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La legge della natura delle cose contro le norme della giustizia: la forza del più forte contro quella della legge. Una storia che si ripete da secoli ma che ogni volta che riappare sembra nuova, inedita e diversa. Le recentissime esternazioni del presidente del Consiglio sono un florilegio da manuale sul rischioso cammino nel quale una democrazia si immette quando consente a un cittadino che ha acquistato già troppo potere economico e mediatico di coprire incarichi di governo. Il rischio si sta dimostrando fatale, soprattutto perché viviamo nell’era della audience leadership, dove la propaganda viaggia non più attraverso partiti strutturati ma invece il fluido mondo delle immagini e delle opinioni dette e non falsificabili. Antico e moderno si uniscono tuttavia, poiché nonostante la forma mediatica e da gossip con la quale si alimenta il plebiscitarismo di oggi, la sostanza e la tentazione restano le stesse, poiché, dopo tutto, la natura umana è fatta delle stesse passioni, in primo luogo quelle che spingono a ottenere il "massimo" di godimento da ciò che piace: dal potere di comandare masse di sudditi facendo loro bere ciò che è non è nel loro interesse e come se lo fosse, a quello di gestire un commercio largo e capiente di procuratori e procuratrici di piacere. Però, nonostante la natura immoderata del potere, sarebbe sbagliato pensare che il plebiscitarismo si sorregga solo sul potere del leader, che tutto nel bene e nel male sia a lui solo imputabile. Nessun regime si sorreggerebbe più di una manciata di ore senza il sostegno di un gruppo di fedeli e senza consenso. Il plebiscitarismo nasce del resto nella democrazia, che è una forme di governo fondata sul consenso.

Dunque, partiamo da questa ovvietà: nessun governo può sussistere senza consenso. Nemmeno i tiranni possono permettersi il lusso di stare al potere senza fare affidamento su un qualche sostegno da parte dei loro sudditi; diversamente dovrebbero mettere un guardiano a sentinella di ciascun suddito con la conseguenza di trasformare il paese in una caserma. A questo inconveniente i governi totalitari hanno provveduto facendo dei sudditi docili militanti dell’ideologia di governo. Ecco dunque che la differenza tra Paesi governati dispoticamente e Paesi liberi non consiste semplicisticamente nel fatto che questi ultimi sono governati per mezzo dell’opinione mentre i primi per mezzo della forza. Entrambi sono, in forme e con intensità diverse, governati anche grazie al sostegno dell’opinione e del consenso di chi occupa le istituzioni. I governi autocratici cadono quando l’élite di governo si fraziona e rompe il consenso, come avvenne appunto con il Gran consiglio fascista il 25 luglio 1943. I governi liberi, invece, cadono quando il Parlamento toglie la fiducia alla maggioranza che governa. La differenza fra i due tipi di regimi sta nel fatto che in quelli dispotici i sudditi obbediscono a un potere il quale non è certo che sia espressione della loro opinione poiché non godono della libertà di gridare forte il loro dissenso; mentre nel caso dei governi liberi cittadini ed eletti sanno di essere consapevolmente e volontariamente, in forma diretta o indiretta, gli agenti e i sostenitori del governo che hanno. È a questi ultimi che dobbiamo dirigere la nostra attenzione quando parliamo di plebiscitarismo democratico, nel quale dunque la responsabilità del consenso è principalmente imputabile a coloro che sono stati eletti e operano nelle istituzioni.

Il Parlamento ha una responsabilità diretta nelle persistenza del governo democratico. Lo si è visto molto bene con la recente votazione sul caso Ruby o quella sulla fiducia del dicembre scorso. In entrambi i casi, il Parlamento ha dismesso una delle sue due funzioni fondamentali, quella per la quale la sua presenza è segno distintivo della nostra libertà: la funzione di veto. Poiché il rapporto del Parlamento con l’esecutivo non è né di predellino né di copertura. I parlamentari hanno infatti mandato libero e nessuno, nemmeno il capo del loro partito, può costringere la loro volontà decisionale: su questa loro libertà sta la doppia funzione del Parlamento, quella deliberativa ovvero di produrre una maggioranza e quella di veto o limitazione del potere del governo. Il Parlamento non è mai un docile e passivo sostenitore del governo. Quando dismette la sua funzione di veto, esso diventa cassa di risonanza del governo e spalanca le porte al plebiscitarismo che la propaganda mediatica rinforza quotidianamente. Come l’opinione pubblica, il Parlamento diventa un potere docile nelle mani del leader.

Il presidente del Consiglio è consapevole di avere in mano il Parlamento quando riesce a neutralizzarne il potere di veto. Sa anche che due altri poteri di fermo gli sfuggono ancora di mano: la Presidenza della Repubblica e la giustizia. Da questa consapevolezza scaturiscono le sue recentissime esternazioni: cambiare la Costituzione per rendere tutti i contro-poteri docili al suo potere. Di fronte a questo rischio evidente, il Parlamento dovrebbe sentire la responsabilità del suo ruolo poiché è un fatto che nella democrazia elettorale i governi non dovrebbero cadere con la mobilitazione delle piazze, ma nel Parlamento. È possibile rendere il rischio gravissimo che sta di fronte alla nostra già compromessa democrazia costituzionale in questo modo: al Parlamento spetta il compito di riprendersi la sua completa autonomia, che è di rendere possibile una maggioranza e di fungere da veto. Più ancora, di impedire che tutti i poteri di veto e di controllo siano resi docili e addomesticati.

Lampedusa? L´isola è svuotata, ora è tutto a posto, dice Berlusconi. Sì, svuotata l´isola come ripulita Napoli, come ricostruita l´Aquila. Le notizie degli sbarchi smentiscono in diretta l´ottimismo dell´imbonitore. Ma c´è dell´altro. Ci sono i rapporti con gli altri Paesi europei, Francia e Germania in particolare. Qui manca ogni accordo sulla gestione dei flussi umani dall´Africa. Niente paura, dice il premier: «Se non fosse possibile arrivare ad una visione comune, meglio dividersi». Questa è dunque la ricetta dello statista: la divisione dell´Italia dall´Europa.

Divisione: la parola è sorta spontanea sulle labbra del premier non certo per caso. Quella parola aleggia da tempo nella realtà della vita del Paese. Nello spazio dei pochi giorni trascorsi dalla festa dei 150 anni dell´Italia unita il Paese che si era faticosamente ritrovato all´ombra del tricolore si presenta oggi lacerato come non mai, diviso non solo fra Nord e Sud ma fra una regione e l´altra, fra una borgata e l´altra. Così, a festa finita, la questione dell´unità ci appare oggi come un problema serio e grave.

La festa dell´Unità d´Italia poteva essere un´occasione importante per ripensare alla storia e alle prospettive del Paese. Ma alla festa si è associata una cattiva compagna di strada: la retorica dell´unità. Chiamiamo retorica dell´unità ogni lettura del passato e del presente che ignora le fratture, esalta il processo di unificazione come un moto armonioso e concorde e tenta di cancellare differenze e divisioni col silenzio, con la proposta di una storia ufficiale corretta "ad usum delphini" e con l´eliminazione delle tracce istituzionali e simboliche delle fratture profonde del Paese.

"Io amo l´Italia" è una di quelle espressioni della neolingua berlusconiana che hanno fatto breccia nel nostro parlare, così come la teatralità dei gesti patriottici di ministri che scimmiottano l´inevitabile modello americano quando si mettono la mano sul cuore davanti alla bandiera. Ma sono anni ormai che la retorica dell´unità si accompagna in Italia a una revisione o piuttosto alla decisa espurgazione della storia documentata del Paese diviso e feroce che abbiamo alle spalle. In questo contesto bisogna certamente accogliere e dare credito alla giusta preoccupazione di chi invita a guardare a ciò che unisce e a mettere la sordina a ciò che divide. È un invito sacrosanto se si tratta di unirci per affrontare i problemi e le fragilità che minano la società italiana e la allontanano dall´ideale che ebbero in mente i patrioti del Risorgimento e i combattenti della libertà repubblicana contro il nazifascismo. Ma non può diventare una autocensura unilaterale mentre il nemico della vera unità guadagna posizioni su posizioni. Davanti alla lacerazione del tessuto del Paese abbassare i toni rischia di valere come una rinunzia a difendere i diritti fondamentali dell´uomo e del cittadino.

E questi diritti si difendono partendo dalla condizione di chi diritti non ne ha: il dannato della terra, la figura dai tanti nomi – il rifugiato, l´immigrato, il clandestino. Chiediamoci quale immagine e quale esperienza dell´Italia abbiano oggi i profughi che, sopravvissuti a tragedie senza nome, riescono con enormi rischi e difficoltà a toccare le coste meridionali e insulari del Paese. Queste donne, questi uomini, non hanno storia per noi, sono i dannati della terra, sono il popolo senza nome dei sommersi. Ma, se non diventano letteralmente tali annegando nel Mediterraneo, se sopravvivono e se riescono a fare come quegli emigranti italiani che trovarono in altri Paesi società più libere e giuste, un giorno saranno loro stessi o i loro figli che scriveranno la storia vera del nostro tempo, quella che vivono e di cui oggi sono le vittime. E non sarà la storia di un´Italia unita. Sballottati da una regione all´altra, sempre però al di sotto di quella linea gotica che nel nome porta la memoria di antiche e recentissime fratture del Paese (la lingua è spesso un inesorabile quanto inascoltato documento storico), accolti dalla canea di folle incoraggiate dalla politica di una forza politica razzista e xenofoba che mira al disfacimento del Paese, sono i testimoni autentici dello stato di salute dell´Italia di oggi.

Se fossimo capaci di guardare le cose dal loro punto di vista capiremmo forse quanto l´unità oggi sia qualcosa di sideralmente lontano dalla realtà quotidiana oltre che dalla prospettiva futura del Paese. E non è certo un caso se quei profughi non vogliono restare in Italia e si dirigono verso altri Paesi, verso quell´Europa da cui oggi ci si vorrebbe addirittura dividere. Quella parola "divisione" affiorata oggi nelle esternazioni del premier è da prendere sul serio: è grazie al suo governo, grazie a un ministro degli Esteri che si occupa di Antigua e a quello degli Interni che pensa alla Padania, oggi l´Italia non solo non ha più una politica mediterranea, ma non ha da tempo nessun credito e nessun peso nella politica europea. Ci sarà modo di risalire da questo abisso? Forse: ma certo non con questi uomini: non con una maggioranza sedicente di governo che passa le sue giornate in Parlamento affannandosi a regalare a ogni costo una nipotina all´esiliato signore dell´Egitto.

«Il triumvirato di Francia, Gran Bretagna e Stati uniti ha violato la Risoluzione 1973 che invocava "sforzi umanitari per evitare che i militari di Gheddafi entrassero a Bengasi", schierandosi a favore degli insorti con i raid della Nato e ora armandoli. Consapevoli così di mettere al sicuro le maggiori riserve di petrolio libico in Cirenaica, di fronte ormai all'inaffidabile Gheddafi»

«L' attacco militare alla Libia da parte del triunvirato imperiale di Gran Bretagna, Francia e Stati uniti e dei riluttanti "volenterosi" non ha nulla di "umanitario". È una guerra, punto e basta. Le motivazioni addotte dai leader politici ed opinionisti per questo intervento invocando scopi "umanitari" è inesistente, perché ogni ricorso alla violenza militare viene da sempre giustificata, anche dai peggiori mostri come Hitler, per autoconvincersi della verità di quanto asseriscono. Basti pensare a Mussolini, quando invase l'Etiopia. I massacri della popolazione civile vennero vantati «per apportare i benefici della civilizzazione alla popolazione oppressa e l'apporto diun futuro meraviglioso». Questo sarebbe quello che chiamiamo umanitario? Anche Obama può credere che la motivazione dell'intervento militare in Libia è a scopi "umanitari". Ma un quesito essenziale e molto semplice da porsi sulle reali motivazioni per l'intervento militare in Libia è un altro. Questi nobili intenti espressi dal triunvirato imperiale che si definisce "intervento umanitario e alla responsabilita di proteggere le vittime" è diretto alle vittime dei brutali crimini da loro commessi, oppure dei crimini commessi dai loro fedeli clienti? Ha Obama, per esempio,invocato la no-fly zone durante la criminale e distruttiva invasione del Libano da parte di Israele nel 2006, e da loro appoggiata? Non ha forse Obama strombazzato con vanto, durante la sua campagna elettorale, che in Senato aveva sottoscritto l'invasione israeliana del Libano con la richiesta di punizioni per l'Iran e la Siria per essersi espressi contro?».

È con questa spietata demistificazione storica che Noam Chomsky, linguista, filosofo e storico oppositore americano, apre l'intervista al manifesto sulla guerra in Libia.

Quali sono le violazioni commesse da quello che lei chiama «triunvirato imperiale», subito dopo aver ottenuto la Risoluzione l973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con il mandato addotto «di proteggere la popolazione degli insorti in Libia da una imminente carneficina delle forze di Gheddafi»?

La Risoluzione delle Nazioni Unite approvata dai membri della Coalizione e dai reticenti «volenterosi» con ampio mandato, invocava «sforzi umanitari per evitare che le forze militari di Gheddafi entrassero a Bengasi per evitare una carneficina». La Coalizione del triunvirato, ignorando in toto il mandato, si è precipitata immediatamente ad agire ben oltre le dichiarazioni espresse nella Risoluzione Onu, anzi interpretandola come una autorizzazione istituzionale ad una diretta partecipazione militare schierata a favore degli insorti. Fornendo loro appoggio militare con i bombardamenti della Nato, ben consapevoli così di mettere al sicuro le maggiori riserve di petrolio libico in quella parte del paese, cioè in Cirenaica. La Risoluzione l973 non fa affatto menzione della licenza di schierarsi dalla parte degli insorti libici. In secondo luogo, la decisione intrapresa dalla Coalizione nella dichiarazione d'intenti del mandato Onu viola «l'embargo di armi interne ed esterne al paese» da essi stessi sottoscritta alle Nazioni Unite, nel momento in cui si deciderà, e si sta decidendo, di armare gli insorti. Questo comporta inevitabilmente l'invio di forze militari da combattimento in Libia per l'addestramento degli insorti, disorganizzati e privi di efficiente munizionamento per contrastare le forze di Gheddafi. Di fatto, il triunvirato imperiale costituito da Francia, Gran Bretagna e Stati uniti è direttamente partecipe e coinvolto nella guerra civile in Libia. Se questo era l'intento vero, è bene che lo si sappia. Chiamiamo tutto questo «umanitario»?

Qual è il reale obiettivo di Sarkozy e di Cameron? C'è anche un riscontro interno che loro hanno ricercato, in Francia e in Gran Bretagna?

Proprio questo sospetto. Che la guerra in Libia venga usata come diversivo per la politica interna, visto anche il crollo ai minimi storici della loro popolarità.

Quanto conta la questione del prezioso petrolio libico?

Il controllo delle risorse petrolifere della regione mediorientale resta il movente principale per le potenze occidentali. Ma in termini nuovi e particolari. Gli europei in particolare non sono tanto preoccupati dall'accesso alle riserve petrolifere libiche, quanto al controllo di quelle ancora in mano a Gheddafi ormai non piu affidabile. Ricordiamoci che sino a poche settimane fa intercorrevano splendidi rapporti di scambio commerciale e di forniture di armi tra Stati uniti, potenze occidentali come Francia e Gran Bretagna e Gheddafi. Un altro fattore che risulta da documenti ufficiali sia degli Stati uniti sia della Gran Bretagna, è l'enfasi ribadita del timore costante che nel mondo arabo possa prendere piede un nuovo «virus nazionalista» di stampo neo-nasseriano. Il rischio sarebbe quello di veder orientare o sottomettere i profitti delle riserve petrolifere verso le richieste socioeconomiche delle proprie popolazioni.

Se sussiste per le potenze occidentali il rischio del «virus nazionalista» e del controllo delle riserve petrolifere, come influirà il caso della Libia sul mondo arabo tantopiù in rivolta contro i propri regimi?

Un dittatore affidabile o clientelare non si tocca. Di fatto non c'è stata nessuna reazione né imposizione della no-fly zone da Washington quando la dittatura saudita è intervenuta solo venti giorni fa in Bahrein, massacrando la popolazione che insorgeva per le riforme. Il Bahrein è uno stato fondamentale, geostrategico per gli Stati uniti. Lì è alla rada la Quinta Flotta Americana del Golfo. Negli stati dove le risorse di idrocarburi non abbondano, la tattica perseguita è sempre la stessa: per gli Stati uniti, quando il dittatore-cliente è nei guai lo si appoggia e lo si sostiene fino a quando è possibile. Quando non è piu possibile ecco che segue una pletora di dichiarazioni ispirati all'amore per la democrazia e dei diritti umani. Il tentativo ultimo è quello del salvataggio del regime del dittatore diventato scomodo. La casistica è noiosamente familiare: Duvalier, Marcos, Ceaucescu, Mobutu, Suharto ed oggi Tunisia ed Egitto. La Siria per ora non presenta alternative che possano far comodo agli obiettivi che stanno a cuore agli Stati uniti. In Yemen un intervento militare creerebbe maggiori problemi a Washington. Così tutti gli esercizi di violenza cui stiamo assistendo con massacri della popolazione in rivolta, sollecita soltanto pietose dichiarazioni in nome della «democrazia» e dei diritti umani.

Come pensa andrà a finire in Libia e quali prospettive restano alle primavere del mondo arabo?

Nessuno è in grado di prevedere sino a quando sarà possible reprimere movimenti popolari nello scontro col potere costituito. Possiamo soltanto comprendere perche questo avvenga. In Tunisia ed Egitto il vecchio regime è piu o meno vigente, senza l'apporto di salienti cambiamenti socioeconomici a favore dei movimenti popolari, con piccole vittorie seppure molto importanti. Quanto alla Libia, che è una caso molto diverso, dopo l'intervento «umanitario» del triunvirato occidentale è prevedibile una spartizione del paese in due parti: una parte in mano agli insorti, ricca di riserve petrolifere con giacimenti sul territorio ancora non sfruttato, fortemente dipendente dalle potenze imperiali dell'occidente; ed un'altra parte che resta con un Gheddafi depauperato del suo potere. E in una Libia di fatto più impoverita. Una volta assicurato il controllo dei pozzi petroliferi potremmo trovarci dinanzi ad un nuovo «emirato libico», quasi disabitato, protetto dall'Occidente e molto simile geostrategicamente al resto degli emirati del Golfo Persico.

Un operatore di call center mi dice che qualche anno fa viveva al centro di Roma, divideva l'affitto con un amico e aveva tempo per suonare e andare in tournée. Si considerava un musicista e utilizzava il call center come sponda. Adesso sta in periferia con tre studenti, lavora full time per sopravvivere, non ha più tempo per suonare e comunque anche la richiesta di concerti è diventata così striminzita che non ci camperebbe. Mi dice «ho quasi cinquant'anni, non ho una famiglia e va a finire che torno a vivere con mia madre».

Allora dov'è la precarietà? Non è solo un problema di stage non pagati, di assunzioni a tempo determinato, di lavoro nero e licenziamenti facili. Mille e cinquecento euro al mese basterebbero se una famiglia ne pagasse duecento d'affitto. Basterebbero se una donna e un uomo avessero la certezza di lavorare fino al giorno della pensione. Basterebbero se il figlio di un operaio studiasse in una classe con meno di venti bambini, ricevesse una vera formazione che comprendesse le lingue straniere e la musica, la storia contemporanea e il teatro... Basterebbero se quella famiglia avesse attorno una comunità che la sostiene, un servizio sanitario che la cura quando sta male. E invece l'operaio che pensava di essere assunto a tempo indeterminato vede in televisione un padrone col maglioncino che gli sfila i diritti da sotto i piedi, il sindaco (sedicente di sinistra) che va a giocarci a scopetta e prega il proprio partito di affiancarsi alla battaglia padronale. Porta il figlio in una scuola dove i suoi compagni sono così tanti che la maestra ci mette un mese per imparare i nomi, una scuola che funziona solo per l'impegno degli insegnanti che non hanno ancora mollato, che non sono ancora scoppiati per l'umiliazione continua alla quale sono esposti. Un lavoratore è precario non solo per la precarietà del suo lavoro, ma soprattutto perché sono precari la scuola, la casa, l'assistenza sanitaria, i trasporti, l'informazione, la cultura, il cibo che mangia e l'acqua che beve, l'energia che consuma e i vestiti che indossa.

Invece io dico che la scuola è solo pubblica. Dico che la scuola privata è una questione privata, un'azienda che deve prendere due lire solo in quel paesino di montagna dove non è ancora stata costruita quella statale. Dico che accettare oggi una riduzione dei diritti in fabbrica significa che domani quei diritti si ridurranno ancora di più. Dico che se un lavoratore accetta di lavorare per uno stipendio ridicolo non fa solo una scelta personale, ma sta costringendo tutti gli altri ad essere sottopagati, così come un lavoratore che sciopera e ottiene il riconoscimento di un diritto, lo fa anche per quello che entra. Dico che seicento euro d'affitto per un monolocale seminterrato in periferia (c'era il cartello nella piazza della mia borgata fino a poche settimane fa) è un furto e quando la casa non si trova: la si occupa. Dico che se acquisto un paio di scarpe sottoprezzo sto sfruttando un operaio e se compro a mio figlio un pallone cucito da un bambino dall'altra parte del mondo sono peggio di un pedofilo. Dico che se prendo l'acqua da bere al supermercato e uso quella potabile che esce dal mio rubinetto per lo sciacquone del cesso sono un pazzo pericoloso. Dico che non sono un uomo moderno se accetto la devastazione di una valle per farci passare un treno veloce che impiega un'ora di meno per portarmi in Francia: sono un criminale. Penso a una donna del trentino che va al supermercato a comprare un chilo di mele cilene. Se quelle mele costano meno di quelle coltivate sotto casa sua è evidente che in Cile c'è un contadino sfruttato e uno del trentino che resta disoccupato, un aereo che inquina inutilmente l'oceano e una piccola frutteria che chiude. Il lavoro era precario vent'anni fa. Oggi è la nostra visione del mondo ad essere precaria. Io non cerco voti per le prossime elezioni, né tessere per la prossima campagna di tesseramento. Non ho bisogno di carne da macello per la prossima guerra umanitaria o vittime del destino per il prossimo terremoto. Non scendo in piazza per un lavoro a tempo indeterminato o per qualche centesimo che il ministero della cultura succhia dai serbatoi della benzina. Non voglio mettere all'ordine del giorno del prossimo consiglio dei ministri o del prossimo talk show, del prossimo monologo teatrale o della prossima canzonetta il solito discorso del giovane sottopagato o disoccupato. Io dico che questo sistema violento mi fa paura e so che per liberarcene dobbiamo pacificamente far paura al sistema.

Oggi si apre a Milano il processo Ruby, e qualcosa di strano sta accadendo, nonostante l´ora sia grave e parecchio miserabile. Un presidente del Consiglio è incriminato per aver abusato del proprio potere, costringendo la questura a rilasciare una ladruncola che gli stava a cuore e non esitando a spacciarla per la nipote di Mubarak. Pende anche l´accusa di favoreggiamento di prostituzione minorile, perché Karima El Mahroug (Ruby) frequentava festini a Arcore, prima della maggiore età.

E li frequentava assieme a ragazze che si prostituivano in cambio di soldi, gioielli, appartamenti, carriere. Le prove sono tali che è stato scelto il rito abbreviato. Un dramma insomma, per un uomo che addirittura anela al Quirinale: e tale resta anche se la Consulta approvasse il parere espresso dalla maggioranza dei deputati, secondo cui il premier non è giudicabile da tribunali ordinari. Un´esperienza non invidiabile, quantomeno, e chiunque si sarebbe aspettato dall´imputato, in ore così cupe, un atteggiamento adatto alla circostanza: i latini lo chiamavano gravitas, virtù di chi governa (lo è ancora, nell´articolo 54 della Costituzione). Da sempre, la calamità personale è la verifica dell´attitudine al comando.

Ma nel mondo di Silvio Berlusconi non è così. Se solo proviamo a penetrarlo, vedremo che è un mondo parallelo, in tutto somigliante all´allestimento, al casting, al linguaggio delle televisioni commerciali. La realtà sfuma in irrealtà e viceversa, i protagonisti non parlano ma recitano copioni preconfezionati, il pubblico plaudente è esibito come popolo, qualche comparsa emette fandonie. Questo è il premier, specie in questi giorni: una comparsa buffonesca, che sghignazza su quel che fra poco, anzi oggi, sta per accadergli. L´Italia intera è un suo villaggio Potemkin, fatto di cartapesta colorata per occultare detriti e rovine.

Nel villaggio lui è re, e ride ininterrottamente, di tutti e anche di sé. Il sipario del processo sta per alzarsi ed eccolo che il 2 aprile racconta una delle sue lunghe barzellette. Il pubblico batte le mani, e quest´euforia non è il capitolo meno sinistro del copione. Se Karima ha un nomignolo possiamo darlo anche all´autore della sceneggiatura: chiamiamolo Ubu Re, perché come nel dramma di Alfred Jarry prende il potere per «mangiare più salsicce, comprarsi ombrelli, far soldi»; perché promuove i corrotti, elargisce denaro perché glielo consiglia Mamma Ubu, annienta i nobili e soprattutto i magistrati, condannati a vivere delle multe comminate e dei beni dei condannati a morte.

