg Josef Frisch (pp. 80, euro 12) - rilanciano invece la questione del centro storico, dandole finalmente tutto il rilievo politico che merita.

La tesi sostenuta dal libro e emersa nel convegno è che i centri storici (dove l'aggettivo «storico» in Italia ha un senso naturalmente molto diverso che in Cina o negli Stati Uniti, ma non esclude le loro metropoli) sono e restano fondamentali per la formazione e la sopravvivenza di una vita politica urbana, ma che a questo scopo la conservazione fisica dei tessuti urbani e il diritto di tutti gli abitanti a viverci dentro sono condizioni necessarie e interdipendenti, e vanno difese con uguale intelligenza e passione.

Finora, è vero, gli urbanisti hanno spesso sottovalutato (o deliberatamente appoggiato) il fenomeno della gentrification, il risanamento di aree per lo più centrali e degradate attraverso una aggressiva politica di sostituzione (o meglio, in certi casi, vera e propria deportazione) della popolazione meno abbiente con «classi creative», locali trendy, miliardari, turisti e proprietà finanziarie. Da parte loro schiere di filosofi politici, sociologi, antropologi hanno sopravvalutato il potere delle periferie, aggrappandosi con tutte le proprie forze alle purtroppo effimere rivolte delle banlieues o ai moti di Los Angeles e distogliendo l'attenzione dai meccanismi di esclusione - ampiamente descritti da David Harvey e Neil Smith - che passano attraverso la proprietà immobiliare: una nuova, globale e letterale accumulazione originaria.

Chi invece non ha mai perso di vista la portata politica del modello di vita associato ai centri urbani è il ceto politico al governo, espressione degli interessi del Real Estate e soprattutto attivo demiurgo di uno stile di vita interamente basato sul modello dell'individuo proprietario. Come denuncia il libro su L'Aquila, l'idea di decentrare la popolazione dei terremotati in una ventina di lottizzazioni sparse sul territorio (il progetto C.A.S.E.) senza ricostruire il centro storico è frutto di un disegno politico preciso, che si riferisce al modello di Milano 2 e 3, e ha molte probabilità di concludersi con la cessione di gran parte delle proprietà dei singoli a grandi società che trasformeranno la città in un parco a tema o qualcosa di simile.

Dove non arriva la forza devastatrice del terremoto, è sufficiente il crollo di un edificio fatiscente o qualche altro incidente di piccolo calibro per attirare piani di sicurezza e sventramenti, mastodontiche vie di fuga e altre forme di aggressione fisica dei centri urbani e di delocalizzazione degli abitanti.

«La domanda di fondo è se i centri storici possano sfuggire a un destino settoriale, basato solamente sull'eccellenza del patrimonio, sul turismo e sulle attività culturali, o possano continuare a svolgere il ruolo di strutture urbane vitali, dotate di un mix di attività ordinarie e di funzioni, prima fra tutte quella residenziale - sostiene Teresa Cannarozzo, curatrice del convegno palermitano -. Bisogna concentrare nei centri storici gli interventi di edilizia residenziale pubblica attraverso il recupero del patrimonio edilizio e riconvertire gli edifici monumentali in servizi».

Il salto culturale necessario alla riappropriazione dei centri sembra enorme, ma Palermo è il teatro di una sorta di piccolo miracolo urbano: secondo l'analisi di Francesco Lo Piccolo la presenza di un piano di risanamento (il Ppe del 1993), molto preciso nelle regole e facile da utilizzare ha garantito in questi anni una ristrutturazione lenta ma molto estesa, al riparo dagli spiriti più selvaggi del Real Estate, e l'insediamento di una popolazione mista e non segregata, composta per oltre il 20% da migranti. Perché duri, però, bisogna agire prima che se ne accorgano gli altri.

Come espellere gli immigrati e risanare un «ghetto» facendo leva sull'acqua privatizzata. Nel quartiere del bergamasco simbolo dell'industrializzazione anni '60 senegalesi, pachistani e magrebini lentamente vanno via. Basta che uno non paghi e arrivano alpini e polizia a chiudere i rubinetti a tutto il palazzo

CISERANO (Bergamo) - Sono 1231 i chilometri che dividono Rosarno dalla provincia di Bergamo. Una linea che una volta era percorsa dai migranti del meridione d'Italia, accolti oltre il Po dai cartelli «non si affitta ai terroni». Per loro, per i volti mediterranei di Rocco e i suoi fratelli, per quelle lingue aspirate che odoravano di mare e di terre abbandonate, c'era chi costruiva case e interi quartieri dedicati, pensati solo per accogliere i migranti. Lontani dai centri delle città, in quella periferia fatta di palazzoni allineati. Serviva la mano d'opera per la lingua di terra tra Bergamo, Brescia e Milano. Ne serviva tanta, subito e a basso costo.

È nata così Zingonia, enorme speculazione un po' surreale alle porte di Bergamo. Le fabbriche, le villette per i dirigenti e, a pochi metri dalla strada statale che fa da confine con il borgo antico di Ciserano, sei torri per loro, i meridionali.

In cinquantanni tutto è cambiato, per non cambiare nulla. Tra gli anziani della bassa bergamasca anche le polacche che fanno le badanti vengono chiamate ancora oggi terrune. L'africano che lavora in fabbrica è solo un niger, e nei bar con la bandiera della Lega non si fa vedere. Nella bassa regno dei duri fedeli di Maroni, di Borghezio e di Bossi, c'è oggi la crisi. Dall'aeroplano diretto a Orio al Serio si possono contare le poche automobili stazionate davanti ai capannoni industriali, facendo una statistica molto empirica ma visivamente efficace. Parcheggi deserti, pochissimi camion, capannoni chiusi. Passa la crisi vera, quella industriale, quella cattiva, quel vento che lascia le persone a casa. Quel male che ha portato un operaio a suicidarsi, a darsi fuoco davanti ad uno dei tanti piazzali vuoti, grigi e inutili.

E così anche Zingonia deve cambiare. I niger e «le facce da cammello» - come il neopresidente leghista della provincia di Bergamo amava chiamare i magrebini - devono andare via. Il quartiere simbolo dell'industrializzazione costruito da Renzo Zingone nel 1964 - prima vera speculazione edilizia del nord Italia - è ormai da buttare giù. Come a Rosarno è da ripulire, estirpare, cacciandola dalle mappe.

L'arma dell'acqua

I sei palazzi di Zingonia sono oggi abitati da 150 famiglie, tutte o quasi composte da migranti stranieri. Prevalgono i senegalesi, i pachistani e i magrebini. Non sono case popolari, gestite da enti o dal comune. Chi è entrato nei palazzi di Zingonia paga un affitto o, molto spesso, ha comprato gli appartamenti dai precedenti inquilini italiani. Cacciare via tutti, come vuole la Lega, è dunque un problema. Il 3 dicembre scorso la mattina un gruppo di tecnici della Bas - azienda di gestione dell'acqua controllata da A2A - taglia i tubi dell'acqua, facendo scoppiare una rivolta di alcune ore. La società si era presentata con un conto salatissimo di quasi 400 mila euro di bollette non pagate. Ma non tutto è in realtà così chiaro.

Facendo due conti, in uno dei sei palazzi risulta un consumo idrico per l'ultimo anno di quasi novecento euro a famiglia. È evidente quindi che i conti non tornano. A fine dicembre le famiglie di Zingonia hanno raccolto tredicimila euro, consegnati al sindaco di Ciserano, che a sua volta li ha versati all'azienda controllata da A2A. Un primo acconto che ha permesso la riapertura dei rubinetti. Ai signorotti bergamaschi dell'acqua però non è bastato: i quattrocento mila euro di arretrati li vogliono tutti.

Divide et impera

«Abbiamo un accordo», ha annunciato a fine anno Enea Biagini, il sindaco ex Ppi - oggi Pd - di Ciserano. Un patto firmato da lui, da A2A e da rappresentanti dei condomini scelti sul campo, senza una regolare assemblea di condominio. Anzi, il condominio da anni non c'è più, dopo che l'ultimo amministratore si è dimesso. L'accordo prevede che ogni famiglia delle torri di Zingonia versi 125 euro, tutti i mesi. In un anno sono 1500 euro, per l'acqua di A2A. La raccolta dei soldi è affidata dall'improvvisato capo condominio, che ogni mese deve girare tra gli otto piani del palazzo chiedendo alle famiglie senza lavoro o in cassa integrazione quei soldi. Basta che qualcuno non paghi e a fine mese l'acqua viene tagliata di nuovo, all'intero palazzo. Così è successo all'inizio di questa settimana ad un condominio. E così probabilmente tra qualche giorno accadrà per un'altra torre di Zingonia.

Dopo la protesta dura del 3 dicembre il taglio dell'acqua anche qui avviene con la copertura di forze armate. A differenza di Aprilia - dove le ronde di Acqualatina sono accompagnate dai vigilantes privati - l'ordine pubblico è garantito dagli alpini, dai carabinieri e dalla polizia locale. E se tagliano l'acqua diventa più facile dare la colpa a quelle famiglie che non sono riuscite a mettere i 125 euro mensili, dividendo così la comunità degli stranieri.

Via tutti

L'esodo è così iniziato. Chi può, chi trova un'altra casa, chi non ha un mutuo da pagare ha già lasciato Zingonia. Perché rimanere, d'altra parte: quelle torri dovranno essere abbattute, per far spazio all'economia speculativa che del lavoro se ne frega. I caterpillar e l'esplosivo per buttare giù i palazzi creati per i migranti del sud Italia nel 1964 sono già pronti, nascosti dietro i presidi fascisti della Lega. Sul sito esecuzionigiudiziarie.it ci sono oggi undici appartamenti di Zingonia all'asta. Famiglie di stranieri che non sono riuscite a pagare il mutuo e che hanno perso la casa. Il valore è precipitato sotto i 50 mila euro. In alcuni casi un appartamento è offerto all'asta a 18 mila euro, con una valutazione della perizia di 48 mila euro. E anche qui, come per il calcolo delle bollette dell'acqua del 2009, c'è qualcosa che non torna. Tutte le perizie, tranne una, mettono nero su bianco che nei palazzi di Zingonia non ci sono debiti di condominio o di acqua. «L'amministratore non si trova», spiegano i periti e, dunque, nessuno sa quali siano i reali debiti. E dato che il contatore è sempre stato condominiale, è impossibile oggi per le famiglie di Zingonia stabilire con certezza se i conti presentati da A2A sono corretti.

Analizzando poi le storie giudiziarie degli undici appartamenti che andranno all'asta si scopre anche il mercato clandestino degli affitti in nero. E qui gli italiani entrano in scena. C'è il caso ad esempio di un appartamento di proprietà di un italiano, dove gli ufficiali giudiziari hanno trovato una famiglia di stranieri. «Abbiamo un contratto d'affitto», hanno risposto, mostrando un accordo mai registrato. «A chi pagate?», ha chiesto il perito del Tribunale: «A un tale Massimo, che raccoglie i soldi tutti i mesi, perché il padrone di casa non lo abbiamo mai visto», è stata la risposta. Inutile parlare con Massimo, ovviamente, perché dove sia finito il padrone non lo ha voluto dire neanche ai periti del Tribunale. Gli appartamenti vuoti sono stati poi murati dal Comune di Ciserano, per evitare che altre famiglie potessero entrare. Fino ad oggi sono stati chiusi 22 appartamenti e di questi almeno tre erano di proprietà di italiani, ma utilizzati da famiglie di stranieri, spesso irregolari.

Oggi con la scure del taglio dell'acqua - dopo che già da cinque anni è stato tagliato il riscaldamento - buona parte delle famiglie vorrebbe andarsene. Il problema rimane per chi è in regola con il pagamento dei mutui - e non sono pochi - per chi in quell'appartamento ha visto la possibilità di un riscatto, di una vita normale, di un futuro per i figli. Tanti sono qui da anni, riescono a mantenere un lavoro, magari precario, magari al nero. Mandano i figli nelle scuola, dove - nonostante Gelmini e la Lega - fanno amicizia, studiano, hanno insegnanti che conoscono. È contro queste famiglie che l'arma del debito dell'acqua è oggi usata: rimanere con i rubinetti a secco ed essere costretti a usare le fontanelle dei cortili, in pieno inverno e con gli ascensori rotti è la "exit strategy". Perché su Zingonia si prepara un futuro milionario.

Le mani su Zingonia

In nome della sicurezza da queste parti si fa di tutto. Ed è una sicurezza asimmetrica, dove al sicuro si devono mettere solo i capitali. Le famiglie, la casa ed il lavoro si possono buttar via. «Zingonia è un ghetto». «Zingonia è il regno dello spaccio». «A Zingonia è meglio non entrare». Da un anno il martellamento mediatico è intenso. E così quando è stato presentato il nuovo contratto di quartiere per la zona tutti erano felici. I sei palazzi venivano buttati giù, la zona veniva destinata allo sviluppo del commercio e i privati poteva no investire. Nella versione presentata pubblicamente del progetto c'era anche la realizzazione delle nuove case per le famiglie che abitano le sei torri, i condomini Athena e Anna: accanto alla speculazione c'era un minimo di criterio di vero sviluppo sociale.

