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Entro pochi giorni il Parlamento dovrebbe approvare in via definitiva la legge che mira a sterilizzare il referendum sul nucleare. A quel punto l'Ufficio centrale della Cassazione dovrà valutare se la nuova normativa che ha modificato la precedente situazione abbia assunto i "principi ispiratori" e i "contenuti normativi essenziali" che si pongono a fondamento della richiesta del referendum abrogativo. Nel caso in cui la Cassazione non dovesse ritenere idonea la modifica legislativa e - dando credito alle parole del Presidente del Consiglio - giudicarla solo strumentale a impedire la deliberazione del corpo elettorale, l'esito del giudizio sarebbe quello di far svolgere comunque la consultazione, sebbene sulle nuove norme.

Alcuni autorevoli studiosi (Stefano Rodotà, Massimo Luciani) hanno sollevato una questione che potrebbe rendere però vano quest'accertamento, rendendo complessa l'ipotesi di "trasferire" il referendum sulla nuova disciplina. L'emendamento del Governo su cui si dovrebbe spostare il giudizio del corpo elettorale appare, infatti, palesemente ambiguo: composto da otto commi, cinque di questi abrogano tutte le norme su cui è stato richiesto il referendum, uno (il primo) afferma invece la natura solo sospensiva e non invece definitiva dell'abrogazione, un altro (l'ultimo) stabilisce il termine di un anno della sospensione. Se si andasse a votare sull'intera nuova normativa l'effetto paradossale sarebbe quello che l'eventuale vittoria del sì all'abrogazione dell'emendamento anti-referendum finirebbe per cancellare non solo le norme "truffa" (quelle che riservano al governo ogni futura decisione in materia nucleare: il primo e l'ultimo comma), ma anche quella parte dell'emendamento che abroga le attuali norme sul nucleare; con l'effetto irragionevole e contraddittorio di ridare subito al governo tutti gli strumenti per proseguire nella sua politica di costruzione delle centrali nucleari. Al danno si aggiungerebbe la beffa.

Tant'è che si sono prospettate altre strade per dipanare la matassa, sostanzialmente legate all'eventualità che la Cassazione si rivolga alla Corte costituzionale affinché sia quest'ultima ad accertare la costituzionalità delle norme che regolano la materia (nonché della legge che contiene l'emendamento governativo). La strada suggerita è complicata e i tempi rischiano di essere troppo stretti, a pochi giorni dalla data fissata per il referendum.

A me sembra vi sia un'altra e più lineare ipotesi che permetta di dare soluzione alla questione sollevata, nel rispetto dei principi giuridici indicati e delle posizioni politiche espresse. Dando finalmente senso (politico oltre che giuridico) all'intera vicenda.

Come è stato evidenziato, infatti, ciò che rivela l'intento mistificatorio e meramente antireferendario dell'emendamento del governo è contenuto nel primo comma (e in parte nell'ultimo) dell'articolato normativo, non in quelli successivi. È in questa parte della nuova legge che si afferma la volontà di non accogliere i principi ispiratori dei referendari. Nel primo comma si legge che «non si procede alla definizione e attuazione del programma» nucleare solo momentaneamente, in attesa di «acquisire ulteriori evidenze scientifiche» e «delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione Europea». È questo che appare incompatibile con la richiesta dei promotori del referendum che invece prospettano l'abbandono definitivo di ogni politica nucleare in Italia.

Sulla successiva abrogazione delle norme sul nucleare oggetto dei quesiti referendari, prevista dai commi successivi, non vi è invece nessuna questione di conflitto né tra i promotori del referendum, che proprio quest'obiettivo vogliono raggiungere, né con il Governo che prospetta il loro momentaneo congelamento.

La particolare struttura della disposizione normativa permetterebbe allora un "trasferimento del quesito" rispettoso dei diversi principi ispiratori. Basterebbe operare il trasferimento solo sul primo comma. In tal modo, il corpo elettorale sarebbe chiamato a scegliere tra la sospensione momentanea delle politiche nucleari (così come ritenuto necessario dal Governo e dalla maggioranza parlamentare) e il definitivo abbandono di ogni politica nucleare (così come richiesto dai promotori del referendum).

Allora è possibile, - anzi vero, - che un messaggio forte e chiaro che «scenda dall'alto» è destinato a produrre effetti decisivi in questa scassatissima Repubblica parlamentare che è diventata l'Italia. Naturalmente, mi rendo perfettamente conto che, una volta stabilito il principio, può anche accadere che il messaggio vada in direzione contraria a quella per cui è stato invocato. Ma tant'è: una volta stabilito il principio, può darsi che la prossima occasione sia quella buona.

Nel frattempo bisognerebbe evitare che un Governo, arrivato alle soglie dello sfacelo, si salvi in questa situazione proprio a causa dell'appoggio, sia pure paradossale e indiretto, delle opposizioni. Forse un modo c'è: prescindendo dal merito, che probabilmente, ahimè, ormai non è più nemmeno in discussione, resta che il comportamento del governo italiano, e del suo presidente del consiglio, è stato in occasione della crisi libica assolutamente vergognoso. Come al solito, l'«onore dell'Italia», - secondo quanto scriveva il valdese Piero Jahier nel corso della prima guerra mondiale, - sta in basso, tra gli alpini-soldati allora, ma anche fra la gente comune oggi, sempre più stanca dei giochini che i potenti fanno sulla sua pelle. Ricorre il centenario della prima guerra di Libia (strano che non lo si sia abbastanza notato): quella fu la fonte di molte sciagure: speriamo che non lo sia anche questa.

Forse ha ragione Massimo D'Alema quando dice (la Repubblica, 28 aprile) che decisive potrebbero risultare le prossime elezioni amministrative (perché non anche i referendum, che invece vanno difesi a spada tratta? Mah). Va bene, scegliamo questa strada, che è la più classica, ma non per questo necessariamente sbagliata, e mettiamocela tutta. E poi?

Per vincere, o almeno per dare alla maggioranza una sacrosanta lezione, bisognerebbe che tutte le opposizioni convergessero verso la medesima direzione. E' l'ipotesi Pd-Bersani. Ma non è così. Casini fa un suo gioco, che corrisponde alla lettera agli orientamenti della chiesa in questo momento: cercare di far fuori l'ormai impresentabile B. per aprire una nuova dialettica all'interno del Pdl, cui l'Udc sarebbe ben lieta di partecipare (e probabilmente, di conseguenza, anche settori del Pd).

E i finiani? I finiani costituiscono un caso davvero singolare nel già singolarissimo quadro politico italiano. Come è noto, son partiti da una piccola ma non irrilevante «rivoluzione culturale», sulle colonne del Secolo e di altre pubblicazioni e riviste. Si trattava di rifondare culturalmente la destra italiana, fuori e contro l'egemonismo berlusconiano, e i suoi sostenitori lo hanno fatto a lungo in termini non trascurabili. Poi la storia e la politica li hanno spinti in direzioni obbligate e alquanto diverse: l'alleanza con Casini e Rutelli è davvero un'altra cosa rispetto alle loro premesse e ai loro obiettivi. Ora sono dilaniati anche da una crisi interna da parte di quelli di loro che li vorrebbero sospingere verso un ritorno all'indietro: in pratica, verso il riconoscimento di una sconfitta strategica e la conseguente inevitabile dissoluzione. Anche per loro le prossime scadenze, - Libia, referendum ed elezioni amministrative , - rappresenteranno una prova decisiva. Se si tirano indietro questa volta, sono spacciati.

E il Pd? Il Pd dovrebbe sforzarsi di uscire dalla equivocità perenne dei suoi atteggiamenti e delle sue scelte, cui forse lo condannano la sua affrettata composizione e la sua composita struttura (non parlo delle vecchie componenti: personalità come Bindi o Franceschini, per intenderci molto sommariamente, stanno molto più «a sinistra» di altre provenienti dal vecchio Pci). L'asse strategico, - «l'onore d'Italia», il vero «onore d'Italia» in questo momento, - dovrebbe consistere da parte sua nel presentarsi come il punto di riferimento decisivo di un vasto schieramento di forze, dentro e fuori i partiti, anche fuori, anche molto fuori dei partiti, intenzionati a mettere fuori gioco, e per sempre, e senza mezzi termini, e senza opportunistici accomodamenti durante il percorso, il fenomeno Berlusconi e il berlusconismo, in tutte le sue varianti politiche, economiche, sociali e culturali (magari partendo dalla cultura, come altre volte è accaduto, per risalire all'indietro la catena degli impegni e degli eventi).

Ci vorrebbe, come dire, un'assunzione molto più piena delle responsabilità che glie ne derivano (che glie ne dovrebbero derivare) sul piano del progetto, delle finalità, delle alleanze e delle scelte, oggi più impegnative che mai, di sviluppo. Dov'è l'altra Italia, c'è un'altra Italia in tanti discorsi vuoti di ogni prospettiva? Il centro-sinistra, in che senso è oggi anche sinistra? E la sinistra, in questa visione, da dove parte e dove arriva? La fase costituente, tanto spesso puerilmente invocata, non potrà riguardare solo le istituzioni ma anche e soprattutto, come sempre quando le fasi costituenti sono state serie, le forze politiche destinate ad esserne le principali protagoniste. Se non si riparte da qui, il risultato elettorale non basterà; le forze politiche dominanti forse si scambieranno fra loro ma resteranno sostanzialmente le stesse. Di tutto ciò, con la maggior benevolenza possibile, non si vede traccia nei nostri iperpolitici politici, neanche nei più accorti (o semplicemente astuti, che è già qualcosa).

La crisi politico-istituzionale, - anzi, più esattamente, politico-costituzionale, che è assai più forte, - in cui versa l'Italia, sebbene sovente mascherata o accantonata nei più vari modi (la guerra di Libia serve anche a questo, anzi, forse soprattutto a questo), continua inesorabilmente ad avanzare, è sempre più grave e può sfociare in una catastrofe politica, economica e sociale (culturale lo è già). Mantenere distinti i piani del discorso, anche quando talvolta o in una qualche misura si presentano intrecciati o persino in contraddizione fra loro, è continuare ostinatamente e senza sosta a mirare all'obiettivo grosso, è la condizione politica necessaria per sperare che ne esca in maniera almeno decente.

Per una maggioranza parlamentare fondata sul populismo mediatico, assuefatta alla ricerca e alla raccolta del consenso attraverso il controllo pressoché esclusivo della televisione, pubblica e privata, il subdolo tentativo di sottrarsi ai tre referendum in calendario a metà giugno è un paradosso imbarazzante che ha tutte le caratteristiche di una nemesi storica. Ovvero, di una pena del contrappasso di dantesca memoria. Tanto è avvezzo il centrodestra a invocare come un´ordalia la volontà o la sovranità popolare, al riparo del conflitto di interessi che fa capo al presidente del Consiglio e in forza di questo o quel sondaggio d´opinione, quanto il governo appare adesso preoccupato e smarrito di fronte alla verifica di una consultazione diretta.

Che cosa c´è di più "popolare" di un referendum? In quale altra occasione o con quale altro strumento si può esprimere più efficacemente la volontà del popolo? E in quale istituto della democrazia, appunto, si manifesta meglio la sua sovranità?

Innescata dalla catastrofe atomica giapponese, la paura di una sconfitta politica nel referendum sul nucleare ha indotto il centrodestra a ricorrere a una duplice ipocrisia: prima, quella della "pausa di riflessione"; poi, la cosiddetta "moratoria". Entrambe all´insegna di un proclamato "senso di responsabilità", pubblicamente contraddetto nell´arco di pochi giorni dallo stesso Berlusconi con l´improvvido annuncio che se ne riparlerà comunque fra uno o due anni, appena superato il tragico ricordo di Fukushima. Se questo non è un trucco, uno scippo, una truffa, ai danni della volontà popolare, tanto vale abolire il referendum dal testo della Costituzione.

Hanno ragione perciò i comitati referendari a protestare contro l´oscuramento decretato dalla Rai, nell´ultima fase della dissennata gestione di Mauro Masi, violando palesemente i compiti d´informazione e gli obblighi d´imparzialità e completezza che spettano al servizio pubblico radiotelevisivo. E mentre l´Autorità sulle Comunicazioni richiama i telegiornali per la "sovraesposizione del premier", fa bene ora il sindacato dei giornalisti interni a reclamare un segnale immediato di discontinuità da parte della nuova direzione generale. Piaccia o non piaccia al governo in carica e alla maggioranza posticcia che ancora lo sorregge, il ricorso al referendum abrogativo è un diritto supremo che garantisce il rispetto della volontà e della sovranità popolare.

A ulteriore conferma di questa operazione truffaldina, c´è poi il boicottaggio annunciato contro il referendum sull´acqua. Lasciamo stare qui il merito della questione: se l´acqua resta una risorsa pubblica, se si tratta di un´effettiva privatizzazione oppure se si possa distinguere tra gestione e distribuzione. Quello che conta è che c´è una legge approvata dal Parlamento e che questa legge può essere abrogata o meno attraverso una consultazione popolare. Non è accettabile sul piano democratico che la maggioranza cerchi di cambiare in extremis le carte in tavola, ricorrendo a qualche espediente per modificare o correggere un provvedimento già sottoposto alla procedura referendaria. Allo scippo, si aggiungerebbe in questo caso anche l´esproprio.

Ma il "clou" della manovra anti-referendaria, dissimulata sistematicamente dalla propaganda filo-governativa, riguarda il "legittimo impedimento": cioè il meccanismo che consente al capo del governo di decidere se ed eventualmente quando presentarsi in tribunale, per rispondere alle varie accuse che gli vengono rivolte dalla magistratura, chiamata ad amministrare la giustizia proprio "in nome del popolo italiano". E questo sarebbe davvero il colpo grosso, con l´unico obiettivo di difendere la posizione giudiziaria del presidente del Consiglio. Anche qui, a parte il merito della questione, si tratta essenzialmente di rispettare il fondamentale diritto dei cittadini a esprimere un giudizio definitivo su una legge votata da una maggioranza di parlamentari nominati dai capi-partito.

