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Sovente ripetiamo che per poter essere difesi i beni comuni devono essere riconosciuti come tali e che per riconoscerli occorre praticare il pensiero critico. Per esempio, tutti diamo per scontato che la terra sia ferma perché è proprio la terraferma ad averci garantito la possibilità di sviluppare il nostro modello di vita stanziale. La sismicità è rimossa dalla collettività, ma chi ha responsabilità di governo del bene comune «territorio» deve necessariamente tenerne conto. Male gestisce i beni comuni chi miri al profitto o alla concentrazione del potere, ed è per questo che essi devono essere governati in modo partecipato e diffuso da quanti ne assorbono i benefici e ne subiscono i costi. In questo modo, i beni comuni non rispondono alla logica della produzione ma, guardando alla sostenibilità di lungo periodo (ossia anche all' interesse delle generazioni future) devono rispondere alla logica della riproduzione: la logica eco-logica che è qualitativa e non quantitativa.

Chi mira al profitto e alla concentrazione del potere investe in modo sostanziale nell'occultamento dei beni comuni, proprio perché profitto privato e potere politico si soddisfano entrambi nel loro saccheggio. È interesse convergente tanto del potere economico quanto di quello politico, che ne è sempre più servo, indebolirne le difese democratiche (come per esempio il referendum). I beni comuni divengono molto più facilmente riconoscibili quando posti a rischio letale e la loro emersione pubblica ne facilita enormemente la difesa. In questi momenti , il potere mette in campo, disordinatamente, ogni possibile tattica per occultare la verità.

Queste considerazioni solo apparentemente astratte ci consentono di interpretare e di ridurre ad unità il dibattito politico di questi giorni. Un certo senso di tranquillità si era impadronito dell'opinione pubblica meno critica di fronte all'opzione nucleare, sebbene questa sia il principale paradigma della concentrazione estrema del potere non democratico nella società tecnologica «avanzata». L'opzione nucleare infatti non solo concentra gli investimenti energetici incanalando il patrimonio pubblico in una sola direzione, ma soprattutto richiede la costruzione di un imponente apparato poliziesco per evitare che il materiale radioattivo finisca nelle «mani sbagliate». In nome della sicurezza nucleare, siamo pronti ad accettare qualsiasi limitazione della libertà personale ed è inevitabile la militarizzazione di ampie porzioni del territorio circostante alle centrali. Paradossalmente, è la stessa portata micidialmente globale delle conseguenze di un disastro nucleare ad incentivare questa politica suicida. Proprio come nella famosa «tragedia dei comuni». Si ripete spesso che «tanto le centrali ci sono già in Francia e Svizzera e quindi il rischio c'è lo stesso e noi non ne traiamo alcun beneficio». Un tale atteggiamento egoistico, nazionalistico e di breve periodo spiega l'atteggiamento irresponsabile del governo italiano che così incrementa (a scopo di profitto e potere) il letale rischio per il nostro pianeta vivo, bene comune per eccellenza. La fede incrollabile nella tecnologia, gonfiata ad arte dal capitale, porta i più a bere la propaganda nuclearista di Veronesi, e si ripete lo spettacolo deprimente di Chicco Testa (ex presidente di Legambiente) che in televisione sdottora di terza e quarta generazione di centrali.

Ammettiamolo: se non ci fosse stato lo tsunami giapponese, al referendum sul nucleare saremmo stati forse perfino sotto il 20%, ma del resto anche quello scorso si vinse solo «grazie» a Chernobyl. In effetti, perfino molti fra quanti si sono battuti per il referendum sull'acqua pubblica non vedevano bene quello sul nucleare, pensando che ci avrebbe «fatto perdere». La tattica (vincere sull'acqua) stava facendo premio sulla strategia (invertire la rotta rispetto ad un modello di sviluppo suicida). Ecco oggi un esempio (molto comune in politica) di eterogenesi dei fini, perché sarà proprio il nucleare a motivare adesso la partecipazione alle urne. Ecco soprattutto beni comuni emergere prepotenti e visibili durante un emergenza che scuote (letteralmente) le false certezze ed illusioni della modernità. La certezze che la tecnologia possa rendere sicuro il nucleare, un dato tanto vero quanto il fatto che la terraferma sitia ferma. L'incidente giapponese mostra come diritto e politica dovrebbero garantire un bene comune fondamentale come la sicurezza di tutti nei confronti delle conseguenze delle fughe in avanti della mitologia progressista (ciò è vero oggi in Italia rispetto a Enel Edf che vogliono fare le centrali come era vero rispetto alla Bp che ha devastato il golfo del Messico). Soprattutto esso indica come, in prospettiva ecologica, si debba apprezzare la natura dell'energia come un bene comune globale. Essa va governata nell'interesse della ri-produzione e non in quello della produzione, evitando così ogni «tragedia» dettata dall'egoismo e dalla logica di breve periodo, sia essa pubblica o privata. Per questo il nucleare va respinto e per questo dobbiamo unire ogni sforzo in questa battaglia referendaria. Respingere il nucleare significa scommettere sulla produzione diffusa ed ecologica di energia, sulla diffusione del potere e dunque sulla democrazia e sui beni comuni. Proprio come per l'acqua.

Alla luce dei beni comuni il referendum sul nucleare e quelli sull'acqua sono accomunati da una medesima logica. Occorre invertire la rotta rispetto alla false certezze del pensiero unico; denunciare una classe dirigente irresponsabile e corrotta dalla concentrazione e dalla commistione del potere politico con quello economico; aprire gli occhi rispetto all' ipnosi colettiva che per anni è stata prodotta da strategie culturali volte a occultare i beni comuni a fini di saccheggio. Occorre cominciare a pensare in modo ecologico e sistemico. La piena consapevolezza di come l'interesse comune non possa coincidere con quello dello Stato deve essere assolutamente raggiunta per far risorgere la democrazia. Ciò è assai importante nella giornata in cui le celebrazioni dei 150 anni dall'unità d'Italia producono inevitabilmente confusione fra quanto è comune agli italiani (da decine di secoli) e quanto è Stato (da appena un secolo e mezzo). Ma qui si fonda la distinzione fra identità culturale e patriottismo, quest'ultimo sempre un po' fascisteggiante.

Altro esempio di questi giorni. il patrimonio pubblico non appartiene allo Stato ma a tutti noi. Il governo in carica deve amministrarlo nell'interesse di tutti e non dilapidarlo in quello proprio, anche se politico. Ogni sua scelta di gestione deve essere giustificabile ed «imparziale». C'è quindi un dovere civile di tutti noi ad indignarci per la decisione di respingere l'election day, sperperando 300 milioni in un momento di grande crisi. La Costituzione non può consentirlo, quali che possano essere gli argomenti formalisti dietro cui troppo spesso si nasconde la cosiddetta cultura giuridica. Dobbiamo porre il governo ma anche la Corte Costituzionale e le altre magistrature di fronte al dovere di fermare questa vergogna, anch'essa figlia della confusione fra Stato e bene comune.

E’ scilipotismo termonucleare, trasformismo atomico. Questo non è un governo che ha cambiato idea e sta responsabilmente e dolorosamente rinunziando al nucleare, ma è un governo che non ha idee e si accoda alle paure e alle emozioni espresse dai sondaggi del momento. I ministri Romani e Prestigiacomo e, spiace dirlo, con loro anche Umberto Veronesi, non stanno alla testa ma alla coda del Paese. E difatti proprio loro, che non si erano fatti spaventare dall´apocalisse mondiale, si sono terrorizzati davanti ai sondaggi di cortile. Loro che si erano mostrati duri, tecnologi e «proiettati nel futuro», loro che avevano accusato di sciacallaggio gli antinuclearisti («non si specula sulla paura!») loro adesso ci ripensano, ragionano, rinviano. Come mai? «è finita. Non possiamo perdere le elezioni per il nucleare» è sbottata la ministra Stefania Prestigiacomo davanti a Tremonti e a Bonaiuti, senza sapere che i giornalisti dell´agenzia Dire la stavano registrando.

Ancora una volta, dunque, dobbiamo dire grazie a delle frasi intercettate. Questo portentoso sfogo della Prestigiacomo ci svela infatti il vero significato delle nuove posizioni di Romani, «non costringeremo nessun territorio a costruire centrali», e illumina di verità la pensosa riflessione di Veronesi. Sono intense e bellissime le parole usate ufficialmente: «sgomento», «coscienza», «prudenza», «intelligenza». Ma ecco come la Prestigiacomo le ha tradotte: «Non facciamo cazzate». Insomma, il Giappone rischia davvero di diventare anche per lei un´esperienza dolorosa, e non per i morti, non per la disperazione mondiale, ma perché «noi non possiamo perdere le elezioni per il nucleare. Dobbiamo uscirne in modo soft. Ora non dobbiamo fare nulla, si decide tra un mese».

Ecco il punto: non ci dice, la Prestigiacomo, che questi nostri governanti sono anti o pro il nucleare, e neppure che sono indecisi. Ma che sono irresponsabili. Non ci racconta che ieri erano a favore («non siamo in Giappone, il ritorno al nucleare rimane un´assoluta priorità italiana») e oggi sono contro perché «l´ammirevole compostezza del popolo giapponese» li ha svegliati, ma che sono ammalati di scilipotismo appunto, banderuole dell´opportunismo e dell´inaffidabilità, troppo abituati a prendere boccate d´ossigeno dalle disgrazie - il terremoto dell´Aquila, il crollo di una bella scuola elementare, la spazzatura di Napoli, e poi Gheddafi… - troppo lesti a cercare in ogni rogna la convenienza elettorale. E abbiamo pure il sospetto che la maggioranza di governo non abbia paura solo delle elezioni amministrative che stanno per arrivare. Teme di perdere anche il referendum sul nucleare e, sull´onda di quella sconfitta, quello sulla privatizzazione dell´acqua e soprattutto quello sul legittimo impedimento che, ovviamente, sarebbe per Berlusconi la vera fusione atomica del consenso, il disfacimento non solo elettorale.

Attenzione: noi non siamo per il nucleare, non è di questo che stiamo parlando. Il punto è che tutti, non importa se pro o contro il nucleare, preferirebbero un governo capace di far valere le proprie convinzioni anche quando diventano impopolari, un governo che fa la cosa che gli sembra giusta e non la cosa per la quale fiuta l´applauso. Una volta c´era la destra che si batteva per gli interessi dell´industria, il profitto e lo sviluppo, e c´era la sinistra che metteva al primo posto i salari, l´ambiente, la salute. Ora invece ci sono i sondaggi, c´è una classe dirigente che si uniforma pubblicamente a quegli umori che in privato disprezza, c´è una destra che sfugge alla solidità della politica e insegue la volatilità del consenso: se la volete cotta ve la diamo cotta, se la volte cruda ve la diamo cruda, basta che balliate con noi.

È un altro imbruttimento, l´ennesimo imbarbarimento che la destra deve a Berlusconi. L´altra sera ho acceso la televisione e su Raiuno ho riconosciuto tal Alessandro Di Pietro. Da vecchio cronista lo ricordavo alla testa dei "Gre" (Gruppi di ricerca ecologica), gli ambientalisti di destra. Ne era il capo e il fondatore. Si dicevano seguaci di Konrand Lorenz. Erano fortissimamente antinuclearisti. Ai miei occhi questo Di Pietro era un Ermete Realacci rovesciato con tanto di baffetti da paese. Ebbene in tv era un goffo concorrente semivip dell´empireo di "Ballando con le stelle": guidato dalla Carlucci danzava un fox trot che sembrava un Nichibu giapponese.

La solita pioggia, i soliti fiumi, le solite frane riaprono le ferite mai chiuse di un Veneto fragile e vulnerabile nel suo territorio. E ancora una volta il bollettino dell’emergenza allarma cittadini, sindaci e Protezione civile, rigettando in faccia a tutti la contabilità di una vecchia incuria che presenta il conto. Sono passati appena quattro mesi dalla disastrosa alluvione di novembre e il terreno sottratto a fatica dalla furia delle acque sembra ancora indifeso come allora.

Che cosa è stato fatto e che cosa invece ancora manca per mettere in sicurezza un’area così vasta e importante del Paese, per dare garanzie alle popolazioni, alle imprese, alle fabbriche e alle attività commerciali, e come sono stati spesi i fondi stanziati per l’alluvione, quei 300 milioni che il governo ha messo a disposizione del governatore Zaia per ingabbiare i fiumi o creare bacini di sfogo?

Non è facile ricostruire in poco tempo quello che l’incuria e la mancanza di fondi finalizzati alle opere di difesa hanno contribuito ad abbattere, ma è evidente che nel nostro Paese dai disastri ambientali non si impara mai niente. La manutenzione del territorio, la sua salvaguardia, la tutela dei paesaggi dalla cementificazione, la buona gestione dei boschi come dei parchi, sono un impegno costante nel tempo e anche un onere finanziario che non si può scaricare solo su questa o quella Regione: non bastano l’orgoglio veneto, o quello di altre popolazioni colpite dalle avversità della natura, a costruire robusti argini di autodifesa alla furia delle acque.

Sono necessari un coordinamento, una pianificazione e anche una sensibilità ambientale che purtroppo oggi latita in Italia. Senza essere ingenerosi con gli uomini che in queste ore si danno da fare per evitare danni maggiori alle persone e alle cose, nella tutela delle risorse naturali continuiamo ad essere il Paese delle toppe e dei rattoppi. Dal Veneto alla Calabria, da Vicenza, a Messina a Milano (dove ancora il Seveso fa paura), la lentezza degli interventi è direttamente proporzionale all’intensità dei fenomeni atmosferici.

E se una regione come il Veneto, considerata da Legambiente ad alto standard per gli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico, rischia di andare sott’acqua quattro mesi dopo un’alluvione, immaginate che cosa può succedere nelle zone in cui il dissesto è alto e conclamato. Con tutto il bene che si merita, l’Italia dovrebbe imparare a tutelarsi meglio, dando all’Ambiente il peso (e anche i fondi) che si merita. Senza aspettare la (solita) prossima emergenza.

Il Fatto Quotidiano

Nucleare, Mario Tozzi: “La politica farebbe meglio a stare zitta”

di Lorenzo Galeazzi e FedericoMello

“Sono degli irresponsabili. Parlassero di meno e studiassero di più”. Mario Tozzi, maître à penser e mezzobusto televisivo dell’ambientalismo italiano, non usa mezzi termini nel commentare le reazioni di casa nostra al terremoto giapponese e alla minaccia di disastro nucleare. Le dichiarazioni dei vari Fabrizio Cicchitto e Pierferdinando Casini, a Tozzi non sono proprio piaciute. E’ un fiume in piena: “C’è da rimanere allibiti. Questi politici fanno finta di esser dei teorici di fisica nucleare. Non hanno nemmeno la decenza di usare la cautela che in situazioni come questa dovrebbe essere d’obbligo”.

Non parlate a Tozzi poi dell’editoriale di oggi del Messaggero a firma di Oscar Giannino. Un articolo che ha scalato la classifica delle dichiarazioni al buio che poi sono state clamorosamente smentite. Il giornalista scriveva che quanto accaduto in Giappone era “la prova del nove” della sicurezza dell’energia prodotta dall’atomo. “Che figura miserrima quella di Giannino – attacca Tozzi – Ma a una cosa è servita: a smascherare l’abitudine italiana di salire in cattedra e di parlare di cose che non si conoscono”.

Di fronte alla minaccia di un disastro nucleare, la parola d’ordine della lobby nucleare nostrana è minimizzare. “Anche l’incubo che sta vivendo il Giappone in queste ore con il danneggiamento di un reattore – continua il giornalista – in Italia viene declinato a mero strumento di propaganda politica e ideologica. Difendono l’atomo solo perché non possono tornare indietro”.

Secondo il conduttore di “Gaia, il pianeta che vive” (che tornerà in onda su Rai Tre a partire dal 31 marzo) le bugie più macroscopiche della lobby pro-atomo sono due: la sicurezza e l’economicità di questa fonte di energia. Che la tragedia giapponese le sta drammaticamente mettendo a nudo.

