Milano leghista e Roma ladrona sono finalmente unificate sotto il segno del cemento. Poche settimane fa il consiglio comunale di Milano ha infatti approvato il nuovo piano urbanistico della città che prevede un incremento di abitanti di oltre 500 mila unità. Dal 1971 la città conosce un continuo declino demografico: dagli anni '70, quando raggiunge il suo massimo storico superando il milione e 700mila abitanti a oggi in cui ne ha poco più di un milione e trecentomila. Secondo gli «urbanisti» meneghini, Milano dovrebbe dunque ritornare ai livelli del periodo d'oro dell'industria manifatturiera italiana, quando la città non solo richiamava decine di migliaia di operai ma era anche un punto di riferimento per la cultura nazionale.
La perdita della popolazione degli ultimi quaranta anni è stata causata dal declino industriale e dallo sconvolgente aumento dei valori immobiliari degli ultimi venti anni. Una città in declino produttivo in un paese che si dibatte nel medesimo fenomeno (la Fiat a Detroit) richiamerà dunque mezzo milione di abitanti!
La capitale non è stata da meno. Il piano regolatore del «modello Roma» di Veltroni ha regalato agli immobiliaristi 70 milioni di metri cubi di cemento per un aumento stimato di popolazione di 350mila abitanti. Anche Roma è in lento declino demografico dagli anni '70 a causa di un analogo fenomeno di valorizzazione immobiliare che ha respinto fuori del comune 300mila abitanti. Entrambe le città pensano di incrementare la popolazione senza costruire neppure una casa popolare e senza sapere quale tipo di economia le sosterrà: è il mercato, così ripetono, che guida lo sviluppo. Ma se proprio a causa di quel mercato senza regole le città si sono vuotate dei ceti popolari, per chi verranno costruiti i nuovi giganteschi quartieri? È un evidente regalo alla rendita immobiliare, rappresentata dal mondo finanziario e dagli eterni protagonisti del mattone.
Ma le analogie non si fermano qui. A causa della forte espulsione di abitanti, sono centinaia di migliaia i lavoratori che quotidianamente devono raggiungere le due città da un sempre più ipertrofico hinterland. La logica voleva che il nuovo disegno urbano venisse costruito su questa stessa scala metropolitana. Entrambe le città hanno invece disegnato i loro piani nella gelosa difesa dei propri confini: chi sta fuori insomma, si arrangi, nessuna istituzione si farà mai carico del peggioramento delle loro condizioni di vita.
Ancora. Entrambi i piani sono impostati sulla cancellazione delle regole. C'è un pallido quadro di riferimento, è vero, ma volta per volta esso viene violato attraverso trasferimenti di «diritti edificatori» (a Milano, per stare tranquilli, hanno costruito una borsa dei diritti edificatori!), compensazioni urbanistiche e accordi di programma. L'urbanistica come sistema di regole e stata sostituita da un'opaca e continua contrattazione che privilegia la grande proprietà fondiaria.
Anche perché, e veniamo alla quarta analogia, entrambi i comuni affermano di «non avere le risorse economiche per realizzare le nuove urbanizzazioni» e si sono conseguentemente messi nelle mani della speculazione fondiaria. C'è bisogno di una nuova strada? Aumentiamo le cubature. Una scuola? Ancora cemento. Un parco? Un'altra dose aggiuntiva di metri cubi. Eppure le due città continuano a spendere fiumi di soldi in opere inutili. Lo stadio del nuoto di Roma costerà più di un miliardo (sic!) di euro. L'organizzazione dell'Expo del 2015 chissà quanto.
E proprio l'Expo ci porta alla quinta analogia. Il governo delle città è sfuggito ormai di mano alle amministrazioni comunali. Il modello «straordinario» viene sperimentato a Roma nel 2000 dal duo Bertolaso-Balducci, che pochi anni dopo, nel 2009, daranno il meglio di sé nella vicenda dei mondiali di nuoto. Nel frattempo - con consenso bipartisan - veniva costruita la candidatura di Milano all'Expo del 2015. Roma punta infine tutte le sue carte sulle Olimpiadi 2020. I consigli comunali delle due città sono ormai svuotati di funzioni reali e il futuro urbano lo decidono i poteri economici dominanti che in questo modo potranno meglio indirizzare cospicui finanziamenti pubblici verso i quadranti urbani dove hanno interessi.
E mentre continuano a recitare l'allegra pantomima del «non-ci-sono-i-soldi» i due schieramenti politici cancellano le città, le rendono sempre più invivibili. Gli interessi di pochi prevalgono sulle aspettative sociali. E a questo disegno l'urbanistica romana e milanese sono state decisive.
Giulia Turri, Carmen D'Elia, Orsolina De Cristofaro: ancora tre donne, le tre componenti del collegio che si appresta a giudicarlo, sul viale del tramonto di Silvio Berlusconi. Se non è una nemesi, come scrive Famiglia Cristiana, di sicuro non è un caso. Questi tre nomi non allungano solo l'elenco di giudici e magistrate - Cristina Di Censo, Ilda Boccassini, Anna Maria Fiorillo, Nicoletta Gandus - che a vario titolo hanno avuto a che fare con le vicende giudiziarie del premier; si aggiungono altresì alla lunga sequenza di donne, eccellenti e comuni, famose e sconosciute, nemiche e amiche del Sultano che ne hanno decretato e scritto la fine. Provocando il crollo non della sua immagine, come dice a Oggi Massimo D'Alema, ma del suo populismo seduttivo, incardinato sulla sua certezza di essere, nel rapporto con l'altra metà del cielo e della terra, irresistibile e invincibile. Non è un caso, ed è, lo diciamo per i dirigenti del centrosinistra che ci sono arrivati con un paio d'anni di ritardo e solo di fronte all'evidenza di una piazza, un caso politico.
Due anni di ritardo non sono pochi: decidono la piega di una vicenda. All'ombra della sua riduzione a episodio minore, materia privata e non politica, questione di cui dall'opposizione era meglio tacere che parlare, il cosiddetto sexgate è diventato caso penale. Certezza di prove, rito immediato, un capo di governo in giudizio per un odioso reato sessuale, delizia per l'informazione planetaria. La democrazia italiana precipitata di nuovo nello scontro fra poteri dello Stato, le fanfare berlusconiane di nuovo a intonare il mantra della persecuzione giudiziaria e a invocare il potere dell'Eletto contro l'arbitrio delle procure. La storia della seconda Repubblica finita nello stesso imbuto da cui - a parti diverse: il Cavaliere allora cavalcava Mani pulite - era cominciata.
Tocca dunque di nuovo ribadire. Non c'è nessuna persecuzione giudiziaria. Non c'è possibilità, in una democrazia costituzionale, di usare il principio di legittimità contro il controllo di legalità. Non c'è unto dal popolo che possa governare a prescindere o contro la legge. Non c'è presidente del consiglio che possa prendere a calci la magistratura. Berlusconi dunque vada in processo o si dimetta, meglio ancora: si dimetta e vada in processo. Terza via non si dà, che non sia o la catastrofe costituzionale, o lo stillicidio dell'arroccamento su una maggioranza di parlamentari schiavizzati dal sultano e dipendenti dalle mosse di Ghedini.
Però. Non è una bella giornata per la politica quella in cui un rito immediato decide le sorti di un ventennio. Adesso il Pd chiede dimissioni ed elezioni: è giusto; è obbligatorio; è tardi. Nel Berlusconi-gate tutto era lampante fin dall'inizio, anche senza la prova del reato. Sarebbe bastato, nell'ormai lontana primavera del 2009, prendere sul serio la parola di alcune donne (e le scoperte di molta informazione). Farne un caso politico, senza aspettare che diventasse un caso penale. Combattere sul fronte del consenso, senza aspettare il permesso dei sondaggi o delle sante alleanze. Non da oggi, non è la magistratura che esorbita: è la politica che manca.
Già nel 1994 Berlusconi era ineleggibile, perchè concessionario dello Stato, secono una legge vigente. Fu salvato con un "cavillo", con una serie di decisionisostanzialmente bipartisan. Vedi i dettagli nel libro di Paolo Sylos Labini, Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, Editori Laterza, 2003, p. 46 e segg
È tempo di liberarsi dello spirito minoritario che, malgrado tutto, continua a lambire anche qualche parte della stessa opposizione. È questa l´indicazione (la lezione?) che viene dai molti luoghi che da molti mesi vedono la presenza costante di centinaia di migliaia di persone che, con continuità e passione, rivendicano libertà e diritti: un fenomeno che non può essere capito con gli schemi, invecchiati, del "risveglio della società civile" o di qualche partito "a vocazione maggioritaria". Non sono fiammate destinate a spegnersi, esasperazioni d´un giorno, generiche contrapposizioni tra Piazza e Palazzo. Non sono frammenti di società, grumi di interesse. È un movimento costante che accompagna ormai la politica italiana, e a questa indica le vie per ritrovare un senso. È l´opposto delle maggioranze "silenziose" che si consegnano, passive, in mani altrui.
Donne, lavoratori, studenti, mondo della cultura si sono mossi guidati da un sentimento comune, che unifica iniziative solo nelle apparenze diverse. Questo sentimento si chiama dignità. Dignità nel lavoro, che non può essere riconsegnato al potere autocratico di nessun padrone. Dignità nel costruire liberamente la propria personalità, che ha il suo fondamento nell´accesso alla conoscenza, nella produzione del sapere critico. Dignità d´ogni persona, che dal pensiero delle donne ha ricevuto un respiro che permette di guardare al mondo con una profondità prima assente.
Proprio da questo sguardo più largo sono nate le condizioni per una manifestazione che non si è chiusa in nessuno schema. Le donne che l´hanno promossa, le donne che con il loro sapere ne hanno accompagnato la preparazione senza rimanere prigioniere di alcuni stereotipi della stessa cultura femminista, hanno colto lo spirito del tempo, dimostrando quanta fecondità vi sia ancora in quella cultura, dove l´intreccio tra libertà, dignità, relazione è capace di generare opportunità non alla portata della tradizionale cultura politica. È qui la radice dello straordinario successo di domenica, della consapevolezza d´essere di fronte ad una opportunità che non poteva essere perduta e che ha spinto tanti uomini ad essere presenti e tante donne a non cedere alla tentazione di rifiutarli, perché non s´era di fronte ad una generica "solidarietà" o alla pretesa di impadronirsi della parola altrui.
Chi è rimasto prigioniero di se stesso, delle proprie ossessioni, è il Presidente dal consiglio, al quale era offerta una straordinaria opportunità per rimanere silenzioso, una volta tanto rispettoso degli altri. E invece altro non ha saputo trovare che le parole logore della polemica aggressiva, testimonianza eloquente della sua incapacità di comprendere i fenomeni sociali fuori di una rozza logica del potere. La vera faziosità è quella sua e di chi lo circonda, privi come sono di qualsiasi strumento culturale e quindi sempre più votati al rifiuto d´ogni dimensione argomentativa. Dignità, per loro, è parola senza senso, parte d´una lingua che sono incapaci di parlare.
Nelle diverse manifestazioni, invece, si coglie la sintonia con le dinamiche che segnano questi anni. Le grandi ricerche di Luis Dumont ci hanno aiutato nel cogliere il passaggio dall´homo hierarchicus all´homo aequalis. Ma nei tempi recenti quel cammino si è allungato, ha visto comparire i tratti l´homo dignus, e proprio la dignità segna sempre più esplicitamente l´inizio del millennio, costituisce il punto d´avvio, il fondamento di costituzioni e carte dei diritti. Sul terreno dei principi questo è il vero lascito del costituzionalismo dell´ultima fase. Se la "rivoluzione dell´eguaglianza" era stato il connotato della modernità, la "rivoluzione della dignità" segna un tempo nuovo, è figlia del Novecento tragico, apre l´era della "costituzionalizzazione" della persona e dei nuovi rapporti che la legano all´innovazione scientifica e tecnologica.
"Per vivere – ci ha ricordato Primo Levi – occorre un´identità, ossia una dignità". Solo da qui, dalla radice dell´umanità, può riprendere il cammino dei diritti. E proprio la forza unificante della dignità ci allontana da una costruzione dell´identità oppositiva, escludente, violenta, che ha giustamente spinto Francesco Remotti a scrivere contro quell´"ossessione identitaria" che non solo nel nostro paese sta avvelenando la convivenza civile. La dignità sociale, quella di cui ci parla l´articolo 3 della Costituzione, è invece costruzione di legami sociali, è anche la dignità dell´altro, dunque qualcosa che unifica e non divide, e che così produce rispetto e eguaglianza.
Le manifestazioni di questi tempi, e quella di domenica con evidenza particolare, rivendicano il diritto a "un´esistenza libera e dignitosa". Sono le parole che leggiamo nell´articolo 36 della Costituzione che descrivono una condizione umana e sottolineano il nesso che lega inscindibilmente libertà e dignità. Più avanti, quando l´articolo 41 esclude che l´iniziativa economica privata possa svolgersi in contrasto con sicurezza, libertà e dignità umana, di nuovo questi due principi appaiono inscindibili, e si può comprendere, allora, quale lacerazione provocherebbe nel tessuto costituzionale la minacciata riforma di quell´articolo, un vero "sbrego", come amava definire le sue idee di riforma costituzionale la franchezza cinica di Gianfranco Miglio. Intorno alla dignità, dunque, si delinea un nuovo rapporto tra principi, che vede la dignità dialogare con inedita efficacia con libertà e eguaglianza. Questa, peraltro, è la via segnata dalla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Qui, dopo aver sottolineato nel Preambolo che l´Unione "pone la persona al centro della sua azione", la Carta si apre con una affermazione inequivocabile: "La dignità umana è inviolabile".
Proprio questo quadro di principi costituisce il contesto all´interno del quale i diversi movimenti si sono concretamente mossi, individuando così quella che deve essere considerata la vera agenda politica, la piattaforma comune delle forze di opposizione. Diritti delle persone, lavoro, conoscenza non si presentano come astrazioni. Ciascuna di quelle parole rinvia non solo a bisogni concreti, ma individua ormai pure forze davvero " politiche", che si presentano con evidenza sempre maggiore come soggetti attivi perché quei bisogni possano essere soddisfatti.
Viene così rovesciato le schema dell´antipolitica, e si pone il problema della capacità dei diversi gruppi di opposizione di trovare legami veri con questa realtà. I segnali venuti finora sono deboli, troppo spesso sopraffatti dalle eterne logiche oligarchiche, dagli egoismi identitari di ciascun partito o gruppo politico. Si lamenta che ai problemi reali non si dia il giusto risalto. Ma chi è responsabile di tutto questo? Non quelli che con quei problemi si sono identificati, sì che oggi la responsabilità di farli entrare nel modo corretto nell´agenda politica ufficiale dipende dalla capacità dei partiti di trovare il giusto rapporto con i movimenti presenti nella società, di essere per loro interlocutori credibili.
Torna così la questione iniziale, perché proprio questo è il cammino da seguire per abbandonare ogni spirito minoritario e ridare vigore ad una vera politica di opposizione. Le manifestazioni di questi mesi, infatti, dovrebbero essere valutate partendo anche da un dato che tutte le analisi serie sottolineano continuamente, e cioè che Berlusconi non ha il consenso della maggioranza degli italiani, non avendo mai superato il 37%. Il bagno di realtà di domenica, che ne accompagna tanti altri, dovrebbe indurre a volgere lo sguardo verso la vera maggioranza, perché solo così un vero cambiamento è possibile.
È sempre un buon segno quando nelle manifestazioni delle donne ci sono molti uomini. Sarà una svolta se dal palco delle cento città si ascolteranno le parole dei maschi, loro sì umiliati dalle convulsioni del bungabunga. Sarebbe una rivoluzione se in questa giornata di mobilitazione civile, i politici della sinistra ammettessero pubblicamente sia la loro insipienza di fronte all'altro sesso, sia l'uso strumentale della rabbia femminile contro l'indecente presidente del consiglio.
Le donne non hanno mai smesso di parlare, anche quando la cultura e la politica della sinistra non avevano voglia di ascoltarle, né capivano la rivoluzione di quel pifferaio che raccontava la storia del supermercato in cui tutti sarebbero stati liberi consumatori di sogni gentilmente confezionati dalla televisione. La sconfitta culturale annunciava quella politica, prenderne atto significa non mettere a Berlusconi la maschera dell'alieno e non considerare la piazza di oggi una rosa senza spine.