Arriviamo così all´invereconda situazione di un centrodestra che vince le elezioni con il sostegno di un apparato mediatico in cui si realizza il più macroscopico conflitto di interessi al mondo. Attraverso una legge elettorale definita notoriamente una "porcata", conquista una maggioranza dei seggi in Parlamento pur avendo ottenuto una minoranza dei voti nelle urne. E poi, invocando a ogni piè sospinto la volontà o la sovranità popolare, nega al popolo la possibilità concreta di ricorrere al referendum abrogativo. Se questa è ancora una democrazia, bisogna dire che è gravemente malata.

Quando Obama vinse le elezioni, nel 2008, furono molti a esser convinti che una grande trasformazione fosse possibile, che con lui avremmo cominciato a capire meglio, e ad affrontare, un malessere delle democrazie che non è solo economico. La convinzione era forte in America e in Europa, nelle sinistre e in numerosi liberali. La crisi finanziaria iniziata nel 2007 sembrava aver aperto gli occhi, preparandoli a riconoscere la verità: il capitalismo non falliva. Ma uno scandaloso squilibrio si era creato lungo i decenni fra Stato e mercato. Il primo si era ristretto, il secondo si era dilatato nel più caotico e iniquo dei modi. Lo Stato ne usciva spezzato, screditato: da ricostruire, come dopo una guerra mondiale.

Le parole di Obama sulla convivenza tra culture e sulla riforma sanitaria annunciavano proprio questo: il ritorno dello Stato, nella qualità di riordinatore di un mercato impazzito, di garante di un bene pubblico minacciato da interessi privati lungamente dediti alla cultura dell’illegalità. Non era un’opinione ma un fatto: senza l’intervento degli Stati, le economie occidentali sarebbero precipitate. Un’economia non governata non è in grado di preservare lo Stato sociale riadattandolo, di tenere in piedi l’idea di un bene pubblico che tassa i cittadini in cambio di scuole, ospedali, trasporti, acqua, aria pulita, pensioni per tutti.

Quel che sta accadendo oggi non smentisce i fatti. Li occulta, li nega, con il risultato che i cittadini si sentono abbandonati, increduli, assetati di autorità che semplifichino le cose con la potenza del vituperio. Intervenendo per sanare il mercato, Stati e governi hanno adottato misure forse corrette ma il momento della verità l’hanno mancato, con il consenso delle opposizioni. Hanno mancato di dire che al mondo di ieri non torneremo, e che gli sforzi fatti oggi daranno frutti lentamente, perché lenta e lunga è stata la malattia capitalista. Di qui il dilagare di populismi di destra, in Europa e America, e la forza ipnotica che essi esercitano sulle opinioni pubbliche.

Prima ancora che la crisi finanziaria divenisse visibile fu l’Italia a negare i fatti, con Berlusconi e Lega. L’Italia è stato il laboratorio di forze che ovunque, oggi, sono in ascesa: in Belgio il Vlaams Belang (Interesse fiammingo), in Olanda il partito anti-islamico di Geert Wilders, in Ungheria il Fidesz, in Francia il Fronte di Marine Le Pen, in Finlandia i Veri Finlandesi.

Il rifiuto dello straniero, la designazione dell’Islam come capro espiatorio, la chiusura delle frontiere mentali prima ancora che geografiche: i populismi odierni si riconoscono in tutto questo ma la xenofobia non è tutto, non spiega la natura profonda della loro seduzione. All’origine c’è una volontà ripetitiva, sistematica, di non sapere, non vedere la Grande Trasformazione in cui stiamo entrando comunque. C’è una strategia dell’ignoranza, come sostiene il professore di linguistica Robin Lakoff, un desiderio di fermare il tempo: «L’attrattiva dei populisti scaturisce da un affastellarsi di ignoranze: ignoranza della Costituzione, ignoranza dei benefici che nascono dall’unirsi in sindacato, ignoranza della scienza nel mondo moderno, ignoranza della propria ignoranza» (Huffington Post, 30 marzo 2011).

Il vero nemico dei nuovi populismi è la democrazia parlamentare, con il suo Stato sociale e la sua stampa indipendente. Di qui le incongrue ma efficaci offensive antistataliste contro Obama, nel preciso momento in cui l’economia ha più bisogno dello Stato. Di qui il diffuso fastidio per la stampa indipendente, quando più ci sarebbe bisogno di cittadini responsabili, quindi bene informati. A tutti costoro i populisti regalano illusioni, cioè il veleno stesso che quattro anni fa generò la crisi. Ai drogati si restituisce la droga. Cos’è d’altronde l’illusione, se non un gioco (un ludus) che dissolve la realtà nelle barzellette sconce quotidianamente distillate dal capo? Cos’è il fastidio per la stampa indipendente, se non strategia che azzera la conoscenza dei fatti? Meglio una barzelletta del potente che una notizia vera sul potente.

L’Italia è all’avanguardia anche in questo campo: la concentrazione dell’informazione televisiva nelle mani di uno solo è strumento principe dell’ignoranza militante, e distraente. In Ungheria l’odio per la stampa impregna il partito del premier Viktor Orbán: le nuove leggi varate dal governo prevedono un’autorità di controllo sui mezzi di comunicazione, composta di cinque esponenti nominati dal partito di maggioranza. All’autorità spetta di verificare se la stampa è «equilibrata e oggettiva», di decidere multe o chiusure di giornali o programmi tv, di imporre ai giornalisti la rivelazione delle fonti se sono in gioco «la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico».

Anche lo straniero come capro espiatorio è gioco d’illusione, feroce, con la realtà multietnica in cui già da tempo viviamo. Il fenomeno non è nuovo. Negli anni ‘20-’30, la Germania pre-nazista esaltò il Blut und Boden, il sangue e la terra, come fonte di legittimazione politica ben più forte della democrazia. Oggi lo slogan è imbellito – si parla di radicamento territoriale, davanti a una sinistra intimidita e plaudente – ma la sostanza non cambia. La brama di radici, ancora una volta, impedisce il camminare dell’uomo e lo sguardo oltre la propria persona, il proprio recinto. Consanguineità e territorio divengono fonti di legittimazione più forti della Resistenza.

Helsinki ladrona, Roma ladrona, Washington ladrona: si capisce da questo slogan (lo stesso in Finlandia, Italia, America) come l’anti-statalismo sia centrale. Come la xenofobia sia il sintomo più che la causa del male. Vedendo che la crisi perdura, le popolazioni hanno cominciato a nutrire un’avversione radicale verso l’idea stessa di uno spazio pubblico dove la collettività, tassandosi, difende i più deboli, i più esposti. I populisti non temono di contraddirsi, anzi. D’un sol fiato si dicono antistatalisti e promettono uno Stato controllore, tutore dell’etnia pura, normalizzatore delle coscienze e delle conoscenze.

I sondaggi sul successo del Tea Party, il movimento neoliberista Usa, lo confermano. La molla decisiva non è il razzismo: è il rigetto della riforma sanitaria di Obama, del principio dell’etica pubblica. L’etica pubblica mette tutti davanti alla stessa legge, perché nessun interesse privato abbia la meglio. Lo Stato etico dei populisti impone il volere del più forte: Chiesa, lobby, etnia. Lo chiamano valore supremo, non negoziabile. In realtà è puro volere: suprema volontà di potenza.

Come mai le cose sono andate così? Come mai Obama può perdere le elezioni? In parte perché i governi hanno sottovalutato l’enorme forza del risentimento. In parte perché non hanno spiegato quel che significa, nel mondo globalizzato, salvare il bene pubblico. Ma è soprattutto la verità che hanno mancato: sono quattro anni che descrivono la crisi come superabile presto, il tempo d’arrivare alle prossime elezioni. Obama stesso ha omesso di spiegarla nella sua lunga durata: come qualcosa che trasformerà le senescenti società occidentali, che le obbligherà a crescere meno e integrare giovani immigrati, se non vorranno scaricare i propri anziani come il vecchio capofamiglia sulla sedia a rotelle che i nazisti gettano dalla finestra nel Pianista di Polanski. Per paura elettorale i governanti celano la verità, e ora pagano il prezzo.

Anche l’Europa ha la sua parte di colpe. Gli strumenti li avrebbe: può usare l’articolo 7 del Trattato di Lisbona, contro le infrazioni antidemocratiche in Italia o Ungheria. Può costruire una politica dell’immigrazione, avendone ormai la competenza. Se non lo fa, è perché non guarda ad altro che ai parametri economici. Perché è indifferente all’ethos pubblico. Perché quando esercita un potere, subito se ne pente. Perché dimentica che anch’essa è nata nella Resistenza.

Nel momento in cui la sua fonte di legittimazione politica è usurpata (al posto della Resistenza: il radicamento territoriale) l’Europa ammutolisce. Ha vergogna perfino delle cose non sbagliate che ha fatto: del comportamento che ebbe nel 2000, ad esempio, quando i neofascisti di Haider divennero determinanti nelle elezioni austriache del ‘99. Non mancarono certo gli errori: troppo presto si usò l’arma ultima delle sanzioni, presto abbandonate. Ma anche se disordinatamente, l’Unione almeno reagì, s’inalberò. L’Austria fu costretta a riaprire ferite tenute nascoste, a discutere colpe sempre negate, e il suo volto cambiò. Se l’Unione è così invisa ai populismi vuol dire che potrebbe far molto, se solo lo volesse.

Gentile Augias, la maggioranza di governo non si fida dei propri elettori e cerca di cancellare i referendum, un esempio di come s'intende la "libertà" e la "democrazia". Prima hanno separato le elezioni amministrative dai referendum, buttando 400 milioni di euro (800 miliardi di lire) che potevano essere utilizzati per creare posti di lavoro per i giovani, finanziare le Regioni per i fondi per la non autosufficienza, o per il trasporto pubblico. Hanno scelto un doppio appuntamento per rendere più difficile andare a votare. Poi hanno capito che neanche questo bastava e saremmo andati a votare lo stesso, così hanno deciso che era meglio non rischiare e cancellare i referendum con piccoli decreti che non cancellano il problema del nucleare e della privatizzazione dell'acqua ma lo spostano di un anno o creano un "garante". I paladini della libertà e della democrazia hanno paura del voto, i parlamentari del Pdl e della Lega non si fidano di chi li ha mandati a Roma! Mi chiedo quanti saranno gli italiani consapevoli dei trucchi con i quali si raggira la democrazia.

Aldo Tassara aldoenuccia@libero.it

T ra maggio e giugno saremo chiamati a votare due volte, alcuni tre. Il 15 e il 16 maggio elezioni locali che riguarderanno 1.300 comuni della penisola su un totale di 8.090 ovvero il 16 per cento circa del totale. Tra questi città significative: Milano e Napoli, per citarne solo due. Ballottaggi, se saranno necessari, il 29 e 30 maggio. Già questo doppio appuntamento è un'anomalia italiana. In tutti gli altri paesi del mondo si vota un solo giorno, non necessariamente la domenica. Il lunedì viene dalla sfiducia che la maggioranza ha nel proprio elettorato: se la domenica stanno al mare, facciamoli votare anche di lunedì. Sarebbe stato conveniente da ogni punto di vista accoppiare a questa tornata anche il voto sui referendum. Troppo semplice, troppo rischioso. I referendum sarebbero stati trascinati dalla partecipazione al voto amministrativo e magari avrebbero passato il quorum. Dunque altri due giorni di voto il 12 e 13 giugno, quando la bella stagione porterà davvero molti al mare. I referendum vertono su tre argomenti. L'impopolarissima privatizzazione dell'acqua; il ritorno dell'energia nucleare; l'eliminazione del legittimo impedimento che al momento rende tutti i ministri, a cominciare dal primo, in pratica non giudicabili. Dopo la tragedia di Fukushima, la bocciatura sul nucleare era scontata; è stata disinnescata togliendo, per ora, dall'agenda l'energia nucleare. Sull'acqua un ministro ha detto che bisognerà approfondire il tema, altro decreto. Resta il legittimo impedimento, quello che il premier teme di più. Sventuratamente è anche quello sul quale gli italiani sanno di meno.

Cerba, Città della Salute o entrambe? In un momento di crisi e di difficoltà con sempre meno risorse disponibili per la sanità la domanda è tutt’altro che scontata. Realizzare entrambe le strutture oggi sembra un’impresa titanica, la crisi economica impone spese sempre più oculate e i ricoveri ospedalieri in tutta Italia sono in flessione. Milano già oggi garantisce oltre 500 mila ricoveri ogni anno ma ambisce sempre più a diventare un polo europeo di riferimento per la salute.

Il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata (Cerba), dovrebbe nascere sui terreni del Parco Sud vicini all’attuale sede dell’Istituto Oncologico Europeo, mentre dalla parte opposta della città, a nord-ovest, dove oggi si trova l’ospedale Sacco, avrebbe sede il polo della Città della Salute che prevede il trasferimento dell’istituto dei Tumori e del neurologico Besta, per un totale di 1.450 posti letto, diventando così uno dei più grandi ospedali italiani.

Intanto il Policlinico continua a marce forzate la sua opera di ristrutturazione e rinnovamento; è già attivo il primo blocco del nuovo Niguarda e per il 2014 è prevista l’ultimazione dei lavori; da questa estate è poi avviato il nuovo polo cardiologico dell’Auxologico in piazzale Brescia, insomma l’offerta sanitaria in città non manca. La sanità è uno dei più importanti motori della nostra regione e i nuovi poli costituiscono una grande occasione di rilancio tecnologico ma anche di investimento residenziale per la nostra metropoli, un’opportunità per realizzare nuovi spazi dove ricercatori, studenti, infermieri possano trovare luoghi di accoglienza e incontro.