Le barzellette sul caso Ruby mancano furiosamente di sottigliezza, non di furbizia. Sono pornografia allo stato puro, e la pornografia, si sa, cancella l´oggetto del desiderio facendolo vedere così da vicino che pare troppo vero per esser vero. Succede sempre, con l´osceno: quel che ammalia è il reale in eccesso, è l´iper-realtà (la parte del corpo è ingrandita come da una lente). «L´unico vero fantasma della pornografia non è il sesso ma è la realtà stessa, assorbita in qualcosa che non è reale, ma iper-reale», scrive Baudrillard sulla seduzione. Berlusconi non nasconde nulla di quel che fa ma anzi ne dilata i dettagli, li rende derisori, li evoca anche nei momenti in cui uno magari penserebbe ad altro. Di continuo siamo trascinati nel suo set-universo parallelo dove il reale si dissolve e l´assedio svanisce: perché se è derisorio lui quanto più lo saranno magistrati e giornalisti!

Ha un suo sogno ridicolo e non sottile, l´uomo Berlusconi, ma c´è del metodo e anche una cinica conoscenza delle cose, nel suo architettare villaggi finti: c´è la rappresentazione di una gioventù scombussolata da lavori senza futuro, e di un´Italia ridanciana, indifferente alle leggi perché dalle leggi non protetta. Un´Italia con la quale Ubu s´identifica, e che s´identifica con Ubu. Basta divenire padrone delle parole e delle leggi, per storcere gli eventi e capovolgerli. Risultato: quello di oggi non è un processo per concussione e minorenni prostituite. È un monumentale processo al desiderio, alla simpatia, alla leggerezza, alle risate. L´ironia, la più eccelsa delle arti, è usata come arma micidiale che sminuzza i fatti e li rende irriconoscibili. Niente mi minaccia, se ci rido sopra. Niente m´insidia, se come Napoleone m´impossesso dei sogni di soldati ed elettori. È il sotterfugio offerto sin dall´inizio dalle sue tv, tramite le quali conquistò le menti e l´etere. Lui ri-crea un mondo ma frantumato, e nel frammento vivi bene perché non vedi il tutto, non connetti i fatti tra loro sicché li scordi presto. Robin Lakoff, denunciando i nuovi demagoghi delle destre americane, parla di agenda dell´ignoranza.

Chi non dimentica il tutto, il contesto, è lui, il capo che sui falsi paesaggi ha idee ben chiare. Deve essere un paesaggio di emergenza e caos perenni, dove chi comanda si traveste da vittima, dove il potere continuamente deve essere espugnato, mai esercitato. Il Parlamento merita castighi, perché il leader sia solo davanti al popolo (davvero il premier ha sgradito gli insulti di La Russa al presidente della Camera?). Magistratura e Consulta hanno fame di potere politico, e vanno evirate. La Costituzione è un laccio. La politica non è manovrare, ma rimestare e smistare possibili ricatti. Gheddafi era così: ostile alle istituzioni rappresentative, incarnando il popolo si pretendeva inamovibile. Formalmente non governava lui ma i Congressi popolari. Lui, dietro le quinte, era Papà Ubu.

Resta la stranezza, il mistero. Perché tanto ridacchiare, alla vigilia del processo Ruby e di altri procedimenti? Quale spettacolo sta mandando in onda, di cui noi non siamo che ignoranti comparse? Quali leggi e stratagemmi inventerà Ubu perché ogni processo si spenga? L´obiettivo è la negazione del reale, ma c´è un più di violenza, c´è una tattica bellica preventiva presa in prestito dallo Spirito dei Tempi. Tutto è annuncio preventivo, prima che il reale si avveri, ne abbiamo conferma proprio in questi giorni nella guerra di Libia: anche qui viviamo eventi senza conoscerli, che paiono escrescenze delle tv commerciali. Ci sono stati certamente massacri, da parte di Gheddafi. Ma quanti e dove? I cronisti dicono che ci sono stati, ma non visti perché mancavano le telecamere. La tv commerciale fa legge, prima ancora che le cose avvengano: «Lo dice la televisione», e performativamente il fatto esiste. In un blog intitolato Una Storia Noiosa leggo: «Il fact finding/checking viene sostituito da immagini che non esistono, ma che se esistessero testimonierebbero indubitabilmente la realtà di questi fatti, di cui peraltro il giornalista non è testimone diretto. Vertiginoso. Nasce il genere del "reportage preventivo". Non so dire se siamo al funerale dell´immagine o al suo trionfo: l´immagine può permettersi di non esistere fisicamente, tanto tutti diamo per buono che rappresenterebbe fedelmente quella che già sappiamo essere la realtà» (http://du57.wordpress.com/).

Nel mondo di Berlusconi, la guerra al reale si fa preventiva. Più precisamente, e in conformità al personaggio: si fa apotropaica (apotropaico è il gesto che allontana e annulla un´influenza maligna: per esempio, toccar ferro). Apotropaico è il modo in cui ha difeso, il 10 marzo, la riforma della giustizia: se si fosse fatta nel ´92-93, Tangentopoli sarebbe proseguita indisturbata, non ci sarebbero state Mani Pulite né «l´invasione da parte della magistratura della politica e l´annullamento di un´intera classe dirigente».

Una risata vi seppellirà. Lo promette Berlusconi, forse dimenticando che furono gli anarchici dell´800 e la sinistra estrema nel ´900 a coniare lo slogan. Fortuna che abbiamo Lao Tzu, che da 2.500 anni dice, della via saggia e giusta: «Quando un dotto di prim´ordine sente parlare della via, la segue rispettosamente. Quando un dotto di mezza levatura sente parlare della via, ora la mantiene ora la perde. Quando un dotto d´infimo ordine sente parlare della via, si fa una grande risata».

Chiedo scusa ai critici cinematografici de Il manifesto, ma sono costretto a rubargli il lavoro. Recensione: I tunisini sfidano l’ispettore Clouseau (Italia, 2011, con Roberto Maroni, Silvio Berlusconi e qualche migliaio di comparse).

L’ispettore Clouseau (Roberto Maroni) strilla da mesi che il paese sarà invaso da pericolosissimi immigrati clandestini, ma quando gli immigrati previsti arrivano, l’ispettore Clouseau viene colto di sorpresa: «siete già qui? Tropo velosci!».

Con una mossa di rara astuzia li lascia senza cibo, seduti su un molo a Lampedusa. Poi arriva il suo principale (Silvio Berlusconi) e dice che lì deve fare un campo da golf e un casinò, quindi bisogna spostare i clandestini. L’ispettore Clouseau appronta in fretta e furia una tendopoli dove deporta migliaia di clandestini. Quelli, con mossa astuta, scavalcano la rete metallica e se ne vanno.

«Maledisione! Non sci avevo pensato!». Allora l’ispettore Clouseau appronta altre tendopoli in tutta Italia, manda i pompieri su è giù come pendolari,ma sindaci e governatori gli fanno chi marameo, chi il gesto dell’ombrello, altri ridono. Infuriato, l’ispettore Clouseau parla di respingimenti. Stavolta ridono i giovani tunisini.

Allora, mossa a sorpresa, Clouseau va in Tunisia con Berlusconi e un po’ di soldi per chiedere alla Tunisia di riprendersi i tunisini. Interessa un campo da golf? Interessa un casinò? E semi compro una villa a Tunisi? Ridono anche in Tunisia. Si chiude in un tramonto mediterraneo, con Clouseau e il suo capo che chiedono un passaggio a un barcone per tornare in Italia.

Il film appare sconclusionato, senza regia e piuttosto improvvisato. Unica nota positiva, lo straordinario talento comico del protagonista (azzeccati gli occhialini rossi), mentre la sua spalla, Silvio Berlusconi, sembra imbolsita e stanca. Ottime, invece, le comparse tunisine: molte di loro non hanno avuto nemmeno il cestino per il pranzo, hanno capito che il cinema italiano è in crisi e vogliono andare in Francia.

Il presidente della Repubblica questa volta è andato più in là che in altre precedenti esternazioni. Ha raccomandato sempre moderazione di accenti, lealtà tra le istituzioni, condivisione di valori e di decisioni quando riguardino le regole di base della convivenza, ma giovedì scorso ha preso un’iniziativa insolita, un’iniziativa da grandi occasioni: ha convocato i rappresentanti dei gruppi parlamentari informandone per lettera il presidente del Consiglio. A tutti gli interlocutori che hanno varcato la soglia del Quirinale ha ripetuto il suo giudizio sulla situazione riassumibile in cinque parole da lui stesso pronunciate: «Così non si può andare avanti».

Le gazzarre avvenute negli ultimi giorni a Montecitorio sono state l’occasione determinante dell’intervento del Capo dello Stato, ma la motivazione di fondo è un’altra perché le gazzarre parlamentari non sono una novità e non avvengono soltanto in Italia.

La motivazione di fondo sta nella constatazione della paralisi parlamentare che dura ormai da molti mesi e rischia di durare ancora a lungo. Le opposizioni la denunciano da almeno un anno, ma ora l’ammette lo stesso presidente del Consiglio. Contrastano le motivazioni, ma entrambe le parti arrivano alla medesima conclusione.

Dunque il potere legislativo non legifera né esercita i poteri di controllo sull’operato dell’esecutivo che pure la Costituzione gli riconosce; il potere esecutivo dal canto suo usa in quantità anormale strumenti impropri: ordinanze, decreti, voti di fiducia, per abbreviare forzosamente il dibattito parlamentare.

In queste condizioni il Capo dello Stato, con la sua iniziativa di giovedì, ha suonato l’allarme; in termini calcistici si direbbe che ha diffidato i giocatori con il cartellino giallo facendo capire che se non cambieranno registro dal cartellino giallo si passerà al rosso, cioè all’espulsione dal campo di gioco. Nel caso nostro il cartellino rosso equivale al decreto di scioglimento delle Camere che la Costituzione prevede tra le attribuzioni del Presidente della Repubblica con la sola modalità di consultare i presidenti delle Camere per un parere non vincolante.

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Temo che l’allarme e la diffida non produrranno alcun risultato perché ne mancano i presupposti e non da oggi.

I presupposti mancano dal maggio del 1994, da quando cioè il proprietario di un impero mediatico, immobiliare, commerciale, finanziario, bancario, calcistico, diventò capo d’un partito, presidente del Consiglio o alternativamente capo dell’opposizione e insomma protagonista della politica italiana. Questa presenza insolita, corredata da una serie di effetti a pioggia che sono stati cento volte elencati e analizzati, hanno determinato la spaccatura in due della pubblica opinione dando luogo a due diversi schieramenti e a due diversi blocchi sociali.

La dislocazione bipolare non configura di per sé nulla di terribile, anzi costituisce la normalità dei reggimenti democratici quando avvenga in un quadro di valori condivisi, ma non è questo il bipolarismo italiano nato in era berlusconiana. Non c’è nulla di condiviso né di condivisibile tra due concezioni opposte della democrazia, della politica, dell’economia, della cultura, dell’informazione. Perfino della libertà e perfino dell’eguaglianza.

Non sono due schieramenti alternativi ma antagonisti. Non vanno d’accordo su niente. Allo stato di diritto che fu recuperato nel 1945 dopo il totalitarismo fascista, il berlusconismo oppone vocazione autoritaria fondata sulla dittatura della maggioranza e rinforzata dal monopolio dell’informazione. L’elenco delle anomalie è lungo e ogni giorno si arricchisce di nuovi capitoli. Non è quindi il caso di ripercorrerlo. Lascio invece la parola ad una fonte non sospetta, Andrea Marcenaro, autore d’una rubrica che compare ogni giorno sulla prima pagina del "Foglio". Rubrica partigiana ma scapestrata e talvolta veridica. Nel caso nostro così racconta l’ultima comparsata di Berlusconi a Lampedusa.

«L’Amor Nostro rientrato a Roma dallo sprofondo dove aveva appena comprato una villa, ristrutturato un’isola, piantato ortensie, proposto pioppi sugli scogli, vivacizzato le facciate delle case, fondato un casinò, affittato sette navi per la "Crociera dello Sfigato", pescato due triglie minorenni nonché perforato 18 buche dell’istituendo campo da golf; ma che cazzo – esplose – il mio processo breve? Beh! Capita, Cavaliere, quando si sceglie un ministro che confonde la Difesa con l’offesa».

Così Marcenaro descrive la trasferta lampedusana cogliendo una parte del tutto. Il tutto è molto di più.

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Dovrei ora parlare del processo breve, della responsabilità civile dei magistrati, della riforma della giustizia e del conflitto d’attribuzione che la maggioranza parlamentare intende sollevare con una votazione prevista per martedì 5 aprile, un giorno prima dell’apertura del processo che vede Berlusconi imputato per concussione e prostituzione minorile. Ma mi limiterò a quest’ultimo tema; sugli altri non c’è che ricordarne il contenuto con poche parole. Il processo breve è soltanto una prescrizione brevissima tagliata su misura per azzerare i processi che vedono Berlusconi imputato. La responsabilità civile dei magistrati è un nonsenso, viola il principio del libero convincimento del magistrato nella formulazione delle ordinanze e delle sentenze, pretendendo che quel principio sia sostituito con la prova raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio: sostituzione del tutto inutile visto che anche l’assenza di ogni ragionevole dubbio viene accertata attraverso il libero convincimento del magistrato. Del resto il nostro codice penale prevede già l’incolpabilità dei magistrati, procuratori e giudici, in sede penale con eventuali ripercussioni civilistiche di indennizzo, quando ricorrano gli estremi del dolo o della colpa grave. Aggiungere a queste norme già esistenti da tempo la possibilità di un’incolpazione civile per "violazione di diritti" significa semplicemente consentire a tutti coloro che perdono cause giudiziarie di aprire un percorso parallelo di controversie che produrrebbe il solo effetto di sfasciare la struttura giudiziaria già per varie ragioni insoddisfacente.

Resta il tema del conflitto di attribuzione che andrà in votazione martedì ed ha l’obiettivo di bloccare il processo "Ruby-gate".

Il conflitto d’attribuzione si verifica quando uno dei poteri dello Stato invada la sfera riservata ad un altro potere. In quel caso la competenza di giudicare chi sia l’invasore ed impedire che l’invasione avvenga spetta alla Corte costituzionale. Ma nel caso specifico chi ha invaso chi?

Il tribunale di Milano darà inizio mercoledì 6 aprile ad un processo penale. I legali dell’imputato contestano la competenza del tribunale di Milano e chiedono che il processo sia trasferito al tribunale dei ministri. Si tratta con tutta evidenza di un conflitto di competenza, non di invasione di un potere su un altro potere. Giudicare sulla competenza territoriale o funzionale spetta unicamente alla Cassazione. Quanto alla Giunta parlamentare delle autorizzazioni a procedere, essa ha il compito di accettare o respingere le richieste eventuali del tribunale o della procura. Nel caso specifico ha respinto la richiesta di perquisizione di un ufficio della presidenza del Consiglio situato in un palazzo di Milano Due. Infatti quell’ufficio non fu perquisito. E questo è tutto.

Vedremo come risponderà la Corte costituzionale alla richiesta del Parlamento di giudicare il conflitto di attribuzione. L’evidenza suggerisce una pronuncia di irricevibilità del ricorso perché – lo ripeto – si tratta di un conflitto di competenza all’interno della giurisdizione che spetta unicamente alla Corte di Cassazione.

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Le vicende della Libia, dell’immigrazione, della lunga e sempre più agitata paralisi del Parlamento, dell’intervento ammonitorio del Capo dello Stato, hanno messo in ombra un altro tema che deve invece essere affrontato per quello che è: una sterzata estremamente grave della politica economica verso un intervento sistemico dello Stato nell’economia e nel mercato, in palese contrasto con la legislazione dell’Unione europea. Parlo del decreto promulgato giovedì scorso dal consiglio dei Ministri e voluto da Giulio Tremonti per impedire che un’impresa alimentare francese assuma il controllo della Parmalat.

Se fosse questo il solo obiettivo di Tremonti, potrebbe anche essere accettato sebbene si concili assai poco con l’auspicio più volte ripetuto di un aumento di investimenti esteri nel nostro paese. Siamo il fanale di coda nella classifica degli investimenti esteri rispetto agli altri paesi europei. Ce ne lamentiamo, se ne lamenta il governo, la Confindustria e gli operatori finanziari e imprenditoriali, ma quando finalmente qualcuno arriva dall’estero per investire i suoi capitali in iniziative italiane viene preso a calci e rimandato indietro dimenticando che oltre di essere cittadini italiani siamo anche cittadini europei. Il mercato comune non è nato per abolire frontiere e consentire il libero movimento delle merci, delle persone e dei capitali?

Ma Tremonti ricorda – ed ha ragione di farlo – che la Francia protegge la nazionalità delle imprese ritenute strategiche e quindi – sostiene il ministro – se lo fa la Francia perché non può farlo l’Italia? Difficile dargli torto. Bisognerebbe sollevare il tema nelle sedi europee e speriamo che venga fatto, per ripristinare il funzionamento del libero movimento degli investimenti contro ogni protezionismo. Comunque, su questo tema, Tremonti per ora ha ragione. Senonché...

Senonché la questione Parmalat è soltanto un pretesto o perlomeno un caso singolo dentro un quadro assai più ricco di possibilità. Infatti il testo del decreto non dice affatto che l’obiettivo è la difesa dell’italianità delle aziende nazionali. Dice un’altra cosa: autorizza la Cassa depositi e prestiti (di proprietà del Tesoro al 70 per cento) ad intervenire in caso di necessità per finanziare aziende ritenute strategiche per fatturato o per importanza del settore in cui operano o per eventuali ricadute sul sistema economico nazionale. Il caso Parmalat rientra in questo elenco ma non lo esaurisce perché il decreto va molto più in là. Praticamente resuscita l’Iri di antica memoria rendendo possibile che lo Stato prenda il controllo delle imprese che abbiano requisiti ritenuti strategici dal governo (da Tremonti) nella sua amplissima discrezionalità.

Tutto ciò avviene per decreto. Dovrà essere convertito in legge ma intanto produrrà effetti immediati sul mercato. Ma se il decreto non fosse convertito in legge? è realistico pensare che il governo, per evitare che quest’ipotesi si avveri, chieda per l’ennesima volta l’ennesima fiducia. Ma se in sede europea quella legge fosse bocciata in quanto aiuto indebito dello Stato ad un’impresa, vietato dalla legislazione comunitaria?

Ho detto prima che la Parmalat è un pretesto. Infatti il vero obiettivo di Tremonti è di far entrare lo Stato non soltanto nelle aziende che hanno necessità di finanziamento ma direttamente nel sistema bancario. In particolare nelle cosiddette banche territoriali: le banche popolari, le banche cooperative, le Casse di risparmio. Quelle più a corto di capitali, quelle alle quali la Lega guarda con occhi avidi, quelle che procurano voti, organizzano interessi e clientele. Una rete immensa di sportelli, di prestiti, di mutui. Di fatto la politicizzazione del credito.

È una delle più gravi malattie la politicizzazione del credito. Il decreto di giovedì scorso ne segna l’inizio. Che cosa ne pensano i partiti d’opposizione? Che cosa ne pensa il governatore della Banca d’Italia? Che cosa ne pensa il Quirinale?

La politicizzazione del credito è un altro modo per deformare la democrazia, forse il più insidioso insieme al monopolio dell’informazione. Chi può manipolare le notizie e il danaro è il padrone, il raìs, il Capo assoluto, circondato da una clientela enorme e solida. Inamovibile. O ci si arruola o se ne è esclusi. La clientela vota. Chi spera di entrarci se ancora non ne fa parte, vota nello stesso modo.

La chiamano democrazia ma in realtà è soltanto un grandissimo schifo.

Della Valle compra l’esclusiva del monumento: chi vuole usarlo, deve chiedere il permesso. A lui. (In calce un’intervista a Resca, DG del Mibac)

Il principe Antonio De Curtis ci aveva provato con la Fontana di Trevi nel celebre Tototruffa. Cinquanta anni dopo il Governo Berlusconi è riuscito nell'opera con il Colosseo. Il nostro monumento più famoso al mondo è stato ceduto alla Tod's, nel senso che l'Anfiteatro Flavio e la sua immagine non sono più liberamente utilizzabili dal ministero dei Beni Culturali. Se, per esempio, lo Stato volesse affittare il Colosseo a una società cinematografica o a una casa automobilistica per usarlo come location di uno spot o come sfondo per una campagna dovrebbe chiedere il permesso alla Tod's e a un'associazione ancora da costituire da parte della società calzaturiera che rivestirà in essa un ruolo predominante. L'accordo stipulato il 27 gennaio scorso dal Commissario straordinario all'area archeologica di Roma, l'architetto Roberto Cecchi, e da Diego Della Valle prevede l'impegno da parte della società di pagare i lavori di restauro del Colosseo per complessivi 25 milioni di euro e in cambio riserva alla Tod's il diritto esclusivo sull'utilizzazione commerciale dell'immagine del Colosseo e permette allo sponsor dei lavori di costruire un centro servizi nell'area archeologica più vincolata del mondo.

Oltre a una serie di diritti correlati come quello di apporre il marchio Tod's sui cantieri del Colosseo e sui biglietti acquistati dai visitatori. L'accordo, descritto dalla stampa come un atto di puro mecenatismo del valore di 25 milioni di euro “presenta molti lati oscuri”, secondo il segretario generale della Uil Beni Culturali, Gianfranco Cerasoli. Il sindacalista ha presentato un esposto alla Procura di Roma e alla Procura della Corte dei Conti, per chiedere di accertare eventuali profili di illegittimità. Nell'esposto Cerasoli cita un primo effetto dell'accordo: la richiesta presentata al Ministero (e sospesa a causa dell'accordo con la Tod's) della Volkswagen di usare il Colosseo per il lancio di un nuovo modello. "Il problema sta", scrive Cerasoli nell'esposto, "nella errata e grave sottovalutazione fatta dal Commissario nella valutazione economica di un accordo che qualsiasi economista valuta superiore ad oltre 200 milioni di euro considerando l'esclusività concessa e la durata superiore ai 15 anni con un piano di comunicazione e di commercializzazione spendibile in tutto il mondo".

Nell’articolo 4 dell'accordo si prevede che i “diritti concessi all'Associazione e allo Sponsor sono concessi senza limitazione territoriali e, pertanto sono esercitabili sia in Italia che all'estero”. La durata dei diritti in capo all'associazione è di 15 anni eventualmente prorogabili mentre i diritti dello sponsor Tod's decorrono “dalla data di sottoscrizione dell'accordo e si protraggono per tutta la durata degli interventi di restauro e per i successivi due anni”. Il permesso per il lancio del nuovo modello della Volkswagen, insomma, potrebbe essere solo il primo di una lunga serie, come lo stesso Mario Resca, direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del ministero, ha confermato nell'intervista che pubblichiamo sotto. Il Fatto ha contattato il Commissario straordinario Roberto Cecchi ma non ha avuto alcuna risposta. Fonti vicine alla Tod's, invece, spiegano: “Ci stupiamo dello stupore. Una società quotata in borsa che investe 25 milioni di euro nel restauro di un monumento deve motivare agli azionisti il suo comportamento. Sarebbe assurdo non prevedere un'esclusiva in favore di Tod's nel periodo dei lavori”. Secondo le fonti vicine alla Tod's "l'accordo è un esempio da seguire perché porta un vantaggio al paese, che restaura il suo patrimonio senza spendere un euro, e alla società sponsor. Ma non si può pretendere di realizzare una simile operazione senza concedere l’esclusiva” La posizione di Tod’s è legittima.

Quello che lascia perplessi sono le modalità della stipula dell’accordo e la sua comunicazione. Il Commissario straordinario Roberto Cecchi aveva indetto una gara con scadenza il 30 ottobre del 2010 che effettivamente è andata deserta. Subito dopo però ha avviato le trattative solo con Tod's, chiuse velocemente senza coinvolgere l'ufficio legislativo e il gabinetto del ministro né l'avvocatura. Anche la comunicazione dei contenuti dell'accordo è stata poco trasparente. L'allora ministro Sandro Bondi aveva parlato di “accordo storico”. Il sindaco di Roma Gianni Alemanno aveva detto: “Della Valle fa un grande regalo all'Italia”. Mentre per il sottosegretario alla presidenza Gianni Letta "Della Valle non è uno sponsor, ma un mecenate moderno”.

Tutto vero. L'accordo sottoscritto dal patron della Tod's prevede effettivamente un onere importante per la sua azienda. Ma accanto al do esiste un importante des rimasto finora sotto traccia.

INTERVISTA

Mario Resca, direttore generale ministero Beni culturali:

“Rischiamo di perdere occasioni milionarie”

Mario Resca è un uomo forte del ministero ma più che un burocrate si sente un manager della cultura nella duplice veste di consigliere per le politiche museali e Direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del ministero dei Beni culturali.

È stato spesso accusato di avere una visione troppo commerciale e berlusconiana del patrimonio artistico nazionale. Stavolta però l’ex amministratore delegato di Mc Donald’s Italia, scelto da Silvio Berlusconi per sfruttare al meglio i monumenti, è stato scavalcato a destra dal segretario generale del ministero Roberto Cecchi con il suo accordo con la Tod’s. Il Fatto Quotidiano gli ha chiesto un parere su quello che sta accadendo e lui non si è tirato indietro.

Direttore, è vero che lo Stato italiano non è più padrone di concedere il Colosseo a un’impresa che voglia usarlo per un evento come ha scoperto la Volkswagen, costretta a chiedere il permesso a Diego Della Valle?

È vero che c’è una proposta arrivata tramite un consulente del gruppo Volkswagen per avere la disponibilità dell’uso del Colosseo per un evento che riguarda il lancio di un nuovo modello. Effettivamente io ne ho parlato con Diego Della Valle e ora dovremmo vederci a breve perché, anche se il contratto non l’ho visto, mi sembra di capire che ci sia questo problema.

Il segretario della Uil Gianfranco Cerasoli sostiene che, solo questo evento della Volkswagen, poteva fruttare una cifra intorno al milione di euro.