«Io ho preso possesso l'8 giugno - racconta il sindaco di Ciserano Biagini - e il 10 la regione mi ha chiesto tutti i progetti preliminari, pena il respingimento del contratto di quartiere». Impossibile ovviamente riuscire a mandare la documentazione. E così il progetto della nuova Zingonia con un volto più umano è caduto, cassato dalla Regione Lombardia.

Arrivano le elezioni provinciali, la Lega che sulla cacciata degli stranieri di Zingonia aveva fatto la sua principale battaglia, si aggiudica il posto di presidente. A ottobre parte la nuova proposta dalla Regione: il progetto va rimodulato - spiegano in una riunione a porte chiuse - vi diamo 5 milioni di euro per espropriare tutto e le terre le assegniamo con «bandi ad hoc». Sparisce tutto lo studio sociale ed economico, rimane solo la speculazione. Passa un mese ed ecco che la A2A inizia a tagliare l'acqua e a chiedere cifre impossibili alle famiglie. Una fortuita coincidenza, ovviamente. Zingonia probabilmente morirà. Le 150 famiglie verranno espulse, mandate via come è accaduto a Rosarno. Ma per la Lega potrebbe essere una battaglia solo apparentemente vinta. «Vedi, gli italiani non conoscono il mondo neanche su internet - racconta un ragazzo marocchino davanti ai palazzi di Zingonia - e questo paese senza di noi morirà». In un lento e tragico suicidio.

postilla

C’è qualcosa di più che non la “solita” speculazione edilizia nel caso di Zingonia: c’è una delle radici del nostro modello pasticcione, genialoide e micidiale di approccio alla trasformazione del territorio. Erano gli anni ’60, e autorevoli periodici (ricordo anche e con un certo brivido la Rivista Geografica Italiana )cantavano la risposta italica alle New Town britanniche in quel bacino intercomunale individuato nelle allora aree depresse della pianura bergamasca dallo spumeggiante capitano coraggioso Renzo Zingone. Curiosa anche la quasi perfetta coincidenza con il crollo di prospettive dei Piani Intercomunali, cantati non molto tempo prima anche dall’INU come valido antidoto sia all’ingestibile dimensione regionale, sia al quasi postmoderno (negli anni ’60) bisogno di avvicinare la pianificazione anche di area vasta ai meccanismi democratici e partecipativi.

E invece no: soluzione all’italiana, un po’ sottobanco e un po’ supercreativa, col piano intercomunale steso e deciso dal soggetto privato, i sindaci e le popolazioni dei cinque comunelli “depressi” a fare la parte del comitato di benvenuto, e poi la grancassa mediatica, le tappe del Giro d’Italia a Zingonia che ancora non c’era, i prelati a benedire il vuoto ecc. ecc.

Si dirà: ma chi poteva sapere, allora? E in parte è vero. Ma solo in parte, perché se si legge qualche documento programmatico del PIM (ovvero di una cosa che finiva verso Trezzo, qualche pedalata da Zingonia) o dei vari convegni INU sulla dimensione sovra comunale, si capisce che esistevano tutti i presupposti per una gestione diversa. O magari anche solo per la soluzione “fascista” di creare un’amministrazione unitaria per il territorio coperto dalle trasformazioni.

Adesso, anche togliendo di mezzo la spietata idiozia legaiola, ci sorbiamo le colpe di quei patrigni.

Peccato che nessuno ormai si ricordi di nulla, e liquidi quella cosa come la solita “colata di cemento” ecc. ecc. Magari nella conoscenza stava pure la possibilità di riflettere su qualche alternativa. (f.b.)

Il consiglio dei ministri: "Materia di competenza nazionale". Si divide il centrodestra: stop all´atomo anche dalla Sicilia. Vendola: saremo disobbedienti

ROMA - Tra governo e Regioni è scontro istituzionale. Palazzo Chigi ha impugnato dinanzi alla Corte Costituzionale le leggi con le quali Campania, Puglia e Basilicata avevano bloccato la costruzione di centrali nucleari sul loro territorio. I presidenti delle Regioni annunciano che andranno avanti, rivendicando il diritto di decidere che tipo di impianti di produzione elettrica ospitare.

Il responsabile dello Sviluppo Economico Claudio Scajola ha spiegato ieri la decisione del Consiglio dei ministri sostenendo che le tre leggi regionali «intervengono autonomamente in una materia concorrente con lo Stato, cioè la produzione, il trasporto e la distribuzione dell´energia elettrica, e non riconoscono l´esclusiva competenza dello Stato in materia di tutela dell´ambiente. Non impugnarle avrebbe costituito un precedente pericoloso». Il 10 febbraio il governo approverà i criteri per la localizzazione delle centrali nucleari.

«La destra, che a Bari finge di essere ambientalista votando a favore della legge che io ho voluto fortemente per la denuclearizzazione della Puglia, a Roma diventa ferocemente nemica dell´ambiente», ha ribattuto il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. «Saremo la regione più disobbediente d´Italia e continueremo a dire no al nucleare».

Intanto il conflitto sull´atomo divide il centrodestra: la Sicilia ribadisce il suo no e quattro parlamentari pdl della Basilicata (Guido Viceconte, Cosimo Latronico, Egidio Digilio e Vincenzo Taddei) chiamano la loro Regione fuori dalla mischia: «La Basilicata può stare tranquilla: non ci sono le caratteristiche territoriali ed ambientali per realizzare lì una centrale nucleare o un deposito di rifiuti radioattivi».

I senatori del Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante si chiedono se «veramente l´esecutivo pensa di mandare avanti il suo programma nucleare a tappe forzate contro le Regioni, i Comuni, le Province e i cittadini, contando solo sull´esercito». Il presidente dei Verdi Angelo Bonelli ha definito la richiesta di annullare le leggi regionali «un atto fuori dalla democrazia». Per il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza, è imbarazzante il livello di contraddizioni di un governo «che ha fatto del federalismo la sua bandiera e vuole centralizzare in modo arrogante e militarista le politiche energetiche».

Alla vigilia delle regionali, mentre il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani chiede di rendere noto l´elenco dei siti nucleari, il conflitto sul ritorno dell´Italia nel club dell´atomo fa salire di tono anche la campagna elettorale. Nel Lazio Emma Bonino, candidata del centrosinistra, ha dichiarato che «lo sviluppo non passa attraverso la ripresa obsoleta del nucleare. Sono due i punti nodali per portare lavoro e ripresa economica: efficienza energetica e energie rinnovabili»; mentre la candidata Pdl Renata Polverini non ha preso una posizione netta definendo «legittimo il ricorso del governo alla Corte costituzionale», ma «impensabile realizzare impianti nucleari senza il consenso delle Regioni».

Il terzo paradosso, infine, consiste nel fatto che attualmente le tre Regioni in questione sono governate dal centrosinistra: e tra queste, in particolare, la Puglia di Nichi Vendola, la prima in Italia per produzione di energia solare ed eolica, in grado ormai di coprire il 180 per cento del suo fabbisogno.

In vista delle prossime elezioni di marzo, dunque, l´esecutivo rompe gli indugi e sferra un attacco alle «Regioni del No» che nelle urne potrebbe rivelarsi però un boomerang. E anche se invoca ragioni di diritto e di merito, lo fa dichiaratamente a scopo dimostrativo: per evitare – come afferma il ministro Scajola – «un precedente pericoloso», cioè un effetto emulativo che minaccia di provocare una sollevazione generale da parte delle amministrazioni regionali, sia di centrosinistra sia di centrodestra. Ma soprattutto da parte delle rispettive popolazioni.

A ben vedere, i paradossi sono ancora più numerosi. Per dire, le incoerenze e le incongruenze che incrinano il diktat atomico. A cominciare dal dato inconfutabile che fu un referendum popolare nel 1987 a bocciare, e a grande maggioranza, lo sviluppo delle centrali nucleari nel nostro Paese. E in base ai sondaggi più recenti, questa avversione è tuttora largamente diffusa fra i cittadini italiani.

Il governo Berlusconi, poi, non esita a ricorrere in nome dell´atomo a quella stessa Corte Costituzionale che il presidente del Consiglio ha più volte attaccato, criticato e vilipeso nel nome della legge. Prima, quando la Consulta ha respinto il cosiddetto Lodo Alfano sull´impunità delle quattro più alte cariche dello Stato. E adesso sfida ancora con la normativa sul legittimo impedimento, appena varata dal Parlamento, che in realtà ripropone un meccanismo analogo a beneficio del premier e delle sue pendenze giudiziarie.

Per ironia della sorte, infine, l´offensiva contro le Regioni coincide casualmente con la visita ufficiale del presidente Berlusconi in Israele, durante la quale il capo del nostro governo ha rilanciato sul piano internazionale i sospetti che l´Iran intenda sviluppare il suo programma sull´energia nucleare per procurarsi in effetti un arsenale atomico. Erano proprio alcune delle motivazioni con cui il Psi di Bettino Craxi promosse il referendum dell´87: «A tutto questo – si legge testualmente nel Programma per l´alternativa socialista, presentato nel 1978 – bisogna aggiungere i pericoli derivanti dalla crescita del numero delle centrali nucleari e del conseguente aumento di materiale fissile; che potrebbe essere in parte sottratto e distolto dagli impieghi di pace cui era destinato, per essere utilizzato in manipolazioni con ben altri intendimenti».

Quello che valeva nell´Italia di allora e vale nell´Iran di oggi, insomma, non vale nell´Italia dei nostri tempi. Garantiscono Berlusconi, Scajola e Fitto. Tre esponenti di quello stesso schieramento di centrodestra che nel Consiglio regionale della Puglia, come ricorda polemicamente il governatore Vendola, hanno votato a favore della legge per la denuclearizzazione della loro regione. Evidentemente, a Roma il PdL è filo-nucleare; a Bari o altrove, si riserva la libertà di professarsi anti-nucleare.

Ma è nelle motivazioni addotte dal ministro Scajola per impugnare le leggi regionali in materia che si raggiunge l´apice dell´ipocrisia e della malafede. Il ritorno al nucleare, secondo il proclama governativo, sarebbe «indispensabile per garantire la sicurezza energetica, ridurre i costi per le famiglie e per le imprese, combattere il cambiamento climatico riducendo le emissioni di gas serra». Quanto alla sicurezza, non è proprio questo il termine più adatto per sostenere la causa del nucleare: siamo ancora in attesa delle centrali di «terza generazione», mentre nella vicina Francia al momento una quindicina di impianti sono fermi per guasti o riparazioni. E in mancanza di uranio, di cui l´Italia non dispone come non dispone di petrolio o di gas, mettiamo da parte pure l´argomento dell´indipendenza energetica dall´estero.

È certo, comunque, che il nucleare non sarà affatto più economico, se non altro per gli alti costi di costruzione delle centrali e quindi di gestione, manutenzione e poi di smaltimento delle scorie radioattive. Per «combattere il cambiamento climatico» a livello planetario, come predica (bene) il governo, sarebbe molto più utile ed efficace intanto non razzolare (male) a livello urbano, riducendo subito l´inquinamento delle città e i pericoli per la salute pubblica. Altrimenti, prima di riuscire a realizzare eventualmente il programma nucleare, rischieremo di distruggere il sistema sanitario nazionale.

Ora Palazzo Chigi annuncia che il 10 febbraio il Consiglio dei ministri definirà i criteri per la localizzazione delle centrali. Bene, la chiarezza e la trasparenza sono sempre apprezzabili. Ma sfidiamo il governo a indicare ufficialmente per quella data anche i siti, regione per regione, provincia per provincia. Così gli elettori che a marzo andranno alle urne potranno pronunciarsi anche su una questione fondamentale come l´energia e sul «ritorno al nucleare» vagheggiato da Berlusconi, Scajola e Fitto.

Tranquillizzo i nostri 24 lettori (citazione liceale): Carta venerdì prossimo torna in edicola, dopo il salto del numero cui è stata costretta la scorsa settimana, avendo trovato in tutta fretta una tipografia che si occupa di stampare giornali invece che di speculazioni edilizie (di questo raccontiamo i dettagli nel nuovo numero). Unico, piccolo problema: la carta su cui il giornale è stampato è leggermente più sottile, provvisoriamente, e quindi sembra più piccolo anche se il numero di pagine è quello consueto.