Non ci si può però permettere di sprecare risorse, è fondamentale una programmazione mirata e corretta, sviluppando gli interventi sulla base dei reali bisogni di salute della popolazione, non si può ripetere quanto è successo in passato e che ha portato la nostra regione ad avere più cardiochirurgie di tutta la Francia. Alcune aree specialistiche sembrano, già oggi, troppo affollate, la competizione sta divenendo eccessiva e sterile per il malato. L’azione di programmazione dovrebbe essere indirizzata a coprire i vuoti assistenziali, a potenziare le strutture e i servizi più deficitari dei quali domani avremo maggiore necessità.

postilla

La chiave di lettura di questo articolo, che ahimè riflette e plasma l’opinione pubblica su un tema fondamentale per la convivenza civile, potremmo anche titolarla: “Ottenuta la separazione legale fra Città Sana e Città della Salute”. Perché di questo si tratta: lo star bene direttamente proporzionale alla densità locale di camici bianchi, posti letto, servizi e apparecchiature connessi. Che disastro! E pensare che l’urbanistica moderna nasce proprio da una convergenza di varie prospettive tecnico-scientifiche sul tema della Salute! Ma si vede che anche questo punto di vista è un po’ come il bistrattato “veteromarxismo” di chi vuole tenere i negozi chiusi il Primo Maggio: fuffa ottocentesca di cui liberarsi disgustati al più presto.

Possibile che non venga in mente a nessuno, l’equazione fra qualità urbana e salute, qualità urbana e congestione/stress/inquinamento, e infine la banalissima statistica del rapporto fra abitanti e verde in città? Macché: la “Salute” sono più ospedali, e gli ospedali si mettono là dove hanno deciso i medici (e magari, di sfuggita, i loro sponsor palazzinari), senza badare a sciocchezze tipo l’occupazione delle poche residue aree verdi in città. Cosa mai sarà l’azzeramento di qualche rete ecologica del Parco Sud o la cancellazione di una delle poche soluzioni di continuità fra gli svincoli autostradali nord-ovest e la cintura metropolitana, di fronte alla “opportunità per realizzare nuovi spazi dove ricercatori, studenti, infermieri possano trovare luoghi di accoglienza e incontro”?

Personalmente non mi permetterei mai di entrare in una sala operatoria esponendo le mie presunte priorità o opportunità d’intervento, neppure se si trattasse di persona cara. Ma forse il mio è un atteggiamento malsano, chissà (f.b.)

La domanda «ma si può andare avanti così?» non è della casalinga di Voghera ma dell'ex vicedirettore del Corriere della sera Dario Di Vico. Quel che «non può andare avanti così» è il tentativo vetero-operaista novecentesco di cosiderare intoccabile la festa del 1° Maggio. «Si possono difendere strenuamente i nostri privilegi sapendo, tra l'altro, che saremo gli ultimi a usufruirne? Si può aprire una querelle politica sul sacrilegio di aprire i negozi il 1° Maggio a Firenze, Roma e Milano?». Ad aprire la querelle, in realtà, è proprio il Corsera che ha scelto di cavalcare la decisione del democratico sindaco di Firenze, Matteo Renzi, di alzare le serrande della sua città nel giorno della festa dei lavoratori. «L'happy hour non si tocca, è la nostra trincea», è il grido di dolore di Di Vico scatenato contro la Cgil. Bisogna monetizzare e non rifiutare il lavoro festivo, lo impongono la modernità, la crisi, la concorrenza, i diritti dei consumatori e il Corsera. Facciamola finita con «i nostri sacri valori religiosi o politico-culturali che siano».

Ancora più esplicito è l'attacco di Antonio Polito, dalle pagine dello stesso giornale milanese combattente, al «vade retro shopping». Polito accusa la «discendenza marxista», per la quale «il cittadino-produttore viene prima del cittadino-consumatore». Un vero scandalo. Invece, aggiungiamo noi, non deve scandalizzare che Renzi, tra i due cittadini, scelga quello consumatore: non è un provocatore ma un coerente dirigente del Pd, nel cui atto costitutivo si cancella il lavoratore per promuovere il consumatore. Del resto, dallo statuto del Pd scompare anche la lotta antifascista, ma a questo aveva già provveduto diversi anni fa la Borsa di Milano decretando giornata lavorativa il 25 Aprile.

Nessun valore può ostacolare il libero mercato, figuriamoci il supermercato, «la catena non si ferma, non c'è ragione», cantava Giovanna Marini. La festa del 1° Maggio diventa come la sabbia che i luddisti mettevano negli ingranaggi delle macchine. Se il lavoratore viene retrocesso a schiavo - vedi Marchionne - mentre il consumatore viene incoronato come primo fattore anticrisi, si capisce tanto accanimento contro il 1° Maggio e quel che rappresenta. Sono passati 31 anni dall'80, quando il manifesto organizzò il convegno «Liberare il lavoro o liberarsi dal lavoro?» che si concluse presso a poco così: «Liberare il lavoro dal profitto».

Era un altro mondo, oltre che un altro secolo, quando i negozi restavano chiusi il 1° Maggio e anche il 25 Aprile. Anche quest'anno, a dire il vero, i negozi sono rimasti chiusi il 25 Aprile, persino la Borsa, ma solo perché la Liberazione coincideva con la sacra Pasquetta. Checché ne dica Di Vico, c'è valore (religioso) e valore (politico-culturale). Basta alzare gli occhi su Varsavia: per la prima volta dal secondo dopoguerra non ci sarà il corteo del 1° Maggio. Per lasciar spazio alla processione che celebrerà la beatificazione di papa Wojtyla. O tempora o mores.

Postilla

Ci sono gesti che rappresentano la natura dei nostri tempi in modo esemplare, riassumendo in una decisione amministrativa apparentemente modesta un evento epocale. La proposta (la decisione) di tenere aperti gli esercizi commerciali il giorno della festa dei lavoratori è uno di questi. L’evento che quella decisione splendidamente rappresenta è semplice a dirsi: la riduzione dell’uomo, da titolare di diritti, in cliente, in soggetto utile unicamente in quanto disposto a comprare merci, o a favorirne la vendita.

Dopo secoli di riscatto l’uomo diventa di nuovo servo: non più del Signore arroccato nel suo castello, ma dei meccanismi anonimi dell’economia data; non più servo della gleba, ma servo del Mercato. Ridotto tale dall’uso spregiudicato dei sempre più raffinati saperi e delle sempre più evolute tecnologie della persuasione occulta, della manipolazione culturale, della formazione surrettizia dell’ideologia dominante.

Anche il mercato ha i suoi intellettuali organici. Non ci meraviglia più di scoprire come alcuni di questi provengano da sponde una volta antagoniste. Anche questo è segno triste dei tempi. Rincuora solo il fatto che ancora ci siano aree che resistono: più nella società civile che nelle istituzioni.

Sull’imbroglio decida la consulta

di Stefano Rodotà

Sia lode al presidente del Consiglio. Con la disinvoltura istituzionale che lo contraddistingue ha svelato le vere carte del governo sul nucleare, carte peraltro niente affatto coperte. La frode legislativa, già evidente, diviene ora conclamata. Berlusconi è stato chiaro. Un tema tanto importante come il nucleare non può essere affidato a cittadini "spaventati" da quanto è avvenuto in Giappone, che debbono "tranquillizzarsi". Meglio, dunque, non far votare un popolo emotivo, disinformato. Gli abbiamo scippato con uno stratagemma un referendum che avrebbe reso impossibile per anni il nucleare, e ora abbiamo le mani libere per tornare in pista già tra dodici mesi. Gabbati i cittadini, ma rassicurati gli imprenditori, poiché il presidente del Consiglio si è premurato di dire che i rapporti tra Enel e Electricité de France andranno comunque avanti.

Un governo e una maggioranza senza dignità accantonano uno dopo l’altro gli strumenti della democrazia, non hanno neppure il pudore della reticenza, teorizzano il silenzio dei cittadini. Ma si può davvero restare passivi davanti a questo gioco delle tre carte istituzionali? Il famigerato emendamento approvato dal Senato diceva chiaramente quale fosse l’obiettivo che si voleva perseguire. Le parole di Berlusconi confermano l’interpretazione dei tanti che avevano sottolineato come la formale abrogazione delle norme sulle centrali nucleari fosse un espediente, anzi un imbroglio, per far sì che la politica nuclearista potesse continuare e per impedire che la partecipazione al voto di cittadini emotivi facesse raggiungere il quorum, consentendo così anche il successo del temutissimo referendum sul legittimo impedimento.

È bene ricordare i fatti. Quell’emendamento si presenta formalmente come una abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario. Ma il primo e l’ultimo comma dicono il contrario. Si comincia con lo stabilire che il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite "nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea". E alla fine si dice che lo farà entro dodici mesi adottando una "Strategia energetica nazionale", per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare, di cui peraltro si parla esplicitamente all’inizio dell’emendamento. Il Parlamento ha trangugiato senza batter ciglio questa brodaglia, ennesimo esempio dell’incultura politica e istituzionale che ci circonda.

Una volta che il decreto nel quale è stato infilato l’emendamento sarà stato convertito in legge, la parola passerà all’Ufficio per il referendum della Corte di Cassazione, che ha il compito di accertare se la nuova legge va nella direzione voluta dai promotori. Se la sua valutazione è positiva, il referendum non si tiene. Nel caso contrario, il referendum è "trasferito" sulle nuove norme e si va al voto. Dopo la clamorosa confessione pubblica del presidente del Consiglio, è dichiarato l’obiettivo di impedire il rispetto della volontà dei promotori.

A questo punto, però, le cose si complicano assai. Che cosa accadrebbe, infatti, se la Cassazione, prendendo atto della frode ai danni dei cittadini, decidesse di far tenere il referendum facendo votare pro o contro l’abrogazione dell’emendamento-imbroglio? Se gli elettori votassero sì all’abrogazione, cancellerebbero certamente le norme con le quali il governo ha voluto riservarsi di riprendere la politica nucleare a proprio piacimento. Ma cancellerebbero pure la parte dell’emendamento che abroga le attuali norme sul nucleare. Queste tornerebbero in vigore, ridando al governo, da subito, il potere di procedere sulla strada della costruzione delle centrali nucleari.

Come uscire da questo pasticcio? Facciamo un passo indietro. Nel 1978 la Corte costituzionale dovette affrontare appunto il problema di norme che, abrogando le disposizioni alle quali si riferiva il referendum, non rispettavano la volontà dei promotori. La soluzione fu trovata dichiarando l’incostituzionalità della norma della legge sul referendum che non prevedeva questa eventualità, e prevedendo il trasferimento del referendum sulle nuove norme. Ma, di fronte all’imbroglio attuale, questa strada non è praticabile, poiché produrrebbe l’esito paradossale di un voto referendario che si ritorce ancora di più contro l’intenzione dei proponenti. La Cassazione, allora, potrebbe sollevare la nuova questione, investendone la Corte costituzionale che, come nel 1978, dovrebbe cercar di porre riparo all’ennesima torsione alla quale il governo attuale sottopone le istituzioni.

Una parola sul modo in cui Berlusconi considera i cittadini, ai quali sarebbe precluso il diritto di votare in situazioni di emotività, di sostanziale incompetenza. Già in occasione del referendum sulla legge sulla procreazione assistita, nel 2005, uno degli argomenti adoperati per indurre all’astensione fu quello che sottolineava la complessità tecnica di taluni quesiti, che avrebbe impedito ai cittadini di esprimere una valutazione adeguata. Tutti questi sono argomenti pericolosissimi dal punto di vista democratico, perché subordinano la possibilità di votare al giudizio che qualcuno esprime sulla competenza di ciascuno di noi e mettono così "sotto tutela" la stessa sovranità popolare. In questi casi la via non è quella del silenzio forzato, ma dell’informazione adeguata, quella che produce lo "scientific citizen", il "cittadino biologico", cioè persone dotate dei dati che le mettono in condizione di formarsi una opinione critica. È un caso che la Commissione di vigilanza della Rai non abbia ancora approvato il regolamento sulle trasmissioni per i referendum, precludendo ai cittadini proprio quell’accesso all’informazione che li riscatterebbe dall’emotività?

Confindustria parla ed il governo, zelante esegue. O almeno ci prova. Oggi per tutti gli italiani il referendum sul nucleare non c'è più. Una gran parte ne erano comunque ignari, grazie alla strategia del silenzio. Un'altra parte ha letto sui giornali che oltre al referendum sul nucleare salteranno anche quelli sull'acqua, perché il ministro Romani ha dichiarato ad una trasmissione radiofonica che una soluzione legislativa per scongiurare il voto sull'acqua sarebbe auspicabile.

Difficile immaginare, alla luce dei nostri principii costituzionali, una soluzione tecnica di questo contraddittorio dilemma che consenta davvero al governo di far saltare i referendum. Confindustria ha l'acquolina in bocca per le grasse commesse del capitalismo nucleare. Deve inoltre garantire ai suoi associati i profitti sicuri della gestione privata di un monopolio naturale come l'acqua.

A tal fine Confindustria teme che una clamorosa vittoria referendaria del Sì, il 12 13 giugno, produca un inversione di rotta tale da renderle irraggiungibile il succulento boccone. Tutto ciò naturalmente non riguarda solo l'acqua ma anche gli altri servizi pubblici che il decreto Ronchi ha arraffato (trasporti, spazzatura...). Più in generale mette a serio rischio le prossime privatizzazioni camuffate da liberalizzazioni o da federalismo demaniale.

Questa potenziale deflagrazione del modello di sviluppo a pensiero unico, pervicacemente seguito da maggioranze ed opposizioni dal '90 ad oggi, è il significato politico autentico dei referendum che si vogliono a tutti i costi evitare. Ciò purtroppo spiega l'atteggiamento dell'opposizione (che quel modello di sviluppo ha da lunga pezza sposato), pronta a festeggiare lo scippo, intestandosi gli esiti di brevissimo periodo di un emendamento legislativo.

La situazione è ancor più complicata per l'acqua perché l'Ufficio Centrale per il Referendum della Cassazione, deve lo spirito e non la lettera della propostamodifica. Lo spirito dei quesiti sull'acqua, frutto di una lunga evoluzione della cultura giuridica, è quello di difenderla in quanto "bene comune", indistricabilmente legato ai diritti fondamentali della persona, da governarsi al di fuori della logica economica ma piuttosto nell' interesse della sostenibilità. Ne segue che un esempio di scuola di "truffa legislativa" ai danni del popolo sovrano, quale quello che si prefigura al fine di restituire a Confindustria il bottino potenziale del saccheggio dei beni comuni, ben difficilmente può passare il vaglio dei giudici supremi.