No, la cifra è più bassa. Prima ci è stata scritta una lettera che conteneva un’offerta molto più bassa. Poi a voce mi è stata fatta un’ipotesi che, in caso di accordo poteva arrivare a un ammontare molto più alto, fino a una cifra di 500 mila euro. Ma non c’è stata negoziazione perché devo prima incontrare Diego Della Valle per capire bene come si possa risolvere questo problema.

Non ritiene che l’uso del Colosseo e del suo sfruttamento commerciale sia stato concesso in esclusiva per 15 anni con troppa leggerezza?

Guardi, l’unica cosa che posso dirle è che, da quando sono arrivato, io ho sempre detto che bisogna attrarre i privati perché è sempre un fatto positivo. I privati possono mettere soldi e competenze. Ad esempio ad Ercolano da dieci anni collaboriamo con la Fondazione Packard (David Woodley Packard, con la sua fondazione Packard Humanities Institute Ndr) che però ha fatto mecenatismo puro. Ha messo denari e ha messo competenze ed Ercolano è un esempio molto positivo.

È vero che in questo caso non l’hanno coinvolta e non hanno coinvolto nemmeno il gabinetto del ministro e il suo ufficio legislativo?

Preferirei non parlare di questo argomento. In fondo io non ho competenza perché ricade sotto il commissario straordinario, l’architetto Roberto Cecchi. C'è un decreto della presidenza del consiglio che gli dà i poteri.

La Volkswagen cosa voleva fare?

Voleva fare un lancio della nuova autovettura con una serie di serate all’infuori degli orari per invitare i loro distributori provenienti da tutte le parti del mondo. Poi però si è tutto bloccato e so che stanno valutando altre sedi europee. Peccato. Loro avevano un forte interesse perché lei capisce che il Colosseo è un’icona mondiale ma la cosa non è andata avanti e penso si stiano ritirando.

Il Colosseo secondo lei ha delle potenzialità di sfruttamento commerciale inespresse?

Ma certo. Lei pensi al Gladiatore. Siamo a dieci anni dall’uscita del film Il Gladiatore e abbiamo visto con grande chiarezza che certamente ci ha portato in tutto il mondo grandissima notorietà. Non a caso noi stiamo parlando adesso con Woody Allen perché vuole fare un film ambientato a Roma (il regista ha annunciato che trascorrerà l’estate nella Capitale per girare la sua nuova pellicola, ndr) e noi gli abbiamo detto che siamo disponibilissimi ad aiutarlo se ha bisogno di ambientazioni nei monumenti di Roma, musei. Lei immagini Il fantasma del Louvre quanto ha aiutato il Louvre. Io mi occupo di comunicazione e il mio obiettivo è proprio quello di portare più visitatori. Io da quando sono arrivato ho puntato su questo e il mio obiettivo non è la mercificazione ma l’avvicinamento dei monumenti al popolo. In due mesi abbiamo fatto più 27 per cento di visitatori.

Se Woody Allen volesse usare Il Colosseo, dovrebbe chiedere il permesso alla Tod’s?

Preferisco non rispondere. Chieda al ministero e al sottosegretario Giro. Io le posso dire solo che incontrerò Della Valle al ritorno dal mio viaggio negli Stati Uniti, tra un paio di settimane poiché abbiamo questa richiesta specifica della Volkswagen. Ci potrebbero essere i numeri uno del mondo in quell'evento e fare un party simile al Colosseo non sarebbe male.

Volkswagen ha rinunciato?

Io ho parlato due giorni fa con chi ha in mano la cosa e sono scoraggiati ma vediamo di risolverla. Io vorrei condividere con Della Valle una strategia di valorizzazione che la mia direzione generale ha in mente e che è lontana dalla mercificazione.

Partiti e società civile. Insieme, in una "Notte bianca" per difendere la democrazia italiana. E per fermare l´ennesima legge ad personam ideata per proteggere Silvio Berlusconi: in particolare la combinazione tra processo breve e prescrizione breve che rischia di cancellare migliaia di cause e con essere le aspettative di tante parti lese. La "Notte bianca" è un´iniziativa promossa da Articolo 21, Libertà e Giustizia, Popolo Viola, Partito democratico e Italia dei valori. Appuntamento a Roma, martedì 5 aprile. Prima in piazza Montecitorio, nel pomeriggio, quando la Camera esaminerà i provvedimenti al centro della polemica. Poi dalle 20 alle 24, in piazza Santi Apostoli. Per un incontro in nome della Costituzione e del tricolore.

Tanti gli interventi attesi. Artisti, rappresentati delle associazioni e delle forze politiche. In un happening che vedrà anche la partecipazione di esponenti del Terzo polo e di Sinistra e Libertà. L´obiettivo è incontrare i cittadini, portare nelle strade le motivazioni della campagna contro i provvedimenti messi in cantiere dal governo.

La manifestazione del 5 aprile non è la sola prevista. La protesta è diffusa, e grazie alle rete sono tante le micro iniziative che vengono annunciate. In grande fermento il Popolo Viola. Che oltre ad animare il presidio permanente all´esterno del Parlamento, ha stilato un denso calendario di sit-in e flash mob all´esterno delle prefetture di tutt´Italia. Poi Libertà e Giustizia, che con "Le strade e le piazze della Costituzione" darà vita a numerosi incontri nelle città italiane.

E proprio per spiegare le ragioni della protesta, Libertà e Giustizia pubblica sul proprio sito un intervento del suo presidente onorario Gustavo Zagrebelsky. "Dobbiamo avere chiaro - scrive l´ex presidente della Corte costituzionale - che in gioco non c´è la sorte processuale di una persona. C´è l´affermazione che, se se ne hanno i mezzi economici, mediatici e politici, si può fare quello che si vuole, in barba alla legge che vale invece per tutti coloro che di quei mezzi non dispongono". E ancora: "Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità. Dobbiamo evitare che le piazze si scaldino ancora. La democrazia non è il regime della piazza irrazionale. Lo è la demagogia. La democrazia richiede però cittadini partecipi, attenti, responsabili, capaci di mobilitarsi nel momento giusto".

Intanto, nel Pd, da registrare la posizione di Rosy Bindi. Che invita i democratici a un´opposizione più dura: «Non si può ignorare che il marasma in cui è precipitata la maggioranza, e che ha portato al rinvio del processo breve, è stato innescato dalla saldatura tra la protesta sacrosanta e necessaria della piazza e la nostra battaglia parlamentare». E il partito di Bersani annuncia, per venerdì 8 aprile, un´altra "Notte Bianca". Iniziative a Torino, Milano, Bologna e Napoli. Ancora in piazza, per la democrazia e la scuola pubblica.

Ancora una volta a favore della pace e della manifestazione che oggi la invoca da piazza Navona a Roma e non solo. Senza se e senza ma, come già abbiamo fatto per l'Iraq, per l'Afghanistan, per la Somalia, per l'ex Jugoslavia. Direi, anzi, che oggi possiamo farlo con più convinzione di prima perché ognuna delle precedenti vicende ci ha ormai insegnato che a mano armata non si toglie il burka alle donne, non si cacciano gli integralisti, non si sconfigge il nazionalismo, non si instaura la democrazia. Si fanno solo più morti innocenti, si accumula più rabbia, rancori, catene di risentimenti. Sopratutto si ammazza la sola forza che può, per difficile che sia e certo in tempi lunghi, ottenere ciò che con gli interventi militari detti umanitari non si strappa: una società civile articolata, capace di creare egemonia, di intervenire sul potere, di controllarlo, denunciarne gli abusi. Meccanismi elettorali e istituzioni calate dall'alto, senza questo protagonismo sono solo belletto, così come le bombe servono solo a far tacere, intimidire,confondere, marginalizzare ogni soggettività popolare.

Lo so che talvolta la via della pace è difficile e si vorrebbero delle scorciatoie per cacciare più presto questo o quel dittatore. Ma non ci sono: restano solo più cadaveri, e non vorrei entrare nel conteggio di quanti siano quelli dei ribelli e quanti dei coscritti di Gheddafi. Il fatto anche più grave è che ferite gravemente già appaiono le primavere arabe che dalla vicenda libica non escono rafforzate ma deviate per via di un intervento esterno ed autoritario che ha loro tolto ruolo. Per via di un'azione armata che ha già scelto i suoi paladini: i prodi ministri scappati all'ultimo momento (e fra questi persino che si è stato a capo nientemeno che del dicastero della giustizia e degli interni del regime) ai quali viene affidato il compito di costruire la democrazia libica.

C'erano altre soluzioni che, dopo la prima ribellione di Bengasi, avrebbero potuto favorire una via d'uscita, quella che sin dai primi giorni ha continuato a suggerire monsignor Martinelli: il negoziato, la mediazione, ma anche l'isolamento politico che avrebbe potuto alla fine e con meno sangue strozzare il regime. Non ci si è neppure provato, si è scelta la via dei bombardamenti a tappeto, la violazione del mandato dell'Onu, ora si discute di armare i ribelli e si inviano le «truppe dell'ombra», i consiglieri della Cia, entrando a gamba tesa in una vicenda che riafferma il potere dei più forti di decidere sugli affari del mondo: libertà di fare quel che vuole al sovrano del Bahrein, o ai militari israeliani a Gaza, non a Gheddafi. Cui naturalmente questa libertà andrebbe tolta, e al più presto. Ma se lo si fa in nome di questa pelosa giustizia sarà difficile far accettare a chiunque nuove regole di convivenza internazionale.

Giorni fa al Left Forum che come ogni anno si tiene a New York riunendo circa 5.000 militanti della variegata sinistra americana, avrebbe dovuto intervenire una donna afghana, deputata nella passata legislatura. Washington le ha negato il visto, ma si è riusciti a vederla e ad ascoltarla ugualmente attraverso sky pay e l'immagine ingrandita sullo schermo in una grande affollatissima sala. Se venissero ascoltate le sue parole, non dico dai potenti che hanno buone ragioni per tapparsi le orecchie, ma da chi tentenna di fronte alla condanna delle guerre umanitarie, capirebbe cosa vuol dire esser state «liberate» dalle armi e imparerebbe che l'alternativa non è stare con le mani in mano, ma sostenere - e ci sono mille modi di farlo - chi si impegna a far crescere, dal di dentro, le condizioni del protagonismo democratico.

Nel silenzio generale, passa alla camera l'aumento del tetto della trattativa privata negli appalti pubblici: meno gare, niente trasparenza, uguale più corruzione

Il 15 marzo, con un emendamento approvato nel disegno di legge per lo statuto delle imprese, l’aula della camera dei deputati ha triplicato la soglia che consente l’uso della trattativa privata senza pubblicità negli appalti pubblici, innalzata da 500.000 euro a 1.500.000 euro.

Emendamento proposto dalla Lega Nord, approvato da una maggioranza bulgara e traversale con 485 voti favorevoli, solo 2 astenuti e nessun contrario, dentro un provvedimento approvato dalla camera e ora avviato per la discussione al senato.

Gli effetti sul mercato sono dirompenti: la sottrazione dalle gare di una quota robusta di lavori pubblici, senza alcuna forma di pubblicità, aiuterà di sicuro la già dilagante corruzione. Il Cresme ha effettuato una stima dell’impatto della norma per Edilizia e Territorio (settimanale del Sole 24 ore) da cui si deduce che prendendo come riferimento l’anno 2010, verrà sottratto al mercato il 76% dei bandi di gara in termini di numero e circa il 16% se si calcola il valore in termini di importo. In pratica su 18.848 bandi emessi nel 2010, ben 14.239 sarebbero stati affidati senza bando e senza pubblicità, direttamente dal responsabile del procedimento. In termini di valore questo equivarrebbe a sottrarre al mercato circa 5,1 miliardi di lavori pubblici su di un totale di 32, 9 miliardi di investimenti pubblici.

In più con altri emendamenti il ddl sullo statuto alle amministrazioni pubbliche, vi è l’esplicito mandato di favorire negli appalti le imprese del territorio, per quelle con meno di 250 dipendenti e con meno di 50 milioni di fatturato. Non è chiaro come questo possa in pratica avvenire dato che tutte le normative europee ed italiane vietano ogni riserva in materia di gare e lavori, ma forse si pensa di rispettare questa indicazione proprio con la trattativa privata dove l’ente locale potrà scegliere in modo discrezionale, senza motivazione e senza pubblicità, a chi affidare i lavori.

Nella stessa norma, la soglia per le amministrazioni locali, da affidare direttamente e senza gara gli incarichi di progettazione, viene innalzata da 100.000 a 193.000. Una norma contro la quale si è già scagliata pesantemente l’Oice (associazione delle società di ingegneria) che ha denunciato la scomparsa del mercato della progettazione e l’incremento quindi dei costi, dato che il 91% dei bandi rientra in questa soglia.

L’argomento invocato per affidare direttamente i lavori è il solito: fare presto, togliere i lacci e lacciuoli come richiesto dalle amministrazioni, venire incontro alle difficoltà dei piccoli comuni impossibilitati a selezionare decine di imprese per ogni gara data la scarsità di risorse e personale, nonché una “sedicente” autonomia territoriale invocata dalla Lega Nord. Problemi reali ai quali però è stata data una risposta completamente sbagliata, mentre si doveva semplificare ed unificare le stazioni appaltanti (per esempio a scala provinciale) dentro un unico soggetto pubblico in modo da fornire professionalità, risorse e trasparenza dei bandi e dei risultati delle gare. È noto che anche la polverizzazione delle gare rende difficile controllo e vigilanza e quindi incrementa comportamenti e pressioni illecite.

Contro l’innalzamento della trattativa privata si è schierata l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici. Il suo presidente Giuseppe Brienza è stato molto netto: con questa norma ben il 96% degli appalti dei comuni è sottratto al mercato, e ha censurato soprattutto la mancanza di obbligo di pubblicità e trasparenza. Ha fatto anche capire che se la norma non verrà corretta dal Senato si renderà necessario un provvedimento dell’Autorità che renda indispensabile la motivazione con cui l’amministrazione intende applicare l’affidamento diretto, quali siano le regole comunque da applicare e quali i criteri di invito alla procedura informale. Solo a queste condizioni minime sarà possibile svolgere un’azione di vigilanza su questi lavori, che sfuggirebbero non solo alla concorrenza ma anche al controllo dell’Autorità.

Del resto la stessa Autorità a gennaio aveva reso pubblici i risultati di una ricognizione sugli affidamenti a trattativa privata dei grandi comuni degli ultimi tre anni (2007-2010), da cui era emerso un quadro desolante: con più di 80.000 contratti per un valore di 61 milioni affidati senza gara. Da quando nel 2008 la soglia era stata innalzata a 500.000 euro per la trattativa privata vi era stato un incremento vertiginoso di lavori senza gara dove un lavoro su due era ormai affidato senza procedura competitiva. Il comune di Roma è stato tra i più solerti ad affidare senza gara con ben 42 bandi e un valore nel triennio di ben 248 milioni di euro. Non solo, in diversi casi i lavori sono stati frazionati artificiosamente proprio per rientrare sotto la soglia fissata per poter applicare la trattativa privata.

Nonostante che questa soglia, questo limite per consentire l’uso della trattativa privata sia stato ritoccato dall’approvazione della legge Merloni nel 1994 ben 5 volte. La norma originaria prevedeva 150.000 ecu di soglia, diventata 300.000 nel 1998. Nel 2002 si consente la trattativa privata fino a 100.000 euro e fino a 300.000 in caso di gara deserta. Nel 2006 si attesta a 100.000 euro per poi balzare nel 2008 a 500.000 e adesso, se la norma verrà confermata anche dal Senato, triplicherà fino ad arrivare a 1.500.000 euro. Quindi si era già tenuto conto delle difficoltà delle amministrazioni locali, nonché delle direttive europee, che contemplano delle soglie molto ampie dato che devono essere il riferimento per tutti i paesi, mentre gli effetti di sottrazione dal mercato sono soprattutto in quei paesi come l’Italia dove vi sono migliaia di istituzioni locali e una miriade di piccole e medie imprese, mentre in altri paesi come la Germania o la Francia il numero di appalti sotto queste soglie è decisamente minore.

Anche l’Ance si è schierata duramente contro l’aumento della trattativa privata e il suo presidente Paolo Buzzetti ha parlato di un mercato che “andrebbe sott’acqua”, proponendo in alternativa l’innalzamento a un massimo di 1 milione di euro con precisi obblighi di trasparenza come la rotazione degli inviti, l’obbligo di pubblicità per ogni fase dell’affidamento.

Mentre l’Aniem, l’associazione delle piccole e medie imprese edili, si è schierata a favore della norma “perché da 15 anni il settore degli appalti pubblici è bloccato con leggi da stato di polizia” e con questo provvedimento si supererebbe questa situazione di controllo. Insomma la logica è sempre quella: dato che i controlli servono a ben poco contro la corruzione meglio eliminarli!

La gravità della norma, a mio giudizio, sta anche nel fatto che si somma a tante procedure specifiche e speciali sottratte al mercato, dove la trattativa privata e la deroga sono diventate la regola, nelle grandi opere, per gli eventi speciali e le ricostruzioni dopo terremoti e alluvioni.

È il caso dell’alta velocità ferroviaria, dove tre tratte per oltre cinque miliardi di lavori sono state restituite a trattativa privata ai vecchi consorzi, dei lavori nel settore autostradale dove la nuova riforma del governo di centrodestra consente alle concessionarie di svolgere in house il 60% dei lavori, per le opere e gli interventi della protezione civile, inclusi gli eventi speciali, che sono affidati direttamente in nome dell’emergenza (e abbiamo visto i risultati con le inchieste della magistratura sulla “cricca”).

Mentre inchieste sono già in corso sulle infiltrazioni per la ricostruzione dell’Aquila e in Abruzzo e sia per il business lanciato dall’Expo di Milano, dove è presente la “ndrangheta”. È la stessa recente relazione annuale antimafia inviata al parlamento a darne conto con un quadro drammatico della strategia e della capacità delle cosche mafiose di infiltrarsi negli appalti e nel ciclo di realizzazione degli interventi, con un mercato parallelo molto ben gestito e organizzato, e anche conveniente per l’imprenditore. Tranne che per lo stato e per la collettività che impegna i soldi per la realizzazione dell’opera pubblica.

Quindi buona parte del mercato ormai, sia per grandi opere e sia per piccoli interventi è ormai sottratto alla concorrenza e alla trasparenza, mentre le inchieste della magistratura registrano gravi fenomeni di corruzione e concussione nell’affidamento di appalti, lavori e servizi.

La Corte dei Conti, presieduta da Luigi Giampaolino, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 nella sua relazione ha censurato questi fenomeni nel settore degli appalti, prodotti da una grave elusione delle regole, con un’aggressione continua alla concorrenza, il massiccio ricorso alla trattativa privata anche in violazione delle norme al quale sovente risultano connesse tangenti per favorire gli affidamenti. Fenomeni che hanno influenzato negativamente l’efficienza della spesa, la qualità di gestione delle amministrazioni e depresso la funzione anticiclica della spesa pubblica.

Non può dunque che creare allarme e preoccupazione l’emendamento che amplia la trattativa privata senza regole e senza pubblicità, approvato all’unanimità dalla camera, perché non tiene conto della situazione opaca e deformata già presente nel mercato a ogni livello. Siamo ancora in tempo per correggere la norma al senato, con una misura che coniughi efficienza e legalità.

Come si sono ridotti così? Prima un po’ alla volta, poi tutto insieme. Il volto, i volti della classe dirigente riflettono ormai la deriva di un’agonia politica. Il ghigno stupefacente di Ignazio La Russa, l’isterico lancio della tessera del guardasigilli Alfano, lo sguardo esterrefatto di Fini, i deputati leghisti che ringhiano «handicappata di merda» alla collega disabile Ileana Argentin.

La malattia degenerativa di una democrazia di colpo assume i modi, le espressioni, i gesti di un’esplosione schizofrenica. Nell’ora dei telegiornali milioni d’italiani assistono attoniti a uno spettacolo di degrado, di squallore definitivo. Dentro l’aula l’impressione era ancora più penosa. Da un momento all’altro ti aspettavi che i leghisti prendessero anche a calci la carrozzella della deputata tormentata dalla distrofia o che qualcuno estraesse all’improvviso un’arma, come in Bowling for Colombine. Ogni tanto bisognava uscire fuori, per strada, fra la folla ordinata e pacifica che contestava in piazza Montecitorio, per respirare un po’ di normalità civile.

Vergogniamoci pure per loro, che non ne sono capaci. Ma perché sono arrivati a tanto? Il fatto è che il governo non esiste, la maggioranza non esiste e lo sa. Non esistono più da tre mesi, dal 14 dicembre scorso, quando il governo avrebbe dovuto essere sfiduciato dalla Camera e invece la scampò per i voltagabbana dell’ultima ora, i dipietristi pentiti Scilipoti e Razzi. Un colpo di coda col quale il premier è riuscito a garantire la propria sopravvivenza, ma niente di più. Il governo, la maggioranza sono comunque morti il 14 dicembre. Non decidono più, non sussistono. Se non all’unico scopo di sfornare leggi in grado di proteggere il premier dai processi. Per il resto, il governo è una nave fantasma, incapace da dicembre di compiere qualsiasi scelta, qualunque cosa accada. Terremoti, tsunami, crisi nucleari, guerre civili alle porte, rivoluzioni a un tiro di missile da casa. Niente. Disoccupazione, inflazione, scalate estere ai gruppi industriali. Silenzio. Uno dopo l’altro, sono spariti dalla scena i ministeri e i ministri, anche i più popolari e decisionisti. Che fine hanno fatto Brunetta, Maroni, Gelmini, perfino Tremonti? Ridotti a comparse. Sulla scena rimane l’ondivago Frattini, il nulla stesso fatto ministro, inventore del situazionismo in politica estera. E l’improvvisatore Ignazio La Russa, che fa notizia soltanto per calci, insulti e gestacci, mai per essere ministro della Difesa della nazione al centro del Mediterraneo in fiamme. Il mondo procede già come se l’Italia non avesse ufficialmente un governo, a prescindere. Perché convocare a un summit sulla crisi libica una sedia vuota?

Libera da ogni altra missione che non sia la salvaguardia di Berlusconi dalla legge, la maggioranza si divide soltanto sulle linee difensive. Oggi il gran dibattito nel centrodestra si svolge fra avvocati di Berlusconi, all’interno dei due principali studi legali. Quello di Gaetano Pecorella, scettico sulla necessità della battaglia per la prescrizione breve, e l’altro di Niccolò Ghedini, ideatore di leggi ad personam sempre più modellate sulle stringenti esigenze di Berlusconi. Con il ministro Alfano e la Lega nel ruolo di arlecchini servitori di due padroni.

È una condizione abbastanza umiliante da spiegare la deflagrazione di rabbia e violenza di questi giorni, il senso d’inutilità che esplode in un misto di rancore e vittimismo. Tanto più da parte di chi, come gli ex An e i leghisti, coltivava l’ambizione di far politica o almeno la pretesa di farlo credere agli elettori. Ma si ritrova imprigionato nella livrea del maggiordomo, scavalcato nella considerazione dall’ultimo venduto, dall’ultimo compagno di merende e compagna di bunga bunga, e allora se la prende con gli avversari, con i manifestanti, con chiunque ancora osi esibire brandelli di dignità, segnali di esistenza. Il governo e la maggioranza non ci sono più. Nella notte si sono svolte trattative fra i collegi di avvocati del premier, in vista della riconvocazione della Camera. Sarà un altro spettacolo d’angoscia. Per fortuna martedì torneranno in piazza anche i manifestanti in difesa della Costituzione, così potremo uscire ogni tanto dal manicomio di Montecitorio a respirare un po’ di civiltà.

Oggi la lotta contro i magistrati; solo ieri è finita la campagna contro i "baroni" universitari. Prima debellati questi – soltanto per i profili più importanti: un po´ di piccolo potere locale è loro rimasto – , ora minacciati quelli. Certo, la politica di Berlusconi è soprattutto una storia di salvezza personale: su questo obiettivo si orientano molte delle residue energie del governo. Ma c´è un senso anche nell´attività politica non direttamente riconducibile alle sorti individuali del premier. Ed è un pessimo senso.

Che ha come obiettivo principale la riduzione del potere e dell´influenza delle élites tradizionali, cioè di quelle vaste e articolate formazioni di specialisti intellettualmente e professionalmente qualificati che costituiscono l´ossatura di uno Stato e che garantiscono l´interfaccia tra attività di governo e dinamiche della società civile; che sono indispensabili alle strutture d´ordine e alla dinamiche di progresso. Anche se non sono portatori della razionalità stessa dello Stato – come voleva Hegel – , si tratta di ceti dal ruolo strategico, anche nel mondo d´oggi: ogni Paese li produce e li seleziona in modi diversi, secondo storia, caratteristiche e esigenze.

In alcune realtà, come la Francia, si tratta prevalentemente di grandi burocrati; in altre, di militari; in altre ancora, come l´Italia, di professori e giuristi. Sono agglomerati istituzionali, o semi-istituzionali, che costituiscono una preziosa riserva di sapere e di potere (o almeno di competenze e di influenza) nella società e nella politica; come una sorta di ossatura, di spina dorsale, del Paese, che, informalmente, ne assicura la stabilità, che ne cura e rinnova gli interessi permanenti. Un interlocutore indispensabile per la politica: non per chiedere privilegi, ma per darle aiuto, per assicurarle coerenza, per istituire con essa una dialettica il più possibile ricca e feconda. Una società democratica, uno Stato liberale, una repubblica minimamente certa di sé, si articolano anche in questa complessità, in questa ricchezza.