Quel che si discute da due anni, dal caso-Noemi al caso-Ruby, non è il privato di un eccentrico presidente del consiglio, ma la sostanza culturale di una politica che inventa la donna-tangente e ostenta l'esibizione del mercato tra sesso e potere fino a farne una bussola per la selezione della classe dirigente e di governo. Il centro della scena è occupato dalla relazione incresciosa tra le escort e il capo del governo, ma nel retropalco agisce la relazione pericolosa tra uomini e donne nella vita quotidiana, dentro le mura domestiche così amorevolmente minacciose o nei luoghi di lavoro dove le gerarchie e i salari già bastano a descrivere discriminazione sessuale e handicap sociale.
Berlusconi è un pessimo esempio di maschio italiano, ma molti, e trasversalmente, lo invidiano e lo imitano. Gli uomini hanno scritto sul manifesto in che cosa sentono di assomigliare all'anziano che paga le minorenni, un esercizio intellettuale adeguato al bisogno di uscire dal berlusconismo senza paternalismi, né vecchie bandiere.
Non si tratta di mettere sul podio chi usa la faccia anziché il fondoschiena, chi lavora dentro e fuori casa anziché sulla strada o nei prive del miliardario. Riposino in pace le mutande di Ferrara che contro il corpo delle donne ha ingaggiato una crociata, e stia tranquillo il solidale Bersani che applaude alle piazze di oggi pesandole sulla bilancia della battaglia elettorale di domani: non ci sono vittime da salvare, né eroine da esaltare. Le donne italiane, sia quelle che considerano la mente una zona erogena, sia quelle che ritengono di essere sedute sulla propria fortuna sono tutte di robusta costituzione democratica. Nonostante vivano in un paese umiliato e depresso lo hanno sempre riscattato dalle folate reazionarie con ricostituenti laici e liberatori. Scegliendo il divorzio quando il partito comunista lo temeva, affermando il loro esclusivo diritto alla scelta della maternità quando la Dc voleva mortificarlo. E ora scendendo in piazza, nelle piccole e grandi città, per urlare il loro dies irae contro il predatore di Arcore che ha scambiato le donne per esemplari di una selvaggina in dotazione alla sua tirannide.
"Chiediamo insieme le dimissioni di Berlusconi". Con questo slogan le donne rompono il silenzio. E lo fanno in massa a Milano come a New York. Invitano gli uomini a schierarsi con loro, perché tutte e tutti sono stanchi dei continui attacchi alla Costituzione, alla giustizia, alla libera informazione e alla dignità delle donne e degli uomini. Stanchi degli abusi, dell´illegalità, del servilismo che contraddistinguono questa maggioranza. Soprattutto, le donne che manifestano dissipano ogni dubbio sull´insidiosa distinzione tra "donne reprobe" e "donne serie" che è stata da più parti ripetuta in queste settimane di protesta contro gli abusi contestati al premier. Questa distinzione è sbagliata. È il segno di una reale impotenza della cultura dell´opposizione etico-politica al regime del sultanato. È figlia dei paradossi che hanno segnato il successo egemonico di Berlusconi, costruito a partire dagli anni ´70 su un´interpretazione estrema, ma non opposta, della cultura individualista nell´età dei diritti. Mettere in moto una contestazione politica efficace quando l´oggetto è l´uso dei diritti è difficile ed insidioso. Su questa difficoltà e su questa insidia riposa tanto il successo di Berlusconi quanto la debolezza dell´opposizione. Vediamo di mettere in luce due di questi paradossi, quello legato alla morale trasgressiva e quello legato alla libertà.
Per tradizione, la cultura dell´opposizione di sinistra è stata cultura della trasgressione. Lo è stata per necessità, poiché la lotta per i diritti demolisce i sistemi gerarchici di potere. Lo è stata per il carattere peculiare della libertà, che alimenta il pensiero critico rispetto all´opinione dominante sui costumi e sui valori. In questo senso la cultura d´opposizione è stata ed è trasgressiva. In aggiunta, vi è l´aspetto generazionale poiché i movimenti per i diritti civili sono anche portatori di svecchiamento culturale e politico. E poi, questi movimenti si traducono in richiesta di eguaglianza di rispetto e quindi riscrivono i ruoli famigliari e sociali: giovani e donne sono stati e sono alleati naturali nelle lotte per la libertà. Negli anni del dopoguerra alla cultura morale dell´anti-autoritarismo è corrisposto un modello di vita libero e trasgressivo: le relazioni sentimentali e sessuali nel mondo variegato della sinistra, istituzionale o di movimento, erano tutto fuorchè tradizionali. La libertá sessuale non è stata soltanto una conseguenza possibile di diritti conclamati, ma prima ancora un modo di vivere l´intimitá con l´altro e con la sessualitá. Insomma, la cultura di chi ha lottato per i diritti civili è stata una cultura della trasgressione e dell´opposizione insieme.
Il paradosso dell´Italia di oggi è che il premier occupa lo spazio della trasgressione, costringendo l´opposizione nel ruolo impossibile del conservatorismo. Ecco perché la distinzione tra donne brave e donne reprobe è segno di un atteggiamento che incarta e sconvolge la nostra cultura liberale e democratica. Si tratta di una distinzione che non dovremmo fare, non soltanto per non cadere nella trappola tesa dal premier. C´è una ragione ulteriore: difendere i diritti, volere i diritti significa necessariamente credere che ciascuno sia autonomo e responsabile delle proprie scelte, piacevoli o spiacevoli che siano, e che di quelle scelte non debba rendere conto a nessuno, se non alla legge se e quando viola i diritti altrui (qui sta la vera ragione della critica ai comportamenti del premier). Ora, che una persona risponda o no alla propria coscienza è un fatto che alla cultura dei diritti non interessa direttamente, anche se i liberali si augurano che ciascuno sia in grado di avere una coscienza individuale che faccia da sentinella (e magari impostano la vita famigliare ed educativa perché questa coscienza venga formata). Dopo di che, come ciascuno o ciascuna di noi usa quei diritti di libertá sono fatti che non riguardano nessuno. E se l´opinione pubblica critica i nostri comportamenti e le nostre abitudini sessuali, noi siamo legittimati a reagire con una contro-opinione.
Ma la distinzione tra donne reprobe e donne brave scompagina proprio questa cultura dei diritti poiché sembra dire che le donne devono essere rispettate nella misura in cui esse usano "bene" i loro diritti. Ovviamente, questo discorso non riguarda le minori: poiché la responsabilità giuridica è una componente essenziale del godimento dei diritti ed è legata all´età adulta stabilita dalla legge. Ma nel caso di persone adulte, di donne adulte, l´uso che esse fanno della loro vita non è un fatto che può diventare oggetto di critica da parte dell´opinione pubblica e politica. La cultura dei diritti non ha nulla a che fare con la gogna nè con la distinzione tra donne brave e donne reprobe.
I paradossi che questo presidente del Consiglio provoca sono quindi dei più spinosi, perché la sua mania (che è un problema serissimo, non perché disturba la morale ordinaria, ma per l´alta funzione che egli esercita) è il frutto estremo del rovesciamento del giudizio pubblico in giudizio privato. Il paradosso è che il trasgressivismo malato di chi ci governa induce i critici a flirtare con la tentazione di discriminare le donne in ragione dei loro comportamenti. Le centinaia di giovani donne che hanno preso regali e soldi dal presidente non sono il bersaglio: non si devono mettere alcune donne contro altre, anche perché è proprio questo l´esito studiato della politica del leader.
È certo difficile che si crei empatia tra le donne che lavorano e le donne che mettono il loro corpo a servizio; ma la sorgente della difficoltà va individuata con correttezza. La nostra attenzione critica dovrebbe essere rivolta non alle donne per la loro condotta, ma alle politiche dei governi che la destra ha in questi anni messo in moto con l´obiettivo esplicito di indebolire i diritti associati al lavoro e di dissociare infine il lavoro dalla dignità per identificarlo con un pugno di soldi a qualunque costo o addirittura con il dono (e questo non vale solo per le donne che vanno ad Arcore come la vicenda Fiat insegna). Questa dequalificazione estrema del valore delle persone deve offendere e fare reagire. Essa è il vero problema, in quanto abbassa le aspettative delle donne e degli uomini e, quel che è peggio, confonde il giudizio sulle responsabilità e le colpe. L´obiettivo critico non sono le donne giovani e belle che frequentano le case del premier. L´obietto è il premier, la sua illegalità e le politiche sociali del suo governo. L´obiettivo è il messaggio che trasmette da decenni ogni giorno. A tutto questo bisogna reagire, insieme, e dire basta.
È GUERRA contro lo Stato. Non si può diversamente interpretare l´impressionante escalation di cui ieri Berlusconi si è reso protagonista, alzando il livello dello scontro fino a un punto di non ritorno. Che questa sia per lui, con ogni evidenza, la partita finale è chiaro da espressioni estreme come «golpe morale contro di me», come «inchieste degne della Ddr», come «l´ultimo giudice è il popolo». Così, ancora una volta, Berlusconi afferma la propria superiorità carismatica e populistica contro l´ordinamento, contro le leggi. Il Princeps legibus solutus nella sua versione contemporanea gioca il popolo contro lo Stato. Il suo popolo, naturalmente: una potente astrazione, confezionata dal suo potere mediatico, una sua proprietà patrimoniale che non ha nulla a che fare col popolo di una moderna democrazia. Che non è massa ma cittadinanza, che non è visceralità prepolitica ma appartenenza consapevole a un destino comune in una rigorosa forma istituzionale
Del resto, «fare causa allo Stato» è stata un´altra recentissima manifestazione del furore di Berlusconi. C´è in essa un significato tecnico: per i magistrati, la responsabilità civile è indiretta, e chi è da loro ingiustamente danneggiato viene in realtà risarcito non dai singoli responsabili ma dallo Stato. Norma che l´attuale governo vuole modificare, con ovvii intenti intimidatori. Ma che intanto è vigente. Ad essa, in quanto perseguitato, Berlusconi si potrà appellare, come ogni cittadino.
Ma c´è anche un significato simbolico. Da questo punto di vista, non si tratta solo di una strategia processuale, ma, ancora una volta, di una esplicita dichiarazione di guerra contro il vero nemico politico e culturale di Berlusconi: lo Stato. Non questo o quel potere o ordine, non i magistrati comunisti, non i partiti avversari. No. Il nemico è lo Stato in quanto tale, in quanto organizzazione di potere sovrano e rappresentativo, impersonale, fondato sull´uguaglianza davanti e alla legge e internamente articolato attraverso equilibri e limitazioni che hanno lo scopo di evitare il predominio di un potere o di una funzione sulle altre. Il prodotto sofisticato, forte e fragile, di alcuni secoli di sviluppo politico europeo, e del sapere di filosofi e giuristi.
La partita adesso è chiara: un uomo contro lo Stato, un potere personale contro il potere impersonale, la rappresentanza per incorporazione contro la rappresentanza per elezione, il destino di uno contro il destino di un Paese, il dominio contro la legalità. È una guerra civile simbolica, spirituale e morale, che l´Uno - e i suoi numerosi fedeli e seguaci, interessati o estasiati o rassegnati che siano, ma che in ogni caso hanno scritto quel nome sulle loro bandiere - combatte contro i Molti; che un presente desideroso di futuro (sempre più precario) combatte contro la tradizione storica e la legittimità democratica del nostro Paese. È la guerra di un tipo umano contro l´altro: della superba individualità, sprezzante di regole e persone, chiusa in una solitudine affollata di cortigiani e di scaltri profittatori, contro il rispetto delle regole, contro l´interazione nello spazio pubblico condiviso, contro la cittadinanza, contro la decenza come attributo minimo delle relazioni umane e politiche. La guerra dei proclami e delle arringhe furibonde contro i ragionamenti, contro gli argomenti.
È una guerra asimmetrica, in cui c´è chi attacca e chi fa solo il proprio dovere - e per questo è nemico, è eversivo - ; in cui c´è chi ha dalla propria parte il potere - ogni potere: quello politico, quello economico, quello mediatico - , e chi ha solo la legge e un´idea di politica: un´idea che non è un´opinione che ne vale un´altra, perché è quell´idea di uomo, di società, di Stato che è scritta nella Costituzione. Ma è asimmetrica anche perché è dichiarata solo da una parte, che si finge vittima e così può attaccare senza freno l´idea stessa che esista un ordine civile, ovvero che non tutta la collettività sia al servizio di una singola volontà di potenza, sia disponibile per un potere senza limiti. Che esistano ragioni - non metafisiche ma legali, non misteriose ma costituzionali - che trascendono l´individuo. È difficile restare neutrali in questa guerra, cavarsela con un colpo al cerchio e uno alla botte, o con le distinzioni fra pubblico e privato, che sono negate proprio da chi dovrebbe beneficiarne: da Berlusconi, che per primo rifiuta di rispondere da privato davanti alla giustizia e dà alle proprie vicende una ovvia e macroscopica dimensione pubblica.
L´effetto distruttivo di questa guerra è sotto gli occhi di tutti: dal vertice del potere esecutivo giunge un messaggio di rivolta contro lo Stato, una rivendicazione di rabbiosa eccezionalità che si oppone alla normalità istituzionale. Tutto il ribellismo italico, faticosamente arginato dalla nostra recente storia democratica, viene così legittimato; tutto il disprezzo per la legge che alberga nel cuore di tanti italiani trova giustificazione, trionfa platealmente da uno dei più alti seggi della Repubblica; tutto il "particolare" si vendica finalmente dell´universale. Vite intere di insegnanti e di genitori spese a trasmettere ai giovani virtù umane e civiche sono vanificate da questo autorevolissimo e visibilissimo esempio di anarchia istituzionale, da questo aperto rifiuto del potere comune, in nome del potere personale. Da questa guerra civile simbolica non uscirà che un futuro di rovine; tranne che qualche "azionista", qualche "puritano", qualche "giacobino", non riesca a trovare il cuore degli italiani, a spingerli ad avere pietà di se stessi, a convincerli che possono avere davanti a sé un avvenire più degno.
«Farò causa allo Stato», sarebbe questa la reazione di Berlusconi alla richiesta di rito abbreviato presentata dalla Procura di Milano. Vista la nota propensione a raccontar barzellette del nostro Presidente del Consiglio si può pensare che si sia trattato solo di una malriuscita battuta di spirito.
Se, invece, si dovesse prendere sul serio l'affermazione riportata dalle agenzie di stampa, essa apparirebbe sintomatica di una concezione premoderna dei rapporti tra poteri, estranea alla nostra cultura democratica e costituzionale, lontana dalla realtà dello Stato contemporaneo e dall'evoluzione che, dai tempi di Montesquieu, ha portato a conformare lo Stato come un'entità divisa.
Una barzelletta se s'immagina il «Capo» del governo che fa causa a se medesimo, chiedendo magari al «suo» ministro della giustizia il risarcimento per i danni subiti dal tentativo di svolgere i processi che lo vedono coinvolto. Vedere accanto la vignetta-copertina di Vauro, certamente illuminante più di ogni discorso su una simile schizofrenia dissociativa.
A noi non rimane che prendere sul serio quanto è stato detto. La dichiarazione è grave e inquietante perché tende a negare ogni autonomia ai poteri dello Stato, a quello giudiziario in particolare. Se si ha un minimo di rispetto per la divisione dei poteri (carattere fondativo della civiltà costituzionale moderna) si dovrebbe sapere che compete ai giudici l'esercizio della giurisdizione nei confronti di ogni soggetto di diritto, di ogni persona. La minaccia di «far causa» perché il giudice svolge le sue indagini ha come scopo quello di negare l'autonomia e l'indipendenza del potere, mira a delegittimare l'ordine della magistratura nel suo complesso.
Nulla può valere a giustificare le affermazioni del premier, neppure le sue eventuali ragioni «processuali». Non si può escludere allo stato, infatti, che la Procura di Milano stia interpretando male le regole processuali, né si può escludere che in sede dibattimentale le ragioni della difesa prevalgano su quelle dell'accusa, venendosi così a dimostrare la non perseguibilità penale per le imputazioni mosse. Ma ciò dovrebbe indurre Berlusconi a partecipare al processo che lo vede indagato, non a minacciarne un altro «eguale e contrario».
Deve essere chiaro che la Procura sta esercitando le sue funzioni d'indagine nel rispetto delle regole processuali. Ha presentato, infatti al Gip la richiesta di rito immediato ai sensi degli art. 453 e segg. del Codice di procedura penale. Spetterà ora al Giudice verificare la sussistenza dei presupposti.