Infatti, le motivazioni politiche delle riforme che il governo ora propone sono direttamente e nettamente conflittuali con l'intendimento dei promotori. Il governo ha promesso a Confindustria di privatizzare il servizio idrico integrato (e gli altri servizi) nel più breve tempo possibile, e l'eventuale abrogazione del 23 bis del decreto Ronchi non esclude affatto che le gare siano nuovamente imposte immediatamente dopo. Inoltre, la proposta di introdurre un authority per l'acqua, che purtroppo trova sponsor importanti anche nel Pd, non è per nulla equivalente alla volontà dei promotori del referendum ed anzi risulta adesso chiaramente indirizzata al solo fine di tentare l'elusione del voto. A tacer del fatto che resta il secondo quesito volto proprio a collocare il bene comune acqua "fuori commercio", togliendo dalla bolletta remunerazione del capitale e profitto, il solo motore di un modello privatistico regolamentato tramite authority. Il governo dichiarerà l'acqua un bene comune ed il profitto fuori dall'acqua? Non sembra proprio probabile. Che direbbe Confindustria?

E' chiaro a tutti che il governo vuole far saltare il referendum sul nucleare per fare il nucleare (sebbene attendendo tempi migliori). Ciò risulta nettamente dal testo approvato e non solo dalla posizione proclamata da Marcegaglia. Similmente si vuole normare il servizio idrico per meglio privatizzarlo e ciò probabilmente risulterebbe, altrettanto chiaramente, dal testo proposto.

In questo quadro, nei promotori resta la fiducia nelle supreme magistrature e la convinzione che questo tentativo di scippo avrà un effetto boomerang che ci farà raggiungere il quorum. Già fra ieri e oggi il silenzio mediatico è stato meno assordante del solito e di acqua si è finalmente parlato in qualche telegiornale!

Ogni giorno ha la sua pena istituzionale. Davvero preoccupante è l’ultima trovata del governo: la fuga dai referendum. Mercoledì si è voluto cancellare quello sul nucleare. Ora si vuole fare lo stesso con i due quesiti che riguardano la privatizzazione dell’acqua. Le torsioni dell’ordinamento giuridico non finiscono mai, ed hanno sempre la stessa origine. È del tutto evidente la finalità strumentale dell’emendamento approvato dal Senato con il quale si vuole far cadere il referendum sul nucleare. Timoroso dell’"effetto Fukushima", che avrebbe indotto al voto un numero di cittadini sufficiente per raggiungere il quorum, il governo ha fatto approvare una modifica legislativa per azzerare quel referendum nella speranza che a questo punto non vi sarebbe stato il quorum per il temutissimo referendum sul legittimo impedimento e per gli scomodi referendum sull’acqua. Una volta di più si è usata disinvoltamente la legge per mettere il presidente del Consiglio al riparo dai rischi della democrazia.

Una ennesima contraddizione, un segno ulteriore dell’irrompere continuo della logica ad personam. L’uomo che ogni giorno invoca l’investitura popolare, come fonte di una sua indiscutibile legittimazione, fugge di fronte ad un voto dei cittadini.

Ma, fatta questa mossa, evidentemente gli strateghi della decostituzionalizzazione permanente devono essersi resi conto che i referendum sull’acqua hanno una autonoma e forte capacità di mobilitazione. Fanno appello a un dato di vita materiale, individuano bisogni, evocano il grande tema dei beni comuni, hanno già avuto un consenso senza precedenti nella storia della Repubblica, visto che quelle due richieste di referendum sono state firmate da 2 milioni di cittadini, senza alcun sostegno di grandi organizzazioni, senza visibilità nel sistema dei media. Pur in assenza del referendum sul nucleare, si devono esser detti i solerti curatori del benessere del presidente del Consiglio, rimane il rischio che il tema dell’acqua porti comunque i cittadini alle urne, renda possibile il raggiungimento del quorum e, quindi, trascini al successo anche il referendum sul legittimo impedimento. Per correre questo rischio? Via, allora, al bis dell’abrogazione, anche se così si fa sempre più sfacciata la manipolazione di un istituto chiave della nostra democrazia.

Caduti i referendum sul nucleare e sull’acqua, con le loro immediate visibili motivazioni, e ridotta la consultazione solo a quello sul legittimo impedimento, si spera che diminuisca la spinta al voto e Berlusconi sia salvo.

Quest’ultimo espediente ci dice quale prezzo si stia pagando per la salvezza di una persona. Travolto in più di un caso il fondamentale principio di eguaglianza, ora si vogliono espropriare i cittadini di un essenziale strumento di controllo, della loro funzione di "legislatore negativo".

L’aggressione alle istituzioni prosegue inarrestabile. Ridotto il Parlamento a ruolo di passacarte dei provvedimenti del governo, sotto tiro il Presidente della Repubblica, vilipesa la Corte costituzionale, ora è il turno del referendum. Forse la traballante maggioranza ha un timore e una motivazione che va oltre la stessa obbligata difesa di Berlusconi. Può darsi che qualcuno abbia memoria del 1974, di quel voto sul referendum sul divorzio che mise in discussione equilibri politici che sembravano solidissimi. E allora la maggioranza vuole blindarsi contro questo ulteriore rischio, contro la possibilità che i cittadini, prendendo direttamente la parola, sconfessino il governo e accelerino la dissoluzione della maggioranza.

È resistibile questa strategia? In attesa di conoscere i dettagli tecnici riguardanti i quesiti referendari sull’acqua è bene tornare per un momento sull’emendamento con il quale si è voluto cancellare il referendum sul nucleare. Questo è congegnato nel modo seguente: le parti dell’emendamento che prevedono l’abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario, sono incastonate tra due commi con i quali il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite «nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell’agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea». E lo farà entro dodici mesi adottando una «Strategia energetica nazionale», per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare. Si è giustamente ricordato che, fin dal 1978, la Corte costituzionale ha detto con chiarezza che, modificando le norme sottoposte a referendum, al Parlamento non è permesso di frustrare «gli intendimenti dei promotori e dei sottoscrittori delle richieste di referendum» e che il referendum non si tiene solo se sono stati del tutto abbandonati «i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente». Si può ragionevolmente dubitare che, vista la formulazione dell’emendamento sul nucleare, questo sia avvenuto. E questo precedente induce ad essere sospettosi sulla soluzione che sarà adottata per l’acqua. Di questo dovrà occuparsi l’ufficio centrale del referendum che, qualora accerti quella che sembra essere una vera frode del legislatore, trasferirà il referendum sulle nuove norme. La partita, dunque, non è chiusa.

Da questa vicenda può essere tratta una non indifferente morale politica. Alcuni esponenti dell’opposizione avrebbero dovuto manifestare maggiore sobrietà in occasione dell’approvazione dell’emendamento sul nucleare, senza abbandonarsi a grida di vittoria che assomigliano assai a un respiro di sollievo per essere stati liberati dall’obbligo di parlar chiaro su un tema così impegnativo e davvero determinante per il futuro dell’umanità.

Dubito che questa sarebbe la reazione dei promotori del referendum sull’acqua qualora si seguisse la stessa strada. Ma proprio l’aggressione al referendum e ai diritti dei cittadini promotori e votanti, la spregiudicata manipolazione degli istituti costituzionali fanno nascere per l’opposizione un vero e proprio obbligo. Agire attivamente, mobilitarsi perché il quorum sia raggiunto, si voti su uno, due, tre o quattro quesiti. Si tratta di difendere il diritto dei cittadini a far sentire la loro voce, quale che sia l’opinione di ciascuno. Altrimenti, dovremo malinconicamente registrare l’ennesimo scarto tra parole e comportamenti, che certo non ha giovato alla credibilità delle istituzioni.

Leggendo Asor Rosa, noto sovversivo, confesso di avere pensato che sollecitasse un intervento del Capo dello Stato. E così avevo letto l'articolo 88 della Costituzione che prevede la possibilità per il Presidente della Repubblica di sciogliere una camera con l'accordo di un presidente della medesima - Fini, mi ero detta. E mi chiedevo perché Giorgio Napolitano non lo facesse davanti a un premier che straparla, e mi rispondevo: forse per timore del vuoto che si aprirebbe nell'inesistenza di altre autorevoli figure.

Mi sbagliavo. Luigi Ferrajoli in privato e Gaetano Azzariti sul manifesto mi hanno spiegato che Napolitano non può: l'art. 88 non può essere letto senza l'89, per il quale qualsiasi atto del presidente non è valido senza la firma di un ministro. Siamo sul serio una repubblica parlamentare, è il parlamento che elegge il governo, un membro del governo deve firmare assieme al Capo dello Stato. Ora che un membro del governo Berlusconi firmi un gesto contro Berlusconi è impensabile. Insomma, è soltanto dall'interno della maggioranza che può partire un mutamento traumatico, come è avvenuto quando la Lega ha lasciato il Premier.

Il nostro Presidente della Repubblica ha ben pochi poteri, fra cui quello di non apporre la propria firma a una legge e rimandarla alle Camere, ma soltanto una volta; se queste gliela ripresentano, deve firmare. Di soltanto suo, Napolitano ha la facoltà di indirizzarsi alle Camere, ammonendo: «Questo è troppo!». In un paese civile sarebbe un terremoto. Da noi il governo attuale, la sua ipermaggioranza è capace di rispondere: «E chi se ne frega?».

Per chi, come me, vive in una repubblica presidenziale, dove il capo dello stato non è super partes ma il rappresentante supremo della parte che ha vinto, si confonde con il primo ministro, può smentirlo da un giorno all'altro, avanza proposte che il governo ignorava ed è costretto a seguire o viceversa, una repubblica parlamentare appare di gran lunga preferibile. Il generale de Gaulle - mi dico con sollievo - non è passato di qui. Come è dunque che siamo senza via d'uscita?

E' chiaro che i padri costituenti non avevano neppure immaginato un premier come Berlusconi. Ma neanche a maggioranze del tutto impermeabili a una dialettica decisiva fra coscienza del paese e istituzioni.

Nell'estate del 1960, per avere fatto un accordo con i fascisti, suscitando la collera popolare e mandando l'esercito a reprimerla, Tambroni cadde velocemente - non la forma ma la sostanza del suo agire apparve intollerabile alla sua stessa parte. Ed è invece dalla tolleranza di qualsiasi assurdità di Berlusconi - come nel caso di Ruby, votato da 314 deputati come problema di politica internazionale - che Berlusconi è reso intoccabile. Di più penso che i costituenti, affidando questo potere alla maggioranza, la pensassero del tutto rappresentativa del voto, ignorando che potesse essere gonfiata attraverso un premio di maggioranza che la allarga molto al di là della sua effettiva presenza elettorale.

La Dc governò quasi quarant'anni con una maggioranza relativa che la obbligava a tener conto degli alleati, e quando tentò di far passare un premio di maggioranza che era uno scherzo rispetto al "porcellum", la gente si levò contro la "legge truffa", e questa cadde. Se si votasse con una proporzionale decente Berlusconi avrebbe una assai modesta maggioranza relativa; la Lega non basterebbe e una sua caduta per via parlamentare sarebbe possibile. Ma con il "porcellum" e il premio di maggioranza che comporta, la dialettica parlamentare è azzerata.

Come è possibile che in una repubblica così assolutamente parlamentare, sia lecito inchiodare così il parlamento? La risposta è semplice: la legge elettorale detta "porcellum" piaceva non solo a Berlusconi ma anche a D'Alema, Veltroni, Prodi - solleticati dall'idea di funzionare come potere assoluto, iperpresidenti. Nessun governo di centrosinistra si sognò di cambiarla.

Repubblica virtuosamente parlarmentare ma eletta con un meccanismo che fa schifo. Tale che anche se l'opposizione non fosse invertebrata, come è, sarebbe in difficoltà. Così, sommando alla sua debolezza le proporzioni della maggioranza, Berlusconi non è minacciato "dal basso". Lo fu un momento, a novembre, e il Capo dello Stato, volendo far passare i bilanci nei termini legali, gli lasciò il tempo di comperare alcuni deputati. Non c'è procedura, per perfetta che sia, in grado di proteggere da una opacità delle coscienze, e questa presenta di regola il suo prezzo. Asor Rosa ha un bell'invocare uno stato d'emergenza democratica. E' il senso della parola "democrazia" che è sfuggito a destra e a sinistra. E, visto che c'è chi sospetta che egli evochi un golpe dei carabinieri, vien da pensare che sia sfuggito anche «a sinistra in basso».

Postilla

E’ difficile non condividere l’analisi di Rossanda. La conclusione è: siamo una democrazia «virtuosamente parlamentare ma eletta con un meccanismo che fa schifo»: un meccanismo che è che è stato costruito e condiviso da quello stesso sistema di partiti che ha occupato tutti i posti nei quali si esercita il potere, da quelli che comandano l’economia, alla maggior parte delle istituzioni, a quelli (decisivi) che formano il pensiero corrente e quindi determinano anche le scelte elettorali. Del resto, lo stesso snaturamento della democrazia parlamentare è avvenuto mediante la sostituzione della governabilità alla democrazia (lo spostamento dei poteri dal legislativo all’esecutivo), ed è operazione che è stata compiuta con un consenso quasi totalitario; così l’assunzione a “valori” universali dei principi del neoliberismo (liberalizzare, privatizzare, deregolare). E via enumerando

La proposta di Asor Rosa (se tale si vuole considerarla, e non solo una provocazione), è certamente impraticabile. Ma è difficile vederne altre potenzialmente efficaci nel breve periodo. E allora? Resistere, resistere, resistere nella difesa di quello che rimane (a partire dalla magistratura e dai beni pubblici). E insieme mobilitare le coscienze per un domani che verrà: se non ora, dopo.