Contro la quale, invece, si scaglia – sistematicamente, coscientemente, coerentemente – la strategia della maggioranza: che infatti non è né liberale né democratica ma populista. E del populismo condivide il timore e il disprezzo per le élites, il risentimento contro il presunto privilegio dei "pochi" che non si presentano come parvenus ma che esibiscono un´appartenenza di ceto, comportamenti dettati non dalla smania di acquisizione o di protagonismo ma dall´ethos e dall´orgoglio professionale, dalla consapevolezza del merito, dalla certezza del dovere. Contro questi "poteri forti", contro questi "radical chic", contro questi "aristocratici da salotto", viene scatenata la massa populista; a cui si additano i professori come indecenti nepotisti, e i magistrati come impuniti persecutori di innocenti; agli uni e agli altri – pur così diversi tra loro, quanto a funzione – deve essere fatta pagare la loro aria di superiorità, il sentore di privilegio che li accompagna. In realtà, quello che devono veramente scontare è di essere un contropotere rispetto al potere politico: un contropotere debole, che chi ha vinto le elezioni – e dunque è in possesso dell´unica legittimità che, secondo il pensiero dominante, possa essere fatta valere – può spazzare via, o almeno intimidire, ridurre a più miti consigli, con una strategia di bastone (molto) e di carota (poca), volta a disarticolare i ceti, a costringere i singoli componenti alla trattativa. La Casta (vera) contro le Caste (presunte).

Fare una riforma dell´Università che ponga "al centro lo studente", istituire la responsabilità civile dei magistrati, sono – nelle condizioni di oggi – solo abili mosse demagogiche che hanno la finalità reale di ridurre all´obbedienza élites riottose. Benché sia vero che nessuna di esse è immune da pecche, anche gravi, la lotta del potere politico non è contro queste, quanto piuttosto contro il ‘sistema´ stesso delle élites, i cui membri devono limitarsi a erogare anonimamente un "servizio" tecnico meramente funzionale.

Del tutto in linea con questo intento è anche il finanziare la cultura rendendone evidente e sommamente impopolare la fonte – le accise sulla benzina – come per mettere il popolo, le masse, contro i lussi sofisticati e incomprensibili dei "pochi". E perfino la lotta contro i metalmeccanici – quel che resta dell´aristocrazia operaia – è interpretabile, oltre che nelle sue connotazioni più ovvie, anche all´interno del medesimo disegno di riduzione tendenziale della società a uno spazio liscio, disorganizzato, abitato da consumatori massificati, in cui emerge solo il potere plebiscitario di chi ha vinto le elezioni, più qualche folkloristico campanile a rappresentare le "radici" del popolo. Unica élite ammessa, a scopi meramente funzionali e, com´è giusto, rigorosamente individuali: gli avvocati difensori.

Questo è un problema per l´oggi e per il domani, durante Berlusconi e dopo Berlusconi: qualcuno, un po´ lungimirante (se c´è), dovrà pure cominciare anche a pensare in termini di ricostituzione delle élites, cioè di saperi e competenze che a partire da una specifica professionalità sappiano costituire l´ossatura generale del Paese. E intanto, per favore, coloro che stanno realizzando questa Italia invertebrata, almeno non si definiscano liberali.

Provate a immaginare un vostro nonno. Non dico uno di quelli che sono partiti per l'America con un posto ponte sulla nave, biglietto di sola andata. Anche un nonno che lascia il paese in Calabria per andare a cercare lavoro a Torino. Immaginatelo ragazzo. A diciott'anni, diciamo. Che tutta la famiglia per anni ha messo da parte quel che gli sarebbe servito a partire, pochi soldi e due vestiti. Che saluta con la valigia in mano la madre il padre i fratelli, gli amici e la ragazza che ama. Che non ha mai visto nient' altro che i campi attorno a casa sua, che ha paura, che non sa cosa l'aspetta, che va in un posto lontanissimo di cui non conosce bene la lingua, l'italiano, e dove fa freddo e non ci sarà nessuno ad aspettarlo. Però va perché non c'è altro da fare, perché i suoi genitori la sua famiglia tutto il suo mondo si aspettano questo da lui, che parta e trovi un lavoro e mandi a casa i soldi per campare, che sia la loro promessa di vita e la sua. Secondo voi se vostro nonno, all' arrivo a Torino, alla stazione, alla fine di quel viaggio che sembra lungo giorni invece dura l’esistenza intera, se scendendo dal treno avesse trovato un funzionario con un foglio da firmare e cento lire in mano, uno che gli diceva “ti do questi soldi se torni a casa tua” lui sarebbe tornato? Io di mio nonno penso di no. Forse mi sbaglio, perché uno non sta mai davvero nella testa di un altro. Ma penso che gli avrebbe detto no, guardi, cento lire se le tenga non so cosa farmene: a me serve una vita. Lei ce l'ha una vita da darmi? Allora si sposti, scusi, che devo passare e cercarmela da solo. Con queste gambe e queste mani che son tutto quello che ho.

Penso anche che uno che scende da una barca su cui ha attraversato il mare rischiando di morire e vedendo morire quelli attorno a sé sia anche meno propenso di mio nonno ad accettare 1500 euro in cambio della rinuncia alla vita che ha sperato. È un’offerta insensata e umiliante persino per chi la fa. A volte basta poco per dire e proporre cose sensate, eventualità utilissima specie se il compito è quello di governare un Paese, lo dico pensando al ministro Frattini che immagina di risolvere il problema della fuga dal Nord Africa mettendo in mano la mancia ai disperati che arrivano. Basta mettersi per qualche secondo, sforzandosi persino cinque minuti, nei panni di chi si ha di fronte.

Mettersi nei panni e ascoltare. Diranno che è un atteggiamento emotivo e non razionale. Difendo la razionalità delle emozioni, penso alla piazza di ieri. Chi non abbia ancora capito cosa muove la protesta per l'acqua pubblica (in specie quella sull'acqua, ma anche sul nucleare – di cui abbiamo moltissimo parlato in queste pagine – e sulla giustizia) non ha nessuna idea del paese in cui vive, della gente che lo abita, di cosa può accadere quando goccia dopo goccia si buca la pietra. C'è un film bellissimo, “Anche la pioggia” (Tambièn la lluvia, ne ho già parlato qui) che racconta della rivolta per l'acqua pubblica in Bolivia. Sì, sì, lo so. L'Italia non è la Bolivia. I disperati che muoiono in mare non sono i nostri nonni con la valigia di cartone. Però somigliano, a guardare da vicino e a trovare le analogie tra quel che cambia nel tempo che cambia. Gli uomini, alla fine e in ogni luogo, c'è qualcosa per cui sono disposti a morire. Per dar da bere ai figli, per farli nascere in un luogo dove possano crescere. Per ribellione all'ingiustizia. Per essere liberi di pensare e di parlare, persino, certe volte, alcuni.

ACQUA PUBBLICA

LA PIAZZA, LA SORPRESA


di Angelo Mastrandrea

Impressione numero uno, guardando il lento fluire della manifestazione che si appresta a inondare piazza San Giovanni a Roma: il colore azzurro dell'acqua domina su tutto, chiazze di giallo rimandano al nucleare, l'arcobaleno compare a sprazzi come da previsioni della vigilia. Impressione numero due, dopo aver visto sfilare due terzi del corteo: confermato il primo colpo d'occhio cromatico, ma «il bello, il brutto e il cattivo» del titolo del manifesto di giornata, vale a dire l'acqua, il nucleare e la guerra, è come se si fossero fusi in un sentimento unico, producendo un'inedita contaminazione di pacifismo e ambientalismo. Impressione numero tre, abbandonando la piazza: non si è ascoltato un solo slogan su Berlusconi e sul governo. A ben sentire, nemmeno sull'opposizione. Quasi che il giudizio fosse nei fatti: la legge che privatizza le risorse idriche è opera del Pdl, ma sulla stessa barca ci sono un'abbondante fetta del centrosinistra, Confindustria e una potente lobby trasversale non seconda a quella (altrettanto trasversale) che lavora per il ritorno al nucleare.

Stando così le cose, quante possibilità ha un ecologismo popolare così diffuso di incidere realmente sulle scelte politiche del nostro Paese? Poche, pochissime, a giudicare dal boicottaggio politico e dal sostanziale silenzio mediatico su questioni che pure coinvolgono milioni di persone. L'unica speranza è che il 12 giugno ci svegliamo con una sorpresa: spiagge vuote e urne piene di sì per l'acqua pubblica e per l'abbandono del nucleare. La piazza di ieri dice che la sorpresa, e non sarebbe la prima volta in Italia, è a portata di mano.

MARCIA PER LA VITTORIA

di Andrea Palladino

Una grande manifestazione apre la campagna referendaria di giugno. Gli organizzatori: siamo 300 mila. In piazza centinaia di comitati per l'acqua pubblica da tutta Italia: «Ora il quorum»

A ben pensarci c'è qualcosa di curioso nel vedere decine e decine di migliaia di persone sfilare, a Roma, per l'acqua. Non è la Bolivia delle rivolte di qualche anno fa, o il Maghreb infiammato dai costi dei beni essenziali. È un paese pigro e cupo, l'Italia che ci mostrano quotidianamente, che nulla dovrebbe avere a che fare con un movimento così forte, capillare, anticonformista e orgoglioso come quello che chiede - da almeno cinque anni - di cambiare la politica partendo dal concetto di beni comuni. Eppure ieri a Roma centinaia di comitati cittadini, associazioni più o meno informali, parti di una rete cresciuta nel silenzio allineato dell'informazione e della politica - almeno quella parlamentare - hanno riaffermato la centralità del movimento per i beni comuni nel nostro paese. Con volontà e creatività, prendendo in mano per qualche ora la capitale, puntando al raggiungere il quorum dopo sedici anni di referendum falliti, un obiettivo che potrebbe rivoluzionare la politica italiana, soprattutto a sinistra.

Un milione e quattrocentomila firme raccolte in tre mesi non avrebbero senso senza tenere a mente questo volto della società italiana dell'era di Berlusconi, che è la vera spina dorsale di quello che i media chiamano - semplificando - il popolo dell'acqua.

Elencare le città comporebbe una lista immensa e senza senso. Conviene allora citare una parte importante e unica del movimento, il gruppo degli enti locali per l'acqua pubblica che ieri aprivano il corteo con i gonfaloni storici delle città. Un'intera regione, le Marche, le province di Cagliari e Campobasso e tantissimi comuni, con i sindaci, le delegazioni, le fasce tricolori. Uno fra tutti, quello di Aprilia, che con determinazione ha presentato il foglio di via al gestore privato Acqualatina, dopo avere visto le pattuglie con vigilantes armati andare a staccare l'acqua a chi contestava gli aumenti a tre cifre.

Il ricordo della prima manifestazione nazionale - che ha percorso le vie di Roma nel 2009 - sembra già affondare nella preistoria. Allora i manifestanti erano meno di quarantamila e il punto di arrivo era la piccola piazza Farnese, con un piccolo camion come palco. Lo scorso anno il centro storico venne letteralmente invaso dalle centinaia - oggi forse migliaia - di comitati cittadini, Sembrava l'apice di un movimento, un punto di non ritorno. Non era che l'inizio.

Ieri i movimenti per l'acqua non hanno temuto di accogliere le altre parti della società civile, quella antinuclearista e l'anima pacifista. E non era solo la cronaca ad imporre un ritmo differente, una suddivisione del corteo, sostanzialmente aperto e coinvolgente. Qualcosa sta cambiando, a ben guardare i trecentomila volti sfilati da piazza della Repubblica fino a San Giovanni, sfidando i grandi numeri. Ci sono segnali chiari e oggettivi, che rendono misurabile il movimento: «Lo scorso anno avevamo si e no riempito un pullman - spiegano i gruppi venuti dalla Calabria - quest'anno ne abbiamo organizzati quattro, e saremmo andati oltre se non c'era un problema di costo». Stessi numeri e stesso balzo in avanti per un'altra regione, il Piemonte. E poi la presenza forte delle zone storiche del Pd - che sul tema dell'acqua mostra ancora molte ambiguità - come la Toscana e l'Emilia Romagna. E poi la Puglia alle prese con la prima grande ripubblicizzazione in Italia, la Campania, dove i comitati si trovano di fronte all'eterna emergenza dei rifiuti, la Sicilia, che grazie al movimento per l'acqua ha raggiunto il primo obiettivo di una legge regionale che potrebbe togliere le risorse idriche ai privati. E la Calabria, dove la rete che oggi si riunisce attorno alla difesa dei beni comuni era nata nell'ottobre del 2009, con la manifestazione di Amantea per la verità sulle navi dei veleni.

Il quorum da raggiungere per i referendum su acqua e nucleare sembra non spaventare i comitati che ieri hanno colorato una Roma un po' sonnacchiosa e primaverile. Un segno importante è stato la partecipazione del gruppo ecodem - l'area ecologista del Pd - al corteo, con uno striscione sorretto, tra gli altri, da Roberto Della Seta. In questi mesi la posizione dei democratici non era stata particolarmente netta, soprattutto sul secondo quesito che prevede l'eliminazione del profitto garantito per i gestori privati dell'acqua. E proprio gli ecodem fin dall'inizio avevano agitato lo spettro del quorum ritenuto impossibile da raggiungere. Con il disastro di Fukushima le cose sono ovviamente cambiate. Ma forse è cambiata anche la percezione che viene dai territori, dove il Pd vede crescere in maniera esponenziale il movimento per l'acqua. Un confronto che guadagna sempre più consenso e coscienza critica.

NO NUKE

«SOLE, VENTO E MARE MA NON NUCLEARE»

di Eleonora Martini

«La catastrofe nucleare in Giappone basta e avanza, fermiamo le centrali atomiche». Molti degli striscioni e delle bandiere gialle che punzecchiano qua e là il grande corteo blu-acqua di Roma, odorano ancora di fabbrica. Nuovi di zecca, come la miriade di comitati locali «Vota sì per fermare il nucleare» sorti come funghi in tutto lo Stivale nelle ultime settimane. «Siamo nati come movimento in difesa dell'acqua pubblica, ma è l'intero pianeta il nostro bene comune, da difendere a tutti i costi contro la follia atomica: una tecnologia inutile, rischiosa e costosa». Ma dopo Fukushima e dopo il grande «bluff» della moratoria sul piano nucleare pensata solo per boicottare il referendum, hanno deciso di esplicitare meglio il loro messaggio «No Nuke».

Due istanze, la proprietà collettiva dell'oro blu e un territorio denuclearizzato, che viaggiano a braccetto, e non conoscono idea politica: a sfilare nelle strade della capitale ci sono elettori di destra e di sinistra, c'è perfino «Fare Verde», un'associazione nata 25 anni fa come di estrema destra ma, tentano di spiegare le donne e gli uomini dello spezzone che qualcuno ha cercato di cacciare dal corteo, «ora è composta da cittadini di ogni orientamento politico», «molti di sinistra, come me», puntualizza un pescarese.

Ciascuno ha aggiunto un simbolo, una parola, contro il nucleare sullo striscione o sul cartello, o una spilla gialla appuntata sulla giacca. Calzano tute bianche e maschere antigas; una stilista fiorentina indossa la bandiera antinuclearista che ha trasformato in un abito da cortigiana. Sono solo delegazioni, però, perché decine di altre manifestazioni No nuke si sono tenute ieri contemporaneamente in molte città italiane. Alcuni sardi in trasferta a Roma raccontano che a Cagliari ieri in molti hanno risposto alla geofisica Margherita Hack, che ha indicato la Sardegna come miglior sito nucleare, portando in piazza il vessillo indipendentista nella versione radioattiva: quattro teschi al posto dei quattro mori. Arrivano dalla Lombardia e dall'Umbria: «Uniti vinceremo di nuovo: Italia denuclearizzata». Dalla Sicilia, dal Lazio e dalla Basilicata, dalla Puglia, dal Piemonte e dall'Abruzzo. Vengono dalla Campania e sono «di ogni appartenenza politica», i «Movimenti Cap» che portano striscioni numerati e con una scritta «Socialità e progresso»: sono i codici di avviamento postale delle singole città, un modo per dire che ogni paese è un popolo che dice «No al nucleare». «Perché - spiegano - lo sappiamo già che se ci sarà bisogno di una pattumiera per le scorie radioattive, saremo noi i primi della lista».

Greenpeace, Legambiente e Wwf hanno mobilitato migliaia di persone da tutta Italia. E sono tanti i lavoratori e gli imprenditori delle energie rinnovabili che hanno speso capitali, tempo, energia e speranze in progetti di produzione - fotovoltaico, soprattutto - e ora rischiano di perdere tutto a causa del decreto Romani. «Anni di battaglie burocratiche, progetti bocciati e ripresentati mille volte e poi infine approvati, non sai nemmeno perché, senza aver cambiato una virgola - racconta Roberto, ingegnere, che per il suo progetto aveva trovato anche capitali esteri -e ora, dopo due mesi dall'entrata in vigore dell'ultima legge, il governo cambia tutto. Il termine ultimo per allacciare gli impianti è il 31 maggio, ma per l'Enel ogni cavillo è buono per rinviare: sono due mesi e mezzo che aspettiamo». Una storia tra tante. Ma i politici che sfilano sono pochi, qualcuno degli Ecodem e dell'Idv, i Verdi, Sel e Rifondazione. Anche se, come dice Paolo Ferrero: «A differenza di tanti altri temi su cui abbiamo manifestato, questo del referendum sull'acqua e sul nucleare è un terreno dove si può concretamente vincere».

NO WAR

I PACIFISTI COME PESCI NELL ACQUA

di Cinzia Gubbini

Non è un mare di bandiere arcobaleno, che pure ci sono a colorare il blu dei vessilli del movimento per l'acqua pubblica. Ma una cosa è certa: l'arcobaleno è nel cuore dei difensori dei beni comuni. Forse un po' a sorpresa, visti i grandi dibattiti sulle lacerazioni interne al movimento pacifista, piazza San Giovanni ieri era integralmente contro i bombardamenti e per la pace. Ora, qualcuno a favore dell'intervento in Libia deciso dopo la risoluzione Onu ci sarà pure stato - uno, a fatica, lo abbiamo trovato pure noi - ma la maggior parte delle persone che si sono messe in marcia da piazza della Repubblica non ha dubbi: è stato un errore bombardare la Libia, e ancor peggiore è stata la decisione dell'Italia di partecipare per cercare un posto al sole.

Ragionamenti concreti, anche un filino sofferti, non chiacchiere in libertà. «Oggi avremmo portato tutte le bandiere, compresa quella arcobaleno, che comunque è nel nostro cuore e nella nostra testa», dicono Lorena e Stefania, arrivate da Modena. «Gli insorti chiedevano aiuto? Bisognava trovare altre strade. E ora inneggiano all'intervento armato? Non so, io ho letto cronache di gente anche molto molto disperata per gli effetti delle bombe occidentali», dice Lorena. «E poi - aggiunge Stefania, che indossa una maglietta di Emergency - vogliamo chiederci come mai lì sì e in altri posti no?». Fabio, un loro amico, prima sta zitto, ma poi interviene come un fiume in piena: «Che sia una guerra sbagliata lo si capisce dal fatto che neanche loro sanno più come uscirne. E bisogna mettersi in testa una cosa: non c'è una guerra che abbia risolto i problemi».

Che il concetto di «guerra umanitaria» sia penetrata anche a sinistra è una cosa che fa imbestialire Marianna, del centro sociale Mezza Canaja di Senigallia: «Non si fa una risoluzione Onu e dopo 20 minuti cadono le bombe, c'erano altre strade da tentare». Quali? «Armare i ribelli, aiutarli nel loro processo di rivolta sociale che certo avrebbe avuto i suoi tempi ma sarebbe stato più giusto». Daniele, compagno di centro sociale, annuisce: «Io un'idea chiara ancora non ce l'ho, ne discuteremo al centro. Ma mobilitarsi per l'acqua pubblica è più di istinto, il discorso sulla guerra richiede maggiore approfondimento».

Rosa e Pier Giorgio da Cosenza meriterebbero un capitolo a parte, se non altro per la loro storia: marito e moglie per vent'anni, da dieci sono separati, ma le manifestazioni se le fanno ancora insieme. Condividendo tutto, o quasi. Rosa infatti non apprezza che Pier Giorgio abbia portato un cartello apertamente anti berlusconiano («basta all'uso giudiziario della politica») perché «la questione dell'acqua riguarda tutti, e per vincere questo referendum dobbiamo prendere i voti di tutti. Non esiste destra e sinistra». Ma sulla questione della pace non ci piove: «Intervento sbagliatissimo. Certo, bisognava fermare il folle. Ma non così. E poi? L'Italia, col suo carico di passato colonialista, interviene in Cirenaica?». Contraria anche Agar, una ragazza nata a Roma ma di origine egiziana, che segue con passione le rivolte nel Maghreb: «Io sono contro Gheddafi, ma anche contro le bombe sui civili, senza dubbi».

E qualcuno che pensi fosse necessario intervenire armati? C'è: «Scriva pure il mio nome e cognome: Francesco Gatti da Nuoro. Io penso che ci sono situazioni un cui non bisogna avere paura di usare la forza per difendere i civili. Questa era una di quelle»

Guglielmo Ragozzino, Democrazia in cammino

Marco Bersani, La prima tappa di una sfida decisiva

Eleonora Martini intervista Stefano Ciafani, «Il quorum? Non ci fa paura Oggi Roma è no-nuke»

Rocco Di Michele, Uniti per lo sciopero e anche per la pace

Alberto Lucarelli e Ugo Mattei, Una Costituente per i beni comuni

Democrazia in cammino

di Guglielmo Ragozzino

Oggi si chiude la settimana dell'acqua, con una grande manifestazione per i due Sì al referendum del 12 e 13 giugno. Il tema dell'acqua, bene comune, avrà voce insieme ad altri beni comuni: salute e sicurezza, giustizia; e poi il rifiuto della guerra, quella guerra che l'Italia ripudia. Un coro potente, appassionato, un concerto non dissonante, allegro.

L'acqua in primo luogo. Il successo clamoroso nella raccolta delle firme ha un valore in sé, ma descrive anche una forma di partecipazione, alternativa a quella democrazia che si risolve in un sol giorno, in un solo voto e poi rimette le scelte degli altri giorni a un migliaio di professionisti politici, talvolta capaci, talvolta inaffidabili.

Il governo dell'acqua lo vorremmo invece affidato a persone competenti e motivate, al corrente delle cento caratteristiche locali di domanda e di offerta idrica. I referendum e la manifestazione che li lancia servono proprio a collegare queste diversità in un impegno comune. A risparmiare e risanare; e inoltre a estinguere tutte le seti con equità; a non sprecare mai, non sporcare mai il bene prezioso.

Il modello partecipativo ha due pregi, tra gli altri. Mette al sicuro l'acqua da inopinate vendite di comuni indebitati a padroni multinazionali. Si evita così di sottoporre l'acqua di tutti alla finanza che, come si sa, non ha mai sete di acqua, ma sempre e solo di dividendi. Il movimento ha poi un altro obiettivo: impedire che l'investimento di grandi capitali nel settore idrico renda indispensabili profitti che solo la lievitazione delle bollette consente. Né va mai dimenticata la deformazione, il vero e proprio cambio di stato, che subisce l'acqua in bottiglia.

Questa ha l'effetto di impoverire, di acqua buona e di denaro, gli enti locali, costretti oltretutto a subire la pubblicità negativa che «la minerale» evoca nei confronti dell'acqua del sindaco - di tutti i sindaci - dal momento che quest'ultima diventa meno potabile, meno sana, di fronte alle acque reclamizzate alla televisione. La riflessione collettiva per la giornata mondiale dell'acqua ha mostrato i problemi crescenti che le generazioni future dovranno affrontare, per bere, lavarsi, nutrirsi, produrre il necessario: in pace e sicurezza. Le soluzioni che i poteri economici mondiali suggeriscono sono quelle di affidare alla legge del profitto tutto il problema della sete che verrà. Servono investimenti giganteschi, ci avvertono, e noi soltanto possiamo procurarli. Servono scienza e tecnica e noi soli ne siamo depositari. Scienza e tecnica, ma sarebbe meglio dire conoscenza, sono invece valori universali, non quotati, non brevettati. Quelli delle multinazionali sarebbero sorpresi se si rendessero conto di quante cose sappiamo, noi dei beni comuni, noi che rifiutiamo gli steccati e le barriere in cui cercano di rinchiuderci. Da loro più che soluzioni ci aspettiamo problemi. Il profitto immediato che essi pretendono non disseta le città che raccoglieranno in un prossimo futuro tanta parte dell'umanità. Nelle enormi città dei nostri nipoti, se lasciamo che le multinazionali erigano le loro barriere, ci saranno ovunque ghetti per ricchi; e intorno poveri che pagheranno per tutti o saranno liberi di morire di sete.

Nucleare e legittimo impedimento, nel giorno dell'acqua, non sono espressioni di volontà popolare separate tra loro. Descrivono in primo luogo una forma di democrazia popolare in cui tutto si tiene. La gestione idrica, la forma dell'energia, : rinnovabile e diffusa, impostata sul risparmio oppure l'altra, di enorme taglia, con una gigantesca - ed eterna - impronta lasciata nella natura. Oggi l'occasione di ridisegnare il paese di domani è formidabile. Si parla infatti anche di giustizia, dell'eguaglianza universale e di chi è più uguale di tutti di fronte alla legge e può far valere il suo impedimento, per legittimo o truffaldino che sia.

E poi la guerra. Noi della pace non abbiamo talvolta buona stampa, accusati come siamo di protestare solo in determinati casi, contro alcuni regimi e non contro altri. In primo luogo, la protesta è sempre contro il governo, contro le sue politiche, le sue alleanze. Dieci anni fa a Genova la protesta voleva dire «non in mio nome» questa guerra contro l'Iraq e il movimento italiano - Carlo Giuliani tra i tanti - voleva rappresentare la volontà dei giovani del mondo intero in lotta contro la guerra.

