Ogni fase della vita di una nazione contiene in sé una rivelazione, nel bene come nel male, e i giorni che stiamo vivendo sembrano farci cogliere la progressiva "scomparsa della vergogna".
Dopo aver progressivamente smarrito la capacità di indignarci – che implica codici di riferimento e vincoli collettivi – stiamo forse per compiere un altro passo. "Stiamo sprofondando in una nuova era", diceva negli anni Ottanta un personaggio di Altan, ed è forte la sensazione che stia accadendo anche oggi: ce lo suggeriscono non solo le intercettazioni pubblicate ma anche alcuni commenti ad esse. Quasi a giustificazione del premier e delle sue amiche, è stato scritto ad esempio (e non su un blog del Partito della Libertà) che in fondo "il mondo è pieno di ragazze che si concedono al professore per goderne l´indulgenza all´esame o al capo ufficio per fare carriera". è lecito chiedersi, mi sembra, che Paese siamo diventati. Si pensi poi alla privacy che viene strenuamente invocata a difesa del Cavaliere: dimenticando costantemente che essa è stata messa immediatamente fuori causa dalla telefonata del Premier alla questura di Milano, dal suo contenuto e dalle sue modalità (oltre che dalla immediata comparsa sulla scena di una eletta alla Regione Lombardia, che era stata inserita d´autorità nella lista blindata del cattolicissimo governatore Formigoni).
Si avverte davvero l´urgenza che la classe dirigente nel suo insieme pronunci quel "sermone della decenza", quel pronunciamento solenne sui limiti invalicabili che Barbara Spinelli ha invocato ieri benissimo su queste pagine. Purtroppo quel pronunciamento non sembra imminente e in questi giorni hanno tenuto campo invece non pochi "sermoni dell´indecenza".
È inevitabile ripensare ai primi anni Novanta e al crollo della "prima repubblica". Quel crollo fu accelerato e non frenato dal tentativo parlamentare di salvare Bettino Craxi e dal vasto sussulto di indignazione collettiva che esso suscitò: in caso di "assoluzione parlamentare" del Cavaliere – con una ulteriore dichiarazione di guerra alla giustizia e alla magistratura – sembra difficile prevedere oggi qualcosa di simile a quella mobilitazione. Anche su essa però occorre riflettere molto criticamente, perché anche gli abbagli e le semplificazioni di allora possono aiutarci a capire. Fu un grave errore considerare quel sussulto nel suo insieme solo un segno di diffusa sensibilità civile e non cogliervi anche alcuni degli umori peggiori dell´antipolitica: senza l´agire di essi non comprenderemmo perché quella fase si sia conclusa con il trionfo di Silvio Berlusconi e di Umberto Bossi. Fu un devastante autoinganno attribuire ogni colpa al ceto politico, contrapponendogli una virtuosa società civile: come se non fosse stata attraversata anch´essa da quella profonda mutazione antropologica che Pier Paolo Pasolini aveva colto. E non è possibile rimuovere che corpose espressioni della "società civile" che si era modellata negli anni Ottanta furono immesse realmente nelle istituzioni dalla Lega e da Forza Italia, con gli effetti che abbiamo sotto gli occhi. C´è naturalmente da chiedersi perché altre, ben diverse e positive parti di "società civile" siano state largamente ignorate dalle forze politiche che si contrapponevano a Berlusconi e a Bossi, ma giova restare al cuore del problema.
Si ripetè in realtà vent´anni fa l´errore che Massimo D´Azeglio coglieva alle origini del nostro Stato: "Hanno voluto fare un´Italia nuova e loro rimanere gli italiani vecchi di prima (…) pensano a poter riformare l´Italia e nessuno si accorge che per riuscirci bisogna che gli italiani riformino se stessi" (la frase, come si vede, è molto più illuminante di quella che gli viene abitualmente attribuita). Non va dunque mitizzata la reazione della società italiana dei primi anni Novanta alla crisi della politica, ma all´interno di essa vi fu anche sussulto civico, vi fu anche l´idea di una diversa etica pubblica, vi furono anche umori e passioni civili. Essi riemersero poi ancora negli anni successivi, diedero spesso vigore e anima a un centrosinistra che dimostrò presto la propria inadeguatezza sia al governo che all´opposizione. Indubbiamente l´assenza di una reale prospettiva di cambiamento ha contribuito poi potentemente al diffondersi di disincanto e di rassegnazione, di sensi diffusi di impotenza, di ripiegamenti nel silenzio (e talora di nuovi, sconsolati conformismi). Ha reso progressivamente più deboli quelle diverse e disperse parti della società che non volevano rinunciare a un futuro differente. Più ancora, non volevano rinunciare al futuro. Sarebbe però di nuovo un errore cercare le colpe solo nella politica senza interrogarsi più a fondo sui processi profondi che hanno attraversato in questi anni la società italiana. Nel vivo delle più ampie mobilitazioni civili vi erano stati spesso, ad esempio, quei "ceti medi riflessivi" su cui ha richiamato l´attenzione Paul Ginsborg: la storia di questi anni è però anche la storia del loro progressivo isolamento culturale e sociale, non solo politico. è anche la storia dell´affermarsi di forme moderne di incultura se non di "plebeismo" – per dirla con Carlo Donolo – nello stesso "cuore ansioso dei ceti medi", sempre più incapaci di svolgere ruoli di "incivilimento". Ma ancor più a fondo dovremmo spingere lo sguardo per cogliere lo spessore del baratro che abbiamo scavato, a partire dalla dissipazione quasi irreversibile dei beni pubblici o dalla distruzione delle risorse e – più ancora – delle speranze delle generazioni più giovani.
A sconsolanti riflessioni rimanda del resto anche il clima in cui sono stentatamente iniziate le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell´Unità, ed è impietoso il raffronto con l´Italia del primo centenario. In quel 1961 non vi era solo l´entusiasmo per il "miracolo economico": assieme alle condizioni materiali quell´Italia stava migliorando sensibilmente anche il proprio orizzonte di libertà. Stava mettendo mano all´attuazione reale di una Costituzione che era stata "congelata" negli anni della guerra fredda, stava rimuovendo pesanti residui del fascismo e dando voce a sensibilità sin lì inedite. Più in generale, si stava presentando anche sullo scenario internazionale come una realtà nuova, e si leggono oggi con emozione le parole che John Fitzgerald Kennedy pronunciò al Dipartimento di Stato proprio in occasione del nostro centenario. In quel discorso il Presidente degli Stati Uniti giudicava l´Italia "l´esperienza più incoraggiante del dopoguerra" e vedeva al tempo stesso "nella tradizione di Mazzini, Cavour e Garibaldi, come di Lincoln e di Washington" il riferimento possibile per un "nuovo Risorgimento" internazionale (le parole sono sempre di Kennedy). Non saranno molti i capi di Stato che si rivolgeranno a noi con accenti simili nelle celebrazioni in corso, ma quelle lontane parole di Kennedy smentiscono drasticamente chi ci dice con desolante rassegnazione che "siamo sempre stati così". E ci dicono che potremmo ricostruire anche oggi un futuro diverso: difficilissimo, quasi impensabile, ma disperatamente necessario.
Nei quartieri blindati
di Jenner Meletti
Sembra lontano, il mondo degli altri. È là in fondo, oltre il muro di cinta, oltre la nebbia. Questo è «un luogo magico e nascosto», un rifugio scelto da chi vuole «cambiare vita e proteggere i propri figli». Piazza del Duomo è appena a quindici chilometri, ma sembra in un altro continente. «Qui ci sono sicurezza assoluta, tranquillità, silenzio», dice Stefano Fierro, che cura la vendita di 146 case e appartamenti in questa cascina Vione, gated community - ovvero comunità chiusa da cancelli - sulla strada che porta a Pavia. «Ci sarà vigilanza armata, ci saranno telecamere sul muro di cinta e sensori elettronici antintrusione. Potranno entrare solo i residenti e gli ospiti dei residenti, dopo l’identificazione».
Stanno nascendo anche in Italia, le città blindate. Vione aprirà il Primo Maggio, con la consegna delle chiavi di casa (elettroniche) a medici, avvocati, manager, impresari… Età compresa fra i 35 ed i 50 anni, tutti con famiglia, quasi tutti con bambini. Spenderanno almeno 4.200 euro al metro quadro per appartamenti che vanno dagli 80 ai 250-300 metri quadri.
Dovranno poi pagare forti spese «condominiali» per vigilanti, giardinieri, custodi. Le vendite vanno bene perché «Vione - è scritto nel sito che propone l’investimento - non è solo un luogo ma un modo di pensare e di vivere». Le promesse sono impegnative. «Si potrà, come una volta, vivere tranquilli lasciando aperta la porta di casa». «Potrai passeggiare come faresti a Portofino o Capri, ma senza il turismo».
Certo, il panorama non è lo stesso. Attorno ci sono le risaie che offrono nebbia in inverno e zanzare in estate. «Ci saranno zanzariere ovunque. Il "panorama" sarà dentro la cascina stessa, perché stiamo ristrutturando edifici secolari, che sono tutelati dalla Soprintendenza ai Beni culturali, e lo facciamo con ogni cura. Questa "grangia", che è un borgo fortificato, era abitata già nel 1300 dai monaci cistercensi. Oltre a quelli privati, ci sarà anche un grande giardino storico, del ‘700». Pollai, stalle e case dei braccianti sono già diventati appartamenti di lusso, appena meno prestigiosi di quelli ricavati nella villa padronale. Chi arriva qui - lo ha ripetuto cento volte prima di firmare il rogito - ha chiesto prima di tutto la sicurezza e ha avuto risposte esaurienti.
Non saranno tenuti lontano solo ladri o rapinatori ma anche gli «indesiderati». «In città - annuncia la pubblicità della cascina - ci sono traffico, inquinamento, aggressività, violenza e soprattutto troppe persone con origini e abitudini diverse». Qui non rischi di trovarti accanto il migrante che cucina con aglio e zenzero. «Verranno ad abitare qui persone con background culturale e lavorativo comune, ci sarà quel buon vicinato ormai perduto in città». L’asticella del reddito è posta ben in alto: chi vuole mettersi sopra il capo un tetto con antiche travi a vista deve infatti ripagare un investimento di almeno 60 milioni di euro per un «condominio» di circa 500 abitanti.
Un mulino diventerà una sala per mostre e convegni del Comune di Basiglio, ci sarà pure un ristorante con le stelle, ma chi li frequenterà non potrà entrare nella gated community. La strada provinciale che passava qui accanto è stata spostata: il rumore delle auto - il residente si infila in garage sotterranei poi si presenta a piedi davanti ai guardiani - non deve ricordare che fuori esiste una vita meno patinata. «Per quanto possa essere stata dura la tua giornata, quando sarai a casa nessuno ti disturberà e il resto del mondo resterà fuori dalla tua vita».
Cascina Vione, con le sue mura antiche, è a un tiro di schioppo da Milano 3, con centinaia di palazzine, parchi e una City di uffici e banche. Tanti altri quartieri, come l’Olgiata a Roma, sono stati costruiti come pezzi autonomi di città. «Insediamenti come questo, e soprattutto come Milano 2 - dice Agostino Petrillo, docente di Sociologia urbana al Politecnico milanese - più che gated communities sono definiti neighdourhood, ovvero quartieri, zone di vicinato. Sono piccole enclave urbane, non vere città indipendenti. Ce ne sono anche a Londra, ad esempio nella zona dei Docks. Sono "blindate" solo in certe ore, alla sera, e non c’è dunque un’auto segregazione completa. Milano 2, inoltre, più che come città chiusa nasce come città giardino e da un punto di vista architettonico è una piccola utopia. La sicurezza non è al primo posto, come nelle gated communities. Voleva essere una città modello, per famiglie, quadri, dirigenti. Ma la piccola utopia non si è realizzata. Le famiglie con figli sono oggi sempre meno presenti, e gli appartamenti sono occupati soprattutto da professionisti che lavorano in città e hanno trasformato Milano 2 in una città dormitorio. Gli spazi comuni, come i prati e i parchi, restano spesso deserti».
Fabrizio Rossitto, architetto, nella sua tesi di laurea ha raccontato le nascenti gated communities milanesi. «In particolare - dice - ho analizzato la Viscontina di Buccinasco. Settanta famiglie, di ceto medio alto, in 29 ville singole, 10 ville bi - familiari, 20 abitazioni a schiera. Quasi tutte le famiglie hanno figli, ci sono anche anziani ma non giovani coppie e tantomeno single. C’è una portineria con custode e telecamere di sorveglianza. In caso di visite, l’inquilino ospitante deve recarsi all’ingresso per ricevere e permettere di entrare all’ospite. I confini sono ben segnati da muri di cinta alti tre metri oppure da una fitta siepe di rovi. Si vive nello stesso spazio protetto ma non c’è vita comune: non vengono mai organizzate ricorrenze o festeggiamenti. Caratteristiche principali sono la tranquillità e la cura del verde: non a caso è stato girato qui uno spot del Mulino bianco della Barilla».
L’ex studente ha analizzato anche un altro complesso di Buccinasco, il Rovido. «Qui ci sono 380 famiglie, anche con giovani e single. Più che una gated community questo è un "vicinato difeso", con cancelli elettrici e telecamere e tanti cartelli. "Stop. Proprietà privata. Non sostare e non passare". "Area video - sorvegliata". C’è chi ha installato telecamere - a volte finte - anche davanti alla propria porta. Ma la voglia di sicurezza a volte è a doppio taglio. Anche un malvivente può cercare in un "vicinato difeso" il rifugio ideale. E proprio al Rovido è stato arrestato un latitante della ‘ndrangheta calabrese».
Una notizia, questa, che non meraviglia certo il professor Agostino Petrillo. «Negli Stati Uniti, dove le gated communities e gli insediamenti protetti ospitano oggi un americano su otto, si è scoperto che la criminalità all’interno di queste comunità con cancello non è diversa da quella che c’è fuori. Negli Usa le gated sono vere e proprie città costruite dalla metà degli anni ‘80 in poi. Con la crisi dell’agricoltura, ad esempio, sono stati abbandonati gli aranceti attorno a Los Angeles e in quelle grandissime aree vuote sono state costruite le città protette. A favorire questi nuovi insediamenti è stata, negli anni ‘90, anche la possibilità di poter lavorare a casa, con il computer.
Ma anche quelle comunità sono in declino, perché ci si è accorti che vivere con persone "uguali" a te è rassicurante ma anche noioso. E con la crisi si è capito che le città offrono più occasioni di lavoro. In Italia questi spazi ampi non ci sono, l’urbanizzazione è già altissima. Ma i nuovi progetti raccontano che anche da noi sta avanzando la voglia di cercare un’isola, un rifugio. C’è un’idea di salvezza personale che non passa più da una dimensione collettiva urbana. A spingere sono l’insicurezza e la paura, che sono il marketing di queste città blindate».
Alla cascina Vione c’è una chiesa, dedicata a San Bernardo. Anche questa è di proprietà dei nuovi abitanti. «È ancora consacrata. Si potranno celebrare matrimoni e battesimi. Pagando il servizio, magari si potrà chiamare un sacerdote la notte di Natale. Sarà bellissimo».
La Fortezza America ha moltiplicato solitudini
di Vittorio Zucconi
È la rivincita del ghetto sul sogno della città aperta, la vendetta della segregazione autoinflitta su chi aveva creduto nella speranza della comunità umana. Dal 1989, quando fu lanciata con enorme successo di vendite la prima edizione superesclusiva per milionari a Laguna Beach in California, la "gated community", il quartiere fortezza che si autorinchiude dietro mura, "gate", cancellate, sbarre, "rent-a-cop", i poliziotti a noleggio, si è riprodotta in migliaia di esemplari attraverso tutti gli Stati Uniti.
Ce ne sono per anziani e per coppie con bambini, per bianchi ricchi e inconfessabilmente ancora segregazionisti come per non bianchi che vogliono la rassicurazione della propria omogeneità e identità culturale. Ma il risultato è il patto con il diavolo che due urbanisti californiani, Ed Blakeley della Università della South California e Mary Snyder di Berkley hanno definito in una ricerca del 1997, «la nuova Fortezza America».
In cambio della - spesso falsa, dicono le statistiche - sensazione di sicurezza e di protezione, sta nascendo una nazione di tetri villaggi neo medioevali, di "castella" chiusi in loro stessi, angosciati dall’assedio di tartari là fuori. Sono soprattutto diffuse negli Stati del Sud, Georgia, Lousiana, Alabama, Texas, in un segnale indiretto ma assai indicativo di un rigurgito della voglia di "apartheid" tradito da nomi che spesso portano dentro la parola "plantation", la piantagione di cotone dello zio Tom. Ma ormai non mancano in nessun territorio, da Nord e a Sud, particolarmente in quella Florida, alla quale approdano gli anziani, per rinchiudersi fra loro nel loro tramonto.
Possono essere stupende, con vialetti alberati, praticelli curati da manicuristi dell’erba, piscina, campi di tennis, guardia medica 24/7 e l’obbligatorio golf, o molto più modeste, senza altre "amenities", senza speciali attrazioni che non siano le mura di recinzione attorno al villaggio e l’annoiatissimo poliziotto privato che dovrebbe controllare la "gate", il cancello.
L’epidemia di queste nuove, e insieme antichissime, forme di separazione dal resto della comunità urbana, dove oggi vive il 5% della popolazione americana, 15 milioni di persone, l’equivalente di una New York con le mura attorno, coincide con il panico da criminalità che ebbe negli anni ‘80 il suo picco. La risposta che gli autoghettizzati invariabilmente danno è infatti la paura del crimine, l’ansia di sentirsi al sicuro, il bisogno di omogeneità sociale, spesso razziale.
«Lo facciamo perché i nostri bambini possano crescere tranquilli» rispondono le famiglie. «Non vogliamo più tremare quando attraversiamo la strada come a New York, Chicago o Detroit» dicono gli anziani. E nei ghetti per vecchi, non ci sono bambini. Nipoti possono venire a trovare i nonni, ma poi, via, proibiti. Troppa vita, troppa vitalità nel ghetto dei quasi morti.
Le comunità con l’immaginario ponte levatoio, spesso autosufficienti, con generatori elettrici autonomi, scorte di alimentari e farmacia esclusive, microbus elettrici e servizi propri di raccolta dei rifiuti sono la degenerazione finale della fuga dalla città maledetta che cominciò nel 1951.
Nacquero allora i sobborghi pianificati, le Levittown, sviluppate dal costruttore Levitt in Pennsylvania, con le casette identiche, le famiglie identiche, le automobili identiche, le donne vestite e truccate tutte come le «Stepford Wives», le mogli clonate e disperate, e il senso di un Eden da mezze calzette pendolari dove tutti si conoscevano, non c’erano "colored" e nessuno chiudeva la porta di casa a chiave.
Dai sobborghi, anche per il costo dei terreni, la fuga si estese agli "exurbia" ancora più lontani e isolati dalla infetta metropoli, ma nessun luogo è mai abbastanza lontano dalla paura. Da qui, l’idea di creare queste Disneyland per l’introversione urbana, e proprio Disney, in Florida, ha creato il villaggio dei sogni, tra il parco divertimenti e il ghetto, che non è rimasto immune dal collasso immobiliare del 2008 e si è svuotato. Neppure l’illusione della sicurezza si è realizzata, al contrario. La certezza di sapere che oltre quelle mura comunque mai più alte di 180 centimetri - il massimo consentito dalla legge - ci sono soldi, ha funzionato spesso da calamita, secondo la vecchia legge del celebre gangster Willie Sutton che spiegava di «rapinare le banche perché lì ci sono i soldi». E se niente di materiale sarà rubato, la condanna di queste comunità chiuse, di questi ghetti volontari, è già inflitta: la loro desolata solitudine.
postilla
Niente da fare: è colpa nostra se nel terzo millennio fa ancora notizia, e con tanta ingenuità giornalistica da scoperta dell’acqua calda, l’idea del quartiere recintato. Perché è ovvio, il modello c’è, anche da noi, e da tempo, ed è chi si occupa più continuativamente di città e territorio ad avere la colpa di non comunicare a sufficienza, o farlo con eccessi di puzza sotto il naso, o col solito linguaggio compiaciutamente iniziatico che scoraggia chiunque alla terza riga.
Quando su queste pagine si parlava di Cascina Vione la gated community era evocata soprattutto per modo di dire: sia per motivi di dimensioni (è, appunto, una cascina, non una città: c’è una bella differenza), sia perché quel rifugio per paranoici antiurbani evocava soprattutto una specie di neo-idiotismo da vita rustica, giusto di fianco all’altro modellino di subliminale rincoglionimento suburbano: Milano 3.
Sono decenni, che in Italia in qualche modo – più aderente al modello originale – il quartiere recintato ha messo radici, e basterebbe ad esempio dare un’occhiata a tanti piani di cosiddetta “riqualificazione urbana integrata” (ovvero di iniziativa privata) recenti per vederne tutti i presupposti spaziali e organizzativi. Qualche cancelletto in più, telecamere, vigilanza, altro non sono che complementi di scelte condominiali a una struttura già solidamente definita e piazzata sul mercato. E se la sociofagia da un tanto al chilo, come per tante altre cose, “scopre” la gated community con Vione e annuncia al mondo la tetra novella: fatti suoi.
Noi dovremmo invece guardare in casa nostra, e capire dove abbiamo sbagliato: perché qualcosa non torna. Quando facevo le medie, nei lontani anni ’60, due miei compagni di scuola abitavano al Villaggio Brugherio, che anche senza le ispirate pagine del mancato laureato in sociologia era e resta un quartiere recintato, che si propone e vende in quanto tale. Anche le cittadelle anni ’70, da Milano 2 a San Felice e via dicendo, ricalcano il medesimo modello, e si mettono sul mercato proprio enfatizzandolo.