“Le centrali nucleari giapponesi – spiega Tozzi – sono state costruite per sopportare un terremoto di 8,5 gradi della scala Richter. Poi cos’è successo? E’ arrivato un sisma di 8,9 e le strutture non hanno retto”. Le centrali italiane saranno costruite per resistere a delle scosse di circa 7,1 gradi, ma, come sostiene Tozzi, “chi ci assicura che un giorno non arriverà un sisma più potente?”. Nessuno, appunto. Perché i terremoti sono fenomeni che non si possono prevedere. Inoltre il disastro giapponese è avvenuto nel paese tecnologicamente più avanzato del mondo. A Tokio infatti è radicata una seria cultura del rischio che è frutto di una profonda conoscenza di questi fenomeni. “Con quale faccia di tolla i vari Cicchitto ci vengono a vendere l’idea che in Italia, in caso di terremoto, le cose possano andare meglio che in Giappone? Il terremoto dell’Aquila se si fosse verificato in Giappone non avrebbe provocato neanche la caduta di un cornicione. Da noi ha causato 300 morti. Chi può credere alle farneticazioni sulla sicurezza del nucleare italiano?”, chiede sarcasticamente Tozzi. E’ vero che l’incidente nucleare è più raro, ma è altrettanto vero che è mille volte più pericoloso. E il caso giapponese, secondo Tozzi, è da manuale: “Se a una centrale gli si rompe il sistema di raffreddamento diventa esattamente come un’enorme bomba atomica. Forse è questa la prova del nove di cui parla Giannino”.

E poi c’è la questione della presunta economicità dell’energia prodotta dall’atomo. “I vari politici e presunti esperti – argomenta Tozzi – si riempono la bocca dicendo che il kilowattora prodotto dall’atomo è più economico di quello prodotto dalle altre fonti. Ma non è vero. Noi sapremo quanto costa realmente solo quando avremo reso inattivo il primo chilogrammo di scorie radioattive prodotto dalle centrali. E cioè fra 30mila anni”. Secondo il giornalista, la lobby che vuole il ritorno del nucleare propaganda la sua convenienza economica senza tenere conto dell’esternalità, e cioè dei costi aggiuntivi che ne fanno lievitare il prezzo. Che vanno dallo smaltimento delle scorie (problema che nessun paese al mondo ha ancora risolto definitivamente) ai costi sociali ed economici di un eventuale incidente. “Sono soldi che i nuclearisti non conteggiano – dice Tozzi – perché sono costi che ricadranno sui cittadini e sulle generazioni future”.

Il 12 giugno è in programma un referendum che, fra le altre cose, chiede l’abrogazione del ritorno all’atomo dell’Italia. Il rimando a quanto successe a Chernobyl nel 1987, alle grandi mobilitazioni antinucleariste fino al referendum che sancì l’abbandono dell’energia nucleare è quasi d’obbligo. Ma a Mario Tozzi il paragone non convince: “Veniamo da 25 anni di addormentamento delle coscienze. Oggi abbiamo gente come Chicco Testa e Umberto Veronesi che fanno i finti esperti e spot ingannevoli che traviano l’opinione pubblica”. Insomma, il legame fra l’incidente che scosse le coscienze e il voto popolare che funzionò nel 1987, oggi potrebbe fallire. Ma il 12 giugno non si voterà solo per dire no all’atomo. I cittadini saranno chiamati anche ad esprimersi contro la privatizzazione delle risorse idriche e contro la legge sul legittimo impedimento. Temi che, affianco al no all’atomo, potrebbero convincere i cittadini ad andare alle urne. E consentire alla tornata referendaria di raggiungere il quorum.

il manifesto

L'incredibile Kikko

di Alessandro Robecchi

Credere a quello che dice Kikko Testa era, fino a ieri, una missione disperata. Da oggi è una missione impossibile. Venerdì sera, mentre il reattore nucleare di Fukushima preoccupava il mondo, Kikko era in tivù a dire: tutto sotto controllo. Ieri mattina, mentre le agenzie giapponesi parlavano di un'esplosione nella centrale nucleare, con distruzione della gabbia protettiva del reattore e rilevazioni di cesio radioattivo, sul sito del Forum nucleare (presidente Kikko Testa) il titolo era questo: «La centrale di Fukushima è sotto controllo», corretto da un timido aggiornamento solo a metà giornata.

Fortuna che Kikko è giovane e giovanile. Fosse più anziano avrebbe potuto tranquillizzare le popolazioni del Vajont (state sereni, due gocce d'acqua). Ma a quest'uomo così ottimista, uno che sul Titanic avrebbe chiesto all'orchestra di continuare a suonare e ordinato a gran voce altro champagne, dobbiamo dei ringraziamenti. Grazie a Kikko sappiamo esattamente cosa succederebbe qui se avessimo le centrali nucleari. Non sapremmo niente.

In un paese in cui un semplice sacchetto della monnezza pare un problema insormontabile, le scorie nucleari sarebbero presentate come caramelle inoffensive (cosa peraltro già fatta nello spot ingannevole del Forum nucleare, sospeso dal giurì per manifesta paraculaggine).

In caso di incidente, Kikko ci direbbe che va tutto bene, tutto è ok, sotto controllo, senza rischi, beviamoci sopra e non pensiamoci più. Con una semplice apparizione in tivù, Kikko ci ha spiegato perfettamente come la menzogna sui rischi sia connaturata agli interessi dell'industria nucleare, come un buon affare valga più della vita e della salute della gente anche per più generazioni. A quest'uomo elegante e pacato dovremmo dire grazie per la volonterosa pervicacia con cui ci aiuta a non credergli, nemmeno per un minuto.

È la prima volta che vediamo una manifestazione di sinistra inondata di bandiere tricolori. E' la prima volta che una grande manifestazione di popolo è aperta da un coro che intona le note di "Va pensiero" e si chiude su quelle dell'inno di Mameli. E' la prima volta che si scende in piazza indossando Costituzione per difenderla da chi la considera l'ultimo ostacolo alla governamentalità, come direbbe Giorgio Agamben, a una forma di governo autoritario e oligarchico. Sono segnali evidenti, vistosi, simbolici di un sentimento nazionale che arretra (o avanza) a difesa dei caratteri fondativi della convivenza civile, attaccata e ferita dal ventennio berlusconiano, smarrita dalle sinistre.

Laica, pluralista, lavorista, ugualitaria, solidarista, internazionalista, pacifista, la nostra Costituzione ieri aveva il volto della gente, era appuntata su giacche e cappelli, prima attrice nelle strade delle cento città che hanno manifestato per la democrazia e per la scuola pubblica, contro l'eutanasia della politica, in un paese dove il parlamento è un mercato e la scuola un'azienda.

Se i partiti sono afasiche, deboli macchine autoreferenziali, in Italia infiltrate da mafia e corruzione, è alla Costituzione che oggi viene chiesto di essere la bussola che orienta il futuro, così come le era toccato nel dopoguerra, quando come diceva Calamandrei (citato nelle piazze e sui cartelli dei cortei) rivolgendosi ai suoi studenti «dietro ogni articolo di questa Costituzione, voi dovete vedere giovani come voi che hanno dato la vita perché libertà e giustizia potessero essere scritte su questa carta». E i ragazzi delle scuole erano in piazza insieme a molti vecchi, come in un confortante passaggio del testimone per le future battaglie.

La scuola pubblica è diventata elemento centrale di una vera democrazia costituzionale, nel paese che piega il diritto allo studio per tutti in un privilegio per pochi. Studenti e professori sono stati il connotato più forte di questo 12 marzo italiano. Perché se è nell'ignoranza che cresce la sottomissione è nella conoscenza che può vivere la ribellione.

E' ormai in campo un'opposizione larga e consapevole che esce di casa e si mette in marcia, ciascuno e ciascuna con la rabbia e la voglia di reagire perché, come era scritto su un cartello, «per un popolo civile non c'è niente di peggio che farsi governare senza resistenza». E quei fazzoletti tricolori dei partigiani annodati al collo di molti, come quella enorme bandiera della pace che tallonava il bandierone tricolore, ne testimoniavano la coscienza.

La piazza continua. A Potenza sabato prossimo con don Ciotti contro le mafie, a Roma il 26 per l'acqua pubblica, fino allo sciopero generale della Cgil il 6 di maggio. Arriveremo alle elezioni amministrative con un pieno di mobilitazioni, con una poderosa domanda di cambiamento in vista la difficilissima sfida referendaria di giugno. È tutto un paese che cammina insieme, spinto dalla ragione e dalla passione. Certo non sarà la retorica nazionalpopolare della canzone di Roberto Vecchioni, cantata dalla piazza del Popolo a Roma, la colonna sonora di una stagione di rivolta pacifica e civile, ma è altrettanto chiaro che sono in piazza bisogni, sentimenti, persone.

Andiamo nelle piazze per difendere la Costituzione e la scuola pubblica. Perché pensiamo che l’Italia, che noi tutti, non ne possiamo fare proprio a meno. E non ne possiamo fare a meno perché sono due cose che hanno la rara qualità di essere, ad un tempo, vitali e sacre. Vitali perché consentono a un organismo complessissimo – quale è la società – di regolarsi e di continuare a vivere nel tempo, generazione dopo generazione. Sacre perché contengono le qualità simboliche che permettono di tenere insieme una comunità fatta di milioni di persone diverse secondo un diritto che è uguale.

La nostra Carta sa mettere insieme, in modo chiaro, non solo i diritti e i doveri ma «quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi» – come scriveva Piero Calamandrei. In questi anni abbiamo vissuto e stiamo vivendo un tempo Grave non perché si è pensato o si pensi di cambiare questa o quella parte della Costituzione, cosa del tutto prevista dalla Carta stessa. E normale col passare del tempo. Se fatta per concorde adesione. Il tempo grave che viviamo è dato dal fatto che si stanno continuamente attaccando proprio “quegli organi” – e il delicato equilibrio tra di essi – «attraverso i quali la politica si trasforma in diritto». Questo non deve accadere. E siamo qui per impedirlo. Perciò: non si tratta di una battaglia di parte né di conservazione. È una battaglia per tutti, anche per quelli che oggi non lo vogliono capire. Ed è una battaglia che permette di continuare a cambiare. Perché c’è la certezza del come farlo, delle condizioni entro le quali le trasformazioni non diventano distruzioni, non minacciano la casa comune.

La nostra scuola ogni mattina mette insieme i mondi interiori di ogni bambino e ragazzo che sta crescendo con quello di ciascun altro e, al contempo, con l’universo mondo, le sue leggi, la sua storia, i suoi problemi e i molti alfabeti che servono a leggerlo. È in questa doppia funzione – mettere insieme persone diverse e apprendere – che vi è vitalità e sacralità.

La scuola è chiamata ad assolvere a questo suo compito in modi nuovi. E deve trasformarsi proprio perché sono mutate e stanno mutando sia le condizioni dello stare insieme tra diversi sia il mondo sia gli strumenti attraverso i quali lo si guarda e lo si può capire, salvaguardare e cambiare. Il tempo grave che stiamo vivendo è dato dal fatto che si metta in discussione la scuola nel suo carattere pubblico e protetto – e, dunque, altro da casa - nel quale ci si confronta tra diversi ed uguali mentre si sta crescendo e si sta imparando a stare al mondo e a conoscerlo. Anche per la scuola questa non è una battaglia di parte né di conservazione. È per tutti e per ciascuno. Ed è per consentire che la scuola, salvaguardata, possa cambiare.

In dissenso con un buon numero di opinioni lette ieri su giornali di destra di sinistra e di centro - opinioni argomentate, ironiche, pensosissime o sagaci - vorrei spiegare qui in modo chiaro perché ritengo che nessuna riforma della giustizia si possa e si debba discutere con questo governo. Lo dirò in pochissime parole, credo che bastino: non si riforma la giustizia con chi è imputato. Sarebbe certamente urgente e necessario mettersi al lavoro per rendere la giustizia più efficace, per dare più strumenti a chi la amministra. Purtroppo, però, non siamo in condizioni di farlo per via del fatto che il Presidente del Consiglio si trova in questo momento sotto processo come lo è stato innumerevoli volte in passato, quasi senza soluzione di continuità, quasi che la sua passione per la politica fosse in qualche modo collegabile alla sua esigenza di mettersi in salvo dalle conseguenze dei suoi gesti. Quasi che.

Non ci si siede ad un tavolo a discutere di giustizia se dall’altra parte del tavolo c’è qualcuno che con ogni mezzo si sottrae alla giustizia stessa: non è, come posso dire, un interlocutore all’altezza del compito. C’è un conflitto di interesse endemico: il suo interesse ad avere una giustizia che gli convenga confligge a priori, per il solo fatto di esistere, con l’interesse collettivo. Non c’è bisogno di entrare nel merito, anzi non lo si può fare.

Allo stesso modo non si discute di riassetto del sistema radiotelevisivo con chi ne detiene il monopolio, errore già occorso in passato e dal quale evidentemente non si è tratto alcun insegnamento. Semplicemente: si impedisce a chi detiene il monopolio del sistema radiotelevisivo di governare. Poi eventualmente, se costui preferisce fare politica al fare miliardi per la sua famiglia con le sue aziende, allora cede realmente le sue tv, si candida e corre con gli stessi mezzi economici e mediatici degli altri, se eletto diventa un valido interlocutore per discutere persino di tv. O di giustizia, o di scuola, o di impresa.

Se così non fosse - se questo non fosse un principio fondativo delle democrazie rappresentative - a capo dei governi dei paesi occidentali ci sarebbero gli uomini più ricchi dei medesimi paesi, i Murdoch e i Bill Gates, i signori dei colossi informativi sarebbero tutti presidenti e i miliardari corruttori (ce ne sono a tutte le latitudini) anzichè rispondere delle loro malefatte sarebbero tutti lì a riformare i sistemi-giustizia a loro misura. Possiamo dunque annoverare l’esigenza di una vera e rapida riforma del processo fra le ragioni che dovrebbero determinare le dimissioni di Berlusconi e il rapido ricorso alle urne. Non succederà, perché dopo aver permesso che l’uomo col più straordinario potere mediatico ed economico del paese si candidasse alla guida del medesimo non possiamo ora aspettarci che divenga ragionevole, acceda alla causa comune, si interessi al bene di tutti e non pretenda, come deve sembrargli ovvio, di continuare ad occuparsi del suo.

La controriforma della Rai, lanciata da Berlusconi in contemporanea alla controriforma della giustizia e dopo quella della scuola, è a modo suo altrettanto «epocale». Ferrara, Sgarbi e Vespa in prima serata sono infatti roba da anni Ottanta. Vespa, per la verità, anche di epoche precedenti. Giuliano Ferrara, a suo tempo il più interessante del trio, riprenderà il format di Radio Londra, che è appunto del 1988, ma fu presto accantonato da Canale 5 per i bassi ascolti. L’idea di portare Sgarbi e Vespa in prima serata sulle reti Mediaset fu bocciata vent’anni fa da Berlusconi, che non è un pirla, come direbbe Mourinho. Ma il bello di governare l’Italia è che con i soldi pubblici si può fare di tutto e senza problemi. Nominare direttore del Tg1 Augusto Minzolini, al quale un editore sano di mente non affiderebbe una gazzetta locale, per non parlare della carta di credito. Garantire dodicimila euro al mese e un vitalizio a Nicole Minetti, piazzare in Parlamento e ai ministeri le amiche, eccetera. Dunque anche far sprecare alla Rai qualche decina di milioni subito, e molti altri in prospettiva, per garantire un megafono elettorale in prima serata al proprietario dell’azienda concorrente. A Cologno Monzese si saranno sbellicati dalle risa.

Il fallimento economico dell’operazione, in termini di ascolti e pubblicità, è fin d’ora ovvio per chiunque capisca di televisione. Lo scriviamo anche a futura memoria, per quando la magistratura e la Corte dei Conti decideranno d’indagare sul perché la Rai sfrutti i precari per poi buttare centinaia di milioni nei cessi della politica. È vero che l’Italia non è cambiata molto dagli anni Ottanta, ma perfino i gusti televisivi si sono evoluti. Soprattutto nell’ultima stagione, come dimostrano il successo di Vieni via con me e della lezione di Benigni a Sanremo. Calare in questa rivoluzione del gusto televisivo le prevedibili invettive anti magistrati, già ascoltate un milione di volte, di due intellettuali che giocano da trent’anni a fare gli anticonformisti di corte rappresenta un suicidio aziendale. Non bastasse, l’elefantino Ferrara ha annunciato che, negli intervalli fra una bastonata e l’altra al pool di Milano, discetterà anche di teologia. Tema di gran richiamo per le platee di Raiuno, tanto più dal pulpito di un ateo clericale. Sgarbi minaccia di occuparsi di cultura («stronzo», «cornuto», «troia», «vaff…» e così via), estetica e ambiente, ad esempio sui danni artistici e al paesaggio di intercettazioni e inchieste dei pm milanesi. La terza punta dello spuntato tridente è il ciambellano Vespa, vale a dire la messa in latino per celebrare il potere.