Spetterà all'Ufficio centrale presso la Corte di cassazione stabilire se il referendum indetto per il 12 e 13 giugno sul nucleare potrà essere annullato dall'approvazione della nuova normativa che il governo ha intenzione di fare approvare dal Parlamento. La decisione che i giudici dovranno adottare è delicata e non può essere data per scontata. Non è infatti sufficiente l'abrogazione della normativa oggetto della richiesta di referendum. Sul punto la giurisprudenza della Corte costituzionale si è espressa in modo chiaro sin dal lontano 1978 (sent. n. 68 del 1978): la modifica legislativa intervenuta nel corso del procedimento referendario non è in grado di impedire lo svolgimento del referendum qualora l'abrogazione non colpisca «i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente» ovvero «i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti». In tali casi il referendum si effettua egualmente, sebbene «sulle nuove disposizioni legislative». Il linguaggio della Corte sarà tecnico, ma il senso è del tutto evidente. Ciò che si vuole evitare è che la maggioranza parlamentare introduca modifiche marginali ovvero adotti un escamotage normativo - come ben evidenziava l'intervento ieri del ministro per lo sviluppo economico Romani - al solo fine di impedire l'espressione della volontà popolare. È perciò che è stato assegnato a un giudice (l'Ufficio centrale) il delicatissimo compito di valutare la natura dell'abrogazione e se questa soddisfi o meno la pretesa dei promotori del referendum.

Per stabilire se l'abrogazione delle norme sottoposte al referendum del 12 e 13 giugno abbiano tale carattere l'Ufficio centrale dovrà prendere in considerazione gli effetti conseguenti all'intervento del legislatore. E il punto più delicato sembra essere il carattere definitivo o meno della scelta contraria alla produzione dell'energia tramite la costruzione delle centrali termonucleari. È questo infatti il «principio ispiratore» su cui si fonda l'iniziativa referendaria.

Può dirsi che la cancellazione delle specifiche norme oggetto del referendum comportino una rinuncia definitiva da parte del governo della scelta nucleare? Ovvero esse sono solo un modo per bloccare il pronunciamento popolare? Diversi indizi dovrebbero far ritenere che si tratta di uno stratagemma politico, dunque non in grado di impedire il referendum.

Anzitutto sono le stesse dichiarazioni del governo nonché gli atti precedentemente posti in essere, che evidenziano la volontà di sospendere solo momentaneamente le decisioni in materia di produzione energetica. La moratoria precedentemente stabilita, ma soprattutto l'espressa motivazione che sostiene la proposta di abrogazione dell'attuale normativa, non sembrano lasciare adito a dubbi. Una pausa di riflessione resa necessaria - si esplicita - «al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione Europea». Più chiaro di così. Un rinvio in attesa di tempi (politici, oltre che tecnologici) migliori.

L'annunciata sospensione dei programmi nucleari in Italia, in modo tale da «tener conto» di quanto emergerà a livello europeo nei prossimi mesi, è una brillante mossa populista del governo. Che il clima intorno alla politica nucleare dopo l'incidente giapponese fosse drammaticamente mutato nel nostro paese (e anche a livello internazionale) non era un mistero. È sufficiente considerare i recenti rumorosi successi elettorali dei Verdi tedeschi per averne sentore. Berlusconi, in crisi, deve presentarsi con qualcosa alle ormai imminenti elezioni. Mostrare un volto responsabile sulla politica energetica può in parte compensare le intemperanze sulla magistratura e sulla scuola pubblica.

Ma gli effetti della mossa rischiano di non fermarsi qui. Già la moratoria di un anno aveva cercato di sdrammatizzare la questione nucleare nel tentativo di mandare gli elettori al mare nei giorni del referendum, il 12 e 13 giugno. Oggi il rinvio a tempo indeterminato della ripresa del programma nucleare italiano prosegue in quella direzione, e c'è chi dichiara che questa mossa rende inutile il referendum, che quindi non potrebbe più essere celebrato insieme a quelli sull'acqua e sul legittimo impedimento.

Naturalmente questa decisione non spetta al governo né ai suoi tifosi parlamentari, perché nel nostro ordinamento costituzionale l'organo deputato alla decisione è l'Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione. Si tenga conto che ogni referendum è portatore di un effetto giuridico rafforzato, perché l'effetto abrogativo di un suo eventuale successo deve durare almeno cinque anni. Ben difficilmente quindi un provvedimento come questo, diverso dall'espressa e specifica abrogazione delle (molte) norme che saranno oggetto del giudizio del corpo elettorale, può essere sufficiente a persuadere i magistrati a revocarne l'indizione.

Questa decisione, che da un lato può essere salutata come una prima battaglia vinta dal fronte antinuclearista, d'altro canto può essere molto pericolosa per l'esito finale della guerra di liberazione dei beni comuni. Il referendum nucleare infatti verrà tacciato di inutilità e gli elettori potrebbero essere indotti a disertare le urne, rischiando di travolgere così il raggiungimento del quorum per l'acqua e per il legittimo impedimento (che credo stia molto a cuore al premier).

La strategia del silenzio, utilizzata fin qui in modo spietato in materia di acqua nonostante il milione e mezzo di firme raccolte, è più difficile per il nucleare dopo Fukushima. La catastrofe nucleare giapponese, giorno dopo giorno, dimostra come la presunta "sicurezza" del nucleare civile non sia che l'ennesimo delirio di onnipotenza dell'uomo moderno. In tutto il mondo sembrano perciò maturi i tempi per invertire definitivamente la rotta e il popolo italiano difficilmente potrà essere tenuto del tutto all'oscuro dell'opportunità di votare. Inoltre il governo trova politicamente conveniente polemizzare con i francesi che stanno sfilando ai nostri interessi di bottega il potenziale bottino energetico in Libia, sicché ora Tremonti maramaldeggia sul presunto «debito nucleare» francese, tentando di nascondere che proprio con i francesi di Edf la nostra Enel si stava apprestando a fare affari.

L'Ufficio centrale della Cassazione potrebbe far saltare il referendum e se anche ciò non avvenisse (cosa che auspichiamo) avrà comunque prodotto un alleggerimento della pressione, cosa molto pericolosa per chi deve affrontare lo scoglio ciclopico del quorum. Spetta al popolo vigilare per difendere la propria sovranità.

Grazie, Presidente! Grazie, Silvio! Confesso di aver vacillato per un istante sotto la mole delle proteste, contestazioni, indignazioni, distinguo, recriminazioni, persino pianti e lacrime, e ingiurie, calunnie, prese in giro, dileggi e persino sputi in faccia suscitati dal mio articolo sul manifesto del 13 aprile. Per fortuna (attenzione, questa è una battuta), qualche giorno fa, sabato 16 aprile, ho potuto ascoltare il discorso pronunciato dal Presidente del Consiglio all'incontro con quest'altra bella invenzione politico-organizzativa, che è il movimento «Al servizio degli Italiani», e mi sono facilmente persuaso che le cose non stanno affatto come le avevo descritte e interpretate in quell'articolo: stanno molto peggio.

Cosa c'è infatti di nuovo in tale discorso anche rispetto al nostro più recente passato? C'è che Berlusconi ha sentito il bisogno, proprio in questo momento (sottolineo: proprio in questo momento), di pronunziare un'allocuzione così estesa e impegnativa, anche se condita inevitabilmente di qualche inaudita volgarità (del resto, more solito). Egli, evidentemente, nutre oggi la piena sicurezza di poterlo fare, e ci ha tenuto, more solito, a darlo a vedere. Ha parlato, cioè, da vincitore, o che si crede tale (per lui spesso sono la stessa cosa, e questo, inverosimilmente ma incontestabilmente, aumenta sempre la sua potenza di fuoco).

Ne è scaturito un vero e proprio, impegnativo, denso e suggestivo, programma di lavoro, che torna orgogliosamente alle origini, ricostruisce, come forse finora non era mai accaduto con tanta chiarezza, una propria genealogia politica (dal pentapartito anticomunista pre-'89 a Bettino Craxi, non a caso tutti liquidati a loro tempo dalla protervia eversiva di magistrati di sinistra, anticipatori di quelli che oggi perseguitano lui), si spinge con grande sicumera fino alla fine della legislatura, si propone di riempire i prossimi due anni di tutti gli strumenti atti a vincere di nuovo le elezioni, va ancora oltre, disegna a tutto tondo un ritratto dell'Italia da ricostruire.

Nella sostanza questo discorso, questo programma di lavoro si può legittimamente considerare come il vero, autentico Manifesto di una visione pre e para-dittatoriale dell'agire politico in Italia. Suggerirei, a chi ne ha i mezzi tecnici, di rivedere il filmato al rallentatore, isolando, e tornando più volte a rivedere, i momenti culminanti di tale discorso, che andrebbero uno per uno ritrasmessi e illustrati per la chiarezza interpretativa di ascoltatori ed elettori. Come in tutte le progettazioni politiche che si rispettino, la costruzione del nuovo è preceduta dalla decostruzione del vecchio: e qui la decostruzione è totale. Il forsennato odio per qualsiasi forma di «giudizio» (l'Unto del Signore non può essere giudicato) mette al centro del programma l'annichilimento della macchina giudiziaria italiana, l'avvilimento subalterno, quasi servile, dei pm, la separazione e insieme lo smembramento delle funzioni, la persecuzione, minacciata e gridata, dei giudici e dei pm che fanno il loro lavoro, la subalternità della magistratura al potere politico.

Ma poi tutto il resto è coerente con questo disegno di decostruzione totale. Pensate al virulento attacco alla scuola pubblica. Perché costui ce l'ha tanto con i «professori», nella grandissima maggioranza dei casi onesti funzionari dello Stato, che fanno un lavoro di enorme responsabilità, sottopagati e sottostimati? Ma perché - come io vado sostenendo da tempo, e mi ostino a ripetere in tutte le situazioni - la scuola pubblica italiana, con tutti i suoi difetti e tutte le sue povertà, è uno degli architravi portanti dello spirito di unità e civiltà nazionali, il luogo dove programmaticamente si cerca di formare coscienze non succubi e non subalterne. Per questo diventa così esplicitamente il secondo obiettivo da distruggere dopo la magistratura. L'attacco ai libri di testo fa il resto. E chi potrà impedire che, secondo una sciagurata consuetudine storica, che pensavamo seppellita nel nostro più fosco passato, si passi in breve dai libri di testo ai libri tout court, alle case editrici che li pubblicano, ai loro autori malfamati e perciò destinati a entrare in un nuovo indice a uso e consumo dell'Unto?

E poi: l'attacco al meccanismo faticoso e snervante del gioco parlamentare (se ne farebbe volentieri a meno), la denuncia accorata dell'impotenza del governo e in modo particolare, ovviamente, del suo Capo, l'inceppo intollerabile rappresentato dalla Coste costituzionale, l'eccesso di potere (almeno per ora) nelle mani del Presidente della Repubblica... Insomma: tutto da cambiare, tutto da riformare, tutto da decostruire e rendere impotente, affinché tutto sia più soggetto al suo potere. La prospettiva che ne scaturisce è quella di un cambiamento radicale di struttura e costituzione formale e materiale dello Stato democratico e repubblicano, in vista di un accentramento dei poteri nelle mani del Capo, cui farebbe da pendant illusorio una diffusione crescente delle libertà individuali nel paese, secondo il principio - cui il Capo del resto si è esemplarmente ispirato nel corso di tutta la sua carriera e che anche in questo caso ha eloquentemente perorato - per cui «è lecito tutto quello che ti fa comodo». Non parliamo in questo quadro di diritti del lavoro e di obblighi di solidarietà sociale, tramontati ovviamente insieme con tutto il resto. E non parliamo, ma solo per ora, delle questioni attinenti all'unità politico-istituzionale del paese, da decidere più avanti con i complici della Lega.

Facciamo ora un passo, anzi due indietro. La domanda che innanzi tutto ponevo nel mio precedente articolo era: è vero o non è vero che esiste in Italia una situazione di rischio mortale per la democrazia ad opera del progetto politico e, se si vuole, anche della megalomania (ma questa è l'associazione che sempre si verifica in casi del genere) dell'attuale Presidente del Consiglio? Questo è il punto, questo è il punto, questo è il punto. Non mi pare sconsiderato affermare che l'ultima uscita sua - quella di cui abbiamo testé parlato - formalizzi e per così dire istituzionalizzi i presupposti di tale analisi e di tale previsione. Certo i fattori della crisi sono anche altri: per esempio, la debolezza della prospettiva politica e della coesione ideale delle forze di centrosinistra, come mi rammenta Pierluigi Battista sul Corriere della sera. Ma se questo è vero, non è vero e anche più decisivo l'altro fattore - l'attacco alla divisione dei poteri, al sistema delle garanzie, all'indipendenza dell'ordine giudiziario e al «pubblico» in tutte le sue forme - di cui invece non si parla o si parla troppo poco e quasi di sfuggita?

Se anche questo è vero - e questo, sì, questo io penso che sia assolutamente vero - ne scaturiva la seconda domanda: come si affronta, e si supera, una crisi verticale della democrazia che avanza a colpi di infrangibili e inattaccabili, sorde e mute, maggioranze parlamentari? È qui che la mia proposta di istituire a partire dall'alto uno «stato di eccezione» volto a garantire il ritorno alla «normalità» democratica, contro l'attuale fase di degenerazione estrema del sistema, ha suscitato proteste e dissensi anche in campo amico. Sono corse castronerie bipartisan d'ogni tipo - dal golpe militare alla «dittatura democratica», e altro - mentre non era impossibile capire (lo hanno fatto con grande chiarezza Paolo Flores d'Arcais e Furio Colombo sul Fatto quotidiano e Piero Bevilacqua sul manifesto), che forzare intenzionalmente la natura della soluzione avrebbe significato costringere tutti ad uscire allo scoperto - come è accaduto, e come forse con una più piana e perbenistica dimostrazione non sarebbe accaduto.

Comunque, accantono la proposta ma rinnovo la domanda: come si affronta, prima che sia troppo tardi, l'inedita questione, per cui il precipitare di una democrazia verso un'(altrettanto inedita) forma di governo populistico-autoritario, avviene a colpi di maggioranza parlamentare? Ci si può accontentare del residuo, sempre più disperato gioco delle parti all'interno delle Camere? È possibile invece prevedere una consultazione preventiva e non necessariamente pre-elettorale di tutte le forze di opposizione - tutte le forze di opposizione - per una denuncia clamorosa di quanto sta accadendo? Si può tornare a ragionare distesamente delle prerogative in materia del Capo dello Stato (io, ad esempio, nella mia ignoranza giuridica, non penso affatto che l'art. 89 della Costituzione ponga delle condizioni ostative nei confronti dell'applicazione dell'art. 88, ma naturalmente bisognerebbe discutere)? Non sarebbe auspicabile una dichiarazione solenne da parte di chi può che l'indipendenza della magistratura e il sistema delle garanzie (Csm, Corte Costituzionale) non si toccano - anzi, non si possono toccare? E, infine, per tornare al linguaggio duro, non sarebbe meglio prevedere e favorire - e perciò ben governare - una crisi istituzionale invece di aspettare passivamente tutte le conseguenze negative striscianti? Insomma, scegliete voi, purché scegliate, e scegliate presto, perché non c'è più tempo.