Comunque, speriamo che almeno questa sia la volta buona: ce le abbiamo, e proviamo a non tenercele più, invece di lanciare strali a vanvera (f.b.)
Il gasdotto Adriatica toccherà 10 regioni e 3 parchi nazionali. Ed è protesta - L’impianto porterà nel nord del Paese il gas che arriva dall’Algeria e dalla Libia - "Perché non si fa passare quest’opera sulla costa dove ne esiste già un’altra?"
CITTÀ DI CASTELLO (PERUGIA) - Ti parlano della foresta Macchia Buia come se fosse una figlia. «Ci si arriva solo a piedi, non ci sono strade. È bellissima. Ci sono distese di faggi e cerri dove incontri i caprioli, i cervi, il lupo e il gatto selvatico che si credeva estinto… Dicono che ci sia anche la lontra». Ma passerà anche qui, il grande Tubo, e taglierà una fetta di bosco larga 40 metri. Taglierà anche fette dell’Alpe di Luna e del Ranco Spinoso, interromperà fiumi e torrenti, scaverà gallerie nelle montagne. Si chiama «Rete Adriatica», questo grande Tubo, e porterà il gas da Massafra di Taranto fino a Minerbio di Bologna, 687 chilometri percorsi in gran parte sul crinale dell’Appennino, ultima zona quasi intatta d’Italia. Il progetto è della Snam rete gas spa, con la partecipazione della British Gas, presentato nel 2005. Il gasdotto porterà nel nord dell’Italia (poi forse in altri Paesi europei) il gas che arriva dall’Algeria e dalla Libia. «Noi abbiamo saputo di questo gasdotto - raccontano Stefano Luchetti e Aldo e Ferruccio Cucchiarini, dei comitati No Tubo di Città di Castello e Apecchio - leggendo un avviso sull’albo pretorio dei nostri Comuni. Era stato affisso per chiedere agli enti locali il riconoscimento della pubblica utilità dell’opera. Subito non ci siamo preoccupati. In fin dei conti un tubo che passa sotto terra, che male farà? Poi ci siamo informati. Questo tubo ha un diametro di 1,2 metri e va messo in una trincea cinque metri sotto terra. Ma ha bisogno di una servitù di venti metri per parte, insomma di una fetta di territorio di 40 metri. E serviranno, in molte zone montane, anche strade che permettano l’accesso delle ruspe e degli escavatori necessari ai lavori di sbancamento e alla messa in posa del tubo. Il nostro dubbio più grande è questo: perché si fa passare il tubo sul crinale appenninico, così delicato, e non sulla costa adriatica, dove già esiste un altro gasdotto?».
In effetti, il progetto iniziale prevedeva il raddoppio sulla costa, come avvenuto per l’altro gasdotto sulla costa tirrenica. Poi la Snam ha annunciato di avere riscontrato «insuperabili criticità» su quel percorso - come scrivono i Comitati di protesta in un esposto presentato alla Commissione europea - e ha deciso di deviare il grande tubo sull’Appennino. Ma qui i problemi si aggravano. «Il gasdotto - dice Stefania Pezzopane, assessore al Comune dell’Aquila - segue infatti la faglia del nostro terremoto ed entra poi in Umbria, sulla faglia del terremoto del settembre 1997. Noi abbiamo saputo in ritardo di questo progetto. La richiesta è arrivata infatti al Comune dell’Aquila il giorno 8 aprile 2009, due giorni dopo il grande sisma, quando ancora si cercavano i morti e i feriti. Avremmo dovuto dare risposta scritta entro trenta giorni, altrimenti il silenzio sarebbe stato interpretato come assenso. Ma in quei giorni il Comune nemmeno aveva una sede. Appena ripreso fiato, dopo i mesi della disperazione, l’anno scorso come presidente della Provincia ho firmato il ricorso alla Comunità europea. Adesso anche il Comune ha preso la stessa decisione, così come la provincia di Pesaro, quella di Perugia, i Comuni di Gubbio, Città di Castello e tante associazioni ambientaliste come Wwf e Italia nostra». In zona fortemente sismica è anche la prevista centrale di decompressione di Sulmona. «Occuperà un’area - dice Mario Pizzola, del comitato Cittadini per l’ambiente - di 12 ettari, vicino a zone abitate, e sarà un brutto biglietto da visita per chi entra nel parco della Maiella. Noi abbiamo già raccolto 1.300 firme per denunce individuali alla Comunità europea. È assurdo aggiungere rischi in un territorio come il nostro che già dovrebbe essere messo in sicurezza».
Nel documento inviato all’Europa si dice che il gasdotto ha ricevuto autorizzazioni parziali, e in alcuni casi scadute, per ognuna delle cinque tratte in cui è stato suddiviso, ma che manca una Vas, valutazione ambientale strategica che studi il progetto nel suo insieme. Si insiste sul fatto che il percorso attuale tocca i parchi nazionali della Maiella, dei monti Sibillini e del Gran Sasso - qui oltre ai lupi vivono anche gli orsi - oltre al parco regionale del Velino - Silente e 21 fra siti d’interesse comunitari e zone a protezione speciale, dal lago di Capaciotti ai boschi di Pietralunga. Luoghi come Macchia Buia o Alpe di Luna che rischiano di essere falciati, come un prato, dal grande Tubo.
Dovrebbe esser ormai chiaro a tutti, anche a chi vorrebbe parlar d´altro e tapparsi le orecchie, anche a chi non vede l´enormità della vergogna che colpisce una delle massime cariche dello Stato, che una cosa è ormai del tutto improponibile: che il presidente del Consiglio resti dov´è senza neppure presentarsi al Tribunale, e che addirittura pretenda di candidarsi in future elezioni come premier. Molti lo pensano da tempo, da quando per evitare condanne il capo di Fininvest considerò la politica come un sotterfugio. Non un piano nobile dove si sale ma uno scantinato in cui si «scende», si traffica, ci si acquatta meglio.
La stessa ascesa al Colle resta, nei suoi sogni, una discesa in sotterranei sempre più inviolabili. Molti sono convinti che i suoi rapporti con la malavita, la stretta complicità con chi in due gradi di giudizio è stato condannato per concorso in associazione mafiosa (Dell´Utri), il contatto con un uomo – Mangano – che si faceva chiamare stalliere ed era il ricattatore distaccato da Cosa Nostra a Arcore – erano già motivi sufficienti per precludergli un luogo, il comando politico, che si suppone occupato da chi ha avuto una vita rispettosa della legge.
Ma adesso l´impegno a fermare quest´uomo infinitamente ricattabile perché incapace di controllare la sua sessualità deve esser esplicitamente preso dai responsabili politici tutti, dalla classe dirigente in senso lato, e non solo detto a mezza voce. È una specie di sermone che deve essere pronunciato, solenne come i giuramenti che costellano la vita dei popoli. Un sermone che non deleghi per l´ennesima volta il giudizio morale e civile alla magistratura. Che pur rispettando la presunzione d´innocenza, certifichi l´esistenza di un ceto politico determinato a considerare l´evidenza dello scandalo e a trarne le conseguenze prima ancora che i tribunali si pronuncino. Ci sono reati complessi da districare, per i giudici. Questo non vieta, anzi impone alla politica di delimitare in piena autonomia la dignità o non dignità dei potenti.
Non è più solo questione del conflitto di interessi, che grazie alla legge del 1957 avrebbe sin dall´inizio potuto vietare l´accesso a responsabilità politiche di un titolare di pubbliche concessioni (specie televisive). Chi è sospettato d´aver pagato prostitute o ragazze minorenni, d´aver indotto – sfruttando il proprio potere – un pubblico ufficiale a fare cose illecite, chi è talmente impaurito dall´arresto di Ruby dal presentarla in questura come nipote di Mubarak, chi ha avuto rapporti con mafiosi e corrotto testimoni o giudici, deve trovare chiuse le porte della politica, anche se i Tribunali ancora tacciono o se vi son state prescrizioni. Attorno a lui deve essere eretto una sorta di alto muro, che impersoni la legge, la riluttanza interiore d´un popolo a farsi rappresentare da un individuo dal losco passato e dal losco presente. Tra Berlusconi e la politica questo muro non è stato mai eretto, nemmeno dall´opposizione quando governava. Se non ora, quando?
È così da millenni, nella nostra civiltà: una società ha anticorpi che espellono le cellule malate, o non li ha e decade. L´ostracismo fu un prodotto della democrazia ateniese, nel VI secolo a.C. Eraclito scrive: «Combattere a difesa della legge è necessario, per il popolo, proprio come a difesa delle mura». Berlusconi non avrebbe dovuto divenire premier, e non perché si disprezzi il popolo che lo ha eletto: non avrebbe dovuto neanche potersi candidare. Comunque, oggi, non può restare o tornare in luoghi del comando che hanno una loro sacralità: non può, se la coerenza non è una quisquilia, nemmeno presentarsi come patrono del proprio successore. Non è un monarca che va in pensione.
Gli italiani più restii a vedere lo sanno, altrimenti non avrebbero acclamato in simultanea, da 16 anni, Berlusconi e tre capi dello Stato. È segno che in un angolo della coscienza, sognano quel decalogo che nelle parole di Thomas Mann «altro non è che la quintessenza dell´umana decenza»: il non rubare, il non pronunciare il nome di Dio invano, il non dire il falso, il non sbandierare valori senza rispettarli, il non adulterare ciò che è chiaro e puro confondendolo con il torbido e l´impuro. È come se i padri costituenti avessero presentito tutto questo, vietando plebisciti di capi di governo o di Stato: come se condividessero la diffidenza di Piero Calamandrei per l´inclinazione italiana alla «putrefazione morale, all´indifferenza, alla sistematica vigliaccheria».
La responsabilità del sermone è dunque per intero nelle mani dei parlamentari, liberi per legge da vincolo di mandato. Così come è in mano ai contro-poteri che costituzionalmente limitano il dominio d´uno solo (parlamento, magistratura, stampa). Contro-poteri su cui la sovranità popolare non ha il primato, se è vero che essa viene «esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art 1).
Già una volta, nella «chiamata di correo» di Craxi, i politici caddero nel baratro, degradando se stessi. Fu il buco nero di Tangentopoli, e spiega come mai ancora abitiamo un girone dantesco fatto di menzogna e omertosi sortilegi. Il buco nero sono le parole di Craxi in Parlamento, il 3 luglio ´92: «Nessun partito è in grado di scagliare la prima pietra. (...) Ciò che bisogna dire, e che tutti del resto sanno, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale.(...) Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia (...) criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest´aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi, i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro».
Difficile dimenticare il silenzio che seguì: nessun deputato si alzò, e ancor oggi la nostra storia stenta a non essere storia criminale. Ancor oggi si vorrebbe sapere perché i deputati che si ritenevano onesti rimasero appiccicati alla poltrona. Craxi pagò appropriatamente, perché le sentenze erano passate in giudicato e la legge è legge, ma pagò per molti: anche per Berlusconi, che con il suo aiuto costruì il proprio apparato di persuasione televisiva e profittò del crollo della Prima Repubblica sostituendola con un suo privato giro di corrotti e corruttori.
I deputati rischiano di restar seduti anche oggi, come allora: per schiavitù volontaria, o peggio. Il sermone oggi necessario deve essere un impegno a che simili ignominie non si ripetano. Proprio perché il conflitto d´interessi è sorpassato, e siamo di fronte a un conflitto fra decenza e oscenità, fra servizio dello Stato e servizio dei propri comodi, fra libertinaggio innocente e libertinaggio commisto a reati. Da molto tempo, c´è chi ha smesso di parlare di Palazzo Chigi: preferisce parlare di palazzo Grazioli come sede dell´esecutivo, e fa bene. Che si salvi, almeno, l´aura associata ai luoghi italiani del potere.
Domenica scorsa, Berlusconi ha fatto dichiarazioni singolari, oltre che ridicole. Definendo gravissima, inaccettabile, illegale, l´intromissione dei magistrati nella vita degli italiani ha detto: «Perché quello che i cittadini di una libera democrazia fanno nelle mura domestiche riguarda solo loro. Questo è un principio valido per tutti, e deve valere per tutti. Anche per me». L´uguaglianza fra cittadini equivale per lui alla libertà di fare quel che si vuole, in casa: anche un reato, magari. Non riguarda certo l´uguaglianza di fronte alla legge. L´antinomia stride, e offende. Siamo ben lontani dall´ingiunzione di Eraclito, se tutto diventa lecito nelle mura domestiche, e non appena succede qualcosa di criminoso l´uguaglianza cessa d´un colpo, e comincia l´età dei porci di Orwell, in cui tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
Nel 1980 la marcia contro gli operai organizzata dalla Fiat servì per imporre una ristrutturazione produttiva senza precedenti. Decine di migliaia di lavoratori furono costretti a lasciare la fabbrica. Da quel momento i rapporti sociali iniziarono a mutare rapidamente e sempre a favore dell'impresa. Ma l'azienda, che pure aveva imposto inflessibilmente il suo primato, non ebbe la tentazione di chiudere la fabbrica al sindacato sconfitto.
Anche in quegli anni di duro scontro, esisteva un patto di reciproco rispetto delle regole di convivenza democratica. Oggi non è più così. L'intollerabile arroganza di Marchionne serve proprio a mettere in chiaro che quell'epoca è finita. Si torna agli istinti peggiori del capitalismo di rapina e nessuno si aspetti sconti, tanto la sinistra è stata (temporaneamente) messa a tacere.
Se questo salto di paradigma viene osservato attraverso le città, si vede che la lacerazione di quel patto è stata compiuta da oltre un decennio. Un solo esempio. Nelle città del welfare si era obbligati a garantire le aree per il verde e i servizi: era scontato che pur in un quadro di ferrea gerarchia sociale c'era comunque il riconoscimento che la città è il luogo di tutti. È il luogo pubblico per eccellenza. È il luogo della democrazia.
Oggi il quadro è distrutto. Alcuni esempi: la cancellazione di ogni regola urbana, la vendita del patrimonio pubblico, l'espulsione dei ceti popolari (a Milano e Roma i pendolari percorrono 50 chilometri senza adeguati servizi di trasporto). Nella città del neoliberismo non si ha nulla in comune: i servizi pubblici vengono chiusi uno dopo l'altro perché «non ci sono soldi». Valgono solo i rapporti economici. E come l'economia di rapina di questi anni, anche le città mostrano una crisi profonda perché le condizioni di vita quotidiana sono drasticamente peggiorate.
Se l'analisi è corretta, non possiamo attardarci a richiedere il ripristino di regole formali, ridateci i piani urbanistici e la partecipazione, ad esempio. Se vogliamo salvarci dalla follia del fallimento del liberismo dobbiamo saper delineare una prospettiva di uscita. E siccome abbiamo ancora importanti presidi in molte amministrazioni che operano in favore del bene comune e più in generale dobbiamo avere l'ambizione di proporre una reale alternativa alla cultura liberista, provo a delineare, in vista del seminario degli amici del manifesto del 22 gennaio, alcune linee di azione che coniugano insieme difesa del territorio e la costruzione delle basi per lo sviluppo di un'economia solidale.
In primo luogo dobbiamo cancellare ogni possibilità di consumare altro suolo agricolo. Le nostre città si sono molto più estese di quanto sia la popolazione che le occupa. Occorre dunque chiudere questa fase storica della vita delle nostre città e praticare solo il recupero e la riqualificazione. Non è forse vero che Detroit ha avviato un piano di demolizioni di parti di città che dopo la grande crisi sono in pieno degrado? E se ci dicono ogni giorno che non ci sono i soldi per nulla, neppure per i trasporti, come è pensabile continuare a dilatare le città?
Nel Veneto che va sott'acqua alla prima pioggia, la banda del capitale finanziario che si è impadronita del nostro territorio propone oggi di urbanizzare altre migliaia di ettari di campagna per creare inutili cattedrali del deserto. Hanno fin qui avuto consenso perché hanno saputo far credere (grazie all'immenso potere mediatico) che dietro quelle speculazioni c'erano posti di lavoro. Non era vero ed è in atto un diffuso ripensamento critico di larghe masse di cittadini, di giovani in particolare. Sarebbe dunque colpevole perdere questa occasione per costruire una nostra offensiva utilizzando le individualità presenti in Parlamento ma anche la forma della proposta di iniziativa popolare.
Fermata questa follia (solo italiana) che immobilizza, come afferma Salvatore Settis, una ricchezza gigantesca, occorre dare concretezza alla nostra proposta. Della riconversione produttiva in senso ambientale hanno parlato in molti, ad iniziare da Guido Viale. Mi fermo quindi al settore agricolo. Il grande patrimonio di terre di uso civico, possono ad esempio essere affidate a cooperative di giovani a canoni garantiti dalle Regioni: e se qualcuno dirà che è statalismo basta ricordare il fiume di soldi pubblici che vanno alle imprese "amiche" ad iniziare dalla Fiat. Eppoi, sempre a livello locale laddove è possibile (e nell'Appennino sempre meno abitato si potrebbe fare agevolmente) gli enti locali potrebbero fare una intelligente politica di acquisizione di territori abbandonati. Con pochi soldi, quelli ad esempio risparmiati nel non dover più correre appresso alle continue espansioni urbane, si possono acquistare centinaia di ettari e restituirli all'agricoltura.
Lavoro anche questo, mica solo il loro. E se poi i comuni iniziassero a privilegiare la filiera alimentare "corta" attrezzando luoghi di mercato per i prodotti del circondario, ne guadagneremmo anche in salute non dovendo acquistare più le "monocolture" del cartello della grande distribuzione.
E anche le esperienze importanti fin qui concretizzate, penso alla Città dell'altra economia di Roma, devono essere alimentate da una visione urbana alternativa, non marginalizzate, ma poste al centro delle politiche urbane. Le città sono nate dal mercato. Possiamo provare a riconvertirle verso forme sostenibili. Loro sono fermi all'ottocento di Marchionne. Se non ora quando?
L'onore di Cipputi
di Rossana Rossanda
Hanno votato tutti i salariati, ieri a Mirafiori, sull'accordo proposto dall'amministratore delegato Marchionne. Tutti, una percentuale che nessuna elezione politica si sogna. E sono stati soltanto il 54% i sì e il 46% i no, un rifiuto ancora più massiccio di quello di Pomigliano. Quasi un lavoratore su due ha respinto quell'accordo capestro, calato dall'alto con prepotenza, ed esige una trattativa vera.
Per capire il rischio e la sfida di chi ha detto no, bisogna sapere a che razza di ricatto - questa è la parola esatta - si costringevano i lavoratori: o approvare la volontà di Marchionne al buio, perché non esiste un piano industriale, non si sa se ci siano i soldi, vanno buttati a mare tutti i diritti precedenti e al confino il solo sindacato che si è permesso di non firmare, la Fiom, o ci si mette contro un padrone che, dichiarando la novità ed extraterritorialità di diritto della joint venture Chrysler Fiat, si considera sciolto da tutte le regole e pronto ad andare a qualsiasi rappresaglia. L'operaia che è andata a dire a Landini «io devo votare sì, perché ho due bambini e un mutuo in corso, ma voi della Fiom per favore andate avanti» dà il quadro esatto della libertà del salariato. E davanti a quale Golem si è levato chi ha detto no. Tanto più nell'epoca che Marchionne, identificandosi con il figlio di Dio, ha definito «dopo Cristo», la sua.
Si vedrà che farà adesso, con la metà dei dipendenti che gli ha fatto quel che in Francia chiamano le bras d'honneur e la sottoscritta non sa come si dica in Italia, ma sa come si fa; perché alla provocazione c'è un limite, o almeno c'era. Nulla ci garantisce, né ci garantirebbe anche se avesse votato «sì» l'80 per cento delle maestranze, che Marchionne sia interessato a tenere la Fiat, a farla produrre quattro volte quanto produce ora, a presentare quali modelli e se li venderà in un mercato europeo stagnante, nel quale la Fiat stagna più degli altri. Se avesse intelligenza industriale, o soltanto buon senso, riaprirebbe un tavolo di discussione, scoprirebbe le sue carte, affronterebbe il da farsi con chi lo dovrà fare. Questo gli hanno mandato a dire i lavoratori di Pomigliano e quelli di Mirafiori.
Da soli, solo loro. Perché la famiglia Agnelli, già così amata dalla capitale sabauda da aver pianto in un corteo interminabile sulle spoglie dell'ultimo della dinastia che aveva qualche interesse produttivo, l'avvocato, non ha fatto parola. In questo frangente si è data forse dispersa, non si vede, non si sente, pensa alla finanza.
Né ha fatto parola il governo del nostro scassato paese, che pure, quale che ne fosse il colore, ha innaffiato la Fiat di miliardi, ma si lascia soffiare l'ultimo gioiello in nome della vera modernità, che consiste nel sapere che non si tratta di difendere né un proprio patrimonio produttivo, né i propri lavoratori - quando mai, sarebbe protezionismo, da lasciare soltanto agli Usa, alla Francia e alla Germania che si prestano a raccogliere le ossa dell'ex Europa. A noi sta soltanto competere con i salari dell'Europa dell'Est, dell'India e possibilmente della pericolosa Cina.