A garantire la catastrofe è del resto la stessa firma dello stratega, il direttore generale Mauro Masi. L’unico fra i personaggi coinvolti, tutti evocativi di gravi mestizie, che al solo nominarlo infonda una lieve ilarità. Il dg di viale Mazzini è un bel figuro da commedia dell’arte, tanto guascone quanto maldestro e sfortunato. Ha perso tutte le guerre possibili, ma in maniera spettacolare. Era stato inviato con la missione di chiudere Annozero e ha trasformato Santoro in un intoccabile, beatificandolo anche agli occhi di chi lo trovava ambiguo e scontato. La sua guerra preventiva a Roberto Saviano si è trasformata nel più formidabile lancio pubblicitario della storia televisiva. In compenso è bastata una sua sola telefonata di auguri in diretta a Simona Ventura per far precipitare finalmente, dopo anni, gli ascolti dell’Isola dei Famosi. Un mito, già fonte di leggende. Qualcuno comincia a sospettare che il dg sia un eroe della resistenza berlusconiana infiltrato. Di certo, ha fatto più Masi per dar voce all’opposizione di tutti i segretari del Pd, Ds, Rc, Idv e beppegrilli messi insieme (a proposito: secondo l’Osservatorio di Pavia a gennaio nei tg Rai il premier ha totalizzato 402 minuti di presenza contro i 72 di Bersani, i 48 di Fini e i 12 di Vendola). I soliti pessimisti di sinistra temono però che in primavera, con la ghiotta ondata di nomine agli enti pubblici, Masi possa essere dirottato a far danni altrove.

Perché un uomo di televisione come Berlusconi si lancia in un’impresa tanto anacronistica come la controriforma Rai? Ragioni sentimentali, psicologiche, miste come sempre a convenienze economiche e politiche. Le seconde sono talmente banali da poter essere liquidate in breve. In primavera ricominciano i processi e forse si andrà a elezioni anticipate, il premier ha dunque bisogno di alzare il tiro sui magistrati e contro l’opposizione. La controriforma Rai è un laboratorio per sperimentare il «metodo Boffo» contro Bocassini e colleghi, stavolta su vasta scala, dai canali della tv pubblica e non dai giornali di famiglia. Comunque vada, un po’ di fango addosso alle toghe rimarrà. L’inabissamento di ascolti della rete ammiraglia Rai offre un gradito effetto collaterale sui bilanci di Mediaset, già risollevati quest’anno dalla cura Minzolini. In attesa di tempi migliori in cui si potrà procedere al vecchio progetto piduista della «dissoluzione del servizio pubblico». Non più attraverso la privatizzazione, perché a Mediaset non conviene introdurre nel sistema un altro Murdoch, ma togliendo la risorsa pubblicitaria.

I motivi psicologici sono più sottili. L’anziano premier è sempre più nostalgico dei gloriosi (per lui) anni Ottanta, sfociati nella «discesa in campo» del ‘93, l’apice della parabola. Vespa, Ferrara e Sgarbi fanno parte dell’album d’epoca. Nel declino, il Caimano torna all’ossessione di sempre. La televisione, origine della fortuna, è diventata alla fine l’ultima trincea, il suo bunker tripolino, un modo di rifiutare la resa che il resto del mondo si aspetta.

Quando giudichiamo il conflitto fra potere politico e giustizia, conviene sempre alzare gli occhi, guardare oltre i nostri confini, usare la memoria, per capire se davvero chi governa ha in mente una soluzione che migliora le cose o una regressione formidabile, dissimulata dietro finte promesse. La riforma della giustizia che Berlusconi proporrà giovedì è un caso esemplare, e se suscita tante apprensioni è perché non scioglie ma accentua i conflitti tra poteri pubblici, e anzi vuol devitalizzare parte di questi poteri. È una riforma che non perfeziona ma disprezza il nostro patrimonio giuridico, e l´idea che i poteri debbano esser molti perché non predomini uno solo. È una regressione che non solo mortifica la Carta costituzionale ma è in aperta contraddizione con princìpi giuridici che l´Unione europea chiede agli Stati di rispettare. Spesso la regressione avanza in tal modo: presentandosi come rivoluzionaria.

È osservando quel che accade in Francia che l´impressione di un indietreggiamento italiano si conferma vistosamente. Negli ultimi due mesi il malcontento dei magistrati francesi si è inasprito, e il loro obiettivo, non nuovo, si è fatto più che mai nitido: liberare infine pm e procure dal potere politico.

Succede così che il patrimonio italiano divenga un traguardo, nel preciso momento in cui Berlusconi vorrebbe ridurre l´indipendenza dei magistrati dalla politica. Se prima in Europa eravamo considerati all´avanguardia, nella separazione dei poteri, oggi rischiamo di trovarci in coda. Una miopia radicale verso il mondo, e l´indifferenza al peso che l´Europa ha nelle nostre vite (con le sue leggi vincolanti) sono alla radice di quello che può divenire un grave impoverimento: giuridico, democratico, della memoria.

Alla base di questa miope indifferenza c´è una doppia fallacia. Prima fallacia: l´idea che in democrazia la sovranità si concentri tutta sul popolo, che elegge governi e parlamenti non sottoposti al vaglio di poteri terzi. Seconda fallacia: la finzione di una sorta di autarchia giuridica e politica dello Stato-nazione, e l´ignoranza di un´Europa già in parte federale, che esercita sovranità parallele a quelle degli Stati grazie a leggi, politiche comuni, costumi democratici concernenti anche la separazione dei poteri.

L´idea che solo uno sia il potere decisivo - il popolo - è spesso scambiata con la democrazia ma non lo è, e l´Europa s´è unita con questa consapevolezza. L´illusione monolitica è un´eredità del 1789 - meglio: della sua estremizzazione giacobina, nazionalista - e spiega lo speciale malessere francese. Nella tradizione giacobina la giustizia non è un istituto indipendente, nonostante l´articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789: è l´arma del popolo sovrano, dell´esecutivo che esso elegge. Qui è il suo vizio d´origine, e ancor oggi il pubblico ministero francese non è al servizio di tutti ma mantiene un rapporto di dipendenza dal governo.

I magistrati riformatori in Francia non si limitano a invocare autonomia completa, ma si battono perché il paese interiorizzi la democrazia costituzionale di cui l´Europa è levatrice. È in questo quadro che reclamano un´autentica Corte costituzionale, e soprattutto l´indipendenza del pubblico ministero. Spetta a quest´ultimo l´obbligo di esercitare l´azione penale, come imposto dall´articolo 112 della nostra Costituzione: non alla politica, come accade a Parigi e come Berlusconi vorrebbe in Italia. Il 15 dicembre scorso la Corte di cassazione francese, interpellata sulla custodia cautelare, ha giudicato che «il pubblico ministero non è un´autorità giudiziaria indipendente», visto che "non garantisce l´indipendenza e l´imparzialità prescritte dalla Convenzione europea dei diritti dell´uomo", e dalla Convenzione Ocse sulla corruzione. Non a caso chi auspica l´autonomia dei pm comincia, in Francia, col cambiare le parole costituzionali. Nel titolo VIII appare l´"autorità giudiziaria". Molti (tra loro l´associazione Terra Nova, in un recente rapporto) esigono che il termine autorità sia sostituito da "potere giudiziario".

Con secoli di ritardo Parigi riscopre dunque la separazione dei poteri di Montesquieu, si libera del giacobinismo, è stanca di ridurre la democrazia al suffragio universale: «In Francia - dice il rapporto di Terra Nova - la giustizia non è più il potere indipendente, guardiano della libertà individuale, descritto da Montesquieu. È sotto tutela dell´esecutivo». Tanto più è soggetta «all´influenza di interessi privati e partigiani. È una giustizia parziale, a due velocità: clemente verso chi è protetto dall´esecutivo, sempre più speditiva verso chi non è protetto». È pensando con severa memoria la propria storia che i magistrati francesi si ribellano. Solo una Corte costituzionale e un pubblico ministero indipendenti possono divenire punti fermi, più durevoli delle mutevoli maggioranze. I governi sono mortali, in democrazia. Non la Costituzione e la giustizia.

Non è solo la storia nazionale a entrare in gioco, abbiamo visto, ma l´Europa che delle varie memorie ha fatto tesoro, trascendendole. È quest´ultima a preconizzare una giustizia più indipendente, prescrizioni non di comodo, infine la riforma più desiderata dagli italiani: processi più brevi per tutti, non per uno o per pochi. In particolare - lo ricordano da anni il giurista Bruno Tinti e Marco Travaglio - l´Europa chiede che le carriere del giudice e del pm non siano separate: che «gli Stati, ove il loro ordinamento giudiziario lo consenta, adottino misure per consentire alla stessa persona di svolgere le funzioni di pm e poi di giudice, e viceversa», per «la similarità e complementarietà delle due funzioni» (raccomandazione della Commissione anticrimine del Consiglio d´Europa, 30-6-00).

Nella riforma Berlusconi sono assenti queste norme costituzionaliste, ed è il motivo per cui di regressione si tratta. L´obiettivo è mettere le procure sotto tutela politica, duplicare il Consiglio superiore della magistratura neutralizzandolo, staccare la polizia giudiziaria dai pm assoggettandola al solo potere politico (forse la misura più pericolosa, perché in tal modo il governo ha in mano le chiavi per chiudere e aprire un processo penale). Ed è separare le carriere del pm e del giudice per degradare il pm a "avvocato dell´accusa", più vicino per cultura all´avvocato della difesa che al giudice: mentre con l´ordinamento attuale il pubblico ministero è tenuto a considerare anche gli elementi a discarico, non solo quelli a carico dell´imputato. Qui è la ragione prima per cui separare le carriere è un rischio. È un vero insulto ai Pm, spiega Tinti: "Il Pm tutela gli interessi della collettività, l´avvocato quelli del suo cliente. Per il Pm non è importante che l´imputato venga condannato; è importante che il colpevole venga condannato. L´avvocato difensore, lui sì, è uomo di parte", avendo per obbligo quello di " far assolvere il cliente oppure fargli avere la pena più ridotta".

Quel che ci si domanda è come mai l´Europa, pur avendo leggi e princìpi, conti così poco. In realtà essa difende i princìpi con estrema forza prima dell´adesione: i candidati devono avere giudici indipendenti e separazione dei poteri (se l´Italia fosse oggi candidata, certo non entrerebbe). Questo dicevano i criteri di Copenhagen fissati nel ‘93 per l´ammissione dei paesi dell´Est: i criteri non erano solo economici (esistenza di un´affidabile economia di mercato) ma anche politici e giuridici (presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, stato di diritto, diritti dell´uomo, rispetto-tutela delle minoranze). Ancor più stringenti sono i criteri nel caso della Turchia.

Con i paesi che sono già nell´Unione, invece, l´Europa è intimidita, inerte. Varcata la porta d´ingresso solo i parametri economici pesano, diventando addirittura un ombrello che ripara gli autoritarismi. Quanto più sei dentro, e rispetti i parametri finanziari, tanto più sei libero di fare quel che ti pare con la democrazia. Se solo volesse, l´Europa potrebbe agire, arginare. Il Trattato di Lisbona agli articoli 6 e 7 prevede interventi e sanzioni dell´Unione per quei Paesi dell´Unione in cui si verifichino gravi rischi per la democrazia e per la libertà. Ma sinora gli articoli non sono stati invocati né tantomeno applicati all´Italia. Eppure i rischi ci sono ormai davvero e sono seri. Si parla molto dell´assenza di anticorpi, in Italia. Ma l´Europa ha gli stessi difetti, pur possedendo strumenti e leggi per salvaguardare le proprie democrazie.

In questa vignetta di Bucchi (la Repubblica) di qualche anno fa l'immagine perfetta del modo in cui B. vede la separazione tra i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), uniti in un unico tubo...digerente.

Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista, e che il tentativo di rivolta in corso si oppone a un clan familiare del quale si augura la caduta. Non penso tanto al nostro corrispondente, persona perfetta, mandato in una situazione imbarazzante a Tripoli e che ha potuto andare - e lo ha scritto - soltanto nelle zone che il governo consentiva, senza poter vedere niente né in Cirenaica, né nelle zone di combattimento fra Tripoli e Bengasi.

Perché tanta cautela da parte di un giornale che non ha esitato a sposare, fino ad oggi, anche le cause più minoritarie, ma degne? Non è degno che la gente si rivolti contro un potere che da quarant'anni, per avere nel 1969 abbattuto una monarchia fantoccio, le nega ogni forma di preoccupazione e di controllo? Non sono finite le illusioni progressiste che molti di noi, io inclusa, abbiamo nutrito negli anni sessanta e settanta? Non è evidente che sono degenerate in poteri autoritari? Pensiamo ancora che la gestione del petrolio e della collocazione internazionale del paese possa restare nelle mani di una parvenza di stato, che non possiede neanche una elementare divisione dei poteri e si identifica in una famiglia?

Ho proposto queste domande sul manifesto del 24 febbraio, senza ottenere risposta. Non è una risposta la nostalgia di alcuni di noi per un'epoca che ha sperato una terzietà nelle strettoie della guerra fredda. Né la nostalgia è sorte inesorabile degli anziani; chi ha più anni è anche chi ha più veduto come cambiano i rapporti di forza politici e sociali ed è tenuto a farsi meno illusioni. E se in più si dice comunista, a orientarsi secondo i suoi principi proprio quando precipitano equilibri e interessi.

Non che siamo solo noi, manifesto, a non sapere che pesci prendere davanti ai movimenti della sponda meridionale del Mediterraneo. Il governo francese ha fatto di peggio. Quello italiano ha consegnato al governo libico gli immigranti che cercavano di sbarcare a Lampedusa e dei quali non si ha più traccia. L'Europa, convinta fino a ieri che dire arabo significava dire islamista dunque terrorista, prima ha appoggiato alcuni despoti presunti laici - Gheddafi gioca ancora questa carta - poi si è rassicurata nel vedere le piazze di Tunisi e del Cairo zeppe di folle non violente, ha accolto con piacere l'appoggio alle medesime da parte dell'esercito tunisino e egiziano, e teme soltanto una invasione di profughi.

Ma la Libia non è né l'Egitto né la Tunisia. L'esercito è rimasto dalla parte del potere e la situazione s'è di colpo fatta drammatica. Ma chi, se non l'ottusità di Gheddafi, è responsabile se l'opposizione è diventata aspra, scinde la Cirenaica, cerca armi e il conflitto diventa guerra civile? Tra forze e ad armi affatto sproporzionate? E chi se non noi lo deve denunciare? Chi, se non noi, deve divincolarsi dal dilemma o ti lasci bombardare o di fatto chiami a una terza «guerra umanitaria», giacché gli Usa non desidererebbero altro? Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno.

La sinistra non può molto. Il manifesto, ridotti come siamo al lumicino, non può nulla se non alzare la voce con chiarezza e senza equivoci. C'è un'area enorme che si dibatte in una sua difficile, acerba emancipazione, che ha bisogno di darsi un progetto - non dico che dovremmo organizzare delle Brigate Internazionali, ma mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto. Ricordate le corse giovanili degli anni sessantotto e settanta a Parigi, a Lisbona, a Madrid e a Barcellona? Dall'altra parte del Mediterraneo non ha fretta di andar nessuno, salvo i tour operator impazienti che finisca presto. Almeno su a chi dare simpatie e incoraggiamento non dovremmo esitare. Non noi.