Bene, torniamo a fare il nostro mestiere, spintonato verso l'inutilità nel paese dei berlusconi e dei bertolaso, occupandoci di alcune questioni trascurabili. La copertina è dedicata alla Grande Depressione, che non è quella del 1929, ma quella che nel 2010 colpisce la psiche delle persone private del lavoro, costrette nella precarietà, scivolate nella povertà. Abbiamo fatto un'inchiesta su questo continente di sofferenza sommersa, e interpellato sociologi (come il francese Robert Castel) o psichiatri e psicoterapeuti (come il Peppe Dell'Acqua che ieri ha scritto in queste pagine). Quel che ne viene fuori è che l'invasione della vita da parte del lavoro, fenomeno del liberismo, provoca una tanto maggiore destabilizzazione quando il lavoro scompare. Così che aumentano a dismisura stress e depressione, atti estremi singoli o collettivi, alcolismo e suicidi. E il fatto che nei prossimi giorni si celebri l'anniversario della morte di Franco Basaglia, a Trieste, come appunto ha annunciato Dell'Acqua, cade a proposito per cercare di capire come a una tale epidemia sociale si possa mettere argine con una terapia altrettanto sociale. Nonostante il fatto che nei due rami del parlamento siano in agguato diverse proposte di legge che cercano, fin qui invano, di scardinare il fondamento della legge 180: i malati di mente sono cittadini dotati di diritti eguali a quelli di tutti gli altri. Proposte tutte di destra, tranne una, che per fortuna è stata infine ritirata, secondo la quale in sostanza questa valanga di disagio psichico provocata dalla crisi è una questione di sicurezza da trattare con il prolungamento di terapie coattive, anche in strutture private, ordinate niente di meno che da un giudice. Chi sia l'autore, poi pentito, di questo mostro lo scoprirete leggendo Carta. La sua tessera comunque è del Pd.

Non sappiamo quanto siano stati danneggiati, anche dal punto di vista psichico, i migranti che erano a Rosarno, di cui pure ci occupiamo nel redivivo Carta. Probabilmente un bel po'. Mettetevi, se ci riuscite, nei panni di persone che abbandonano famiglie e società del loro paese, che viaggiano verso nord nel modo che sappiamo (chiedere a Gheddafi), che approdano qui e scoprono di essere delinquenti per il solo fatto di esserci, che lavorano come bestie per padroni avarissimi, che fanno da bersaglio ai giovanotti della 'ndrangheta che vogliono così tenerli buoni, che infine dicono "basta" e per questo si vedono precipitare addosso tutta la forza dello Stato, fino ad allora distratto, che li afferra e li deporta, salvo lasciarli poi andare perché tanto «clandestini» non sono, questi schiavi dell'agricoltura italiana, e però non sanno dove andare, di preciso, e un paio di centinaia di loro finiscono per passare le giornate a Colle Oppio, a Roma dalle parti della mensa della Caritas, e intorno alla stazione Termini, dove si trova da dormire al coperto, più o meno. Ignorati, spaventati, defraudati di quel permesso di soggiorno per motivi umanitari che pure il ministro Maroni aveva promesso, per quelli non in regola. Voi come vi sentireste, nei loro panni? Giù di corda, immagino.

Non voglio rifare tutto il sommario del settimanale che ha trovato modo di ridiventare un oggetto fisico, di carta stampata. Era solo per dire di che inutilità ci occupiamo noialtri. Cosa che abbiamo fatto anche quando eravamo diventati solo immateriali, nel sito internet. Dove abbiamo messo, gratis, la copertina e le pagine della storia principale del numero che non abbiamo stampato, quella dei No Tav assediati da incendi dolosi notturni dei presidi, invitando a sottoscrivere per ricostruirli. A migliaia hanno «scaricato» quelle pagine, e centinaia stanno versando soldi nella bottega on line di Carta. Gente fuori moda, proprio come noi.

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In arrivo una maxidarsena per yacht di grandi dimensioni nel canale della Giudecca nello specchio d’acqua di fronte al Molino Stucky Hilton. A realizzarla sarà l’Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone, attraverso la sua società Porti Turistici srl, in un’area di poco meno di quattromila metri quadri.

L’Autorità Portuale di Venezia ha già rilasciato la relativa concessione, richiesta nell’ottobre dello scorso anno e nell’anno in corso dovrebbero iniziare i lavori per la realizzazione dell’ormeggio per yacht fino a 60 metri di lunghezza, i cui proprietari potranno così alloggiare allo Stucky Hilton, “parcheggiando” l’imbarcazione nel tratto di canale della Giyudecca che entrerà a far parte della darsena, a forma trapezoidale.

All’Acqua Marcia infatti Spiegano di aver pensato alla nuova darsena proprio per favorire la clientela di lusso che spesso, soprattutto nei mesi estivi, approda in laguna e vuole alloggiare in un grande albergo avendo, allo stesso tempo, lo yacht a portata di mano. Allo Stucky potrà farlo, godendo di una vista impagabile di Venezia e del resto già ora il Porto consente l’attracco provvisorio in determinati periodi a barche di lusso in prossimità della Punta della Dogana, attraccando ai grandi “bricoloni” portuali presenti nella zona.

Un modo per rilanciare anche l’attività dell’albergo, che non va male sul piano dell’attività congressuale, ma che - complice anche la crisi del turismo che ha colpito anche a Venezia - può certamente fare di più sul piano della ricettività, come dimostrano anche le maxiofferte che lo stesso stucky-Hilton propone per il periodo di Carnevale.

C’è da aggiungere che il gruppo Caltagirone ha ormai un interesse sempre più spiccato nel settore della portualità turistica. Proprio oggi è prevista la cerimonia per la posa della prima pietra del nuovo porto turistico di Fiumicino, che con 4 darsene e oltre 1400 posti-barca sarà il porto turistico più grande del Mediterraneo.

Nei progetti in corso da parte di Acqua Marcia c’è anche la realizzazione del porto di Imperia (1300 posti-barca), del futuro porto di Civitavecchia e del nuovo porto turistico di Siracusa. Ma anche Venezia, dopo l’operazione Molino Stucky resta comunque nell’orbita degli interessi dell’ingegner Caltagirone, soprattutto per il settore della portualità turistica, più che per quello immobiliare. L’idroscalo di Sant’Andrea era una delle aree su cui a questo scopo l’Acqua Marcia aveva già manifestato interesse in passato e l’area potrebbe essere presto ceduta dal Demanio al Comune di Venezia - che è interessato - nell’ambito del nuovo decreto-legge sul federalismo demaniale che prevede appunto che lo Stato ceda a costo zero agli enti locali aree o immobili non più utilizzati. Ma cauti sondaggi sono stati già intrapresi anche in direzione di Porto Marghera, nell’ipotesi che il waterfront del Petrolchimico possa prima o poi rientrare nell’orbita della portualità turistica. I rapporti con l’Autorità Portuale - come dimostra anche la concessione per la darsena per yacht di fronte al Molino Stucky, che non era affatto scontata, visto che il canale della Giudecca è già ora uno dei più intasati dal traffico acqueo di tutta l’area lagunare - sono più che buoni e si tratta di capire ora come si stabiliranno quelli con il nuovo sindaco e il nuovo presidente della Regione, dopo che quelli in corso con Massimo Cacciari e Giancarlo Galan erano eccellenti.

Nuove foresterie per turisti da crociera

Autorità Portuale dà in gestione due edifici a Dorsoduro

Il Porto mette a reddito, per ospitare attività turistiche e commerciali - viste le numerose richieste - la «Casa Vignola» e la «Residenza del Presidente», due fabbricati che possiede a Dorsoduro, per collegarli anche alle attività di sbarco di yacht e navi da crociera. Si è conclusa in questi giorni la gara per dare in concessione per quattro anni i due immobili, da cui l’Autorità Portuale conta di ricavare 75 mila euro l’anno, destinati poi a crescere. Lo scopo è anche quello di valorizzare i due immobili in relazione al traffico passeggeri presente pressi la Stazione Marittima di San Basilio e alla clientela degli yacht che si ornmeggiano alla Banchina Santa Marta, alla Banchina Di Ciò e al Pontile dell’Adriatica, fornendo così servizi di accoglienza e attività commerciali che saranno ospitati all’interno di essi. In particolare, la Casa Vignola, disposta su tre piani, con un giardino di 100 metri quadri, potrà diventare una vera e propria foresteria per ospitare i turisti del sistema crocieristico o degli yacht di passaggio in laguna.

Più piccola la «Residenza del Presidente», circa 80 metri quadri su due piani, che avrà probabilmente la stessa destinazione, ma è possibile anche l’apertura di bar o di altre attività commerciali e non sono escluse, tra le destinazioni d’uso le funzioni museali o culturali. Il canone gfissato dalla gara con l’Autorità Portuale sarà di 75 mila euro l’anno (85 mila dal successivo) se i concessionari adibiranno gli edifici ad attività turistiche: di 65 mila euro (75 mila dal secondo anno), se chi si aggiudicherà la concessione preferirà invece impiantare in questi spazi attività commerciali o artigianali, sempre legate comunque all’attività del terminal portuale passeggeri. Presto l’esito dell’offerta, visti che i termini di partecipazione sono ormai scaduti. (e.t.)

Postilla

L’intera storia dello Stucky è indecente. Con il consenso dell’editore inseriamo qui un paragrafo del libro di Edoardo Salzano, Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Corte del fòntego editore, Venezia 2010

«Una particolare accentuazione era data poi alla questione [della casa] da un episodio degli anni Sessanta. Una grande società immobiliare romana, la Beni Stabili, aveva realizzato un cospicuo intervento edilizio alla Giudecca. Ne era nato un quartiere di lusso, completamente recintato, contro il quale si era sollevato il fiero malcontento dei giudecchini e del veneziani in generale. Da allora si era deciso, con un accordo unanime dai comunisti fino ai liberali di destra, che ogni costruzione nuova per la residenza che si fosse realizzata a Venezia sarebbe stata destinata ai cittadini veneziani con rigorosi vincoli di permanenza. Questo accordo rimase attivo fino alla fine del secolo, e fu violato nella pratica dalle giunte successive, a partire dalla prima Giunta Cacciari.

«Tra la fine degli anni Settanta e il quinquennio successivo, con i finanziamenti della legge speciale del 1973 e con quelli forniti da alcune leggi nazionali si progettarono e realizzarono nuovi complessi di edilizia residenziale, i principali nell’area degli ex cantieri Trevisan alla Giudecca e nell’area abbandonata da una fabbrica di fiammiferi (Saffa) a Cannaregio. Questi programmi si affiancavano ad alcuni rilevanti interventi di riconversione funzionale e utilizzazione per la residenza di alcuni complessi edilizi industriali (come la ex birreria Dreher e gli ex magazzini della Repubblica alla Giudecca) e a un vasto programma di risanamento e restauro dell’edilizia residenziale storica. L’insieme di questi interventi permise di risolvere nel giro di pochi anni due emergenze, determinate dall’invasione delle acque nei piani terra e dagli sfratti per finita locazione.

«Due grandi questioni rimasero aperte: l’avvio di una iniziativa per offrire edilizia a canoni ragionevoli alle famiglie che non disponevano dei requisiti necessario per concorrere all’assegnazione di edilizia pubblica, e l’utilizzazione del grande complesso degli ex Mulini Stucky.

«Per lo Stucky le destinazioni previste dai piani rendevano necessaria una iniziativa concordata con la proprietà. Si prevedeva – tenendo conto anche delle caratteristiche strutturali degli edifici – la realizzazione di un centro congressi, di un albergo, di un luogo ove sistemare i moltissimi archivi comunali oggi ancora collocati in spazi meglio utilizzabili per altre funzioni urbane (a questo scopo si prevedeva di utilizzare i giganteschi silos di cereali), e infine edilizia residenziale. Ciò che si chiedeva alla proprietà era la cessione gratuita dei silos, a titolo di oneri di urbanizzazione e costruzione, e il rigoroso convenzionamento dell’edilizia residenziale per i veneziani. La proprietà non accettò queste condizioni e il complesso rimase abbandonato finché l’ amministrazione, agli albori del nuovo secolo, accettò le pretese della proprietà. Adesso lo Stucky è una esclusiva enclave di lusso. I silos, le cui facciate erano interamente prive di aperture, sono stati vittima di un incendio che li ha completamente distrutti (lasciando miracolosamente illesi gli edifici adiacenti)[1]. Sono stati ritrovati disegni “originali” che avrebbero previsto la realizzazione di finestre sulle facciate; su questa base anche quell’ala è stata trasformata in albergo. Lucrosamente: per la proprietà, s’intende.»

[1] “E' stato un incendio doloso per il pm di Venezia, Michele Maturi, quello che ha semidistrutto il mulino Stucky sull'isola della Giudecca nella città lagunare. Il pubblico ministero ha infatti parlato di una "mano umana" e ipotizzato "il gesto di un folle o l'imprudenza di un barbone o, più probabilmente l'iniziativa dolosa di qualcuno". Al momento non ci sono gli elementi per confermare questa pista, ma la strada sembra essere quella giusta. Il mulino Stucky, importante esempio di architettura industriale ottocentesca, era in fase di restauro e pronto ad essere trasformato in un grande albergo e centro congressi” (da “Edilportale”, 18 aprile 2003).