Tutti i soloni della stampa italiana hanno perciò felicitato Marchionne che, sia pur ingloriosamente e sul filo di lana, è passato. La sinistra poi è stata incomparabile. Quella politica e le confederazioni sindacali. Aveva dalla sua parte storica, che è poi la sua sola ragione di esistere, una Costituzione che difende come poche i diritti sociali in regime capitalista. Gli imponeva - gli impone - quel che chiamano il modello renano, un compromesso non a mani basse, keynesiano, fra capitale e società, che garantisce in termini ineludibili la libertà sindacale. Fin troppo se le confederazioni sono riuscite fra loro, attraverso qualche articolo da azzeccagarbugli dello statuto dei lavoratori, a impegolarsi in accordi mirati a far fuori i disturbatori, tipo i fatali Cobas, per cui oggi nessuno osa attaccarsi all'articolo 39, che - ripeto - più chiaro non potrebbe essere. La Cgil ha strillato un po' ma avrebbe preferito che la Fiom mettesse una «firma tecnica» a quel capolavoro suicida. Quanto ai partiti non c'è che da piangere. D'Alema, che sarebbe dotato di lumi, Fassino, Chiamparino, Ichino, il Pd tutto hanno dichiarato che se fossero stati loro al posto degli operai Fiat - situazione dalla quale sono ben lontani - avrebbero votato sì senza batter ciglio. Diamine, non c'erano intanto 3.500 euro da prendere? Ma che vuole la Fiom, per la quale è stato coniato lo squisito ossimoro di estremisti conservatori?
Molto basso è l'onore d'Italia, scriveva un certo Slataper. Da ieri lo è un po' meno. Salutiamo con rispetto, noi che non riusciamo a fare granché, quel 46% di Cipputi che a Torino, dopo Pomigliano, permette di dire che non proprio tutto il paese è nella merda.
TORINO
Voto di libertà, un altro accordo ora è possibile
di Loris Campetti
Le luci rimangono accese a Mirafiori. Questa volta è andata diversamente dall'autunno '80, non ci sono lacrime di disperazione, nessuno grida al tradimento perché c'è un sindacato vero, sia pure solo uno, al fianco di chi si è giocato la partita più difficile sulle linee di montaggio. Domani o quando la cassa integrazione darà una tregua i carrozzieri varcheranno di nuovo i cancelli di Mirafiori, passeranno il tesserino a quello che una volta si chiamava «l'imparziale» perché fermava per i controlli chi voleva, supereranno i tornelli, indosseranno la tuta e si collocheranno alla catena nel luogo e con la mansione che verrà loro assegnata.
In tanti, la maggioranza al montaggio, lo faranno a testa alta per aver retto l'urto terribile contro un padrone delle ferriere globalizzato che voleva tutto da loro, corpo e anima, e invece dovrà accontentarsi di un eventuale acquisto che non potrà che essere contrattato della forza lavoro. L'anima è salva, i diritti si possono difendere collettivamente. Il corpo è piegato dalla fatica, come prima.
Questo dice l'applauso che alle 22 scatta alla porta 2, in una notte storica che finirà solo all'alba con il risultato sul voto del diktat di Sergio Marchionne. Lui, il monarca amato a destra e a sinistra che parla di modernità fasulla e ingiusta, sta nel suo ufficio al Lingotto, anche lui aspetta per sapere quanti chili di dignità operaia avrà strappato, quanto sarà riuscito a lacerare lavoratori e sindacati, e più pomposamente quanto avrà cambiato l'Italia. I numeri sono bugiardi, hanno vinto i perdenti e chi dice di aver vinto ha perso la scommessa e la dignità. Mentre la notte scorre alla porta 2 il clima cambia, i dati delle urne al montaggio confermano che non è iniziato un secondo autunno operaio davanti a questi cancelli. Per raggiungere il 54% dei sì, la Fiat che con il suo esercito di ascari sindacali partiva dal 71%, ha dovuto cammellare alle urne le sue truppe scelte, cioè le peggiori: capi, capetti e quadri, yesmen usi a obbedir tacendo che hanno fatto la differenza, insieme ad altri ascari in tuta operaia: i «pipistrelli» della notte, ruffiani della gerarchia ripagati con la regalia del turno notturno che porta in tasca trenta denari in più. Quattrocento quarantuno yesmen hanno votato in massa, tranne una ventina di eroi, per il grande capo e così ha fatto il 70% dei pipistrelli. Numeri prevedibili, e previsti dal vostro cronista, che avrebbero potuto essere anche più impietosi.
Qualcuno ai cancelli piange, ma di commozione quando si accumulano i dati dei vari seggi che spiegano una metafora sociale: chi è vincolato alla catena di montaggio, ripete tutti i minuti, le ore, i giorni, gli anni della sua vita lo stesso movimento, si ammala di tendiniti e tunnel carpale, ha urlato il suo no a chi lo vuole non solo vincolato, subordinato, ma schiavo. Poi, via via che l'innovazione tecnologica riduce la quantità di lavoro vivo necessario a unità di prodotto, via via che la durata delle mansioni (la «battuta» in gergo operaio) si allunga, si sopportano un po' di più i soprusi fino a viverli come regalo, di notte o in camice invece che in tuta. I «vaselina» che manipolano il personale non si sono mai sognati di disobbedire in vita loro, a forza di far abbassare la testa e la schiena ai sottoposti non riescono più a drizzare le loro, di teste e schiene. Eccola l'analisi sociale del voto di Mirafiori, parla di quelle condizioni materiali su cui si può passare con le scarpe chiodate per i Chiamparini, i Fassini, i Bersani. E dire che qualcuno si era indignato quando, sia pure in modo più elegante di quanto noi si scriva, il segretario della Fiom Maurizio Landini aveva consigliato loro di fare una capatina alla catena di montaggio e poi darsi una regolata.
Chi è stato per giorni ai cancelli di Mirafiori queste cose le sa, tutti conoscevano la differenza tra lavorare in linea, in lastratura, in verniciatura, di giorno o di notte, in giacchetta e sapevano che quelle differenze avrebbero trovato un riscontro nel voto. Sapevano che il sì con la pistola puntata alla tempia avrebbe vinto di poco, non si sono fatti ingannare dal voto strepitoso dei montatori. Speravano orgogliosamente che i no fossero almeno un punto sopra i no di Pomigliano, in una sana competizione territoriale della dignità operaia. Albeggia quando i numeri confermano le speranze, si applaude e ci si abbraccia. In città, la città dell'auto ferita da un trentennio di ideologia anti-operaia, uno striscione portato dagli amici delle tute blu e della Fiom (l'associazione Terra del fuoco) scende dalla Mole antonelliana per ringraziare i 2.325 no degli eroi di Mirafiori. Ma bisogna ringraziare, finalmente, anche la città, che non si è nascosta in casa, non ha fatto il tifo per i ricchi prepotenti, si è ricordata che ogni cittadino ha un padre che ha passato la vita a Mirafiori, un figlio che fa l'interprete precario per la Fiat, un nonno licenziato da Valletta o Romiti, o lavora nell'indotto dell'auto, in uno show room, in una «piola» davanti alla fabbrica. Questa volta Torino, la sua parte migliore troppo a lungo silente, ha detto che la Fiat ha esagerato, Marchionne se ne potrebbe anche andare in Canada o a Detroit, si chiede dove si siano imboscati rampolli e nipotini di primo, secondo e terzo letto degli Agnelli: nascosti, o fuggiti come i Savoia nel '43. Torino democratica, invece, ha rimesso i piedi fuori casa perché ci si può piegare fino a un certo punto, un po' di dignità ci vuole, concetto che qui si traduce con «ciuc ma dignitous».
Pietro dai cancelli non s'è mai mosso in questi giorni di fuoco, se non per correre in piazza Statuto per la fiaccolata di mercoledì scorso. Il compagno Pietro, una vita alle presse di Mirafiori, libero da diversi anni; quando se ne andò dalla fabbrica scrisse una lettera di dimissioni all'avvocato Agnelli e per conoscenza al manifesto: «Ho scelto questa data simbolica, il 25 aprile, per riprendermi la mia libertà». Ora fa il creativo, «organico» al movimento operaio. È lui che aveva disegnato il Marx dei 35 giorni, è suo il disegno delle mani operaie che aprono le sbarre con cui è scritto l'acronimo Fiat. Ascolta i risultati del voto trasmessi alla porta 2, si ricorda la vergogna dell'80 «quando ci si piegò ai capi in marcia senza rispondere». I suoi occhi dicono che questa volta è diverso, un'altra storia può cominciare.
La paura del voto sì, strappato alla coscienza; l'orgoglio e la dignità del voto no, con la Fiom, un voto di rispetto per sé e per i figli, una speranza accesa sul futuro. Anche sul nostro di futuro. Per fare che? Per rovesciare quel contratto fasullo e scriverne un altro, con il confronto tra uguali e non tra servi e padrone. È l'alba di un nuovo giorno, il clima è incerto ma la nebbia s'è un po' diradata, la nottata è passata e le luci non si sono spente a Mirafiori. Noi del manifesto stiamo con questo operai, noi stiamo con la Fiom. Le ultime notti le abbiamo passate fisicamente e metaforicamente alla porta 2. Non in un ufficio all'ultimo piano del Lingotto come ha fatto, forse solo metaforicamente, la politica della vergogna.
La vera sfida di Mirafiori comincia adesso. Sapremo solo a notte fonda l´esito del referendum . Ma quando il nuovo paradigma della modernità impone una riscrittura così radicale del patto tra Capitale e Lavoro, rifondandolo sullo scambio disuguale e asimmetrico tra un salario e il nulla, l´esito sembra scontato.
«Vinceranno i sì, anche se in molti avrebbero preferito votare no», era la previsione della vigilia. I primi voti scrutinati danno un risultato diverso, con i sì e i no in bilico intorno al 50%. Già questo sarebbe un risultato clamoroso, che potrebbe far saltare tutti gli scenari. Con la sua consueta, lapidaria schiettezza, l´amministratore delegato del Lingotto Sergio Marchionne aveva spiegato la sua linea: se prevalgono i sì andiamo avanti con l´investimento e diamo una scossa all´Italia, se prevalgono i no ce ne torniamo a festeggiare a Detroit e ce ne andiamo a fare auto in Canada. Una posizione «win-win»: io vinco comunque. La realtà è assai più complessa. In attesa di capire l´esito della consultazione, qualcosa si può dire subito. Su due punti fondamentali: i contenuti dell´accordo e sulle prospettive che si aprono.
1) Sui contenuti dell´accordo. È diseguale lo scambio sui diritti (ammesso che su questo terreno, nonostante la dura legge della globalizzazione, qualcosa si possa e si debba scambiare nelle democrazie occidentali). Ma si potrebbe dire: hai ceduto sul diritto individuale allo sciopero, hai ceduto sul «mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d´azienda», hai ceduto sui «diritti di costituzione e di assemblea delle rappresentanze sindacali aziendali». Ma in cambio hai ottenuto la versione italiana della Mitbestimmung, cioè la co-gestione conquistata da decenni dai sindacati tedeschi della Ig-Metall, presenti nei consigli di sorveglianza della Volkswagen, oppure la partecipazione all´azionariato ottenuta dai sindacati americani dell´Uaw, presenti nei consigli di amministrazione con il 63% della Chrysler. E invece non è così.
È diseguale lo scambio sulle retribuzioni (ammesso che siano vere le cifre scritte dall´azienda sull´accordo separato). Si potrebbe dire: hai ceduto sulle pause ridotte, hai ceduto sui turni, hai ceduto sulle indennità di malattia. Ma in cambio hai ottenuto l´allineamento del tuo salario medio annuo (23 mila euro in Italia) a quello dei tuoi colleghi tedeschi (42 mila euro in Germania). E invece non è così. La tua pausa ridotta vale 18 centesimi l´ora, cioè un euro al giorno, cioè 32 due euro al mese, lordi e persino esclusi dal calcolo del Tfr. Il tuo straordinario possibile, 120 ore all´anno, è a discrezione dell´azienda, vale teoricamente 3.600 euro di aumento futuro, ma sconta una contraddizione attuale: l´accordo prevede «la cassa integrazione straordinaria, per crisi aziendale... per tutto il personale a partire dal 14 febbraio per la durata di un anno». Come potrai fare lo straordinario, se starai in Cig per tutto il 2011?
2) Sulle prospettive future. Resta il sospetto che fossero vere le affermazioni sfuggite a Marchionne a «Che tempo che fa», il 24 ottobre: «Senza l´Italia la Fiat potrebbe fare molto di più...». Produrre auto in Italia, per la Fiat, è un problema che neanche l´accordo su Mirafiori può risolvere. Al supermanager italo-svizzero-canadese, apolide e multipolare, il Belpaese non conviene. Per due ragioni di fondo.
Non c´è convenienza «politica». Lo dicono i fatti. Finora il salvataggio e il rilancio della Fiat sono avvenuti sulla base di uno schema collaudato con gli Stati: io costruisco, salvo o rilancio le fabbriche, tu mi paghi. È avvenuto in una prima fase in Italia, finchè sono andati avanti gli ecoincentivi. È accaduto in Messico, dove il Lingotto ha ottenuto un prestito statale da 500 milioni per rifare l´impianto di Toluca. È accaduto in Serbia, dove per l´impianto di Kragujevic il gruppo incassa un contributo statale di 10 mila euro per ogni assunzione. È accaduto in America, dove l´operazione Chrysler è passata attraverso il «bailout» pubblico da 17 miliardi di dollari. E sta accadendo in tutti gli altri Paesi dove la Fiat vuole essere presente, dal Canada al Brasile, dall´Argentina alla Polonia.
Nel mondo i governi stanno spendendo soldi per salvare l´auto, e tra i principali stakeholder del settore ci sono proprio gli Stati. Obama ha speso 60 miliardi di dollari per le Chrysler, Ford e Gm. Sarkozy ha speso 7 miliardi per Psa-Renault. La Merkel ha speso 3 miliardi per la Opel. In Italia gli aiuti pubblici sono finiti nel 2004. Per la Fiat, dunque, lo Stato non è un interlocutore. E non lo è il governo, che non ha un euro da spendere e un «titolo» per intervenire. Ecco perché Marchionne può andarsene, se crede e quando crede, con la «benedizione» di Berlusconi, che in due anni (di cui quasi uno da ministro dello Sviluppo ad interim) non ha trovato il tempo per convocare almeno una riunione sul caso Fiat.
Non c´è convenienza economica. Lo dicono i numeri. La Fiat produce all´incirca 2,1 milioni di automobili l´anno. Circa 730 mila sono in Brasile, dove lavorano 9.100 dipendenti: ogni operaio sforna 77,6 automobili. Circa 600 mila in Polonia, dove lavorano 6.100 dipendenti: 100 auto per ogni operaio. In Italia 22.080 operai producono meno di 650 mila auto: 29,4 auto per dipendente. Il tasso medio di utilizzo degli impianti, da noi, oscilla tra il 30 e il 40%, con punte bassissime a Cassino (24%) e a Pomigliano (14%), contro una media dell´80% negli impianti dei costruttori franco-tedeschi. Su queste basi, in teoria, si fonderebbero gli accordi separati a Pomigliano e Mirafiori: bisogna lavorare di più, per schiodare l´Italia dallo scandaloso 118esimo posto (su 139) nella classifica Ocse sull´efficienza del lavoro.
Ma qui c´è il grande rebus e il grande limite della Dottrina Marchionne. Il grande rebus: riportare il coefficiente di utilizzo degli impianti a livelli competitivi è un impegno colossale: può bastare il «modello» di accordo sottoscritto da Fim, Uilm, Fismic e Ugl il 23 dicembre scorso? Nessuno, realisticamente, lo può credere. Non può bastare la rimodulazione dei turni su quattro diverse tipologie. Non può bastare la riduzione di 10 minuti delle pause giornaliere infra-turno. Non possono bastare le 120 ore annue di «lavoro straordinario produttivo». Non può bastare il disincentivo all´assenteismo basato sul mancato pagamento del primo giorno di malattia collegata a periodi pre o post festivi. Non può bastare nemmeno la «nuova metrica del lavoro» imposta dal famigerato metodo «Ergo-Uas», la scomposizione post-taylorista dell´ora di lavoro di ogni operaio in 100 mila unità di «tempo micronizzato» e la previsione pseudo-orwelliana di 350 operazioni effettuate dal singolo operaio in 72 secondi ciascuna.
Il problema della produttività non si risolve così, senza una strategia sull´innovazione di prodotto. Produrre di più per fare che cosa? Questo è il grande limite della Dottrina Marchionne. Se con un colpo di bacchetta magica il «ceo» riuscisse a far lavorare gli impianti italiani a ritmi di produttività tedeschi o americani, e se per magia ogni operaio di Mirafiori o di Pomigliano sfornasse 100 automobili all´anno come il «collega» serbo, la Fiat non saprebbe che farne. Le vetture prodotte in più resterebbero invendute nei piazzali. La Fiat non è in affanno perché la sua offerta, sul piano dei volumi, non riesce a soddisfare la domanda. Non è in affanno per ragioni di quantità, ma di qualità. È in difficoltà perché non ha nuovi modelli, soprattutto nella gamma alta e nel segmento a più elevato contenuto ecologico e tecnologico. E perché i modelli che ha soffrono sempre di più la concorrenza straniera. Nel 2010 il calo delle immatricolazioni Fiat (meno 16,7%) è il doppio della media del mercato (-9,2). E la quota di mercato si è ridotta al 30% (era 32,7 nel 2009).
Sulla carta, il rilancio di Mirafiori dovrebbe servire a colmare queste lacune. Con la produzione di «automobili e Suv di classe superiore per i marchi Jeep e Alfa Romeo». Con la possibilità di «produrre fino a più di mille auto al giorno per un totale di 250-280 mila vetture l´anno». Con l´investimento promesso che «supera il miliardo di euro, suddiviso tra Fiat e Chrysler». Questo è l´impegno del Lingotto, affidato al comunicato stampa accluso all´intesa e sottoscritto dai sindacati firmatari. Non c´è nulla, nel testo dell´accordo, che ne garantisca il rispetto. E non c´è nulla, nel misterioso piano «Fabbrica Italia» da 20 miliardi, che apra uno scenario industriale plausibile sui prossimi dieci anni. Si tratta allora di aggrapparsi disperatamente a quello che si ha, qui ed ora. E per il futuro, affidarsi a Marchionne. Una «scommessa» giocata su una «promessa». Il rischio è altissimo. Se fallisce, perdono tutti. Perdono i sindacati e la politica. Ma perde anche la Fiat. E perde anche Marchionne, anche se se ne torna a brindare a Detroit.
m.gianninirepubblica.it
Sono tornati a parlare, firmano appelli e ci mettono la faccia. Dopo anni di latitanza, c’è un timido segnale: la cultura tornerà accanto al lavoro?
All’ingresso della Sala Valdese di corso Vittorio Emanuele avanza solitaria ed elegante la figura di Gianni Vattimo, filosofo temerario capace di studiare con Hans-Georg Gadamer e Luigi Pareyson e di attraversare con leggerezza ma senza rinunciare allo scontro e alla polemica la politica italiana, dai radicali al pd, fermandosi, per ora, ad Antonio Di Pietro. Caro professore, come la mettiamo con gli intellettuali, Torino e la Fiat? Cosa avete combinato? «Non va così male, come si potrebbe pensare perchè quelli che hanno ancora la forza di parlare qualche cosa giusta l’hanno detta, si sono schierati per il no all’accordo di Mirafiori, hanno difeso i diritti degli operai. Il mio rammarico è la politica, quella dei partiti e degli amministratori, e anche il sindacato. Dopo la vittoria del sì cosa facciamo, che lotte pensa di mettere in campo la Cgil? Il diritto di sciopero è un diritto individuale sancito dalla Costituzione, possiamo iniziare da qui, ma dobbiamo pensare ad autorganizzarci, a trovare nuovi sbocchi». Ci sono i partiti per questo? «Ma quali partiti vuol trovare... Il sindaco Chiamparino e il suo possibile successore Fassino si sono schierati apertamente con Marchionne, comprende il disastro in cui viviamo? Non siamo qui per divertirci».
Se c’è una città dove l’impresa, la fabbrica, il lavoro, la condizione operaia hanno alimentato cultura e professioni, politica e sindacato, questa è Torino. Qui è nata l’industria dell’auto, questa è la città di Antonio Gramsci, del capitale e dei comunisti, questa è la company town per eccellenza dove alla fine degli anni Settanta ancora 130mila cittadini vivevano stretti alla Fiat. Se in altri tempi fosse comparso Sergio Marchionne con le sue proposte sapete cosa sarebbe successo? Il Pci avrebbe organizzato una conferenza operaia chiamando le più belle teste della politica, dell’economia, del sindacato e delle imprese a discutere di Fabbrica Italia. Sui grandi giornali, anche su quelli della Fiat, si sarebbero aperti dibattiti senza fronzoli. Il ministro del Lavoro, magari un democristiano duro e testone come Carlo Donat Cattin, avrebbe chiamato sindacati e impresa attorno a un tavolo per evitare dolorose fratture. Il parlamento avrebbe raccolto le sollecitazioni dell’impresa e del lavoro.
Oggi non è rimasto quasi più nulla di tutto questo patrimonio, ogni soggetto gioca per sè e quello che risulta devastante, anche se pochi ne comprendono la tragica portata per la nostra democrazia, è la distruzione progressiva dei corpi intermedi di rappresentanza sociale, dal delegato di fabbrica fino al sindacato confederale. Anche gli intellettuali, di ogni origine e vocazione, hanno smarrito negli ultimi anni il loro ruolo di ricerca, di proposta, rifugiandosi in comodi incarichi accademici o mettendo la propria scienza al servizio della tv in cambio di pubblici riconoscimenti e generose retribuzioni. Diceva un grande torinese come Norberto Nobbio che «il compito dell’intellettuale è di seminare il dubbio e non di raccogliere certezze ». Allora di fronte al caso Fiat c’è da chiedersi se gli intellettuali abbiano almeno diffuso qualche dubbio sulle dimensioni del cambiamento indotto da Marchionne.