Nel giorno in cui Newsweek celebra «le italiane che dicono Basta! a Berlusconi», soggetto collettivo, nel numero dedicato alle «150 donne che scuotono il mondo» ci scrive una lunga lettera Pilar del Rio Saramago. La vedova del premio Nobel per la letteratura ci aveva chiamato a ridosso del 13 febbraio per comunicare la sua adesione alla rivolta e per dire quanto questo «vento nuovo» le facesse pensare alle parole e ai gesti compiuti insieme al marito, negli ultimi suoi anni, a proposito della forza delle piazze contro i regimi di ogni densità e tipo. Oggi, per l'8 marzo, pubblichiamo il suo appello agli uomini italiani. Dovrebbero essere gli uomini ad uscire per strada e dire ora basta, scrive. «Il giorno in cui scenderanno in piazza noi donne dai marciapiedi li applaudiremo e getteremo loro dei fiori». Sono parole che riecheggiano molte di quelle che abbiamo sentito alla vigilia del 13 febbraio. Dice Luciana Castellina: «Nella vicenda di Berlusconi e Ruby mi sembra che la prima identità sessuale ad essere offesa sia quella maschile. Sono loro che dovrebbero essere indignati in prima persona e meraviglia che non si sentano offesi. Andare in piazza in solidarietà delle donne è un po’ poco, va a finire che la colpa di questa situazione ricade su Ruby».

Ci sono arrivati migliaia di messaggi di ragazze molto giovani, alla vigilia dell'8 marzo. Tutte fanno cose. Si organizzano, si

muovono, abitano mille diverse piazze. Un gruppo, a Milano, è protagonista di una mostra fotografica sulle adolescenti italiane dal titolo «Tu quanto ti vuoi bene?». Volersi bene è il tema del nuovo libro di Eve Ensler di cui pubblichiamo un'anticipazione: è scritto perché le ragazze «smettano di trattare il loro corpo come oggetto per piacere agli altri», dice.

Questo giorno è un'occasione, in verità, per cogliere dalla moltitudine di gesti quotidiani quelli che non solo scuotono, come scrive Newsweek, ma crescono e cambiano l'Italia. Azioni e impegno che oggi, da qualche palco a qualche microfono, trovano una vetrina. Donne che lavorano nelle carceri e nelle scuole, nei centri immigrati e nei quartieri: che conducono solitarie incessanti battaglie. Tra le iniziative politiche ne vorrei ricordare una molto concreta: Titti Di Salvo e Marisa Nicchi hanno scritto ieri ai leader dei partiti di opposizione e ai sindacati perchè si riprenda in mano la legge contro le dimissioni in bianco. Fu la prima legge che il governo Berlusconi cancellò, tre anni fa: quella che impediva alle donne di firmare, all'atto dell'assunzione, una lettera di dimissioni volontarie senza data. Da usarsi a discrezione del datore di lavoro nel momento in cui annunciavano di essere in attesa di un figlio, per esempio. Più di mille parole, più di un milione di bonus bebè e di proclami in favore della famiglia varrebbe una piccola norma a tutela della maternità. Molte ragazze accettano condizioni di lavoro infime pur di averne uno, contratti più che flessibili e stipendi miserabili. Che almeno avere un figlio non sia un motivo di licenziamento. Le donne, lo ricordo, partoriscono anche uomini. Che siano gli uomini dunque i primi a pretendere di essere messi al mondo. Quando li vedremo arrivare nella protesta li saluteremo con un fiore.

Lo slogan è già confezionato: «Scenderà in campo per difendersi il lunedì di ogni settimana». E il «campo», nello specifico, sono le aule di giustizia dove fronteggiare le acerrime nemiche toghe ovviamente «comuniste ».

Dopo vari tentennamenti, la strategia della resistenza giudiziaria del premier sembra essere decisa: per la prima volta nella sua lunga carriera di imputato (17 processi, 4 ancora aperti, in aula una volta sola nel 2003, caso Sme), Silvio Berlusconi farà il suo dovere di cittadino. La decisione arriva, non a caso, in occasione del processo più «spettacolare», quello per Ruby e le feste di Arcore che si terrà nel pieno della campagna per le amministrative (si rinnova il sindaco anche a Milano), e mentre il suo gradimento è al minimo storico.

Ancora una volta il Cavaliere cercherà di trasformare l’angolo del ring in cui è costretto in una ribalta. Ma soprattutto, se il Tribunale accetterà la richiesta della difesa di un’udienza al mese per ciascuna inchiesta, il processo Mills è in pratica già prescritto, quello Mediaset/1 quasi.

L’onorevole avvocato Niccolò Ghedini conferma la strategia – ne aveva già parlato in settimana - ieri mattina davanti all’aula del gip di Milano che ha appena rinviato l’udienza preliminare Mediaset/2 per un doppio difetto di notifica. «Non esiste un precedente di persona imputata in quattro procedimenti contemporaneamente - spiega Ghedini - dunque quello che abbiamo proposto al presidente del Tribunale Livia Pomodoro, visto che Berlusconi vuole essere presente, è di dedicare il lunedì ai processi, magari anche con un doppio turno, la mattina un’udienza preliminare e il pomeriggio uno dei dibattimenti. Questo è il massimo dello sforzo: non credo si possa chiedere di più a un capo di governo.E d’altra parte la Corte Costituzionale, che ha mantenuto in vita l’impianto del legittimo impedimento, dice chiaramente che le esigenze dell’imputato con incarichi di governo devono essere prese nella massima considerazione».

Le parole di Ghedini dicono molto, sottintendono di più, dimenticano altrettanto. Tra le dimenticanze, una su tutte: se il premier è imputato in quattro processi contemporaneamente è perché ha esaurito le scappatoie per rinviarli e non può fare altro che affrontarli. Ma sono i sottintesi a pesare di più. Dal punto di vista politico la scelta di essere in aula - “sempre, anche quando parleranno i testimoni” precisa Ghedini - è mossa da giocatore d’azzardo che tenta il tutto per tutto contro il nemico-giustizia e gli assicura una ribalta mediatica eccezionale. Cosa potrà dire o fare il premier-imputato quando Nicole Minetti o Ruby Rubacuori (teste della difesa) dovranno spiegare i bunga bunga ad Arcore? O quando Barbara Faggioli o Iris Berardi racconteranno delle intercettazioni in cui dicono che “fare sesso col Cavaliere è stressante”? I media sono già in fila per lo show. E lui, che è uomo di spettacolo, si frega le mani. Fuori da Palazzo di Giustizia il Pdl ha montato un gazebo con lo striscione “Fuori la politica delle aule di giustizia”. L’udienza è pubblica, nulla dovrebbe ostare alla presenza di taccuini e telecamere. Ma il presidente del Tribunale Giulia Turri potrebbe anche decidere diversamente.

Quello che Ghedini non dice ha peso soprattutto sul piano processuale. La presenza in aula è indispensabile perché la contumacia potrebbe negare le attenuanti generiche di cui beneficiano gli incensurati. E Berlusconi lo è. Poi, al passo di un’udienza al mese, è garantita la prescrizione di almeno due dei quattro processi: Mills “muore” tra gennaio e febbraio 2012 e si prescriverà senza una sentenza perché 7-8 udienze (nel 2011 restano 33 lunedì al netto di ferie e feste, divisi per quattro processi sono appunto 7-8 udienze per ciascuno) non sono sufficienti.

La fine è prossima anche per Mediaset/1 che deve ancora sbrigare un paio di complesse rogatorie. I tempi del processo Ruby dovrebbero essere brevi e la procura ha già ribadito la corsia “preferenziale” in quanto rito immediato ma le eccezioni della difesa li potrebbero forzare. Vedremo cosa deciderà il Tribunale. Ma se non dovesse accettare quello che Ghedini definisce “il massimo sforzo”, restano pur sempre il Parlamento e qualche leggina. Intanto da giovedì comincia l’iter di legge sulla separazione delle carriere tra giudici e pm e sulla modifica del Csm. Una riforma, per il premier, “epocale” .

Era il 25 marzo 1911, un incendio divampò nella camiceria "Triangle Shirtwaist", a New York. Dei centoquarantasei morti, centoventinove erano ragazze: siciliane, russe, ucraine Le fiamme divennero simbolo dello sfruttamento femminile e cambiarono la coscienza americana. Ma soltanto oggi gli ultimi corpi delle sarte sono stati identificati: tre erano italiane.

Fu lo spaventoso crogiolo dell’immigrazione, la fonderia umana nella quale si fusero per sempre i corpi, le identità e le nazionalità dai quali sarebbe nata la New York che conosciamo. Erano soprattutto donne, italiane e ucraine, russe e palestinesi, rumene e irlandesi, le cucitrici che furono consumate insieme un secolo fa esatto nel rogo della camiceria "Triangle Shirtwaist" del Village, negli appena diciotto minuti trascorsi fra il primo grido di «Al fuoco! Al fuoco!» e lo spegnimento. Alla fine furono centoquarantasei morti, tutti fra i sedici e i ventitré anni, piccole schiave incatenate alle macchine per cucire e ai tavoli per il taglio della tela ai quali furono trovate fuse insieme. New York avrebbe dovuto attendere novant’anni, fino all’11 settembre 2001, per subire una carneficina più orribile.

Fu il rogo che cambiò e sigillò il destino di una grande città e di chi ci avrebbe vissuto e lavorato dentro, secondo un canovaccio terribile e ripetuto tante volte nella storia americana periodicamente illuminata da immensi incendi, nella Chicago dei mattatoi industriali, nella San Francisco degli avventurieri, nella Atlanta sconfitta dalla Guerra civile, nella New York selvaggia del primo Novecento, come se il parto doloroso di questa grande nazione avesse bisogno di un falò, per ripartire. Ma di storia, di destini da Roma di Nerone, di crogioli che scuotessero anche le autorità giudiziarie e politiche dal loro comodo, e spesso corrotto, laissez faire, alle centoventinove camiciaie e ai loro diciassette colleghi maschi nell’East Village poco importava.

A Bessie la russa, a Peppina e Concetta le italiane, a Fannie l’ucraina, vittime identificate a fatica e alcune soltanto ora e finalmente sepolte con un nome nel cimitero immenso dei "Sempreverdi" fra Brooklyn e Queens, da un ricercatore ossessionato da quell’incendio, importava soltanto guadagnare quello che il capo reparto decideva di pagarle alla fine di ogni giorno. Non c’erano salari fissi né contratti sindacali. Un dollaro, due al giorno, mai di più, per restare entro i costi previsti dai due proprietari della azienda: diciotto dollari ogni dodici camicie, un dollaro e mezzo a camicia.

Poche di loro, in quel palazzo di dieci piani a pochi passi da Washington Square, nel cuore del Village, chiamato Asch Building, parlavano inglese e capirono che cosa significasse l’urlo che risuonò alle quattro e quarantacinque di un pomeriggio di primavera 1911, il 25 marzo: «Fire! Fire!». Non che la comprensione immediata dell’allarme avrebbe potuto fare molta differenza per le donne e gli uomini che tagliavano, cucivano, lavavano, stiravano e stendevano le camicie. Lo sweathshop, la fabbrica del sudore, occupava tre piani, tra l’ottavo e il decimo, e l’ottavo era bloccato. Tutte le porte erano chiuse dall’esterno e le lavoranti controllate una per una alla fine del turno, perché non rubassero utensili, forbici, aghi, filo o pezze di prezioso cotone.

Il secchio d’acqua che un impiegato della contabilità, William Bernstein, tentò di rovesciare sul focolaio acceso, attingendo all’unico rubinetto funzionante nello stanzone, non avrebbe potuto nulla contro un incendio che trovò, forse per una cicca accesa, nei mucchi di scampoli accatastati sul pavimento, nelle camicie stese ai fili e già asciutte, nel legno del pavimento e dei tavoli, il combustibile ideale. I racconti dei pochi superstiti, come Bernstein che testimoniò al processo contro i due soci proprietari della "Camiceria Triangolo" condannati per omicidio, sono pagine tratte dall’immaginario infernale da catechismo.

Sono scene di donne già in fiamme che correvano cercando di sfuggire al fuoco che stava bruciando le gonne e i capelli, tuffi silenziosi e senza grida di altre che si lanciavano dalle finestre scegliendo il suicidio, fotogrammi di ragazzine «semplicemente impietrite», disse Bernstein, incapaci di muoversi e di reagire. Immobili nell’attesa certa e rassegnata di diventare torce viventi o di cadere asfissiate dal fumo. I vigili del fuoco che, incredibilmente, riusciranno a spegnere un incendio all’ottavo piano in appena diciotto minuti, troveranno sartine fuse con la macchina per cucire alla quale morirono abbracciate, come se non avessero voluto separarsi da quell’utensile che aveva dato loro un mezzo per vivere nella città dove erano approdate.

Molte di loro non sarebbero state identificate per decenni, le ultime per un secolo, come Elizabeth Adler, rumena di ventiquattro anni, come Maximilian Florin, russo di ventitré anni, come la "morta numero 85", una caduta ignota sepolta per novantanove anni con questa lapide, e sarà colei dalle quale partirà, quasi per caso, il cammino di uno storico appassionato di genealogia, Michael Hirsch, ossessionato dall’incendio che cambiò New York. La "vittima numero 85" sarebbe risultata essere la sorella di una giovane di diciassette anni sepolta in un altro cimitero, sotto una lapide che ricorda misteriosamente «la sorella uccisa», senza altre indicazioni. Da quella tomba, Hirsch sarebbe risalito a una pronipote ottuagenaria, pensionata in Arizona. Da lei, dai suoi confusi ricordi personali di prozie perdute all’inizio del Novecento, avrebbe scalato l’albero della loro storia e trovato un nome, nell’elenco delle impiegate della "Camiceria Triangolo", una scomparsa dopo il 25 marzo 1911. E da lì sarebbe risalito alla tomba del cimitero di Brooklyn, finalmente dando un nome a quei resti: Maria Giuseppina Lauletti. Siciliana di vent’anni.

Con lei, l’appello dei morti è stato completato. Sotto il monumento che ricorda quel giorno, sono stati scritti i nomi degli ultimi sei ignoti, Max Florin, Concetta Prestifilippo, Josephine Cammarata, Dora Evans and Fannie Rosen e un atto di pietà è stato scritto. Ma il vero memoriale al rogo delle cucitrici non è in quel cimitero. È nella carne viva della città, che la strage cambiò per sempre e che anche il più "casual" dei turisti può vedere, senza neppure saperlo. Il processo contro i due soci proprietari, che le autorità cittadine perseguirono con tutta la furia e la severità di chi sapeva di avere la coda di paglia politicamente infiammabile quanto quelle camicie, riscrisse e impose la normativa antincendio nella città cresciuta senza regole. Costruì e rese obbligatorie ovunque quelle scale esterne che oggi si vedono pendere dagli edifici più bassi e che ogni film poliziesco o di horror usa per gli incubi degli spettatori. Cominciò la bonifica dei tenement, quei termitai in affitto, come dice il nome, dove le onde umane dei nuovi immigrati si accatastavano una sull’altra facendo di New York all’inizio del secolo scorso la città più densamente popolata del mondo. I regolamenti per la bonifica dei tenement esistevano già da dieci anni, ma né il Comune, né la polizia, né la magistratura si erano mai dati la pena di farli rispettare, nel nome della crescita rapinosa e della generosità sottobanco dei signori dei termitai. E quelle ottantacinque ore di lavoro alla settimana che le ragazzine dell’ottavo piano dovevano subire apparvero, finalmente, intollerabili.

Gli scioperi degli altri schiavi delle macchine per cucire a Philadelphia, a Baltimora, nel Village e nel Garment District di Manhattan, che ancora esiste ma langue nella concorrenza impossibile dei nuovi schiavi che tagliano camice e abiti in Estremo Oriente, incontrarono l’appoggio di un pubblico che, fino a quel falò, preferiva schierarsi con chi offriva loro, a qualunque prezzo, un lavoro. Per anni, e invano, altri operai e operai dell’industria tessile avevano organizzato scioperi. E in un’altra fabbrica del sudore a New York, pochi anni prima, si sarebbe visto lo spettacolo inaudito e terrorizzante del primo sciopero indetto e organizzato interamente da donne. I ritocchi salariali e miglioramenti avevano appena sfiorato le ragazze della "Camiceria Triangolo", reclutate fra le più giovani, le più timide, le più docili immigrate dalla Sicilia, dai ghetti d’Ucraina e di Russia. Lo Asch Building è ancora lì dov’era nel pomeriggio del 25 marzo 1911, ribattezzato Brown Building e oggi parte della New York University alla quale fu donato. È un edificio poco interessante, nella banalità dello stile neo rinascimentale che disseminò di palazzi simili le città americane, e alle finestre dell’ottavo piano, oggi sede di rispettabili studenti e insegnanti di scienze, c’è qualche condizionatore d’aria. È un luogo un po’ freddino, poco trafficato, stranamente silenzioso nonostante la prossimità con Washington Square, il cuore del Village. Non entra in nessuna foto o videoclip ricordo del viaggio a New York. Si incrociano giovani, studenti, soprattutto studentesse, belle, serie, sorridenti, decise, occupate a vivere quel sogno che altre ragazze cucirono anche per loro, con la propria vita.