Ci sono alcuni profili giuridici che dovranno essere valutati con attenzione e pacatezza: quelli concernenti la possibilità di procedere per via breve, oltre che per il reato di concussione, anche con riferimento all'accusa di sfruttamento della prostituzione minorile; quello riguardante la competenza della procura milanese; quello relativo al carattere comune ovvero funzionale del reato di concussione posto in essere - secondo l'accusa - dal Presidente del Consiglio. Questioni delicate, che si dovrebbero sviluppare secondo la normale dialettica processuale, nel contraddittorio delle parti, in base a quanto stabilisce la legge.
Ma chi ha mai detto che è facile fare i processi? Anche le accuse dovranno essere provate. In fondo proprio a questo servono i processi. Sono le «sante inquisizioni» i riti d'indagine che non servono a nulla, avendo sin dall'inizio già formulato una condanna. Per fortuna il medioevo giuridico è alle nostre spalle, sebbene il Presidente Berlusconi non sembra essersene accorto. Noi, che siamo sempre stati garantisti, con tutti e in ogni caso, non indietreggiamo: è nel processo che si provano le accuse e può farsi valere l'innocenza di ciascun indagato.
Per cortesia Cavaliere, si faccia processare. Dimostri, se può, in quella sede la sua innocenza, almeno la non rilevanza penale dei suoi comportamenti privati: l'onore del paese ne verrebbe sollevato. Se è convinto che la procura di Milano non abbia «né la competenza territoriale né quella funzionale» faccia come tutti: lo dica al giudice che dovrà valutare l'operato della procura, eserciti i suoi diritti di difesa. Ma non fugga dal processo, non è più il tempo antico del «diritto sovrano». E poi, signor Presidente se lo faccia dire: se proprio non crede alla giustizia perché vuol far causa allo Stato?
Il 17 marzo 1861 si riunì a Torino il primo Parlamento e venne proclamato il Regno d´Italia. Era nata la nazione come realtà politica. Fino ad allora l´Italia era stata solo una espressione geografica. Per ricordare quella data faremo festa il prossimo 17 marzo. La faremo davvero?
La data si avvicina e le voci critiche, dubbiose, ironiche si moltiplicano. Oggi la possibilità, il pericolo che la festa venga cancellata si sono fatti tangibili. Su di un´opinione pubblica frastornata, in un paese diviso profondamente da disuguaglianze di beni, di consumi e di diritti, dove le diversità che consideravamo la ricchezza e l´originalità dell´Italia oggi appaiono improvvisamente come cesure insanabili, cala l´ombra del dubbio: un dubbio che investe la festa come simbolo e che nel simbolo ferisce in modo grave il dato reale. Perché se muoiono i simboli l´entità che essi rappresentano comincia a cessare di esistere: la morte del simbolo nella coscienza comune significherebbe che l´Italia che apparentemente continuerebbe a esistere sarebbe un fantasma privo di vita.
Ma vediamo gli argomenti. Perché questa festa non s´ha da fare? Qualcuno la mette sul serio: l´economia nazionale è così grama che non tollera il rischio del lavoro perduto. E come spesso accade l´argomento dell´economia ha dato una maschera seria a chi non la possedeva. È bastato che la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, persona seria e che sa farsi ascoltare con rispetto, parlasse del danno rappresentato dalla perdita di otto ore di produzione, perché chi non aveva avuto fino ad allora il coraggio di andare al di là delle battutine e delle alzate di spalla si mettesse alla sua ombra per insidiare più decisamente l´evento festivo e provare a cancellarlo del tutto. Si sono levate voci ostili dalle regioni dove comandano parti politiche che si desolidarizzano dalla responsabilità della nazione pur attingendo alle sue risorse e si inventano appartenenze e identità patrie di pura fantasia. Hanno parlato coloro che concepiscono la politica come arte dell´alzare muri divisori e si inventano religioni del sole delle Alpi e del fiume Po mentre baciano sacre pantofole prelatizie.
Non con loro vale la pena di parlare. Limitiamoci all´argomento "serio" della Marcegaglia. Davvero – si chiedeva Giorgio Ruffolo su questo giornale – in questi 150 anni della nostra storia non ci siamo guadagnati nemmeno otto ore per festeggiare la nostra unità nazionale? Perché il fatto singolare è che non stiamo progettando l´introduzione di una nuova festa nel calendario civile: quella del 17 marzo 2011 non sarebbe l´equivalente italiano del 14 luglio francese o del 4 luglio americano. Sarebbe un "una tantum", da ripetere magari solo quanto i 150 saranno diventati 200 o 300. Un ricordo del passato, un impegno per il futuro: un momento comune e pubblicamente riconosciuto per sostare e prendere atto di un accadimento storico che ci riguarda tutti in quanto italiani, non in quanto legati a questo o a quel partito, a questa o a quella ideologia, fede religiosa o identità etnica.
Quella mattina del 17 marzo gli italiani non si alzeranno per andare al loro solito posto di lavoro – quelli che ne hanno uno – o a cercare lavoro – quelli che non ne hanno, che sono tanti, soprattutto fra i giovani. Dovranno pensare tutti almeno per un attimo che quel giorno è diverso e saranno portati a soffermarsi su quel pensiero. Scopriranno che quel giorno è la loro festa: di tutti loro in quanto italiani, perché in Italia sono nati, vi abitano, vivono e lavorano. Per questo la festa deve esserci. La dobbiamo alle generazioni passate e a quelle future. E deve essere pubblicamente dichiarata e rispettata.
Non ascolteremo chi vuole convincerci a sostituire il fatto pubblico con un fatto privato o un pensiero individuale, a riporre il senso dell´appartenenza e l´impegno ad affrontarne i problemi del paese nascondendo quel pensiero nel dominio segreto delle intenzioni, trasformandolo chi vuole in voto da formulare "in interiore homine". Sarebbe uno schiaffo al paese e in primo luogo a chi degnamente lo rappresenta nel mondo e si è impegnato a tutelarne i diritti e a farne osservare i doveri. Perciò quel pensiero il 17 di marzo del 2011 lo dovremo dedicare in particolare ad alcuni nomi: quello del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quelli dei suoi predecessori, in modo particolare Carlo Azeglio Ciampi.
L´unica cosa su cui vale la pena ragionare, nell´attacco furibondo di Giuliano Ferrara a Gustavo Zagrebelsky, dopo la manifestazione di "Libertà e Giustizia" di sabato scorso a Milano, non sono gli insulti – di tipo addirittura fisico, antropologico – e nemmeno la rabbia evidente per il successo di quell´appuntamento pubblico che chiedeva le dimissioni di Berlusconi: piuttosto, è l´ossessione permanente ed ormai eterna della nuova destra nei confronti della cultura azionista, anzi dell´"azionismo torinese", come si dice da anni con sospetto e con dispetto, quasi la torinesità fosse un´aggravante politica misteriosa, una tara culturale e una malattia ideologica invece di essere semplicemente e per chi lo comprende, come ripeteva Franco Antonicelli, una "condizione condizionante".
Eppure la storia breve del Partito d´Azione è una storia di fallimenti, che nel sistema politico ha lasciato una traccia ormai indistinguibile. Gli ultimi eredi di quell´avventura, nata prima nella Resistenza e proseguita poi più nelle università e nelle professioni che nella politica, sono ormai molto vecchi, o se ne sono andati, appartati com´erano vissuti, in case piene di libri più che di potere. Ma l´idea dev´essere davvero formidabile se ha attraversato sessant´anni di storia repubblicana diventando il bersaglio dell´intolleranza di tutte le destre che il Paese ha conosciuto, vecchie e nuove, mascherate e trionfanti, intellettuali e padronali: fino ad oggi, quando si conferma come il fantasma d´elezione, fisso e ossessivo, persino di questa variante tardo-berlusconiana normalmente occupata in faccende ben più impegnative, personali ed urgenti.
È un´ossessione che ritorna, periodicamente: la stessa destra si era già segnalata nel rifiutare pochi anni fa il sigillo civico di Torino ad Alessandro Galante Garrone, uno dei pochi che non aveva mai giurato fedeltà al fascismo, come se questa fosse una colpa nell´Italia berlusconiana. Oppure nel trasformare la lettera di supplica al Duce firmata da Norberto Bobbio in gioventù in un banchetto politico, moralista, soprattutto ideologico: tentando, dopo che il filosofo rifece pubblicamente i conti della sua esistenza (proprio sul "Foglio" di Ferrara) di rovesciarne la figura nel suo contrario, annullando la testimonianza di una vita per quell´errore iniziale, in modo da poter affermare una visione del fascismo come orizzonte condiviso o almeno accettato da tutti, salvo pochi fanatici, una sorta di natura debole italiana, nulla più.
Oggi, Zagrebelsky, e si capisce benissimo perché. Quando la cultura si avvicina alla politica e la arricchisce di valori e di ideali, cerca il nesso tra politica e morale, si rivolge allo spirito pubblico, invita alla prevalenza dell´interesse comune sul particolare, scatta il vero pericolo, in un´Italia che si sta adattando al peggio per disinformazione, per convenienza o per pavidità. Quando ritorna la cifra intellettuale dell´azionismo, che è il tono della democrazia classica, e si avverte che quell´impronta culturale forte, quasi materiale, non si è dissolta con la piccola e velleitaria organizzazione nel ´47, ecco l´allarme ideologico. Parte l´invettiva contro il "gramsciazionismo" torinese, considerato due volte colpevole perché troppo severo a destra, nel suo antifascismo intransigente, troppo debole a sinistra, nei suoi rapporti con il comunismo.
Anche questa destra è in qualche modo una rivelazione degli italiani agli italiani, con un patto sociale ridotto ai minimi termini e la tolleranza che diventa connivenza, purché la leadership carismatica possa contare su una vibrazione di consenso, assumendo in sé tutto il discorso pubblico, mentre il cittadino è ridotto a spettatore delegante, ma liberato dall´impaccio di regole e leggi. Un´Italia dove il peggio non è poi tanto male, dove si relativizza il fascismo, un´Italia in cui tutti sono uguali nei vizi e devono tacere perché hanno comunque qualcosa da nascondere, mentre le virtù civiche sono fuori corso e insospettiscono perché lo Stato è un estraneo se non un nemico da cui guardarsi, le istituzioni si possono abitare da alieni, guidare con il sentimento dell´abusivo. Un Paese abituato e anche divertito ad ascoltare l´elogio del malandrino, in cui l´avversario viene schernito, il suo tono di voce deriso, il suo accento additato come una macchia, il suo aspetto fisico denunciato come una colpa, o una vergogna. Mentre gli ideali sono abitualmente messi alla berlina, e la delegittimazione diventa una cifra della politica attraverso un giornalismo compiacente di partito: una delegittimazione insieme politica, morale, estetica, camuffata da goliardia quando serve, da avvertimento - nel vero senso della parola - quando è il caso. Fino al punto, come diceva già una volta Moravia, di "vantare come qualità i difetti e le manchevolezze della nazione".
Bobbio non si spiegava perché nei suoi ultimi anni avesse ricevuto più attacchi che in tutta la sua vita. Ma non era cambiato lui, era cambiata la destra. E per questa nuova destra che cresceva tra reazione di classe e crisi morale, quell´azionismo residuale e tuttavia irriducibile nella sua testimonianza nuda e antica, disarmata, rappresentava il vero ultimo ostacolo per realizzare il cambio di egemonia culturale di quest´epoca, attraverso la destrutturazione del sistema di valori civili su cui si è retta la repubblica per sessant´anni. Un sistema coerente con il patto di cultura politica che sta alla base della Costituzione, con le istituzioni che ne discendono, con quel poco di antifascismo italiano organizzato nella Resistenza che ne rappresenta la fonte di legittimazione, e rende la nostra libertà democratica almeno in parte riconquistata, e non octroyée, concessa dagli alleati.
Un obiettivo tutto politico, anzi ideologico, che doveva per forza attaccare tre punti fermi della cultura repubblicana: l´antifascismo (Vittorio Foa diceva che la Resistenza era la vera "matrice" della repubblica), il Risorgimento, nella lettura di Piero Gobetti, il "civismo", come lo chiamava Ferruccio Parri, cioè un impegno morale e politico a vincere lo scetticismo e il cinismo nazionale. È chiaro che l´azionismo era il crocevia teorico di questi tre aspetti, soprattutto la variante torinese così intrisa di gobettismo, e che tradisce la presunta neutralità liberale, anzi compie il sacrilegio di coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l´anticomunismo.
Proprio per questo, gli azionisti sono pericolosi due volte. Perché non portano in sé il peccato originale del comunismo, che contrassegna gran parte della sinistra italiana, e perché non scelgono l´anticomunismo, come dovrebbe fare ogni buon liberale. Anzi, questo liberalismo di sinistra rifiuta l´equidistanza tra fascismo e comunismo, che porta il partito del Premier e i suoi giornali addirittura a proporre la cancellazione della festa della Liberazione, come se il 25 aprile non fosse la data che celebra un accadimento nazionale concreto e storico, la fine della dittatura, ma solo una sovrastruttura simbolica a fini ideologici. Così, Bobbio denuncia come la nuova equidistanza tra antifascismo e anticomunismo finisca spesso ormai per portare ad un´altra equidistanza, "abominevole": quella tra fascismo e antifascismo.
Ce n´è abbastanza per capire. Debole e lontana, la cultura azionista è ancora il nemico ideologico, se propone un´Italia di minoranza intransigente, laica, insofferente al clericalismo cattolico e comunista, praticante della religione civile che predica una "democrazia di alto stile". Si capisce che nell´Italia di oggi, dove prevale una politica che quando trova "un Paese gobbo - come diceva Giolitti - gli confeziona un abito da gobbo", quella cultura sia considerata "miserabile". Guglielmo Giannini, d´altra parte, sull´"Uomo Qualunque" derideva gli azionisti come "visi pallidi", Togliatti chiamava Parri "quel fesso". Ottima compagnia, dunque. Soltanto, converrebbe lasciar perdere Gobetti. Perché a rileggerlo, si scoprirebbe che sembra parlare di oggi quando scrive degli "intona-rumori, della grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che facciano da coro", che diano "garanzia di continuità nella mistificazione", "armati gregari" che sostituiscono "la fede assente", perché "corte e pretoriani furono sempre consolatori e custodi dei regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti".
Una primavera anticipata e proprio a Milano, nella roccaforte del potere. Nonostante le anticipazioni della vigilia lasciassero intuire il rilievo politico e la forte partecipazione all'appuntamento, la realtà ha superato ogni aspettativa. Migliaia e migliaia di persone hanno risposto all'appello di Libertà e Giustizia con la forza contagiosa di un'energia che rompe gli argini.
Il PalaSharp gremito e la fiumana rimasta all'esterno ravvivano la situazione delle api di Zygmunt Bauman, «espressione di un intenso traffico sociale che intreccia relazioni tra diversi, associazioni di cittadini che chiedono risposte, gruppi con una spiccata soggettività e identità sociale». Come era già successo qualche settimana fa a Marghera, quando un altro alveare produceva i suoi frutti. Anche lì migliaia di persone, nei grandi spazi del Rivolta, hanno connesso esperienze e storie diverse. Operai, studenti, ambientalisti insieme chiamati dal movimento «Uniti contro la crisi». Anche lì la Fiom di Landini e gli intellettuali (da Marco Revelli a Guido Viale) hanno cercato e trovato il filo di un pensiero e di una pratica che, come ha detto Zagrebelsky ieri, «non chiede niente per ciascuno perché chiede tutto per tutti». Le api italiane sono al lavoro da tempo e nella straordinaria assemblea di Milano hanno depositato il miele di un'opposizione larga e profonda, radicata e consapevole. Diritti civili e diritti sociali, interpretati dalle voci autorevoli dell'intellettualità e del sindacato, si ritrovano e si riconoscono. Dicono che la costruzione della democrazia deve cucire nuove bandiere.
Dal Rivolta a Milano, un'altra mappa dei desideri viene disegnata da chi ha saputo resistere alle armate di un potere che ha corrotto l'etica e l'estetica della convivenza civile. Perché oggi l'Italia non è solo sfigurata dalla corruzione che si fa valore, dalle donne trattate come tangenti del potere, non è solo spaccata tra nord e sud, tra salario e profitto, ma è divisa tra chi sa e chi non sa, è ferita dall'ignoranza che l'ammutolisce con la bomba mediatica. Al punto che non ci sarà da stupirsi se l'eco della manifestazione di Milano sarà più forte all'estero che in Italia.