Angelo D’Orsi, professore di Storia del pensiero politico all’Università di Torino, ha un’idea chiara: «La risposta degli intellettuali è stata debole, ma qualcosa si sta muovendo, vedo un fermento che apre a nuove speranze. Il caso Fiat ha provocato reazioni, certo ancora insufficienti maforse, dopo vent’anni di silenzio, è venuta l’ora in cui l’intellettuale ritrova la forza per denunciare la menzogna e cercare la verità. A questo servono gli intellettuali». E oggi dove sta la verità? Risponde D’Orsi: «Io la vedo nella classe subalterna che non è più solo la classe operaia, Ma è il giovane precario, è il migrante costretto in schiavitù, è l’insegnante offeso, il lavoratore colpito nella sua dignità. Dopo Rosarno, Pomigliano, oggi Mirafiori l’intellettuale non può più tacere. A Torino ci sono fermenti positivi, dobbiamo rimetterci in moto, scendere in campo».
Che cosa si è mosso, allora, a Torino? Cosa stanno facendo gli intellettuali su cui ha ironizzato il sindaco Chiamparino dichiarando ieri alla Stampa che «hanno firmato contro il parcheggio di piazza san Carlo, oggi l’angolo più bello di Torino»? Marco Revelli, sociologo e docente universitario, ha lanciato un appello di solidarietà con gli operai e contro le condizioni imposte da Marchionne. Racconta: «All’inizio eravamo 19 docenti universitari, poi le firme sono aumentate, abbiamo passato le 50 con altri docenti, architetti, avvocati, insegnanti di liceo. Mi hanno chiamato persone che non sentivo da anni, che non apparivano in pubblico da molto tempo ma che in questa occasione ci tenevano a metterci la faccia, a far sapere che loro non condividono quanto sta succedendo. Un po’ mi ha sorpreso questa presenza perchè vuol dire che sotto la superficie opaca della città c’è una speranza e questa speranza viene da persone che si sono salvate perchè sono state lontane dalla politica e dalle istituzioni, non sono state contaminate».
La Fiat continua a influenzare la città, le sue scelte, ma in altri tempi avrebbe mostrato ben altra potenza, una capacità di creare consenso, anche culturale, che avrebbe accompagnato il suo disegno imprenditoriale. Questo cambiamento, forse, dipende dal fatto che oggi l’impresa ha un solo leader, Marchionne, abile e duro ma pur sempre un dipendente, mentre gli eredi della famiglia Agnelli stanno nelle retrovie e non si ricorda un intervento di John Elkann che possa far pensare all’abilità e al carisma del nonno Gianni. «Ma la Fiat è ancora uno dei pochi soggetti con un’influenza forte, riempie un cratere vuoto, mentre gli eredi della sinistra condividono le scelte di Marchionne che ha una concezione servile del lavoro» aggiunge amaro Revelli, interrogandosi sul futuro: «L’acronimo Fiat è stato distrutto: non c’è più fabbrica, non è più italiana, fa poche automobili e a Torino ha una presenza sempre più modesta». Però ci sono gli operai. «Sono l’unico pezzo di storia che ci rimane, questa non è fiction è la realtà».
Cosa manca, allora? L’economia globale non ci lascia scampo, dobbiamo stendere il tappeto rosso davanti a Marchionne e star zitti? La risposta finale la lasciamo a Rocco Larizza, ex operaio Fiat, già responsabile del pci a Mirafiori, poi parlamentare e segretario della federazione torinese dei ds:«Io voterei no al piano Marchionne, conosco la vita e la sofferenza degli operai. Si può trattare sui turni, sull’organizzazione, ma non sulla libertà e la democrazia. Quello che ci manca è un’elaborazione, una proposta capace di confrontarsi con i cambiamenti del capitalismo. Ci servirebbe uno come Bruno Trentin».
L'azienda ferma eccezionalmente la produzione e organizza le sue assemblee per indottrinare i lavoratori e convincerli a votare a favore dell'accordo separato. Davanti ai cancelli di Mirafiori la tensione è alta tra gli operai
Lo chiamavano l'uomo dei miracoli, quello che aveva salvato la Fiat, il manager con il golfino che parlava americano e usava le buone maniere con i sindacati, quello che «il costo del lavoro incide per il 6-7% sul costo globale di un'automobile, la crisi non dipende certo dagli operai». Miracoli non ne ha fatti però, la quota Fiat è precipitata in Italia e in Europa, nuovi modelli (come gli investimenti) non se ne vedono all'orizzonte, figuriamoci se tra 18 mesi triplicherà la produzione in Italia. Adesso però, dopo aver detto di voler conquistare il cuore delle sue «maestranze» gliel'ha strappato, chiedendo tutto in cambio di niente. Un solo miracolo è riuscito a fare Marchionne: ha riportato indietro le lancette dell'orologio. Ai tempi di Valletta e della caccia alla Fiom e ai comunisti. Invece, alla porta 2 di Mirafiori sembrerebbe di essere tornati agli anni Settanta, se non fosse che i pullman e i tram che continuano a vomitare operai e operaie delle periferie sono nuovi fiammanti, persino la vecchia baracca dei panini a fianco del dormitorio per i senza fissa dimora è nuova di zecca: però, come allora, si affollano ai cancelli centinaia di operai, sindacalisti, giornalisti, le più impensabili sigle politiche della costellazione di sinistra, persino volantini con Marx, Lenin e Mao. Megafoni che urlano «non vendetevi al padrone, difendete la vostra dignità» e gli operai che rispondono «meno mele che ce lo dite voi». Studenti delle Università torinesi, Palazzo Nuovo e Palazzo Campana che portano solidarietà: «Se passa il progetto Marchionne lo pagheremo anche noi».
C'è Nichi Vendola che non riesce a parlare con gli operai del primo turno che entrano e con quelli del secondo che escono perché una barriera umana - si fa per dire - di giornalisti lo avvolge tra gomitate ai fianchi e telecamerate in testa. A ogni angolo gruppetti di operai litigano sul voto da dare al diktat Fiat. «Io sono dei Cobas ma voto sì perché devo pur campare», dice un'operaia cinquantenne a un suo compagno della Fiom, e lo insulta perché «neanche della Fiom ci si può fidare perché sta nella Cgil e la Cgil ha venduto l'anima e vuole firmare». Un vecchio amico sindacalista mi spiega che prima di aderire ai Cobas questa donna «era del Sida», il sindacato giallo che adesso si chiama Fismic. Il segretario generale del Fismic, Di Maulo, è circondato da un gruppo di operai che gli dicono perentoriamente «facci vedere la tua busta paga, la nostra eccola, 900 euro». Negli anni Settanta avrebbero risolto con un solo aggettivo, che qua e là ritorna: «Venduti».
Poveri operai di Mirafiori, età media vicina ai cinquant'anni, fatica e malattie e sconfitte sulle spalle, lasciati soli da quasi tutti. Ora escono a fatica, si fanno spazio nella calca, evitano le telecamere oppure ci si ficcano dentro per dire «No, perché non do tutto in cambio di niente», oppure «Sì perché ho il mutuo e due figli piccoli, se quello se ne va in Canada a brindare io che faccio? Però questo accordo fa schifo». Il segretario locale della Fim Claudio Chiarle, che domenica aveva detto «abbiamo firmato per salvare gli investimenti ma l'accordo è brutto», dopo essere stato messo in mezzo dai colleghi complici e dai superiori ora diffonde una nota in cui «l'accordo è ottimo». Un delegato della Uilm: «Con il no se ne va via la Fiat». Interviene un operaio giovane: «Sì, va a festeggiare in Canada. Voglio vederli a chiudere Mirafiori, ci vogliono solo ricattare con la pistola alla tempia». E allora quello della Uilm si arrampica sui vetri, riesce anche a spiegare che Marchione «è stato frainteso, tutta colpa della Fiom». Un gruppo di facinorosi del Fismic di fronte a Vendola sventola fotocopie del Giornale che titola «Vendola in Puglia è come Marchionne». Il gruppo viene buttato fuori al grido antico «il potere dev'essere operaio».
Chi esce racconta l'ultima di Marchionne: «Preoccupato dalle assemblee della Fiom che racconta l'accordo per filo e per segno ha fatto convocare le assemblee dai suoi capi. Spiegano che è cambiato e quello distribuito dalla Fiom è vecchio. Peccato sia identico al testo pubblicato sul sito del Sole 24 ore». Siamo a questo, la Fiat che si sostituisce ai sindacati complici e convoca le assemblee. «Dove non riescono a farle perché non vogliono essere sputtanati da noi della Fiom prendono gli operai uno a uno per indottrinarli: o votate sì o la Fiat va all'estero». In verniciatura, ci racconta un'operaia appena uscita, «i team leader e i capi Ute stanno facendo i sondaggi, chiedono a tutti tranne a noi - dice un delegato Fiom - per chi voteremo e trascrivono nome e cognome». «È uno schifo. Ieri hanno fermato una linea alle 20,30 in verniciatura - racconta Mercurio - e per un'ora e un quarto hanno fatti i comizi per votare sì. Neanche quando è morto Gianni Agnelli avevano fermato le linee».
Dall'interno della fabbrica si vede avanzare un corteo verso i cancelli, davanti c'è uno striscione rosso con scritto «Sono un operaio e voto no», un messaggio all'aspirante sindaco di Torino Piero Fassino che aveva declamato urbi et orbi «se fossi un operaio voterei sì». Sono quelli del Comitato per il no al referendum, li accoglie all'uscita una mezza ovazione, applausi e qualche lacrimuccia. È l'orgoglio operaio, di operai incazzati con il mondo ma sostanzialmente con la politica, gente che non ne può più e sa che «l'unica speranza è la pensione». Un giovane carrozziere del montaggio riesce ad arrivare a qualche metro dal Vendola assediato dai media e gli urla contro il centrosinistra. Un'altra operaia da un angolo spiega che «il Pd fa un'opposizione pessima e se andasse al governo farebbe un governo pessimo. Se non tornerà a occuparsi del lavoro la sinistra si scioglierà come neve al sole».
Rabbia, tanta. Ci sono volti noti ai cancelli. C'è anche il vecchio sindaco Diego Novelli che si dice incredulo, e fa i paragoni con i tempi duri, quelli di Valletta. Ci sono operai pensionati, precari, studenti. Torino torna a parlare e a parlarsi, ai cancelli, nei tram, nei negozi. Con la rabbia di chi si chiede dove sia finita la famiglia Agnelli, anch'essa dissolta al sole in mille rivoletti rinsecchiti e neanche troppo trasparenti: «Marchionne non è il padrone, i padroni dove sono? Possono permettersi la fuga dalla città che hanno spremuto per più di un secolo?». Nina, delegata Fiom, si dice ottimista: «Dentro si discute, i capi sono nervosi perché temono l'esito del voto, e invitano a non andare alle assemblee della Fiom di domani (oggi, ndr) ma alle loro». «Al montaggio c'è un buon clima per noi - è la volta di un promotore del Comitato per il no - in verniciatura è più dura». Previsioni non se ne fanno, chi annuncia che voterà sì per il mutuo, i figli, la paura, è più incazzato di chi voterà no. E chi vota no, oltre a essere incazzato con la sinistra, ha una certezza: «Mettere la firma sotto questa porcheria sarebbe un insulto a noi che ci battiamo in fabbrica nelle condizioni che vedi. Diglielo alla Camusso». Bentornati a Mirafiori.
Oggi le assemblee della Fiom, poi il voto. Chissà se anche a Mirafiori, come ha già fatto la Fiat a Pomigliano e come fanno da sempre mafia e camorra, i capi chiederanno agli operai di autocertificarsi il voto con il telefonino.
CONVEGNO
Marchionne unisce quel che era diviso
Intellettuali e sindacati di base
C'è tanta gente al convegno alla Sala Valdese organizzato da Forum Diritti/Lavoro e Unione Sindacale di Base (Usb). Ennesima dimostrazione dell'attenzione che la città riserva alla Fiat e ai suoi lavoratori, poi tutti in piazza per la fiaccolata.
Angelo D'Orsi fa un'incursione storica. Parte dal 1920, dallo «sciopero delle lancette». Gli operai si opponevano all'applicazione dell'ora legale. Le lotte portano all'occupazione delle fabbriche e ai consigli di fabbrica. Alla Fita Brevetti, per protesta, vennero portate indietro di un'ora le lancette di tutti gli orologi dello stabilimento. La dirigenza dell'azienda rispose licenziando. «Mi sembra - dice D'Orsi - che oggi come allora gli operai sono costretti a accettare la lotta sul terreno dell'avversario. È chiaro che la lotta degli anni '20 aveva anche un valore simbolico: chi comanda in fabbrica?»
La stessa domanda è implicita oggi. D'Orsi ricorda che Gramsci notava «la solitudine in cui erano stati lasciati gli operai, che dopo lo sciopero delle lancette, sempre nel '20 avevano occupato le fabbriche. Quando rientrarono al lavoro - aggiunge D'Orsi - Gramsci chiede che non vengano insultati perché sono uomini, sconfitti nel corpo ma non nell'animo». Oggi la situazione è inversa. «I lavoratori di Mirafiori non sono soli. C'è una reazione corale in città che non si vedeva da anni, forse dagli anni '70». E se la marcia dei 40 mila del 1980 era la marcia della maggioranza silenziosa, oggi, trent'anni dopo «la maggioranza silenziosa siamo noi. Maggioranza, ne sono certo. Silenziosa, perché ci hanno costretti al silenzio, ci hanno tappato la bocca, ma un po' ci siamo autoconfinati al silenzio».
D'Orsi sottolinea come ci si dimentichi spesso del fatto che il lavoro significa fatica fisica, muscoli rattrappiti, pause a comando, pipì collettive. Il nuovo contratto è un «ricatto. E credo, anche leggendo di progetti di produzione di Suv e jeep a Torino previsti nel piano industriale, che Marchionne abbia già abbandonato Torino».
Franco Turigliatto, di Sinistra Critica, sottolinea che il ricatto Marchionne «funzionerebbe molto meno se alcune forze si opponessero con determinazione. Penso a quel centrosinistra in cui tanti dicono che voterebbero sì, ma anche ad altri che voterebbero no, ma se avessero famiglia voterebbero sì. E allora, che messaggio passa? comunque un voto per il sì».
Dalla USB viene la proposta per il dopo referendum. «Noi ci impegniamo perché vinca il no, - sottolinea Paolo Leonardi - per il dopo pensiamo alla creazione di un Osservatorio permanente che utilizzi i saperi per tenere sotto mira quello che questo accordo produrrà se dovesse prevalere il sì».
All' on. Giorgio Napolitano
Presidente della Repubblica
Signor Presidente,
non credo di mettere in causa l'esercizio del Suo mandato al di sopra delle parti politiche e sociali, chiedendoLe, da semplice cittadina che ha avuto, anche se solo per età, il privilegio di seguire il lavoro dei costituenti, di voler intervenire con un richiamo al paese su quel che la Costituzione prescrive in tema di diritti sindacali. Gli articoli 39 e 40 infatti non sono, come può constatare anche una non giurista, principi ottativi che testimoniano di un indiscutibile spirito dei costituenti ma cui, per mancanza delle articolazioni successive, un cittadino non si può appellarsi per veder riconosciuto un suo diritto. Sono del tutto inequivoci e la loro attuazione è stata regolamentata dalle leggi.
Ora, ferma restando la libertà di opinione dell'attuale amministratore delegato della Fiat che si propone di mutare le relazioni industriali del paese, è legittimo che egli decida della libertà sindacale nella sua azienda contro il dettato costituzionale? Non credo. L'art. 39 della Costituzione più chiaro di così non potrebbe essere: l'organizzazione sindacale è libera e nessuna legge la può impedire salvo l'obbligo per i sindacati di essere registrati. Una volta registrato un sindacato ha personalità giuridica e rappresenta i suoi iscritti ed è in grado di stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce.
Non sono in grado di sapere se sia ammissibile che una azienda privata possa obbligare i dipendenti a un referendum che, se proposto su scala nazionale, la Corte Costituzionale non ammetterebbe. Ma mi permetto di chiederLe se giovi al clima politico che Lei auspica che nella maggiore azienda italiana si indica un referendum fra lavoratori su un «accordo» con la proprietà che preveda la sospensione di alcuni diritti sindacali di fondo, come quello di sciopero garantito dall'art. 40 e dalle successivi leggi di attuazione. E se anche si considera che tale referendum possa essere tenuto, è legittimo che in quell'accordo si dichiari che il sindacato che non lo avesse firmato sarà interdetto di ogni attività nell'azienda? So che alcuni sindacati si appellano al non particolarmente trasparente art.19 dello Statuto dei lavoratori, per negare tale diritto a un sindacato che senza osteggiare il referendum dichiara di non approvarne l'oggetto, ma la loro interpretazione è quanto meno assai discutibile.
Sarebbe prezioso che Lei, la cui imparzialità nei confronti delle diverse parti sociali nessuno può negare, intervenisse su questo aspetto decisivo dei diritti indisponibili del cittadino, richiamando tutti allo spirito e alla lettera della nostra legge fondamentale. Se la possibilità di agire d'un sindacato, fra l'altro ad oggi il più fortemente rappresentativo, è messa in causa nella maggiore azienda italiana, cade uno dei diritti fondamentali che distinguono una democrazia da una dittatura. Per questo esso sta a cuore ad ognuna e ognuno di noi, e sono certa che Lei condivide questa preoccupazione.
Voglia scusare l'irritualità di questo mio rivolgersi alla Sua persona, e, in attesa d'un suo cenno, La ringrazio fin d'ora per l'ascolto.
Un presidente del Consiglio che trova naturale legittimare il proposito di Marchionne – cioè il dirottamento all´estero degli investimenti produttivi Fiat in caso di bocciatura dell´accordo di Mirafiori - si assume una responsabilità che oltrepassa il mero infortunio verbale.
Conferma che l´economia nazionale si ritrova a fronteggiare disarmata, sguarnita della minima tutela politica, la contesa globale. Siamo di fronte alla resa vergognosa di un governo già rivelatosi incapace di pretendere da Marchionne, com´era suo dovere, le informazioni puntuali sul suo fantomatico piano industriale senza le quali mai Obama avrebbe concesso il via libera all´operazione Chrysler negli Usa. Le stesse garanzie in assenza delle quali la cancelliera tedesca Merkel pochi mesi fa stoppò l´intesa tra Fiat e Opel. Così si comportano delle istituzioni pubbliche rispettabili. Con l´aggravante che Berlusconi si genuflette di fronte all´azzardo della più grande industria del suo paese, incurante del danno arrecato agli interessi nazionali. Perché qui non è più in gioco soltanto, e non sarebbe poco, la tutela del posto di lavoro di migliaia di lavoratori, ma l´intera struttura produttiva di una economia il cui destino resta legato all´industria manifatturiera. Rispetto alla quale, il premier-tycoon si conferma geneticamente estraneo.
Di fronte all´enormità di questo misfatto antinazionale, sarebbe ingenuo sovraccaricare di significati politici o ideologici il voto che i 5.500 dipendenti di Mirafiori sono chiamati a esprimere a partire da stanotte. Un partito operaio non può certo esistere nell´Italia del 2011. Nessuno più fingerà di credere, come nel passato, alla natura di per sé rivoluzionaria di una classe sociale che liberandosi dallo sfruttamento adempierebbe a una finalità di giustizia universale. Stremati, anziani e impoveriti, i lavoratori torinesi vengono chiamati a sancire nient´altro che una deroga alle normative vigenti così evidentemente peggiorativa dello status quo che neppure la Confindustria può vidimarla; almeno fin tanto che l´associazione degli imprenditori continuerà a dichiarare valido il contratto nazionale da lei stipulato con i sindacati
Timida, anacronistica e imbarazzata pareva dunque, ieri, la presenza ai cancelli di Mirafiori di un leader della sinistra come Vendola: perché riesce difficile perfino a lui chiedere ai dipendenti Fiat di votare no al referendum-ultimatum, di fronte a un amministratore delegato che si è detto pronto a "brindare", oltreoceano, a Detroit, in caso di bocciatura del suo diktat.
Non a caso prima della sortita di Berlusconi, e in assenza di un´effettiva libertà di scelta, era ammutolito lo stesso Partito democratico, i cui massimi dirigenti ancora ieri si dichiaravano "né con Marchionne, né con la Fiom" (cosa vuol dire?). Rescisso il loro giovanile vincolo esistenziale con il mondo del lavoro, caduta l´illusione della classe rivoluzionaria motore del progresso, questi dirigenti non seppero promuovere neanche quando governavano il paese forme alternative di tutela del lavoro dipendente; come la cogestione aziendale alla tedesca o l´azionariato dei dipendenti all´americana. Col bel risultato che oggi neppure il sindacalismo classista residuale praticato dalla Fiom Cgil è in grado di strappare garanzie progettuali e contropartite efficaci ai sacrifici richiesti dalla Fiat, pena il dirottamento all´estero degli investimenti.
Non può più esistere un partito operaio, ma fatica a sopravvivere anche un partito degli industriali, nell´Italia a crescita zero. Lo rivela clamorosamente la bandiera bianca alzata da Berlusconi.
Così gli operai di Mirafiori si ritrovano completamente disarmati, sollecitati a cedere diritti in cambio di una promessa di lavoro incerto e a basso reddito. Sarà, la loro, domani, una drammatica somma di scelte individuali. Mentre l´establishment del paese si crogiola in miopi calcoli di convenienza: assecondare la prepotenza di Marchionne nella speranza magari di assestare un colpo definitivo alla resistenza di una Cgil isolata? Elevando addirittura il manager italo-canadese a tardivo battistrada di una inesistente rivoluzione liberale mai neppure intrapresa dal berlusconismo?
Se Marchionne avesse abbinato la denuncia delle nostre relazioni sindacali antiquate a un effettivo rilancio dell´impresa automobilistica in Italia, anziché lamentare ingratitudine per l´"osceno" trattamento ricevuto, come se la Fiat non usufruisse tuttora di milioni di ore di cassa integrazione, forse oggi le sue richieste risulterebbero più credibili. Ma dopo aver risanato i bilanci Fiat grazie al sostegno decisivo delle nostre banche, trascorsi ormai sei anni e mezzo dal suo insediamento al Lingotto, è giunto il tempo di valutarne l´operato non solo come audace finanziere, bensì come capitano d´industria.