Sulle origini della festa dell’8 marzo vedi anche l’eddytoriale n. 6

Non pioveva così da quarant’anni, secondo le imperturbabili statistiche della meteorologia nazionale, nelle Marche flagellate dal maltempo. E di fronte alla tempesta di acqua, neve e vento che imperversa da un capo all’altro dello Stivale, è forte la tentazione di ricorrere ancora una volta al cinismo di un vecchio proverbio popolare, per dire che da quarant’anni non avevamo un governo tanto incline all’appropriazione indebita e al consumo del territorio. Ma in realtà questa è solo l’ultima puntata, in ordine di tempo, di una storia infinita che purtroppo dura da sempre e ormai ha trasformato la nostra beneamata penisola nel Malpaese più sinistrato e vulnerabile d’Europa. Auguriamoci che, prima o poi, arrivi a un epilogo ragionevole.

Non c’è disastro o calamità naturale infatti che possano essere relegati nella dimensione biblica della fatalità, senza chiamare in causa le responsabilità o quantomeno le corresponsabilità dell’uomo, l’uomo di governo e l’uomo della strada, il potente e il cittadino comune. Vittime, feriti e dispersi; frane, smottamenti e alluvioni; danni e rovine non sono altro che il triste risultato del combinato disposto tra la furia degli elementi e l’inerzia o l’incuria degli esseri umani. Tutto è, fuorché emergenza: cioè eventualità imprevista e imprevedibile, caso fortuito, accidente della storia.

Non sorprende perciò più di tanto neppure la notizia che in Indonesia la ricostruzione post-terremoto sia proceduta più rapidamente che all’Aquila. Nonostante la retorica dei trionfalismi governativi, qualcuno avrebbe potuto meravigliarsi semmai del contrario.

C’è sempre la mano dell’uomo, il suo intervento, la sua assenza o comunque la sua complicità, nel dissesto del territorio che aggrava gli effetti e le conseguenze dei fenomeni naturali. Vale a dire il consumo eccessivo del suolo, l’alterazione diffusa dell’assetto idro-geologico, la cementificazione selvaggia delle coste, l’abusivismo e quantaltro. Quando le colline o le montagne franano a valle, molto spesso il fenomeno dipende dal disboscamento incontrollato che taglia gli alberi e distrugge la "rete" sotterranea delle radici. Quando i fiumi esondano, allagando le campagne e mietendo vittime, la causa più frequente è la deviazione degli alvei originari o la trasformazione artificiale degli argini. E così via, di scempio in scempio.

Manca una politica organica del territorio, difetta la prevenzione, si dispensano di tanto in tanto sanatorie o condoni: e allora sì, il governo è veramente "ladro", perché sottrae alla collettività e alle generazioni future un patrimonio irriproducibile. Ma manca perfino l’ordinaria manutenzione, quella che tocca innanzitutto allo Stato, agli organismi centrali e alle amministrazioni locali. E spetta però anche al privato cittadino: all’agricoltore, al proprietario, all’inquilino o al singolo condomino, a ciascuno di noi insomma nel proprio habitat vitale, per promuovere quella che Salvatore Settis chiama "azione popolare" nel libro intitolato Paesaggio, Costituzione, Cemento, invocando una battaglia per l’ambiente contro il degrado civile.

Politica del territorio significa, innanzitutto, governo e gestione del territorio. Cura, controllo, progettazione, pianificazione. Ma, ancor prima, significa cultura del territorio: cioè conoscenza e rispetto. Consapevolezza di un bene comune, di un’appartenenza e di un’identità. E quindi, difesa della natura, dell’ambiente, del paesaggio.

Un fango materiale e un fango virtuale minacciano oggi di sommergere l’Italia. Il fango prodotto dal maltempo, dall’acqua e dalla terra. E il fango prodotto dal malcostume dilagante, dall’affarismo e dall’edonismo sfrenato. Vanno fermati entrambi, in ragione della responsabilità e della solidarietà.

La convivenza di una comunità nazionale si fonda necessariamente sull’etica civile. Questa riguarda l’ambiente in senso stretto e l’ambiente in senso lato, la società e la politica. Non c’è legge elettorale, consenso popolare o federalismo municipale che possa surrogare o sostituire un tale valore costitutivo. È proprio attraverso la devastazione del territorio che rischia di passare fatalmente la disgregazione del Paese.

Quel conflitto di interessi che per molti anni i leader del centrosinistra hanno smesso di nominare, tentando di mimetizzarlo nelle partite di giro tra un'elezione e l'altra, è l'anomalia italiana destinata a trascinare tutte le altre. «Nel '94 le abbiamo dato garanzia piena che non avremmo toccato le sue televisioni», diceva l'onorevole Violante rivolgendosi a Berlusconi, in un purtroppo celebre discorso alla camera, qualche anno fa. E quella ferita inflitta al sistema democratico ora trascina a valanga i fragili contrappesi istituzionali che tentano di arginarla. Dall'uso contundente della maggioranza parlamentare per sottrarsi al processo Ruby, fino al paradosso di queste ore quando un primo ministro editore può decidere se e come si intrecceranno le proprietà di giornali e televisioni.

In un paese normale sarebbe il presidente del consiglio l'autorità deputata a firmare il provvedimento che proroga il divieto di incrocio tra le proprietà di stampa e tv, come è necessario dopo il pasticcio delle modifiche al decreto milleproroghe. Ma nella patria del conflitto di interessi l'unico che non può mettere la firma per regolare questo macigno della nostra democrazia è esattamente l'attuale capo del governo. Lo scrive l'Antitrust nella lettera inviata al premier e ai presidenti di camera e senato, cioè alle più alte cariche parlamentari e di governo. Il gesto dell'Autorità è l'estremo tentativo dell'arbitro di fischiare il fallo, di segnalare il vicolo cieco di una anomalia ormai irriducibile. E' un atto che mette in pubblico il degrado istituzionale, ormai fuori misura e fuori controllo.

La pur sbiadita legge sul conflitto di interessi (firmata dal fedele Frattini) prevede che Berlusconi esca dalla stanza del consiglio dei ministri quando si discutano provvedimenti che potrebbero coinvolgere le sue aziende (e il suo portafoglio). In questo caso non solo dovrebbe essere presente ma addirittura firmare l'atto che lo riguarda.

Possiamo facilmente immaginare in quale considerazione terrà questo rilievo Berlusconi. Dopo aver aggiunto anche l'Antitrust alle istituzioni (Parlamento, Quirinale, Consulta) che non lo lasciano lavorare, prenderà la penna e firmerà l'atto. Diversamente, in mancanza di una proroga, avrà la via spianata per aggiungere al suo impero mediatico i quotidiani che preferisce, magari uno solo, il più corteggiato e ambito.

E' la quadratura perfetta del cerchio, il regime che trova finalmente la conclusione del ventennio.Cementato così, con o senza firma, il conflitto di interessi, Berlusconi potrà avviare la fase successiva, necessaria a perfezionare l'ultimo capitolo: la definitiva blindatura della televisione, con l'azzeramento delle ultime sacche di resistenza. Lo stato dei lavori è molto avanzato, manca giusto qualche dettaglio. Fatti gli ultimi acquisti (Sgarbi e Ferrara arruolati nella rete ammiraglia del servizio pubblico), si può concludere la partita con la fantastica trovata elaborata nelle stanze della commissione parlamentare di vigilanza: alternare Floris e Santoro con due conduttori di «diversa formazione culturale». Una rotazione settimanale tra destra e sinistra. Naturalmente il democratico e pluralista avvicendamento vale solo per questi due talk-show, tutto il resto (Tg1, Ferrara, Sgarbi, Vespa) non si tocca perché in questo caso il pluralismo è incorporato nella loro specchiata autonomia. E' grottesco, ma anche semplice. Basta avere la maggioranza parlamentare (in questo caso della vigilanza) e il gioco è fatto.

È rivolta fra insegnanti, studenti e sindacati, compresa l’Ugl, per l’attacco lanciato sabato da Silvio Berlusconi contro la scuola pubblica: nella sua pseudo-smentita conferma il concetto sull’«indottrinamento politico e ideologico» che farebbero i docenti. La ministra dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, invece di sentirsi colpita nel suo ruolo, difende il premier. Al punto che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ne chiede le dimissioni: «Se la Gelmini fosse un vero ministro, invece di arrampicarsi sui vetri per difendere Berlusconi, dovrebbe dimettersi». Perché «la scuola pubblica è nel cuore degli italiani. Da Berlusconi arriva uno schiaffo inaccettabile, non permetteremo che la distrugga». E Dario Franceschini, Pd, da Twitter lancia la proposta di una manifestazione per «difendere la scuola pubblica dagli insulti di Berlusconi»: «Tutti di nuovo in piazza, come le donne il 13 febbraio, senza simboli e bandiere». Il capogruppo Pd accoglie «l’importantissima» disponibilità offerta da Beppe Giulietti per il 12 marzo, allargando la protesta in difesa della Costituzione. La Cgil scuola sciopererà il 25 marzo con i lavoratori pubblici, potrebbe replicare con lo sciopero generale proposto da Susanna Camusso. Anche ItaliaFutura, fondazione di Luca Cordero di Montezemolo, denuncia le «esternazioni in libertà» di Berlusconi «che i cittadini non possono sopportare» e «si attendono che faccia funzionare la scuola, non di demolirne la legittimità».

Mariastella Gelmini rispondendo a Bersani ribadisce il concetto sulla scuola dominata da postsessantottini: «Berlusconi non ha attaccato la scuola pubblica», dice come una scolaretta, «ma ha difeso la libertà di scelta delle famiglie». E rilancia: «La sinistra guarda alla scuola pubblica come a un luogo di indottrinamento ideologico. Bersani si rassegni: la scuola non è proprietà privata della sua parte politica».

La Rete degli studenti denuncia la «cancellazione» dell’istruzione pubblica da parte del governo, «altro che riforma», Gelmini e Tremonti hanno ridotto la scuola «a un cumulo di macerie». Gli insegnanti del Gilda bollano il «comportamento inaccettabile» del premier e ricordano che la situazione è opposta: «La scuola statale è un luogo di confronto pluralistico, mentre legittimamente la scuola privata è di tendenza e trasmette convinzioni religiose, politiche e filosofiche». Insomma, Berlusconi si rilegga «i saggi di Luigi Einaudi, che non era un comunista e difendeva il valore della scuola pubblica statale».

Uniti tutti i sindacati. Secondo Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil, «Berlusconi non ha né l'autorità morale né quella etica per parlare di scuola pubblica»; Giovanni Centrella, segretario dell’Ugl, ricorda «le gravi ristrettezze in cui operano i professori e le famiglie stesse». Francesco Scrima, Cisl Scuola, parla di «accuse generiche e strumentali agli insegnanti, a cui si continua a chiedere tanto e a dare troppo poco».

Dure critiche da tutta l’opposizione. Nichi Vendola, nella convention di ieri a Roma, spiega così l’attacco di Berlusconi: «È stata proprio la crisi della scuola pubblica e il trionfo delle sue televisioni ad aver accompagnato l’egemonia culturale di un quindicennio». Demolirla quindi è strategico, secondo il leader di Sel: «A queste classi dirigenti serve opinione pubblica narcotizzata».

Antonio Di Pietro insiste più sulla morale: «Sui valori e sull’istruzione Berlusconi non può dare lezioni, se c’è qualcuno che è stato un esempio negativo per i giovani è proprio lui». Anche Rosy Bindi è indignata sul piano morale: «Chi conclude incontri politici inneggiando alle sue indicibili abitudini notturne non è degno di pronunciare la parola famiglia», né di insegnamento, quando alla scuola ha «tagliato risorse, negato dignità agli insegnanti e impoverito i percorsi formativi». Per Italo Bocchino, Fli «sta dalla parte della scuola pubblica» nel solco di Giovanni Gentile e ricorda come alcune privare siano «un diplomificio» o un lasciapassare per figli di ricchi.

Con l´irrevocabile responso emesso dal Giurì per l´autodisciplina pubblicitaria, su ricorso dei senatori Francesco Ferrante e Roberto della Seta (Pd), il bombardamento mediatico a favore del nucleare per il momento è stato interrotto. Ispirata dal presidente del Consiglio per persuadere e convertire gli italiani a questa scelta, come se si trattasse di un detersivo, di una bibita o di una crema miracolosa, la campagna a colpi di spot è stata sovvenzionata dal "Forum nucleare italiano", organizzazione ufficialmente non profit di cui però i soci fondatori sono l´Edf e l´Enel, cioè i due soggetti maggiormente interessati al business atomico: dalla vigilia di Natale all´Epifania, oltre 400 passaggi televisivi, per un costo di circa 6 milioni di euro.

"Pubblicità ingannevole", ha sentenziato ora senza mezzi termini il Giurì. E così l´aveva già definita anche Antonio Di Pietro in un esposto all´Autorità sulle Comunicazioni, seguito a ruota da un altro parlamentare dell´Idv, Elio Lannutti, che ha presentato una raffica di interrogazioni al Senato.

Lo spot pubblicitario ha messo in scena una partita a scacchi collettiva. Bianco e nero, una mossa dietro l´altra, la partita procedeva tra domande e risposte in un contrappunto di tesi e antitesi. Ma in realtà, come ha stabilito il Giurì nella sua motivazione, lo spot sull´atomo «mira a ingannare e confondere chi lo riceve, contrabbandando come neutrali e sociali i suoi contenuti squisitamente di parte».

Contro questa offensiva mediatica e in vista del referendum sul ritorno al nucleare programmato dal governo in carica, secondo quanto scrive Gianni Silvestrini - direttore scientifico di Kyoto Club - nell´introduzione al libro di Mattioli e Scalia citato all´inizio, «occorre dunque preparare un´accurata azione di controinformazione che consenta ai cittadini di avere elementi adeguati a contrastare la vasta campagna già annunciata dal governo per spiegare come il nucleare sia sicuro e poco costoso». E un primo strumento - forse meno suggestivo di una campagna pubblicitaria, ma certamente più documentato e razionale - può essere proprio il volume pubblicato dai due padri dell´ambientalismo scientifico italiano. Un compendio di informazioni, dati, grafici e tabelle che sgombra il tavolo da tanti luoghi comuni, slogan e falsi ideologici.

Rinviando alla consultazione del libro chi fosse interessato ad approfondire l´argomento, con l´aiuto degli stessi autori proviamo a riassumere qui alcune questioni fondamentali. Lo sviluppo dell´energia nucleare può giovare a combattere l´inquinamento e quindi il riscaldamento del pianeta, contribuendo così a regolare il clima? «Se un impegno straordinario portasse al raddoppio delle centrali, la riduzione delle emissioni di CO2 non supererebbe il 5%».

È vero che, dopo l´incidente di Chernobyl, l´Italia è stato l´unico paese dell´Occidente industrializzato a bloccare il nucleare? «A seguito di Chernobyl, il nucleare viene bloccato in tutti i paesi dell´Ocse: non si procederà a nessun nuovo ordinativo di reattori - proprio come già si era verificato negli Usa, dove a partire dal 1978 non era stata commissionata nessuna nuova installazione e un centinaio di progetti erano stati accantonati».

L´energia nucleare è pulita? Il ciclo del combustibile nucleare, sostengono in sintesi Mattioli e Scalia, comporta lavorazioni a rischio salute. Né vanno trascurati gli effetti biologici e i danni sanitari connessi alle radiazioni. Viene citato poi uno studio di "Environmental Health", in cui si parla di alti valori delle leucemie infantili derivanti da radionuclidi e di «dosi derivanti dalle emissioni di radiazioni dai reattori su embrioni e feti nelle donne gravide».

Quanto costa il kWh (chilowattora) nucleare? «Nella composizione del costo del kWh nucleare alcune componenti sono decisamente opache, altre neanche definibili: esso potrà anche risultare meno costoso, ma non c´è dubbio che si tratta di un prezzo politico dell´energia». E ancora: «L´insistenza su questo tasto sembra intesa a voler mettere in ombra il vero problema economico del nucleare: il finanziamento degli elevati capitali richiesti dagli investimenti e i tempi molto lunghi - oltre vent´anni - per il ritorno dei capitali investiti».