Colpire questo infrangibile muro di cristallo che spezza in due il paese è in cima alla lista degli obiettivi dell'opposizione sociale e culturale.
Eppure, nonostante la camicia di forza di una propaganda pubblicitaria asfissiante, formidabili anticorpi resistono e fanno rete. La farsa della cricca al potere, l'arroganza dei Berlusconi e dei Marchionne, dovranno fare i conti con chi ha l'intenzione e la convinzione di non concedergli repliche.
L'amministratore delegato Sergio Marchionne ha annunciato che il gruppo Fiat-Chrysler, una volta che fosse interamente unificato, potrebbe stabilire la propria sede legale negli Stati Uniti. Sarebbe un fatto senza precedenti.
Non si ricorda infatti un altro grande costruttore, di quelli che hanno fatto la storia dell´automobile, che abbia de-localizzato non solo il proprio braccio produttivo, ma anche la propria testa, gli enti che decidono e guidano tutto il resto di un grande gruppo nel mondo. Toyota e Volkswagen, Citroen e Renault, General Motors e Ford producono milioni di auto in paesi terzi, ma il quartiere generale, il cuore della ricerca e sviluppo, il controllo gestionale e finanziario restano ben saldi nel paese d´origine.
Sarebbe un grave smacco per Torino, per il Piemonte e per tutto il Paese se Fiat cambiasse nazionalità. L´Italia resterebbe con una sola grande industria manifatturiera, la Finmeccanica, che per il 40 per cento produce armamenti, non esattamente il tipo di produzione di cui un paese possa andare fiero, anche se permette di realizzare buoni utili.
Questo in un momento in cui l´industria automobilistica è dinanzi a sfide, tipo la mobilità sostenibile, che potrebbero cambiare profondamente la sua struttura produttiva ed i rapporti con altri settori che cominciano seriamente a occuparsi di uno dei maggiori temi da affrontare per evitare il suicidio delle città causa collasso del traffico.
Inutile illudersi in merito a ciò che resterebbe a Torino, nel caso che la testa di Fiat Auto se ne vada a Auburn Hills o a Detroit. Il Centro Ricerche Fiat, da cui sono uscite alcune delle più importanti innovazioni degli ultimi anni, in specie, nel campo dei motori, sarebbe prima o poi destinato a seguirla, insieme con i designer, i tecnici che progettano i sistemi base di un´auto, gli esperti di autoelettronica. Quanto ai fornitori di componenti, potranno sperare di trovare nuovi clienti tra i grandi gruppi europei ed extraeuropei che continueranno a costruire milioni di auto in ambito Unione europea gestendo con mano sicura la produzione dalle loro sedi nazionali.
È un esercizio sgradevole a farsi, ma dinanzi a un evento che potrebbe segnare definitivamente la discesa dell´Italia tra le potenze industriali di serie C, bisogna pure chiedersi chi sono e dove stanno i responsabili della eventuale migrazione di Fiat Auto negli Stati Uniti. Non è nemmeno un´impresa facile, perché se uno immagina di metterli materialmente fianco a fianco per affrontare tutti insieme una approfondita discussione sul caso Fiat, non basterebbe ormai un palasport. Forse per deferenza nei confronti delle grandi figure del passato, come Giovanni e Gianni Agnelli, finora se n´è parlato poco, ma sembra evidente che la fuga della Fiat dall´Italia debba non poco alla famiglia proprietaria. Che all´auto deve tutto, ma che da una decina d´anni mostra chiaramente di considerare la produzione di auto come una palla al piede. Altrimenti non si spiegherebbero i modesti investimenti in ricerca e sviluppo che sono calcolati per addetto, la metà di quelli della Volkswagen; il mancato rinnovo di stabilimenti che sono ormai i più vecchi d´Europa, e il lasciare passare di mano il maggiore designer del continente, Giugiaro, senza alzare letteralmente un dito.
Accanto alla famiglia, sugli spalti del palasport dei responsabili della fuga Fiat dovrebbero esserci gli innumerevoli politici, sindacalisti, sindaci, economisti, commentatori tv che hanno salutato i piani del genere «prendere o lasciare» di Marchionne come folgoranti salti nella modernità delle relazioni industriali. Mentre si rivelano ora un goffo tentativo per recuperare sul fronte strettissimo delle condizioni di lavoro quello che si è perso sulla strada maestra dei nuovi modelli, del rinnovo radicale degli impianti, della ricerca e sviluppo. Ad onta della suddetta folla, un pò di spazio sugli spalti dei responsabili della fuga Fiat si dovrebbe ancora trovare per gli esponenti del governo che nel corso degli anni, non solo negli ultimi mesi hanno dato prova di una inettitudine totale nel concepire e attuare una politica industriale che coinvolga l´auto ma non si limiti ad essa. Come hanno saputo fare sia i maggiori paesi Ue, sia perfino alcuni dei più piccoli.
Se la Fiat diventa americana, ossia se è destinata a operare come il distributore di auto Chrysler in Italia, il problema da affrontare subito è il destino di Mirafiori e delle migliaia di posti di lavoro che vi ruotano attorno.
Certo, è sempre meglio montare delle jeep i cui pezzi principali (la piattaforma e il motore) sono costruiti in America che restare disoccupati. Ma Torino e l´Italia meritano sicuramente di meglio. Farebbe bene sperare, o quantomeno ridurrebbe il tasso collettivo di pessimismo attorno al destino dei lavoratori Fiat, se nel palasport dei responsabili della migrazione all´estero di questa grande azienda qualcuno provasse ancora a fare un tentativo per uscire da questo vicolo cieco prima di dover sottoscrivere la resa definitiva.
Strappi e mimose
di Ida Dominijanni
Per quanto tecnica sia la formula, l'aggettivo «irricevibile» con cui Napolitano ha respinto al mittente e rinviato alle camere il decreto sul federalismo ha un suono ben più forte dello strappo procedurale cui si riferisce. Irricevibile è un governo che disprezza il parlamento e prescinde dal Quirinale, irricevibile è una maggioranza di nominati arroccata nel bunker del suo padrone, irricevibile è un capo di governo che usa sistematicamente la scena internazionale per denigrare «la Repubblica giudiziaria commissariata dalle procure», irricevibile è lo stesso capo di governo che su quella stessa scena difende, unico in Occidente, lo zio - anch'esso di sua nomina - della propria favorita, irricevibile è una prassi istituzionale fondata per metodo e sistema sullo scontro fra i poteri dello Stato. Se ne contano almeno nove al calor bianco, in tre anni, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, su questioni di procedura e di merito. È un segno, e non l'ultimo, che la situazione è da tempo oltre il livello di guardia.
Perché allora, con le pinze, si tiene ancora? Perché in campo c'è una sola strategia riconoscibile, nei suoi tratti devastati e devastanti: quella di un raìs in pieno delirio di onnipotenza («sono l'unico soggetto universale a essere tanto attaccato», ha detto di sé ieri testualmente il premier) e deciso a resistere, resistere, resistere a tutti costi, nessuno escluso. Senza limiti, perché non ne conosce. Senza vergogna, perché non ne ha. Senza tema di smentite, perché la sua capacità di scambiare il vero col falso è segno non più di manipolazione bensì di negazione della realtà. Intorno a questa maschera, solo una corte di figuranti asserviti che finiscono col restituirle lo scettro anche quando potrebbero sfilarglielo, alla Bossi o alla Maroni per capirci. Dall'altra parte, una strategia felpata, una ricerca di alleanze senza selezione e senza seduzione, una promessa di liberazione senza desiderio. Il risultato è una paralisi che si alimenta di una lacerazione al giorno, una rivelazione all'ora, uno scandalo al minuto, senza che la tela si strappi davvero e mentre chiunque non faccia parte dello zoccolo duro del raìs si chiede: com'è possibile?
È possibile, perché c'è un fantasma lì dietro la scena, che nessuno vuole davvero vedere. Berlusconi lo rimuove, i suoi avversari lo scansano in attesa della foto del peccato o della prova del reato, e tutti quanti pensano di parlare, ancora, di «politica» (federalismo, fisco e quant'altro), come se, per citare Gustavo Zagrebelsky, le notti di Arcore non fossero la notte della Repubblica. Lo sappiamo, i numeri in parlamento sono quelli che sono. Ma la democrazia parlamentare non esclude altre forme dell'azione politica, e non domanda nemmeno che si resti in parlamento a recitare una farsa. Una società stremata da vent'anni di berlusconismo merita qualcosa di più della promessa di una parodia del Cln. O di una raccolta di firme offerta l'8 marzo come un mazzo di mimose dal segretario del Pd «alle nostre donne». Non siamo di nessuno, non amiamo le mimose né tantomeno, per citare stavolta Luisa Muraro, chi conta di usarci come truppe ausiliarie di una politica inefficacace.
Se l'economia ammazza la politica
di Valentino Parlato
In Italia con la politica (è volgare, ma va detto) siamo nella merda. Non ci sono idee e obiettivi politici rilevanti; non ci sono partiti, ma ammucchiate populiste. Matrimoniale e patrimoniale si confondono; l'evasione fiscale si somma all'evasione sessuale. Giornali e settimanali traboccano di scandali e promozioni d'interessi privati. Se scrivo che in Italia siamo alla distruzione della politica, quale ci era stata insegnata dagli antichi greci, credo che tutti saranno d'accordo. Vorrei essere contraddetto.
Ma questo disastro della politica è solo italiano? È solo l'Italia che celebra, affogando nella palude lutulenta, i suoi 150 anni? Non pare che sia così. Anche nel mondo la politica fa vergogna, ma consolarci col ripetere «mal comune mezzo gaudio» sarebbe piuttosto suicida.
Che succede alla politica nel mondo? Le Monde del 1 febbraio scorso pubblica un ampio e utile articolo di Yves-Charles Zarka, filosofo francese di prestigio, che si è occupato degli attuali cambiamenti della nostra esistenza individuale e collettiva e che nel 2010 ha pubblicato La destitution des intellectuels e Repenser la democratie. Il titolo dell'articolo di Zarka è «la politica senza idee». Nel sommario in testa di pagina si legge: «A sinistra come a destra, i partiti compensano il loro vuoto ideologico con un pasticcio (bricolage) intellettuale che stravolge i concetti filosofici, svuotati del loro significato e della loro profondità». E ancora in un riquadro della pagina si legge: «I governanti attuali, accecati dalle loro ambizioni personali e dalle loro rivalità, talvolta, più semplicemente, per la loro ignoranza, non sanno o non sanno più che significato abbia la parola politica». Bene, le cose stanno a questo modo e non solo in Italia, e anche negli Usa di Obama non se la passano meglio. Mi viene da aggiungere che solo in paesi non al livello industriale dell'Occidente (penso alla Tunisia e all'Egitto) le cose vanno un po' meglio. Il disastro della politica nasce dalla modernità? Bella domanda. Certo c'è un antico qualunquismo che ci ripete «la politica è sporca», ma adesso la questione è più seria: perché la politica fa schifo?
Bene. Ma quando c'è una malattia il medico deve trovare le cause. Quali? Bella sfida, vorrei, desidererei che persone più brave di me intervenissero. Spero veramente di essere smentito, ma a stare almeno all'Italia le descrizioni del degrado della politica non mancano, mi viene da dire che sono la narrazione più attuale, ma manca del tutto l'individuazione delle cause. Al massimo - ma forse esagero - c'è la spiegazione con le stagioni, verso la quale anche io inclino, e così ci raccontiamo che, finita la guerra con la Liberazione, gli americani e i partigiani, l'Italia ebbe una stagione di bella politica. Fu così nonostante la guerra fredda. Ricordo in positivo il discorso di De Gasperi al Brancaccio e il mio primo Pci a piazza Verbano.
Ma le cosiddette stagioni sono sempre il risultato di contesti storici. E così dopo la seconda guerra mondiale ci fu in tutto il mondo la vera ripresa dalla crisi del '29, sviluppo dell'industria, novità di prodotti, occupazione, lotte di lavoratori, forza sindacale, grandi e piccole speranze che spingevano ciascuno ad andare oltre il sé. Eravamo individui sociali. È innegabile, tutto il periodo successivo alla seconda guerra, fino agli anni '70, è stato il periodo della bella economia e anche della bella politica. In Europa si avevano governi di impronta socialista, negli Usa non era ancora arrivato Reagan e in Italia il Pci, benché all'opposizione, agiva sulla politica dei governi e otteneva riforme. I partiti non erano clientele carrieristiche.
Tutto questo per dire che all'origine della brutta politica c'è questa grande, epocale crisi economica che è, di conseguenza, crisi sociale e politica. In Italia il Rubygate è la massima espressione di questa crisi. La politica, specie quella che seppure timidamente si dice di sinistra, dovrebbe impegnarsi sul fronte della crisi economica, che fa disoccupazione e assicura successo ai Marchionne e ai Berlusconi. Non credo proprio che sarà il Rubygate a levarcelo di torno.
Certo non basta scrivere di crisi economica in generale. Bisognerebbe individuarne i vari suoi aspetti e soprattutto come, per quali vie, agisce sulla società e sulla politica. È un fatto (arrischio un'ipotesi) che la crisi economica abbia aziendalizzato la politica e non è proprio un caso che Berlusconi, massimamente imprenditore, sia divenuto l'amministratore delegato dell'azienda Italia.
So di essere piuttosto schematico, ma quelli più competenti di me che pensano, che dicono? Aprire una discussione, forse sarebbe utile e me lo auguro.
Mubarak lascia sparare la sua polizia sulla folla e l'Onu avvia il ritiro dei suoi funzionari. Non è più tempo di esitare fra le incertezze di Obama spiegate sul manifesto di ieri da Marco d'Eramo e l'«avanti con il popolo egiziano» di Slavoj Zizek. Sto con Zizek. Senza sottovalutare affatto le ragioni di d'Eramo. Non siamo di fronte a scelte tranquille e felici. Da un pezzo una cosiddetta laicità nel Maghreb e nel Medio Oriente è garantita soltanto da regimi dittatoriali. Da un pezzo lasciare libertà di voto può condurre a un'affermazione non solo islamica, ma islamista. Una democrazia in senso proprio, che non è soltanto fare le elezioni ma stabilire un'effettiva divisione dei poteri - esecutivo, legislativo e giudiziario - cioè una sicurezza di uguali diritti di fronte alla legge, non è garantita da nessuno.
E tuttavia non è possibile opporre alla rivolta popolare contro l'autocrazia il pericolo rappresentato da una sua libera espressione. Anche nel voto. Anni fa le elezioni hanno portato in Algeria a una vittoria schiacciante del fronte islamico. Il governo e l'esercito hanno annullato quelle elezioni. Risultato: in Algeria non c'è democrazia, né partiti, né sindacati, né una vera libertà di stampa, né diritti uguali per le donne - tutto devastato. E non basta: le forze del governo hanno sgozzato centinaia di infedeli - infedeli a chi? - nei villaggi. Come regime laico è bizzarro, come democrazia non ve n'è traccia.
In Tunisia è tutt'ora decisivo l'esercito. Conosco un solo esercito che ha portato a una democrazia, quello portoghese del 1974. Speriamo che questo sia il secondo. In Egitto, senza pari più grande, più affamato, più strategico, Mubarak non se ne vuole andare e l'esercito sembrava fino a ieri diviso. La polizia spara per uccidere. Obama, che aveva ammonito Mubarak a non reprimere, che farà adesso? L'Europa si è resa ridicola invitando alla moderazione, «non esagerare, popolo», «non esagerare, Mubarak» come se si trattasse d'un gioco fra ragazzini. Nessuno ha sostenuto sul serio El Baradei, col pretesto che non era abbastanza forte, e tutti temono come la peste i Fratelli Musulmani, quasi che fossero Al Qaeda travestita. Gratta gratta, dove c'è l'islam c'è il terrorismo. Chi di noi ha conosciuto qualcuno dei Fratelli Musulmani sfuggito alla forca o alla galera, sa che non sono affatto simili ai talibani, anche se certamente simpatizzano per Hamas, che neanch'essa è talibana. Ma detesta Israele, e chi sarebbe diverso a Gaza? E qui veniamo al vero dunque.