Gli operai di Portovesme hanno messo in conto anche le manganellate ma a tornare indietro non ci pensano proprio. La storia dell'Alcoa di Portovesme è l'ennesimo esempio dell'uso spregiudicato di un territorio usa e getta come la Sardegna. Multinazionali e cordate di ogni risma si gettano sull'isola e sulle sue ricchezze, pronti ad andarsene senza nemmeno salutare quando l'osso è ben spolpato. La situazione è disastrosa e i lavoratori dell'Alcoa hanno capito che non è in ballo solo il posto di lavoro ma il loro futuro perché se perdono trovare un'altra occupazione sarà davvero dura. La lotta dei minatori e la loro cocente sconfitta è ancora una ferita aperta e dolorosa ed è un monito a non arretrare di un solo millimetro. Il Sulcis è stato fatto a pezzi a forza di promesse mancate, ce lo ricordiamo tutti Berlusconi che nella sua personale campagna elettorale per sostenere il silente candidato Cappellacci gridava agli operai: «ora telefono a Putin e salvo la fabbrica». Menzogne. Sempre menzogne. Tanto i sardi alla malaparata si fanno la valigia ed emigrano.

La Sardegna è presa d'assalto d'estate dai turisti e le mafie investono e riciclano ma i paesi dell'interno si svuotano. I militari e le aziende del settore occupano e avvelenano con i loro esperimenti territori che, da tempo, dovevano essere restituiti ai loro legittimi proprietari. Nell'assenza più totale di un ceto imprenditoriale e finanziario capace e illuminato prosperano gli «stranieri» che saccheggiano una delle isole più belle del mondo con le complicità di sempre. Nell'assenza imbarazzante di una sinistra in grado di organizzare opposizione e di immaginare un futuro possibile, i sardi continuano a essere maltrattati, a essere considerati «periferia dell'impero».

Oggi i lavoratori dell'Alcoa rappresentano quella parte del popolo che non ha mai abbassato la testa e non si è piegata alle logiche dello stillicidio delle promesse. Più a est, affacciati a un altro mare, altri operai della stessa azienda difendono il posto di lavoro. Ma il Veneto non è la Sardegna e il territorio trasuda ricchezza mentre gli industriali prendono a calci la vita di tutti coloro che non hanno un ruolo nel rilancio del grande Nordest. Con grande disinvoltura e senza un briciolo di senso etico i padroni delocalizzano, agitano la crisi per ristrutturare senza troppe rotture di scatole, chiudono fabbriche in attivo per aver sputtanato vagonate di soldi. Tanto c'è il nuovo Ptrc (Piano regionale di coordinamento) con le sue infrastrutture faraoniche, e poi c'è da cementificare, costruire piccole Los Angeles ai bordi della laguna, bucare montagne, autodromi e miriadi di centri commerciali da costruire. I soldi girano, eccome se girano. Non solo quelli ritornati a casa con lo scudo fiscale ma quelli che arrivano da non si sa bene dove. Ora c'è il territorio da privatizzare e mercificare. Non sono bastati 25 anni di capannoni che ora espongono il cartello affittasi in italiano e in cinese. La campagna elettorale è già partita alla grande su centrali nucleari, termovalorizzatori, discariche. Il sacco del Nordest. La politica del fare di Galan ha creato un intreccio affaristico pubblico-privato al di fuori di ogni controllo e possiamo stare tranquilli che la Lega, che con tutta probabilità si papperà la regione in un sol boccone, si adeguerà al sistema. Nel frattempo distribuiscono le bandiere col Leone di San Marco ai lavoratori dell'Alcoa per scimmiottare l'orgoglio dei lavoratori sardi nello sventolare i quattro mori. Blaterano di identità, di popolo ma alla fine stanno sempre con i poteri forti. Se l'Alcoa trasferirà la produzione in Arabia Saudita dove stanno già costruendo gli stabilimenti non perderanno certo il sonno. I lavoratori e le loro famiglie tengono duro. Con fermezza. Dignità. Rabbia. E spero che sia contagiosa. Maledettamente contagiosa.

Senza alcun dibattito pubblico, le immunità per le oligarchie politiche e le burocrazie dello Stato, che si rendono obbedienti, appaiono il canone che ispira le mosse del governo e la produzione legislativa della maggioranza.

Si fa largo l’idea di «un primato della politica» che vuole rendere indiscutibile, per chi ha il potere, una protezione assoluta nei confronti del controllo di legalità. Ovunque si guardi, si può afferrare la tendenza della politica a costruire schermi, muri, privilegi, autoesenzioni. In una sola giornata, si possono cogliere due segni della pericolosa asimmetria che incuba, nascosta, nel Palazzo.

Un disegno di legge, in discussione al Senato (relatore Piero Longo, avvocato di Berlusconi), prescrive ai giudici come valutare le fonti di prova offerte dai "disertori" delle mafie. Se il progetto diventasse legge, le dichiarazioni rese dal coimputato (e da imputati di procedimento connesso) avrebbero valore probatorio «solo in presenza di specifici riscontri esterni». Anche se il dibattimento riuscisse a raccogliere «riscontri meramente parziali», quelle dichiarazioni sarebbero «inutilizzabili». Sono norme che possono disarticolare annientandole, dal punto di vista giudiziario, le dichiarazioni di quei testimoni dei processi di mafia che impropriamente diciamo «pentiti». Quanti saranno i processi che "moriranno" per infarto legislativo? E che ne sarà della lotta alle mafie, glorificata appena qualche giorno fa dall’intero governo a Reggio Calabria?

Non è una novità che i ricordi, le accuse dei «collaboratori di giustizia» debbano avere verifiche "interne" ed "esterne", conferme «intrinseche e estrinseche», come si dice nel gergo dei legulei. Si sa che non sono sufficienti le dichiarazioni incrociate. Lo ha stabilito, e da tempo, la Corte suprema di Cassazione, chiarendo però che se due "disertori" concordano con una ricostruzione dei fatti, il lavoro del giudice deve accertare «in modo scrupoloso e meditato, l’autonomia di ogni singola collaborazione. In caso di positiva verifica di attendibilità, dalla convergenza delle dichiarazioni devono trarsi tutte implicazioni del caso. Si deve in particolare dedurre l’efficacia di riscontro reciproco delle dichiarazioni convergenti e il consolidamento del quadro di accusa». (Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza n. 542/2008, sul cosiddetto caso Contrada).

Ora, è fin troppo facile farsi venire cattivi pensieri, in tempi di leggi ad personam. E’ fin troppo semplice intuire che la norma contro i testimoni di mafia nasca, d’improvviso e segreta, quando all’orizzonte del processo contro Marcello Dell’Utri appare Gaspare Spatuzza, che non esita a chiamare in causa anche il presidente del Consiglio. Con la nuova legge, anche se Filippo e Giuseppe Graviano avessero confermato in aula il racconto del loro compare, l’intera ricostruzione sarebbe stata inutilizzabile.

Qui però preme rilevare altro, la volontà del legislatore di creare argini così ferrei da impedire e restringere i "naturali" margini di autonomia interpretativa del giudice. Si vieta ogni interpretazione della legge. Si afferma l’idea di un giudice che si conformi rigidamente alla volontà del legislatore anche a costo di accantonare principi costituzionali, ragionevolezza, buon senso, convincimento logico. Affiora una concezione «assolutistica» del "primato della politica" sulla giurisdizione.

La tendenza è ancora più evidente nelle conclusioni del caso Abu Omar. L’uomo, Osama Nasr Moustafà (Abu Omar è il nome religioso), è l’imam nella moschea di viale Jenner a Milano. Ha 39 anni, è egiziano, in Italia è protetto dal diritto di asilo. La Cia lo accusa di essere un "terrorista" di Al Qaeda. E’ una cinica astuzia, abituale nella stagione della "guerra al terrore". L’accusa è un modo per dare pressione al povero disgraziato, metterlo con le spalle al muro schiacciato da un’alternativa del diavolo: o collabora con l’intelligence americana e italiana e si fa spia tra i suoi o Cia e Sismi (l’intelligence italiana diretta da Niccolò Pollari) lo incappucciano, lo sequestrano, lo spediscono nella sala di tortura di un carcere nordafricano dove la sua ostinazione a conservarsi "integro" verrà messa alla prova. E’ quel che accade all’egiziano. Chi rapisce Abu Omar il 17 febbraio 2002? Un processo a Milano accerta che sono stati agenti della Cia. Che ruolo hanno avuto le barbe finte di casa nostra? Il giudice Oscar Magi ha le idee molto chiare. Scrive, nelle motivazioni, che Niccolò Pollari, il suo staff, i suoi agenti erano a conoscenza dell’azione degli "americani", si sono voltati dall’altra parte e, quando è scoppiata la grana, hanno ostacolo e inquinato le indagini della magistratura. Pollari e i suoi si salvano da una condanna protetti da un segreto di Stato, opposto dai governi Prodi e Berlusconi con un «paradosso logico e giuridico»: sul sequestro di Abu Omar non c’è segreto, ma il segreto impedisce di accertare le responsabilità di chi ci ha messo le mani. Il giudice di Milano osserva che l’iniziativa del governo estende «l’area del segreto in modo assolutamente abnorme» trasformando il segreto di Stato «in un’eccezione assoluta e incontrollabile allo stato di diritto». Un’interpretazione «pericolosa» che, anche in presenza di reati gravissimi (il sequestro di persona lo è), offre alle barbe finte «un’immunità di tipo assoluto non consentita da nessuna legge di questa Repubblica» e affidata all’arbitrio dell’autorità.

Qui è l’arbitrarietà dell’opposizione del segreto di Stato a mostrarci come la giurisdizione sia umiliata da una politica che impone la sua sovranità e con il suo «primato» offre un’impunità di dubbia legittimità costituzionale a burocrati sottomessi e docili.

Il lavoro dei servizi di informazione deve salvaguardare l’indipendenza e l’integrità dello Stato, tutelare lo Stato democratico e le istituzioni che lo sorreggono. Il segreto è lo strumento che consente all’intelligence di difendere gli «interessi supremi». Che sono «l’integrità della Repubblica; la difesa delle Istituzioni; l’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati; la preparazione e la difesa militare dello Stato». Nessuno di questi interessi può essere minacciato dall’accertamento di che cosa è accaduto - e con la responsabilità di chi - quella mattina del 17 febbraio del 2003, a meno di non pensare che diventi legale un sequestro di persona e legittima la violazione della Costituzione e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Il governo ritiene, dunque, che sia nelle sue prerogative anche la tutela di un interesse non «supremo» ma politico disegnando quindi, ancora una volta, una scena che attribuisce una signoria della politica sulla legge. Se ne scorge l’esito. La regola non è più la pubblicità e il segreto, l’eccezione. Al contrario, il segreto diviene (può divenire da oggi) pratica d’uso quotidiano di un presidente del Consiglio che decide, alla luce di un interesse tutto politico, che cosa si può conoscere e che cosa deve restare pubblicamente nascosto.

Il legislatore che, rivendicando un «primato», si cucina per sé e per la sua oligarchia una protezione dalla legalità e un governo che rifiuta di governare in pubblico pretendendo per sé un potere sovrano e segreto non separano soltanto la legittimità dalla legalità, ma anche la democrazia dalla Costituzione. Sembra questo il più autentico focus della stagione che ci attende.

Le polemiche si sono riaccese quando la Cavour ha levato le ancore per far rotta verso Haiti. Perché mai, si sono chiesti in molti nelle Forze armate, mandare una portaerei a portare aiuti? Non era meglio spedire i C-130 per operare subito sul campo e magari risparmiare qualcosa per evitare i tagli all'ordinaria amministrazione, dall'addestramento ai pezzi di ricambio? La prima spiegazione era quasi accettabile: la Cavour deve muoversi comunque. Meglio usarla per Haiti che farla girare invano nel Mediterraneo, anche pagando ricche indennità di missione all'equipaggio. Però poi qualche alto graduato ammetteva: è un prodotto della tecnologia italiana, farlo vedere significa procurare affari.

Persino la tappa in Brasile sembra ideata solo per far vedere la portaerei ai rappresentanti di un governo molto interessato. In altre parole, i clienti vengono prima dei terremotati. Il viaggio umanitario verso Haiti, insomma, sarebbe solo l'ultima tappa di un progressivo allontanamento delle scelte militari dall'interesse nazionale diretto, per privilegiare piuttosto esigenze industriali.