Quali nuove quote di mercato ha conquistato? Quali nuove vetture, all´altezza di competere con quelle della concorrenza, annovera nel suo glorioso curriculum? I suoi predecessori Valletta e Romiti sbaragliarono anch´essi la resistenza sindacale, nel 1955 e nel 1980, ma con la Seicento e la Uno poi incrementarono le vendite. Marchionne invece si è rivelato abilissimo nel sostituire gli aiuti di Stato americani agli incentivi nostrani, ha fatto schizzare in Borsa i titoli Fiat per la gioia degli azionisti e di sé medesimo, ma nel frattempo ha sguarnito la produzione intestandosi un crollo delle vendite senza precedenti. Oggi la Fiat detiene solo una quota del 6,7% del mercato europeo, un record negativo, mentre le case automobilistiche rivali stanno crescendo. Sarà forse colpa di Landini e della Fiom se in pochi anni siamo passati da novecentomila vetture prodotte in Italia a meno di seicentomila? Risultano forse ingovernabili le fabbriche in cui langue la produzione? Davvero qualcuno crede che la fabbricazione della Panda a Pomigliano e il solo montaggio di una Jeep Chrysler a Mirafiori porteranno al raddoppio (e più) delle vetture prodotte in Italia, come genericamente promesso in un piano che nessuno, tanto meno Berlusconi, ha verificato?
I sindacalisti firmatari degli accordi di Pomigliano e di Mirafiori fanno notare che sono molti, in Italia, gli operai già oggi costretti a lavorare in condizioni più gravose di quelle che hanno strappato a Marchionne. È vero, anche se la prevista esclusione del maggior sindacato metalmeccanico, la Fiom Cgil, dalla rappresentanza aziendale di questi due stabilimenti, costituisce un vulnus democratico pericoloso. E, soprattutto, il ripiegamento in un´azienda come la Fiat prelude a un peggioramento generalizzato. Per questo oggi risulta così tormentosa la scelta cui sono chiamati, uno ad uno, i dipendenti di Mirafiori. In coscienza, nessuno tra i fortunati (ma anche fra i disoccupati e i precari) che restano fuori dai cancelli può giocare con un sì o con un no al posto loro.
Le stragi dei cristiani in una cattedrale di Baghdad e nella chiesa copta Al-Qaddissin a Alessandria d´Egitto sono segni non equivocabili, che qualcosa di grave sta succedendo in terre musulmane: la lenta e brutale estromissione dei cristiani, anche i più refrattari al proselitismo, i più inseriti nel luogo che abitano, non molto diversa dalla cacciata degli ebrei dai paesi arabi dopo il ´48. Non importa, qui, chiedersi come mai quella cacciata scosse l´Europa meno dell´odierna oppressione di cristiani. Forse perché la martirologia cristiana ha riti consolanti antichi. Forse cominciamo appena a comprendere la catastrofe che fu la fine dell´impero asburgico, il nazionalismo identitario e le persecuzioni delle minoranze che essa generò dopo la prima guerra mondiale. Mentre ancora non comprendiamo, sino in fondo, i disastri nati dalla caduta dell´impero ottomano: che produsse nazionalismi etnici e religiosi e fu occasione, per i colonizzatori, di ridisegnare frontiere a vanvera, di usare i popoli dividendoli o accostandoli senza criterio. È uno dei motivi per cui quel continente ha Stati spesso falliti. L´ossificazione di vecchi confini impedisce di ricostruire le istituzioni, l´imperio della legge.
Ma la divisione più grave è quella che colpisce i cuori, che nelle religioni del Libro sono la sede non dei sentimenti ma della mente, del raziocinio. Tanto più essenziale è divenuto capire l´Islam: perché è ormai la seconda religione in occidente. Perché il soffrire dei cristiani nei Paesi musulmani assume proporzioni calamitose. Perché col tempo non cresce negli uni e negli altri l´unica dote che salvi: il sapere, il conoscersi reciproco. Questo degrado s´è esteso quando l´Islam è entrato, brutale, nella vita d´Occidente dopo l´11 settembre 2001.
Fu allora che molti, ansiosi di compiacersi più che di sapere, corsero a cercar lumi in saggi che descrivevano, in particolare, la disfatta dell´Islam (i libri di Bernard Lewis, di Samuel Huntington, lo stesso testo ben più antico dell´imperatore Paleologo citato nel 2006 a Ratisbona da Benedetto XVI). I più ispirati erano forse quelli che si chinavano su letteratura o testi originali: si pensi, in Italia, all´erudizione di Pietro Citati, o alla sapienza indagata da Sabino Chialà, monaco di Bose, o alla precisione con cui è stato riproposto il Corano, nel 2010 per Mondadori, dal curatore Alberto Ventura e dalla traduttrice Ida Zilio-Grandi.
Ma per scrutare un grande monoteismo è al testo base che urge tornare: al Corano, anche se tante sono le prescrizioni che vengono abrogate man mano che il Libro si snoda, provocando perenni conflitti d´interpretazione. Dobbiamo cominciare seriamente a leggerlo noi e forse anche i musulmani, che a volte lo dimenticano come i cristiani o gli ebrei sovente dimenticano i propri Libri.
Usiamo pensare, ad esempio, che nell´Islam non esistano la misericordia, la pietà, l´aiuto agli ultimi, il perdono. Non è vero, soprattutto quando in questione è la giustizia uguale per tutti. Certo, una separazione fra legge di Dio e leggi laiche è ardua nell´Islam, ma costantemente, nel Corano, la giustizia è definita «la cosa più prossima alla pietà». Nella sura 4:135 si intima: «Agite con ferma giustizia quando testimoniate davanti a Dio, anche se è contro voi stessi o contro i vostri genitori o contro i vostri parenti, siano essi poveri o ricchi, agli uni e agli altri Dio è più vicino di voi, dunque non seguite le passioni che vi fanno errare dalla rettitudine». Dio ordina di non seguire neppure l´impulso opposto, odiando gli avversari: «L´odio che nutrite contro un popolo miscredente non vi induca a essere ingiusti». Uccidere in assenza di premesse (la presenza di un assassino, un corruttore della terra) «è come uccidere l´intera umanità». Incolpevoli, nei preganti di Baghdad e Alessandria è stata uccisa, secondo la sura 5:32, l´intera umanità.
Anche se col passare dei secoli si dilatò nell´Islam la diffidenza verso ebrei e cristiani (non a causa della fede delle genti del Libro, non per l´aderenza alle loro Scritture, giudicate antesignane del Corano), il rispetto è grande perché il Dio è unico (Allah è traduzione del nome di Dio, tendiamo a scordarlo). L´accusa, risentita, non è di adempiere le Scritture, tutte e tre sacre, ma di adulterarle e credersi figli di Dio «più degli altri uomini» (5:18). Rigettate sono le idolatrie, le passioni incontrollate. L´uso della ragione (nel Corano discernimento, perspicacia) è intenso nell´Islam.
Illuminanti a questo proposito i detti islamici di Gesù, raccolti da Chialà per l´edizione Lorenzo Valla (2009). Vorremmo citarne qualcuno. «Inguaribile è lo stupido, come sabbia dalla quale niente germoglia». Gesù ammette di aver guarito il lebbroso e il cieco nato: invece «ho curato lo stupido, ma mi ha spossato» (362). E prima ancora, nel detto 303: «Non mi è stato impossibile riportare in vita i morti, ma mi è stato impossibile guarire lo stupido». Rumi racconta che Gesù fuggiva a gambe levate, se incontrava uno stupido. Stupido perché del tutto privo di discernimento, di giustizia, è il massacro dei cristiani d´Iraq e Egitto. Tanti morti, e Cristo dipinto imbrattato di sangue a Alessandria: con quale risultato? Con quale giardino radioso in vista, per il giorno in cui morte ti coglie? Gli stessi musulmani alessandrini sono sgomenti, e si offrono di presidiare loro le chiese.
Il Corano è contrario agli anatemi, alle scomuniche: il giudizio di miscredenza viene solo da Dio. La gentilezza ha uno spazio ampio nel Libro, così come vasto spazio è dedicato alle donne, che hanno meno diritti ma sono pur sempre soggetti giuridici («Può darsi che voi disprezziate qualcosa in cui Dio ha posto un bene grande», sura 4:19). Quanto agli anatemi, la sura 2:256 è chiara: «Non c´è costrizione nella fede». Nella storia dell´Islam non potrebbero esistere conversioni forzate.
Che cosa guida allora, se non stupidità, ignoranza, e una vendetta ripetutamente scoraggiata dal Libro, la mano degli assassini o la mente degli indifferenti musulmani che sì malamente accolgono le condanne di Benedetto XVI, considerandole empie interferenze? Sembra guidarli l´incapacità radicale di mettere faccia a faccia fede e ragione, non a discapito l´una dell´altra. Un grande poeta dell´XI secolo, Abu L-Ala Al-Ma´arri, divideva la terra in «due sorti di persone: quelle che hanno la ragione senza religione, e quelle che hanno la religione e mancano di ragione».
Mille anni sono passati da allora, e ancor più dalla stesura del Corano: terzo grandioso tentativo monoteista di ingentilire la storta e cupa umanità. L´ultimo decennio di violenze, invece di stordire ancor più le menti, può esser l´occasione di tentare una memoria meno ostruita, un sapere meno trasandato. Dieci anni sono poco per iniziare a capire, e ognuno deve fare lo sforzo partendo da sé, perché le memorie comuni sono spesso una truffa, come accade in Italia attorno alla Resistenza. È un compito alto, difficile: per noi e anche per i musulmani. Nessuno è sconfitto, se si rimette a pensare.
Il Corano non pretende cose impossibili dall´uomo («è una religione facile», diceva Muhammad), ma è severo quando parla di giustizia, pietà, ragione. Il sincretismo, oltre a non essere auspicato, è impossibile perché troppe sono le soperchierie che gli uni hanno fatto agli altri. Anche in religione, come in politica, dovrebbe esserci quella riconciliazione che memore del passato costruisca un futuro diverso. Gli arabi e persiani fra loro, gli arabi e gli ebrei in guerra continua, non hanno ancora prodotto (se si escludono, agli esordi dello Stato d´Israele, figure come Hannah Arendt o Judah Magnes), persone capaci di condividere un futuro storico, una federazione laica di etnie e religioni diverse, evitando i tranelli minimalisti della memoria condivisa.
Quell'incontro non s'ha da fare, gridavano forte le minoranze del Pd dinanzi all'inopinato annuncio di uno scambio di idee tra Bersani e Landini. Dopo che l'incontro c'è stato, senza peraltro aver partorito alcun piano particolarmente sovversivo rispetto all'ordine sociale costituito, avranno tirato un gran sospiro di sollievo. Allarme rientrato nessun biennio rosso alle porte. E dire che qualcuno tra i più zelanti modernizzatori nel Pd era arrivato a invocare persino il congresso anticipato per reagire prontamente all'oltraggio di un inutile dialogo con le arcaiche e ormai in via di estinzione tute blu. Le ragioni teoriche di tanto nervosismo intorno alla questione Fiom sono ben rintracciabili in un lungo articolo di Veltroni apparso giovedì scorso sul quotidiano della Fiat.
Il pezzo intende portare un esplicito e non episodico sostegno al «diritto-dovere» di rispondere sì alle richieste di «modernizzazione delle relazioni sindacali» avanzate da Marchionne. Verrebbe da dire: con lo stesso intuito che lo indusse a fiutare prima di ogni altro le grandi virtù politiche di Calearo e a portarlo in parlamento, ora l'ex leader del Pd celebra sul giornale di casa le belle qualità dell'amministratore Fiat. Ma la penna ispirata di Veltroni in questa occasione vuole fondare una scelta di campo definitiva e guarda al tempo lungo toccando anche la linguistica, la storia, l'etica, il diritto sindacale. E quindi va presa sul serio.
Il presente per Veltroni si divide in due. Da una parte c'è «la chiarezza e la durezza» degli innovatori alla Marchionne che con ostinazione e lungimiranza portano sempre avanti il mondo e dall'altra ci sono solo le sconce prove di «ordinario conservatorismo» esibite da parte di chi si oppone allo splendido e spesso incompreso nuovo che avanza. Perciò, al cospetto del prometeico agire di un manager della provvidenza, il Veltroni linguista suggerisce di bandire le cattive parole «difesa», «opposizione» (proprie del «minoritarismo» straccione) e di adottare un sobrio vocabolario con una sola frase chiave ben impressa: «non difendere ma cambiare».
E la formula magica diventa la pietra filosofale per spiegare l'intera storia delle relazioni sindacali perché Veltroni trova forti analogie tra l'accordo siglato tra il «giovanissimo»» (aveva 42 anni) Bruno Buozzi e Agnelli nel 1923 e quanto accade oggi a Mirafiori. Proponendo di recuperare anche per l'oggi lo spirito di quel bel tempo andato, quando il padrone e il sindacalista stringevano patti leali ed erano entrambi moderni (però allora in gestazione era la contrattazione collettiva oggi invece il suo smantellamento), l'ex leader del Pd vede negli eventi del 1923 «una rivoluzione nelle relazioni sindacali di allora».
A che serve rammentare che nel 1923 c'era già il fascismo e che proprio a Torino, nel dicembre del 1922, gli squadristi avevano appena assalito la camera del lavoro e l'Ordine nuovo e che in strada giacevano i corpi ancora caldi di 22 militanti uccisi? Però almeno una cosa andrebbe rimarcata. Uno dei firmatari dell'accordo, il «giovanissimo» Buozzi per l'appunto, solo dopo pochi mesi sarà costretto all'esilio. Al vecchio Agnelli, che proprio nel 1923 fu nominato senatore del regno, andò invece molto meglio: forse perché seppe cambiare senza difendere. La contrattazione collettiva fu del tutto svilita.
Buozzi, che a resistere ci ha sempre provato in mezza Europa, ci ha rimesso anche la pelle cadendo sotto il fuoco tedesco in una strada di Roma. Ma forse il sindacalista non aveva ben capito i sublimi precetti della ragion pratica veltroniana. Qualcuno minaccia i tuoi diritti, calpesta sfacciatamente i tuoi interessi, schiaccia le tue libertà? Tranquillo, non devi difenderti e lottare. Così finisci solo per essere un maledetto conservatore. Devi (farti) cambiare ma senza resistere. Così sarai moderno.
L'etica di Veltroni non spiega però perché se Marchionne non ci sta e parte all'offensiva viene ammirato per la «chiarezza e durezza» del suo fare e se invece Landini prova ad alzare la voce diventa un insopportabile reazionario che, con l'attaccamento al ferro vecchio della contrattazione collettiva, agita «l principale fattore che tiene lontane le grandi multinazionali». Strane anche loro queste grandi multinazionali, però. Perché non fanno, come suggerisce la buona ragion pratica di Veltroni, e cioè non rinunciano ad adottare un punto di vista difensivo (dei loro interessi) e accettano di cambiare?
Attratto dalla data magica del 1923, assunta come spartiacque del '900 sindacale, Veltroni inquadra le relazioni sociali all'insegna di una formula incantata: tra lavoro e capitale deve esserci un «comune destino». Qui il proverbiale buonismo (tutti sono nella stessa barca e cerchino perciò di collaborare per tirare innanzi) diventa qualcosa di più impegnativo. La metafora della impresa come «comunità» e persino come «destino» rimanda infatti alle esperienze autoritarie. Nella dottrina giuridica fascista il rapporto contrattuale venne superato nell'obbligo di fedeltà alla comunità di fabbrica.
Proprio il conflitto aperto tra l'essere (la persona che lavora) e l'avere (il denaro dell'impresa), rompendo ogni pretesa di «comunità», ha invece costruito la civiltà giuridica del '900. Ma le lancette dell'orologio della storia di Veltroni sono ferme al 1923 e al comune destino che lega lavoro e impresa, Agnelli e Buozzi. E però anche il «giovanissimo» Buozzi che combinò nella sua vita? Non partecipò anche lui «riformista» alle occupazioni delle fabbriche del 1920 rifiutando l'idea che tra lavoro e capitale ci fosse «un comune destino» che bandiva ogni conflitto per i diritti?
C'è un signore con la borsetta che gira il mondo cercando di vendere la sua merce a prezzo fisso. Non è un mercante arabo, nessuna trattativa è prevista: se vi va è così, altrimenti tanti saluti. Il liberismo nella globalizzazione non è un suq, la crisi e la concorrenza non perdonano e il '900 è morto e sepolto con i suoi lacci e diritti. Il nostro mercante si chiama Sergio Marchionne, parla americano e detesta i dialetti, che sia sabaudo o partenopeo. È più capace nel vendere promesse in cambio di cieca obbedienza che non automobili. Nessuno le vuole, è merce vecchiotta. Ma lui giura che rinnoverà e triplicherà la produzione, darà lavoro a tutti, tanto lavoro. 10 ore al dì anzi 11, pause ridotte, mensa solo se c'è tempo, sciopero nisba, neanche un'influenza. È scritto sul contratto: se voti sì ti riassumo, investo per il futuro tuo e della fabbrica, sennò riparto con la mia valigetta e qualche pezzente più pezzente di te in qualche stato più pezzente di quello italiano lo troverò di sicuro.
Ecco il referendum con cui il 13 e il 14 Marchionne chiederà a 5.300 operai delle Carrozzerie di Mirafiori di prendere o lasciare: il 51% di sì farà vivere la fabbrica, il no la chiuderà. Che c'è di nuovo rispetto a Pomigliano? Una raffinatezza: i sindacati che non hanno firmato l'accordo non avranno più accesso alle linee di montaggio. Nessun delegato, del resto, neanche quelli dei sindacati complici, potrà essere eletto dai lavoratori, saranno nominati d'ufficio dagli stati maggiore.
Ci sono tre reazioni al diktat. La prima, maggioritaria in politica, al governo, tra i sindacati e gli imprenditori, batte le mani e minaccia gli operai: che aspettate a piegare quella schiena? Non vorrete perdere investimenti e lavoro per un principio ammuffito? Guai a voi se farete fuggire all'estero la Fiat. La seconda reazione è quella della Fiom, che si oppone ai ricatti e informa gli operai di quel che stanno per votare, indicendo assemblee e distribuendo a tutti il testo dell'accordo. Così potranno decidere con cognizione di causa se il gioco vale la loro dignità. Ci sono diritti non vendibili scritti in leggi, contratti, nello Statuto e nella Costituzione e gli accordi o sono frutto di contrattazione o non esistono. La Fiom non riconosce la validità del referendum-truffa. Poi c'è una terza reazione, uguale alla seconda ma con un finale diverso: noi siamo contrari, ma se il ricatto vincesse la Fiom dovrà riconoscere il risultato, adeguarsi e apporre la propria firma per non essere espulsa dalla fabbrica. È il punto di vista della maggioranza del gruppo dirigente Cgil.
Non sempre il pragmatismo riduce i danni. La forza accumulata dalla Fiom si fonda sull'ascolto dei lavoratori, sulla condivisione, sulla rappresentanza democratica. È tutta da dimostrare la possibilità che la Fiat possa cancellare il sindacato più rappresentativo, mentre è prevedibile che una rinuncia della Fiom a difendere la dignità della sua gente spezzerebbe quel legame straordinario e un'aspettativa che va crescendo ben oltre le fabbriche. In questa settimana, ancora una volta a Torino, si gioca una partita che riguarda la democrazia italiana.
Le parole, i toni, l’argomentare sono di fastidio di fronte alla critica, alla discussione pubblica che pure è il sale della democrazia. Pare evidente che Sergio Marchionne voglia mostrare la regola della forza. Ha ribadito che suo, e soltanto suo, è il potere di vita o di morte su Mirafiori. Una spada gettata su una bilancia già sospetta d’essere alterata. È così eccessivo questo atteggiamento che viene quasi il sospetto che l’amministratore delegato della Fiat voglia favorire il "no" al referendum, per essere finalmente libero di muoversi in un mondo globale dove tutti gli aprono le porte e gli offrono braccia a qualsiasi prezzo. Un referendum, peraltro, che egli stesso svuota del suo significato proprio, visto che ne rifiuta pregiudizialmente uno dei possibili risultati. Lo sappiamo da sempre che è facile volgere a proprio vantaggio una guerra tra poveri. Per sfuggire a un impoverimento che attanaglia un numero crescente di persone, vi è sempre qualcuno che accetta di vendere la sua forza lavoro riducendo garanzie e diritti. È questo il dono del realismo del Terzo Millennio, dove l’efficienza economica cancella ogni altro valore?
Se vogliamo analizzare più in profondo le dinamiche in corso, ci accorgiamo che qualcosa accomuna la vicenda Fiat e quella che riguarda WikiLeaks. Si tratta del modo in cui il potere si sta redistribuendo nel mondo globale, chi lo esercita, chi può controllarlo. E questa novità non si coglie con i soli strumenti tradizionali, riferendosi solo al sistema delle relazioni industriali, alla tutela del segreto di Stato. Bisogna partire dalle logiche alle quali si rifanno i nuovi padroni del mondo, che non si sentono titolari di un potere controllabile e, invece, si muovono ritenendosi investiti di un potere sciolto da ogni vincolo.
Se questo è il tratto comune, divergono gli effetti di questo potere generato dal contesto globale. Nel caso della Fiat, lo sciogliersi del potere dai vincoli esterni, per il dilatarsi dell’attività d’impresa nei più diversi luoghi del mondo, ne produce un accentramento in mani sempre più ristrette. Nel caso WikiLeaks, il superamento delle barriere alla diffusione delle notizie determina il dilatarsi del numero dei soggetti titolari del potere fondato sulla conoscenza, che può essere esercitato al fine di controllare chi finora si era ritenuto intoccabile. Questi diversi effetti hanno origine nella diversità del potere esercitato: fondato sulla logica economica, da una parte; finalizzato all’espansione dei diritti, dall’altro.