Qual è, dunque, il futuro dell´energia nucleare? «Oggi l´energia nucleare copre meno del 6% del fabbisogno mondiale di energia primaria e del 15% della produzione di energia elettrica». «Di fatto, come per la fusione nucleare, la prospettiva dei reattori di quarta generazione di anno in anno si allontana nel tempo e ora se ne prevede la realizzazione e commercializzazione non prima del 2030-2040».

Che fare, allora? Quali sono le alternative a disposizione? «Non ci possiamo oggi aspettare dalla fissione nucleare la risposta alle scelte urgenti che siamo chiamati a effettuare in tema di energia e sconvolgimento climatico». «Per l´Italia non si tratta dunque di scegliere tra la prospettiva del governo e i sogni degli ecologisti, ma di scegliere tra i reattori e la strategia che ha scelto l´Europa»: e cioè, entro il 2020, 20% di riduzione della CO2; 20% di risparmio sui consumi finali; e, sui consumi restanti, 20% di fonti pulite e rinnovabili, come l´energia solare e quella eolica.

Un secolo fa gli avvenimenti di Tripoli occupavano, come oggi, le prime pagine dei giornali. La storia non si ripete mai, dicono suoi autorevoli cultori. Questo non esclude somiglianze tra avvenimenti distanti decenni o secoli, che si verificano in contesti politici e sociali che non si assomigliano affatto. Così gli anniversari fanno a volte scherzi, di sapore sinistro. Cent´anni or sono, nel 1911, il 3 ottobre, unità della marina italiana sbarcavano nella capitale libica, seguite il 12 da più consistenti reparti dell´esercito. Nelle ore precedenti i cannoni della flotta al largo avevano bombardato l´As-saraya al-amra, il Forte Rosso, dal quale ancora oggi si può dominare la città affacciata sul mare. Ed altre bombe erano cadute sul forte di Bengasi, in Cirenaica.

Così il Regno d´Italia, mentre a Roma governava il liberale Giovanni Giolitti, metteva in atto la dichiarazione di guerra fatta quattro giorni prima all´Impero ottomano che occupava quella sponda del Mediterraneo. E proprio come accade nel 2011, l´opinione pubblica internazionale condannò allora le atrocità commesse nella città appena conquistata. Nelle capitali dei grandi imperi coloniali (non certo senza macchia nei loro ampi possedimenti africano o asiatici), a Londra e a Parigi, ma anche a New York, si moltiplicarono le manifestazioni contro il bagno di sangue. Di cui l´Italia era colpevole.

Tripoli aveva a quei tempi trentamila abitanti ed era la principale città di un vasto paese ricco di deserti bellissimi e popolato da meno di un milione di uomini e donne dispersi lungo la costa. Giolitti, uomo politico «punto fantasioso e retore», secondo Benedetto Croce, aveva voluto quella conquista coloniale, sempre per Croce, come un padre che si avvede che la figliola, cioè l´Italia, è ormai innamorata e provvede a darle dopo le debite informazioni e con le debite cautele, lo sposo che il suo cuore ha scelto. Insomma Giolitti dà agli italiani quel che vogliono.

Lui alla Libia ci pensava da tempo, anche se l´impresa non lo entusiasmava. Il momento sembrava però propizio e non rinviabile. Anche problemi di politica interna lo spingevano ad agire. Voleva promuovere importanti riforme politiche e sociali, in particolare l´estensione del suffragio universale e l´introduzione dell´assicurazione obbligatoria sulla vita, bene accette ai socialisti, che voleva conquistare. Si può persino azzardare che molti libici hanno perduto la vita per permettere a molti italiani, spesso analfabeti, di conquistare il diritto al voto. La guerra avrebbe soddisfatto conservatori, nazionalisti e cattolici, e quindi attenuato la loro opposizione alle riforme. Ed anche quelle di importanti settori economici. Tra i pretesti esibiti nel dichiarare la guerra alla Turchia c´erano i provvedimenti ottomani contro le numerose succursali del Banco di Roma presenti in Libia.

La conquista della Libia è per i militari una rivincita poco più di un decennio dopo la disfatta di Adua, in Abissinia, e le precedenti deludenti prove nelle guerre del Risorgimento. E´ l´acquisizione di una colonia di popolamento per l´emigrazione italiana, che in quegli anni è al massimo ed è fonte di frustrazione nazionale. Offre inoltre l´impressione di alzarsi al rango di francesi, inglesi e spagnoli, che si distendono sulla costa africana senza che in nessun tratto sorga la bandiera italiana. Francia e Germania si sono appena contese il Marocco. Persino Antonio Labriola, socialista e marxista (ma promotore della grandezza d´Italia e della prosperità e arricchimento della sua borghesia, sottolinea ancora Croce) fin dall´inizio del secolo esortava all´occupazione di Tripoli. Lo considerava un buon affare. Ottant´anni prima Karl Marx aveva accolto con soddisfazione la conquista francese dell´Algeria. Come poi Labriola, Marx pensava che con l´arrivo degli europei sarebbero sorte fabbriche, e con le fabbriche si sarebbe formata una classe operaia, indispensabile per fare la rivoluzione.

In realtà le debite informazioni e le altrettanto debite cautele non erano state sufficienti. E l´impresa libica si rivelò subito più complicata del previsto. Anzitutto la popolazione, al contrario delle previsioni, non accolse gli italiani come liberatori. A Sciara Sciat (il 23 ottobre 1911), un sobborgo di Tripoli, reparti dell´esercito italiano caddero in un´imboscata tesa da ufficiali turchi e gruppi di partigiani tripolini, e furono annientati. Tre giorni dopo, in un´altra località, sempre in prossimità della capitale, a El-Messri, seicento soldati italiani colti di sorpresa furono uccisi. La reazione fu severa. La città fu messa a ferro e fuoco e (secondo lo storico Nicola Labanca), forse mille ottocento, sui trenta mila abitanti di Tripoli, furono fucilati o impiccati per rappresaglia. E migliaia di tripolini furono arrestati e deportati in Italia. Ci sono voluti anni, e una lunga sanguinosa repressione, prima che la Tripolitania, e soprattutto la Cirenaica e il Fezzan potessero accogliere migliaia di coloni italiani.

Le tracce italiane sono ben visibili nella Tripoli d´oggi. Negli anni in cui fu governatore dal 1921 al 1925, Giuseppe Volpi (diventato conte di Misurata, località in cui promosse un´operazione militare contro i ribelli arabi) ha compiuto i primi grandi lavori destinati a lasciare un´impronta coloniale italiana in Libia. Ha restaurato la cittadella, senza rispettarne troppo le forme originali, ha costruito grandi edifici tra le case modeste: il palazzo di giustizia, la Banca d´Italia, la cattedrale, la moschea di Sidi Hamuda, il Grand Hotel Municipal, il vicariato apostolico.

L´altro governatore che ha dato a Tripoli un carattere italiano, «littorio», secondo i canoni dell´architettura fascista, è stato Italo Balbo. Dal 1934 al 1940 (anno in cui mori precipitando con l´aereo colpito «per sbaglio dall´antiaerea italiana, mentre sorvolava Tobruk) il gerarca ferrarese portò ingegneri e architetti dalla sua città emiliana affinché erigessero edifici e tracciassero strade. Balbo era contrario all´alleanza con i tedeschi e non voleva la guerra, anche perché sapeva che la Libia era un fronte indifendibile.

Con lui si intensificò, e fu ampiamente propagandato, l´insediamento di coloni italiani, del quale il veneziano Volpi aveva gettato le basi, con criteri imprenditoriali. La vicenda dei coloni in Libia fu un´iniziativa alla quale il fascismo dette toni spettacolari. Il deserto trasformato in orti e in campi di grano diventò ben presto un teatro di guerra seminato di mine e di tombe. Il petrolio che giaceva in profondità sotto gli ortaggi, orgoglio dei coloni, cominciò a sgorgare quando il fascismo era già defunto. E la Libia non era più una colonia italiana. Non era più la « quarta sponda» di Mussolini.

Sconfitto l´esercito italo-tedesco di von Rommel, dal 1943 Tripoli è passata sotto l´amministrazione britannica. E otto anni dopo è diventata capitale della Libia indipendente. Con un monarca. Re Idris. Il quale era il nipote di Sayyid Muhammad bin Ali al-Senussi, fondatore della confraternita dei Senussi. Come emiro della Cirenaica, con Bengasi capitale, Idris è venuto a patti con gli italiani, ma quando il regio esercito coloniale si è mosso dalla costa e ha cominciato ad occupare, dopo il 1920, i territori dell´interno, Idris si è rifugiato in Egitto, da dove ha ispirato la guerriglia contro gli invasori. Si è poi schierato con gli inglesi, durante la Seconda guerra mondiale, ed è ritornato a Bengasi con loro. Promosso anche emiro della Tripolitania, quando la Libia unificata è diventata indipendente lui, Idris, ne è diventato il sovrano.

Un sovrano debole, indeciso, che ha stentato a mantenere il ritmo di un paese ormai con una popolazione in rapido, travolgente aumento (oggi conta almeno sette milione di abitanti), e diventato, grazie al petrolio, un eldorado affollato di società internazionali. La sua neutralità, o indifferenza, durante la guerra del ‘67, il terzo conflitto tra arabi e israeliani, ha provocato sommosse, ed anche un pogrom contro la comunità ebraica, che viveva in Libia da quattro secoli. I seimila ebrei sono dovuti partire da Tripoli con una valigia e venti sterline, lasciandosi tutti i beni alle spalle.

Nel ‘69, il 4 agosto, re Idris ha gettato la spugna. Ha annunciato che tra un mese, il 5 settembre avrebbe abdicato in favore del principe ereditario, Sayyid Hasan al-Rida al-Mahdi el Senussi. Ma il primo settembre, mentre Idris si faceva curare in Turchia, il colonnello Gheddafi ha preso il potere. Ha cancellato la monarchia. Il nuovo re ha regnato un solo giorno. La bandiera di re Idris è rispuntata in questi giorni in Cirenaica, a Tobruk e a Bengasi, al posto di quella verde di Gheddafi che ha sventolato sugli edifici pubblici per più di quarant´anni.

Nota

Sulle imprese italiane in Libia (e in altri paesi africani e non) vedi la cartella “Italiani brava gente”; per la Libia, tra gli altri, l’articolo di Manlio Dinucci.

C´è qualcosa, nel successo strappato a Sanremo dalla canzone di Vecchioni, che intrecciandosi con altri episodi recenti ci consente di vedere con una certa chiarezza lo stato d´animo di tanti italiani: qualcosa che rivela una stanchezza diffusa nei confronti del regime che Berlusconi ha instaurato 17 anni fa, quando pretese di rappresentare la parte ottimista, fiduciosa del Paese.

Una stanchezza che somiglia a un disgusto, una saturazione. Se immaginiamo i documentari futuri che riprodurranno l´oggi che viviamo, vedremo tutti questi episodi come inanellati in una collana: le manifestazioni che hanno difeso la dignità delle donne; la potenza che emana dalle recite di Benigni; il televoto che s´è riversato su una canzone non anodina, come non anodine erano le canzoni di Biermann nella Germania Est o di Lounes Matoub ucciso nel ´98 in Algeria. Può darsi che nei Palazzi politici tutto sia fermo, che il tema dell´etica pubblica non smuova né loro né la Chiesa. Ma fra i cittadini lo scuotimento sfocia in quest´ansia, esasperata, di mutamento.

A quest´Italia piace Benigni quando narra Fratelli d´Italia. Piace Vecchioni quando canta la «memoria gettata al vento da questi signori del dolore», e «tutti i ragazzi e le ragazze che difendono un libro, un libro vero, così belli a gridare nelle piazze perché stanno uccidendo il pensiero». Quando conclude: «Questa maledetta notte dovrà pur finire». Poiché si estende, il senso di abitare una notte: d´inganni, cattiveria, sfruttamento sessuale di minorenni. C´è voglia che inizi un risveglio. Che la politica e anche la Chiesa, cruciale nella nostra storia, vedano la realtà dei fatti dietro quella pubblicitaria.

Massimo Bucchi aveva anticipato, in una vignetta del 19 gennaio 2010, questa rivolta contro il falso futuro promesso dai signori del dolore: «Ha da passà ‘o futuro!». Erano i giorni in cui il governo non s´occupava che di legittimo impedimento, di lodo Alfano costituzionale, di processo breve. Immobile, il tempo ci restituisce senza fine l´identico. Quel 19 gennaio, il Senato si riunì per commemorare Craxi. Colpito poco prima a Milano dalla famosa statuetta, Berlusconi annunciava «l´anno dell´amore».

Forse ricorderemo gli anni presenti per questa collana di eventi, che pian piano travolse giochi parlamentari, patti con un potere imperioso e tassativo con gli altri, mai con se stesso. Ricorderemo questa domanda di politica vera. Ricorderemo, infine, i tanti che non hanno visto montare la marea della nausea, che hanno consentito al peggio per noia, o rassegnazione, o calcolo di lobby. Cerchiamo di non dimenticarlo: ben 315 parlamentari hanno votato un testo, il 4 febbraio, in cui si sostiene che Berlusconi liberò Ruby perché, ritenendola nipote di Mubarak, voleva «evitare un incidente diplomatico».

Ma soprattutto, colpirà nei documentari futuri l´inerte ignavia dei vertici della Chiesa, l´orecchio aperto solo ai potenti, il rifiuto – così poco cristiano – di dire male del male solo perché da questo male sgorgano favori; perché i governanti concedono alla Chiesa il monopolio sui cosiddetti valori non negoziali (il dominio sulla vita e la morte, essenzialmente) purché siano lasciati in pace quando violano la Costituzione, fanno leggi per sottrarsi alla giustizia, mostrano di non sapere neppur lontanamente cosa sia la decenza pubblica. La canzone di Vecchioni, la recita di Benigni, sono punti di luce in una chiusa camera oscura; sono una forza che sta di fronte alla formidabile forza del regime. Una forza cocciuta, insistente, cui l´opposizione è estranea e ancor più la Chiesa.

L´insurrezione interiore avviene anche dentro il mondo cattolico: si parla di un 30 per cento di refrattari, tra frequentatori della messa e presbiteri. Basta scorrere le innumerevoli lettere che parroci e preti scrivono contro i dirigenti in Vaticano, per rendersene conto. Sono lettere d´ira, contro la loro acquiescenza. Micromega dà ai dissidenti il nome di altra Chiesa e sul proprio sito li rende visibili. Le pagine dei lettori sulla rivista di attualità pastorale Settimana sono fitte di denunce del berlusconismo.

Quest´altra chiesa non ne può più dei compromessi ecclesiastici con una destra che nulla ha ereditato dalla destra storica che fece l´unità d´Italia. Ha riscoperto anch´essa il Risorgimento, la Costituzione del ´48. Condivide il dover-essere dei cattolici che Alberto Melloni riassume così: «Una dedizione alla grande disciplina spirituale, un primato vissuto del silenzio orante, un abito di umiltà, un´adesione alla democrazia costituzionale come ascesi politica» (Corriere della Sera 19-12-10, il corsivo è mio).

Tra i criticati il cardinale Bagnasco, che critica il Premier ma per non sbilanciarsi vitupera non meno impetuosamente i magistrati. O che denuncia un disastro antropologico contro il quale però non pronuncia anatemi, preferendo alla chiarezza il torbido di alleanze tra Pdl e Casini che mettano fuori gioco Fini e le sinistre, troppo laici. Contro questo insorgono tanti preti: «Vedete quanto è pericoloso tacere?», chiedono citando Agostino. L´empio pecca, ma è la sentinella che ha mancato: «Chi ha trascurato di ammonirlo sarà giustamente condannato».

Nei paesi nordafricani vigeva simile spartizione di compiti: ai despoti il dominio politico, alle moschee la libertà di modellare l´intimo delle coscienze. L´accordo di scambio sta saltando ovunque, tanto che si parla di fallimento colossale di quella che gli Occidentali chiamavano stabilità. È in nome della stabilità che Berlusconi ha chiamato Mubarak un saggio, e ha detto non voler «disturbare» Gheddafi poco prima che questi bombardasse i libici facendo centinaia di morti. È la stabilità il valore che anima tanti responsabili in Vaticano, perché essa garantisce prebende varie, sconti fiscali per le case-albergo dei religiosi, finanziamenti per scuole.