In Libia, cent' anni fa abbiamo aggredito e sottomesso popolazioni che non ci avevano fatto niente di male. Poi, per i trent'anni successivi, le truppe italiane le hanno oppresse e massacrate, mentre cercavano di ribellarsi. Non saranno i miliardi di Bonaventura-Berlusconi a ripagare quei torti. Servirà piuttosto una forma di interposizione, la proposta di trattative, un'azione finalmente non violenta. 26 marzo. Una data da ricordare.

La prima tappa di una sfida decisiva

di Marco Bersani

Centinaia di migliaia di donne e uomini sfileranno oggi per le strade e le piazze della capitale. Chiamate dal popolo dell'acqua, giunto alla sua terza manifestazione nazionale e alla tappa decisiva del suo percorso di mobilitazione territoriale e di sensibilizzazione sociale: i referendum del prossimo 12-13 giugno. Un movimento dal basso, radicale e inclusivo, autonomo e partecipativo, che, raccogliendo oltre 1,4 milioni di firme nella scorsa primavera, ha saputo far irrompere nell'agenda politica del paese il tema dell'acqua, dei beni comuni, e della democrazia. Oggi sarà naturale la connessione fra la straordinaria esperienza del movimento per l'acqua e tutte le esperienze di conflittualità ambientale e di lotta per i diritti e per i beni comuni presenti in questo Paese. Prima fra tutte, quella contro il nucleare, a cui la tragedia di Fukushima restituisce la drammaticità dell'unica verità possibile: fermare le produzioni energetiche basate sul dominio e il disprezzo della vita e dell'ambiente, affermare un altro modello di energia e di società.

E altrettanto naturale sarà la connessione con le istanze della pace, che, ancora una volta, dovranno gridare l'indignazione per l'ennesima guerra - il cui unico risultato sarà quello di interrompere la primavera di democrazia dei popoli arabi - e chiedere a gran voce l'accoglienza di quanti, fuggendo, approdano sulle nostre coste. Non sarà tuttavia una semplice sommatoria di esperienze e di culture. Ciò che la sensibilizzazione collettiva ha messo in campo nel lavoro carsico e reticolare di questi anni è molto di più : le strade e le piazze di oggi diranno a voce alta come lo scontro sia tra la Borsa e la vita, ovvero tra il pilastro del modello liberista che vuol mettere a valore finanziario l'intera vita delle persone, privatizzando l'acqua e tutti i beni comuni, e le centinaia di migliaia di donne e uomini che vogliono riappropriarsi di ciò che a tutti appartiene, gestendolo in forma partecipativa e con la cura di chi guarda al domani. E soprattutto non sarà la piazza delle semplici resistenze, tanto dense di valore ideale quanto minoritarie nell'azione politica : oggi sarà il futuro a riempire la piazze e le strade della capitale, portando con sé l'indignazione consapevole del presente assieme allo sguardo fiero e sereno del cambiamento possibile e in corso.

Perché da domani comincia una tappa decisiva : ciò che oggi è già maggioranza culturale nel Paese può diventare maggioranza politica. I sì ai referendum del 12 e 13 giugno sono l'occasione per sconfiggere, per la prima volta dopo due decenni, le politiche liberiste con un voto popolare e democratico, che apra la strada alla ripubblicizzazione dell'acqua, ad un altro modello energetico, e ad un'uscita dalla crisi, basata sui diritti e sulla riappropriazione sociale dei beni comuni. Arrivarci comporterà un lavoro impegnativo ed entusiasmante, perché richiederà a tutte e tutti, compatibilmente con la propria vita quotidiana, di mettere in campo ogni energia possibile ed ogni sforzo necessario. Questa volta si vince senza deleghe. Ma sarà bello scoprire che solo la partecipazione è libertà.

* Attac Italia - Forum italiano dei movimenti per l'acqua

«Il quorum? Non ci fa paura Oggi Roma è no-nuke»

Eleonora Martini intervista Stefano Ciafani, del comitato referendario

«Benvenuto tra noi, Tremonti». Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente, una delle 60 associazioni fondative del comitato «Vota sì per fermare il nucleare» - costantemente in espansione - non trattiene l'ironia. «Finalmente anche il ministro dell'economia, parlando a Cernobbio la settimana scorsa, lo ha ammesso: c'è il debito pubblico, quello privato e poi c'è anche il debito atomico, perché le centrali lasciano un buco nelle casse dello Stato». Un riconoscimento importante, spiega Ciafani, uno dei portavoce del comitato referendario che in queste ore non riesce a «tenere il conto di quanti comitati locali spontanei No nuke siano spuntati negli ultimi giorni come funghi in tutta Italia». «Il quorum? non ci fa più paura», afferma.

«Ora che, purtroppo a causa della catastrofe giapponese, è stata gioco forza rimossa la censura imposta, e i media hanno ricominciato a parlare di nucleare - aggiunge Ciafani - gli italiani si sono aggiornati su una tecnologia insicura, inquinante e costosa». Per questo oggi a Roma è prevista una partecipazione massiccia, difficilmente contabilizzabile proprio perché non organizzata. Ma tanto per fare un esempio dalla Puglia sono attesi una decina di autobus, 15 dal Veneto. Molti saranno i lavoratori delle imprese produttrici di energie rinnovabili, un settore letteralmente congelato dal decreto Romani perché fa paura alle lobby dell'atomo: «Troppo democratico - spiegano nella sede centrale del comitato referendario - troppo poco controllabile: ciascuno può infatti diventare produttore di energia alternativa».

Ciafani, finita la moratoria di un anno, cosa avverrà ?

Nulla, perché inizierà la campagna elettorale del 2013, e il governo sa che è impossibile andare ad elezioni con la clava del nucleare. Che gli italiani, di destra e di sinistra, non vogliono.

Il problema è la scelta dei siti?

Enel e Efd, autorizzati dall'accordo stipulato da Berlusconi e Sarkozy nel febbraio 2009, sanno già dove piazzare i loro quattro reattori Epr: due sicuramente a Montalto di Castro, gli altri rischiano di finire a Trino Vercellese, Caorso, Latina o Garigliano. Di reattori Epr, la III generazione avanzata, al mondo non ce n'è uno in funzione, solo 4 in costruzione. È una tecnologia bocciata ovunque, sia per la scarsa sicurezza che per i costi alti: ha perso una quantità infinita di gare internazionali, altro che «gioiello della tecnologia francese», come ci veniva descritto. Il modello italiano sarebbe il più grande reattore nucleare mai costruito: 1600 Mw.

Ieri il Consiglio d'Europa ha deciso che gli stress test si faranno su tutte le 143 centrali europee, con standard uguali per tutti. E i risultati dovranno essere resi pubblici. Cosa ne pensa?

Anche la storia degli stress test è una presa in giro, per come si sta delineando: prendono tempo. Anche il Giappone li aveva fatti, e Fukushima lo aveva superato. L'unico stress test che ha senso è quello deciso da Merkel la quale torna sui passi di Schroeder, che aveva deciso la chiusura totale entro il 2021, perché dopo aver scelto di prolungare la vita delle centrali nucleari obsolete ha perso tutte le elezioni amministrative. Gli standard di sicurezza, così come i criteri degli stress test che attualmente ciascun Paese svolge come vuole, dovrebbe definirli una volta per tutti e in tutto il mondo l'Aiea, che però non ha alcun interesse a farlo, perché non è affatto indipendente dalle lobby nucleari.

Ieri l'Idv ha denunciato che l'Italia lascia spente le centrali elettriche per importare l'energia nucleare francese.

Succede di notte, quando il consumo è minimo ed è più conveniente spegnere i nostri impianti e acquistare sottocosto l'energia dalla Francia, che non può spegnere le centrali nucleari. Di giorno, invece, anche al massimo del consumo, noi utilizziamo la metà della potenza elettrica installata sul territorio nazionale. Non c'è necessità di altri grande centrali di potenza, anzi la cosa che dovremmo fare nel prossimo futuro è cominciare a spegnere qualche centrale, magari quelle più obsolete, a carbone o a olio combustibile.

L'Italia può fare da apripista per un'Europa denuclearizzata?

Dal no italiano e tedesco (perché non siamo soli) si deve andare verso una dismissione graduale degli impianti in tutta Europa. Anche se, sia chiaro, è sempre meglio averceli distanti e oltre la barriera delle Alpi.

Uniti per lo sciopero e anche per la pace

di Rocco Di Michele

Guerra e precarietà, movimenti in assemblea alla Sapienza. Assemblea di «Uniti per lo sciopero» alla Sapienza di Roma. Apre Gino Strada che lancia la manifestazione del 2 aprile contro le guerre. Non solo pacifismo: sindacati, collettivi e organizzazioni di base provano a trovare un denominatore comune per le prossime mobilitazioni prima dello sciopero generale

A passo di corsa, ché niente come la guerra alle porte di casa smuove i cervelli. L'assemblea nazionale «Uniti per lo sciopero», filiazione diretta di «Uniti contro la crisi», registra quest'urgenza. Anche a costo di farsi spiazzare dal più impaziente di tutti, dall'unico in quest'aula che la guerra sa di certo cos'è. Nell'aula I di Lettere, cuore di mille assemblee storiche, Gino Strada lancia la manifestazione nazionale del 2 aprile, a Roma, in piazza S. Giovanni, sorprendendo un po' tutti i gruppi, i sindacati, i collettivi. La logica assembleare dei movimenti degli ultimi 20 anni, con la paziente ricerca della condivisione anche nel dettaglio, è sembrata immobile di fronte alla rapidità con cui jet anglo-francesi e missili Usa hanno aperto la danza infernale sui cieli libici.

Una difficoltà più obiettiva viene dal dover affiancare, in uno spazio stretto di tempo, mobilitazioni incentrate su temi vicini ma distinti (acqua, nucleare, scuola, contratti... guerra), scontando le piccole frizioni inevitabili quando 'insiemi' che si erano pensati come autonomi si devono concentrare. Serve maturità, e viene trovata rapidamente. Il collegamento in video con Lampedusa dà il senso del bisogno di fare, ora e qui. L'assemblea vira così verso un obiettivo semplice: prendere decisioni. Tocca a Gianni Rinaldini, coordinatore de «La Cgil che vogliamo», collegare strettamente i distinti. «Contro la guerra, contro i bombardamenti», con l'autocritica necessaria per la lentezza con cui i movimenti si sono pronunciati a sostegno delle rivolte del Nordafrica: «gli altri ci hanno giocato, per costruire una campagna di falsi che portava alla guerra». Ma è l'incidente di Fukushima, contemporaneo e gravissimo, a «segnare uno spartiacque rispetto al futuro». È «il modello di sviluppo centrato sul nucleare e il petrolio ad essere entrato irrimediabilmente in crisi». Chi si ostina a voler rimettere in piedi questo modello ­ tutti i governi dei cosiddetti paesi avanzati - non fa che «accelerare i processi di guerra per appropriarsi delle fonti di energia».

Dentro questo livello di complessità si collocano tutti i temi: quelli referendari sui beni comuni come l'acqua, il no al nucleare, e la precarietà, il reddito di cittadinanza, la scuola, le risorse finanziarie da trovare «tagliando le spese militari» e con nuovi strumenti fiscali che alleggeriscano la posizione di lavoratori e pensionati, redistribuendo il peso «su quel 10% di famiglie che possiedono il 50% della ricchezza». Tutti temi che chiamano in causa la riduzione di democrazia che stiamo vivendo qui. Perché se «si riducono i diritti del lavoro», «si elimina il contratto nazionale» e «si parte per la guerra», è la democrazia a venir svuotata di efficacia.

Difficile dirlo meglio di come ha fatto Moni Ovadia, che ritrova la parola giusta - «rivoluzionario» - per definire il bisogno di cambiare il modello di sviluppo. Modello che oggi - con il patto appena siglato tra capi di governo europei - «prevede esplicitamente di eliminare la contrattazione e fissa vincoli solo monetari, non sociali, alle politiche economiche». Facile prevedere davanti a tutti noi anni di «tagli finanziari e sociali insopportabili». Un punto essenziale riguarda il rapporto con i migranti, «eroi da difendere finché stanno sull'altra sponda del Mediterraneo e gente pericolosa da respingere quando arrivano qui». Ne vien fuori, oltre alla proposta di una «staffetta» con quanti stanno operando a Lampedusa, anche l'organizzazione di «una carovana che travalichi i confini della Tunisia».

Lo sciopero generale del 6 maggio, «strappato con fatica» a una Cgil a lungo esitante - lo ripeteranno in tanti, da Luca Casarini a Mimmo Pantaleo (segretario generale della Flc) - non è il sogno della «spallata finale», ma «una tappa fondamentale in un percorso che arriva a Genova, per il decennale». Ed è soprattutto Maurizio Landini, vulcanico segretario della Fiom, a spiegare che «bisogna farlo riuscire, svuotare i posti di lavoro, bloccare il paese»; «prolungarlo a 8 ore, generalizzarlo a tutte le figure sociali, ai precari»; non bisogna «sprecare l'occasione», anche se «non sarà sufficiente a cambiare il quadro politico e sociale». Si dovrà «andare avanti, costruire azioni unitarie sui territori», «includere e mettere all'opera l'intelligenza di tutti i lavoratori» per «delineare un sistema industriale con al centro le energie rinnovabili». Il nesso guerra-petrolio, del resto, è fin troppo chiaro. E brucia il futuro dell'umanità.

Il percorso disegnato nel documento finale ha tappe quasi settimanali di mobilitazione nazionale (oggi per l'acqua pubblica, sabato prossimo contro la guerra, il 9 aprile contro la precarietà, poi lo sciopero, i referendum e altre giornate ancora non calendarizzate, fino al 20 luglio ligure). A passo di corsa, perché «gli altri sanno benissimo cosa voglio e cercano già ora di dividerci».

Una Costituente per i beni comuni

di Alberto Lucarelli e Ugo Mattei

A dieci anni dal social forum di Genova il modo migliore per festeggiare quest'anniversario, dedicandolo alla memoria di Carlo, non potrà che essere la vittoria dei referendum su acqua e nucleare il 12 giugno prossimo. Una data irragionevole imposta da un governo che abusa dei suoi poteri per cercare di invalidare il voto, ostacolando con tutti mezzi, anche i più meschini, il raggiungimento del quorum. Quei trecento milioni gettati al vento andrebbero utilizzati tutti per i rifugiati di Lampedusa.

Uno dei meriti maggiori dei movimenti riunitosi a Genova nell'estate del 2001 fu proprio quello di "gridare" con vigore l'esigenza di spazi e beni comuni dove poter esercitare e veder soddisfatto ogni diritto. Da quel momento si apre in Italia, anche attraverso il ruolo determinante di tante realtà locali, la battaglia per i beni comuni, condotta contro la privatizzazione dei diritti di cittadinanza e contro gli abusi di un pubblico sempre più corrotto e contaminato da interessi particolari.

Da quel momento il concetto di partecipazione si libera dei formalismi giuridico-istituzionali nei quali era stata rinchiuso. I movimenti, anche attraverso un processo di informazione e formazione permanente, iniziano a pretendere che le politiche pubbliche (nazionali e locali) non siano più calate dall'alto e che le istanze partecipative, elemento decisivo per la gestione dei beni comuni, si trasformino in veri e propri diritti, espressione di antagonismo, proposta e controllo.

La straordinaria campagna referendaria per l'acqua pubblica, come è noto, ha raccolto circa un milione e mezzo di firme, con un risultato mai raggiunto nella storia della nostra Repubblica, suscitando una mobilitazione che non ha precedenti è la prova che partecipazione diretta e beni comuni sono categorie rivoluzionarie che stanno contribuendo alla nascita di nuove soggettività politiche fuori ed oltre il sistema dei partiti.

Queste nuove categorie politiche e giuridiche sono ormai entrate nel linguaggio della Corte costituzionale, che con la sentenza sull'ammissibilità del quesito referendario per l'acqua pubblica ha espressamente parlato di bene comune, seguita qualche giorno dopo dalla Corte di Cassazione.

Attraverso le battaglie sull'acqua ed ogni altra battaglia a difesa del territorio, dell'università pubblica, dei diritti dei migranti, contro il nucleare, gli inceneritori e le grandi opere inutili e dannose le moltitudini vogliono riappropriarsi del diritto di esprimersi sui beni comuni, che loro appartengono: quei beni che, secondo la definizione della Commissione Rodotà, esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona e che sono informati al principio ed alla salvaguardia intergenerazionale. Così operando, ciascuno con le proprie energie e capacità, ci stiamo riappropriando dell'art. 1 della Costituzione, ovvero del principio che assegna al popolo la sovranità, in una stagione di tragedia della democrazia rappresentativa.

Proprio nel decennale di Genova e dopo l'auspicata vittoria del 12 giugno, occorrerà partire con la fase 2 della grande marcia per i beni comuni, concentrandosi su eventuali altre campagne referendarie (a partire dalla legge Gelmini e dal Collegato lavoro) e impugnative costituzionali. I tempi sono maturi e quindi da subito ci dobbiamo mettere al lavoro per studiare le strategie politiche e giuridiche più efficaci ed incisive che, a partire dal 14 giugno, dovranno essere messe in campo anche a livello europeo (ad esempio la proposta di legge di iniziativa popolare per uno Statuto dei beni comuni che «circoscriva» il mercato).

Queste battaglie di portata nazionale, per le quali ci dobbiamo attrezzare, non potranno che partire dal lavoro della comunità locali che non sono più disposte a tollerare decisioni «non partecipate e calate dall'alto» da sindaci e consigli comunali impotenti quando non collusi. Si pretendano per esempio consigli comunali «aperti», che diventino reali luoghi di trasparenza e partecipazione, nei quali, a partire dal giorno successivo delle amministrative, i cittadini possano veramente sviluppare un senso di appartenenza verso la loro città e sia messo al primo ordine del giorno una grande discussione sul governo pubblico partecipato dei beni comuni. Le comunità locali dovranno pretendere l'adozione di nuovi Statuti comunali e regolamenti che, in armonia con la Costituzione e con i principi generale in materia di organizzazione pubblica, stabiliscano effettivi principi di organizzazione e funzionamento del comune, le forme di controllo, le forme e gli organismi di partecipazione.

Insomma, a dieci anni da Genova dobbiamo far partire, «uniti contro la crisi» e passando attraverso un successo nello sciopero generale del 6 maggio e nei referendum, un processo costituente dei beni comuni che individui gli strumenti le scadenze e gli obiettivi della Fase 2. Abbiamo di fronte a noi l'emozionante prospettiva di fermare il saccheggio ed invertire la rotta, puntando ad una nuova qualità del vivere insieme.

La battaglia sulla giustizia è un capitolo importante di una grande mutazione in corso nel nostro Paese che riguarda l’equilibrio delle forze sociali in generale e, per conseguenza, dei poteri dello Stato. Si tratta di un processo comprovabile di erosione dell’eguaglianza economica e di cittadinanza, con dati che mettono in luce l’aumento della povertà e la diseguaglianza tra i cittadini di influire sulle scelte politiche. Vista dal versante delle istituzioni, questa grande mutazione tocca l’ordine costituzionale che ci ha accompagnato in questi ultimi sessant’anni per riequilibrarlo in un senso che è più decisionista. Si tratta di una battaglia tutta da combattere e non conclusa e che impegna in forme e modi diversi chi opera nelle istituzioni. I magistrati hanno espresso come sappiamo giudizi fortemente negativi sulla proposta di riforma della giustizia, tanto che l’Associazione nazionale magistrati ha proclamato una "mobilitazione diffusa" denunciando i nodi nevralgici del testo Alfano: la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm e le norme sulla obbligatorietà dell’azione penale. Se il perno della nostra Costituzione è l’indipendenza della magistratura, il perno di questa riforma è la restrizione dell’indipendenza. Si tratta di una differenza notevole che può avere implicazioni gravi per i diritti di noi tutti. Insieme all’autonomia del potere giudiziario, infatti, la proposta di riforma mette in discussione quel delicato meccanismo di pesi e contrappesi sul quale si regge il governo della legge e la certezza dei nostri diritti di fronte al potere costituito.

La direzione impressa dal governo dimostra di essere in forte tensione con quella liberale, ribadita tra l’altro a livello comunitario con pronunciamenti via via più espliciti nel corso degli anni. È questo il caso del protocollo di Copenhagen del 1993, con il quale il Consiglio europeo, nella prospettiva dell’allargamento ai Paesi dell’Est, fece espresso riferimento all’autonomia dell’ordinamento giudiziario come condizione dell’allargamento. Tra i parametri di Copenhagen, quelli politici comprendono sia la democrazia e il primato del diritto che i diritti dell’uomo e la tutela delle minoranze. La democrazia e il primato del diritto sono esemplificati attraverso una serie di fattori tra i quali l’organizzazione e il funzionamento del Parlamento, del potere esecutivo e del potere giudiziario. La democrazia quindi non è solo voto popolare e opinione della maggioranza ma l’intero ordinamento. Circa il potere giudiziario, questo è definito in ragione della sua indipendenza dagli altri poteri sulla base di alcuni indici: il ruolo del governo nella nomina e nella progressione in carriera dei magistrati e l’esistenza di un organo di autogoverno della magistratura. L’Europa unita ha cioè sviluppato nel corso della sua storia una vera e propria teorica dello stato democratico nel quale vige il primato del diritto, e ha infine prodotto parametri di misurazione e verifica delle condizioni che fanno di uno stato democratico uno stato più o meno coerente con i principi dello stato di diritto. Se la riforma Alfano fosse approvata, come si collocherebbe l’Italia rispetto a questi parametri comunitari?

Alla base del costituzionalismo moderno vi sono una visione pessimista della natura umana e un profondo desiderio di proteggere la libertà. Da un lato l’accettazione del fatto che proprio perché non siamo santi abbiamo bisogno di governo; dall’altro l’idea che occorra fare in modo che chi governa sia messo nell’impossibilità di agire d’arbitrio. Come limitare il potere? Affidandosi non alla virtù, ci insegna Montesquieu, la quale non riesce a moderare se stessa, ma alla logica dei pesi e contrappesi, la quale da un lato presume che chi fa le leggi (o ha il potere di imporre obbedienza) ha tutto l’interesse a farle a suo vantaggio, e dall’altro cerca la soluzione a questo rischio fuori della volontà degli attori. Come Ulisse si fece legare per resistere al canto delle Sirene poiché sapeva di non potersi fidare della sua virtù, così il legislatore volle mettere i limiti del potere fuori della volontà di chi lo esercita. Questa è la logica vincente che ci hanno lasciato in eredità i padri fondatori del costituzionalismo. Una logica che ha usato la libertà come espediente di stabilità perché ha diviso il potere in modo tale che ogni sua parte fosse equipollente e capace di resistere alle pressione dell’altra. Così i Federalisti americani: «Alla base di quella separazione e distinzione dei vari poteri che viene in un certo caso ammessa da tutti come essenziale garanzia di libertà, è la necessaria autonomia di volere di ciascun potere, cosicché i membri di ciascun settore intervengano il meno possibile nella nomina dei membri degli altri settori».

Il meccanismo dell’equilibrio dinamico dei pesi e contrappesi ha per obiettivo quello di far sì che nessun potere dello Stato sia come un Ulisse slegato. Centrale è che il potere giudiziario (dal quale dipende la nostra libertà) resti un potere separato e autonomo, che il giudizio non sia costola della volontà, che non diventi in nessuna sua parte - per esempio il pubblico ministero- un organo alle dipendenze del Governo (del ministero dell’Interni, come era nello Statuto albertino). Ma lo sbilanciamento dei poteri è la logica che muove la proposta Alfano. C’è da chiedersi quale vantaggio ricaverebbe il cittadino da una riforma il cui esito è che una parte del lavoro della giustizia operi alle dipendenze più o meno dirette del governo.

Adriano Sofri, Che cosa giustifica l'intervento

Thomas L. Friedman , L'eterna guerra tra clan rivali

Farid Adly, La mia sconfitta, la nostra salvezza

Loris Campetti intervista Gino Strada, Fermiamo le bombe

Roberto Festa intervista Michael Walzer, Questa volta è un errore

la Repubblica

Che cosa giustifica l’intervento della polizia internazionale

di Adriano Sofri

Quale sarebbe stato il destino degli ottocentomila abitanti di Bengasi? È una domanda che nessuno dovrebbe eludere - Si può davvero dubitare del dovere di aiutare o di chiedere aiuto quando il crimine si compie sotto i nostri occhi? - Con la decisione di agire in difesa degli insorti in Libia ritorna la divisione tra i fautori dell’ingerenza e chi sostiene il pacifismo "senza se e senza ma"

La guerra non è umanitaria, certe paci possono essere disumane. Lo scorso giovedì, 17 marzo, Gheddafi disse in tv: «Arriveremo a Bengasi stasera e non avremo pietà. Andremo casa per casa». "Stasera": alla mezzanotte libica il Consiglio di sicurezza avrebbe votato. I primi raid francesi – i più ansiosi di cominciare – sono avvenuti alle 17,45 di sabato. I gheddafisti avevano attaccato in forze, ma non ne erano ancora venuti a capo. Che cosa sarebbe stato degli ottocentomila abitanti di Bengasi? È una domanda che nessuno dovrebbe eludere. Non che manchino le ragioni per l’amarezza e il disgusto. Gli Stati che vanno a bombardare la Libia di Gheddafi hanno fatto fino a ieri affari d’oro con lui, e calcolano di farne di più. Gli hanno venduto le armi che oggi prendono di mira. Gli hanno lasciato piantare la sua tenda madornale a Parigi o a Roma. Bisognava prima fare ben altro, dite, bisognava comportarsi ben diversamente. Infatti: ma che cosa bisognava fare la sera di giovedì 17 marzo, quando si annunciava il rastrellamento, casa per casa, senza pietà? Tutto era cominciato, a Bengasi, dall’ennesimo arresto di un giovane avvocato che denunciava tenacemente l’eccidio di 1300 prigionieri in un carcere di Tripoli, nel 1996. Questa volta c’era l’esempio i Tunisi e del Cairo, la gente è andata in piazza. Toccava alla città che aveva avuto la forza di ribellarsi di pagare per il delirio della terra e dei suoi governanti?