La novità della situazione attuale è determinata dal fatto che, nella dimensione globale, si riduce o addirittura si dissolve la sovranità degli Stati nazionali, che è stata, e in molti casi ancora rimane, strumento per garantire il governo di processi complessi e assicurare un equilibrio tra i poteri in campo. Nel vuoto lasciato dai soggetti nazionali, e nell’assenza di soggetti pubblici che possano prenderne il posto, si insediano soggetti privati che divengono, insieme, legislatori e governanti, controllori e controllati. Dobbiamo rassegnarci alla supremazia della logica di mercato che produce una sorta di invincibile diritto naturale? O vi sono altre strade da percorrere?
L’Europa può fornirci qualche indicazione. Nel 1999, avviando la fase che avrebbe portato alla proclamazione della Carta dei diritti fondamentali, il Consiglio europeo affermava esplicitamente che il riconoscimento di quei diritti era indispensabile per far sì che l’Unione acquistasse piena "legittimità". Il mercato, le libertà economiche che l’accompagnano, la moneta unica non venivano ritenuti sufficienti per sostenere una costruzione difficile, e sempre a rischio, qual è quella europea. Il passaggio dall’"Europa dei mercati" all’"Europa dei diritti" diviene così condizione necessaria perché l’Unione possa raggiungere piena legittimazione democratica. Questo modello è stato poi assunto oltre lo spazio europeo, tanto che al rifiuto radicale della globalizzazione, sintetizzato dallo slogan "No Global", si è sostituita una linea diversa, che parla appunto di globalizzazione attraverso i diritti e non soltanto attraverso il mercato. Queste non sono formule più o meno felici. Sono l’espressione di una esigenza di democrazia che ben possiamo far risalire all’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: "La società nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti, e non è stabilita la separazione dei poteri, non ha Costituzione". Il potere dev’essere diviso, non concentrato. I diritti fondamentali devono essere sempre garantiti.
Questa storia è alla fine? Nel mondo del lavoro, in troppi casi, non v’è più negoziazione "all’ombra della legge". Anzi non v’è più negoziazione, perché sempre più spesso si chiede a sindacati e lavoratori di prendere o lasciare un testo predisposto unilateralmente dalla parte più forte. Contratto collettivo e sindacato, i due strumenti che dall’800 hanno cercato di colmare il dislivello di potere tra datore di lavoro e lavoratori, vengono variamente svuotati. La soggettività del lavoratore si perde, e con essa la dignità del lavoro. Se l’efficienza è l’unica bussola, rischiamo di tornare alla "gestione industriale degli uomini". E la retribuzione non è più ciò che deve assicurare al lavoratore e alla sua famiglia "una esistenza libera e dignitosa", come vuole l’articolo 36 della Costituzione, ma il prezzo minimo che si spunta sul mercato per vendere un lavoro di nuovo ridotto a pura merce. Dall’esistenza libera e dignitosa si tende a passare ad una sorta di "grado zero" dell’esistenza, alla retribuzione come mera soglia di sopravvivenza, come garanzia solo del "salario minimo biologico", del "minimo vitale".
Di questi problemi, e del cambiamento d’epoca che rivelano, non ci si può liberare con una mossa infastidita, dando del "conservatore" a chi li ricorda. Chi ragiona così, ha già deciso di arrendersi, di consegnarsi prigioniero a una lettura del mondo globale che non sa usare categorie diverse da quelle dell’economia. Lo sguardo può e deve spingersi oltre, nella direzione indicata all’inizio ricordando la vicenda di WikiLeaks, che ci parla dell’opposto, di una globalizzazione che produce nuovi diritti e nuovi soggetti che l’incarnano. E’ questo il terreno dov’è possibile cercare e costruire quegli equilibri e quei controlli senza i quali la stessa democrazia si perde. Redistribuzione dei poteri e non solo concentrazione, riconoscimento di diritti e non procedure autoritarie. Proprio perché un governo globale del mondo non appartiene alle ipotesi realistiche, e comunque non può essere concepito come la proiezione planetaria della sovranità nazionale, è l’esistenza di una molteplicità di soggetti dotati di diritti che può garantire il mantenimento di pesi e contrappesi, come già accade in molte situazioni. In tutto questo cogliamo un intreccio tra vecchio e nuovo, tra continuità e mutamento. Mentre si manifestano soggetti nuovi, capaci di dar voce ai diritti, non si può pensare che i soggetti storici rappresentino solo il passato, e dunque possano essere abbandonati. E’ vero il contrario. Proprio perché si sta giocando una partita difficile, è indispensabile salvaguardare tutte le forze disponibili. Tornando, ad esempio, alla specifica situazione italiana, questo vuol dire che non sarebbe ragionevole una linea che, pur giustificata appunto con il riferimento ai diritti, porti all’emarginazione, o addirittura alla scomparsa, di parti significative del sindacato.
La vicenda Fiat Mirafiori ha un´intrinseca complessità: rinvia a questioni in materia di lavoro, come la legge – o un accordo tra le parti sociali – sulla rappresentanza sindacale. Rinvia a considerazioni tattiche sull´opportunità di firme più o meno tecniche, sull´esigenza – di cui un sindacato può farsi carico – di restare in fabbrica anche a prezzo di sottoscrivere un accordo svantaggioso; e rinvia anche a temi di politica industriale, come le responsabilità dell´azienda nelle difficoltà della Fiat. Ma non vi è dubbio che il nucleo di problemi più scottante è quello che verte sul rapporto fra politica (democratica) ed economia. E da questo punto di vista tutti sanno che siamo arrivati a un cambio di orizzonte, a una trasformazione di paradigma; che cioè il caso Fiat è oggi il baricentro su cui convergono le linee di tensione, di crisi o di evoluzione, del sistema-Italia.
Lo sa il governo, che saluta con favore l´isolamento della Fiom, gli scontri dentro la Cgil, l´imbarazzo del Pd, le ammaccature subite dalla stessa Confindustria; che per bocca del ministro del Lavoro, ex socialista, si compiace della drastica riduzione del controllo sociale sull´impresa – cioè del venir meno della strategia della concertazione inaugurata da Ciampi nel 1993 – ; che plaude alla sconfitta delle ideologie, in quanto foriera della modernizzazione del Paese; che propone un´immagine di sé che non è neppure quella del comitato d´affari della borghesia, ma dell´esecutore dei desiderata di un manager.
Lo sanno gli sconfitti, cioè i sindacati, che vedono il proprio ruolo ridotto ad accettare (alcuni) o a rifiutare (altri) linee strategiche e operative elaborate unilateralmente dall´azienda. Che subiscono cioè la trasformazione della dialettica – di una situazione in cui gli attori sono due – in plebiscito, dove la volontà che conta è solo quella di chi pone le domande, e mette la controparte nella posizione subalterna di prendere o lasciare.
Lo sa il vincitore, Marchionne, che ha fatto passare tutte le proprie richieste. Per prima, l´interpretazione della globalizzazione come di una forza cieca e inesorabile, di una svolta del senso della storia, che non può essere gestita ma solo assecondata, e solo nella direzione che l´azienda ritiene più conveniente per sé; accanto a questa, l´annuncio di una nuova epoca delle relazioni tra capitale e lavoro, non più conflittuali ma obbligatoriamente cooperative – e non nel senso della cogestione, ma di una collaborazione asimmetrica, in cui la forza lavoro rinuncia alla propria soggettività politica in cambio dell´impiego, e di qualche ipotetico aumento in busta paga - ; infine, la più aperta e provocatoria, ovvero la pretesa di mano libera, da parte dell´impresa, nel perseguire le proprie strategie: "la Fiat non può essere condizionata". Accordi e contratti vengono lacerati; l´iniziativa è di una sola parte, di un uomo solo. Il blitz della Decisione, la potenza dell´Incondizionato, spezzano la trama dei rapporti reciproci, dei conflitti e delle mediazioni, l´intreccio delle relazioni tra soggetti diversi, portatori di interessi diversi, in una società complessa. Da oggi il mondo è più semplice: il dispositivo intrinsecamente autoritario della decisione e del plebiscito sostituisce la trattativa, le regole condivise. La salvezza della Fiat è la legge suprema: per la Fiat, per i sindacati, per l´Italia.
Che dietro questo decisionismo ci siano le difficoltà di un´azienda è evidente; ma che quelle che sono debolezze su scala globale vengano rovesciate in potenza unilaterale su scala interna, è una mossa di micidiale efficacia e novità. Significa che il ruolo della politica – per ovvia corresponsabilità del governo – non è più quello di dare forma ed equilibrio a una complessità, di gestire le contingenze e le crisi con riguardo alla molteplicità degli attori in gioco, ma quello di certificare ex post l´esito della legge del più forte; che gli interessi generali del Paese coincidono a priori con quelli della Fiat; che la sovranità – che la Costituzione attribuisce al popolo – si sposta verso chi è capace di impugnare vittoriosamente la decisione; che, almeno tendenzialmente, la Repubblica viene a essere fondata non sul lavoro, ma sul profitto e sullo sviluppo, che è appunto il lavoro visto dall´azienda, privato della centralità dell´uomo.
È davvero, questo, un passaggio epocale; è il momento in cui nel tessuto della nostra democrazia, che finora si è auto-interpretata, nonostante tutto, come liberale e sociale, fa irruzione la globalizzazione, che si propone come l´aperto predominio delle logiche economiche sulle logiche politiche democratiche. Si sta perdendo, insomma, più o meno da parte di tutti, l´occasione per rilanciare la politica come governo democratico della società, e si prende la strada di un ‘realismo´ scivoloso: legittimare l´esistente come necessario, inchinarsi al presunto spirito del tempo, qualunque cosa ciò significhi, mentre si rinuncia allo sforzo critico di stare nel proprio tempo nel modo migliore.
La Repubblica, 5 gennaio 2011
BATTISTI E LA FRANCIA
L´IGNORANZA MILITANTE
di Barbara Spinelli
La lettera più difficile, più scabrosa, Bernard-Henri Lévy avrebbe dovuta scriverla non al Presidente Lula ma, informandosi sulla storia italiana, al Presidente Napolitano. Non mi consta l´abbia fatto. Il gesto più difficile e scabroso sarebbe stato quello di visitare, oltre a Cesare Battisti, le sue vittime. Non mi consta abbia fatto neanche questo. Né che abbiano fatto cose simili Philippe Sollers, Daniel Pennac, Fred Vargas, e i tanti francesi che guardano all´Italia come a un paese di scimmie, privo di magistrati dignitosi: bellissimo e incivilissimo, diceva Stendhal.
I francesi in questione sono esteti e assai selettivi: contro la mafia o la cultura dell´illegalità dilatata da Berlusconi, mai alzano la voce.
Usiamo la parola scabroso perché letteralmente deriva da scavare, cercare sotto la superficie. Con le sue dichiarazioni giubilanti e la lettera a Lula, Lévy pensa d´aver pensato, chiude il ragionamento in un boccale come una pietanza che si riscalda di tanto in tanto. Non ha preso neppure una pala, per smuovere la terra alla maniera in cui Rilke, meditando il buio, «ascolta come la notte s´inconca e s´incava». Danza sulla superficie, imbocca le vie più facili presumendole anticonformiste. Crede di cantare fuori da un coro. Azioni del genere screditano gesti compiuti da lui e altri: in Bosnia, Cecenia, Ruanda. L´accostamento del volto di Sakineh a quello di Battisti, sul suo sito, è empietà. Mostra un´incapacità radicale a comprendere il male inflitto all´innocente. Non è il vero sofferente che interessa, quando il fascino esercitato da un assassino è così trascinante, compiaciuto. André Glucksmann, vicino a Lévy, non ha mai cantato in questo coro.
Battisti non è neppure un terrorista, per chi lo sostiene. Lévy lo chiama un «ancien enragé divenuto scrittore». Gli enragés (letteralmente: «gli arrabbiati») furono i più estremisti nella Rivoluzione francese. Philippe Sollers lo battezza «eroe rivoluzionario». Altri, citando Céline, confutano i verdetti emessi contro «un uomo senza importanza collettiva, un semplice individuo», come se la giustizia concernesse altro che l´individuo. Il solo esser divenuto scrittore lo trasfigura, l´assolve. Lo tramuta in intellò, come se il titolo bastasse per issarlo all´altezza di Zola e di chi, tra il 1895 e il 1906, difese il capitano Dreyfus.
Il fatto, sempre che i fatti contino, è che Battisti non è solo un intellò. Fu un criminale comune fino a quando per comodità si mascherò da rivoluzionario, aderendo ai Pac (Proletari Armati per il Comunismo). Scappato dal carcere, fu condannato in contumacia per aver ucciso tre uomini e concorso a un quarto omicidio, fra il ´78 e il ´79, e nei tre gradi di giudizio fu assistito da avvocati da lui istruiti. Nell´81 era fuggito a Parigi profittando della dottrina Mitterrand, abiettamente travisata. In realtà il Presidente fu chiaro, quando l´espose il 22 febbraio e il 20 aprile ´85: l´asilo offerto escludeva tassativamente «chi si era macchiato di crimini di sangue» o di «complicità evidente in vicende di sangue», e riguardava i fiancheggiatori dissociati dal terrorismo.
Gli intellettuali mobilitatisi per Battisti si immaginano eredi non solo dei dreyfusardi ma dei moralistes francesi vissuti fra il ´500 e il ´700. I moralisti non facevano la morale ma descrivevano la storta natura dell´uomo, a cominciare dalla propria, con impietosa ironia. Penso a Montaigne, La Rochefoucauld, Pascal, Vauvenargues, Chamfort. Nei pretesi loro eredi non è mancato questo sguardo spietato e anticonformista, quando hanno fustigato il proprio esser comunisti: i «nuovi filosofi» hanno capito Solženicyn assai prima degli italiani, dei tedeschi. Ma uno strabismo singolare li affligge: ben più arduo, se non impossibile, è approfondire ancor più l´esame di sé. Quando maneggiano il concetto di rivoluzionario o di intellettuale, l´acume diminuisce. Aver ghigliottinato un re è motivo immutato d´orgoglio, che li rende superiori a ogni europeo.
Anche l´universalismo, di cui i francesi si vantano, li rende ciechi ai propri limiti, incapaci di apprendere. Il loro contributo all´unione europea è un impasto di universalismo decorativo e nazionalismo effettivo. Ci sono princìpi a tal punto sacralizzati da ossificarsi e perire come stelle che per noi brillano nonostante siano morte da tempo. Molte dispute intellettuali avvengono tra francesi. Non parlano all´Europa né al mondo, verso i quali l´ignoranza è spesso abissale.
È l´ignoranza militante che provai a descrivere il 14 marzo 2004 su Le Monde, in una lettera aperta su Battisti agli amici francesi, ma si sa che le parole informative non servono quando non si vuol sapere e si vive nel performativo (basta che io dica una cosa e la cosa è, anche se contraddetta dai fatti). Quel che si vuol ignorare è come funziona la giustizia in Italia, la sua indipendenza ben più solida che in Francia, la lotta che i magistrati conducono contro la mafia, la corruzione, la politica ridotta a lucro privato. È un´ignoranza non ingenua ma attivisticamente coltivata. Ebbe forme analoghe anche nel ´68: un ´68 che i francesi, più saggi, hanno saputo frenare prima che degenerasse in terrorismo. Essendosi tuttavia fermati in tempo, nulla sanno dei suoi baratri, del valore della legalità. Non a caso parlano lo stesso linguaggio di tanti marxisti finiti con Berlusconi. Lo spirito libertario del ´68, lo hanno stravolto facendosi libertini. Il disprezzo delle istituzioni, della Costituzione, della magistratura, accomuna perversamente tanti intellettuali francesi e Berlusconi: stessi attacchi ai giudici e ai «teoremi giudiziari», stesso istinto a parlare di Battisti come di un accusato o un capro espiatorio e non di un condannato. Non stupisce che qualche mese fa Berlusconi abbia confidato a un ministro: «Battisti è un personaggio orribile, e non capisco perché dovremmo fare i salti di gioia alla prospettiva di doverlo mantenere noi per anni nelle nostre galere».
Rivolgendosi agli italiani, Lévy ci invita a «voltare la pagina degli anni di piombo», o almeno a pensarli «senza passione, con equità, evitando la terribile logica del capro espiatorio». È una solfa che gli italiani conoscono: meglio voltar le pagine del fascismo, delle stragi, di Mani Pulite, dell´omicidio di Falcone, Borsellino, delle loro eroiche scorte. Ma le pagine si voltano ricordando e facendo giustizia (la clemenza viene dopo i verdetti), altrimenti restano lì, infezione letale. Oppure le si gira e basta, come fanno gli scemi o gli arruolati dell´Ignoranza, due categorie così affini. Persino Gesù faticava, con gli stupidi. C´è un suo detto islamico, citato da Sabino Chialà, che confessa: «Gli storpi li ho guariti, i ciechi pure. Con gli stupidi non sono riuscito» (I detti islamici di Gesù, Mondadori). Di ignoranza militante e ebete non abbiamo bisogno che venga da fuori: ne abbiamo già tanta in casa. L´amalgama creatosi fra terrorismo, mafia, corruzione, sprezzo della magistratura: non è una vecchia pagina da voltare. È il presente limaccioso che viviamo.
Tutte queste vicende i francesi non le capiscono. Pur avendo compiuto la rivoluzione e chiamato ogni uomo allo stesso modo – citoyen – lo spirito di casta è tenace. Se sei un intellettuale hai speciali immunità, anche se hai ammazzato tua moglie come il filosofo Althusser. Già Tocqueville trovava intollerabile la mistura francese tra politici e letterati.
Fa parte dell´astrattezza letteraria (la più obbrobriosa forse) considerare gli ex terroristi come sconfitti, vinti dalla storia. Sconfitto è chi esce battuto essendo stato un combattente, regolare o guerrigliero, o un vero enragé. Gli si deve rispetto: con lui si ricostruirà un ordine. Gli anni di piombo non sono stati una guerra civile. Sono stati una storia criminale, come gran parte della storia italiana.
il manifesto, 6 gennaio 2022
IL CASO BATTISTI E GLI ANNI '70
Una storia per nulla criminale
di Marco Bascetta
Da giorni la politica e i media italiani stanno conferendo al "caso Battisti" un peso fuori misura. Sarebbero in gioco l'orgoglio nazionale, l'idea stessa di giustizia, la sensibilità di un intero popolo. L'immagine dell'Italia nel mondo. Indignazione ed esercizi retorici si susseguono frenetici, accuratamente evitando il piano del ragionamento. Cerchiamo allora di esaminare con qualche ordine gli aspetti più rilevanti della faccenda, estraendoli dal pentolone dell'ideologia e della propaganda in cui sono stati messi a bollire. A cominciare dal ruggito del topo emesso dalla diplomazia italiana. La quale, se dobbiamo dar credito ai La Russa e ai Frattini, sarebbe rimasta ferma ai tempi di Elena, Paride e Menelao, laddove intorno a un singolo caso si scatenava addirittura lo "scontro di civiltà". Come mai nessuno si è mai sognato di impartire alla Francia di Mitterrand o di Chirac (strapiena di esuli e fuoriusciti) lezioni di diritto e di democrazia, di minacciare boicottaggi e oscure "conseguenze" come oggi si è fatto con il Brasile di Lula? Forse perché si continua a considerare quel grande paese una realtà del "terzo mondo" cui insegnare le buone maniere? Berlusconi, cui non difetta un certo realismo, si è affrettato ad assicurare che il rapporto tra Italia e Brasile non sarà in nessun modo compromesso da questa vicenda. Chi fa affari non è incline all'autolesionismo. CONTINUA | PAGINA 6
E forse si rende anche ragionevolmente conto che l'insistenza, i giudizi irriverenti e le accanite pressioni esercitate sul governo e sulla giustizia di Brasilia avranno un effetto controproducente rispetto allo stesso scopo che esse si propongono: l'estradizione di Cesare Battisti.
Al di là del caso specifico, sbandierare l'inappuntabilità del sistema penale italiano (le cui carceri, per esempio, sono state oggetto di severi giudizi da parte di organismi internazionali) e dei processi celebrati durante e a ridosso degli anni di piombo in un clima assolutamente emergenziale, è frutto della più sfacciata malafede e di una visione nazionaltrionfalista della storia e della realtà del nostro paese. Così come non si può sorvolare sulla mancata ratifica da parte italiana di importanti trattati internazionali che riguardano diritti e garanzie in ambito penale (ne ha riferito accuratamente Mauro Palma qualche giorno fa su queste stesse pagine) e che recano invece la firma del Brasile. Qui non si tratta dell' infatuazione degli intellettuali francesi, con cui polemizza Barbara Spinelli sulla Repubblica di ieri, ma di puntuali argomentazioni tecniche e giuridiche.
La Spinelli conclude quello stesso articolo, confermandone così il vero intento, con la seguente affermazione: «Gli anni di piombo non sono stati una guerra civile. Sono stati una storia criminale». Non sono stati né l'una né l'altra cosa, come invece pensavano, su fronti opposti, le Br e la politica del compromesso storico che in nome della versione "storia criminale" decise di sacrificare Aldo Moro.