Più paradossale di ogni altro è l'appoggio che a Mubarak danno unitamente Netanyahu e Abbas. La famosa democrazia israeliana e il popolo che essa stoltamente opprime. Per Israele, Mubarak è l'alleato storico degli Stati Uniti e quindi un amico, del resto ne ha formalmente riconosciuto l'esistenza come stato. Per l'Autorità palestinese è Mubarak che fa da barriera ad Hamas. La debolezza degli oppressori raggiunge quella degli oppressi. Una transizione in Egitto guidata da un uomo come El Baradei, che non è un rivoluzionario ma semplicemente un giusto, non interessa il governo israeliano, perché non consentirebbe a Israele proprio tutto, e neanche all'Autorità palestinese perché non si schiererebbe per principio contro Hamas. Ma, si obietta, se non si fa barriera all'islam Israele sarà distrutta. Non è vero. Quasi tutto il mondo, compresi molti musulmani, è per l'esistenza dello stato di Israele. La sua vera difesa sta nella nostra storia accanto a quella degli ebrei - sta, avrebbe scritto Giaime Pintor, nel sangue d'Europa. E non sbagliamo di bersaglio. Chi ha creato l'islamismo radicale? È stato lo Scià a costruire il carisma di Khomeini. Sono gli Stati Uniti ad armare talebani contro l'Urss, ed è Bush che ha incastrato contro di loro il suo paese in Afghanistan. E ha distrutto Saddam Hussein dopo averlo spedito a dissanguarsi contro l'Iran. È la destra israeliana, oggi Netanyahu e Avigdor, a costruire Hamas. È stata l'inerzia dell'Unione europea.
Errori di questo calibro si scontano. Non aggiungiamo adesso quello di opporci a un sussulto di popolo. È stupefacente che i funzionari dell'Onu lascino l'Egitto in fiamme invece che condannare senza indugio Mubarak e interporsi contro le sue fucilate.
E noi finiamola di prendere per una massa di deficienti coloro che non hanno potere e tentano di ribellarsi. Prima riusciranno a farcela, prima si assumeranno le loro responsabilità. È loro il destino, che lo prendano in mano.
Perché siamo qui? Che cosa abbiamo da dire, da chiedere? Niente e tutto. Niente per ciascuno di noi, tutto per tutti. Non siamo qui nemmeno come appartenenti a questo o quel partito, a questo o quel sindacato, a questa o quella associazione. Ciò che chiediamo, lo chiediamo come cittadini. Chi è qui presente non rappresenta che se stesso. Per questo, il nostro è un incontro altamente politico, come tutte le volte in cui, nei casi straordinari della vita democratica, tacciono le differenze e le appartenenze particolari e parlano le ragioni che accomunano i nudi cittadini, interessati alle sorti non mie o tue, ma comuni a tutti. Non siamo qui, perciò, per sostenere interessi di parte. Ma non siamo affatto contro i partiti. Anzi, ci rivolgiamo a loro, di maggioranza e di opposizione, affinché raccolgano il malessere che sale sempre più forte da un Paese in cui il disgusto cresce nei confronti di chi e di come governa; affinché i cittadini possano rispecchiarsi in chi li rappresenta e sia rinsaldato il rapporto di democrazia tra i primi e i secondi, un rapporto che oggi visibilmente è molto allentato.
Nulla abbiamo da chiedere per noi. Non chiediamo né posti, né danaro. Non siamo sul mercato. È corruzione delle istituzioni l´elargizione di posti in cambio di fedeltà.
è corruzione delle persone l´elargizione di danaro in cambio di sottomissione e servizi. Crediamo nella politica di persone libere, non asservite, mosse dalle proprie idee e non da meschini interessi personali per i quali si sacrifica la dignità al carro del potente che distribuisce vantaggi e protezione. Anzi, chiediamo che cessi questo sistema di corruzione delle coscienze e di avvilimento della democrazia, un sistema che ha invaso la vita pubblica e l´ha squalificata agli occhi dei cittadini, come regime delle clientele. I cittadini che ne sono fuori e vogliono restarne fuori chiedono diritti e non favori, legalità e non connivenze, sicurezza e non protezione. Non accettano doversi legare a nessuno per ottenere quello che è dovuto. Vogliono, in una parola, essere cittadini, non clienti e non ne possono più di vedersi scavalcati, nella politica, negli affari, nelle professioni, nelle Università, nelle gerarchie delle burocrazie pubbliche, a ogni livello, dal dirigente all´usciere, non da chi merita di più, ma da chi gode di maggiori appoggi e tutele.
Chiediamoci, in questo quadro, perché le notti di Arcore – non parlo di reati, perché per ora è un capitolo di ipotesi ancora da verificare – sono esplose come una bomba nel dibattito politico, pur in un Paese non puritano come il nostro, dove in fatto di morale sessuale si è sempre stati molto tolleranti, soprattutto rispetto ai potenti. Dicono che il moralismo deve restare fuori della politica, che ognuno a casa propria deve poter fare quel che gli aggrada (sempre che non violi il codice penale), che il pettegolezzo non deve mescolarsi con gli affari pubblici. È vero, ma non è questo il caso. Se si trattasse soltanto della forza compulsiva e irresistibile del richiamo sessuale nell´età del tramonto della vita, non avremmo nulla da dire. Forse deploreremmo, ma non giudicheremmo per non dover poi essere, eventualmente, noi stessi giudicati. Proveremmo semmai, probabilmente, compassione e magari perfino simpatia per questa prova di senile, fragile e ridicola condizione di umana solitudine. Ma non avremmo nulla da dire dal punto di vista politico.
Ma la verità non si lascia dipingere in questi termini. La domanda non è se piace o no lo stile di vita di una persona ricca e potente che passa le sue notti come sappiamo. Questa potrebbe essere una domanda che mette in campo categorie morali. La domanda, molto semplicemente, è invece: ci piace o no essere governati da quella persona. E questa è una domanda politica.
La risposta dipende dalla constatazione che tra le mura di residenze principesche, per quanto sappiamo, viene messo in scena, una scena in miniatura, esattamente ciò che avviene sul grande palcoscenico della politica nazionale. Le notti di Arcore assurgono a simbolo facilmente riconoscibile, in versione postribolare, di una realtà più vasta che ci riguarda tutti. È un simbolo che ci mostra in sintesi i caratteri ripugnanti di un certo modo di concepire i rapporti tra le persone, nello scambio tra chi può dare e chi può ottenere. È lo stesso modo che impera e nelle stanze d´una certa villa privata e in certi palazzi del potere. Questo, credo, è ciò che preoccupa da un lato, indigna dall´altro.
Non troviamo forse qui (nella villa) e là (nel Paese), gli stessi ingredienti? Innanzitutto, un´enorme disponibilità discrezionale di mezzi – danaro e posti - per cambiare l´esistenza degli altri attraverso l´elargizione di favori: qui, buste paga in nero, bigiotteria, promozioni in impensabili ruoli politici distribuiti come se fossero proprietà privata; là, finanziamenti, commesse, protezioni, carriere nelle istituzioni costituzionali (la legge elettorale attuale sembra fatta apposta per questo), nell´amministrazione pubblica, nelle aziende controllate. Dall´altra parte, troviamo la disponibilità a offrire se stessi, sapendo che la mano che offre può in qualunque momento ritrarsi o colpirti se vieni meno ai patti. Cambia la materia che sei disposto a dare in riconoscenza al potente: qui, corpi e sesso; là, voti, delibere, pressioni, corruzione. Ma il meccanismo è lo stesso: benefici e protezione in cambio di prove di sottomissione e fedeltà, cioè di prostituzione. Ed è un meccanismo omnipervasivo che supera la distinzione tra pubblico e privato, perché funziona ogni volta che hai qualcosa da offrire che piaccia a chi ha i mezzi per acquisirlo.
Qui e là questo sistema alimenta un mondo contiguo fatto di gente alla ricerca di chi "ci sta" e possa piacere a quello che è stato brillantemente definito "l´utilizzatore finale": lenoni e faccendieri, gli uni per selezionare e reclutare corpi da concorsi di bellezza e luoghi di malaffare e organizzarne il flusso, gli altri per sondare disponibilità e acquisire fedeltà nei luoghi delle istituzioni dove possono essere utili. Analogo, poi, è il rapporto che si instaura tra i partecipanti a questi giri del potere. Poiché la legge uguale per tutti sarebbe incompatibile con un tal modo di concepire il potere, i rapporti di connivenza, molto spesso, anzi quasi sempre, si basano sull´illegalità e, a loro volta, la producono. Tutti cascano così nelle mani l´uno dell´altro e il giro si avviluppa nella reciprocità dei ricatti. Così, chi se ne è messo a capo è destinato, prima o poi, a diventare succubo, a trasformarsi in una vuota maschera che parla, vuole, magari fa la faccia feroce ma in nome altrui, il suo unico interesse riducendosi progressivamente a non essere rovinato dai sodali. A quel punto, è pronto a tutto.
Ritorniamo all´inizio. Non chiediamo nulla per noi ma tutto per tutti. Il "tutto per tutti" è lo stato di diritto e l´uguaglianza di fronte alla legge; il rispetto delle istituzioni e della dignità delle persone, soprattutto quelle più esposte ai soprusi dei prepotenti: le donne, i lavoratori a rischio del posto di lavoro, gli immigrati che noi bolliamo come "clandestini"; la disciplina e l´onore di chi ricopre cariche di governo; l´autonomia della politica dall´ipoteca del denaro e dell´interesse privato nell´uso dei poteri pubblici; l´indipendenza dei poteri di garanzia e controllo; l´equità sociale; la liberazione dall´oppressione delle clientele. Un elenco penoso di doglianze e un vastissimo programma di ricostruzione che è precisamente ciò che sta scritto a chiare lettere e per esteso nella Costituzione: la Costituzione che per questa ragione è diventata segno di divisione tra opposte concezioni della politica.
La richiesta di dimissioni del Presidente del Consiglio non è accanimento contro una persona. Sappiamo bene che la concezione del potere ch´egli rappresenta ha, nella nostra società, radici lontane e profonde, di natura perfino antropologica, e che perciò ha buone possibilità di sopravvivergli in quelli che si preparano a raccoglierne la successione, per il momento in cui si sentiranno pronti ad abbandonarlo. Ma sappiamo anche che, per ora, quel sistema di potere è incarnato, e in modo eminente, proprio da lui. Onde è da lui che occorre incominciare, non per fermarsi a lui ma per guardare oltre, al sistema di potere che l´ha espresso e di cui egli è, finché gli sarà possibile, l´interprete più in vista.
Quel che salta subito all'occhio nelle rivolte di Tunisia e d'Egitto è la massiccia assenza del fondamentalismo islamico: secondo la migliore tradizione laica e democratica la gente si è limitata a rivoltarsi contro un regime oppressivo, la sua corruzione e la sua povertà, chiedendo libertà e speranza economica. La cinica convinzione occidentale secondo cui nei paesi arabi la coscienza genuinamente democratica si limiterebbe a piccole élite liberal, mentre le grandi masse possono essere mobilitate solo dal fondamentalismo religioso o dal nazionalismo si è dimostrata erronea. Il grosso interrogativo è naturalmente: che succederà il giorno dopo? Chi ne uscirà vincitore?
Quando a Tunisi è stato nominato un nuovo governo provvisorio, ad essere esclusi erano gli islamisti e la sinistra più rivoluzionaria. L'autocompiaciuta reazione liberal fu: bene, sono fondamentalmente la stessa cosa, due estremi totalitari - ma davvero le cose sono tanto semplici? Il vero, eterno, antagonismo non è piuttosto tra islamisti e sinistra? Ammesso pure che adesso siano uniti contro il regime, una volta vicini alla vittoria si divideranno, e si scontreranno tra loro in una lotta mortale spesso più feroce di quella contro il nemico comune.
Non abbiamo forse assistito proprio a una lotta del genere dopo le ultime elezioni in Iran? Le centinaia di migliaia di sostenitori di Moussavi lottavano per il sogno popolare che ha puntellato la rivoluzione di Khomeini: libertà e giustizia. Anche se quel sogno era un'utopia, significava la salutare esplosione della creatività politica e sociale, esperimenti di organizzazione e dibattiti tra studenti e gente comune. Quella genuina apertura che aveva liberato forze inaudite di trasformazione sociale, in un momento in cui «tutto sembrava possibile», fu poi completamente soffocata dall'andata al potere dell'establishment islamista.
Anche nel caso di movimenti chiaramente fondamentalisti, dovremmo stare attenti a non confondere la loro componente sociale. I taleban vengono puntualmente presentati come un gruppo fondamentalista islamico che impone la sua legge con la forza - però, quando nella primavera del 2009, s'impadronirono della Valle di Swat in Pakistan, il New York Times scrisse che «avevano organizzato una rivolta di classe sfruttando le fratture profonde presenti nella società tra un piccolo gruppo di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra». Se «approfittando» della situazione contadina, i talebani avevano «lanciato l'allarme su quel rischio in Pakistan, che rimaneva in larga parte feudale», cosa impediva ai liberal in Pakistan così come negli Stati Uniti di «approfittare» di questa causa ed aiutare i contadini senza terra? Il fatto è che in Pakistan le forze feudali sono il «naturale alleato» della democrazia liberal.
La conclusione inevitabile cui dovremo giungere è che l'islamismo estremista è sempre stato l'altra faccia della scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani. Quando l'Afghanistan viene rappresentato come il paese islamico più fondamentalista, chi è che ancora ricorda che, solo 40 anni fa, era un paese dalle forti tradizioni laiche, perfino con un forte partito comunista andato al potere indipendentemente dall'Unione sovietica? Dov'è andata a finire quella tradizione laica?
Ed è importantissimo leggere su tale sfondo quello che sta succedendo oggi a Tunisi e in Egitto (e in Yemen e... forse, speriamo, perfino in Arabia saudita!). Se la situazione si «stabilizzerà» e il vecchio regime potrà sopravvivere con un bel po' di chirurgia estetica, la cosa finirà per sollevare uno tsunami fondamentalista. Perché il nucleo forte dell'eredità liberal possa sopravvivere i liberal hanno bisogno dell'aiuto fraterno della sinistra rivoluzionaria. Per quanto marginalizzata, questa sinistra laica esiste a Tunisi così come in Egitto, dove hanno lasciato sopravvivere alcuni piccoli partiti di sinistra a patto che rimanessero marginali e che non criticassero il governo troppo concretamente (nomi importanti come quelli di Mubarak erano off limits, eccetera). Bisogna rendersi conto che il loro rafforzamento e la loro inclusione nella nuova vita politica nel lungo periodo sono la nostra unica protezione contro il fondamentalismo religioso.
La più vergognosa e pericolosamente opportunistica reazione ai tumulti egiziani è stata quella di Tony Blair come riferito dalla Cnn: il cambiamento è necessario, ma dovrebbe essere un cambiamento stabile. «Cambiamento stabile» in Egitto oggi può significare solo un compromesso con le forze di Mubarak attraverso un blando allargamento della cerchia di governo. È per questo che parlare oggi di transizione pacifica è un'oscenità: schiacciando l'opposizione, Mubarak lo ha reso impossibile. Dopo aver mandato l'esercito contro i ribelli, la scelta è chiara: o un cambiamento cosmetico in cui qualcosa cambia perché tutto possa rimanere uguale, oppure la rottura vera.
Eccoci allora al momento della verità: non si può sostenere, come fu dieci anni fa nel caso dell'Algeria, che permettere vere elezioni libere coincida col consegnare il potere ai fondamentalisti musulmani. Israele s'è tolto la maschera di ipocrisia democratica appoggiando apertamente Mubarak - e sostenendo il tiranno contro cui si batte il popolo ha ridato fiato all'antisemitismo!
Un'altra preoccupazione dei liberal è che non ci sia un potere politico organizzato in grado di sostituirglisi se Mubarak va via: ma certo che non c'è, se n'è occupato personalmente Mubarak riducendo ogni opposizione a un fatto decorativo e marginale e il risultato suona come il titolo di quel romanzo di Agatha Christie: E non ne rimase nessuno (titolo originale di Dieci piccoli indiani, ndr) L'argomento di Mubarak è «o lui, o il caos», ma è un argomento che gli si ritorce contro.
L'ipocrisia dei liberal occidentali è spaventosa: hanno sostenuto pubblicamente la democrazia, e ora che la gente si rivolta contro i tiranni in nome di una libertà laica e della giustizia e non in nome della religione, sono tutti «profondamente preoccupati»... Perché tanta preoccupazione? Perché non invece la gioia per questa occasione di libertà? Oggi più che mai risulta pertinente il vecchio motto di Mao Ze Dong: «Sotto il cielo il caos - la situazione è eccellente».