Succede continuamente. La norma non è affatto quella dell’interventismo "umanitario", ma il suo contrario: l’omissione di soccorso. La norma è il Ruanda 1994, e il Clinton che si batte il petto per aver cavillato sul genocidio e lasciato perpetrare quell’orrore immane (e la Francia o il Belgio che non se lo battono abbastanza per avergli dato mano). Il Ruanda, dove si macellava a colpi di machete, e non si spedì un Piper a far saltare la Radio delle mille colline, e non si fecero cortei a Roma o a Parigi. La norma è Srebrenica 1995,coi governi europei complici e qualche pacifista impegnato a sventare decolli di aerei ad Aviano. Quando finalmente decollarono, la partita si chiuse in un giro di giorni e nella rotta dei gradassi ubriachi che miravano ai bambini. Andò diversamente in Kosovo, perché la lezione di Srebrenica era fresca, e Milosevic aveva passato il segno. Si riaccese la scaramuccia degli interventisti e dei pacifisti, più scoppiettante perché ad aderire all’intervento era Massimo D’Alema. Il copione dei pacifisti e degli interventisti si replica come le sedie di Ionesco. Si può davvero dubitare del dovere di aiutare, o chiamare aiuto, quando il crimine si compie sotto i nostri occhi, la sera di Bengasi o la mattina di Srebrenica? È stato codificato, quel dovere, ma era scritto da sempre. Ricominciare ogni volta daccapo –"intervenire o no?"– è il modo vanesio e imbecille per eludere la vera ardua questione: quando e come intervenire. Era la questione del Kosovo: sgombrando la terra e dall’alto dei cieli, o viceversa? Quasi nessuno se ne occupò, tesi gli uni a gridare no "senza se e senza ma", paghi gli altri della decisione trasmessa agli stati maggiori, che fanno quello cui sono addestrati. Si nega che oltre i confini nazionali si possa ricorrere a una polizia. In nome della sovranità nazionale – come se le frontiere delle nazioni fossero chiuse al bracconaggio criminale, alla fame, alle nubi radioattive, e anche alla solidarietà fra umani. O in nome dei rapporti di forza e di convenienza, della ragion di Stato: come sostenere che dentro una nazione il lavoro di polizia si debba fermare di fronte alla malavita troppo potente, o ai potenti troppo potenti. Del resto, hanno sostenuto anche questo.

Ci sono state guerre inevitabili e giustificate, come contro il nazifascismo. "Umanitarie" no. Si abusa del nome orrendo di guerra, e del resto che cosa c’è di più eccitante della nuvola di missili appena lanciati? Le guerre dovevano almeno avere una parvenza di equilibrio fra contendenti. C’è, fra la Tripolitania e l’armata d’occidente? A chiamarla, come si deve, azione di polizia, bisogna che sia autorizzata (questa lo è, in Iraq non lo era, e non rispondeva all’appello di una popolazione insorta), che faccia un uso proporzionato della forza, che faccia valere i propri principii anche per il nemico che affronta. Guerra o azione di polizia: lo considerano un gioco di parole, ammesso che lo considerino. Eppure è così inevitabile: c’è un diritto internazionale se c’è un’unione delle nazioni, c’è un tribunale internazionale se c’è una polizia internazionale. L’unico a dirlo, da noi, fra tanto cubitale gridare alla guerra, è stato Napolitano: «Non siamo entrati in guerra. Siamo impegnati in un’operazione dell’Onu». (L’ha ripetuto Frattini, «Non siamo in guerra», ma lui voleva dire altro, tirare il sasso, o non tirarlo nemmeno, e comunque nascondere la mano; come il Berlusconi "addolorato" per Gheddafi).

Quanto alla terza via: le vie sono diecimila. A volte c’è una sola via. La sera di Bengasi, la mattina di Srebrenica. Lì non si può dire "Né… né…", né con i ribelli né con Gheddafi…Si deve stare con qualcuno e contro qualcun altro. Con l’aggredito contro chi lo aggredisce, in una infame sproporzione di forze. In una strada di città può bastare un bravo carabiniere. Con un satrapo che sta bombardando i suoi sudditi ribelli con i Mig, è più complicato. Ma non meno necessario.

la Repubblica

L’eterna guerra tra clan rivali dietro la rivolta contro il Colonnello

di Thomas L. Friedman

Ci sono due generi di Stati: i "Paesi veri" e quelli delle "sette" unite sotto una bandiera - In Libia, Iraq, Siria, Yemen, i gruppi tribali non si sono fusi in un’unica famiglia di cittadini

Un interrogativo pende sui fermenti rivoluzionari nel mondo arabo: la battaglia in Libia (e in altri Stati) è lo scontro fra un brutale dittatore e l’opposizione democratica oppure è una guerra tra tribù? Infatti in Medio Oriente esistono due generi di Stati: i "Paesi veri", che vantano una lunga storia e forti identità nazionali (Egitto, Tunisia, Marocco, Iran) e le "tribù accorpate sotto una bandiera". Nazioni dai confini tracciati in modo artificiale dai poteri coloniali, dove sono intrappolate miriadi di tribù e di sette che non si sono mai fuse in un’unica famiglia di cittadini. Si tratta di Libia, Iraq, Giordania, Arabia Saudita, Siria, Bahrein, Yemen, Kuwait, Qatar e Emirati Arabi Uniti. Le tribù e le sette sono state tenute assieme dal pugno di ferro delle potenze coloniali, dei re o dei dittatori militari. L’alternanza democratica al potere è impossibile perché ogni tribù vive all’insegna del «governa o muori» - o la nostra tribù, la nostra setta, è al potere oppure siamo finiti.

Non è un caso che le rivolte per la democrazia in Medio Oriente abbiano preso il via in tre "Paesi veri" - Iran, Egitto e Tunisia - con popolazioni moderne, maggioranze omogenee che antepongono la nazione alla setta o alla tribù, e hanno la fiducia reciproca sufficiente a coalizzarsi, come fosse una famiglia, «tutti contro il papà». Ma nel momento in cui queste rivoluzioni si sono diffuse alle società più tribali-settarie, è difficile capire dove finiscano le istanze democratiche e dove inizi il desiderio che «la mia tribù sostituisca la tua».

In Bahrein, la minoranza sunnita, pari al 30 per cento della popolazione, governa sulla maggioranza sciita. Grazie ai matrimoni misti molti sunniti e molti sciiti si sono fusi e, da portatori di identità politiche moderne, accetterebbero la vera democrazia. Ma per molti altri abitanti del Bahrein la vita è una guerra tra sette, un gioco a somma zero, come per i falchi della famiglia Al Khalifa, attualmente al governo, che non hanno intenzione di mettere a rischio il futuro dei sunniti del Bahrein con una maggioranza sciita al potere. Per questo si è passati molto presto alle armi. O governi o muori.

L’Iraq è un buon esempio di cosa ci vuole per democratizzare un grande Paese arabo tribalizzato, una volta che il leader dal pugno di ferro è stato rimosso (in quel caso dagli Stati Uniti). Ci vogliono miliardi di dollari, 150 mila soldati Usa a fare da arbitro, miriadi di vittime, una guerra civile in cui entrambe le parti devono misurare il proprio potere, e poi un difficile parto, di cui siamo stati la levatrice, una Costituzione scritta dalle sette e dalle tribù irachene che stabilisce le regole di convivenza senza il pugno di ferro.

Mettere gli iracheni in grado di scrivere il loro contratto sociale è la cosa più importante che l’America abbia fatto. È stato, a dire il vero, l’esperimento liberale più importante della storia araba moderna perché ha dimostrato che persino le nazioni tribali possono, ipoteticamente, passare dal settarismo alla moderna democrazia. Ma è ancora soltanto una speranza. Gli iracheni non hanno sciolto definitivamente il grande dubbio: l’Iraq è così perché Saddam era com’era, oppure Saddam era com’era perché l’Iraq è così, ossia una società tribalizzata? Tutti gli altri Stati arabi oggi terreno di rivolte - Yemen, Siria, Bahrein e Libia - sono incubatrici di guerre civili tipo quella irachena. Alcuni possono avere la fortuna che l’esercito li traghetti alla democrazia, ma non c’è da scommetterci.

In altri termini la Libia è solo un primo esempio dei tanti dilemmi morali e strategici che andremo ad affrontare man mano che le rivolte avanzano tra le «tribù accorpate sotto una bandiera». Concedo al presidente Obama un’attenuante. È una questione complessa e rispetto il desiderio del presidente di impedire un massacro in Libia. Ma dobbiamo essere più cauti. La forza del movimento democratico egiziano stava nella sua autonomia. I giovani egiziani sono morti a centinaia nella lotta per la libertà. E noi faremmo bene ad essere doppiamente cauti nell’intervenire in luoghi che possono crollarci tra le mani, come in Iraq, soprattutto se non sappiamo, come in Libia, chi siano davvero i gruppi di opposizione - movimenti democratici guidati da tribù o tribù che sfruttano il linguaggio della democrazia?

Infine, purtroppo, non possiamo permettercelo. Dobbiamo impegnarci nel nostro Paese. Se il presidente Obama è pronto a prendere delle decisioni importanti, difficili, urgenti, non sarebbe meglio che innanzitutto queste si concentrino sul nation building in America, piuttosto che in Libia? Non dovrebbe prima realizzare una vera politica energetica, che indebolisca i vari Gheddafi, e una politica di bilancio che garantisca il sogno americano per un’altra generazione? Una volta fatto questo seguirò il presidente "dai saloni di Montezuma alle spiagge di Tripoli", come cantano i marine.

©The New York Times - La Repubblica - Traduzione di Emilia Benghi

il manifesto

La mia sconfitta, la nostra salvezza

di Farid Adly

Vivo questi momenti con angoscia. Sono convinto antimilitarista, pacifista e nonviolento.

Vivo la guerra libica come una sconfitta personale. La mia generazione di libici è fallita. Non abbiamo fatto abbastanza per sconfiggere politicamente la dittatura gheddafiana. L'opposizione era frantumata in mille rivoli, dai monarchici fino ai socialisti, ma tutti regolarmente all'estero e uno contro l'altro. Perché all'interno del paese c'erano soltanto Abu Selim (eccidio di 1200 detenuti politici, nelle loro celle, il 26 Giugno 1996, del quale ha parlato nel 2009 solo il manifesto) oppure le esecuzioni in pubblico negli stadi. Non abbiamo avuto sufficiente voce per farci sentire e, forse, anche il mondo non ci aveva dato ascolto, perché gli orecchi dei grandi erano tappate da cerotti di petrolio e dalla carta moneta delle commesse di armamenti.

Perché considero giusta la richiesta della No Fly Zone, da parte del Consiglio Nazionale Transitorio Libico (Cntl)? Perché era l'unica strada per la salvezza dei giovani libici che hanno dato avvio a questa rivoluzione, a questa resistenza. Il Cntl non ha chiesto - e lo ha ribadito anche nella giornata di lunedì 21 - bombardamenti sulla residenza di Gheddafi a Bab Azizie per ucciderlo. «Destituire Gheddafi è un compito nostro e lo faremo mobilitando il nostro popolo in questa resistenza formidabile che unisce tutto il paese», ha detto l'avvocato Abdel Hafeez Ghouga. È un diritto sacrosanto alla sopravvivenza!

È, parimenti, diritto dei miei compagni pacifisti italiani dichiararsi contrari all'intervento delle potenze occidentali, ma non mettano in campo ragioni che riguardano la nostra ricchezza petrolifera o il concetto di sovranità nazionale. Non ho dubbi che Stati uniti, Francia e Gran Bretagna non sono lì a difendere il mio popolo. Non ci sono guerre umanitarie, come ha scritto giustamente Tommaso Di Francesco. Lo so che sono lì per il petrolio e per le commesse future. La ridicola polemica tra Francia e Italia sul commando della missione dimostra ampiamente questo occhio rivolto al petrolio e rischia di allungare la vita al dittatore. Vi ricordo però che il petrolio ce l'avevano sotto il loro controllo anche prima. Non hanno organizzato loro la rivolta in Libia. Per loro sarebbe stato meglio se fosse rimasto tutto come prima, quando ballavano coi lupi.

Un discorso a parte per il miliardario ridens. Ha fatto ridere i polli e ha trascinato l'Italia in una situazione ridicola. Un giorno diceva una cosa e l'altro sostieneva il contrario. Ha superato se stesso quando la mattina ha detto che Gheddafi è tornato in sella e poi la sera, dopo che ha capito le intenzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu, ha cambiato idea per dire: «Gheddafi non è più credibile».

A Torino poi, dopo l'avvio della campagna militare alla quale partecipa l'Italia, ha cambiato ancora bandiera, dando credito al colonnello.

I compagni dell'Arci e della Tavola della Pace hanno ragione a chiedere che l'Italia non abbia un ruolo attivo nei bombardamenti. C'è una doppia ragione che consiglia ciò. La posizione altalenante di Berlusconi e Frattini è un dato che consiglia prudenza, ma la ragione più forte è un'altra: l'Italia è stata una potenza coloniale in Libia, quest'anno ricorre il centenario dell'aggressione italiana al suolo libico (avete visto qualche cerimonia per ricordarlo?) e questo trascorso militare (i primi bombardamenti aerei in assoluto nella storia militare sono avvenuti a Kofra da parte di un aviatore italiano), consiglia di astenersi completamente dal bombardare il territorio libico da parte dell'aviazione militare italiana.

L'Italia, se intende rimettere i rapporti con il popolo libico sul binario giusto, dedichi qualche piazza a Omar Mukhtar, eroe della resistenza libica, proposta che avevo avanzato proprio sulle pagine del Manifesto, oltre 10 anni fa, ma caduta nel dimenticatoio anche da parte del compagno(?) Veltroni, allora sindaco di Roma.

Se il governo italiano ha fatto una brutta figura, peggio hanno fatto certi opinionisti, attaccati a concetti ideologici, dimenticando la resistenza italiana contro il regime fascista e contro la repubblichina di Salò. Ecco, Gheddafi per noi libici rappresenta quello e i nostri ragazzi sono i nuovo partigiani. In questi momenti, i democratici di Tripoli vivono lo stesso sentimento di quei partigiani di Milano che lottavano per la liberazione in una città sotto le bombe degli alleati.

Noi vogliamo la libertà e mettere finire alla tirannia, scrivere una costituzione e scegliere, in elezioni libere, chi governerà la Libia. Questo processo è guidato da magistrati, avocati, medici, ingegneri e cosa sento e leggo? Che la Libia è abitata da beduini. Si sono dimenticati che la Libia nel 1804 ha sfidato e sconfitto gli Stati Uniti, freschi freschi di indipendenza (Professor Giuseppe Restifo, «Quando gli americani scelsero la Libia come nemico» Armando Siciliano Editore).

Non so se questo dice qualcosa a certi «signoroni» opinionisti italiani. Alcuni arrivano a ripetere cliché retaggio del colonialismo culturale, dimostrando ignoranza della realtà libica.

Noi oggi siamo protagonisti e vogliamo chiudere con il dittatore. Ben vengano tutte le proposte di mediazione internazionale, come quella del presidente della Bolivia Evo Morales, per arrivare, per via pacifica, alla cacciata del sanguinario despota.

il manifesto

«Fermiamo le bombe, ritroviamo la ragione»

Guerra criminale, non aiuta ma uccide chi chiede aiuto

Loris Campetti intervista Gino Strada

«Anche la bomba atomica sganciata su Hiroshima fu motivata da esigenze umanitarie. Il presidente degli Stati uniti, dopo aver raccontato la solita bugia di guerra ("è stato colpito un obiettivo militare" e invece si era rasa al suolo una città e cancellata la sua popolazione), disse che quell'intervento "intelligente" aveva salvato dalla furia giapponese 46 mila persone. Con la bomba umanitaria, invece, ne sono stati uccisi 400-500 mila, subito e in conseguenza delle radiazioni». Gino Strada non ci sta alla finta umanità di chi contesta al pacifismo il presunto disinteresse per i civili vittime di dittature. Fa i conti, in Iraq nel '91, in Kosovo nel '99 e poi ancora in Iraq, in Afghanistan, oggi in Libia. Il fondatore di Emergency non fa sconti a nessuno e rovescia le tante domande-accuse che gli poniamo, le stesse che si rivolgono contro il manifesto e chi si oppone alla guerra, si diceva una volta senza sì e senza ma: «Solo quando avremo espulso la guerra dall'arco delle possibilità potremo chiederci davvero cosa possiamo fare per aiutare le vittime di dittature, terrorismi, pulizie etniche». Potremo ascoltare Gino Strada domani alla Sapienza, all'assemblea promossa da Uniti contro la crisi all'aula 1 di Lettere.

Se Emergency fosse una multinazionale dell'aiuto con fini di lucro e non una meritoria organizzazione volontaria si potrebbe dire che le cose per voi vannno sempre meglio: le occasioni di lavoro al fianco delle vittime di guerra si moltiplicano.

Ahimé, il lavoro non manca. Ancora una volta si è scelta la guerra. E questa di Libia come le guerre precedenti, comunque vada a finire sarà una sconfitta della ragione, dell'intelligenza, della necessità di capire come bisognerebbe agire.

Una sconfitta anche della politica?

Sì e no. Dalla politica, da questa politica non nascerà mai una cultura di pace che potrà venire solo dai cittadini, dagli intellettuali, dagli scienziati e solo questi soggetti potranno imporre alla politica un cambiamento di paradigma.

Intanto siamo ancora lì, allo stesso punto di ieri e l'altroieri: guerra umanitaria, bombe intelligenti, no fly-zone.

Stesso scenario, stessi linguaggi insensati, stesse motivazioni truffaldine. Vogliamo dire che la guerra non è mai necessaria o inevitabile? Parlare poi di guerra umanitaria, prima che un imbroglio è un insulto all'intelligenza. Da sempre alla guerra si accompagnano menzogne.

Abbiamo già detto troppe volte che la prima vittima della guerra è la verità...

E prima ancora vittima è la ragione. Incominciamo a pensare di escludere la guerra dal nostro orizzonte mentale. Lo so che non è uno sforzo facile, anche Einstein nel '55 disse che l'esclusione della guerra avrebbe creato problemi alla sicurezza nazionale, ma questo passo è inevitabile per non restare prigionieri di una spirale senza fine e senza esito.

Tutto si ripete ferocemente. Eppure c'è qualcosa che cambia: oggi le critiche o i dubbi sull'intervento in Libia vengono più da destra, con motivazioni ignobili, opportunistiche e razziste, che da sinistra, ammesso che abbia ancora senso parlare di sinistra: diciamo dall'opposizione.

Dietro i sì e i no di questa politica ci sono interessi meschini o confusioni mentali. Voglio essere ottimista, credo che una mobilitazione contro la guerra partirà, sulla base di sentimenti e motivazioni più nobili e più alte.

Il mondo gira al contrario e la guerra calda, finita quella fredda, è entrata nell'ordine delle cose, nella normalità della vita.

Ci hanno detto che il mondo è cambiato l'11 settembre. Non è vero, è cambiato prima. In ogni caso andiamo a vedere qual è stata la risposta alla strage delle Torri gemelle: le guerre si sono moltiplicate. Perciò preferisco parlare di guerra che è un crimine contro l'umanità che non di questa guerra contro la Libia, sennò non facciamo che passare da una guerra all'altra con annesse bugie e presunte motivazioni. Dire no alla guerra punto e basta non è semplice, lo so. Ma ritengo quanto mai attuale il manifesto del '55 di Russell e Einstein che dice «Questo è dunque il problema che vi presentiamo, netto, terribile e inevitabile: dobbiamo porre fine alla razza umana oppure l'umanità dovrà rinunciare alla guerra?». Lo storico statunitense Howard Zinn scrisse: «Ricordo Einstein che in risposta ai tentativi di "umanizzare" le regole della guerra disse "la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire". Come Emergency ha ripetuto per condannare la guerra alla Libia, è una scelta disumana, criminosa e assurda di uccidere, che esalta la violenza, la diffonde, la amplifica. Questo è l'approccio che dobbiamo imporre alla politica, parlare di disarmo e cominciare a praticarlo riducendo il potenziale di morte che insidia il nostro mondo. Quante testate nucleari abbiamo in Italia? Mi dicono una novantina. A che potenzale distruttivo corrispondono, quante Hiroshima potrebbero cancellare dalla faccia della terra? Siamo seduti su un arsenale.

Che idea ti sei fatto delle motivazioni reali della guerra alla Libia?

Dai commenti che leggo, le più disparate. Per la Francia, immagino che conti la volontà di Sarkozy di essere rieletto, mentre mettere le mani sul petrolio libico è l'obiettivo di tutti i combattenti «umanitari». Nessun governante informa i cittadini sulle ragioni vere per cui li porta in guerra, spacciano solo disgustose menzogne. Se va bene le motivazioni reali verranno fuori anni e anni dopo. E adesso l'Italia torna a far guerra alla Libia, come cent'anni fa.

Ti accusano, ci accusano, di fottercene del popolo di Bengasi, ci dicono «voi l'avreste lasciato nelle mani del boia».

Ecco il cortocircuito, l'avvitamento, la spirale di morte. Ci raccontano che con le bombe staremmo aiutando quel popolo. Lo stesso ci dicevano in Iraq, quando dovevamo liberare gli iracheni oppresso dal criminale Saddam. Il risultato? Abbiamo ammazzato più persone del criminale Saddam, parlano i numeri. Come a Hiroshima, quando il presidente degli Stati uniti disse che con l'atomica avremmo salvato 46 mila persone. Peccato che quella bomba ne ha uccise 400-500 mila. In Afghanistan, per non lasciare impunito un crimine, per rendere «giustizia» ai 3 mila morti di New York sono state stroncate più di centomila vite umane. Se non ci si ferma subito, se non cesserà subito il fuoco, in Libia andrà allo stesso modo. Quanti morti ha fatto il dittatore Gheddafi in Cirenaica, quanti avrebbe potuto ancora farne? E quanti ne abbiamo fatti e ne faremo noi? E che conseguenze avranno i bombardamenti occidentali in quell'area turbolenta, e quanti su di noi?

Nel Bahrein e Yemen, per non parlare di Palestina, lo spirito umanitario si spegne.

Certo, ma attenti a non proporre l'estensione di quel criminale spirito umanitario a tutti i paesi in conflitto. Vogliamo forse fare una palla di fuoco del pianeta?

Hai usato parole dure verso il presidente Napolitano quando ha difeso la guerra sostenendo che non siamo in guerra.

Preferisco evitare ogni ulteriore commento per rispetto dell'età. Posso solo dire che dal presidente della Repubblica italiana mi aspetterei il rispetto della Costituzione italiana. È vero, c'è un mandato del Consiglio di sicurezza ma è un alibi. Cosè oggi l'Onu, quali diritti e interessi rappresenta e difende? Nella risoluzione si dice che bisogna fare tutti gli sforzi per evitare la violenza ma al momento del voto erano già in volo macchine di morte. Quali sforzi sono stati fatti, quali tavoli di confronto, quali missioni, quanti inviati delle Nazioni Unite?

Ci sono i primi appuntamenti in cui si chiederà, insieme ad altre rivendicazioni,di cessare i bombardamenti. Venerdì (domani, ndr) alla Sapienza alla grande assemblea promossa da Uniti contro la crisi per generalizzare e riempire di contenuti lo sciopero della Cgil del 6 maggio si discuterà anche di nucleare e guerra, e così sarà sabato alla manifestazione nazionale per l'acqua pubblica. Ci sarai?

Sarò presente all'assemblea della Sapienza mentre sabato sono impegnato in un'altra iniziativa di Emergency organizzata precedentemente. Ma vedrai che ci saranno altre riflessioni del movimento pacifista e altre importanti mobilitazioni. Ci stiamo lavorando intensamente.



la Repubblica

"Questa volta è un errore"

Roberto Festa intervista Michael Walzer

Non si entra in un conflitto solo per sostenere l’opposizione a un dittatore perché non ha forze sufficienti. Altrimenti la comunità internazionale dovrebbe intervenire sempre e dovunque"

«L’attacco alla Libia è un errore, in nessun modo giustificato dalle regole dell’intervento umanitario». Da anni Michael Walzer, filosofo della politica con base all’Institute for Advanced Study di Princeton, studia i fili complessi che legano uso della violenza, potere e morale. In un celebre libro degli anni Settanta, Guerre giuste e ingiuste, ha spiegato perché l’intervento in Vietnam era "ingiusto", mentre la Seconda guerra mondiale era "giusta". Nel caso dei raid alleati in Libia, gli sembra che ci siano tutte le ragioni per definirli «un errore, politico e morale, che si concluderà con un probabile bagno di sangue».

Michael Walzer, perché l’intervento in Libia è un errore?

«Per diverse ragioni. Anzitutto, non sono chiari gli obiettivi dell’attacco. Si vuole cacciare Gheddafi? Oppure si cerca di sostenere militarmente la rivolta? O ancora, più semplicemente, si vuole applicare il cessate il fuoco? L’entità delle bombe alleate scaricate sulla Libia lascia intendere che il vero obiettivo è eliminare il tiranno. Senza un intervento di terra, al momento improbabile, sarà però molto difficile. E così gli alleati si trovano di fronte due strade, entrambe pericolose. O riescono a riportare in vita una rivolta ormai sconfitta sul campo; ciò che condurrebbe a una lunga e sanguinosa guerra civile. Oppure ce la fanno a imporre il cessate il fuoco; ma in questo caso Gheddafi resterà padrone di gran parte della Libia. Sono, appunto, esiti per nulla augurabili».