Tutto ciò, probabilmente, non avrebbe l'urgenza che io sento e vedo, se nel frattempo, come sempre è accaduto in tutte le consimili situazioni del passato, non si fosse scatenato l'esercito dei cani da guardia del sistema, cui è demandato per professione il compito di far piazza pulita delle menti libere e dello spirito critico - spirito critico sempre commendevole anche quando sbaglia. La caccia è aperta. A chi? Ma all'untore, ovviamente, mentre nel frattempo da tutti i pori del sistema spira indisturbata la pestilenza. Non è anche questo un argomento degno d'esser trattato nel quadro dell'attuale degenerazione del costume etico-politico italiano? Giro la domanda ai politici perbene e a quei commentatori che non hanno rinunciato a vedere al di là del proprio naso e della propria (non in tutti i casi egualmente stimabile) buona educazione.

Due mesi prima della marcia su Roma, l´8 agosto 1922, Luigi Einaudi prese la penna e disse quel che andava detto nelle ultime ore della democrazia. Disse alcune cose semplici, profetiche: che «è più facile sperare di risolvere con mezzi rapidi ed energici un problema complesso, che risolverlo in effetto». Che l´idea di sostituire il politico con uomini provenienti dalle industrie, dalla «vita vissuta», è favola perniciosa.


Nella favola i non-politici «trasporteranno al governo i metodi di azione che sono loro familiari; faranno marciare le ferrovie; licenzieranno gli inetti; incuteranno un sano terrore agli altri». Ma è una chimera, e la macchina s´incepperà: «Il problema da risolvere non è già di trovare dei grandi industriali disposti a governare la cosa pubblica con la mentalità industriale. Essi non potranno fare che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori». Saranno audaci, ma il primo impulso di simili audaci è di semplificare quel che è complesso: «di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso il giudice che non decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai direttori delle banche di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10 lire e così via».

Gli italiani tuttavia erano attratti dalla chimera, allora come oggi. Il fatto è che si sentivano abbattuti, tristi: erano «come malati che non trovano tregua alle loro sofferenze da qualunque lato si voltino». La via della dittatura pareva così rapida, e brillante, mentre com´era «noiosa, fastidiosa, minuta, la via della legalità costituzionale, sotto il maligno sguardo di giornali avversari e infidi»! È a questo punto che Einaudi, che nel ´48 sarà il secondo Presidente della Repubblica, ricorda come esista una sola salvezza dall´errore e il disastro che è la dittatura: la discussione, essenza della democrazia. Al cittadino triste e malato ci si rivolge con fiducia, non trattandolo come un triste, un malato. Meglio informarlo bene e aiutarlo a discutere sul vero e il falso, piuttosto che dargli verità preconfezionate per sedarlo. Meglio una pluralità di poteri, che il potere apparentemente efficace di uno solo.

Sono saggezze che tanti italiani hanno difeso lungo il tempo, ma che si sfaldano quando viene meno la discussione libera. Si sfaldano da quasi un ventennio e spesso vien da pensare che siamo nella stasi più totale, ma non è così: ultimamente qualcosa si è incrinato ancor più vistosamente. Accusato di reati commessi prima e dopo essere entrato in politica, il premier ha smesso di presentare le leggi che si fa cucire sulla propria persona come utili per l´intero Paese. I suoi seguaci, politici o giornalisti, hanno cominciato a dire apertamente, senza remore, che sì, il Parlamento deve mobilitarsi per mettere il capo sopra la legge e le corti. Il capo è quel conta, e i suoi eventuali reati sono bazzecole, da non evocare. Di bene pubblico nessuno parla più, l´inganno si disfa e tutto ruota attorno a un privato che governando gode di meritati privilegi.

È cosa sana e buona, rispondere a un attacco giudiziario ad personam con leggi ad personam. Lo stesso Berlusconi ha citato il mitico mugnaio prussiano che nel ´700 decise di veder riconosciute le proprie ragioni, e ai soprusi di Federico il Grande replicò: «C´è pur sempre un giudice a Berlino». Solo che Berlusconi non è un mugnaio, diffida d´ogni giudice, ed essendo Re assoluto pensa di non dover rispondere dei propri soprusi, di potersi fare giustizia da sé. Perfino l´apologo sulla giustizia del mugnaio è riuscito a riscrivere, trasformandolo in apologo dell´impunità.

Altra incrinatura visibile, da settimane, è nel linguaggio dei potenti. I giudici che indagano sui reati sono chiamati ufficialmente brigatisti (Berlusconi davanti alla stampa estera, 13 aprile). Il loro scopo è sovvertire lo Stato, violare la sovranità del popolo elettore. Egualmente eversore è chiunque dissenta: giornalisti, intellettuali, coi quali non si discute. È lunga la lista dei neo-terroristi, e in cima a tutti sta ora Asor Rosa. Probabilmente anche il cardinale Tettamanzi disarticola lo Stato, avendo detto domenica scorsa al Duomo che davvero paradossali sono questi giorni in cui tocca domandarsi: «Perché ci sono uomini che fanno la guerra, ma non vogliono si definiscano come "guerra" le loro azioni violente? Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni?». Siamo, insomma, davanti a un salto di qualità importante, a qualcosa che somiglia a una vigilia: tanto esibiti, innalzati come stendardi, sono inganni e paradossi.

Il colmo, a mio parere, è stato raggiunto con l´elogio, da parte di un giornale del potere berlusconiano, del Grande Inquisitore di Dostoevskij (Il Foglio, 16-4). Nelle Lamentazioni che si recitano alla vigilia della Croce e della Resurrezione, Geremia parla di abominio, di panno immondo, e c´è un elemento di abominio nell´allegra difesa di una delle più nere leggende della letteratura. Come pretesto si è scelto il libro di Franco Cassano, L´Umiltà del Male (Laterza). La leggenda narra di Gesù che torna sulla Terra - con la sua mitezza, con i suoi messaggi di libertà - e per la seconda volta, quindici secoli dopo la sua morte, è giustiziato.

Ma il libro è stravolto, usato in difesa del nostro premier. L´Inquisitore non è forse santo ma di certo è più attento alle umane debolezze di quanto lo sia stato Cristo, perché sa quanto il male sia radicato nell´uomo e come difficile sia estirparlo e dare pace ai mortali infelici invece che tormento e angoscia. Sa che l´uomo non sopporta la libertà che Cristo gli ha dato: che la salvezza la troverà inginocchiandosi davanti all´autorità, commettendo le colpe che vuole ma col consenso delle gerarchie ecclesiastiche, le quali prenderanno su di sé il castigo patteggiando con Satana. Le parole che ho letto sabato sul quotidiano berlusconiano sono stupefacenti.

È scritto che il cardinale gesuita di Siviglia (l´Inquisitore), «impartisce (a Gesù) una lezione appassionata e tragica di umiltà del male e di teologia della storia e nella storia, spiegandogli che il suo aristocratismo etico, la sua bontà naturale e santa, non riesce a fare i conti, come riesce invece e bene la sua chiesa gerarchica, con la natura radicale del peccato umano». Gesù non ha la boria e la iattanza dei neopuritani che oggi avversano Berlusconi, ma in fondo appartiene anch´egli a una minoranza etica, che non ama gli uomini come li ama e li aiuta la Chiesa. Solo la Chiesa e l´Inquisitore amano davvero, perché tengono conto dei «bisogni umili delle maggioranze relativamente indifferenti, di coloro che non sono tra gli eletti, che per insicurezza chiedono protezione e sogni, magari anche rivolgendosi ad agenti del male, e che praticano la tutela del proprio interesse legittimo nelle forme e nei modi possibili alla creatura umana sofferente» (i corsivi sono miei).

Se Gesù non diventa un brigatista, è solo perché nel momento decisivo (un momento musicale, vien definito) tace e bacia l´Inquisitore, a suo modo assoggettandosi. Così vengono distorti sia Gesù sia Dostoevskij: con il suo bacio, infatti, Gesù non s´assoggetta affatto; non accetta il parere dell´Inquisitore e i consigli di Satana. Il bacio è dato perché l´Inquisitore ha detto la verità, su se stesso e la Chiesa (la Chiesa gerarchica, non la Chiesa-popolo di Dio). Perché ancora una volta, come sempre ha fatto, Gesù restituisce all´uomo, compreso il malvagio, la piena libertà di scegliere, ragionando, tra il bene e il male. Dostoevskij almeno lo racconta così: il vecchio Inquisitore sussulta, «il bacio gli arde nel cuore» anche se resiste nella sua idea.

Non ho mai letto elogi simili del Grande Inquisitore, e mi domando cosa li renda possibili: oggi, qui in Italia. Forse perché siamo oltre la constatazione che l´umanità è fatta di un legno storto. La stortura non è constatata, ma incensata, addirittura cavalcata. Una sfiducia radicale negli uomini permette agli inquisitori odierni di trasformare il male e l´ingiustizia in vanti personali messi trionfalmente in mostra. L´uomo è malvagio. Inutile, assurdo, scommettere sulla sua libertà come fece Cristo, perché questa libertà la creatura umana vuole consegnarla, in cambio di protezione e sogni (di «felici canzoni infantili e cori e danze innocenti», scrive Dostoevskij) a chi usa le tre grandi forze necessarie al controllo delle coscienze: il miracolo, il mistero, l´autorità.

Per questo si giunge sino a sfoderare la menzogna come bandiera. Si dice senza temere smentite che Berlusconi è stato sempre assolto nei processi. È un falso: su 16 processi, solo 3 lo hanno assolto, gli altri o sono stati prescritti o è stato abolito il reato con leggi ad hoc. Si dice che i suoi processi iniziarono appena entrò in politica. È un falso: cominciarono prima, e fu colpa di tutta la classe politica accogliere chi era gravemente indagato. Da allora mentire è divenuto possibile, fino alle escrescenze odierne. Da allora la democrazia ha smesso di essere discussione e separazione dei poteri, intrisa com´è di paure, ricatti, silenzi inauditi. La macchina non ha funzionato, ma resta l´illusoria speranza in un audace, che infranga le leggi e permetta agli uomini deboli, inermi, di consegnargli la loro libertà in cambio di favole e favori.

Secondo la nostra Costituzione, nessun atto del Presidente della repubblica è valido se non viene controfirmato dal Governo, dunque anche il decreto di scioglimento delle Camere (articoli 89 e 88). Ciò non comporta però che il governo possa essere considerato a pieno titolo contitolare del potere di scioglimento. La controfirma, di per sé, individua solo il modo ordinario di esercizio dei poteri presidenziali, nessuno escluso. Non indica invece il ruolo che in concreto possono esercitare i soggetti coinvolti. Dunque, come ha ammesso la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 200 del 2006, è necessario distinguere gli atti del Presidente secondo criteri sostanziali. A volte gli atti sono solo formalmente presidenziali, ma sostanzialmente di altri organi dello Stato, del governo in particolare. Si pensi ai decreti legge ove la firma del Capo dello Stato non comporta certamente una sua partecipazione diretta al merito dell'atto, bensì è apposta solo a garanzia e controllo dell'attività dell'esecutivo. In altri casi le parti s'invertono e al governo in sede di controfirma spetta solo certificare la validità dell'atto senza che esso possa entrare nel merito della scelta presidenziale (com'è ad esempio nel caso della nomina dei giudici costituzionali). Vi è, infine, una terza categoria di atti presidenziali: quelli in cui la decisione assunta dal Capo dello Stato è espressione di un concorso di volontà. Così la nomina del governo ovvero lo scioglimento anticipato delle Camere.

Se questo è il quadro "sistematico", c'è da dire che appare mal formulata la domanda troppo secca: può il Capo dello Stato sciogliere le Camere contro la volontà del governo? Essa tende a non considerare la complessità costituzionale della scelta di interrompere il corso della legislatura, che non può dipendere né dal volere assoluto del Presidente, né può essere impedita in ogni caso dal potere di veto del governo. Alcuni scioglimenti delle Camere, in passato, hanno provocato vivaci discussioni politiche, ma è vero che sino ad ora essi sono sempre stati concordati con i governi in carica, perlopiù dimissionari. Dirò di più: anche oggi, la previsione di uno scioglimento contro il governo in carica appare difficilmente configurabile. Dinanzi al rifiuto del governo di controfirmare il decreto di scioglimento la crisi politica precipiterebbe e la strada di sollevare un conflitto tra poteri di fronte alla Corte costituzionale non sarebbe, almeno nell'immediato, risolutiva.

Come fare allora per impedire che il governo utilizzi la controfirma come potere di veto assoluto? La risposta è semplice nella sua formulazione, ben più complessa per la sua realizzazione. Si tratta di determinare le condizioni politiche e istituzionali che rendono necessaria la decisione di sciogliere le Camere.

Quando Napolitano denuncia «l'asprezza raggiunta dai contrasti istituzionali e politici», invitando tutte le parti a uno sforzo di contenimento delle attuali tensioni, «in assenza del quale sarebbe a rischio la stessa continuità della legislatura, egli fotografa una situazione di crisi estrema, che non può proseguire». La stessa convocazione di tutti i capigruppo, effettuata senza l'apertura di una crisi di governo, e dunque non per consultazioni formali, esprime il forte disagio del Capo dello Stato. Se l'attuale situazione dovesse proseguire e i rischi di paralisi istituzionale permanere, si può prevedere che Napolitano possa utilizzare anche in modo più incisivo i propri poteri di stimolo per richiamare alla responsabilità i soggetti politici, non limitandosi più ai soli comunicati, lettere o esternazioni informali, egli potrebbe rivolgersi anche in modo più diretto al Parlamento. Tutto ciò, però, non porterà allo scioglimento delle Camere se il Presidente continuerà a rimanere solo a manifestare l'insopportabilità della crisi istituzionale e politica.