Per gli esperti la tendenza è evidente. È passata per la pervicacia nel seguire i piani di produzione del costosissimo cacciabombardiere F-35, o Jsf, concepito per le esigenze della guerra fredda (può compiere missioni di bombardamento con obiettivi lontanissimi, ovvero era stato ideato per colpire Mosca) e oggi inutile: "In un momento di crisi quegli oltre 13 miliardi potevano andare in elicotteri, più utili per le missioni di pace, o magari anche per jet intercettori più utili, come gli Eurofighter", dice Massimo Paolicelli, coautore del libro "Il caro armato".

Ma il punto di non ritorno in un processo che ieri Eugenio Scalfari definiva , è la nascita di Difesa Servizi Spa, "primo passo dello sgretolamento della Pubblica amministrazione", come l'ha chiamato il capogruppo pd alla Camera Gian Piero Scanu. Concepita con un disegno di legge e poi inserita con cinque commi nella legge finanziaria per superare le perplessità nella stessa maggioranza, dall'inizio dell'anno l'azienda a cui verrà affidata gran parte dell'attività della Difesa è una realtà, almeno sulla carta. Mancano i decreti di attuazione, che devono arrivare entro metà febbraio, ma il processo è avviato.

Alla Difesa spa andrà la responsabilità di ogni acquisto per le Forze armate, armamenti esclusi. Le decisioni saranno prese dal consiglio di amministrazione, otto membri di scelta ministeriale, che dovranno rendere conto solo al ministro, per un budget fra i tre e i cinque miliardi di euro. Il meccanismo spazza via ogni criterio di trasparenza: la Corte dei Conti potrà intervenire solo in caso di comportamenti penalmente rilevanti (in sostanza, di dolo conclamato), mentre non è ben chiaro che cosa succederà se la Difesa spa dovesse andare in perdita.

L'azienda ha il potere di inserire nelle strutture militari anche impianti energetici, senza limitazioni legate alle esigenze delle Forze armate: in parole povere, potrebbe far eseguire la costruzione delle centrali nucleari all'interno delle caserme, senza preoccuparsi di ottenere autorizzazioni dagli enti locali e scavalcando ogni discussione. La Difesa spa curerà anche non meglio definite "sponsorizzazioni": un termine che inevitabilmente propone immagini di blindati in missione sulle montagne dell'Afghanistan colorati come le monoposto di formula 1, o cacciatorpediniere colorati come le barche della Coppa America, idee molto lontane dalla tradizione delle Forze armate.

Ma il vero affare è quello del mattone: la Difesa spa gestirà anche le dismissioni immobiliari, con lo scopo dichiarato di recuperare danaro per le spese militari. Ad affiancarla, secondo i piani del governo, saranno società di gestione del risparmio, che dovranno valorizzare il patrimonio della Difesa creando dei fondi di investimento e vendendone i titoli, per poi rimborsare all'erario il valore di partenza degli impianti venduti e versare alla Difesa le plusvalenze.

Il meccanismo ha già trovato un intoppo: per garantire la creazione di queste plusvalenze, a fianco dell'inevitabile cambiamento di destinazione d'uso dei beni immobili era prevista la possibilità di un ampliamento della volumetria pari al 30 per cento, anche qui scavalcando ogni autorizzazione, compresa quella sull'impatto ambientale. Un nuovo scempio, bloccato però come incostituzionale dai giudici della Consulta.

Grazie ai decreti firmati da Berlusconi, non passa giorno senza che aumenti il potere decisionale del capo della Protezione civile. Anche per questioni che con emergenze e calamità nazionali hanno ben poco a che fare

Quanti sanno che da quindici giorni l’Italia è in “stato di emergenza”? Colera? Nuove sciagure nel Paese? No: «A seguito del sisma verificatosi nel territorio della Repubblica di Haiti». Testuale in un decreto del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, emanato in data 13 gennaio 2010 (l’indomani, cioè del disastro avvenuto all’altro capo del mondo) e immediatamente pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. La formale spiegazione della stupefacente decisione è contenuta in una lunga serie di “considerata”: che l’Italia «partecipa alle attività di assistenza e soccorso alle popolazioni colpite» dal terremoto; che la situazione è «in continua evoluzione», ciò che suppone «la ineludibile esigenza di una continua azione di assistenza»; che bisogna assicurare «l’urgente attivazione di interventi in deroga all’ordinamento giuridico, anche comunitario».

Ecco, in quest’ultima frase c’è la chiave di tutto. Il terremoto di Haiti è solo un pretesto, è lo strumento - l’ennesimo - adoperato da questo governo da un lato per dare sempre maggior potere alla Protezione civile e dall’altro lato per scavalcare appunto ogni “ordinamento”, per fare e disfare a proprio piacimento senza alcun controllo: parlamentare anzitutto (questi strumenti non passano al vaglio delle Camere), ma anche di parte della giustizia amministrativa e di qualsiasi altro organo di controllo.

Si vuol dire che tra le sacche di eccessivo potere esercitato da questo esecutivo c’è appunto quello dalla prima dei decreti-ordinanza emanati in forza dell’interpretazione estensiva e abusiva di un decreto legge del 2005 convertito nella legge 152 dello stesso anno. In forza di questo stesso abusivo potere, in pratica extraordinamentale, lo stesso governo, per iniziativa diretta del presidente del Consiglio Berlusconi, ha fatto e disfatto quel che voleva nei settori più diversi: sempre «in deroga », e in base ad analogo decreto- ordinanza, è stata persino imposta (superando così riserve, contrasti, conflitti; e scavalcando il potere parlamentare di controllo delle nomine governative) la nomina del nuovo sovrintendente della Pinacoteca di Brera.

Torniamo allo «stato di emergenza » per Haiti? Intanto: perché il decreto emanato da Berlusconi non fissa un termine di questa emergenza? E poi, chi avrebbe mai negato aiuti ad Haiti anche senza decreto-ordinanza così impegnativo? E infine, ma soprattutto: chi si avvantaggia del decreto? Chi ha bisogno congenito di operare nell’assoluta non-trasparenza con il pretesto, appunto, dell’urgenza assoluta?

Ovviamente la Protezione civile e, quindi, il sottosegretario Guido Bertolaso che ne è a capo e che è appena uscito, più che indenne (data la promozione a ministro annunciata da Berlusconi, ndr), dalla vivace polemica sulla gestione pressoché esclusiva da parte degli Usa della macchina mondiale degli aiuti ad Haiti. La Protezione civile gode ormai di uno status di assoluta autonomia: tale e tanta da non rispondere più a nessuno, in Italia come all’Unione europea. Questa autonomia è stata conquistata passo a passo: prima, nel 1992, togliendo ogni competenza in materia (e le strutture, e le articolazioni, e soprattutto i mezzi) al ministero dell’Interno, poi trasformando la struttura della Protezione civile in Dipartimento di cui è capo Bertolaso, infine - con un decreto ancor fresco di stampa: 17 dicembre 2009 - con la creazione su misura di una società per azioni, con alla testa sempre e solo Bertolaso che un giorno sì e l’altro pure annuncia di dimettersi ma non lo ha mai fatto.

Che cosa significa Protezione civile spa? Significa che la struttura, ormai enorme e dotata di mezzi imponenti, ha cessato di essere un ente pubblico e, come tale, sottoposto al controllo del Parlamento. La palla dei controlli passa all’Antitrust per le gare d’appalto, e alla Corte dei conti per il controllo contabile. Né potere e autonomia si sono fermati qui. Ora Bertolaso (con l’evidente sostegno del Cavaliere) è riuscito a strappare un po’ di poteri anche alla Farnesina. In base a un protocollo appena firmato con il ministero degli Esteri la Protezione civile potrà gestire gli interventi umanitari in caso di emergenze internazionali. Accordo valido per tre anni, ma rinnovabili. Gli Esteri si impegnano così a «mettere a disposizione le risorse necessarie, compatibilmente con le esigenze sul territorio nazionale in caso di richiesta di assistenza tecnica volta a rafforzare i locali sistemi di previsione e prevenzione dei disastri naturali ». Qualcuno già parla di impero-Bertolaso.

Postilla

Eppure esistono sentenze che circoscrivono i poteri in materia di emergenza. Si vceda ad esempio la sentenza 127 del 14 aprile 1995, di cui riportiamo il dispositivo: "La Corte costituzionale dichiara che spetta allo Stato, e per esso al Presidente del Consiglio dei ministri, ricorrere allo stato di emergenza a norma dell'art. 5, comma 1, della

legge 24 febbraio 1992, n. 225, in ordine alla situazione socio-economico-ambientale determinatasi nella Regione Puglia, sulla base degli elementi evidenziati dai competenti organi statali e regionali;

Dichiara che non spetta allo Stato, e per esso al Presidente del Consiglio dei ministri, introdurre prescrizioni per fronteggiare detto stato di emergenza che conferiscano ad organi amministrativi poteri d'ordinanza non adeguatamente circoscritti nell'oggetto, tali da derogare a settori di normazione primaria richiamati in termini assolutamente generici, e a leggi fondamentali per la salvaguardia dell'autonomia regionale, senza prevedere, inoltre, l'intesa per la programmazione generale degli interventi; conseguentemente, annulla l'art. 1 dell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri 8 novembre 1994, nella parte in cui non prevede l'intesa con la Regione [omissis]".

Un taglio dopo l'altro, un anno dopo l'altro. E la bussola si è fermata. I geografi scuotono la testa: "Senza un Gps le nuove generazioni non sapranno più nemmeno trovare la strada di casa...". Erosa come una roccia di tufo, sforbiciata dai programmi ministeriali, spesso ristretta nel solo mondo accademico, la geografia sta per scomparire dalle scuole italiane.

Scienza dei luoghi e delle connessioni, sempre più geopolitica, geoeconomia, geosocietà, con la prossima riforma dei licei e degli istituti superiori decisa dal ministro Gelmini, l'insegnamento della geografia, già decapitato dai governi precedenti, sarà eliminato del tutto, o confinato nell'oblio di poche ore residue. Eppure la geografia conta migliaia di appassionati, nostante Google Earth o i TomTom, anzi ovunque si moltiplicano siti e network in cui mappe e atlanti "tradizionali" uniti alle tecnologie più sofisticate diventano chiavi per leggere la Terra e il pianeta globalizzato. E si scopre che vivere senza questa lente d'ingrandimento potrebbe renderci più intolleranti e più vulnerabili, ignoranti sia del mondo vicino che di quello lontano, e dunque, spiegano gli studiosi, "più chiusi e più timorosi del nuovo e del diverso".

Assediati dall'ultimo taglio, di fronte alla scomparsa della loro materia di insegnamento, i docenti italiani hanno deciso di lanciare un appello, un Sos mondiale, affinché il ministro Gelmini riveda la sua riforma, che in settimana dovrebbe avere il via libera dal consiglio dei ministri. "Senza geografia siamo tutti più poveri - spiega Gino De Vecchis, presidente dell'Aiig, l'associazione italiana insegnanti di geografia - perché la formazione di un cittadino passa anche attraverso questa materia, che è la scienza dell'umanizzazione del pianeta Terra...". E le risposte all'appello sono già migliaia: le società geografiche e gli studiosi da tutto il mondo, ma anche, a sorpresa, centinaia di studenti, che manifestano su Facebook un inaspettato amore per lo studio di territori, città, confini, popoli, economie, latitudini e longitudini e chiedono che le ore non vengano ridotte. In concreto, infatti, la geografia scomparirà da tutti gli istituti superiori, dai tecnici e dai professionali, mentre nei licei le ore saranno drasticamente tagliate.

La sede della Società Geografia Italiana è un meraviglioso edificio del Cinquecento, all'interno del parco romano di Villa Celimontana, alle spalle del Colosseo. Bisogna venire qui, nella tranquillità (operosa) di queste stanze che custodiscono la memoria italiana di viaggi ed esplorazioni, per comprendere che cosa vuol dire geografia. Quattrocentomila volumi, centomila carte geografiche, un fondo ricchissimo di atlanti dal Quattrocento all'Ottocento, 450 faldoni che raccolgono la documentazione ottocentesca delle spedizioni in Africa. Mappamondi, bussole, cannocchiali, trofei. È da questo luogo di memorie, eppure attivissima sede di dibattiti e conferenze, che accademici e giovani esperti spiegano perché è utile, anzi fondamentale, studiare la geografia. Massimiliano Tabusi ha 40 anni, insegna all'università per stranieri di Siena ed è il fondatore, insieme ad altri otto ricercatori, del sito luogoespazio. info, dove è possibile firmare l'appello contro l'estinzione della geografia. Seduto nella Sala del Consiglio della società, Tabusi racconta appunto che non basta avere un navigatore per andare da un "dove" a un altro, ma che bisogna saper leggere quella tecnologia. "Mai come nel mondo globalizzato - racconta Tabusi - conoscere i luoghi, i popoli, le nazioni è così importante. Proprio perché gli spazi locali stanno scomparendo, e si rischia davvero di non capire più né il territorio dove si vive né quelli con cui entriamo in contatto". Da sempre la geografia ha goduto di poca fortuna nella scuola italiana, ridotta spesso a mero elenco di capitali e di nozioni. Una grammatica basilare da cui forse non si può prescindere, ma che dovrebbe essere insegnata in modo più creativo e appassionante. E soprattutto si dovrebbe comunicare che la geografia è utile. Perché spiega il rapporto tra l'uomo e l'ambiente. Le connessioni tra la città e il territorio. E risponde, sempre, fin dai pittogrammi dell'epoca primitiva, alla domanda "dove". "Eppure - aggiunge Tabusi - soltanto in Italia i geografi sono considerati inutili. Invece sono degli esperti del territorio, e ovunque nel mondo lavorano accanto agli urbanisti, agli architetti, agli ingegneri".