Eppure, in questo caso, c’era la possibilità che Gheddafi scatenasse una feroce repressione contro l’opposizione nelle città riconquistate.

«Ecco, appunto, una repressione, non un massacro, o un genocidio. Una repressione dell’opposizione libica sarebbe stata un fatto drammatico, tragico. Ma purtroppo, non spetta alla comunità internazionale intervenire ogni volta che una rivolta democratica non raggiunge i suoi obiettivi. Altrimenti, si dovrebbe intervenire continuamente, ovunque, e questo non è politicamente e moralmente opportuno. La prima regola dell’interventismo democratico è quella di non cercare di riportare in vita un movimento di opposizione che non ce la fa a sostenere i suoi obiettivi, autonomamente, sul campo».

Quando è invece necessario, e giusto, intervenire militarmente? Quando la guerra è "umanitaria"?

«È facile fare alcuni esempi. Era giusto intervenire di fronte ai "campi della morte" dei Khmer Rossi in Cambogia. Era giusto intervenire in Ruanda o nel Darfur. Niente di quello che sta succedendo oggi in Libia è lontanamente comparabile a quanto accaduto in quei paesi».

È l’entità del massacro che giustifica la "guerra umanitaria"?

«Mettiamola così. La "guerra umanitaria" è quella che salva centinaia di migliaia di persone da morte sicura. Anche la "guerra umanitaria", sarebbe ipocrita negarlo, produce danni collaterali e mette a rischio le vite degli innocenti. Ma una guerra umanitaria ferma un massacro, e quindi salva molte più vite di quante ne mette a rischio».

Quindi la "guerra umanitaria" è slegata da motivazioni politiche?

«Non lo è nel caso di un movimento che metta a rischio la stabilità del mondo, come nel caso del fascismo nella Seconda guerra mondiale. Ma nel caso della Libia, Gheddafi non attaccava o minacciava nessuno, all’esterno. Lo ripeto. Solo un clamoroso disastro umanitario può giustificare un intervento. La "guerra umanitaria" non si fa in presenza di una repressione, sia pure sanguinosa. Né la si fa per favorire un regime change, o per disfarsi di un tiranno».

Un presidente del Consiglio sotto ricatto. Un governo a responsabilità e a sovranità limitata. Da qualunque parte la si osservi, l’Italia offre di sé un’immagine da fine Impero. Sul palcoscenico vediamo la tragedia della guerra e i grandi orrori della dittatura gheddafiana. Nel retropalco, al riparo dagli sguardi di un’opinione pubblica confusa e disinformata, non vediamo la commedia della destra e i piccoli orrori della «democratura» berlusconiana. La «promozione» di Saverio Romano a ministro è l’ultimo insulto al buon senso politico e alla dignità istituzionale. L’emendamento sulla prescrizione breve per gli incensurati è l’ennesimo schiaffo allo Stato di diritto.

Ciò che è accaduto ieri al Quirinale è la prova, insieme, della debolezza e della sfrontatezza del presidente del Consiglio. Berlusconi paga a caro prezzo la vergognosa «campagna acquisti» che in questi mesi gli ha consentito prima di evitare il tracollo al voto di sfiducia del 14 dicembre, poi di puntellare la maggioranza dopo la fuoriuscita dei futuristi di Gianfranco Fini. La sparuta pattuglia dei cosiddetti «responsabili», assoldati tra le anime perse dei «disponibili» di Transatlantico, gli ha presentato il conto: i nostri voti alla Camera, in cambio di poltrone di governo e di sottogoverno. Esposto a questo ricatto pubblico subito in Parlamento (che si somma ai ricatti privati patiti sul Rubygate) il premier non si è potuto tirare indietro. A costo di imbarcare, al dicastero dell’Agricoltura, un deputato chiacchierato sul quale pende un’inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa.

Non è la prima volta che Berlusconi mette in squadra ministri discutibili, sul piano politico e giudiziario. Volendo, si potrebbe partire da lui stesso. Se si allarga lo sguardo, tornano in mente il plurindagato Cesare Previti ministro della Giustizia, sul quale pose il veto Scalfaro nel maggio 1994, e poi il plurinquisito Aldo Brancher ministro per l’attuazione del federalismo, sul cui pretestuoso «legittimo impedimento» pose il veto Napolitano nel giugno 2010. Ma stavolta c’è di più e di peggio. Da un lato, appunto, c’è la sottomissione a un truce ricatto, che la dice lunga sulla condizione di «minorità» di questa maggioranza: si è dotata di un fragile argine numerico, ma non dispone più di un solido margine politico.

Dall’altro lato, c’è la sfida alle istituzioni. La scorsa settimana, nel primo incontro al Quirinale sul rimpasto, il presidente della Repubblica aveva già segnalato al Cavaliere che l’eventuale proposta di Romano ministro sarebbe stato un problema serio, viste le pesantissime ipotesi di reato che tuttora pendono sul personaggio in questione, per il quale esiste una richiesta di archiviazione ma sul quale il gip non si è ancora pronunciato. Ancora l’altro ieri sera, Napolitano aveva ripetuto a Gianni Letta che se il premier non avesse desistito dal suo intendimento, il Capo dello Stato avrebbe accettato la sua proposta perché non esistono «impedimenti giuridico-formali» tali da giustificare un diniego, ma non avrebbe rinunciato a rendere pubbliche le sue «perplessità politico-istituzionali» sulla nomina.

Nonostante questi avvertimenti, il presidente del Consiglio è andato fino in fondo. E ha costretto il Colle a un atto clamoroso e irrituale: un comunicato ufficiale in cui si auspica un rapido chiarimento sulla posizione processuale del neo-ministro, in relazione alle «gravi imputazioni» che lo riguardano. Un episodio che non ha precedenti. La presunzione di innocenza è una garanzia costitutiva di ogni Stato liberale. Ma che credibilità può avere un governo in cui, dal presidente del Consiglio in giù, è un contino viavai di indagati, inquisiti, processati? E fino a che punto può spingersi il cinismo politico di un premier, che pur di galleggiare fino alla fine della legislatura, è pronto a sottoscrivere qualunque «patto», anche il più scellerato, solo per salvare se stesso e il suo governo?

In questa logica, perversa e irresponsabile, rientra anche la questione della giustizia. Quanto è accaduto tre giorni fa in commissione, alla Camera, è l’ennesimo scandalo della democrazia. L’emendamento al disegno di legge sul processo breve, presentato dal carneade pidiellino Maurizio Paniz (il patetico Cirami di questa sedicesima legislatura) abbatte i tempi della prescrizione per gli incensurati. Più ancora di quelle che l’hanno preceduta, è una norma tagliata a misura per i bisogni processuali del Cavaliere. Grazie a questo trucco legislativo, il processo Mills decadrà prima dell’estate, e il premier sfuggirà ad una probabile condanna. La vergogna non è tanto la «cosa in sé»: di misure ad personam il Cavaliere se n’è fatte approvare ben 38, in diciassette anni di avventura politica.

Il vero scandalo è nella menzogna eletta a metodo di governo. Solo tre settimane fa, nel quadro della controffensiva politico-mediatica orchestrata da Berlusconi e dalla Struttura Delta, il governo aveva spacciato al Paese la sua «storica riforma della giustizia». Vendendola agli italiani, al capo dello Stato e all’opposizione come una «svolta di sistema», che per la prima volta non avrebbe contenuto norme atte ad incidere «sui processi in corso». Quindi mai più giustizia ad uso personale, mai più leggi ad personam. Un mossa astuta, propagandata e camuffata con tutti i mezzi del network informativo e televisivo di cui il premier può disporre. Una mossa che aveva accecato i soliti «addetti al dialogo» del Pd. Avevamo scritto che quella non era affatto una «riforma storica», ma una «controriforma incostituzionale». Avevamo scritto che prima di andare a vedere cosa c’era nella mano visibile del Cavaliere, bisognava capire cosa c’era in quella nascosta dietro alla sua schiena. Ora lo sappiamo. È l’ultima conferma che in Italia, finché c’è Berlusconi, la legge non sarà mai uguale per tutti. Noi l’abbiamo capito da un pezzo. Ora speriamo che l’abbiano capito anche le anime belle del centrosinistra.

m.gianninirepubblica.it

Giù le mani dal referendum

di Ugo Mattei

Con la manifestazione di sabato in Piazza san Giovanni diventerà chiaro a tutti che la battaglia per l'acqua bene comune e quelle contro il nucleare e la guerra sono parte di un solo grande movimento di civiltà. Un movimento che vuole invertire la rotta rispetto ad un modello di sviluppo suicida fondato sulla violenza del più forte contro il più debole. Un movimento che non si rassegna all'imbarbarimento della vita pubblica e alla rinuncia della cittadinanza a favore del consumo. Un movimento che difende la vita e ripudia, insieme alla guerra, ogni altra tecnologia di morte. Il movimento per i beni comuni vuole aprire un grande confronto democratico nel paese.

Un dibattito politico fatto di temi reali (acqua, nucleare, guerra) e non di alchimie o sigle. Il movimento referendario che ha raccolto quasi un milione e mezzo di firme per l'acqua bene comune vuole rappresentare fino in fondo il corpo elettorale sovrano, permettendogli finalmente di esprimersi direttamente, a seguito di un libero dibattito democratico, sul modello di sviluppo che come collettività intendiamo perseguire.

Il governo, sostenuto da un Parlamento delegittimato da una legge elettorale assurda, ha paura della democrazia diretta e non vuole confrontarsi nel merito. Per farlo ricorre a ogni scorrettezza di metodo, abusando sistematicamente del proprio potere e tradendo il proprio mandato costituzionale. Il dodici febbraio scorso l'Avvocatura dello Stato, costituitasi in giudizio contro l'ammissibilità dei referendum è stata sconfitta. Abbiamo portato a casa il fondamentale riconoscimento dei beni comuni nella giurisprudenza della Corte Costituzionale (poco dopo anche le Sezioni Unite della Cassazione hanno riconosciuto la nuova categoria giuridica) e soprattutto abbiamo smascherato le menzogne sistematiche con cui Tremonti e Ronchi avevano cercato di non assumersi la responsabilità politica della loro scellerata scelta privatizzatrice, cercando di addossarne la responsabilità «all'Europa». Con la decisione della Corte Costituzionale è iniziata una nuova fase in cui il governo non può più essere parte ma deve cooperare lealmente con gli altri poteri dello Stato (fra cui i promotori dei referendum) nella piena applicazione dell' art. 75 della Costituzione per consentire al corpo elettorale sovrano di confrontarsi nel merito dei quesiti. In questa nuova fase il governo deve essere guidato dal solo art. 97. della Costituzione, quello che prescrive l'imparzialità e l'efficienza dell'azione amministrativa.

Lungi dall'attenersi a questo mandato costituzionale, nello scoperto tentativo di prendersi una rivincita facendo saltare il quorum, il governo ha dapprima deciso di rifiutare l'election day sperperando centinaia di milioni di euro (in gran parte gravanti sugli enti locali già impoverirti che farebbero bene a far sentire la propria voce) pur di far votare nell'ultima giornata utile, a scuole chiuse e in pieno periodo di maturità, dopo che gli elettori hanno già dovuto recarsi due volte ai seggi. Quando, dopo l'incidente nucleare giapponese, è risultato chiaro che gli elettori avrebbero capito la posta in gioco nonostante la congiura del silenzio, ecco ora il tentativo di scippare il corpo elettorale della possibilità di esprimersi, attraverso il congelamento di un anno del programma nucleare. L'idea dei nostri statisti è che l'Ufficio centrale per il referendum presso la Cassazione sospenda il referendum sul nucleare dichiarandolo superato dal nuovo assetto normativo prodotto dalla «pausa di riflessione» e che saltato il nucleare salterebbe il quorum per tutti gli altri. Il referendum verrebbe così celebrato quando è passata la buriana. Sia detto con grande chiarezza: questo escamotage avvilente dà la misura del dilettantismo giuridico di questi signori (già certificato dalla Corte Costituzionale), oltre a quella della loro miserabilità politica. L'effetto giuridico di un voto referendario dura infatti cinque (5) anni. Una leggina ponte della durata di un (1) anno non può perciò in alcun caso sostituirsi alla volontà diretta del corpo elettorale, che deve essere a questo punto espressa nei modi e nelle forme dell'art. 75 Costituzione. La Cassazione e in seconda battuta la Corte Costituzionale non avallerebbero mai un simile tentativo di scippo. Da parte nostra saremo numerosissimi sabato a dire oltre a tutto il resto: «Giù le mani dai referendum!». Perché si scrive acqua ma si legge democrazia.

Moratoria «bluff» sul nucleare

di Eleonora Martini



Davanti all'impasse, sul nucleare il governo tenta la mossa del cavallo. E con un discreto effetto mediatico, per bocca del ministro dello sviluppo economico Paolo Romani annuncia una «moratoria di un anno sull'attuazione e la ricerca di siti e sull'installazione di centrali». Nessun atto giuridico, spiegano fonti ministeriali, solo un impegno politico che il Consiglio dei ministri formalizzerà oggi stesso. La legge 133 del 2008, quella che reintroduce l'opzione energetica nucleare in Italia e che è oggetto del quesito referendario abrogativo, non dovrebbe subire - assicura Palazzo Chigi - alcun tentativo di modifica. Dunque il referendum si farà anche se, spera assai la maggioranza, a questo punto altamente "depotenziato". «Mi aspetto che non si decida sull'onda dell'emotività ma sull'onda di un ragionamento e delle certezze che dobbiamo dare come governo e come Unione europea», incalza Romani che assicura: «La decisione è stata presa alla luce di quanto discusso lunedì in sede europea sulle procedure standard di sicurezza da stabilire per tutti i paesi comunitari».

Ma sotto il vestito, almeno fino a ieri sera, non sembra esserci davvero molto: perfino il decreto legislativo correttivo sulla localizzazione delle centrali nucleari e dei siti di stoccaggio non è stato ritirato, come sembrava ipotizzare la maggioranza e in molti speravano, e ha proseguito invece il suo iter parlamentare. Ieri sera la commissione Industria del Senato ha dato (con il voto contrario di Pd e Idv) l'ultimo parere favorevole necessario al governo per mettere a punto entro oggi, giorno di scadenza della delega parlamentare, il testo definitivo. «Fino all'ultimo - racconta il senatore Filippo Bubbico, membro della commissione - abbiamo sperato che il governo ritirasse il decreto, ma non lo ha fatto». Ermete Realacci, responsabile della green economy del Pd, parla di «lingua biforcuta» e di «bluff atomico». In realtà, secondo quanto annunciato dal ministro Romani, la moratoria di un anno non dovrebbe comprendere la localizzazione dei siti di stoccaggio dei rifiuti nucleari, visti i ripetuti richiami all'Italia da parte dell'Unione europea proprio per la mancanza di un «idoneo deposito nazionale» di rifiuti radioattivi derivanti dalle vecchie centrali dismesse ma anche dalle attività ospedaliere. «La nostra volontà - ha spiegato il titolare dello Sviluppo economico - è di portare al Consiglio dei ministri quella parte del decreto legge correttivo che riguarda il deposito nazionale per lo stoccaggio delle scorie perché si tratta di un grande tema per la sicurezza».

«Cosa significa la moratoria di un anno sul nucleare, se la maggioranza al tempo stesso approva la norma che consente di costruire centrali nucleari e impianti di stoccaggio di scorie anche in caso di parere contrario di Regioni e Comuni?», protesta Realacci riferendosi alle norme contenute nel decreto. Un problema che si ripresenta anche solo per i siti di stoccaggio. Come faranno a scegliere l'area senza il consenso della regione "prescelta"? Niente paura, spiegano da Palazzo Piacentini: l'iter di individuazione è lungo e complesso, e ancora di più lo è la successiva «fase di concertazione».

Dal leader di Fli, Gianfranco Fini, alla Cgil passando per l'Anci (comuni) e per il presidente della conferenza stato-regioni Vasco Errani, sono in molti a tirare un sospiro di sollievo o a complimentarsi per la moratoria, definita da alcuni un felice anche se non esaustivo «primo passo». Ma dal Pd all'Idv, dai Verdi al comitato "Vota sì per fermare il nucleare" costituito da oltre 60 associazioni, l'opposizione compatta grida invece alla «truffa» e al «sabotaggio». «Una mossa furba e truffaldina per far credere agli italiani che non c'è alcun bisogno di andare a votare al referendum», attacca Massimo Donadi, presidente dei deputati Idv. Per il partito di Antonio Di Pietro, come anche per i Verdi di Angelo Bonelli, non è del tutto infondato il timore che il governo possa «preparare un decreto legge per modificare la norma oggetto del quesito referendario», in modo da sabotare non solo politicamente il referendum che dovrebbe tenersi il 12 e il 13 giugno prossimi. «Non possono farlo», reagisce il Radicale Marco Cappato che anche ieri mattina, da Milano in conferenza stampa con Emma Bonino, aveva chiesto di nuovo lo stop del piano nucleare e una decisa virata verso il risparmio energetico e le rinnovabili, colpite invece quasi a morte con l'ultimo decreto legislativo. «Non si può modificare una legge oggetto di referendum - spiega Cappato - ma nel Paese della distruzione della Costituzione, è lecito sospettare perfino una manovra del genere. Tanto più da parte di un governo che ha messo in piedi un piano nucleare costoso, insensato, e che ci rende subalterni a Sarkozy».

NUKE

No alla costruzione di centrali: il quesito

«Volete voi che sia abrogato il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante per effetto di modificazioni ed integrazioni successive, recante 'Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, limitatamente alle seguenti parti: art. 7, comma 1, lettera d: realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare?'. Con questo quesito si vuole abrogare la norma per la «realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare».

ACQUA 1

Privatizzazione dell'acqua? No grazie

«Volete voi che sia abrogato l'art. 23 bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto legge 25 giugno 2008 n.112 'Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria' convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n.133, come modificato dall'art.30, comma 26 della legge 23 luglio 2009, n.99 recante 'Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia' e dall'art.15 del decreto legge 25 settembre 2009, n.135, recante 'Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea' convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n.166, nel testo risultante a seguito della sentenza n.325 del 2010 della Corte costituzionale?». Con questo quesito si vuole fermare la privatizzazione dell'acqua. Si propone l'abrogazione della norma sulla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica che stabilisce come modalità ordinarie di gestione del servizio idrico l'affidamento a soggetti privati attraverso gara o l'affidamento a società a capitale misto pubblico-privato, all'interno delle quali il privato sia stato scelto attraverso gara e detenga almeno il 40%.

ACQUA 2

I profitti del gestore e i costi sulla bolletta

«Volete voi che sia abrogato il comma 1, dell'art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 'Norme in materia ambientale', limitatamente alla seguente parte: 'dell'adeguatezza della remunerazione del capitale investito'?» Si propone di eliminare la disposizione in base alla quale la tariffa per il servizio idrico è determinata tenendo conto dell'«adeguatezza della remunerazione del capitale investito». Si consente cioè al gestore di ottenere profitti garantiti sulla tariffa, caricando sulla bolletta dei cittadini un 7% a remunerazione del capitale investito, senza prevedere un reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio.

LEGITTIMO IMPEDIMENTO

Per l'abrogazione dello scudo giudiziario

«Volete voi che siano abrogati l'articolo 1, commi 1, 2, 3, 5, 6 nonché l'articolo 1 della legge 7 aprile 2010 numero 51 recante 'disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza?». E' il quesito proposto dall'Italia dei valori che riguarda lo scudo giudiziario per il presidente del consiglio e i ministri. Dopo la dichiarazione di parziale incostituzionalità della legge, la Corte di Cassazione ha autorizzato lo svolgimento del referendum.

Non è mai cosa semplice giustificare una guerra, per chi è mandato al fronte ma anche per chi ha l’incarico di iniziarla, di deciderne i fini e la fine. Non è facile neanche per chi, sui giornali, cerca di dire la verità della guerra, le sue insidie. La più grande tentazione è di rifugiarsi nei luoghi comuni, nelle frasi fatte, nelle menzogne. Frasi del tipo: nessuna guerra è buona; nessun politico ragionevole s’impantana in paesi lontani; nessuna guerra, infine, va chiamata guerra.

Il governo italiano è specialista di quest’ultima menzogna: la più ipocrita. Né si limita a mentire: un presidente del Consiglio che si dice «addolorato per Gheddafi» senza sentir dolore per le sue vittime non sa la storia che fa, né perché la fa.

A questi luoghi comuni sono affezionati sia gli avversari incondizionati delle guerre, sia i governi che le guerre le fanno senza pensarle, o pensandone i moventi (petrolio e gas libici) senza dirli. I luoghi comuni sempre rispondono al primo istinto, più facile. Memorabile fu quel che disse il premier Chamberlain, nel ‘38, quando Hitler volle prendersi la Cecoslovacchia: «Un paese lontano, dei cui popoli non sappiamo nulla». Sono frasi che circolano, immemori, da secoli. Perché combattere per Bengasi? Siamo usciti dal colonialismo dimenticando che la tattica di Mussolini in Libia (far terra bruciata) è imitata da Gheddafi nel suo Paese. Frasi simili possono esser dette solo da chi immagina che il proprio interesse (personale, nazionale) sia disgiunto dal mondo. Non c’è solo la banalità del male. Esiste anche la banalità dell’indifferenza a quel che succede fuori casa. Lo scrittore Hermann Broch parlò, agli esordi del nazismo, di crimine dell’indifferenza.

L’Onu nacque per arginare questo crimine, nel dopo guerra. La Carta delle Nazioni unite garantisce la sovranità degli Stati, nel capitolo 1,7, ma nello stesso paragrafo stabilisce che il principio di non ingerenza «non pregiudica l’applicazione di misure coercitive a norma del capitolo 7»: capitolo che chiede al Consiglio di sicurezza di accertare «l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione», e gli consente (se l’aggressore non è dissuaso) di «intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite» (articoli 39 e 42 del capitolo 7).

Le Nazioni Unite hanno commesso innumerevoli errori in passato, ma i peccati maggiori sono stati di omissione, non di interventismo: basti pensare al genocidio in Ruanda, cui Kofi Annan, allora responsabile delle operazioni militari Onu, restò indifferente nel ‘94. Nonostante ciò l’Onu è l’unico organismo multinazionale che possediamo, la sola risposta ai luoghi comuni di cui il nazionalismo è impregnato. La sua Carta non è diversa dalle Costituzioni pluraliste dei paesi usciti dal nazifascismo come l’Italia e la Germania. Non è lontana, pur mancando di autorevolezza sovranazionale, dallo spirito dell’Unione europea: l’assoluta sovranità non è inviolabile, se gli Stati deragliano. D’altronde l’Onu ha imparato qualcosa dal Ruanda. Nel 2005, su iniziativa dello stesso Kofi Annan, ha approvato il principio della «Responsabilità di proteggere» le popolazioni minacciate dai propri regimi (Responsibility to Protect, detto anche RtoP), anche se è imperativa l’approvazione del Consiglio di sicurezza. È il principio invocato in questi giorni a proposito della Libia.

A partire dal momento in cui questa responsabilità viene codificata, lo spazio delle ipocrisie si restringe e più intensamente ancora le ragioni della guerra vanno meditate: specie nei Paesi arabi, dove spesso dominano tribù anziché Stati moderni. Anche questo è difficile: dai tempi di Samuel Johnson sappiamo che «la prima vittima delle guerre è la verità», e quest’antica saggezza va riscoperta. Se l’Italia «non è in guerra», cosa fanno i nostri caccia nei cieli libici? Pattugliano per far scena, senza difendersi se attaccati, addolorati anch’essi per Gheddafi? È questo, ministro Frattini, quel che dice agli aviatori? Frattini riterrà la domanda incongrua, e lo si può capire. È lo stesso ministro che il 17 gennaio, in un’intervista al Corriere, definì Gheddafi un modello di democrazia per il mondo arabo: un mese dopo la Libia esplodeva. Come mai la maggioranza non l’ha estromesso dal governo, come i gollisti hanno fatto col ministro degli esteri Michèle Alliot-Marie?

Ma forse c’è un motivo, per cui le parole vane si moltiplicano. In parte nascono da vecchi riflessi, impermeabili all’esperienza. In parte sono frutto di una confusione mentale profonda: l’Onu è di continuo invocata, ma quando agisce e l’America di Obama sceglie la via multilaterale molti perdono la bussola. In parte è l’Onu, prigioniera dei protagonismi nazionali, a evitare parole chiare. Di qui le tante ambiguità della risoluzione sulla Libia: un testo che vuol accontentare tutti e in realtà non sa quello che vuole, né quello che non vuole. Perfino sulla questione cruciale regna il buio: non si vuol spodestare Gheddafi, e però non pochi chiedono proprio questo. Il primo a tentennare è Obama: stavolta non vuole cambi di regime alla Bush, ma il risultato è che ciascuno nell’amministrazione dice la sua come in un giardino d’infanzia. Il 18 marzo il Presidente annuncia che «il cambiamento nella regione non sarà e non può esser imposto dagli Usa né da alcuna potenza straniera: in ultima istanza, sono i popoli del mondo arabo a doverlo compiere». Tre giorni dopo, il 21 marzo in Cile, ripete che la missione è proteggere i civili ma aggiunge: «La politica degli Stati Uniti ritiene necessario che Gheddafi se ne vada: tale politica sarà sostenuta da mezzi aggiuntivi». Ben altro aveva detto domenica il capo di stato maggiore Michael Mullen: l’obiettivo è di «limitare o eliminare le capacità del dittatore di uccidere il proprio popolo e di sostenere lo sforzo umanitario», non di provocare un cambio di regime. Per lui, Gheddafi può anche restare al potere.