In cambio si elargiscono indulgenze. Berlusconi dice parole blasfeme, e mons. Fisichella invita a «contestualizzare» la bestemmia. Il Premier è accusato di concussione e prostituzione minorile, e la Chiesa giudica «abnorme» la sua condotta come quella dei magistrati. Afferma Nogaro, vescovo emerito di Caserta: «Noi rimaniamo nello sgomento più doloroso vedendo i gesti farisaici delle autorità civili e religiose, che riescono ad approdare a tutti i giochi del male,dichiarando di usare una pratica delle virtù più moderna e liberatoria.» (Micromega 1/11).

Altri presbiteri ammoniscono contro leggi liberticide sul testamento biologico. Don Mario Piantelli, parroco di San Michele Arcangelo, si associa «alle richieste che da molte parti d´Italia sono indirizzate ai vertici ecclesiastici di alzare forte la voce e di compiere azioni profetiche nei confronti del governo Berlusconi. È necessario un supplemento di libertà evangelica per sganciarsi decisamente da un sistema di governo che, attraverso benefici e privilegi, sembra avvantaggiare il "mondo ecclesiastico", e in realtà aliena e impoverisce i credenti».

La Chiesa ebbe comportamenti non diversi nel fascismo. Sta macchiandosi di colpe simili, e nessuno sguardo profetico l´aiuta a vedere gli umori d´un paese che cambia, che magari non vota opposizione ma è stufo di quel che succede. Che comincia a guardare se stesso, oltre che l´avversario. Il cartello più nuovo, nella manifestazione delle donne, diceva: «Bastava non votarlo». Bastava la virtù dei primordi cristiani: la parresia, il parlar chiaro.

Nel filmato futuro che dirà il nostro oggi saranno convocati gli storici. Potranno imitare Benedetto Croce, quando nei Diari, il 2-12-´43, si mise nei panni di Mussolini e scrisse: «Chiamato a rispondere del danno e dell´onta in cui ha gettato l´Italia, con le sue parole e la sua azione e con tutte le sue arti di sopraffazione e di corruzione, potrebbe rispondere agli italiani come quello sciagurato capopopolo di Firenze(...) rispose ai suoi compagni di esilio che gli rinfacciavano di averli condotti al disastro di Montaperti: "E voi, perché mi avete creduto?"».

L'articolo di Luca Casarini pubblicato sul manifesto del 20 febbraio merita una risposta argomentata, alla quale, peraltro, egli stesso invita. Ricordo che tema del suo intervento è la critica a Nichi Vendola per aver suggerito il nome di Rosi Bindi quale guida della coalizione di centrosinistra. Ora, io non voglio entrare più di tanto nel merito di quella proposta. Ma approfitto dell'articolo in questione perché esso è fondato su alcuni nodi argomentativi che fotografano un modo di pensare la politica, all'interno della sinistra, destinato a sicuro fallimento e a certa sconfitta.

Casarini divide i militanti della sinistra tra quelli che criticano i partiti, persuasi dei loro limiti, ma li votano, e «quelli che ne stanno fuori, convinti che il cambiamento passi solo attraverso un rifiuto della rappresentanza». Ebbene, io - per quel che vale la mia testimonianza - sono fuori dai partiti, li critico aspramente, non li voto da anni, ma non rifiuto affatto la rappresentanza. La rappresentanza della sinistra, oggi in Italia è diventata l'impotenza quotidiana che abbiamo sotto gli occhi. E tuttavia essa significa, potenzialmente, la possibilità che i bisogni e i punti di vista della classe operaia, dei ceti popolari, dei movimenti abbiano voce dentro lo Stato. Tagliarsi un braccio che funziona male, pensando di essere più liberi facendone a meno, è una bizzarria concettuale prima che un pensiero politico. Anche perché, nel momento in cui lo Stato nazionale si indebolisce sotto la pressione dei poteri sovranazionali, abbandonarlo del tutto significa rendere il fronte di lotta ancora più arretrato di quanto già non sia. Aggiungo che la rappresentanza della destra è invece viva e vegeta, manovra a suo piacimento lo Stato e condiziona l'esito delle nostre lotte, degli stessi movimenti antagonisti, per usare il vocabolario di Casarini. Debbo ricordare che cosa la rappresentanza dei nostri avversari ha realizzato negli ultimi anni, grazie anche all'inconsistenza di quella della sinistra nel Parlamento? Debbo rammentare i colpi micidiali inferti dal governo nazionale al territorio, al lavoro, alla scuola pubblica e all'Università, alla politica dell'accoglienza dei diseredati che valicano i nostri confini?

Casarini ci ricorda un motivo ben noto e su cui non si può non concordare. Cacciare Berlusconi non è sufficiente per spazzare via il berlusconismo dalla scena italiana. D'accordo, ma Berlusconi è la «chiave di volta» del berlusconismo. È lui il collante generale, non solo di uno schieramento, ma di un blocco politico-affaristico, come hanno mostrato le inchieste giornalistiche più che non la denuncia del Pd. Per quale ragione, altrimenti, la canea dei servi che lo circonda avrebbe rinserrato i ranghi, ringhiando con tanto unitario furore contro ogni critica nei suoi confronti? Ma il tema Berlusconi mi consente un ragionamento più di fondo e, per alcuni aspetti, drammatico. C'è in tanta sinistra, la sinistra generosa, disinteressata, impegnata spesso duramente sul campo, l'incapacità congenita di comprendere la distanza che passa tra il piano della teoria, della testimonianza culturale, dei nostri ideali, e il territorio opaco e impervio della politica. Una incapacità (e anche, occorre dirlo, una grande difficoltà) che è la madre storica di tante nostre sconfitte. Viene in mente un passo di Gramsci nelle note di Passato e presente: «I grandi progettisti parolai sono tali appunto perché della "grande idea" lanciata non sanno vedere i vincoli con la realtà concreta, non sanno stabilire il processo reale di attuazione». La politica ha a che fare con quel che non ci piace, con le transazioni, gli accordi, i compromessi. Ma la politica è lo stato di forze reali in un momento dato. È il passaggio stretto in cui si possono conquistare margini di potere ma si può anche indietreggiare, subire pesanti e durevoli sconfitte. Ora, è proprio la critica severa alla «rappresentanza» del centrosinistra oggi presente in Parlamento che dovrebbe indurre a una visione più realistica dei rapporti di forza attualmente in campo in Italia. Un ragionamento politico aderente alla «realtà effettuale» delle cose, direbbe Machiavelli, dovrebbe possedere l'intelligenza di immaginare quali sarebbero le conseguenze, per la sinistra e per l'intero Paese, in caso di una nuova vittoria di Berlusconi. Perché, viste le condizioni dell'attuale opposizione, l'ipotesi non è del tutto remota. Qualcuno ha provato a "simulare" mentalmente che cosa accadrebbe, in questo caso, alle istituzioni della democrazia italiana, o la cosa non ci interessa, perché siamo antagonisti e puntiamo a dare l'assalto al Palazzo d'Inverno? Qualcuno ha provato a immaginare che cosa accadrebbe, dopo tante lotte, al fronte del lavoro, ai contratti collettivi, al potere sindacale in fabbrica? Qualcuno ha fatto lo sforzo di prefigurare quale devastante delusione si diffonderebbe nelle file multiformi della sinistra,tra le donne e gli uomini che hanno così appassionatamente lottato in questi anni, quali laceranti rancori finirebbe per lacerarla per almeno un decennio?

Da ultimo, una parola sulla proposta in sé da parte di Nichi Vendola. Non seguo così dall'interno i giochi quotidiani dei partiti. A me, francamente, la proposta è sembrata di grande intelligenza politica. E non a caso gli oligarchi del Pd l'hanno rapidamente seppellita. Il cosiddetto "gelo" della Bindi è una comprensibile moina formale. Che cosa non va in quella proposta? La Bindi è uno dei pochissimi dirigenti di quello schieramento a conservare un profilo politico avanzato e non neoliberale. È una donna che sa parlare ai bisogni della grande maggioranza delle donne italiane. È una cattolica non bigotta, che potrebbe raccogliere consensi in quel mondo senza genuflettersi. È un personaggio che potrebbe tenere insieme una coalizione eterogenea per un passaggio temporaneo ma realisticamente obbligato se si vuol battere Berlusconi. O non è così, viste le posizioni attuali del Pd? È Vendola da solo che può conseguire la vittoria? E allora? Non accettiamo la proposta perché questo sconfiggerebbe Berlusconi e non il berlusconismo? Non partiamo perché il treno si ferma a metà strada e noi restiamo in attesa, perché vogliamo prendere solo quello che giunge alla meta? Casarini preferisce le primarie. Le preferisco anch'io. Ma le decide il gruppo del Pd, non le decide Nichi Vendola, che non può restare a guardare una situazione che marcisce. Anch'io preferirei un governo formato dai pochissimi dirigenti che stimo, e magari vedere sventolare le nostre bandiere vittoriose davanti al Parlamento. Ma questo è il sogno. La realtà ci dice ben altro. Il materiale che dobbiamo maneggiare è di scadentissima qualità. E le ombre del ventennio berlusconiano rischiano di allungarsi sinistramente sul nostro futuro.

www.amigi.org

Di seguito l’articolo di Luca Casarini cui Bevilacqua replica

Caro Nichi, è questa la nuova narrazione?

di Luca Casarini

L'uscita con cui Nichi Vendola ipotizza forma e conduzione di quella che viene definita «alleanza democratica» contro Berlusconi mi trova in profondo disaccordo. Voglio comunicarne le ragioni per tentare di aprire un dibattito politico vero non solo con Nichi, ma anche con coloro che guardano queste cose in maniera diversa: quelli che stanno dentro i partiti della sinistra, o li votano, ma percepiscono tutti i limiti che essi incarnano e quelli che ne stanno fuori, convinti che il cambiamento passi solo attraverso un rifiuto della rappresentanza. Questi due modi di vedere il problema, quello critico e quello antagonistico, li considero fondamentali entrambi per ogni processo costituente che provi ad affrontare seriamente il nodo dell'alternativa in questo paese.

Beninteso, con tutta l'umiltà e la profonda amicizia per Nichi, che chi scrive segue con attenzione perché nel desolante panorama della sinistra italiana, di certo non c'è stato nient'altro, oltre ai movimenti che si autorappresentano, di così interessante come il percorso descritto dalle sue «fabbriche» e dall'idea di «nuova narrazione» sottintesa anche dalla grande richiesta delle primarie.

Ma lo stare dentro l'eterno limbo di una transizione che non finisce mai, quella di uscita dal ventennio berlusconiano, evidentemente logora e affatica. E dunque bisogna aiutarci tra tutti, stimolarci a vicenda per non finire in cose già viste, e già sconfitte dalla storia.

Il cattivo uso della tattica

Veniamo alla questione delle dichiarazioni di Nichi: le considero sbagliate sia nella sostanza che nei tempi. Appare quasi superfluo dire che la «mossa del cavallo», come viene definita, tutta giocata per mettere in difficoltà il quadro dirigente del Pd, è pura tattica. Uno dei mali della sinistra italiana è questo continuo gioco di tattica, capace di trasformare in politicismo ogni cosa. La tattica, in politica, dovrebbe essere usata con parsimonia, e mai sostituirsi alle ragioni, alle speranze, agli ideali e alle convinzioni.

Bisognerebbe, di questi tempi innanzitutto, vergognarsi un po' di ricorrere a mosse tattiche, esserne onestamente e pubblicamente imbarazzati, perché tattica è un sinonimo ormai di assenza di proposte vere, di alternativa. Suggerire la Bindi come leader di uno schieramento innaturale come quello immaginario che mette insieme tutti, da Fini a Vendola appunto, può apparire «geniale» a chi vive la politica dai Palazzi, a chi la osserva solo tramite sondaggi, organigrammi, equilibri di potere. Per il «popolo», invece, è semplicemente disarmante.

Quello stesso popolo che ci crede veramente al fatto che più che Berlusconi, come diceva Vendola, bisogna battere il berlusconismo. Cioè quel tanto di Marchionne e della Gelmini che c'è dentro i programmi degli oppositori «democratici» di Berlusconi, quella dose di pericoloso giustizialismo che pure anima anche coloro che farebbero di tutto per buttare giù il Cavaliere, quell'idea di etica pubblica che scivola rapidamente verso il moralismo patriottico dei vizi occulti, che sacralizza istituzioni che invece andrebbero rese terrene e contradditorie, e per questo più vicine alla realtà degli uomini e delle donne che dovrebbero servirsene, non esserne prigionieri. È un fatto culturale, prima che politico, e proprio per questo, culturalmente, nessuna tattica può giustificare l'idea che il problema risieda solo in un uomo, per quanto potente ed odioso esso sia.

Con i «se» non si costruisce nulla

I tempi sbagliati, persino incomprensibili, dell'uscita di Nichi, aumentano la preoccupazione: ma è tattica oppure, peggio, convinzione? Certo, perché quella proposta forse avrebbe messo in difficoltà il Pd e coloro che non vogliono le primarie, se le elezioni fossero alle porte, se il Quirinale si preparasse a sostituire un governo con un altro, se la Lega togliesse la spina, se, se... ma la vita nuova non si costruisce con i se. Abbiamo già la versione veltroniana, quella del «ma anche», ci manca solo quella di continui «se...».

Tempistica controproducente dunque, anche rispetto alle migliori intenzioni, e sostanza preoccupante: siamo veramente convinti che la Santa Alleanza, che si dice dovrebbe limitarsi a fare due o tre cose, sia una strada culturalmente prima che politicamente praticabile? Io penso il contrario.

Servono idee e pratiche nuove

Per «sparigliare» le carte in tavola, servono idee nuove, sul reddito e sul lavoro, sulla crisi ambientale e su quella finanziaria, sul conflitto di genere. Nuove idee e nuove pratiche sulla democrazia e anche sulla rappresentanza, che sono materie in crisi terminale e vanno affrontate con cure shock: le primarie o sono questo o diventano sì una specie di americanata giocata in provincia, come in qualche caso può succedere.

Ho imparato anche da Nichi che le proprie biografie vanno superate, se si vuole ambire ad un «comune» politico e sociale. Ma mi spingo a dire che bisogna farlo non solo con quelle personali, ma anche con quelle collettive: bisogna indicare l'oltrepassamento del partito, del sindacato, del movimento così come li abbiamo conosciuti e così come ci siamo rapportati ad essi finora.

Un patto continuo

Anche per questo, l'ordine simbolico che le cose assumono, in questo caso dichiarazioni a mezzo stampa, non può riguardare semplicemente i sondaggi o il consenso: esso stipula con la nostra vita un patto continuo, producendo l'orizzonte che ci è necessario vedere per potere rimetterci in cammino.

Il nostro, di tutti, non può essere che quello di una grande marcia per la democrazia, che si gioca dentro e fuori, nei vecchi meccanismi della rappresentanza in crisi e nelle piazze piene di gente che vorrebbe essere nuova, e quindi ha bisogno di una innocenza che diventi originalità, di un sodalizio che diventi amicizia, di una franchezza che sia verità. Su questo, proprio perché mi interessa contribuire e penso che nulla sia facile, vorrei che si aprisse una discussione.

Silvio Berlusconi ha fatto le cose in grande con Gheddafi. Gli ha aperto le porte, lo ha accolto come uno statista internazionale, lo ha promosso come un interlocutore politico credibile e affidabile, suscitando la preoccupazione e spesso l’indignazione delle cancellerie occidentali. Ha fatto anche di più, sul piano personale, con tutte quelle tende beduine piantate a Roma e le inquietanti guardie femminili a protezione del satrapo. Berlusconi è stato il presidente del Consiglio che si è speso senza limiti per rafforzare i legami politici e soprattutto economici con la Libia, ha varato il “Trattato di amicizia”, ma non sarebbe giusto attribuire esclusivamente al premier la responsabilità di questi imbarazzanti patti d’affari con la Libia, proprio mentre il regime reagisce alla protesta della popolazione distribuendo violenza e morte.