Non dico che non sia sostenuto dalle esangui opposizioni parlamentari (ci mancherebbe!), ma sono tutti gli altri soggetti che pure partecipano alla formazione della volontà presidenziale ad essere assenti. Lo scioglimento è un atto complesso, in cui non concorrono solo due volontà, quella del Capo dello Stato e quella del governo (come pure ritiene parte dei costituzionalisti), bensì vi partecipano un insieme di soggetti, dai presidenti delle Camere (i quali devono essere consultati), ai gruppi parlamentari (decisivi nel rapporto con il governo e la maggioranza), ai singoli parlamentari (i quali rappresentano ciascuno l'intera nazione ed esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato). Credo che non possa ritenersi estranea neppure la società civile (il popolo, che esercita la sovranità nelle forme e nei limiti della Costituzione). A questi spetta creare le condizioni per superare l'attuale fase di emergenza costituzionale. Entro una dialettica anche aspra, in cui si garantisca il rispetto dei ruoli di ciascuno: delle istituzioni, delle maggioranze e delle opposizioni, delle singole rappresentanze. Ma che almeno si mostri una chiara comprensione delle ragioni che sostengono le fondate preoccupazioni presidenziali.

Sino a che il Capo dello Stato sarà lasciato solo a salvaguardia della legalità costituzionale, a combattere contro le ormai insopportabili tensioni che mettono a rischio non solo l'attuale legislatura, ma la stabilità costituzionale nel suo complesso, non credo possano auspicarsi forzature istituzionali. Quando - e se - le parti si invertiranno, e il governo dovesse trovarsi isolato a difesa di una impossibile continuità della legislatura, allora si riaprirà la questione dello scioglimento e potrà farsi valere la pretesa che nessuno è titolare di un potere di veto, e quella maledetta controfirma dovrà essere apposta oppure un altro governo si formerà.

Massimo D'Alema ha «auspicato» che il Presidente utilizzasse il potere di scioglimento, meglio sarebbe «attivarsi» affinché ciò possa avvenire. Nessuno è senza colpa se la democrazia italiana deperisce. Un appello ai «responsabili» di ogni partito, a ogni parlamentare, a ciascuno di noi deve essere rivolto: è il momento di far sentire la propria voce. Un Presidente ascolta, l'altro ascolterà.

Sulle mura di Milano è ancora fresca la colla dei manifesti che attaccano i giudici come terroristi dando voce alle irresponsabili piazzate di un capoparte populista: e oggi è sempre lo stesso capoparte che si lancia in un nuovo attacco a testa bassa, questa volta contro la scuola pubblica. Si tratta di attacchi eversivi. Nel senso proprio del termine, diretti cioè a distruggere le istituzioni statali. Non è per caso se si è passati dai giudici delle Procure alla scuola pubblica. Sono i luoghi dove per definizione tutti i cittadini sono o dovrebbero essere posti in condizioni di uguaglianza nel godimento di diritti fondamentali. Se non lo sono, questo accade per strozzature sociali a monte che i padri costituenti della Repubblica ebbero ben presenti e indicarono come ostacoli da rimuovere. Oppure accade per strozzature a valle, perché le risorse disponibili sono scarse, perché si taglia il personale che dovrebbe garantire il funzionamento delle istituzioni pubbliche più delicate. Sappiamo molto bene come, riducendo mezzi e persone, chi manovra le finanze statali possa uccidere le reti istituzionali della vita associata: lo vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.

Non è difficile però comprendere le ragioni dell´odierno attacco contro la scuola pubblica. Vediamole, premettendo che l´accusa alla scuola pubblica di essere un luogo di indottrinamento ideologico da parte della sinistra è una tesi indimostrabile e speciosa. Ma è probabile che l´attacco del premier sia stato ispirato dalla scoperta fatta dai 19 deputati del Pdl guidati dall´onorevole Gabriella Carlucci che nei manuali di storia c´è chi "getta fango su Berlusconi", da cui la richiesta di una commissione d´indagine. Se tutto il problema si riduce a questo, si faccia pure l´indagine: ma non certo per sostituire i manuali oggi scelti autonomamente dagli organi scolastici competenti con la lettura obbligatoria dell´autobiografia del premier. La scuola pubblica è tale proprio perché è il luogo della serietà e della libertà dell´apprendimento, cioè l´esatto contrario dell´indottrinamento passivo. La scuola pubblica come palestra di formazione non può che essere luogo di responsabile libertà del docente e dell´impegno serio e assiduo dei discenti, mentre allo Stato deve garantire quel principio liberale del premiare i capaci e meritevoli tra i docenti e tra i discenti. Su questi e non su altri fondamenti è nata la scuola che, dai tempi di Napoleone, si definisce "pubblica" per distinguerla da quella "privata".

C´è però una ragione più generale alla radice di questa polemica: l´avversione contro tutto ciò che è pubblico, dall´ordinamento istituzionale del paese ai valori della carta costituzionale che lo tengono unito. È questo che suscita la reazione dell´uomo che sta risucchiando nei gorghi del suo privato tutto ciò che tocca. Quello che vediamo è la versione italica di un conflitto profondo e sostanziale tra la privatizzazione capitalistica delle risorse pubbliche e i fondamenti stessi della democrazia. In un progetto che tende allo svuotamento della sostanza democratica e costituzionale del paese la scuola non è un obbiettivo secondario. Come ha ricordato il presidente Napolitano, è alla scuola e all´istruzione pubblica che spetta un compito fondamentale: «Diffondere tra le nuove generazioni una più approfondita conoscenza dei diritti e dei doveri che da più di mezzo secolo la Costituzione repubblicana garantisce e indica a tutti i cittadini». Un compito importante e delicato : è stato ancora Napolitano a sottolineare quanto ne dipenda la crescita del paese nel contesto del sistema e dei valori dell´Europa unita. Ecco perché non bisogna stancarsi di difendere i diritti alla scuola dall´attacco dei privatizzatori; ed ecco perché agli studenti bisogna chiedere che non si stufino di difendere la scuola pubblica dagli attacchi di chi avrebbe tante ragioni per dichiarare fallimento e ritirarsi da una scena politica dove ha portato solo divisione e scandali.

La sentenza a carico dei dirigenti della ThyssenKrupp è molto dura. Su un punto fondamentale, quello di giudicare gli investimenti in tema di sicurezza consapevolmente non effettuati come prova di omicidio volontario da parte dell´amministratore delegato, la Corte ha accolto in pieno le richieste dell´accusa.

Come si aspettavano familiari e compagni delle vittime. Condannando la massima autorità dell´impresa al massimo della pena proposta dai Pm, sedici anni, e cinque dirigenti a pene che vanno da dieci anni – un anno in più rispetto alla richiesta – a tredici e mezzo, la sentenza riafferma con estrema forza un principio cruciale: di lavoro non si può, non si deve morire. Per cui ogni dirigente o imprenditore che non si occupa e preoccupa a sufficienza della sicurezza dei dipendenti sui luoghi di lavoro incorre in una colpa grave. Anche quando non abbia contribuito direttamente all´incidente che ha ucciso qualcuno, ma in qualche modo abbia accettato che esso succedesse come effetto eventuale del suo comportamento. Come decidere di non predisporre adeguate misure di sicurezza in un impianto che di lì a qualche tempo si dovrebbe chiudere o trasferire, perché in fondo esse sarebbero, nella ratio della contabilità aziendale cui un dirigente ritiene di doversi attenere, un inutile spreco. Anche se, per evitare quello spreco, finisce che ci vanno di mezzo vite umane.

La contabilità fondata sull´idea del "non è mai successo, perché dovrebbe accadere adesso?" è molto diffusa nelle imprese di ogni dimensione. Essa contribuisce a provocare oltre mille morti l´anno, decine di migliaia di infortuni invalidanti, nonché gran numero di malattie professionali che rattristano e accorciano la vita. La sentenza ThyssenKrupp è un grosso aiuto per combattere tale cultura. Essa fa severamente presente a dirigenti e imprenditori che se quello che non sarebbe dovuto succedere poi accade davvero, perché loro non hanno preso le dovute misure precauzionali, d´ora innanzi rischiano molto.

Una pena di tal gravità non era mai stata avanzata nelle numerose cause derivanti da incidenti sul lavoro che si sono susseguite negli scorsi decenni. Poiché gravissime erano le colpe degli imputati, si può essere soddisfatti perché giustizia è stata fatta, anche se essa non riduce né l´entità della tragedia né il dolore delle famiglie. Ma v´è un aspetto di questa sentenza che va al di là del senso di restituzione di qualcosa che era dovuto alle vittime, ai loro compagni, ai familiari. Negli ultimi decenni il mondo del lavoro ha pagato un prezzo elevatissimo in termini di compressione dei salari, peggioramento delle condizioni di lavoro, erosione dei diritti acquisiti, oltre che di vittime di incidenti e malattie professionali che la legge sulla sicurezza nei posti di lavoro dovrebbe limitare, se negli ultimi anni non fosse stata indebolita in vari modi dal legislatore. Questa sentenza – che arriva una volta, ma può essere una volta determinante; e verte su un caso specifico, che può però diventare generale – afferma che tutto ciò non è giusto. E che tutti i suoi elementi si tengono, per cui se si attenta a uno si compromettono anche gli altri. Da ultimo è il lavoro a creare benessere per tutti. E´ la base su cui si regge sia la ricchezza privata che quella pubblica. Merita un ampio riconoscimento sociale – lo dice perfino la Costituzione. Perciò né il lavoro né il lavoratore dovrebbero essere trattati come una merce che si usa se serve, si butta da parte se non serve, si cerca di pagare il meno possibile, e non importa poi troppo se chi presta il lavoro ci rimette la vita perché l´impresa, in nome della globalizzazione e del mondo che è cambiato, deve anzitutto far quadrare il bilancio. Dopo la sentenza di Torino, un simile modo di ragionare dovrebbe ridurre un po´ la sua iniqua presa, nel sistema economico non meno che in politica.

Che tristezza, che indegna campagna si sta scatenando contro il nostro collaboratore Alberto Asor Rosa. Addirittura girano appelli bipartisan, meritevoli di altri destinatari, per questo mai disturbati. Asor Rosa è un intellettuale che esprime liberamente il suo pensiero, talvolta anche in modo paradossale. Non ha truppe cammellate, né un partito alle spalle, ma solo un piccolo giornale contro il quale altre volte sono state scagliate accuse di ospitare il pensiero dei "cattivi maestri", sempre lanciate dalla destra del Pci. E non a caso questo attacco oggi, come ieri, viene portato da un ex stalinista.

Strumentalizzare una provocazione è gioco facile, specialmente se si possiedono i potenti mezzi della televisione. Parliamo naturalmente del clamore suscitato dall'articolo di Asor Rosa («Non c'è più tempo», manifesto 13 aprile), pubblicato nella prima pagina accanto a un articolo di Valentino Parlato (ancora sull'emergenza berlusconiana) e a uno di Ugo Mattei sul furto di legalità contro i referendum.

Abbiamo pubblicato la sua opinione, compresa la paradossale conclusione, perché affonda lo sguardo sull'eutanasia della democrazia italiana, riflette sulla torsione autoritaria del regime (parola fino a qualche anno fa ostracizzata ma ormai diventata di uso corrente). Più che sulla boutade finale («chiamiamo i carabinieri, la polizia» e, già che ci siamo «anche la guardia di finanza») con cui si concludeva il suo intervento, sarebbe utile sviluppare la discussione sulla grave compromissione degli spazi di agibilità democratica provocati dal plebiscitarismo di Berlusconi, portato alle estreme conseguenze con la cancellazione dell'architrave delle democrazie moderne: la divisione dei poteri.

Noi crediamo nei movimenti, nella possibilità di sbarazzarci di Berlusconi e del berlusconismo con la loro forza, testimoniata in questi mesi in modo straordinario e ancora in campo in queste elezioni amministrative e nei referendum. Rispetto a uno sbocco positivo, lasciamo i paradossi alla loro funzione e discutiamo come affrontare lo stato di emergenza.

Il parlamento è trasformato in un collegio di difesa allargato del premier, l'assalto all'autonomia della giurisdizione è giunta fino all'approvazione della vergognosa legge sul cosiddetto "processo breve", e l'assommarsi delle prerogative del legislativo e del giudiziario nel potere esecutivo, sotto la spinta inarrestabile del conflitto di interessi, è davanti gli occhi di tutti. A cominciare da quelli del Presidente della Repubblica, come testimoniano le parole forti pronunciate ieri l'altro dal capo dello stato intervenuto sulla situazione politica.

E' Napolitano a parlare di «ristrette oligarchie dotate di poteri economici e sociali senza contrappesi», è ancora il Presidente della Repubblica ad allarmarsi perché «nulla potrebbe essere più lontano dall'idea di una democrazia di un corpo sociale indistinto in grado di esprimersi solo elettoralmente». E' il Quirinale che ieri ha esplicitato l'intenzione di verificare le conseguenze dell'ultima legge ad personam licenziata dalla Camera, prima ancora che giunga a approvazione definitiva da parte del Senato.

Se dunque le leggi del libero confronto, che si forma e si esprime nelle elezioni e nelle maggioranze parlamentari, si trasformano in un vuoto simulacro, parlare della dialettica tra opposizione e maggioranza rischia di diventare esercizio retorico. Scontiamo (purtroppo) l'inadeguatezza di un'opposizione che per prima non crede alla possibilità di mettere in campo un'altra politica, e la crisi istituzionale ne è una delle conseguenze. Del resto le forzature sono all'ordine del giorno: nell'aula di Montecitorio, D'Alema ha recitato l'articolo 88 della Costituzione: il Presidente della Repubblica può «sciogliere le camere sentiti i loro presidenti», anche in assenza di una crisi di governo. E se lo dice D'Alema...

Obiettivo niente scioperi. Mai

di Rocco Di Michele

Una guerra in cui non si fanno prigionieri. Quella dichiarata dalla Fiat contro i propri dipendenti non ha precedenti nella storia repubblicana di questo paese. Il doppio colpo portato ieri è da questo angolo visuale chiarissimo.