Sono stati anni di stragi oscure (su cui la nostra inappuntabile magistratura non ha mai fatto luce) e di altissima tensione sociale, di conflittualità diffusa, spesso intrecciata, è vero, con pratiche e comportamenti decisamente criminali in una matassa che non sempre è possibile districare. E nella quale, innocente o colpevole che sia, Battisti è rimasto impigliato. Da molti decenni quella stagione si è conclusa e quella matassa si è disfatta. Qualcuno vi è rimasto strangolato, qualcun altro è sgusciato tra le sue maglie, ma quel contesto, quei moventi, quei sentimenti feroci o disperati che fossero, si sono completamente estinti. Di certo le tre funzioni che uno stato democratico dovrebbe attribuire alla pena detentiva (impedire la reiterazione del reato, rieducare, fungere da deterrente) nella lunga distanza che ci separa dagli "anni di piombo" da un pezzo non sono più operative. Resta la questione della Giustizia o del "sentimento di giustizia", ma è una questione ben più grande e importante di quanto un caso singolo possa incarnare, che la cattura o la latitanza di un colpevole appena sfiora. E che ben poco ha a che vedere, soprattutto, con la grancassa propagandistica e la criminalizzazione indiscriminata di un intero pezzo di storia italiana che intorno all'estradizione di Battisti sono state montate. Della quale, fatta eccezione per i parenti delle vittime (il cui dolore però non è in alcun ordinamento un criterio giuridico), non credo importi molto a nessuno, una volta sventolata a sufficienza la bandiera della legge, dell'ordine e dell'orgoglio nazionale.
La ragazza in crisi che si ritrova unita al nuovo compagno dalla magia del raggio verde, il misterioso riflesso marino descritto da Eric Rohmer. Le dune di Ostia a pochi anni dalla guerra immortalate, assieme a Marcello Mastrioanni, in Una domenica d'agosto. I vitelloni raccontati da Fellini nel loro ondeggiare tra caffè, biliardi e amori sulle spiagge. Sarà bene tenerseli cari questi film, perché i paesaggi che li animano potremo goderli solo al cinema.
Il lungomare come prospettiva, come sfida emozionale sta sparendo, sostituito dall'affastellarsi di caseggiati, svincoli portuali, stabilimenti irregimentati. Abbiamo già perso due terzi del nostro affaccio al mare.
La denuncia viene da uno studio dei Verdi che parte da un dato Unep (il Programma ambiente delle Nazioni Unite): se nell'intero bacino mediterraneo il 40 per cento delle coste è stato occupato da interventi antropici, in Italia la percentuale supera il 60 per cento. E, all'interno di questa quota di litorale invaso, le ville antiche e i centri medioevali rappresentano la parte decisamente minoritaria. Pochi decenni di sviluppo incontrollato hanno rubato più spazio di millenni di storia.
«È stata una trasformazione urbanistica violenta, che ha cambiato anche le abitudini delle famiglie italiane», spiega l'ex capogruppo alla Camera del Sole che ride, Angelo Bonelli. «Il lungomare non è più il luogo delle passeggiate e degli incontri: ormai è un lungomuro - afferma. - In molte città la prospettiva del mare è stata completamente cancellata dal cemento, dalle cabine, dai porti, dalle attività industriali, dalle villette. E le immagini satellitari, in notturna, confermano che il rapporto con il buio è sparito dalle nostre coste».
Al lido di Ostia l'85 per cento del litorale è occupato da stabilimenti. A Fregene non esiste un vero lungomare e a Torvaianica, sempre nel Lazio, otto chilometri ininterrotti di edifici impediscono non solo l'accesso al mare ma anche la vista dell'acqua. In Sicilia la cancellata sulla spiaggia di Mondello ha acquistato un valore simbolico. A Maiori, nella costiera amalifitana, è sparita la spiaggia libera. A Forte dei Marmi la vista mare è impedita sul 70 per cento del litorale. In controtendenza la Puglia e la Sardegna, con il 70 per cento del mare visibile in molte città.
Nel complesso sono 7 mila gli stabilimenti che gravano sui 7.375 chilometri di litorali italiani. Il record spetta alla Liguria, dove su 135 chilometri solo 19 sono liberi. Segue l´Emilia Romagna con 80 chilometri su 104 occupati da stabilimenti privati (la sola provincia di Rimini su 40 chilometri di costa ha la bellezza di circa 700 bagni). In Campania i chilometri di spiaggia privata sono ottanta.
Si calcola - afferma il rapporto - che almeno 1.050 chilometri di spiagge siano occupate da stabilimenti. E agli stabilimenti vanno aggiunti le infrastrutture, i campeggi, i villaggi turistici, le opere abusive residenziali, gli agglomerati urbani a ridosso dell´arenile. Portando così il dato complessivo sull'occupazione delle aree demaniali marittime attorno al 60 per cento del totale.
Un'occupazione che spesso comporta la negazione del diritto all'accesso al mare. L'effetto gabbia provocato dal muro di cemento - come è stato sottolineato nel Manuale di autodifesa del bagnante redatto dai Verdi e nella denuncia del ministro-ombra dell'Ambiente, Ermete Realacci - restringe infatti l'accesso al mare facilitando la pratica illegale del pedaggio per il bagno. La norma approvata dal Parlamento nel 2006 è chiara: è fatto obbligo «ai titolari delle concessioni di consentire il libero e gratuito accesso e transito per il raggiungimento della battigia anche al fine della balneazione». Ma gli abusi e i pagamenti imposti illecitamente restano frequenti.
Già lo hanno promosso sul campo come l'uomo dell'anno. Eppure Marchionne ha solo recuperato un'idea vecchia, quella del puro e semplice ritorno alla percezione del plusvalore assoluto (prolungamento del tempo di lavoro, maggiore sfruttamento). L'amministratore delegato viene santificato proprio perché intende rinunciare al terreno più avanzato di competizione (la percezione di plusvalore relativo grazie all'impiego di sapere, all'uso dell'innovazione tecnica, all'ampliamento del capitale costante) scelto dal capitale nel '900 e recupera la abbagliante pretesa di comprimere i costi del lavoro ogni volta che le cose vanno male all'impresa.
Più che una strategia accorta in grado di ridare fiato a un'azienda che rotola in grande affanno nei mercati globali, si vede solo una pigra e costosa ossessione ideologica (dare comunque addosso al lavoro) che di sicuro non porterà molto lontano lo stabilimento torinese nel recupero di posizioni nelle vendite. Non è con il ripristino della sussunzione formale del lavoro al capitale (inasprimento del potere disciplinare, limitazioni della rappresentanza) che si assicura il ritrovamento di margini di profitto da parte di un'azienda malandata. Con l'accantonamento miope della tendenza storica verso la sussunzione reale del lavoro al capitale (con più diritti, consumi e consenso) si intraprende solo una soluzione regressiva e in definitiva di corto respiro: il ricatto di una non scelta tra chiusura e rinuncia a tutele.
Il problema colossale della Fiat peraltro non sembra affatto essere quello di produrre poco a causa di una elevata conflittualità ma semmai quello di piazzare molto poco di quanto sfornato con una certa facilità dagli stabilimenti dispersi in mezzo mondo. Si registra oggi per la Fiat un impressionante 26 per cento in meno nelle immatricolazioni rispetto allo scorso anno. Il costo del lavoro e la cancellazione dei diritti c'entrano ben poco quali ostacoli per inserirsi nel gioco globale se il nodo autentico del marchio torinese è quello non riuscire a vendere bene il suo prodotto. Anche per la Fiat si tratta di uscire da una classica crisi di sovrapproduzione che contrae la domanda e la propensione al consumo una volta che del tutto esauriti appaiono i ritrovati magici delle carte di credito, ed esangui si rivelano i palliativi delle furberie finanziarie. E invece di rispondere a questo tema (come garantire al lavoro un margine più ampio di consumo) si cercano delle inutili scappatoie.
Il problema odierno del capitalismo, e quindi di riflesso della Fiat, è di avere dinanzi una forza lavoro troppo impoverita per potersi permettere il lusso di acquistare macchine costose (un'auto di media cilindrata costa quanto un salario annuale di un lavoratore; a un giovane precario una utilitaria spreme almeno due anni di lavoro) e non affatto satolla per i diritti eccessivi che l'hanno resa pigra e soddisfatta. La domanda interna, drogata negli anni più recenti con il facile accesso al credito al consumo che suppliva alla perdita drastica di potere di acquisto reale dei salari, non cresce (non può), e le macchine restano del tutto invendute negli autosaloni. Chi in questi anni ha vinto - la piccola impresa, il commercio, il lavoro autonomo - non compra utilitarie, orienta su altri marchi e beni posizionali le proprie scelte di consumo.
La grande stampa plaude unanime alle mosse di Marchionne e alimenta la credenza che dalla sua profonda crisi strategica la Fiat uscirà solo se gli operai staranno in fabbrica con qualche pausa in meno, con diritti affievoliti e magari trattenendo i bisogni fisiologici nell'arco della giornata. Tanto rumore per nulla. Le decantate idee nuove del novello uomo dell'anno non rivelano alcuna cultura dell'innovazione in grado di ridare linfa a una grande azienda inginocchiata. La cura Marchionne è, per la ripresa di competitività, un'aspirina ridicola dinanzi a una malattia mortale. Di rilevante essa ha solo il truce volto politico di chi propone lo scambio indecente tra (pochi) investimenti e (residui) diritti.
Non ci vuole molto a conquistare i gradi di campione della modernizzazione in questo neocapitalismo che ha un volto antico. Troppo antico per non provocare sciagure. Marchionne piace al pensiero unico di oggi non perché in effetti sia un geniale manager dell'innovazione di processo e di prodotto, ma perché è un politico maldestro che stuzzica gli appetiti inconfessabili del capitalismo d'ogni tempo: abolire i diritti e però non tollerare alcun conflitto nella società e nella fabbrica. Se riuscirà a fare questo, cioè a ridurre il lavoratore a pura corporeità che vende le sue energie fisiche a un prezzo sempre inferiore senza però trovare alcun intralcio nella resistenza della forza lavoro organizzata, il manager con il maglione blu altro che uomo dell'anno, sarebbe l'uomo della provvidenza che dispensa miracoli mai riusciti a nessun capitano d'industria. Purtroppo non è così, non si ha pace su una polveriera. Il disagio di ceti senza più speranza diventa una cieca rivolta e non grande conflitto, impossibile quando il lavoro non trova più i suoi referenti politici.
Quella che si ostinano a chiamare sfida estrema all'insegna della modernità in realtà è solo una banale ricetta che suggerisce di lavorare per più tempo, con meno diritti. La grande impresa, con la ricetta Marchionne, cessa di essere un luogo di relativo rispetto del ruolo del sindacato per inseguire il modello sociale arcaico imposto dai padroncini con i loro migranti spremuti e acquistati a buon mercato. Il manager con il maglione blu, che in un solo giorno guadagna quanto incassa un suo operaio in due anni di lavoro, non inventa nulla, copia i rudi padroncini che tengono i sindacati al di fuori dei loro oscuri capannoni. Per questo piace. E' il simbolo della grande impresa che, a corto di idee e di strategie efficaci, viene inghiottita dallo spirito selvaggio del piccolo padrone.
C'è scarsa creatività e audacia in tutto ciò. La porzione di capitale che in questi anni ha scrutato con una qualche diffidenza il poco elegante berlusconismo, sotto la regia di Marchionne, sta ricollocandosi ed è destinata a confluire nel blocco sociale della democrazia populista che ha schiantato le capacità innovative della società italiana. Condividono il declassamento definitivo dell'Italia a paese semi periferico destinato a bassi salari e a una scarna civiltà del diritto nel lavoro. Grande impresa, finanza e microcapitalismo stanno imponendo un nuovo modello di società a diritti impoveriti. Dev'essere così ovunque. Nelle fabbriche come negli uffici pubblici, nei laboratori artigiani come nelle scuole, nei capannoni del micro capitalismo territoriale come nelle università e nei centri di ricerca. L'innovazione significa precarietà, discesa (drammatica per i più giovani) dei salari ai livelli minimi della mera riproduzione fisica della forza lavoro. Ma l'Italia è già da anni agli ultimi posti al mondo per i salari, oltre c'è solo il precipizio.
Il miraggio cinese che attira l'amministratore delegato della Fiat è una follia improponibile. Con i salari di Pechino ci vorrebbero più di 30 anni di lavoro per comprare una punto. Il progetto Marchionne è in realtà una propaganda ideologica, non una terapia d'urto in grado di portare l'azienda fuori della sua crisi strutturale. Con il suo populismo padronale incasserà un successo politico ma non imprimerà alcuna svolta alle relazioni industriali. E per questo l'uomo dell'anno è per intero nel declino, non è una alternativa alla triste decadenza italiana. Marchionne insomma non è un grande manager consapevole dei ferrei imperativi del tempo globale, è piuttosto un piccolo ideologo politico che insegue i mulini a vento dell'umiliazione del lavoro e delle sue rappresentanze. Di crescita neanche a parlarne.
L’ITALIA SVENTRATA E SVENDUTA
Duecento metri di verde distrutti ogni minuto
di Giuseppe Salvaggiulo
Lo spettacolo è agghiacciante e non si dimentica: un’intera montagna sventrata. Si apre ogni giorno davanti agli occhi degli automobilisti che percorrono l’Autostrada del Sole, all’altezza del casello Caserta Nord. È l’immagine di un paese che deturpa il suo paesaggio, disseminandolo di migliaia cave, e soprattutto lo svende, concedendo concessioni a canoni irrisori, se non gratis. Oltre al danno ambientale, quello economico. Per la prima volta fotografato da un dossier di Legambiente, che quantifica in 500 milioni di euro i quattrini che Stato e Regioni rinunciano a incassare «regalando» il territorio.
Di cave si parla pochissimo, in Italia. Eppure si tratta di un settore che muove 5 miliardi di euro per il solo indotto creato dagli inerti usati nell’edilizia. E suscita appetiti non solo imprenditoriali, ma anche criminali. Le cave attive su tutto il territorio sono poco meno di 6 mila, circa 10 mila quelle dismesse. In tutto, dunque, si arriva a 16 mila: una media di due cave per ogni Comune.
E continuano ad aumentare. Il motivo è semplice: attivare una cava richiede una semplice autorizzazione e costa poco. «I canoni di concessione - scrive Legambiente - risultano a dir poco scandalosi. In media, infatti, nelle regioni si paga il 4 per cento del prezzo di vendita degli inerti. Ancor più assurda è la situazione delle regioni dove si cava addirittura gratis, come in Valle d’Aosta, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna».
Le amministrazioni pubbliche incassano ogni anno dai canoni di concessione la miseria di 53 milioni di euro, a fronte di ricavi per le imprese di 1,7 miliardi di euro. Se l’Italia applicasse le regole della Gran Bretagna, per esempio, incasserebbe ogni anno 567 milioni di euro. Mezzo miliardo in più.
Ma l’Italia non è la Gran Bretagna. E nemmeno la Francia, la Germania e un po’ tutta l’Europa, che segue un’altra strada: incentivare il riciclo dei materiali degli edifici demoliti per ridurre l’impatto sul territorio di cave e discariche. Per farlo basta imporre limiti e canoni più robusti ai cavatori e rendere più costoso lo smaltimento dei rifiuti inerti in discarica. A quel punto le imprese scoprono che conviene riciclare e lo fanno.
La Danimarca ci lavora da vent’anni e oggi vanta il record del 90 per cento di materiale edilizio riciclato. Olanda e Belgio sono all’80 per cento. La Gran Bretagna ha svoltato sette anni fa e oggi ricicla il 50 per cento. La Svezia ha triplicato il canone sulle cave negli ultimi dieci anni. La Repubblica Ceca ha aggiunto un’imposta calcolata sul territorio occupato, in funzione del danno ambientale.
Noi no. Noi non ci pensiamo nemmeno: incentiviamo con canoni bassi sia le cave che le discariche, riciclando meno del 10 per cento. Doppio danno ambientale, doppio spreco economico. «A Roma si sta scavando per la nuova linea della metropolitana, ma tutto quel materiale finisce in discarica», spiega Edoardo Zanchini di Legambiente, autore della ricerca. Solo la Valle d’Aosta ha cominciato a sperimentare la via europea.
Che questi temi interessino poco alla politica, è dimostrato dal fatto che la normativa nazionale di riferimento risale al 1927, in pieno regime fascista. Mezzo secolo dopo quel regio decreto, i poteri furono trasferiti alle Regioni. E infatti oggi il ministero dell’Ambiente fa sapere che la responsabilità è tutta loro.
Il bilancio è sconfortante: un censimento ufficiale delle cave non esiste. In nove regioni non esistono i piani per stabilire dove scavare e dove no. I dati sono aggiornati con fatica e mancano i controlli sulle estrazioni effettive (necessari per calcolare i canoni da pagare). La Calabria, in trent’anni, non è riuscita ad approvare una legge, legittimando l’anarchia dei Comune.
Il fatto che le regioni meno virtuose siano quelle meridionali non è un caso. «Il controllo delle organizzazioni mafiose è totale», sostiene Zanchini. In Campania, dove un piano ancora non c’è, la quantità di materiale estratto legalmente è tra le più basse d’Italia, perché la camorra fa da sé. Solo nelle province di Napoli e Caserta, si stimano più di mille cave abusive. I boss prima le aprono e poi, quando non servono più, le riempiono di rifiuti.
MICHELANGELO NON C’ENTRA L’ECOMAFIA SÌ
di Mario Tozzi
L’Italia è uno dei Paesi europei più sforacchiato dalle cave, primo strumento della devastazione ambientale. Non solo è molto facile aprirne di nuove, ma nessuno si preoccupa di ripristinarle una volta finita la coltivazione. In altri Paesi si usa obbligare chi vuole aprire una cava a lasciare in fideiussione il denaro sufficiente per poterla ripristinare, qui spesso prima della fine della concessione le cave vengono abbandonate: lo scempio ambientale resta e nessuno può porre riparo.
Si cava soprattutto per il cemento ma anche per la polvere del marmo. È il caso delle Alpi Apuane, uno dei luoghi più incontaminati e straordinari d’Italia, sforacchiato da quasi 300 cave che non servono più a produrre i marmi monumentali della Pietà di Michelangelo o dei romani antichi, ma solo polvere di marmo usata come sbiancante o additivo, dunque non più per un uso monumentale.
Una nuova cava significa strade, camion, inquinamento atmosferico, polveri sottili, rumore. Inoltre spesso la cava è il primo passo dell’ecomafia dei rifiuti: se ne apre una abusiva, ci si fa cemento. Nel buco si interrano i rifiuti tossici speciali. Sopra, una volta ricoperto con la terra, ci si fanno i pomodori.
La legislazione è carente e non comporta obblighi ambientali. Servirebbero nuove norme uguali per tutto il territorio, ricordando che i giacimenti minerari e le rocce sono patrimonio della nazione.
LA GIORNATA DEI PARCHI
Ecco chi ci guadagna nell’Italia sventrata e svenduta.Il campus
«Le aree protette sono un’importante realtà che nel nostro Paese ha permesso la conservazione della natura nell’undici per cento del territorio». In occasione della Giornata europea dei parchi che si celebra oggi, il Wwf festeggerà in Abruzzo ospitando, in collaborazione con la Croce Rossa, i ragazzi delle tendopoli dell’Aquila. Molte oasi del Wwf in questi giorni sono diventate luogo d’accoglienza per chi ha subito il terremoto, come a Penne, trasformata in campus per gli studenti di Scienze ambientali.
Scempio continuo
Per il Wwf i parchi «sono sia un presidio contro le aggressioni del cemento (in Italia si consumano 200 mq di territorio al minuto) sia una garanzia per le generazioni future». Ma soprattutto «in assenza di un piano nazionale sulla Biodiversità, le aree protette rappresentano il solo presidio per la tutela della diversità biologica, come chiesto dalle convenzioni internazionali».
L'icona nel sommario è tratta dal blog caiazzorinasce, e rappresenta una manifestazione che contrasta insieme i due sfruttamenti del territorio
Qui in Italia l’unica volta che l’urbanistica in quanto tale ha “bucato” sui media risale ai primissimi anni ’60, quando l’astro nascente della Democrazia Cristiana Fiorentino Sullo si giocò il potenzialmente luminoso futuro col tentativo fallito di riformare la legge sui piani regolatori.
In Gran Bretagna, dal XIX secolo culla di tutte le innovazioni sulla città e il territorio, l’argomento è popolare al punto di scaldare gli animi e provocare titoloni di prima pagina. Ed è anche giusto sia così, visto che le decisioni sullo spazio che abitiamo, urbano o rurale che sia, hanno enormi impatti non solo sul portafoglio di qualche speculatore, ma anche e soprattutto sulla qualità della vita, dell’ambiente, e in fondo della democrazia.
Non a caso una delle parole che ricorrono maggiormente nel dibattito (in parlamento e fuori) sul nuovo progetto di legge sulle trasformazioni del territorio, è accountability: chi risponde a chi, nelle decisioni sulle infrastrutture, le grandi opere, la conversione da un uso all’altro delle superfici urbane e rurali?
Tutto comincia nel 2005, quando due pezzi da ’90 del New Labour con altissime responsabilità di governo (John Prescott, vicepresidente con delega al territorio, Gordon Brown, Cancelliere dello Scacchiere) chiedono all’economista Kate Barker “di esaminare come … politiche e procedure di pianificazione territoriale possano favorire una crescita economica e produzione di ricchezza …”. La versione finale del rapporto Barker è resa pubblica alla fine del 2006, e inizia, a partire dalle sue raccomandazioni (ovviamente orientate alla massima efficienza, rapidità, efficace delle decisioni di trasformazione) il percorso politico che porta alla revisione della legge urbanistica, a circa sessant’anni dal Town and Country Planning Act 1947, dove nel pieno della ricostruzione dopo le bombe naziste il parlamento a maggioranza laburista metteva le basi per uno sviluppo territoriale fortemente orientato dall’iniziativa pubblica. Era l’epoca delle new town, spinte anche dalla paura dell’ecatombe atomica ma che iniziavano un processo di riordino dell’intero territorio metropolitano nazionale, e la parola planning diventava il simbolo di una presenza costante dello stato nella vita del cittadino, nel quadro generale del welfare.