In soli 4 mesi di vita il sito luogoespazio. info, un "ponte" tra la geografia classica e la geografia sociale, ha avuto un boom di contatti. Come se modificando il linguaggio di una materia, rendendolo più contemporaneo, avesse fatto riscoprire a molti una passione. Nel senso di ciò che Franco Salvatori, presidente della Società Geografica Italiana, chiama "rispolverare la mission". "C'è stato un tempo in cui anche questa sede era un luogo polveroso e museale, ma è bastato recuperarne l'attività scientifica per avere un grande ritorno di attenzione. Come si fa a considerare la geografia inutile quando il mondo sotto i nostri occhi cambia in continuazione? Pensate a che cosa è successo dopo la caduta del muro di Berlino, tutta la riscrittura degli atlanti e delle carte... Purtroppo la crisi della geografia ha radici antiche, discende fin dalla riforma Gentile, questi tagli però la espelleranno per sempre dall'insegnamento scolastico. E per i ragazzi sarà una grave danno alla conoscenza".

Non stupisce lo strano silenzio che circonda, d’un tratto, la guerra iniziata da americani ed europei in Afghanistan, quasi nove anni fa. Guerra senza più bussola, che nel 2001 scacciò i talebani e ora è tutta intenta a facilitare il loro ritorno al potere, addirittura remunerandoli in cambio di qualche gentilezza sulla costituzione. Guerra di cui «abbiamo ormai abbastanza», ammette con candore lo stesso comandante della Nato in Afghanistan, generale McChrystal. Guerra degradata a simulacro, già da tempo. Nessun occidentale vuol finirla, nessun ministro della difesa rinuncia a foto di gruppo con soldati al fronte, ma in cuor suo ciascuno sa la verità: la guerra che solennemente vien continuata è in fondo già considerata perduta. La commedia è recitata da voltagabbana ignari del pudore, che hanno bisogno della messa in scena per evitare l’onta di una fuga. Solo per i soldati e i loro capi il conflitto non è simulacro ma dura prova in cui si rischia la morte, si guadagna l’onore, si merita una pietà ancora più grande. Degenere e posticcia, questa guerra è paradigma dei tempi che viviamo. Sono uomini vuoti che vediamo ai comandi della politica, come nel poema di Thomas Eliot: «Siamo gli uomini vuoti /Siamo gli uomini impagliati /Che appoggiano l’un l’altro /La testa piena di paglia». Figure senza forma, ombre senza colore, forza paralizzata, gesto privo di moto: da sempre, le facce e le voci dei voltagabbana «sono quiete e senza senso».

La sete di negoziare col nemico fino a ieri equiparato al male assoluto è vasta e si estende; anche quando viene dissimulata o perfino negata. È anche una via obbligata e necessaria, quando la vittoria si fa difficile: con chi trattare, se non con l’avversario? Non è la trattativa in sé a colpire negativamente, ma l’impressionante vuoto nelle teste, l’afasia del linguaggio, la presunzione che la disfatta sia una vittoria. Colpisce infine la cecità su una guerra antiterrorista che complessivamente è in stato di degenerazione: quasi dieci anni dopo l’assalto alle Torri di New York, Stati Uniti ed europei hanno praticamente perso dappertutto. Il pericolo terrorista s’è spostato in Pakistan e Yemen, e non smette di nuotare nell’azzurro liquido del mondo-web. Blair è costretto a giustificare la guerra irachena davanti alla Commissione Chilcot, a Londra, e a sventolare bugie come fossero bandiere. Un’analoga commissione, il 12 gennaio in Olanda, ha già definito illegale la partecipazione all’offensiva in Iraq.

Così sfila davanti al nostro sguardo una generazione di politici europei (nel Regno Unito Blair, in Olanda Balkenende, in Italia Berlusconi) che senza tema di contraddirsi dice, oggi, quel che ancor ieri considerava eretico.

Era eretico patteggiare col nemico, ma ora si può, si deve, è cosa buona e bella. La svolta era nell’aria da mesi, ma ora s’è fatta urgente per varie ragioni. Sono gli stessi militari favorevoli all’aumento di truppe a far capire che la guerra, essendo invincibile, è in pratica finita: primo fra tutti il generale McChrystal, che tanto ha influito sulle scelte di Obama.

In un’intervista di domenica scorsa al Financial Times, auspica anch’egli i negoziati e dichiara, perentorio: «Come soldato, il mio personale sentimento è che di guerreggiare ne abbiamo abbastanza. Non puoi fare alcun progresso politico, fin tanto che guerreggi». Karl Eikenberry, ambasciatore Usa in Afghanistan, disse precisamente questo, in due cablogrammi inviati nel mese di novembre al Dipartimento di Stato: la guerra non era vincibile, e l’aumento di soldati un rischio anziché un’opportunità. Pubblicati dal New York Times il 26 gennaio, i due promemoria parlano chiaro: Karzai «non è un partner strategico adeguato», disinteressato com’è a «erigere un governo e una sovranità». L’unica cosa che Karzai vuole è una «guerra senza fine al terrore» (la guerra che Bush aveva promesso), grazie alla quale Kabul riceve soldi e non deve ricostruirsi come Stato funzionante e non corrotto.

A questa ragione se ne aggiunge un’altra, non meno decisiva: la defezione del Pakistan, senza il quale la sconfitta è certa. Le forze talebane legate al terrorismo hanno infatti lì le loro basi, non in Afghanistan. E le notizie che giungono da Islamabad sono devastanti. Il 21 gennaio, durante una visita del ministro della Difesa Robert Gates, il governo pakistano ha annunciato la sospensione - per almeno un anno - di ogni operazione antiterrorista nel Waziristan del Nord: nella zona, cioè, dove son rifugiati i talebani più duri (la rete Haqqani, responsabile dell’attacco del 18 gennaio al palazzo presidenziale di Kabul).

La terza ragione è la persona di Karzai. Già screditato dai brogli elettorali, il Presidente è profondamente esecrato dalla propria popolazione. Lo dice l’agenzia Onu che si occupa di droga e corruzione (Unodc), in un rapporto del 19 gennaio: il 59 per cento degli intervistati giudica la «disonestà pubblica e la corruzione» più preoccupante ancora dell’insicurezza (54 per cento) o della disoccupazione (52 per cento). Nel 2009, i cittadini afghani hanno dovuto pagare tangenti a funzionari dello Stato per un totale di 2,5 miliardi di dollari (l’equivalente di quel che hanno ricavato dal traffico di oppio, il 23 per cento della ricchezza nazionale). Corruzione in Afghanistan vuol dire Karzai, e Karzai vuol dire forze alleate, non solo americane ma dei partecipanti alla missione (in ordine decrescente Inghilterra, Germania, Francia, Italia, ecc). Ovvio che tutti costoro siano visti come occupanti.

Anche questa guerra, come è successo per la crisi economica, è stata una bolla gonfiata da frettolose supposizioni, menzogne ideologiche, che infine s’è scontrata con la realtà ed è scoppiata. Era una bolla speculativa anche il linguaggio che l’accompagnava, e che contagiò tanti politici e intellettuali d’Europa. Fu dipinta come riedizione della guerra mondiale contro Hitler, e chi obiettava era subito tacciato di appeasement, di accomodamento col terrorismo islamico nel quale s’incarnava in questo secolo il male assoluto. Un male più che mai mostruoso, perché riviveva anche da morto come uno zombi: per questo Bush e Cheney dissero che la guerra sarebbe durata generazioni. Lo storico Marc Bloch scrisse sull’invasione nazista della Francia un libro essenziale: si intitola La Strana Disfatta, perché la guerra fu condotta con le menti e le armi del conflitto precedente, ignorando incomprensibilmente il tempo presente. Proprio questo è accaduto in Afghanistan, con la variante che Hitler è stavolta invitato a tornare al potere.

Obama non ha cambiato strategia, ma da qualche tempo ha smesso di parlare di guerra necessaria (o «esistenziale», come diceva Frattini pochi mesi fa, senza ben sapere quel che diceva). Nel discorso del 2 dicembre, il Presidente Usa ha addirittura fissato il giorno in cui le operazioni finiranno: nel 2011 si torna a casa, non si attende la vittoria come di solito succede nelle guerre. Tutti vogliono tornare a casa, pur continuando a parlare di guerra giusta. Per questo la disfatta è così strana; per questo è così surreale il silenzio che avviluppa i negoziati con i talebani.

È strana, la disfatta, non solo perché è una ritirata mal confessata. È soprattutto una strage di parole: solenni, di breve durata, ma dure a morire. Dopo 9 anni, molti morti e crudeli torture inflitte nelle prigioni di Bagram e Guantanamo, ecco l’arcinemico talebano trasformato in interlocutore meritevole di un Fondo internazionale di aiuti. Ecco Karzai che guida le danze della riconciliazione, da noi trattato come il sovrano che non è. In fondo non è interamente sua la colpa. Lui propone patti espliciti col nemico; Holbrooke usa eufemismi, e il patto lo chiama «reintegrazione». Reintegrazione fa più fine, e ha il pregio di essere una parola talmente grigia da passare inosservata.

Così deve concludersi una guerra cominciata per motivi tutt’altro che ignobili, combattuta comunque con coraggio, proseguita malamente, culminata infine nell’ipocrisia. Parafrasando l’epilogo triste che Eliot riserva agli uomini impagliati, è questo il modo in cui finisce la grande guerra al terrore. Finisce non con uno schianto, ma un flebile lamento: Not with a bang, but a whimper.

Oggi dovrei occuparmi delle elezioni regionali e infatti ne parlerò tra poco, ma prima c’è un tema che merita di esser posto come introduzione: si sta disossando lo Stato. Mentre si discute di riforme costituzionali, la struttura dello Stato sta infatti cambiando sotto i nostri occhi distratti: lo Stato si sta "esternalizzando" con conseguenze gravi sulla dislocazione del potere e sugli equilibri istituzionali.

Negli scorsi giorni, nella disattenzione generale, è stata approvata la creazione della "Difesa Spa" che centralizzerà gli acquisti e gli approvvigionamenti necessari al funzionamento di tutte le Forze armate in una società per azioni. Analoga operazione verrà discussa e probabilmente approvata in Senato mercoledì prossimo per la creazione della "Protezione Spa", responsabile di tutte le operazioni di qualsivoglia tipo effettuate dalla Protezione civile. Immaginiamo che altre società sorgeranno nei vari settori della Pubblica amministrazione. Le operazioni di queste nuove entità, la provvista dei fondi necessari, l’accensione di mutui bancari e tutto ciò che è necessario al loro funzionamento saranno disposti mediante ordinanze, veri e propri decreti legge che non approdano in Parlamento ma diventano immediatamente esecutivi. La loro firma spetta al ministro competente o addirittura al presidente del Consiglio e, oltre a scavalcare il Parlamento, scavalca anche il Capo dello Stato. La Corte dei conti interviene più come organo di consulenza che come organo di controllo.

Le somme in gioco sono enormi. Il capo della Protezione civile, che è al tempo stesso sottosegretario in attesa di esser elevato al rango di ministro, in un’intervista di qualche giorno fa al nostro giornale ha quantificato gli interessi che la Protezione civile paga annualmente sui debiti esistenti con le banche: 850 milioni. In termini di capitale si tratta di un debito tra i 20 e 25 miliardi di euro, una somma enorme decisa al di fuori della normale contabilità e dei normali controlli di forma e di merito. Per di più è scritta nel disegno di legge l’esenzione di ogni responsabilità penale del capo della Protezione civile il quale è esentato dal doversi sottoporre alle normali regole della Pubblica amministrazione per quanto riguarda appalti e commesse. È superfluo segnalare che queste società sono amministrate da propri consigli d’amministrazione; lo "spoil system" ne risulta ampliato senza alcun controllo parlamentare sulle nomine e sugli eventuali conflitti d’interesse.