Non è l’unica ambiguità: gli interventisti proclamano di non volere occupazioni né attacchi terrestri, ma nutrono parecchi dubbi in proposito. Anche perché con la sola aviazione e gli spazi aerei interdetti si ottiene poco, o peggio ancora: in Bosnia-Erzegovina, la no-fly zone fra il ‘93 e il ‘95 non impedì il massacro di 8000-10000 musulmani bosniaci a Srebrenica, città sotto tutela dell’Onu.

Non meno equivoco è il ritardo con cui l’Onu interviene. Il divieto di sorvolo poteva essere imposto prima, quando Gheddafi non aveva ancora riconquistato città e creato una spartizione di fatto della Libia. Uno dei difetti dei cieli interdetti è la scelta dei tempi. Le no-fly zone in Iraq (1991-2002) furono istituite dopo che a Nord l’orrore era già avvenuto (3.000-4.000 villaggi curdi distrutti da Saddam con armi chimiche, nell’88, più di 1 milione di morti), e nel Sud il divieto restò inascoltato.

L’Europa non solo è inesistente, ma pericolosa nella sua frantumazione: la scommessa fatta da Obama sulla sua autonomia è fallita, e non per sua colpa. Uno dei motivi per cui Lega araba è incollerita pur volendo l’intervento è la fretta di Sarkozy, che ha fatto partire i propri aerei senza mai consultare gli arabi. Non basta qualche aereo del Qatar per riempire il vuoto, abissale, di politica. Sarkozy interventista pensa ai suoi casi elettorali non meno della Merkel anti-interventista: di qui il litigio sulla guida o non guida della Nato. Quanto all’Italia, vale la pena ricordare quel che scriveva oltre un secolo fa lo scrittore Carlo Dossi, consigliere di Crispi: «La politica internazionale attuale dell’Italia non è che politica di rimorchio. L’Italia governativa non ha più propria opinione, né ardisce mai d’iniziare un affare o un’impresa, anche se vantaggiosa. Essa si accosta sempre al parere altrui. E neppure osa aderirvi schiettamente. Piglia busse, tace e ubbidisce».

Ancora non sappiamo se il mondo arabo sia scosso da tumulti, da clan rivoltosi, o da rivoluzioni che edificano nuovi Stati. Una cosa però già la sappiamo: una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo. La settimana scorsa, la Bbc ha diffuso un dibattito organizzato dalla Fondazione Qatar (il Doha Debate) in cui una platea di giovani arabi discuteva dell’Egitto. La maggioranza ha votato una mozione in cui si chiede di non indire subito le elezioni, perché la democrazia «non si esaurisce nelle urne»: è fatta di infrastrutture democratiche, di costituzioni garanti delle minoranze, di separazione dei poteri. Ha detto Marwa Sharafeldine, attivista democratica egiziana: «La democrazia fast-food può solo creare indigestioni». Non lascia spazio che ai ricchi, agli organizzati come i fondamentalisti islamici.

Pensando all’Italia, ho avuto l’impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare a questa conversazione mondiale, cominciata in ben sedici Paesi arabi. Forse impareremmo qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di amici, e i capipopolo che si sentono in tale fusione col popolo da ritenersi, come Gheddafi, politicamente immortali.

Il progetto per la più grande infrastruttura libica. L’autostrada da 4 miliardi e la fame padana

Forse la Lega teme davvero che il caos libico scaraventi sulle coste italiane un esodo biblico di disperati. Ma sulle sue fibrillazioni probabilmente influisce anche un altro aspetto determinante: gli affari. Proprio nel momento in cui stava accarezzando l’idea di diventare il pivot dei giganteschi business che insieme al petrolio e al gas riguardano il paese nordafricano, e cioè le grandi opere, le è capitata tra capo e collo la rivolta contro il raìs con tutto ciò che ne è seguito. Visti da questa angolazione forse si capiscono meglio i clamorosi distinguo di Umberto Bossi nei confronti delle decisioni del governo sulla Libia e i mal di pancia dei ministri leghisti dopo le missioni dei Tornado italiani sui cieli del nord Africa.

Lontano dai riflettori, ma molto nel concreto, la Lega negli ultimi tempi stava diventando il partito che più di altri avrebbe goduto dei benefici effetti sugli affari delle grandi imprese italiane prodotti dall’ormai famoso Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione firmato con grande solennità il 30 agosto di tre anni fa a Bengasi tra Silvio Berlusconi e il colonnello Gheddafi. In base a quell’intesa l’Italia si impegnava a versare alla Libia circa 5 miliardi di euro a titolo di risarcimento per i danni di guerra. Nello stesso tempo si stabiliva che il nostro paese avrebbe partecipato alla realizzazione della più grande infrastruttura del nord Africa dei prossimi decenni e cioè l’autostrada costiera che avrebbe attraversato la Libia da Ras Adir ad Emsaad, dal confine tunisino ad ovest fino a quello egiziano ad est. Millesettecentocinquanta chilometri di asfalto in totale. Valore stimato dell’opera, oltre 4 miliardi di euro.

L’operazione autostrada era concretamente partita tre mesi fa con la regia dell’Anas, azienda statale italiana delle strade guidata da Pietro Ciucci. Anzi, l’affare era stato avviato sotto la supervisione dell’ala leghista della società stradale, rappresentata dal consigliere di amministrazione Claudio Andrea Gemme, un manager genovese che è anche amministratore delegato di Ansaldo sistemi industriali, ma soprattutto è il referente nell’azienda delle strade del vice ministro delle Infrastrutture, il leghista Roberto Castelli. Otto mesi fa Gemme fu nominato coordinatore di un nuovo gruppo di lavoro costituito dall’Anas, il gruppo Attività internazionali, a cui fu affidato il compito di seguire gli affari attualmente concentrati soprattutto in tre paesi: l’Algeria, l’Iraq e in prospettiva la Libia.

Di questo comitato fa parte lo stato maggiore Anas, da Alfredo Bajo, responsabile delle nuove costruzioni, manager in passato collaboratore di Carlo Toto, proprietario di Air One e uno dei “patrioti” dell’Alitalia, a Michele Adiletta, direttore centrale dell’esercizio stradale, Eleonora Cesolini, responsabile ricerca e innovazione, Stefano Granati, ex condirettore della società Stretto di Messina.

Alla fine del 2010 questo gruppo aveva già portato a casa i primi risultati: l’ambasciata libica aveva affidato all’Anas il servizio di advisor per la futura autostrada. Ricevendo in cambio 125 milioni e mezzo di euro, l’azienda italiana delle strade avrebbe dovuto svolgere compiti delicatissimi e nevralgici come pianificare le procedure, convalidare i progetti, espletare le gare d’appalto per il successivo affidamento dei lavori alle imprese e infine garantire l’alta sorveglianza sui lavori stessi. In pratica su impulso del gruppo internazionale del leghista Gemme, l’Anas stava diventando il punto di riferimento per la nuova grande opera libica.

I lavori erano stati suddivisi in quattro lotti e il primo del valore di 835 milioni di euro era stato affidato ad un consorzio guidato da Maltauro, il gruppo che aveva costruito le ville di Berlusconi ad Antigua e più di recente la nuova sede compartimentale Anas all’Aquila. L’affidamento dei lavori degli altri lotti era previsto per il prossimo settembre e molti all’Anas davano per scontato che questa volta sarebbe toccato ad Impregilo, la grande azienda già impegnata sulla Salerno-Reggio Calabria, scelta per il futuro ponte di Messina e guidata da Massimo Ponzellini, considerato il manager e il banchiere più vicino alla Lega.

Non bisogna farsi ingannare dalle immagini che dallo schermo ci raccontano in questo momento l’intervento in Libia. A differenza di quel che appare, questa è una guerra tutta americana e ha come obiettivo non il Medio Oriente ma l’Africa. Il riferimento per capirla non è il Kosovo né l’Iraq, ma la crisi del Canale di Suez del 1956.

Quella data ha un valore fortemente simbolico nella politica estera degli Stati Uniti. Usciti dalla Seconda Guerra Mondiale alla ricerca, come tutte le grandi potenze di allora, di un radicamento nel mondo del petrolio, fino alla crisi egiziana gli Usa rimangono in una posizione marginale in Medio Oriente.

La nazionalizzazione del Canale di Suez vede infatti scendere in campo accanto ad Israele (che si muove formalmente ma non sostanzialmente in maniera indipendente) le due potenze che per più di un secolo avevano condiviso la gestione mediorientale, cioè Francia e Inghilterra. Gli Usa giocano una mano in quella crisi - la cui causa scatenante è proprio il rifiuto americano di concedere un megaprestito a Nasser per la costruzione della diga di Assuan - tentando di calmare Israele, e mettendo in allerta la Sesta Flotta nel Mediterraneo, ma ne rimangono fuori. Il senso di questa «terzietà» Americana venne colto da una battuta che è stata ripetuta poi molte volte in altri teatri di guerra confusi: all’Ammiraglio Burke che ordinava al suo vice «Cat» Brown «Situazione tesa. Preparatevi a ostilità imminenti», Brown rispose: «Pronti a imminenti ostilità. Ma da parte di chi?»

Com’è noto, il tentativo di sottrarre al controllo egiziano il Canale fu un fallimento, grazie soprattutto alle minacce della Russia, e formalmente il conflitto terminò con la prima missione Onu di peace keeping, cioè con la formazione e l’impiego di truppe delle Nazioni Unite in funzione di cuscinetto. In sostanza però la crisi segnava la fine dell’influenza delle ex potenze imperiali e la nascita di un nuovo equilibrio in Medio Oriente in cui la Russia avrebbe avuto un ruolo indiretto sempre maggiore, e gli Stati Uniti avrebbero avuto campo libero.

Come si vede, si possono contare molti punti di contatto fra quella vicenda e quella di oggi. Ma la somiglianza maggiore è nella cesura fra due periodi di influenza.

L’attacco europeo contro Gheddafi oggi somiglia molto al colpo di coda finale di Inghilterra e Francia allora nel tentativo di recuperare una svanita autorevolezza. L’attacco che l’Europa muove oggi a un alleato di trentanni è comunque la certificazione di uno schema politico andato a male. Su questo fallimento gli Stati Uniti si sono mossi per entrare in quello che finora era rimasto l’ultimo spazio riservato alla influenza quasi esclusiva dell’Europa, il Mediterraneo.

La genesi di questo intervento, cioè il modo in cui è stato immaginato e poi messo in atto, è indicativa. Nonostante si usi molto - e con buona ragione - il Kosovo come punto di riferimento per indicare la «filosofia» che ha spinto Obama a muoversi sulla Libia, l’«intervento umanitario» è oggi solo una parte delle valutazioni che hanno mosso Washington. Non c’è dubbio che, come confermano le cronache, un ruolo decisivo nella decisione è stato giocato da un gruppo di diplomatici quali la Rice, la stessa Clinton (e forse oggi ci sarebbe anche Richard Holbrook se non fosse mancato poche settimane fa) formatisi all’ombra di un paio di crisi andate male negli Anni Novanta, una seconda generazione di Clintoniani nella cui memoria brucia ancora soprattutto il Ruanda, la pulizia etnica cui la comunità occidentale assistette senza sollevare un dito. Ma l’intervento umanitario non avrebbe potuto essere invocato se non si fossero determinate nuove condizioni: e queste nuove condizioni sono quelle fornite dalla entrata in scena in chiave democratica delle masse arabe. In altre parole, per poter difendere un popolo dal massacro era necessario che ci fosse un popolo oltre che un dittatore, e le rivoluzioni del gelsomino hanno offerto insieme al materializzarsi del popolo anche lo scardinarsi del vecchio schema del quietismo dittatoriale in cui gli Usa e noi ci siamo rifugiati per decenni come assicurazione contro il radicalismo islamico. Dicono ancora le cronache (sapientemente manovrate dalla amministrazione) che va ricordato l’attivismo con cui Hillary ha seguito il Nord Africa nella settimana immediatamente precedente alla scelta dell’Onu: un viaggio al Cairo dove, in risposta al rifiuto dell’attuale governo di farle incontrare i giovani attivisti della rivolta, il Segretario ha deciso di fare una «passeggiata» in piazza Tahrir, e a Tunisi da dove ha lanciato il primo ammonimento alla Libia. L’America insomma ha deciso di intervenire in sprezzo a un vecchio schema politico e cavalcandone uno nuovo, cogliendo una opportunità che la vecchia Europa, proprio a causa della sua ex influenza, ha lasciata marcire quell’attimo di troppo. I francesi, così pronti oggi con i loro aerei, sono gli stessi che a gennaio hanno perso la Tunisia ancora prima di accorgersene, non richiamando a casa un ministro in vacanza a spese di Ben Ali proprio mentre la rivolta spazzava il Paese.

Hillary ed Obama hanno così pavimentato la strada verso una zona dove gli Usa da decenni non erano riusciti ad entrare: nel Mediterraneo, e nel Nord Africa in particolare. E dietro la frontiera del Nord Africa si stende l’Africa intera, come ben sappiamo proprio dal ruolo che negli ultimi anni ha avuto Gheddafi, e come sapevano ancor prima dei generali italiani, inglesi e tedeschi, i generali dell’Antica Roma. Lo sbarco sulle coste libiche è a tutti gli effetti l’apertura della porta sull’Africa. Quell’Africa diventata negli ultimi anni per gli Usa meta di conquista in una feroce competizione con l’altra grande potenza in espansione nel continente nero, la Cina. Una pervasiva presenza, quella cinese, che si è per altro materializzata davanti ai nostri occhi proprio quando all’inizio delle tensioni contro Gheddafi la Cina ha evacuato decine di migliaia di suoi concittadini al lavoro in Libia.

Anche questo è in fondo un obiettivo della seconda generazione di clintoniani: la prima campagna d’Africa Americana fu iniziata e fu persa proprio dal primo Clinton, Bill, con la sua sfortunata operazione «Restore Hope» in Somalia. Chissà se ora un secondo Clinton, Hillary, non voglia vedere vendicato anche quel fallimento.

l’Avvenire

Una nuova ingerenza umanitaria Incognite e doveri

di Luigi Geninazzi

All’ultima ora, dopo un mese di tentennamenti e rinvii di fronte alla crisi libica, quando ormai Gheddafi sembrava essere sul punto d’averla vinta sui ribelli, la comunità internazionale reagisce con un’improvvisa e drammatica accelerazione. Non c’è dubbio che i raid aerei sulla Libia, iniziati ieri sera dopo il via libera deciso dal vertice di Parigi, costituiscano un vero e proprio atto di guerra. Ma è la risposta alla guerra che il regime sanguinario di Gheddafi ha scatenato contro il suo popolo. Se anche Bengasi, città simbolo della rivolta e ultima roccaforte degli insorti, cadesse nelle mani del raìs, saremmo posti di fronte non solo alla sconfitta di coloro che in Libia chiedono libertà e democrazia ma a una tragica battuta d’arresto per tutti quei movimenti che hanno dato vita alla primavera del mondo arabo.

A differenza delle guerre più recenti (contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003 e contro la Serbia di Milosevic nel 1999), l’intervento militare contro Gheddafi ha avuto l’avallo del Consiglio di sicurezza dell’Onu ed è stato predisposto con l’assenso della Lega Araba che sul destino della Libia ha legittimamente qualcosa da dire. Un sussulto doveroso ma tardivo che fa seguito a uno scandaloso attendismo, nutrito di previsioni tanto ottimistiche quanto erronee sull’imminente caduta del dittatore di Tripoli. Il brusco risveglio degli ultimi giorni, dovuto alla controffensiva vittoriosa di Gheddafi, ha provocato un’affannosa corsa ai ripari. Il più svelto è stato Sarkozy che, dopo aver riconosciuto come unico legittimo interlocutore in Libia il Comitato nazionale degli insorti, ha agitato la bandiera dell’interventismo, allo scopo di cancellare il passato legame coi dittatori del Maghreb e di rilanciare la grandeur francese nel Mediterraneo, scommettendo su vantaggiosi accordi petroliferi con il futuro governo libico. Sarkozy ha l’appoggio di Obama, e soprattutto ha trovato un decisivo alleato nel premier britannico Cameron, mentre la Germania della Merkel si è defilata. In mezzo c’è l’Italia che ha aderito alla linea interventista con poca convinzione e con una grande preoccupazione: quella di essere esposta, più di ogni altro Paese, alle rappresaglie del Colonnello che potrebbe reagire come già fece nel 1986 dopo l’attacco aereo ordinato da Reagan contro il suo bunker a Tripoli, quando lanciò due missili contro Lampedusa.

Quella che è iniziata alle porte di casa nostra è dunque una guerra animata dal nobile motivo dell’ingerenza umanitaria ma non esente da ombre e da rischi. Assomiglia molto all’intervento militare della Nato contro Milosevic nel 1999. Anche lì si trattava di difendere una popolazione civile, quella kosovara, dalle brutalità e dai crimini delle milizie serbe. I bombardamenti aerei della Nato andarono avanti per due mesi, Milosevic fu costretto a cedere il Kosovo ma restò al potere a Belgrado per oltre un anno. Potrebbe finire allo stesso modo, con una Libia spaccata in due e un Gheddafi saldamente in sella a Tripoli. Ma non tutti i dittatori sono uguali, e il «cane rabbioso» della Libia, come l’aveva definito Reagan, potrebbe tornare a mordere e a far male.

I suoi propositi di vendetta non ci devono intimidire. Ma non possiamo neppure sottovalutarli. L’Italia si trova in prima linea, a motivo della geografia e ancor più della storia, e non deve aver paura di assumersi tutte le sue responsabilità, facendosi carico di una sincera preoccupazione umanitaria a favore del popolo libico, dei tanti residenti stranieri e dei profughi purtroppo previsti. È questa la ragione dell’intervento militare, non dimentichiamolo. Da oggi entriamo in un territorio dominato da molte incognite. Dobbiamo essere pronti a ogni eventualità anche perché, come diceva von Clausewitz, «le guerre non finiscono mai come prevedeva chi le ha iniziate».

la Repubblica

Torniamo nemici 100 anni dopo

di Filippo Ceccarelli

Potenza degli anniversari: giusto cent’anni fa la guerra di Libia. E sembra anche di avvertire qualche assonanza di troppo. Geopolitica e non solo. «Giolitti sente poco la politica estera, ma esiste un’Italia malata d’Africa da quando la Francia s’è presa la Tunisia». Così ricostruisce la situazione Franco Cordero nel suo recentissimo commento al Discorso di Leopardi sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (Bollati Boringhieri): «L’affare libico pare comodo: nihil obstat dalle Potenze; i turchi sloggeranno dopo quattro cannonate. L’opinione pubblica chiede Tripoli e lui l’asseconda malvolentieri…».

Era la fine di settembre del 1911. Fattori emotivi e considerazioni di prestigio spinsero principalmente l’Italia a mettere da parte l’idea di una penetrazione economica per intraprendere quell’impresa militare. Ma a chi voglia ulteriormente abbandonarsi alla gravosa fatalità delle ricorrenze si fa notare, con Denis Mac Smith, che per degnamente celebrare il 50° anniversario dell’unificazione la conquista della Libia, coronamento del Risorgimento, «avrebbe dimostrato come gli italiani meritassero di essere diventati una nazione».

Ora, Giolitti e Berlusca hanno davvero troppo poco in comune per consentire vani giochetti storici. Ma a parte le motivazioni fatte valere un secolo fa, una specie di diritto di proprietà risalente ai fasti dell’impero romano, come pure il sogno di un Eldorado a portata di mano sulla "quarta sponda", con relative leggende a base di chicchi di grano grossi come mandarini, la guerra non fu per niente una passeggiata. E non solo perché un pezzo di paese era contrario, da Salvemini, l’unico a sapere che si trattava in realtà di «uno scatolone di sabbia», a Treves e Turati, fino a Nenni e Mussolini che finirono in galera.

Se D’Annunzio cantò la gioia della conquista "d’Oltremare" e se l’isterico nazionalismo dei futuristi ebbe il suo agognato sfogo, la verità storica è «la Libia abbisognava di capitali - come scrive Mac Smith - ma l’Italia non ne aveva a sufficienza nemmeno per se stessa». Disse poi Giolitti che l’impresa era costata 512 milioni. Lo contraddisse in Parlamento Sonnino sostenendo che il bilancio era stato falsificato e che il costo effettivo della guerra era stato almeno doppio.

Brusco ritorno al presente, con legittima e conseguente preoccupazione per il futuro. Perché ciò che davvero atterrisce, ben oltre il fatale rincorrersi dei numeri e delle loro commemorazioni, è la velocità con cui ciò che vistosamente è andato in scena si va oggi rovesciando nel suo esatto contrario. I cammelli in regalo, il Cavaliere sotto la tenda che mostrava le foto del nipotino al Colonnello, l’autostrada promessa, lo "storico" trattato che addirittura privilegiava la Libia agli impegni della Nato, quel bacio della mano. Come se l’ostentata amicizia rivelasse di colpo la sua più spudorata falsità.

Non che i democristiani facessero poi una politica così diversa. Non Andreotti, a cui Gheddafi si offrì di pagare l’avvocato per i processi di mafia; non Craxi, che chiamava Gheddafi "Capitan Fracassa", ma gli salvò la pelle avvertendolo dell’attacco americano nell’aprile del 1986. Si sa. C’entrano il petrolio, gli affari e adesso anche le carrette del mare con i disperati. È ovvio che l’Italia doveva tenerselo buono, quel tipo lì, come infatti se lo tennero buono l’Avvocato Agnelli, Prodi o D’Alema, che andò a Tripoli a riprendersi certi bambini di genitori italo-libici in lite, e a cui fu regalata una scimitarra berbera, chissà che fine ha fatto.

E però, diamine: non sono passati nemmeno sette mesi dall’ultima visita del Colonnello a Roma e oggi la memoria si affolla di ricordi che risultano ancora più stranianti di quanto già sembrassero allora. Sogni, miraggi, fotogrammi di cinepanettone. La tenda di Gheddafi a villa Pamphili; il pranzo dal "Bolognese" con assaggiatore fisso ai fornelli; gli sguardi golosi sulle amazzoni, pure dotate di pendaglio con ritratto del Raiss al collo; il torneo equestre con i cavalieri berberi e i carabinieri a villa Borghese. Quindi Berlusconi che alla mostra sul colonialismo arrivò addirittura a commuoversi, ma poi durante l’interminabile concione del leader libico si mise a dormire. Per non dire dei torpedoni carichi di ragazze romane che il capriccioso tiranno volle mostrare ai telespettatori libici: ben 530 ne arruolò l’agenzia Hostessweb, comprese tre convertite all’Islam e una giovane giornalista che si finse velina interessata alla rivoluzione verde per scriverne un resoconto per Repubblica.

E ora all’improvviso la guerra. Le basi militari. I Tornado "pronti in 15 minuti". Il cacciatorpediniere "Andrea Doria" nel canale di Sicilia. Già una volta, di recente, il ministro La Russa ha esibito fregole dannunziane: "S’ode nel cielo un sibilo di frombe./ Passa nel cielo un pallido avvoltoio…/ Italia, alla riscossa, alla riscossa!". Mentre Berlusconi, con provvido tempismo, si è limitato a raccontare a Ruby che quel certo rito sessuale - vedi, vedi - glielo aveva insegnato proprio Gheddafi. Tutto dunque si tiene a questo mondo, da Giolitti al bunga bunga, e tutto speriamo davvero che non si sconquassi.

il manifesto

Un conflitto per il petrolio

di Valentino Parlato

E così, annunciata ma inattesa, la vera guerra in Libia è cominciata. Ricordiamo le premesse. Francesi, inglesi e americani avevano detto che sarebbero intervenuti contro le truppe di Gheddafi e non avrebbero dato alcun rilievo al cessate il fuoco del colonnello. Quindi guerra.

Nella situazione data è difficile pensare a una forte resistenza, anche se ci sarà e avrà le sue vittime. Il governo di Gheddafi non era certamente il migliore dei governi possibili, tuttavia poteva vantare un'indipendenza della Libia, antica colonia, prima ottomana e poi italiana. La fortuna-disgrazia della Libia è avere il petrolio, che - anche per i disastri giapponesi - diventa sempre più vitale per l'economia mondiale. Morale: il petrolio non può essere lasciato in mano a un soggetto come Gheddafi. Gli anglo-francesi, con il sostegno americano, sono intervenuti contro questa aporia. Ma in questo difficile contesto come sta messo il nostro paese, cioè l'Italia, che nonostante i trascorsi coloniali aveva realizzato un ottimo rapporto con la Libia gheddafiana? Come andrà a finire l'Eni quando la guerra di Francia, Gran Bretagna e Usa sarà conclusa?

Troppi sono gli interrogativi ai quali è difficile rispondere, ma viene il dubbio che siamo a una rinascita del famoso imperialismo: Francia e Gran Bretagna, con alle spalle gli Usa sono, pur nella recente globalizzazione, le potenze imperiali, per le quali di fronte ai guai del nucleare il petrolio diventa il prodotto massimamente imperiale. La Libia di Gheddafi era stata una irregolarità da sopportare, ma non da accettare. Ora questa irregolarità non è più accettabile. La ribellione, motivata, di buona parte della popolazione libica diventa un'ottima occasione per chiudere la parentesi gheddafiana e il petrolio dato a quelli che promettono la costruzione di una lunghissima autostrada, erede della via Balbia, che avrebbe dovuto sostanziare l'unità di un paese con molte diversità.

Non sappiamo come si regolerà tra i potenti la sconfitta di Gheddafi, ma una cosa almeno per noi italiani sembra certa: dopo cento anni dalla conquista della Libia (Giolitti presidente del consiglio) l'Eni rischia di essere messo fuori o, almeno, di non godere più degli attuali privilegi. Siamo al punto nel quale forse dovremo rimpiangere Gheddafi.

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