Ma dove deve andare allora Mubarak? Qui la risposta è chiara: a L'Aia. Se c'è un leader che merita di sedere lì, è lui!
Traduzione di Maria Baiocchi
Perché, nonostante le prove schiaccianti di ripetute e numerose illegalità e turpitudini morali, gli italiani continuano a sostenere Silvio Berlusconi? Questa è la domanda che ci si pone fuori d´Italia. Il New York Times ha aperto uno spazio di dibattito sull´Italia intitolandolo così: "Decadenza e democrazia in Italia". è un titolo che ci ricorda un punto importante: dal punto di vista di una tradizione come quella americana la moralità e la democrazia sono essenziali l´una all´altra. Dalla decadenza morale discende la crisi della democrazia. Il politico che mente, che giura il falso, che dà esempi di vita palesemente immorale, che attacca l´ordinamento costituzionale, vi è non solo messo in stato d´accusa ed espulso dal gioco del potere ma è anche immediatamente colpito dal verdetto inappellabile dell´opinione pubblica.
Il caso Berlusconi sembra fatto apposta per proiettare come in uno specchio rovesciato l´idea di democrazia agli occhi del paese che l´ha creata. Così gli argomenti hanno finito col battere sul tasto della diversità antropologica degli italiani: disposti a perdonare tutte le forme di corruzione, maschilisti e sessisti, portati a discriminare le donne più di ogni altro paese europeo e a consumare immagini di corpi femminili in una misura impensabile altrove. In quel dibattito sono intervenuti anche diversi italiani che hanno provato a rispondere e a fornire giustificazioni. Non hanno avuto un compito facile. E soprattutto non hanno centrato il nodo del rapporto tra moralità e democrazia. Si è andati dal piano politico – la presunta mancanza di alternative – a quello dell´imbonimento dei media asserviti in vario modo al padrone. Argomenti fragili, come ognun vede.
Non siamo in un regime dittatoriale di controllo dell´informazione. E quanto a possibili alternative, ce ne sono anche troppe: il problema è che non riscuotono consensi nella stessa misura del personaggio che fuori d´Italia appare così sconveniente e grottesco. Ma la speranza è dura a morire e c´è chi ha chiesto ai lettori americani di avere pazienza promettendo a breve scadenza una normalizzazione della situazione italiana: così Alexander Stille ha concluso il suo intervento affermando che il pubblico italiano non sopporterà più a lungo il fatto che Berlusconi si occupi dei propri affari trascurando del tutto l´attività di governo. Questo sarebbe secondo lui l´unico "peccato imperdonabile" per gli italiani. Vedremo se la previsione sarà confermata. Ma intanto si è affacciata la questione squisitamente teologica e religiosa del "sin that may not be sorgiven", il "peccato imperdonabile".
Che cosa abbia significato nella cultura puritana questo problema lo abbiamo imparato dalla grande letteratura dell´800. Ma oggi è una domanda molto semplice quella che ci viene proposta dal paese di Melville e di Hawthorne: esiste almeno un peccato imperdonabile per gli italiani? La risposta negativa dei paesi di cultura non cattolica è a questo proposito antica e ben consolidata. Un viaggiatore inglese del ´600 autore di un rapporto sullo stato della religione in Italia che fu postillato da Paolo Sarpi, Edwin Sandys, lo disse molto chiaramente: gli italiani gli sembrarono un popolo civile e accogliente, dotato di eccellenti qualità. Gli piacquero anche alcuni aspetti della loro religione. Ma trovò incomprensibile e del tutto esecrabile la pratica della confessione cattolica: il modo in cui nel segreto del confessionale i comportamenti più immorali e le infrazioni più gravi ai comandamenti cristiani venivano cancellati al prezzo di qualche orazioncella biascicata distrattamente gli sembrò una vera e propria licenza di immoralità, un modo per corrompere in radice la natura di un popolo.
Oggi quei tempi e quelle idee sono lontani ma il problema si ripropone. La questione teologica di allora ci si presenta come qualcosa che riguarda il paese intero e tocca la radice profonda della convivenza democratica e del funzionamento delle istituzioni. è il problema della moralità pubblica come cemento della democrazia, o in altre parole della sostanza morale della democrazia, come questione del rapporto che deve esserci tra il buon ordinamento della società e il patto stretto dal politico con gli elettori: l´impegno ad accettare le regole, quelle del fisco, della giustizia, della libertà d´informazione, incluso l´obbligo a sottostare alla legge come e più di ogni privato cittadino. Ora, che questo problema sia stato ignorato clamorosamente dalla dirigenza della Chiesa cattolica italiana anche nei suoi recenti e imbarazzati pronunciamenti è qualcosa che rinvia ai caratteri profondi della religione italiana e non può essere spiegato soltanto dalla difesa del proprio potere e dalla ricerca dei favori governativi da parte di chi si arroga la funzione di maestro e censore della morale collettiva.
Ma è dal punto di vista della sopravvivenza della democrazia italiana che quello che ci viene proposto da Berlusconi in questo tardo autunno dell´ "egoarca" appare come un patto scellerato: si tratterebbe di affrontare i problemi del paese lasciando cadere come irrilevanti i capi d´accusa dei tanti reati che pendono sulla testa del premier. Se anche fosse vero che accettando questo patto i problemi di un paese ridotto nelle condizioni che ognuno vede sarebbero risolti, la questione è quella della natura del regime che noi italiani ci troveremmo ad avere inventato. E qui torna utile la domanda che fu posta da Benedetto Croce a proposito della natura del fascismo: rivoluzione o rivelazione, trasformazione violenta e radicale dell´assetto politico del paese o disvelamento di una verità profonda, di carenze antiche e radicali, tali da rendere il paese Italia diverso da tutti gli altri. Oggi, al termine – speriamo, infine – di un´avventura individuale e collettiva che consegna una fetta consistente di storia del Paese alla figura di Berlusconi, gli italiani tutti e non solo la classe politica, sono giudicati nel mondo per ciò che hanno accettato e premiato con le loro scelte e di cui continuano a non volersi liberare. Come nel rapporto tra personaggio e ritratto descritto da Oscar Wilde ne "Il ritratto di Dorian Gray", oggi il nostro Paese e la qualità morale della nostra convivenza civile sono diventati il ritratto rivelatore della verità nascosta del personaggio Berlusconi: brutti, vecchi, laidi, corrotti. Così li giudica l´opinione pubblica democratica dei paesi civili.
Ancora non sappiamo quale sarà l´esito delle rivoluzioni arabe, in Tunisia ma soprattutto in Egitto. E se davvero sfoceranno in democrazie costituzionali. Ma fin da ora quel che sta accadendo costringe gli occidentali a guardare da vicino questa regione, cosa che non hanno mai fatto sul serio né dopo l´ultima guerra mondiale, né dopo la decolonizzazione, né quando il Medio Oriente ha cessato di essere un luogo quasi astratto di accaparramento e di scontro fra Urss e democrazie liberali.
Questo sguardo da vicino giunge terribilmente tardi, e sono le popolazioni stesse a trasformare il luogo da astratto in concreto: sono quelle piazze arabe i cui cuori e le cui menti si volevano conquistare, dopo l´11 settembre, con il ferro e il fuoco, esportando democrazia come fosse un foglio appiccicato da fuori sui popoli. Guardarli da vicino significa non solo provare a decifrare i loro tumulti, ma cominciare da noi: da una rivoluzione nelle nostre teste, nelle nostre parole, nei dizionari di luoghi comuni ereditati dall´epoca coloniale e all´origine di politiche contraddittorie, sostenitrici di autocrazie che erano amiche nostre ma non dei loro popoli. Le guerre da noi lanciate hanno rigonfiato in questi paesi la corruzione, l´immobilità, lo sfruttamento della persona. I tumulti sono partiti da alcuni suicidi. A differenza del kamikaze, il suicida colpisce se stesso, non l´altro. È un inizio del tutto nuovo.
Il primo luogo comune nei nostri dizionari è la suddivisione amici moderati-nemici radicali. È la gara per l´accaparramento che continua, come nella guerra fredda, con la differenza che il discrimine è il rapporto con America - e Israele - e la lotta al terrorismo. Gli amici non sono necessariamente i filo-occidentali, e ancor meno chi vuole le basi Usa. Una persona come Omar Suleiman, il capo dei servizi segreti nominato vicepresidente e indicato come possibile successore di Mubarak a noi «amico», è conosciuto in Egitto come torturatore, complice delle deportazioni (extraordinary rendition) di sospetti di terrorismo nei paesi dove la tortura è normale (in Italia, collaborò con la Cia per la deportazione in Egitto di Abu Omar, nel 2003).
Tutti gli attributi cui ricorriamo (moderati, fautori di nostri valori) franano d´un colpo come accade alle bugie. I regimi a Tunisi o al Cairo, o quelli giordano e saudita, non diventano moderati per il mero fatto che avversano l´Islam radicale e non Israele. Prima o poi, se si è democratici come si pretende, deve entrare nel calcolo il favore che gli autocrati godono presso i popoli, e questo è mancato. È un atteggiamento coloniale che gli arabi non accettano più. Non è da escludere che le prime mosse dei nuovi regimi, democratici o no, non saranno filo-americane ma anticoloniali.
Il secondo luogo comune concerne l´Islam. Lo stereotipo dice: l´Islam è da sempre incompatibile con la democrazia, e saranno gli estremisti a prevalere. Anche qui, l´ignoranza si mescola a conveniente malafede: l´anti-islamismo è la colla che ha legato l´Ovest a regimi esecrati dai popoli. Non è in nome di Allah che gli egiziani hanno riempito le piazze, ieri, e che anche i giordani manifestano. Sono spinti, spesso, dal primordiale bisogno di pane quotidiano. Dai tempi delle guerre contadine nel ´500 e dalla rivoluzione francese sappiamo che il pane implica una profonda idea di pace. Oggi implica una domanda possente di democrazia, di legalità, di giustizia sociale. L´Islam radicale, compresi i Fratelli musulmani, ha organizzazioni più capillari - assistenza ai poveri, ai disastrati - ma anche se si metteranno alla testa dalle rivoluzione non ne sono i veri iniziatori e lo sanno.
Inoltre, siamo di fronte a un falso storico. Primo, perché il 75 per cento dell´Islam ha democrazie elettive, dall´Indonesia alla Turchia. Secondo, perché molti paesi hanno sperimentato la democrazia, senza riuscirci. L´interventismo occidentale ha più volte congelato tali esperimenti. Un esempio: il complotto anglo-americano del ´51-53 per eliminare il premier Mossadeq pur di salvare, sconsideratamente, l´amico scià di Persia.
Ma lo stereotipo cruciale riguarda Israele, e non stupisce che l´inquietudine maggiore si condensi qui. I movimenti arabi dovrebbero esser accolti con speranza da quella che viene chiamata la sola democrazia in Medio Oriente: è come li saluta un editoriale di Haaretz. Ma una rivoluzione mentale ancora non c´è, e per questo i timori si diffondono e sono anche fondati. La democrazia araba non gioca obbligatoriamente a favore di Netanyahu, ed è fonte di gravi pericoli se nulla cambia nella politica israeliana. In un mondo arabo assetato di libertà si vedranno più da vicino i difetti di una democrazia certo più avanzata - Israele ha una stampa libera, una giustizia indipendente - ma che occupando da 44 anni la Palestina controlla milioni di cittadini non democraticamente: declassandoli, assediandoli a Gaza, recludendoli in Cisgiordania.
Israele non cessa di essere uno Stato minacciato mortalmente, e la perdita dell´Egitto sarebbe un cataclisma. Ma anche qui l´autoesame s´impone. Gli arabi stanno abbandonando il vittimismo per entrare nell´età del potere su di sé: dalla cospirazione alla costruzione, dall´umiliazione all´azione, scrive Roger Cohen sul New York Times del 31 gennaio. La stessa emancipazione dovrà avvenire nelle teste israeliane. Il cataclisma può aiutare gli ex colonizzatori occidentali come Israele a ripensare il passato. Israele nasce nel 1948 come uno Stato etnico, nel momento in cui le democrazie europee scoprivano le catastrofi causate dagli Stati troppo omogenei fuorusciti dagli imperi asburgico e ottomano. Pur scappando dalla Shoah, gli ebrei non giunsero in Palestina come un «popolo senza terra in una terra senza popolo» (la definizione fu dello scrittore Zangwill, nel 1901). Piano piano, Israele ha dovuto vedere il desiderio palestinese di tornare nelle città da cui furono cacciati, e di costruirsi uno Stato. Ma grande è la fatica di guardare. Ancora il 30 agosto 2002, il capo di stato maggiore Moshe Yaalon dichiarava: «Bisogna fare in modo che i palestinesi capiscano nei più profondi anfratti della loro coscienza che sono un popolo sconfitto». Convinto dell´immaturità araba, Israele ha potuto negare la realtà, dire che non esistevano interlocutori palestinesi con cui fare la pace. Anche per lui sta giungendo l´ora in cui dal vittimismo tocca passare all´esercizio del potere non solo sugli altri, ma su di sé.
La democrazia araba è desiderata ormai anche da Obama. Ma più essa avanza, più cresceranno le spinte su Israele perché cessi l´occupazione dei territori, perché le colonie siano smantellate. Chiunque guardi la mappa della Palestina (il sito è Facts on the Ground - American for peace now)» vedrà una terra talmente costellata di colonie che nessuno Stato, tantomeno democratico, è concepibile.
Israele ha tutte le ragioni di preferire Suleiman a El Baradei al Cairo: perché la democrazia araba sconvolge ovunque le comodità dello status quo. È travolto lo status quo in America: Obama sarà costretto a riesumare il tema dell´occupazione. Il rischio, per Israele, è che la rivolta lambisca i palestinesi. Già si è visto quel che produce il voto democratico quando c´è stasi: vincono Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano. La democrazia può indurre i palestinesi a rinunciare a uno Stato separato; a chiedere uno Stato binazionale, senza omogeneità etnico-religiose: tutto questo, in nome della democrazia e del principio, sacralizzato proprio in America, dell´one man-one vote, «ogni uomo un voto». Un principio che in uno Stato binazionale darebbe agli arabi la maggioranza, in poco tempo. Sarà difficilissimo per Israele, a quel punto, restare immobile, guadagnar tempo, e evitare che l´America non appoggi un principio che è indiscutibile in democrazia.
Al voto! Al voto! Massimo D'Alema ci ripensa, manda in soffitta il governo di unità nazionale e lancia, su Repubblica, il coniglio elettorale mentre sui giornali vortica la girandola dei meccanismi istituzionali per aprire le urne antiberlusconiane. Anche a dispetto di Berlusconi medesimo, per nulla intenzionato a lasciare palazzo Chigi. Nello stesso momento il presidente del consiglio recapita una lettera al Corriere della Sera per proporre al segretario del Pd di «agire insieme in parlamento per discutere un grande piano bipartisan per la crescita economica», a partire dall'abrogazione dell'articoli 41 della Costituzione, cioè eliminando dalla Carta ogni vincolo di responsabilità sociale dell'impresa così da rendere "costituzionale" quel che Marchionne ha già messo in pratica alla Fiat. Non che nel Pd non ci siano orecchie sensibili, ma non ancora prevalenti, e comunque il no immediato di Bersani è bastato a cancellare l'offerta firmata da Berlusconi, scritta chissà da chi.
Più verosimilmente a stabilire se e quando andare al voto lo deciderà la Lega, magari giovedì prossimo, se non otterrà il via libera al federalismo comunale. Lo ha ripetuto il ministro dell'interno Maroni (uno che alle elezioni ci può portare davvero). Al punto da sostenere che «teoricamente il presidente della repubblica potrebbe essere costretto a esercitare le sue prerogative», anche senza le dimissioni del capo del governo. Ipotesi del terzo tipo, ma l'accesa discussione tra i costituzionalisti, sulla praticabilità di elezioni indette dal capo dello stato contro il parere del capo del governo, misura l'avvitamento della crisi dopo lo scandalo della prostituzione di stato.
Berlusconi e D'Alema farebbero meglio a occuparsi di quel che gli compete, l'uno del governo del paese (se ci riesce, eventualità piuttosto improbabile) e l'altro di una strategia dell'opposizione parlamentare (diversa dall'autogol delle sfiducie mancate). In realtà Berlusconi è troppo impegnato a difendersi dalla magistratura e il partito di D'Alema ad allestire i gazebo per le firme contro il capo del governo, senza mai trovare il tempo («se non ora quando?») di spiegare agli elettori come sia stato possibile al berlusconismo riuscire nell'impresa di cambiare i connotati al paese con la sinistra più forte d'Europa.