Ora ci sono le eco-town, nuove città “sostenibili” molto volute da Gordon Brown, ma che ben riassumono con le reazioni negative suscitate tutte le perplessità sulla nuova idea di urbanistica economicamente efficiente: non sembrano affatto “eco” perché vanno ad occupare ettari di ottime terre agricole, a volte anche fette di quella greenbelt rurale tanto cara ai cittadini britannici amanti del paesaggio tradizionale; scavalcano le popolazioni locali e le amministrazioni che si sono democraticamente elette, con procedure centralizzate di decisione sui siti e approvazione dei progetti; come se non bastasse, tutta l’operazione sembra costruita in una logica di rapporto diretto e privilegiato fra il grande business immobiliare-energetico e qualche alto papavero governativo.
Anche la riforma del sistema urbanistico, nella scia efficientista indicata dall’economista Kate Barker, tenderebbe ad esempio a indebolire l’intangibilità delle grandi greenbelt, le fasce di spazio aperto intermetropolitano di ispirazione biblica, riprese a fine ‘800 dal movimento della Città Giardino e istituzionalizzate fra le due guerre, ma che ora sono considerate possibili localizzazioni per i milioni di nuove case programmate dal governo da qui al 2020. E, dicono i critici, è abbastanza ridicolo parlare di lotta al cambiamento climatico con un’edilizia energeticamente efficiente, se poi quegli edifici “ecologici” ricoprono di cemento e asfalto la terra che dovrebbero salvare …
Altro oggetto del contendere è la Commissione speciale per le grandi opere strategiche (già approvata in parlamento), che istituisce un percorso parallelo di autorizzazioni per aeroporti, centrali energetiche, autostrade ecc. Per evitare l’ostruzionismo egoista e piccolo borghese dei soliti nimby che impediscono lo sviluppo per non rinunciare al panorama dal portico di casa, dicono i sostenitori. Per levare dai piedi la partecipazione locale, e imporre un modello decisionista autoritario, dicono gli ambientalisti e i rappresentanti delle amministrazioni comunali.
Il giornalista specializzato del Guardian Peter Hetherington un anno fa scriveva delle linee generali del progetto di legge: “ Non abbiate paura. Il governo non sembra voler distruggere il sistema di pianificazione urbanistica britannico così come dura da sessant’anni”. Ma restano forti dubbi, anche in parlamento. Da un certo punto di vista verrebbe da dire: fortunati loro!
Se le vacanze sono fatte per guardarsi intorno, anche quest’anno chi ha percorso o in su o in giù l’Italia non può che aver tratto sconsolanti conclusioni. La devastazione del territorio continua e si è ormai spinta a un livello tale da farmi pensare che essa sarà ricordata anche tra molti secoli come il documento più buio della realtà italiana di questo dopoguerra. Per sempre, di generazione in generazione, il nostro paesaggio è stato abbellito dalle mani dell’uomo per decadere in modo forse inesorabile nelle ultime due generazioni.
Non solo le periferie sono quasi ovunque in uno stato avvilente, ma tutte le nostre pianure, la fascia pedemontana delle Alpi e degli Appennini e migliaia di chilometri delle nostre coste hanno perso la loro identità e la possibilità di offrire condizioni di vita decente ai loro abitanti.
Non parliamo della crescita inarrestabile delle aree industriali che continuano ad espandersi nonostante il grande numero di capannoni mai utilizzati o abbandonati a causa della crisi o delle mutate caratteristiche delle strutture produttive. Non parliamo nemmeno del danno all’agricoltura per effetto di un’urbanizzazione che non tiene in minimo conto le vocazioni del suolo.
L’azione combinata di speculazione e incultura, rafforzata ed esaltata dalla forza del bulldozer, stanno veramente ferendo a morte l’Italia. Ci vorranno secoli per rimediare, ammesso che sia possibile.
Debbo tuttavia constatare che, nonostante tutto questo sia pienamente conosciuto e riconosciuto, sono state progressivamente create le condizioni per cui le amministrazioni locali sono sempre più costrette, da una legislazione incoerente, a sostenere i propri bilanci con i proventi degli oneri di urbanizzazione, aumentando ancora la devastazione del territorio.
Sono cioè gli stessi comuni che, in molti casi, sono obbligati a reperire una parte sostanziosa delle proprie entrate attraverso una politica di urbanizzazione forzata e molto spesso inutile. Per tenere aperto l’asilo nido sono costretti a moltiplicare le concessioni edilizie.
Da tempo si sente la necessità di cambiare strada e di adottare leggi per fermare questo processo devastante. Tuttavia, come spesso avviene in questi casi, l’interesse politico di breve periodo finisce col prevalere rispetto al bene presente e futuro dell’Italia. L’ultimo grande esempio di questa schizofrenia fra interessi del Paese e obiettivi a breve termine della classe politica è il ben noto caso dell’abolizione dell’Ici su tutte le prime case.
Sappiamo che il togliere una tassa trova sempre il favore degli elettori, soprattutto quando si tratta di un’imposta su un bene così caro ed essenziale come la casa.
Tutti però sanno altrettanto bene che questa imposta (da cui possono essere facilmente esentati i più bisognosi) è in tutto il mondo lo strumento per reperire le risorse necessarie a fornire i beni e i servizi che servono a rendere vivibile una città e quindi anche a conservare nel tempo il valore della casa. In termini concreti essa, più che una tassa, è il contributo necessario per mantenere nel futuro il valore della casa.
A questo si aggiunge il fatto che il tributo da pagare sui beni immobili è ovunque nel mondo lo strumento principale per la necessaria autonomia degli enti locali. Per usare un gergo ora di moda è ovunque la base del federalismo fiscale.
Assume quindi un aspetto quasi grottesco vedere che, mentre il Paese naviga in un dibattito astratto e senza fine sul federalismo, si sostituisce l’imposta che di tutte è più legata al territorio con un parziale e incompleto trasferimento di risorse dallo Stato centrale. Il che significa togliere autonomia ai comuni e, ovviamente, aumentare altre imposte, meno visibili ma più pesanti per il futuro economico e sociale dell’Italia.
Per non parlare del modo con cui i trasferimenti in pratica avvengono, premiando i comuni con i deficit maggiori e punendo coloro che avevano attuato una politica più saggia.
Non voglio a questo punto soffermarmi su aspetti troppo tecnici del problema ma ritornare alla constatazione precedente che, attuando una politica attenta alle esigenze di lungo periodo del Paese, si perdono le elezioni mentre, con una politica sbagliata ma demagogica, le elezioni si vincono.
Il che, tradotto in linguaggio popolare, significherebbe che la democrazia si preserva solo facendo porcherie o, comunque, andando contro il sano sviluppo della nostra comunità.
Questo processo è stato negli ultimi tempi accelerato dal crescente ruolo dei sondaggi di opinione. Essi infatti sono per definizione più attenti alle emozioni del momento che non all’analisi degli interessi futuri di tutti noi. La politica del territorio è solo un esempio. Esso può essere facilmente esteso a tutti i settori della nostra realtà politica e sociale.
Da queste constatazioni non traggo elementi di disperazione per la nostra democrazia perché il sistema democratico, con tutti i limiti elencati in precedenza, è l’unico capace di correggersi e di cambiare. A condizione che il cittadino venga posto di fronte a scelte alternative organiche e coerenti. La presente crisi economica e la diffusa percezione del livello di deterioramento raggiunto dal nostro Paese rendono le orecchie, i cuori e perfino i portafogli degli elettori molto più attenti ad ascoltare ed accogliere nuove proposte. Esse debbono però essere organiche e credibili. Ma soprattutto occorre che siano forti e coraggiose proprio perché, al punto in cui siamo arrivati, debbono essere in grado di scomporre e ricomporre l’elettorato in modo comprensibile e coerente.
È chiaro che in democrazia questo pesante compito spetta soprattutto al partito di opposizione. Per questo motivo gli italiani si aspettano dai leaders del partito democratico non tanto delle proposte e dei programmi per vincere il congresso ma per risolvere i problemi secolari dell’Italia.
P.S. A proposito di riflessioni estive, passeggiando in bicicletta per l’Appennino tosco-emiliano, ho ancora una volta visivamente constatato la differenza tra il buon governo e il cattivo governo. Nonostante siano passati centocinquant’anni dall’unità d’Italia e siano stati cambiati i confini regionali, è ancor’oggi possibile leggere i confini di allora dalla natura del bosco. Alto, ordinato e rigoglioso il bosco toscano del granduca. Soprattutto ceduo e selvatico il bosco emiliano dello stato pontificio. Anche gli effetti del buon governo durano nei secoli.
Saliva la mota giovedì dalle caditoie - così si chiamano i tubi - e dai tombini non solo alla Stazione Tiburtina, ma anche a piazza Ungheria, dove i pariolini, quando non piove, gustano i migliori arancini di riso di Roma. E mentre la capitale andava sott’acqua, otturata dalle foglie lasciate marcire e dai sampietrini divelti in uno scenario fognario degno di Lagos, Nigeria, Heinz Beck, superchef della «Pergola», il miglior ristorante d’Italia arrampicato sulla cima di Monte Mario, sfornava a Napoli le sue «opere» per la «meglio borghesia» partenopea. Accolta in via Cristoforo Colombo da un elegante guardiaporta in livrea color nocciola, tra fontane verticali, camini nereggianti, pianoforti rosseggianti, e armature da samurai, opera dello studio Kenzo Tange.
È l’inaugurazione, se vogliamo di gusto un po’ kitsch, dell’Hotel Romeo, cinque stelle lusso, 12 piani, 83 camere, 17 suite con pareti di cristallo e piscina a sfioro sul tetto. L’hotel non è dedicato a Romeo, il mitico gatto del Colosseo, ma alla volpe di Posillipo, dove essa abita in un palazzo di sei piani con prato degradante verso il mare, pur se lievemente infastidita da un piccolo decreto di sequestro per abuso edilizio e una violazione dei sigilli.
Al secolo, la volpe è Alfredo Romeo, 55 anni, titolare della Global Service, che gestisce il patrimonio immobiliare del comune di Napoli e tanti altri patrimoni pubblici a Roma, Milano, Firenze, Venezia, per conto dell’Inps, dell’Inpdai, dei ministeri dell’Economia, dell’Interno, della Difesa, persino per il Consiglio di Stato e per il Quirinale. Un patrimonio amministrato di almeno 48 miliardi di euro, sulla cui redditività la Corte dei Conti - non c’è voce in Italia più inutile - ha espresso fiere critiche.
Primo contribuente di Napoli, Romeo ha il sogno di gestire intere città, compresi i cimiteri, dove il flusso di clienti è inarrestabile. Ha cominciato dalle strade, in testa quelle di Roma, coperte giovedì scorso da tonnellate di mota maleodorante che ha otturato per un giorno i milioni di buche su cui quotidianamente si sfrangono le centinaia di migliaia di centaurini in motorino della Capitale. Conquistò a suo tempo, con le amministrazioni di centrosinistra, insieme a Francesco Gaetano Caltagirone, senza il quale a Roma e a Napoli non si muoveva foglia, un appalto di 64 milioni l’anno per nove anni per la manutenzione delle strade romane. Totale 576 milioni per 800 chilometri, cioè 80 mila euro a chilometro ogni anno, contro i 5 mila e cinquecento euro a chilometro che per lo stesso lavoro spende il comune di Bologna, con risultati che difficilmente possono risultare peggiori rispetto a quelli dei tombini che scoppiano alle prime piogge. Utili in tre anni della volpe di Posillipo: 75 milioni su un fatturato di 130. Che poteva fare il nuovo sindaco di Roma Gianni Alemanno, che pure non sembra affatto eccellere nella gestione quotidiana di una metropoli come Roma, se non disdire il contratto con il re partenopeo delle buche, prima ancora che gli elementi complottassero contro la mancata ma salatissima manutenzione? «Magnanapoli»: si chiama così l’inchiesta che scuote, tra le tante, palazzo San Giacomo e che - guarda un po’ - ha al centro Alfredo Romeo, con l’appalto da 400 milioni per la strade partenopee, che, pur senza mai essere andato in gara, è lo scandalo presunto che ha reso negli ultimi giorni invivibile un clima già torbido, come se incombesse il giudizio universale, dopo il suicidio di Giorgio Nugnes e le dimissioni dell’assessore al Bilancio Enrico Cardillo.
Sono passati giusto quindici anni, ma forse qualcuno ancora ricorda chi è quell’Alfredo Romeo che oggi inaugura il suo albergo argenteo a cinque stelle lusso con una cena di Beck nella sala denominata «Il Comandante», in onore di Achille Lauro, che di quel palazzo e di Napoli tutta fu padrone prima che ne prendessero possesso la «Corrente del Golfo» e l’«Intepartitico», secondo la definizione dell’ex assessore democristiano Diego Tesorone. Cioè la cupola politico-affaristica trasversale, destra-sinistra, che oggi sembra essersi riprodotta, secondo il collaudato schema di allora.
Proprio Romeo, l’uomo dei lussi di Kenzo Tange, il Creso di Posillipo cui nessun politico sa dire di no, è il passato che ritorna. Correva il 1993, l’era di Mani Pulite, quando il giovane avvocato immobiliarista, oggi ricchissimo padrone bipartisan delle città, raccontò tutto ai magistrati: «I politici mi saltavano addosso come cavallette, volevano soldi, io sono una vittima, non un complice», narrava quasi piangente a quelli che volevano ingabbiarlo. Straordinario il racconto dell’incontro della presunta «vittima» con Elio Vito, che gli fu presentato dall’assessore democristiano al patrimonio Vincenzo De Michele.
Vito era noto come «Mister Centomila Preferenze» e - per sua ammissione - fu il collettore democristiano della Tangentopoli napoletana. Da una tangente del 2 per cento, per la quale alzava l’indice e il medio di fronte all’interlocutore che doveva pagare, riusciva a salire per un qualsiasi appalto fino al 7 e mezzo per cento, o, nei casi peggiori per lui e per i partiti della Cupola, al cinque. Proprio mentre a Milano Antonio Di Pietro ingabbiava i primi di Mani Pulite. Si è beccato due anni e sei mesi Romeo, ma poi è andato prescritto in Cassazione e, con pazienza e abilità, è diventato il perno del nuovo accordo politico-affaristico trasversale che governa Napoli con buona pace di Rosetta Iervolino e di Antonio Bassolino. Ha domato costosamente le cavallette di tutte le parti, se non con le mazzette, che forse non usano più, con i subappalti alle ditte collegate alla politica.
«Inerzia, inefficienza, inadeguatezza», scandisce il cardinale di Napoli Crescenzio Sepe, senza mai pronunciare la parola «corruzione», che a Napoli sembra unire oggi pezzi di destra e di sinistra sugli appalti e sugli affari, come ai tempi antichi della Cupola, della Corrente del Golfo e di Tangentopoli. Le nuove leve, in questo cupo clima di vigilia e in attesa del diluvio universale, sono pronte, anche se alquanto stagionate. Claudio Velardi, ex Richelieu di Massimo D’Alema, oggi assessore straparlante al Turismo di Bassolino e consulente ben pagato di Romeo, annuncia una lista civica, chiedendo che Veltroni e D’Alema stesso «si tolgano di mezzo». Italo Bocchino, Renzo Lusetti e anche Nello Formisano - destra, sinistra, dipietrismo - chissà se son tutti lì come nell’«Interpartitico» di tanti anni fa a celebrare i fasti dell’«Hotel Romeo», o se l’hanno archiviato. Romeo in persona, che la sa lunga, inaugura la sala del «Comandante». Quale Comandante? Ma Achille Lauro, l’armatore che della politica napoletana fu il padrone per lustri interi, scambiando pacchi di pasta e mezze suole di scarpe agli elettori. In fondo, a parte le piscine e le pareti di cristallo, che cos’è cambiato a Napoli con l’«Hotel Romeo», cinque stelle super, e anche a Roma, con i tombini vomitanti, rispetto a sessant’anni fa?
Poniamo il caso che all’alba di una giornata grigia qualche ignoto malfattore apra i collettori di collegamento di tre cisterne di un deposito in una ex raffineria a Villasanta, nei pressi di Monza. Poniamo il caso che circa 10 milioni di litri di gasolio e di olio combustibile fuoriescano e che una parte finisca nel Lambro, fiume fraterno di tutti i lombardi e già dal 1987 definito “zona ad alto rischio ambientale”. E, ancora, supponiamo che questi olii inquinanti arrivino al Po, il più grande fiume italiano, patrimonio ambientale, economico, culturale senza paragoni possibili. A questo punto si pongono alcune questioni: chi deve intervenire, chi decide, chi governa il fiume prima e dopo? Questa volta i disastri originati in Brianza sono stati contenuti, la marea nera si è fermata all’isola Serafini, tra Piacenza e Cremona. Anche Bertolaso, senza massaggiatrice, ha fatto la sua figura in tv.
Ma il problema rimane. Per semplificare il caso si può usare una battuta del presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani: «Il Po se ne frega del federalismo e delle nostre alchimie amministrative». La questione centrale per il nostro amato fiume, posta anche in un bel convegno del pd svoltosi a Mantova nei giorni scorsi con l’intervento di Pierluigi Bersani, è quella della governance, come si direbbe in azienda, o più semplicemente della gestione del potere sul fiume. Il governo del Po è qualche cosa di assai complicato e delicato. Per alcuni numeri. Il Po è il più grande bacino idrografico con un’estensione di 70mila chilometri quadrati e un’area di pianura di 46mila chilometri quadrati. Il bacino del fiume interessa otto regioni italiane. Ci sono 16 milioni di abitanti direttamente interessati alla vita di questo maestoso corso d’acqua che alimenta il 37% dell’industria nazionale e il 47% dei posti di lavoro. Gli allevamenti di bestiame sono di 4milioni di bovini e circa5 milioni di suini, tre sole regioni (Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna) coprono il 55% dell’intero patrimonio zootecnico nazionale.
In più il Po è la nostra storia, la cultura, la letteratura, il cinema, la vita di milioni di cittadini. Zavattini e Bertolucci, Soldati e Brera e tanti altri a cantare questo fiume che potrebbe essere il protagonista, se fossimo capaci e rispettosi, di un formidabile progetto di sviluppo di green economy. La Direttiva europea sulle acque (2000/60) ha dato un’indicazione chiara ai governi nazionali in tema di qualità delle acque, di conservazione, di partecipazione dei cittadini, prevedendo inoltre la nascita del “distretto idrografico” come strumento di governo dei fiumi. Ma, naturalmente, noi siamo in ritardo. Alessandro Bratti, originario di Ferrara, parlamentare pd nella commissione Ambiente della Camera spiega: «Il governo unitario del Po è indispensabile. La visione e la governance condivise possono stare solo in un soggetto che oggi è l’Autorità di bacino e domani sarà l’Autorità di distretto, sede di cooperazione tra stato e regioni. Il ritardo del governo nell’applicazione della direttiva e nella nascita dei distretti pesa nelle difficoltà di gestione delle politiche ambientali sul bacino padano e su tutto il territorio».
A proposito di padani. Vi ricordate Umberto Bossi che raccoglie con l’ampolla l’acqua sorgente del Po e il giorno dopo la versa a Venezia mentre le bandiere verdi garriscono al vento? Bene, al netto di questa sceneggiata, la Lega, che dovrebbe avere a cuore più di altri le sorti del fiume padano, è una delle responsabili dei grandi pasticci che si combinano in nome, e alle spalle, del Po. Nel 2007, proprio sulla base della Direttiva europea, il governo Prodi decise di stanziare 180 milioni di euro per sostenere il progetto «Valle del fiume Po», nato dal basso, dalle amministrazioni locali e di cui oggi si fa interprete il presidente della provincia di Parma, Vincenzo Bernazzoli: «Il nostro piano prevedeva la realizzazione di interventi per la sicurezza, per la valorizzazione naturalistica, turistico-ambientale del fiume che sono un importante contributo all’economia, soprattutto in una fase difficile ». Niente grandi opere e follie berlusconiane, ma interventi razionali, rispettosi dell’ambiente. Ma caduto Prodi e ritornato Berlusconi con i sodali leghisti i soldi sono scomparsi. Che fine hanno fatto i 180 milioni? Conil voto della Lega sono finiti nel calderone dei fondi anti-crisi e hanno finanziato pure una società in dissesto del comune di Palermo, poi fallita.
Mail peggio per il Po deve ancora venire, considerata la visione leghista. La destra, la Lega e in particolare la regione Lombardia hanno in mente un piano di «bacinizzazione», una brutta parola che in realtà significa lo sfruttamento industriale delle acque per la produzione di energia con la costruzione di quattro centrali e il coinvolgimento di ingenti capitali privati. «Il piano della Lombardia è pericoloso» spiega Stella Bianchi, responsabile ambiente della segreteria nazionale pd, «si tratta di quattro traverse da realizzare tra Cremona e la foce del Mincio con l’avvio di altrettante centrali idroelettriche, un progetto molto costoso, previsto per l’Expo 2015, quindi con il rischio di procedure veloci e semplificate, che si basa sullo sfruttamento intensivo e contrasta con la necessità di governare unitariamente, di rispettare il Po, il suo equilibrio, di prevenire l’avanzamento del cuneo salino».
In questo contesto, mentre i problemi di inquinamento, di variazioni climatiche, di alghe sono all’ordine del giorno, la difesa del fiume appare, com’è accaduto nella storia, legata ai suoi cittadini. Giuseppe Gavioli, 75 anni, già amministratore, ex assessore dell’Emilia Romagna, è una memoria storica del fiume. Gli italiani amano il Po? Risponde: «Quelli che lo vivono lo amano moltissimo perchè il fiume lega la gente, la spinge a stare insieme, a creare una comunità solidale. Quelli che stanno lontano, invece, lo sfruttano, come gli inquinatori di Milano»