L’Italia pacifica e affarista è il primo partner commerciale della Libia, le nostre imprese guardano da tempo a Tripoli come un’occasione, un interlocutore ricco, di petrolio e di risorse finanziarie, investitore fedele e duraturo nei settori strategici dell’economia. Le grandi imprese nazionali, tutte, hanno realizzato affari con il paese nordafricano, hanno coltivato relazioni spudorate con il raìs e il suo regime dimenticando, come spesso accade nel mondo dominato dal profitto, i diritti, l’etica, la democrazia, variabili secondarie per chiunque pensi esclusivamente all’ultima linea del conto economico. Oggi sono un centinaio le imprese tricolori attive in Libia, che cercano di evacuare i loro dipendenti dal paese africano e sperano che la crisi si esaurisca presto per poter tornare al business di sempre.

L’Eni è presente in Libia da mezzo secolo, dai pozzi nel deserto arriva il 24% del petrolio importato in Italia e il12%circa del gas. Le concessioni a favore dell’Eni sono state prolungate di altri 25 anni e Tripoli è entrata nel capitale dell’Eni con l’1%, con l’ambizione di crescere di molto. La Libia «è la pupilla dei miei occhi perchè investiremo in questo paese 25 miliardi di dollari» ha detto Paolo Scaroni, amministratore delegato del nostro colosso petrolifero. E ha aggiunto: «Da Gheddafi a Chavez sono tutti bravi, buoni, belli perchè per me sono tutti clienti». Questa è la filosofia di un manager pubblico. La storia, si sa, è sorprendente perchè offre spesso novità impreviste, belle o brutte che siano.

Gheddafi è una brutta bestia e lo si sapeva da molto tempo. Ma quando negli anni Ottanta la Lafico (Lybian foreign investment company), finanziaria d’investimento della ex colonia, arrivò a Torino per dare unamanoalla Fiat in emergenza, venne accolta con tutti gli onori, restò in silenzio nel capitale con famiglia Agnelli.Quando nel 1986 la Lafico liquidò l’investimento realizzandoun bel profitto, Gianni Agnelli riconobbe: «Sono stati investitori seri e corretti». Oggi i libici hanno il 7,5% del capitale della Juventus perchè la famiglia Gheddafi ha sempre avuto un debole per il calcio e un figlio militò senza grandi performance nel Perugia di Luciano Gaucci. Nel 2002, per far contento il raìs, la Federcalcio trasferì la finale della Supercoppa italiana a Tripoli.

Più seriamente il peso dei capitali libici in Italia si è manifestato un paio d’anni fa quando l’Unicredit, uno dei maggiori istituti di credito europei, si trovò immerso nella crisi finanziaria internazionale. Per sottoscrivere l’ingente aumento di capitale, a un prezzo che era il triplo dei valori di Borsa del momento, Cesare Geronzi, allora presidente di Mediobanca e garante dell’operazione di Unicredit, chiamò gli amici libici, che già lo avevano aiutato nella Banca di Roma e in Capitalia. La Banca centrale della Libia e la Lybian investment authority (Lia), un fondo dotato dicirca 50 miliardi di dollari, hanno mostrato una grande generosità, addirittura eccessiva per la Lega di Bossi, sottoscrivendo complessivamente una quota vicina al7%del capitale per uncontrovalore di 2,5 miliardi di euro. I libici oggi sono i primi azionisti di Unicredit ed esprimono il vicepresidente, Farhat Omar Bengdara, governatore della banca centrale libica. Sull’asse con Geronzi la Libia ha manifestato interesse per Mediobanca, che orienta gli investimenti libici in Italia, per le Assicurazioni Generali, per Telecom Italia, per Finmeccanica e per Impregilo. Queste ultime due società hanno raccolto ricche commesse in Libia. Non c’è dubbio che oggi la crisi libica possa avere ripercussioni gravi sulla stabilità degli assetti azionari di Unicredit e, di riflesso, anche delle imprese partecipate dalla banca. Un segnale è arrivato ieri dalla caduta della Borsa di Milano (-3,59%).

Berlusconi e le imprese italiane seguono con apprensione la caduta dei capi dei regimi del Nord Africa: prima l’amico Ben Ali in Tunisia, poi l’amico Mubarak in Egitto, oggi l’amicoGheddafi in Libia. Chi sarà il prossimo?

Due cambiamenti, sufficienti per segnare la svolta di un´epoca, sono già intervenuti mentre le rivolte nel mondo arabo sono ancora in corso. E la repressione è sempre più sanguinosa in Libia. Il nuovo capitolo di storia non riguarda soltanto i paesi che ne sono il teatro. La zona sensibile, dall´Algeria all´Iran, rappresenta il 36 per cento della produzione mondiale di petrolio. Questo è quel che ci riguarda sul piano concreto, insieme ai rischi di guerre non soltanto civili, in una zona ricca di conflitti latenti, alle porte dell´Occidente europeo. Sul piano politico, ideologico, morale, quel che sta accadendo è inoltre destinato a sconvolgere, a rovesciare il pregiudizio occidentale sul mondo arabo musulmano. Il famoso conflitto di civiltà.

Il primo cambiamento già avvenuto è che uomini e donne rivendicano i diritti dei cittadini di uno Stato democratico, e quindi rifiutano il modello del rais, onnipotente e insostituibile, dominante dall´Atlantico all´Oceano indiano per decenni. Dopo il tunisino Ben Ali e l´egiziano Mubarak, adesso traballa anche Gheddafi, caricatura dell´autocrate arabo miliardario in petrodollari, in esercizio da più di quarant´anni. Altri birilli cadranno.

Cercando di svelare i misteri che inevitabilmente annebbiano i fenomeni rivoluzionari appena esplosi, gli storici più audaci azzardano un paragone: evocano la «primavera dei popoli» del 1848, che in qualche mese sconvolse in Europa il sistema politico creato dal Congresso di Vienna. Dopo grandi sacrifici, generose esaltazioni ed enormi speranze, le rivoluzioni d´allora, verificatesi a catena, dalla Sicilia dei Borboni alla Parigi di Luigi Filippo, fallirono una dopo l´altra.

Stiamo quindi assistendo a insurrezioni popolari, al di là del Mediterraneo, destinate a fallire? Come nell´Europa dell´800 ritornarono le monarchie autoritarie o si formarono nuovi imperi, cosi potrebbero ritornare i rais di cui gli arabi si sono appena liberati o si stanno liberandoo vorrebbero liberarsi? Gli interrogativi restano. Ma forse gli storici sanno soprattutto predire il passato. I nostri sono tempi veloci. I popoli insorti hanno sotto gli occhi i modelli democratici. Le immagini, le informazioni, scavalcano le frontiere e le censure.

Il secondo cambiamento, sottolineato da Henry Laurens, storico del mondo arabo, riguarda l´immagine che gli arabi hanno di se stessi e che da noi era tanto diffusa, al punto da essere un´ossessione. Il manifestante di piazza Tahrir al Cairo o di avenue Burghiba a Tunisi, e l´oppositore al regime di Gheddafi che sacrifica la vita a Benghasi, hanno sostituito l´immagine del terrorista barbuto e fanatico.

I popoli, le cui civiltà erano state umiliate dal colonialismo, decisi a ritornare sulla scena internazionale, si riunirono a Bandung (1955), per celebrare la sovranità dei loro Stati, l´indipendenza nazionale appena conquistata, ed anche per affermare, in certi casi, le loro fedi religiose.

Lo ricorda Jean Daniel, ed io ricordo le corrispondenze di un vecchio reporter, Cesco Tomaselli, mandato nella città indonesiana dove si svolgeva la conferenza, in cui i partecipanti (tra i quali Chou En-lai, Nasser, Tito, Nkrumah, Nehru) venivano descritti, o meglio derisi, come espressioni di civiltà inferiori, scimmiottanti i veri grandi della Terra.

Poco più di mezzo secolo dopo non è più questione di nazione indipendente e di affermazione dell´identità religiosa. Il vecchio cronista, allora convinto rappresentante di una civiltà superiore, scoprirebbe adesso che i giovani tunisini, egiziani, yemeniti, marocchini e anche libici, dei quali non avevamo l´impressione di conoscere i volti, perché il loro paese sembrava incarnato soltanto da Gheddafi, e dalle sue grottesche stravaganze, rivendicano diritti individuali e libertà.

Senza esprimere esigenze religiose. Senza limitarsi a richiami nazionalisti. Esattamente come gli europei del 1848, ma anche come quelli degli Anni Quaranta, della lotta antifascista, e del 1989, dopo la caduta del Muro. La storia si è ricongiunta. Il computer e i suoi derivati hanno aperto uno spazio incontrollabile per gli sgherri del raìs e offrono strumenti comuni a civiltà sempre meno divise. Le idee corrono più facilmente. Conquistano anche i soldati, i coscritti, che dovrebbero reprimere ma che sono spesso sensibili agli slogan dei coetanei pronti a sfidare la polizia di Mubarak e di Ben Ali e gli aerei di Gheddafi.

Gli sconfitti non sono soltanto i rais, a lungo prediletti dalle potenze occidentali, in quanto guardiani dei loro popoli, pronti a combattere, a reprimere le tentazioni integraliste appena affioravano nella società. Anche le correnti estremiste dell´Islam hanno subito una disfatta, perché la sognata rivolta popolare non è stata guidata da loro. Li ha colti di sorpresa. Anzi ha investito lo stesso Iran, dove gli oppositori del governo teocratico hanno rivendicato le stesse libertà chieste a Tunisi, al Cairo, a Tripoli.

Questo ha contato nell´atteggiamento americano. Gli Stati Uniti di Barak Obama sono stati determinanti in Egitto. Questa volta la forza si è messa al servizio della giustizia. Senza l´insistente intervento di Washington i generali del Cairo non si sarebbero risolti tanto presto a sbarazzarsi del presidente, che era anche il loro comandante supremo.

Obama ha mantenuto la promessa fatta due anni fa con il discorso del Cairo, rivolto al mondo musulmano. Ha appoggiato i movimenti democratici, pur compiendo qualche contorsione diplomatica. Per non compromettere troppo la stabilità di vecchi alleati dell´America tutt´altro che democratici. Ad esempio l´Arabia Saudita, insidiata dalla rivolta sciita di Bahrein.

Anche l´Europa è stata fedele ai suoi principi condannando la repressione e pronunciandosi in favore degli oppositori in rivolta. Soltanto l´Italia di Berlusconi ha mancato all´appuntamento d´onore per un paese democratico. Se l´insurrezione libica affogherà nel sangue, il governo italiano avrà la sua parte di vergogna.

La notizia è che uno dei forzieri con cui in anni di dominio, influenza e sviluppo vigilato l'Occidente ha regolato il rapporto Centro-Periferia sta cedendo a una pressione ormai fuori controllo. L'ampiezza del fenomeno è tale da offuscare i casi singoli. Non ci sono più alcuni «cattivi» spazzati via o sul punto di essere travolti dalla protesta delle rispettive piazze con il loro carico di frustrazioni, disoccupazione e voglia di libertà. Il contagio può aver fatto da detonatore ma all'origine ci sono cause più profonde. È sul punto di crollare un intero sistema di «sicurezza» che andava ben oltre la tutela degli interessi personali, clanici o dinastici di rais, generali, colonnelli e sceicchi. E quando sarà il turno dell'Arabia Saudita?

Finita l'epoca coloniale, il Terzo mondo è stato oggetto di un presidio accurato. Man mano, nel mezzo secolo della guerra fredda è toccato all'America centrale, al Sud-Est asiatico o all'arco della crisi in Africa di occupare il proscenio, ma il Medio Oriente è stato l'epicentro fisso di tutte le strategie di contrasto.

Il primo conflitto dopo il 1989 ha avuto come teatro il Golfo. Si intuì subito che il neo-impero stava traslocando gli apparati militari e para-ideologici da Est a Sud. Dal contenimento dell'Urss e della rivoluzione si passò all'Iraq, all'Iran e finalmente alla «guerra al terrore». Di volta in volta si è trovata la causa per legittimare il «grosso bastone». Si è creduto che gli alti e bassi nel Medio Oriente andassero misurati con parametri di tipo culturale fingendo che le dinamiche sociali e politiche interne, con tutti gli impedimenti che rendono così ardue le transizioni alla modernità di paesi arretrati e soggetti da tempo a forme svariate del potere altrui, non fossero condizionate e manipolate da forze esterne. L'orientalismo come approccio agli affari del mondo arabo-islamico ha dimostrato di auto-riprodursi fino a oggi. Non per niente Bernard Lewis, il principale bersaglio delle polemiche innescate dal famoso libro di Edward Said, è ricomparso come consulente nelle guerre di Bush che Obama ha dovuto coprire perché nel frattempo si è trovato a farle proprie.

Né i «moderati» alla Ben Ali né i «radicali» alla Gheddafi hanno retto alla prova. Gli oneri sulle spalle dei regimi della Periferia sono esagerati sia in termini economici che in termini morali. Alla lunga diventano insostenibili. Qui si può capire la contestualità delle vampate. Sono stati impiegati metodi autoritari, la distribuzione della rendita è stata iniqua, la crescita dell'economia non ha tenuto il passo della demografia. Mubarak e gli altri non sono stati semplicemente appoggiati da Europa e Stati Uniti: hanno combattuto una guerra, silenziosa o rumorosa a seconda dei momenti, per difendere il petrolio, le grandi linee di comunicazione internazionali, Israele e da ultimo le nostre spiagge dagli sbarchi dei clandestini.

È ingeneroso infierire contro Berlusconi, piccola rotella di un meccanismo tanto più grande di lui. Per colmo d'ironia, a ballare mentre il Titanic va verso l'iceberg del destino non sono i passeggeri ignari ma lo stesso comandante in capo visto che gli Stati Uniti proprio in questi giorni hanno bocciato con il veto l'ennesima, vana risoluzione dell'Onu sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Come sempre, i grandi eventi si accompagnano a piccoli vizi.

A scuola, all'università ci spiegavano (e dovevamo farci gli esami) che nello Stato c'erano tre poteri: il legislativo, cioè il parlamento, l'esecutivo, cioè il governo, il giudiziario, cioè la magistratura. Ma nelle nostre università, quelle della Repubblica italiana fondata sul lavoro, continua un bel silenzio sul potere dei soldi. Il quarto potere, che non sta scritto nella Costituzione, ma che c'è e decide.

Oggi Berlusconi è nei guai seri, la stampa internazionale lo indica come un governante impresentabile, ma il presidente del consiglio resiste e non solo al potere giudiziario, l'unico che cerca di metterlo di fronte alle sue responsabilità.

Stando le cose come stanno anche noi del manifesto dovremmo scrivere che Berlusconi sta vincendo. La ribellione dell'antagonista Fini è agli stracci, il potere legislativo è in vendita, oggetto di acquisti, singoli e di gruppo. Sarebbe bello e democratico conoscere il prezzo dei singoli parlamentari. Il povero Fini ne sta facendo le spese. Futuro e Libertà è in vendita e penso che Fini abbia oggi una nostalgia del Msi e anche del fascismo, dove i soldi correvano, ma c'era una dittatura.

I soldi. Pensiamo ai soldi. Pensiamo a un Silvio Berlusconi senza denari: sarebbe già in galera per non so quanti reati. Anzi non sarebbe neppure in Tribunale, sarebbe stato cancellato.

Ma c'è il mercato e il mercato è il luogo delle vendite e degli acquisti e la sua legge è incrollabile: chi può comprare compra e chi non può comprare svende. Il potere legislativo, una volta che i parlamentari sono stati eletti, è anch'esso mercato, come vediamo in queste settimane. Il nostro Cavaliere può comprare le escort e anche gli eletti dal popolo. E se si va al processo, avanzato dal potere giudiziario, il potere dei soldi può comprare anche i testimoni. Qualcuno può pensare che una escort, che abbia detto di aver avuto rapporti con Berlusconi da minorenne, non smentirà in tribunale la precedente affermazione? E il potere giudiziario potrà far altro (a parte allungare i processi) che tenere in debito conto la nuova testimonianza?

Rischio di apparire paleomarxista, ma immaginatevi un po' come andrebbero le cose se Berlusconi fosse povero, o avesse anche un buon stipendio e basta. Provate a immaginare.

Postilla

Come abbiamo già ricordato, nel 1994 Berlusconi era ineleggibile, perchè concessionario dello Stato, secondo una legge vigente. Fu salvato con un "cavillo", mediante una serie di decisioni sostanzialmente bipartisan. Vedi i dettagli nel libro di Paolo Sylos Labini, Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, Editori Laterza, 2003, p. 46 e segg

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