Se la profferta berlusconiana a Bersani è solo una trovata disperata e un po' ridicola, la falange elettorale di D'Alema è il classico ballon d'essai sparato nell'asfittico perimetro del Palazzo per sondarne l'effetto. Che è sempre lo stesso: un sì dell'alleato prediletto (Casini), un no dei due partiti di opposizione (Di Pietro e Vendola) con i quali invece sarebbe ora di discutere come organizzare un menu alternativo.
La riesumazione dalemiana di volti e culture della prima repubblica, svuotata persino della difesa della Costituzione, non riempirà le urne. Oltretutto senza neppure lo straccio di un nome da spendere per frenare la valanga astensionista. Anzi, lavorando sodo per demolire l'unico leader in campo nella sinistra. Perché è vero che la leadership non sarà il primo dei problemi, ma chi sarebbe allora il nostro ElBaradei?
L´Italia è un paese surreale, per raccontare il quale non ci sono più parole. Un paese rovesciato, dove tutto funziona esattamente all´opposto di come le cose funzionano in un paese democratico.
Non è necessario appellarsi agli ideali della democrazia. E´ sufficiente comparare il nostro paese con altri paesi reali per vedere la folle assurdità nella quale la nostra società è immersa.
In quale altro paese del mondo occidentale succede che un capo di governo sta aggrappato al suo ruolo per poter sfuggire alla giustizia?
In quale altro il presidente del Consiglio si fa latore di un messaggio distruttivo come quello di cercare di essere eletti per poter restare impuniti?
In quale altro paese democratico l´intero staff di legulei, avvocati e mediatori del presidente del Consiglio siedono in Parlamento, non per rappresentare gli italiani (un oggetto di nessun interesse) ma per prendersi cura quotidianamente degli interessi del loro cliente, il quale é anche il loro padrone?
In quale altro paese moderno un leader politico eletto, e che per questo dipende dalla legge come ciascuno di noi, si fa calunniatore della legge e dei suoi magistrati e tiene consiglio con i suoi uomini alla maniera di un Don Rodrigo per escogitare le bugie migliori per raggirare la legge?
Quale altro leader nel mondo occidentale usa le tribune internazionali per gettare discredito sulle istituzioni del suo paese, per stracciare le norme che non rispondono ai suoi immediati e più diretti interessi?
In quale altro paese i cittadini devono prendere continuamente le distanze dal governo che rappresenta la loro nazione ogni qualvolta si trovano a dover spiegare l´allucinante assurdità di un leader che usa il potere politico per coprire quel che fa in privato?
In generale succede proprio il contrario: chi ricopre incarichi pubblici é chiamato a rendere conto anche della vita privata se desta sospetti di illecito - del resto, la pratica del rendere conto serve proprio a fugare i dubbi, a ristabilire la legittimità.
Ma in Italia avviene il contrario: la legittimità è propagandata ma mai appoggiata su certezze.
Nell´era Berlusconi chi ha un incarico pubblico può meglio nascondere quel che fa senza lasciare ai cittadini la possibilità di sapere, di rendersi conto dei fatti, di fugare se necessario i dubbi, di giudicare con correttezza.
Dopo aver proclamato di voler andare dai giudici per chiarire ogni dubbio sulle accuse di prostituzione di minori e concussione, il premier ha clamorosamente rovesciato la sua strategia: non solo non vuole presentarsi ma ha messo in scena una straordinaria campagna contro le istituzioni. In questo modo rinsalda la sua legittimità a spese della legittimità dello Stato.
Nell´Italia di oggi tutto é rovesciato.
In quale altro paese succede che il leader del governo offende pubblicamente giornalisti e cittadine, mostrando disprezzo per una parte del paese senza subire alcuna effettiva conseguenza?
La tolleranza finora dimostrata nel nostro paese per questo leader é il segno di un´impotenza che preoccupa e non ci fa onore. Chi ci offende non può essere degno di governarci.
E che cosa dire del suo alleato più fedele, la Lega?
La Lega Nord nacque qualche decennio fa al grido "Roma ladrona" ma non si é fatta alcun scrupolo a servirsi di quella Roma per rafforzare il suo peso nelle regioni dove miete consensi e governare l´Italia unita allo scopo di disunirla.
In quale altro paese un movimento federalista e quasi secessionista vive all´ombra della politica nazionale e addirittura vuole imporre una legge istitutiva del federalismo che straccia l´autonomia dei comuni, asservisce i governi delle città al governo di Roma in una maniera che è degna di un centralismo napoleonico?
In quale altro paese, una minoranza ha così tanto potere da decide come l´identità politica della nazione debba essere?
C´è, in effetti, un accordo fondamentale e non solo strumentale fra la Lega e Berlusconi, poiché entrambi sono dispregiatori del bene generale, cioè dell´Italia e degli italiani come nazione, nel nome dei loro interessi parziali: quelli di un impero economico privato e quelli di un´area geografica.
Rovesciando tutte le norme, l´Italia é l´unica democrazia costituzionale nella quale la minoranza governa esplicitamente e nel disprezzo ostentato della legge e delle istituzioni.
DAVOS - Gli altri leader europei vengono qui per "dare la linea" al World Economic Forum. In 48 ore si succedono a Davos Nicolas Sarkozy, David Cameron, Angela Merkel: espongono una visione dell´Europa, le loro ricette per la ripresa, le strategie verso l´America e i paesi emergenti. All´Italia tocca un ruolo diverso a Davos: quello dell´imputata. Il campionario di dirigenti mondiali che si riunisce in questo summit – statisti, grandi imprenditori, opinion leader – riserva al nostro paese una sessione a porte chiuse. Intitolata "Italia, un caso speciale".
La riunione viene presentata così dagli organizzatori nel documento introduttivo: «Malgrado la sua storia, il suo patrimonio culturale, la forza di alcuni settori della sua economia, il paese ha difficoltà di governance e un´influenza sproporzionatamente piccola sulla scena globale. Le sue prospettive economiche e sociali appaiono negative». A istruire il processo, l´establishment di Davos delega alcuni esperti e opinionisti autorevoli. Di fronte a loro, sul versante italiano, un parterre di imprenditori e banchieri. Nessun rappresentante di governo è all´appello: il ministro dell´Economia Giulio Tremonti, pur presente a Davos, fissa una conferenza stampa altrove, nello stesso orario.
Tocca a Michael Elliott, direttore del magazine Time, aprire il fuoco: «Contate molto meno di quel che dovreste nell´economia internazionale, i problemi del vostro governo vi precludono di svolgere il ruolo che vi spetta». Segue l´economista Nouriel Roubini, una star di Davos da quando nel 2007 fu l´unico a prevedere con precisione la crisi mondiale: «Di solito parlo solo di economia ma nel vostro caso il problema del governo è diventato grave, è una vera distrazione che v´impedisce di fare quello che dovreste. Siete di fronte ad accuse di una vera e propria prostituzione di Stato, orge con minorenni, ostruzione alla giustizia. Avete un serio problema di leadership che blocca le riforme necessarie». Roubini dà atto sia a Tremonti che a Mario Draghi di avere limitato i danni sul fronte della finanza pubblica e del sistema bancario. «Ma un contagio della sfiducia dei mercati è ancora possibile – aggiunge – perché il divario è enorme tra le riforme strutturali di cui avete bisogno, e ciò che è stato fatto».
Un altro economista, Daniel Gros che dirige a Bruxelles il Centre for European Policy Studies, invita a non illudersi sul fatto che l´Italia possa a lungo sottrarsi al destino di Grecia, Portogallo, Irlanda: «La vostra situazione è preoccupante. Siete il paese più direttamente in competizione con la Cina, per la tipologia dei prodotti. Da dieci anni si sa quali riforme andrebbero fatte. Di questo passo l´Italia potrebbe diventare il prossimo grosso problema dell´eurozona».
Josef Joffe, editore e direttore del giornale tedesco Die Zeit: "Da dieci anni crescete meno della media europea, questo è il problema numero uno". Segue Matthew Bishop, capo della redazione americana del settimanale The Economist, che nel 1997 fu l´autore di un rapporto sui nostri "esami d´ingresso" nella moneta unica: «Da allora – dice – il paese è rimasto troppo immobile. Le tendenze dell´economia globale rischiano di trasformarvi nell´anello debole dell´Unione europea. Se l´Italia non usa i prossimi cinque anni per un reale cambiamento, vi ritroverete dalla parte perdente dell´eurozona». Quindi Bishop lancia la palla nel campo degli italiani: «I gravi reati di cui Silvio Berlusconi è accusato sono ben noti. Ma a voi sta bene lo stesso? E´ questo il governo che volete?»
La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia nel replicare sottolinea quanto la forza del tessuto produttivo resti notevole: «Siamo il secondo esportatore europeo dietro la Germania, il quinto nel mondo, con punte di eccellenza non solo nei settori tradizionali ma nella meccanica, nella robotica, nei macchinari elettronici». Anche lei però descrive un´Italia «introversa, ripiegata su se stessa, distratta rispetto a quel che accade nel resto del mondo, soprattutto per colpa dei suoi politici». E conferma che «il mondo di Davos, quello delle nuove potenze come l´India e l´Indonesia, è ignoto ai nostri politici, perciò siamo assenti dai tavoli dove si decide il futuro». Corrado Passera di Banca Intesa elenca gli handicap: «Scuola, infrastrutture, giustizia, burocrazia, bassa mobilità sociale, poca meritocrazia». Voci ancora più critiche si levano tra i nostri top manager che hanno scelto una carriera all´estero. A loro il pianeta-Davos è familiare, nei nuovi scenari della competizione globale si muovono con sicurezza. Ma sono qui per conto di multinazionali straniere.
Da Anemone a Balducci, in 22 sotto accusa: un patto criminale - Chiuse le indagini: "Per 11 anni hanno truccato il mercato e saccheggiato le risorse pubbliche"
PERUGIA - Per 11 anni, «uno stabile sodalizio a delinquere» ha governato il Sistema dei Grandi appalti pubblici di questo Paese, «pilotandone le scelte», saccheggiandone le risorse, truccando il mercato, umiliando le regole di imparzialità e trasparenza. Per 11 anni, «un´associazione per delinquere ha commesso una serie indeterminata di corruzioni, abusi di ufficio, rivelazioni di segreto d´ufficio, favoreggiamenti, mettendo la funzione dei funzionari pubblici a disposizione di privati imprenditori, tra cui principalmente Diego Anemone e il gruppo di imprese a lui riconducibile». Perché, «di fatto, i funzionari pubblici hanno operato a servizio del privato e consentito che la gestione degli appalti avvenisse in maniera del tutto antieconomica per le casse pubbliche a favore degli imprenditori». E dei loro astronomici «profitti illeciti». In soli quattro anni, dal 2004 al 2009, e per il solo Diego Anemone e il suo occulto socio, il grand commis di Stato ed ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci, una somma pari a 75 milioni 523.617, 88 euro.
IL SISTEMA DEI GRANDI APPALTI
Con un provvedimento di 23 pagine di avviso di conclusione indagini, i pubblici ministeri di Perugia Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi, chiudono, dopo 11 mesi, il troncone principale dell´indagine ereditata da Firenze sui Grandi Appalti (Mondiali di Nuoto di Roma del 2008, G8 della Maddalena, 150 anni dell´Unità d´Italia). Fotografano cosa di questa storia, oggi, la pubblica accusa dà per accertato. Lasciano in sospeso, separandole, le posizioni di Claudio Scajola (tuttora non indagato) per il mezzanino vista Colosseo, dell´ex ministro Pietro Lunardi e dell´arcivescovo di Napoli Crescenzio Sepe per le vicende di "Propaganda Fide". Annichiliscono quel che resta dell´immagine pubblica dell´ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso per il quale l´accusa di corruzione non solo viene confermata, ma, se possibile, si aggrava, lì dove si arricchisce di una circostanza: «Aver materialmente ricevuto 50 mila euro in contanti dalle mani di Diego Anemone». E ancora: consegnano l´ex procuratore aggiunto di Roma Achille Toro al disonore di aver venduto la sua funzione di magistrato.
Le 23 pagine anticipano la richiesta di rinvio a giudizio di 22 indagati per reati che vanno dall´associazione a delinquere, alla corruzione aggravata in atti di ufficio, al favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Tutti nomi già noti alle cronache di questo ultimo anno (i funzionari pubblici Angelo Balducci, Guido Bertolaso, Mauro Della Giovampaola, Fabio De Santis, Claudio Rinaldi. Gli imprenditori Diego Anemone, Ezio Gruttadauria, Bruno Ciolfi. Spicciafaccende come il commercialista Stefano Gazzani e l´architetto Angelo Zampolini. Segretarie e prostitute brasiliane di casa allo "Sporting Village" di Anemone). Tutti, tranne uno: l´ex senatore democristiano transitato nel Pd Francesco Alberto Covello, vicepresidente dell´Istituto per il Credito sportivo, in questa veste accusato di corruzione per aver agevolato (anche se mai erogato) un mutuo di 18 milioni di euro a Diego Anemone.
BERTOLASO, ANEMONE E BALDUCCI
È un presepe della vergogna al centro del quale i pm collocano la triade Bertolaso-Anemone-Balducci. All´ex capo della Protezione Civile, a differenza degli altri due, viene contestata la "sola" corruzione aggravata e non anche l´associazione per delinquere. Ma con argomenti di straordinaria gravità. «Quale responsabile della gestione dei "Grandi Eventi" - si legge - ha compiuto atti contrari ai doveri di ufficio per favorire Diego Anemone nell´aggiudicazione degli appalti del quarto, quinto e sesto lotto dei lavori per il G8 della Maddalena (...) Ha compiuto scelte economicamente svantaggiose per la pubblica amministrazione, consentendo che i costi aumentassero considerevolmente». Peggio, «ha posto stabilmente la propria funzione pubblica a disposizione degli interessi di Diego Anemone», in cambio, per quel che i pm hanno potuto accertare, di «una serata allo "Sporting village" con la prostituta Monica Da Silva Medeiros», di «massaggi (il corsivo è dei pm ndr.) con tale Francesca Muto», dell´affitto «di un appartamento in via Giulia a Roma», di «50 mila euro consegnatigli brevi manu da Anemone il 23 settembre 2008».
Di Balducci e Anemone, molto si sa. I pm, tuttavia, sottolineano una circostanza. Che il «patto a delinquere» stretto tra i due «sin dal 1999», utile a pilotare «gli appalti del G8 della Maddalena, della caserma "Zignani" del Sisde in piazza Zama a Roma, delle opere per i 150 anni d´Italia, per il parco della musica», aveva come cemento «una sorta di società effettiva tra i due, che finanziava investimenti di ingente valore».
«L´ASSERVITO PROCURATORE ACHILLE TORO»
L´ex procuratore aggiunto di Roma Achille Toro è accusato di corruzione in atti giudiziari, corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, rivelazione di segreto di ufficio, favoreggiamento. «Ha asservito le sue funzioni - si legge - agli interessi di Angelo Balducci». «È intervenuto sui pm di Roma Assunta Cocomello e Sergio Colaiocco, inducendoli a compiere atti contrari ai doveri di ufficio». Ha «barattato» i segreti delle indagini di Firenze e Roma sul Sistema degli appalti, con contratti di co.co.co dei figli Camillo (indagato) con il ministero delle Infrastrutture e Stefano con la Protezione Civile.
La politica non è lo spazio né della Verità né della Menzogna. Non deve ospitare un Assoluto da custodire a ogni costo, né un Vuoto radicale di senso, in cui tutto è possibile; né un Bene né un Male. Perché spesso l´uno si rovescia nell´altro.
Un´illustre tradizione che, in età moderna, nasce in parte da Machiavelli e dalla Ragion di Stato, collega la politica al Male e teorizza anche la liceità, per il potente, di mentire; il potere politico è segreto, le sue vie e le sue ragioni sono nascoste al popolo, a cui la vera finalità dell´agire politico - la potenza - non va rivelata; anzi, la si deve schermare, dissimulare, rappresentare falsamente come fosse orientata al Bene. Il potere è opaco, e tale deve rimanere; non può essere indagato né criticato, perché trascende la comprensione della gente comune, dei cittadini.