C’è dunque un mutamento vistoso in questo modo di gestione: rapidità nel decidere, impressionante rafforzamento del potere esecutivo. Berlusconi anticipa il suo ideale: l’uscita dalla Repubblica parlamentare e l’ingresso nella democrazia autoritaria; una legge elettorale blindata, una maggioranza parlamentare di "replicanti", gli organi di controllo ridotti a puro simbolo senza poteri. Faceva effetto vederlo l’altro giorno a L’Aquila abbracciato a Guido Bertolaso reclinando la testa sulle spalle del "protettore". «Che faremmo senza Guido?» ha detto mentre annunciava la sua promozione a ministro senza neppure averne informato i membri del governo e tanto meno il Capo dello Stato.

Già, che farebbe senza Guido che allo stato dei fatti è il controllore-controllato per eccellenza? Bertolaso è la sua protesi e così saranno i capi delle future Spa pubbliche. La prova generale (auspice Tremonti) fu fatta qualche anno fa con la Cassa Depositi e Prestiti. Perché – bisogna ricordarlo – i flussi finanziari che alimentano il sistema "esternalizzato" sfuggono a tutti salvo che al superministro dell’Economia. Giulio e Guido, un’accoppiata perfetta, con la differenza che Guido è una protesi di B., mentre Giulio lavora per sé.

Lo Stato di diritto è a pezzi.

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In questo contesto si preparano le elezioni regionali e quella per il comune di Bologna. Qui i protagonisti sono numerosi: Berlusconi ovviamente, Casini, D’Alema, Bersani, Vendola. Quella più interessante da esaminare è la situazione pugliese perché i suoi effetti hanno avuto ed avranno ripercussioni importanti sul quadro politico nazionale.

In Puglia andava infatti in scena uno dei punti essenziali del programma con il quale Bersani ha conquistato la guida del Partito democratico: l’alleanza tra le varie forze d’opposizione in vista di un’alternativa al centrodestra, ma in particolare l’alleanza con l’Udc, alla quale D’Alema attribuiva una importanza speciale.

Finora Casini ha sempre escluso un’alleanza nazionale del suo partito con altre forze. Il centro non può che stare al centro, così ha sempre detto. Però fare alleanze in elezioni regionali e locali quando vi siano convergenze sui programmi e sui candidati, è possibile in diverse direzioni affinché si bilancino reciprocamente.

Il ragionamento è chiaro. Parrebbe tuttavia che negli ultimi tempi questo schema di lavoro sia cambiato sotto l’urto dei fatti. Parrebbe cioè che Casini consideri possibile un’alleanza con il Pd in vista delle elezioni politiche del 2013. Giudica irrecuperabile Berlusconi, giudica sempre più necessaria una riforma della legge elettorale in senso proporzionale, senza di che l’Udc sarebbe condannata all’irrilevanza.

In vista di questi obiettivi ancora remoti, il leader dell’Udc ha interesse ad una sconfitta ai punti di Berlusconi nelle prossime regionali. Su 13 Regioni in palio, spera che almeno 7 vadano alle opposizioni e non più di 6 allo schieramento governativo. Di qui le alleanze con il Pd in parecchie situazioni.

Il caso pugliese era il più significativo di tutti: è una regione importante nel Mezzogiorno continentale, economicamente dinamica, stava a cuore a Massimo D’Alema che è il maggior fautore dell’alleanza con il centro. Perciò la Puglia, ma non con Vendola candidato. Troppo a sinistra. Qualunque altro, ma Vendola no. E’ andata male. Ora il candidato del Pd, dopo una serie di scossoni, marce avanti e marce indietro, primarie e non primarie, è proprio Vendola. Ma nonostante le profferte di Berlusconi, Casini non è passato dall’altra parte. Si presenterà da solo con un candidato forte che farà razzia di voti a destra. Indirettamente favorirà Vendola, sempre che Berlusconi non decida di confluire su Casini, ma sembra difficile che possa farlo. Più di questo il leader del centro, in questa tornata elettorale, non poteva fare. Il dopo si vedrà dopo.

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Ci sono stati parecchi errori in Puglia, compiuti da Bersani e da D’Alema sull’altare dell’alleanza con l’Udc, da loro giudicata indispensabile per la vittoria elettorale. Una sottovalutazione di Vendola. L’accettazione del veto di Casini sul nome del governatore uscente. L’irre-orre sulle primarie. Ma l’errore principale e non scusabile è stato quello di schierarsi e fare campagna in favore di uno dei due candidati alle primarie impegnando così sulla sua vittoria o sconfitta la segreteria nazionale del partito.

Le primarie sono un metodo discutibile ma, una volta decise dagli organi regionali e accettate dalla direzione nazionale di un partito, è regola che il gruppo dirigente non si schieri con un candidato contro l’altro. Dovrebbe restare rigorosamente neutrale e poi appoggiare compattamente il vincitore che affronterà l’avversario del partito. Questa seconda mossa Bersani e D’Alema l’hanno fatta e sicuramente il loro appoggio a Vendola sarà pieno e – speriamo – efficace; ma la botta alla loro credibilità politica è stata tosta e ne porteranno i lividi per un bel po’. Anche perché quell’ondivago comportamento ha incoraggiato una sorta di ribellismo locale che non è sana autonomia e neppure dissenso politico rispetto alla linea che vinse il congresso del Pd, ma esplosione di ambizioni e vanità personali che sono esattamente il contrario della funzione di un partito politico. Si potrebbe dire che nel centrodestra avvengono fatti analoghi, ma questa constatazione non è affatto consolatoria.

La questione nel Pd riguarda in particolare Bersani. Sembra un cacciatore con il falcone D’Alema sulla spalla. Non è questo il segretario di cui il partito (ogni partito) ha bisogno. Il falcone parte prima del cacciatore, anzi è lui stesso che snida la preda e poi torna ad appollaiarsi sulla spalla del padrone. In un partito democratico questo meccanismo non può funzionare e infatti non funziona.

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Ci sono nel Pd parecchi altri impacci elettorali ancora in corso. Altri altrettanto gravi ce ne sono nel Pdl. Berlusconi è nei guai in Puglia. Nel Lazio la partita è apertissima e il candidato risponde più a Fini che a lui. In Sicilia, anche se in questa regione non si vota, non ne parliamo. La competizione con la Lega è aspra in tutto il Nord.

Nonostante tutto, l’ipotesi di un risultato 7 a 6 in favore del centrosinistra è dunque ancora ipotizzabile. Ma poi bisognerà passare dalla tattica alla strategia. Quella larga parte di italiani ai quali stanno a cuore le sorti del paese oltreché la propria, capiscono che non si può continuare così. Un capo di governo che in ogni luogo racconta barzellette e le comunica ai giornalisti affinché ne parlino sui loro giornali; un capo di governo che promuove un Bertolaso ministro dopo averlo pubblicamente censurato per le sue gaffe internazionali; un capo di governo che si occupa solo dei suoi guai giudiziari e degli affari delle sue società (private e pubbliche); un capo di governo che insulta ogni giorno i magistrati e prepara riforme a suo personale uso e consumo obbligando i magistrati ad una civilissima quanto gravissima manifestazione di protesta; un capo di governo che ogni mattina si fa dipingere i capelli in testa; un capo di governo che è una macchietta se non fosse una tragedia nazionale, ha l’aria d’essere arrivato alle ultime battute. Il suo declino potrà anche essere lungo ma è senz’altro cominciato.

Post Scriptum. Adriano Celentano in un articolo sul Corriere della Sera di giovedì scorso, dopo aver constatato che il governo non funziona e che i problemi dei cittadini restano da anni irrisolti, ha proposto che Berlusconi sia definitivamente liberato da tutti i suoi guai giudiziari ed abbia così il tempo di dedicarsi al bene comune.

Nei programmi di Berlusconi campeggia anche la costruzione di 25 centrali nucleari. Il ragazzo della via Gluck avrebbe fatto un pandemonio per impedirlo. Adesso reclama un salvacondotto definitivo per il leader nuclearista. Caro Adriano, trent’anni fa eri «rock», adesso sei lento assai.

Titolo originale: Pompeya, ciudad (arqueologica) sin ley. Traduzione a cura di Maria Pia Guermandi

Pompei, la città romana sepolta dalla cenere del Vesuvio, Patrimonio dell'Umanità protetta dall'Unesco dal 1997, continua a soffrire, duemila anni dopo, per l'abbandono e l'imperizia delle autorità. A seguito della minaccia della camorra, che fa i suoi traffici nell'area e costruisce dove gli pare, la gestione di Pompei fu affidata la primavera scorsa dal Governo a un Commissario straordinario, manager dell'onnipotente Protezione Civile, dotato di poteri speciali. Giustificata come soluzione al "grave degrado" e allo "stato di pericolo" che minaccia l'area, nella gestione del commissario Marcello Fiori la spettacolarizzazione e la superficialità hanno fatto premio sulla qualità e la sicurezza, stando a quanto affermano esperti ed operatori del settore.

"Pompei, con 2.5 milioni di visitatori e 20 milioni di euro di entrate all'anno, è gestita oggi con uno stile volto alla spettacolarizzazione e populista non compatibile con i tempi quasi sempre lenti e poco gratificanti dell'archeologia" sintetizza un funzionario del sito che chiede l'anonimato.

Il sintomo più chiaro è che tra i 600 lavoratori di Pompei regna l'omertà. Solo i sindacalisti parlano, apertamente, con nome e cognome. Gli altri non rivelano la loro identità per paura di rappresaglie.

Un misterioso incidente è stato trasformato dalla Direzione quasi in un segreto di Stato. I lavoratori denunciano che si è voluto minimizzare dei danni molto gravi. E questo ha fatto salire nel sito archeologico una tensione che è latente da mesi.

Il 14 di gennaio un lavoro avviato in tutta fretta, a turni di sette giorni su sette, secondo i sindacalisti, per dar lustro all’imminente visita di un uomo politico (non è chiaro se si tratti del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano o del Primo Ministro Silvio Berlusconi) ha provocato il crollo di due muri, uno di 30 metri e un altro di 20. Due pareti di case antiche, secondo alcune fonti decorate con affreschi, son venute giù.

Il sindacalista della UIL Gianfranco Cerasoli spiega che l’opera fu decisa dal commissario Fiori e riguardava l’opera della Via dell’Abbondanza, dove si trova la casa dei Casti Amanti – scoperta nel 1987 e chiusa con impalcature da allora, e la casa di Giulio Polibio. “Hanno piazzato una gru molto grande sopra un terrapieno fragile, e con la pioggia la gru è caduta sopra il muro che circonda l’insula della casa dei Casti Amanti; questo a sua volta ha distrutto una parete contigua”, spiega Cerasoli.

Il commissario Fiori ha negato che i danni siano stati gravi, ha smentito che li avrebbe provocati una gru e li ha attribuiti alle forti piogge. Seguendo al millimetro la linea ufficiale, Fiori ha preferito annunciare che “in febbraio sarà possibile vedere lo scavo della casa dei Casti Amanti attraverso una parete in plastica trasparente e un sistema di telecamere”. Il direttore degli scavi di Pompei, l’archeologo Antonio Varone, ha accusato i sindacati di allarmismo e attenua la gravità dell’incidente, limitandolo a un “piccolo smottamento di terra”.

Tuttavia la denuncia parte dalla prestigiosa associazione privata Italia Nostra che veglia sul patrimonio culturale. Italia Nostra parla di omertà e di “distorsioni” nella gestione e ha richiesto una “trasparenza immediata”.

Una funzionaria del parco dà la sua versione allontandandosi dall’ufficio per parlare senza essere sentita “abbiamo paura, il clima qui è di intimidazione. Non sappiamo neppure quali danni realmente vi sono stati perché la consegna è di non parlare, e non hanno fatto nemmeno entrare i tecnici per fare foto”.”

I sindacati spiegano che le opere in corso costeranno 33 milioni di euro e che il giorno 20 il commissario ha firmato un impegno di 200.000 euro per riparare i danni. Inoltre segnalano che 12 giorni dopo l’incidente non è stato inviato il prescritto rapporto al direttore generale del Ministero, Stefano De Caro.

Secondo Biagio de Felice del sindacato CGIL, “il comportamento di Fiori e la mancanza di reazione del ministero diretto da Sandro Bondi rivelano che lo Stato ha abdicato alla tutela del patrimonio di Napoli e Pompei e certifica il fallimento della politica culturale”.

“In questo deserto si fa strada la presunta efficacia della Protezione Civile, che a Pompei usa gli stessi sistemi che a L’Aquila. Tra noi circola questa battuta: siamo arrivati 2000 anni dopo l’eruzione, ora non c’è bisogno di affrettarci”.

Fiori è un uomo versatile e di provata capacità di lavoro. Ma i tecnici dubitano che sia l’uomo di cui Pompei ha bisogno. “E’ un luogo molto delicato, non puoi fare i lavori come se fosse un’autostrada” segnala Pietro Giovanni Guzzo, responsabile statale (soprintendente) dl sito dal 1999 al 2009. L’archeologo rileva che “a Pompei la cosa più importante è combattere l’infiltrazione della Camorra, che costruisce edifici illegali da cui osserva e controlla gli affari nella zona”.