La modernità politica si è affermata attraverso la lotta illuministica contro gli arcana imperii, contro il combinarsi di segreto, dissimulazione, menzogna, a cui ha opposto la luce della ragione pubblica, capace di indagare e rischiarare quelle tenebre. E ciò è avvenuto in nome della Libertà; che è anche la libertà dei cittadini di non essere ingannati dal potere, e di vivere in uno spazio politico trasparente, pubblico e condiviso.
Ciò non significa che la menzogna non abiti la politica moderna. E non solo perché spesso i politici mentono; ma per il motivo più radicale che anche la politica moderna si è creduta portatrice di Verità - di una Verità di liberazione contro l´antica oppressione - , e che in nome delle sue certezze assolute si è sentita legittimata a ogni comportamento - la menzogna, ma anche ben di più - per difenderle e affermarle: la spietatezza dei totalitarismi novecenteschi ne è testimonianza. Ma anche senza entrare negli inferni totalitari - in cui Verità e Menzogna si rovesciano continuamente l´una nell´altra - la menzogna ha contagiato perfino le democrazie: la politica moderna ha un nucleo di segreto - la difesa dello Stato, la sua potenza - a cui, nonostante sia in contraddizione con la democrazia, non sa rinunciare, anche a costo della menzogna di Stato, della falsa rappresentazione del reale. Lo si è visto nel contesto imperiale degli Usa - che dal Vietnam all´Iraq hanno mentito per giustificare le loro guerre - e anche nel più modesto spazio italiano, in cui la politica degli omissis rispondeva alla medesima logica di salvaguardia, attraverso la menzogna, del presunto Bene superiore dello Stato. La tragedia della politica sta proprio qui: nella dialettica fra segreto del potere e libertà dei cittadini.
L´età contemporanea ci mostra che la Menzogna si sposa alla politica anche nel fabbricare mediaticamente un mondo di favola e nell´elargirlo a platee di cittadini ridotti a spettatori, che non possono esercitare il diritto di critica, di fare domande, di avere risposte; è Menzogna anche l´illusionismo che trasforma il discorso pubblico in una fiction. Ma oggi la cronaca ci rivela un nuovo rapporto fra politica e menzogna; quello delle bugie private, a proposito di reprensibili comportamenti personali, che assumono rilevanza politica proprio perché la politica è stata identificata con un uomo, un corpo, una vicenda personale. Questa privatizzazione della Menzogna, con effetti pubblici, unisce al tragico il farsesco; ma viola ugualmente l´unica Verità a cui la politica democratica possa aspirare: quella che nasce in una comunità politica dal libero confronto di cittadini liberi dall´inganno e dalla manipolazione.
Viviamo, da ormai quasi un ventennio, nella non-politica. Della politica abbiamo dimenticato la lingua, il prestigio, la vocazione. Dicono che a essa si sono sostituiti altri modi d´esercitare l´autorità: il carisma personale, i sondaggi, il kit di frasi e gesti usati in tv. Ma la spiegazione è insufficiente, perché tutti questi modi non producono autorità e ancor meno autorevolezza. Berlusconi ha potere, non autorevolezza. Non sono le piazze a affievolirla ma alcune istituzioni della Repubblica. Evidentemente non persuase dalle sue ingiunzioni. Le vedono come ingiunzioni non di un rappresentante dello Stato, ma di un boss terribilmente somigliante al dr Mabuse, che nel film di Fritz Lang crea un suo stato nello Stato. Alle varie istituzioni viene intimato di ubbidire tacendo, e già questo è oltraggio alla politica e alla Costituzione.
Specialmente sotto tiro è la magistratura, che incarna il diritto. Un gran numero di magistrati si trova alle prese con un leader-non leader, sospettato di crimini di cui la giustizia indipendente non può non occuparsi. Le sue peripezie sessuali lo hanno minato ulteriormente, essendo forse connesse a reati, e hanno accresciuto la sua inaffidabilità. Questo è il dilemma. Il carisma che ha avuto e ha presso gli elettori non ha prodotto che subalternità o resistenza. Il potere gli dà una parvenza di autorità, ma l´autorevolezza, che è altra cosa, gli manca. Non incarna la legge, il servizio su cui la politica si fonda, perché questi ingredienti non sono per lui primari.
L´autorevolezza del leader è riconosciuta non solo dall´elettore ma dai pari grado e dai poteri chiamati per legge a controbilanciare il suo. Il conflitto tra il Premier e la giustizia non avviene fra due poteri irrispettosi dei propri limiti, come ha detto lunedì il cardinale Bagnasco. Avviene perché il premier indagato non va in tribunale, non accetta l´obbligatorietà dell´azione penale costituzionalmente affidata ai pm (art. 112). I pari grado esigono da chi comanda capacità di comunicare senza di continuo mentire e smentirsi. Esigono un equilibrio psichico che non sfoci in aggressività, in punizioni a tal punto fuori legge che sempre occorre scriverne di nuove.
A questo dovrebbe servire la politica non tirannica: a governare i conflitti nel loro sorgere, a non intimidire. Berlusconi disconosce tali virtù, per il semplice motivo che non sa - non vuol sapere - quel che significhino la politica e il comando. Non il merito e l´autonomia individuale sono stati da lui rafforzati, come tanti italiani s´attendevano, ma l´appartenenza ai giri di potere anti-Stato descritti da Gustavo Zagrebelsky (Repubblica 26-3-10) . Non stupisce la contiguità fra i giri e le associazioni malavitose. Ambedue hanno potere di nuocere o favorire, non autorevolezza.
Anche il carisma non è politica alta. Il primo è personale e labile, la seconda essendo un impasto di regole s´innalza sopra il contingente, non si mimetizza nelle voglie della folla, guarda più lontano. La politica alta è distrutta quando i cittadini dimenticano che solo le istituzioni durano. Lo disse Jean Monnet dopo l´ultima guerra, vedendo i disastri commessi dagli Stati e progettando l´Europa sovranazionale: «Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l´esperienza collettiva, e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già il cambiamento della propria natura, ma la graduale trasformazione del proprio comportamento». Solo l´istituzione ben guidata ha il carisma, il «dono» di operare per il bene comune indipendentemente da chi governa.
In Joseph Conrad, la scoperta delle capacità di comando è il momento in cui il capo della nave oltrepassa la linea d´ombra e apprende il compito come servizio (il compito di portare nave e passeggeri sani e salvi in porto). È scritto in Tifone: «Pareva si fossero spente tutte le luci nascoste del mondo. Jukes istintivamente si rallegrò di avere vicino il Capitano. Ne fu sollevato, come se quell´uomo, con la sola sua comparsa in coperta, si fosse preso sulle spalle il peso maggiore della tempesta. Tale è il prestigio, il privilegio e la gloria del comando. Ma da nessuno al mondo il capitano Mac Whirr avrebbe potuto attendere un simile sollievo. Tale è la solitudine del comando». Berlusconi è rimasto al di qua della linea d´ombra. La prova che dall´adolescenza ci immette nella maturità, non l´ha superata.
Ma il problema non è solo Berlusconi. Al di qua della linea d´ombra è restata l´idea stessa che in Italia ci si fa della politica. La politica non è associata a competenza e disinteresse personale, e chi non entra nelle beghe di quella che in realtà è non-politica, viene chiamato un tecnico o un ingenuo. Non è associata alla verità, ritenuta quasi un attributo pre-politico. È dominio fine a se stesso, e così degenera. Lo Stato funziona se gli ordini vengono eseguiti, ma a condizione che sia custodito il bene comune. Che il potere si nutra di legalità, oltre che della legittimità data dalle urne. Che il privato non prevalga sul pubblico.
La vera corruzione italiana comincia qui: nelle teste, prima che nei portafogli. Non che sia scomparso il politico vero, ma spesso di lui si dice: «È uno straniero in patria». Sono i falsi politici a considerarlo estraneo ai giri, alla loro «patria». L´Italia ha conosciuto la politica alta: quella della destra storica nata dal Risorgimento; quella dei costituenti di destra e sinistra; quella di Luigi Einaudi. In uno scritto del 1956, il secondo Presidente della Repubblica invitò gli italiani a non illudersi: «Nessuno Stato può esistere e durare se non sono saldi i pilastri fondamentali» che sono la difesa, la sicurezza, il diritto, l´ordine pubblico. Senza tali pilastri «gli Stati sono cose fragili, che un colpo di vento fa cadere e frantuma». Al capo politico spetta salvaguardarli, poiché spetterà a lui «dire la parola risolutiva, dare l´ordine necessario».
Difficile dire la parola risolutiva, quando tutto traballa. Quando la linea d´ombra non è riconosciuta e il capo vive o cade nella pre-adolescenza. Uno dei motivi per cui da anni ci arrovelliamo sul potere berlusconiano - è un Regime? un autoritarismo nuovo? - è questa sua incapacità di dire parole credibili. L´ubbidienza al politico, scrive ancora Einaudi, è possibile solo se «gli uomini a cui è affidata l´osservanza della legge non mettono se stessi al di sopra della legge». Se i capi civili «sapranno di essere confortati dal consenso di cittadini, convinti che nessuno Stato dura, che nessuna proprietà, nessuna sicurezza di lavoro, nessuna certezza di avvenire sono pensabili, se tutti non siano decisi ad osservare i principii vigenti del diritto e dell´ordine pubblico».
La sinistra ha scoperto tardi la forza delle istituzioni, dello Stato. Anch´essa ha spesso considerato il sapere tecnico, la legalità, il parlar-vero, come non-politica. Politica era conquista di posti, più che servizio. Non era apprendere la prudenza insegnata nel ‘600 da Baltasar Gracián: la prudenza di chi non si scorda che «c´è chi onora il posto che occupa, e chi invece ne è onorato». Per questo l´opposizione appare vuota, a volte perfino più incompetente di alcuni governanti, non meno indifferente ai meriti, non meno interessata a lottizzare poteri. Lo stesso Veltroni sfugge la politica quando invita a «viaggiare in mare aperto». C´è bisogno di porti, non fittizi. C´è bisogno di capire che non cresceremo più come prima. Che non è straniero in patria chi elogia l´invenzione delle tasse o del Welfare: questo strumento che crea comunità solidali strappandole alla legge del più forte.
È vero, l´Italia ha bisogno di una rivoluzione democratica. Dunque: di una rivalutazione della politica. È la politica che deve vagliare i dirigenti e impedire all´indegno di entrarvi, senz´aspettare la magistratura. Non è solo la sinistra a poter incarnare simile rivoluzione. Possono farla anche le destre, a lungo identificate con Berlusconi. Fini è il primo a riscoprire la politica, e anche la destra storica. C´è una tradizione riformatrice in quella destra, evocata su questo giornale da Eugenio Scalfari nell´88, nello stesso anno in cui denunciò l´ascesa del potere televisivo berlusconiano: la tradizione di Marco Minghetti, di Silvio Spaventa, che esalta la politica come servizio pubblico. Sinistra e destra debbono ritrovarla, come seppero fare dopo il ventennio fascista.
Nel discorso di ieri, atteso dall´Italia con un interesse forse mai avuto prima per le parole di un Presidente della Cei, il cardinal Bagnasco ha disposto le artiglierie, ha caricato i proiettili, ha puntato nella direzione giusta. E ha iniziato a colpire con parole infuocate come non era mai accaduto prima i comportamenti del capo del governo, andando ad affiancare le sue critiche a quelle espresse in precedenza dal Presidente della Repubblica e dal Presidente degli industriali. Quando però è stato il momento di compiere la missione fino alla fine, il cardinale ha rivolto le sue armi altrove. Il risultato, quest´oggi, è che tutti possono dire che sono contenti, persino i sostenitori del governo, per una situazione analoga a quella del dopo-elezioni quando nessuno dice di avere perso. La gerarchia cattolica aveva l´occasione di aiutare gli italiani a fare chiarezza per uscire da una situazione che li rende ridicoli al mondo e peggio ancora a se stessi, ma non è stata capace di portarla avanti fino in fondo, immolandola sull´altare della diplomazia.
Bagnasco ha esordito parlando di "nubi preoccupanti che si addensano sul nostro paese", ha continuato con la "perversione di fondo del concetto di ethos", ha detto che "a vacillare sono i fondamenti stessi di una civiltà", ha proseguito con il "consumismo" e la "cultura della seduzione" da cui scaturiscono una "rappresentazione fasulla dell´esistenza, volta a perseguire un successo basato sull´artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l´ostentazione e il mercimonio di sé" con il risultato di un "disastro antropologico". Quando poi è giunto a toccare la più stretta attualità ha parlato di "debolezza etica" e di "fibrillazione politica e istituzionale", ha ricordato che "si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza", e infine ha ricordato l´art. 54 della Costituzione che sottolinea il dovere per chi governa di misura, sobrietà, disciplina e onore. Insomma un´analisi limpida e forte, a tratti severa, come si conviene al momento drammatico del paese. Ma alla fine è mancato il coraggio di andare fino in fondo nel combattere i mali evocati, ha vinto la diplomazia e ha perso la profezia. Infatti dopo tutte queste analisi all´insegna della chiarezza evangelica, il cardinale ha girato le artigliere dall´altra parte puntandole verso i magistrati milanesi e ha proclamato in perfetto stile curiale, e non senza una sottile sfumatura di ambiguità per l´uso del pronome indefinito: "… mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l´ingente mole di strumenti di indagine", col risultato, per Bagnasco, che così si passa "da una situazione abnorme all´altra". Ovvero: il capo del governo ha torto, ma i magistrati non hanno ragione, esagerano.
Sia chiaro che nessuno si aspettava scomuniche, ma che almeno quello "scatto di coscienza e di responsabilità" che lo stesso cardinale chiede agli italiani fosse mantenuto con coerenza fino in fondo sì. Nel discorso di qualche giorno fa al Corpo diplomatico il Papa ha detto della minaccia costituita da alcuni programmi di educazione sessuale nelle scuole. Senza entrare nel merito, chiedo che cos´è un´ora scolastica di educazione sessuale rispetto alle notizie che ogni giorno entrano nelle case con tutti i sexy-gate che periodicamente ricorrono in questa colossale permanente maleducazione sessuale e antropologica, che ora si chiama Ruby ora in molti altri nomi, ma il cui vero nome è "Legione" come rispose l´indemoniato a Gesù: "Mi chiamo Legione perché siamo in molti" (Vangelo di Marco 5,9). La Chiesa poteva contribuire a far sì che chi vuole godere di questa compagnia lo faccia pure giorno e notte quando e come vuole ma senza coinvolgere la politica e la vita degli italiani, ma non ha avuto il coraggio per andare fino in fondo.
La Chiesa, è noto, ha una lunga storia con il tema prostituzione, ben prima della comparsa di tutte queste signorine nelle ville del capo del governo. Dalle prime pagine della Bibbia alla genealogia di Gesù, dalle parole evangeliche "le prostitute vi passeranno avanti nel regno dei cieli" all´appellativo patristico sulla Chiesa casta meretrix e alle parole di Dante che accusano i papi di "puttaneggiar coi regi", la prostituzione ha sempre accompagnato il cammino del cristianesimo. Nulla di strano, perché ha sempre accompagnato il cammino dell´umanità. Quindi nessuno si aspettava che il cardinal Bagnasco si stracciasse le vesti scandalizzato. Ma tra lo scandalo di un Savonarola e le parole di biasimo in sé giuste rese però innocue dal biasimo riversato sui magistrati per il troppo zelo, c´è una bella differenza.
So bene che vi sono legittimi interessi dell´istituzione Chiesa da salvaguardare come i finanziamenti alle scuole cattoliche, le esenzioni delle tasse per gli edifici ecclesiastici, la battaglia parlamentare sul biotestamento e materie similari. Ed è giusto che il presidente della Cei tenga conto di tutto ciò. Ma vi sono dei momenti nei quali bisogna guardare davvero unicamente al bene comune, momenti nei quali chi sta in alto si ritrova solo, ed è chiamato a responsabilità profetiche e morali senza poter coniugare tutti gli interessi in gioco. Ieri la gerarchia della Chiesa italiana era in questa situazione. Le parole di Bagnasco sono state per molti tratti un buon esempio di cosa significa parlare di politica senza fare ingerenze partitiche, perché la nostra situazione non è più questione di destra o di sinistra ma solo di decenza e di dare un governo vero a un paese che ne ha urgente bisogno. Alla fine però ha ceduto alla diplomazia, ha usato il bilancino che le consente di avere tutti i forni sempre aperti. E così il sale evangelico ha perso ancora un po´ del suo sapore.