Secondo il quotidiano l’Unità che segnalò per primo l’incidente un commerciante della zona Nicola Mercurio è diventato “il braccio destro di Fiori” Nel giugno del 2009 la polizia di Napoli scoprì un tunnel segreto di 30 metri pieno di oggetti rubati che andava dagli scavi fino a una abitazione vicina.

A Roma, in piazza Santi Apostoli, leggeranno anche quelli che chiamano "frammenti di pensiero patriottico": il discorso di Calamandrei, le lettere dei condannati a morte dal nazifascismo, spezzoni di frasi di Pertini e Dossetti. A Milano, invece, gli articoli della Costituzione risuoneranno in piazza Mercanti, a due passi dal Duomo e dallo shopping del sabato pomeriggio in centro. A Parma e Palermo si sfilerà in corteo, a Torino sarà allestito un palco in piazza Castello. A Firenze l´appuntamento è davanti alla prefettura, il luogo prescelto da molte altre città. Perché dopo il "No-B day" dello scorso 5 dicembre, il Popolo Viola torna in piazza. Lo fa oggi con sit-in in difesa della Costituzione. E un´onda che, annunciano gli organizzatori, non si limiterà a colorare Roma, ma raggiungerà «120 città italiane e sei capitali internazionali». Da Londra a San Francisco, da Hong Kong fino a Parigi, da dove è partito un annuncio in Rete: «Ci troviamo alle 14 di fronte alla Piramide del Louvre: portate il vostro articolo della Costituzione preferito, amici e parenti... ».

Anche questa volta, l´appello è stato lanciato da Internet, con le adesioni raccolte via Facebook e i blog. Per proteggere e difendere la Costituzione «di fronte all´ennesimo tentativo di saccheggiarla che si concretizza principalmente nelle manovre del governo per garantire impunità a Berlusconi a partire dal nuovo Lodo Alfano e nei proclami di qualche ministro che chiede addirittura la cancellazione dell´articolo 1». A differenza della manifestazione di dicembre che, ricorda Fausto Renzi del coordinamento milanese del Popolo Viola - ha avuto l´effetto di mobilitare oltre un milione di persone», però, la scelta è stata quella di moltiplicare le iniziative in tutta Italia. Con un elenco che, dice Gianfranco Mascia, «si è allungato di ora in ora fino a raggiungere 120 città».

Per tutti gli orologi si sincronizzeranno alle 18: il momento clou della giornata quando - anche attraverso collegamenti - partirà uno stesso grido: «Berlusconi dimissioni!». Ogni città, però, ha provato a declinare in diversi modo il richiamo. Partendo da alcune indicazioni di base: organizzare se possibile i sit-in di fronte alle prefetture e durante il pomeriggio. A unire idealmente le piazze che parteciperanno (un elenco è sul sito http://30gennaio2010.wordpress.com) sarà la lettura degli articoli della Carta che, in molti casi, verrà anche distribuita. Il raduno di Roma in piazza Santi Apostoli accoglie una sfida in più: trasformarsi in happening scandito da parole, musica e un po´ di ironia. Si parte alle 15 con un reading. «Siamo riusciti ad avere la collaborazione di molti attori di teatro», spiega Sara De Santis, 31 anni, del comitato romano. E tra le voci, magari tanti riconosceranno quella di Alessandro Quarta, il doppiatore di Topolino e di Ethan Hawke in "L´attimo fuggente».

Oltre alle adesioni "dal basso" ci saranno esponenti politici. Il leader dell´Italia dei Valori Antonio Di Pietro parteciperà all´appuntamento milanese e attacca: «Il ministro Brunetta vuole cambiare l´articolo 1 perché, secondo lui, non vuole dire niente che una Repubblica sia fondata sul lavoro. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, sotto dettatura di Berlusconi, prova sistematicamente a stravolgere l´articolo 3 sull´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge». In piazza scenderà anche la Federazione della Sinistra e Sinistra Ecologia e Libertà.

Libertà e Giustizia sarà presente a molti sit-in (da Roma a Milano, da Firenze a Bologna) con le bandiere e gli striscioni dell´associazione. Proprio nel giorno in cui, al collegio Ghislieri di Pavia, parte la sua scuola di formazione politica con le lezioni sulla Costituzione di Gustavo Zagrebelsky e Valerio Onida. I due presidenti emeriti della Corte Costituzionale, attraverso l´associazione, si sono fatti promotori di una legge di iniziativa popolare perché il 2 giugno sia proclamata non solo festa della Repubblica, ma anche della Costituzione. Tra le adesioni alla giornata anche il comitato "Salviamo la Costituzione" di cui è presidente Oscar Luigi Scalfaro, Paolo Flores D´Arcais e la rivista Micromega, Articolo 21, gli Amici di Beppe Grillo, Dario Fo, Franca Rame e Moni Ovadia.

Quella del "burqa" è una questione sulla quale mi pareva che tutto fosse stato già detto, ma che invece suscita nuove e interessanti reazioni: come dar forma al generale desiderio di dissuadere le nostre concittadine dall´uso del velo integrale.

Come tutti sanno, non si tratta del tipo di velo diffuso nel Maghreb per nascondere le chiome, bensì di una sorta di indumento che copre interamente la persona. Chi si traveste in quel modo si muove come un´ombra, assente e misteriosa. Sotto il burqa la donna si sottrae a tutti gli sguardi, e darebbe prova di un´austerità monacale, se non fosse che l´esclusiva delle sue fattezze e del suo volto è riservata all´uomo da lei accettato come suo proprietario.

Non è in discussione il fatto che quel travestimento non sia di buon gusto agli occhi della maggioranza dei cittadini tra i quali queste donne hanno liberamente scelto di vivere; ed è accertato che il burqa non è un obbligo religioso, ma soltanto un´usanza, peraltro condannata dal gran muftì d´Egitto, nonché dalle istituzioni teologiche più autorevoli dell´islam sunnita: su questo punto il professore Abdelwahab Meddeb è stato categorico. Si è invece aperto un dibattito sull´opportunità di promulgare una legge o di limitarsi a una semplice dichiarazione dell´Assemblea nazionale.

Le autorità religiose francesi (cattoliche, protestanti e musulmane) hanno scelto il silenzio, o si sono affrettate a proclamare la propria neutralità, associandosi così alle posizioni di taluni movimenti di sinistra che vedono in ogni tipo di divieto un attacco alla libertà religiosa. Personalmente, anche se penso che la società francese debba esprimere chiaramente la sua condanna, tendo a ritenere controproducente il varo di una legge destinata esclusivamente ad alcune centinaia di donne.

Una tesi certo non priva di acume è quella sostenuta su Le Monde dal filosofo Abdennour Bidar, che è anche autore di interessanti articoli sulla rivista Esprit. A suo parere, il burqa è sintomo di un malessere più profondo: un desiderio personale di esistere, benché espresso «in maniera paradossale, patologica e totalmente contraddittoria». Agli occhi di Abdennour Bidar, le giovani che indossano il burqa non sono poi tanto diverse dai tanti «emarginati volontari, veri e falsi a un tempo» di cui rigurgitano le nostre società. L´autore sottolinea poi lo spaventoso vuoto lasciato dalla scomparsa delle grandi immagini dell´uomo. Ormai i modelli proposti sono solo quelli di attori, sportivi, cantanti o star mediatiche che incitano a privilegiare l´apparenza, il denaro, la bellezza fisica, i consumi. «Come pensare che questi obiettivi derisori, esaltati dalla pubblicità nei modi più ridicoli, possano bastare a dare un senso alla nostra vita?» Non si potrebbe dir meglio. Ma da qui a stabilire un collegamento col burqa, che esprimerebbe «qualcosa come il rimosso della psicologia collettiva attraverso il rifiuto di esibire anche una minima immagine di sé», per poi concludere che l´identità totalmente nascosta dietro il burqa sia «l´identità profonda dell´io moderno, divenuto introvabile», c´è un salto epistemologico non facile da accettare.

Decisamente, questi eminenti intellettuali non riescono ad accontentarsi della semplice realtà. Di fatto, da quanto tempo si è posto il problema del velo – prima di quello del burqa – in un paese come la Francia, che da mezzo secolo ospita un gran numero di musulmani? Da dove è venuto questo desiderio di imporre ovunque i vari tipi di velo, se non dai movimenti sauditi e afgani, il cui primo bersaglio fu il governo algerino, colpevole di aver impedito agli islamisti di insediarsi al potere, annullando il secondo turno di una consultazione elettorale perfettamente libera?

Si è già dimenticato quanto è accaduto per un decennio in Algeria? Quelle vicende hanno preparato l´irruzione delle reti che avrebbero destabilizzato una parte importante del mondo arabo-musulmano, per poi coprirsi di "gloria" con gli attentati dell´11 settembre 2001 a New York. Come non ricordare che da quel momento in poi tanti giovani musulmani hanno affermato la propria solidarietà con la rinascita dell´epopea vendicativa dei fanatici leader di un certo islam?

Può darsi allora che le eredi dei pionieri di quella frenetica crociata vogliano esibire la pura e semplice volontà di chiamarsi fuori da una società di infedeli e miscredenti. Resta comunque il fatto che anche in assenza di qualunque tipo di violenza, quel loro modo di rinchiudersi significa l´opposto di tutto ciò che rimane valido e bello sotto ogni regime, anche se in declino: la voglia di aprirsi, di condividere, di scambiare gli sguardi. Lo slancio verso l´altro. Il problema non è il velo, è il suo significato. Nulla è più bello di un velo che adorna un volto, come nei quadri dei maestri fiamminghi e italiani. Ma c´è un abisso tra le tombe itineranti di quelle sconosciute, e il velo che sottolineava la bellezza di una Benazir Bhutto: lo stesso abisso che separa il segreto delle tenebre dalla generosità della luce.

Traduzione di Elisabetta Horvat

Nella chiesa madre di Favara sono stati celebrati i funerali delle due povere bambine sepolte dal crollo di un edificio fatiscente del quartiere del Carmine. Alle esequie stavolta non c'è stata la rituale passerella dei politici di rilievo e per il governo non c'era nessuno. Temevano forse che qualcuno gli avrebbe chiesto conto su due fatti gravissimi compiuti di recente. Il 2 ottobre 2009, infatti, il Consiglio dei ministri aveva impugnato il piano casa della regione Basilicata perché condizionava gli ampliamenti edilizi alla predisposizione del «fascicolo del fabbricato», la carta d'identità di ogni edificio, uno strumento che esiste nei paesi civili e obbliga la proprietà a certificare la solidità degli edifici. Era previsto anche in un disegno di legge del 1999 (il 4339 bis), ma non fu mai convertito in legge e mai più ripresentato. Affermava che: «I comuni individuano le aree al cui interno sono compresi i fabbricati da assoggettare prioritariamente al programma di messa in sicurezza del patrimonio edilizio, attraverso la puntuale ricognizione del singolo fabbricato e del relativo stato di conservazione, nonché l'attuazione delle misure tese a favorirne la manutenzione programmata».

Sembrano parole scritte appositamente per Favara. Era dunque importante che almeno una regione lanciasse il messaggio culturale che è ora di mettere in sicurezza il territorio e gli edifici, così da scongiurare la morte di vittime innocenti. Il governo ha ritenuto al contrario più produttivo ubbidire alla potente associazione dei proprietari edilizi, la Confedilizia da sempre contrarissima all'introduzione di queste pur modeste regole. E, a dimostrazione del loro cinismo, l'impugnazione del provvedimento della Basilicata avvenne proprio il giorno successivo della frana di Messina in cui si contarono 35 vittime. Ma non basta ancora. A funerali appena conclusi, il consiglio dei ministri del 15 ottobre decide di impugnare un analogo provvedimento approvato dalla regione Lazio. In entrambi i casi la Confedilizia ha espresso il proprio vivo compiacimento.

E' dunque questo il motivo dell'assenza degli esponenti del governo. Rischiavano di dover essere chiamati a rispondere alla famiglia Bellavia e all'intera nazione a questo quesito: perché da noi il cieco egoismo di una categoria di super ricchi non permette di dotarsi di strumenti di civiltà, condivisi dalla totalità della popolazione italiana?

Nel paese che ha regalato per valori talvolta irrisori a poche grandi società immobiliari un immenso patrimonio abitativo pubblico, poi, è stata cancellata qualsiasi politica abitativa pubblica. Tanto che il sindaco di Favara, pur in presenza di sacche così estese di disagio abitativo, lascia 56 alloggi pubblici vuoti. Le case popolari devono scomparire dal vocabolario istituzionale, ci penseranno i famelici gruppi cui è stato regalato il patrimonio di tutti. I campanelli d'allarme sono ormai troppi, da Messina a Rosarno fino a Favara, è il ruolo dello Stato che deve essere ricostruito nella sua autorevolezza e credibilità.

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