La mattina si è discusso un problema apparentemente minore: il «monte ore» di permessi sindacali di cui - in proporzione agli iscritti - godono i delegati di fabbrica alla Sata di Melfi, la Sevel in Val di Sangro e la Fma di Pratola Serra. La Fiat aveva disdettato qualche tempo fa gli accordi che andavano avanti da decenni. Ora si è capito perché. In cambio di un certo numero di ore di permesso annuo, ha preteso fosse applicata una «clausola di responsabilità» per cui i sindacati che avrebbero firmato si impegnavano a evitare scioperi e proteste - anche quelle spontanee che nascono sulle linee quando «la catena» va troppo veloce. Se ci saranno, scatteranno sanzioni contro le organizzazioni, che perderanno parte o tutti i permessi e l'agibilità sindacale.

Solo apparentemente questa versione della «clausola» sembra meno grave di quella infilata negli accordi per Pomigliano e Mirafiori. Lì, infatti, era previsto anche il licenziamento dei lavoratori che scioperavano. Qui «solo» la riduzione della libertà sindacale. In realtà, cambia poco: i delegati - fin qui eletti dai lavoratori, in futuro si vedrà - vengono posti in conflitto diretto (per banale «interesse personale» a lavorare qualche giorno in meno l'anno) con gli altri lavoratori. Se i secondi scioperano, i primi ci rimettono. E ovviamente la Fiom non ha firmato.

Questo delle sanzioni per il sindacato è un obiettivo condiviso da tutta Confindustria (ne avevano parlato nei giorni scorsi sia Giorgio Usai, di Federmeccanica, che la presidente Emma Marcegaglia). E si crea una tenaglia chiarissima: «da una parte nei contratti individuali si chiede al lavoratori di impegnarsi a non scioperare, dall'altra si richiede identica disponibilità al sindacato». Giorgio Airaudo non ci va giù tenero. «Non stiamo neppure parlando di autoregolamentazione o procedure di raffreddamento, ma di uno scambio tra libertà d'azione sindacale e qualche privilegio per singoli sindacalisti». In generale, «sono restrizioni della democrazia; così la Fiat contribuisce alla disintegrazione della coesione sociale». Si «pratica l'obiettivo» di creare «un altro modello sindacale e altre ipotesi di rappresentanza».

Poche ore dopo è toccato alla ex Bertone, ora Officine Automobilistiche Grugliasco. Nell'incontro, chiesto dai sindacati«complici» (Fim e Fismic, soprattutto) per vedersi consegnare il testo dell'«accordo» da sottoporre al giudizio dei lavoratori, la Fiat si è rifiutata di esibirlo. Nel prossimi giorni, forse, sarà loro mostrato un «dispositivo» che avrà a «riferimento» il «futuro contratto dell'auto». Quale possa essere lo ha spiegato la stessa Fiat: il testo approvato per Pomigliano. Avremmo dunque un altro record: un contratto aziendale (doveva essere un «caso unico», giuravano!) che diventa «nazionale» senza altre discussioni.

L'idea di Marchionne è molto semplice: «in Fiat non ci possono essere due stati». Quindi tutti gli stabilimenti dovranno girare sullo stesso regime. A Grugliasco la Fiom raccoglie il 62% dei lavoratori. Nei prossimi giorni le Rsu - che avevano presentato addirittura una propria piattaforma - esamineranno la situazione. In ogni caso avevano già stabilito che qualunque accordo sarebbe stato sottoposto a referendum.

La Fiat, su questo punto, mostra di avere qualche incertezza. E quindi - stando alle parole dei dirigenti del Fismic (l'ex Sida fondato direttamente dal Lingotto negli anni '50) - non anticiperà più il pagamento della cassa integrazione (in violazione esplicita dell'accordo firmato solo un anno e mezzo fa). Un modo esplicito di ricattare i dipendenti: finché non votate come io voglio, non vi dò neppure i soldi che poi io (azienda) mi vedrò restituire dall'Inps.

Un'incertezza che la dice lunga anche sulla fiducia che ripone nei sindacati «complici». Ieri Di Maulo (segretario del Fismic) a fine incontro aveva detto erroneamente che «tutti i dipendenti di Grugliasco sarebbero passati a Mirafiori». L'ufficio stampa della Fiat è dovuto scendere di corsa per fargli correggere le dichiarazioni.

BERTONE

Chi fermerà Marchionne?

di Loris Campetti

Si scrive Fim, si traduce «Fabbrica Italia Mirafiori». È il nuovo nome depositato da Sergio Marchionne alla Camera di commercio con cui d'ora in poi si chiameranno le carrozzerie del gigante torinese. Non è uno scherzo, certo non è il prodotto di una trattativa tra la Fiat e il sindacato dei metalmeccanici Cisl - tu firmi tutto e io ti faccio pubblicità - però fa ridere.

Peccato che non ci sia molto da ridere. L'escalation del supermanager della Provvidenza fa paura. Prima bombarda Pomigliano fino a strapparne lo scalpo, i diritti dei lavoratori; poi procede con la panzer division contro Mirafiori e per il rotto della cuffia il ricatto antioperaio passa anche qui; ora è la volta della Bertone, più di mille operai da anni senza lavoro a cui impone le stesse condizioni servili delle due fabbriche maggiori. Marchionne non riesce a strappare l'anima, la dignità, ai suoi lavoratori e allora lacera il loro corpo. È ancora più indecente che questo avvenga alla Bertone, dove l'acquisto da parte della Fiat dopo 8 anni di tribolazioni, cassa integrazione, amministrazione controllata, tentativi di speculazione era stato accolto dagli operai come una liberazione, una speranza di futuro. Eccoli serviti a dovere.

Alla Bertone i due terzi dei lavoratori sta con la Fiom che si rifiuta di sottoscrive l'atto di condanna a morte dei diritti individuali e collettivi, si proibisce lo sciopero e si espellono le organizzazioni che non sottoscrivono. Dunque la sfida eccita ancor più Marchionne che vuol vedere se di fronte all'ultimatum «o accettate o vado a costruire la Maserati all'estero» la dignità reggerà, o prevarrà per fame il realismo di chi ha figli da mantenere e mutui da pagare. Fim, Uilm e Fismic si sono già consegnati e pretendono di consegnare tutti i lavoratori, a mani alzate, al generale occupante, fingendosi sindacati ragionevoli mentre servilmente mettono le loro guarnigioni a disposizione dell'esercito nemico per espugnare la roccaforte della Fiom. In cambio riceveranno distacchi e permessi sindacali, non diritti perché quando i diritti non sono per tutti si chiamano privilegi, merce di scambio sulla pelle di chi lavora che non potrà più scegliere da chi farsi rappresentare. Sempre nel caso in cui il ricatto passi al voto della fabbrica, sennò la Maserati sfreccerà su altre piste. Persino il timido tentativo del sindaco di Torino Sergio Chiamparino (per arrivare a una scelta condivisa la Fiat tolga le clausole sul diritto di sciopero) è stato rifiutato dall'arrampicatore della Chrysler, il «Marchionne del Grillo» come lo aveva definito questo giornale, quello che «io so' io e voi non siete un cazzo», nonché compagno di scopone di Chiamparino.

L'escaltion di Marchionne non si ferma qui. La Fiat annuncia che non pagherà più gli anticipi di cassa integrazione, in piena violazione di accordi sottoscritti. E aggiunge che a chi non firma saranno decurtati i permessi sindacali. Per concludere, il cancro alla Fiat produce le sue metastasi nelle aziende dell'indotto: la Magneti Marelli avrà commesse per la nuova Panda, ma solo a condizione che i suoi dipendenti accettino il contratto strappato a Pomigliano.

Marchionne è un pericolo per la democrazia italiana, democraticamente va fermato. Non è un compito della sola Fiom.

Perché il consenso alla maggioranza non è ancora crollato, nonostante il premier abbia superato ogni limite e il Popolo della libertà sia lacerato dalle divisioni? Il moltiplicarsi delle rissose correnti del Pdl fa impallidire il ricordo della peggior Dc. Quella Democrazia Cristiana evocata dallo Sciascia di Todo modo, per intenderci. E così nei giorni scorsi Libero ha cercato di scongiurare il fantasma di un Berlusconi "bollito" (il termine è del quotidiano) mentre Giuliano Ferrara ha lanciato un "avviso ai naviganti" per ricondurre bruscamente alla ragione i riottosi. Le sempre più affannate e affannose esibizioni del premier rendono chiarissimo il suo obiettivo, incompatibile con un Paese civile –umiliare la magistratura e renderla subalterna al potere politico- e diventano al tempo stesso dei clamorosi autogoal. Si pensi solo all´ultima (per ora) menzogna sul caso Ruby: «L´ho pagata perché non si prostituisse»: come se fosse del tutto normale per i presidenti del consiglio frequentare fanciulle con simili vocazioni.

Perché, allora, quella parte del Paese che ancora sostiene il premier non mostra visibili e sostanziose crepe, trangugia escort e Stracquadanio, il rientro di Scajola e l´evocata uscita dall´Europa, le barzellette più squallide e la paralisi dell´attività parlamentare, sacrificata per intero ai guai giudiziari del leader? Senza misurarsi con questo nodo sarà difficile iniziare a invertire una deriva. Sarà difficile anche impedire il diffondersi di ripiegamenti e di pessimistiche rinunce, di rinnovate forme di scetticismo e di conformistiche chiusure nel "particulare".

C´è in primo luogo da chiedersi se la residua capacità di tenuta del premier si fonda esclusivamente sull´assenza –o sulla flebilissima presenza- di un´alternativa politica. Sarebbe riduttivo pensarlo, rimuovendo così i più generali processi che hanno attraversato il Paese sin dagli anni ottanta. E che lo hanno plasmato in profondità nell´ormai lunghissima fase "berlusconiana", trasformandolo in quel "Paese del pressappoco" tratteggiato con amara ironia da Raffaele Simone: un Paese inesauribile, ad esempio, nel trasformare disastri pubblici in vantaggi privati. Propensione antica, colta già da Goethe nel suo Viaggio in Italia: le strade di Palermo, annotava, sono coperte di immondizie in disfacimento ma ciò è apprezzato dalla nobiltà che ha: «Interesse a mantenere uno strato così morbido alle sue carrozze per poter fare con tutto comodo la solita passeggiata su un terreno elastico».

Anche al Paese profondo rimanda dunque il nodo da cui abbiamo preso le mosse: di qui la difficoltà ma al tempo stesso l´urgenza di invertire la rotta. Di avviare, almeno, un´inversione di tendenza, prima che sia davvero troppo tardi. Prima che le lesioni alle istituzioni siano diventate irrimediabili. E sarebbe una vera iattura se il logoramento del premier si consumasse solo per via giudiziaria, in assenza di proposte credibili: il ruolo della politica è dunque primario, e sin qui le carenze dell´opposizione sono state indubbiamente gravissime. Una decina di anni fa, nella stagione dei "girotondi", si diffuse l´idea che fosse sufficiente dare nuovo slancio a sentimenti di opposizione, portare nelle piazze un´indignazione crescente. E che spettasse poi al centrosinistra raccogliere quello slancio, dargli corpo e prospettive. Che spettasse interamente ad esso, insomma, il passaggio "dalla protesta alla proposta", come si diceva un tempo. Nella crescente abdicazione a questo compito sta una delle radici della paralisi attuale: non vi è alcuna via d´uscita se non si è capaci di delineare in modo credibile "l´Italia che vogliamo", per citare il più efficace ma anche il più disatteso slogan del centrosinistra prodiano. E forse è necessario ricominciare passo dopo passo, con umiltà e rigore, provando a colmare anche su singole questioni lo stridente divario fra i nodi sul tappeto e le nebulose incertezze del dibattito politico attuale.

Si prendano alcuni degli aspetti più scandalosi di questa agonia di regime. È difficile denunciare in modo credibile una legge elettorale sciagurata, che condiziona le dinamiche politiche e favorisce la compravendita dei deputati, se non è in campo una proposta alternativa su cui le opposizioni concordino (lo si è visto anche a dicembre, nel momento di maggior debolezza del premier). Sullo sfondo vi è, naturalmente, la riflessione generale sul "bipolarismo" italiano: è possibile rianimarlo o occorre prender atto che non è mai realmente nato e che il suo simulacro innesca oggi dinamiche ben poco virtuose? E´ un nodo intricato, certo, ma eluderlo contribuisce alla paralisi.

Si pensi anche ad un altro elemento di indecenza, la gestione della Rai: si è aperta anche qui una spirale senza ritorno che costringe costantemente la maggioranza ad alzare il tiro, a sbarazzarsi delle voci che pongono dubbi e aiutano a riflettere. È impossibile spiegare a un osservatore straniero l´ostracismo dato a Vieni via con me, e i veti alla sua ripresa. È difficile spiegargli perché siano duramente osteggiate anche altre trasmissioni di qualità, che pur stanno portando consistenti introiti alla televisione pubblica: da Report a Parla con me o a Che tempo che fa. E mentre si studiavano improponibili contrappesi e alternanze per togliere spazi a Floris e Santoro si accresceva la faziosità del telegiornale di Minzolini creandogli una "coda" rafforzativa. Anche su questo terreno, però, è difficile condurre battaglie credibili se non è sul tappeto un´ipotesi elementare di riforma della Rai che la ponga al riparo sempre, qualunque sia il governo, da guasti come questi. Per non parlare naturalmente del conflitto di interessi: ricordando però che entrambi i nodi sono stati colpevolmente lasciati marcire dal centrosinistra negli anni in cui ha governato.

Infine, è difficile dare sbocchi alla ripresa del protagonismo collettivo, che pur si è manifestata, senza delineare scenari convincenti per il futuro. Si pensi, per fare l´esempio più recente, alla protesta dei lavoratori precari: difficile che possa ampliarsi e trovare continuità se non prende corpo in sede politica una proposta concreta, capace di raccogliere esigenze e ipotesi –pur diverse fra loro- che sono state avanzate anche nei giorni scorsi.

Sono solo alcuni esempi ma rimandano a un elemento centrale: la necessità di verificare sin da subito se è possibile costruire un terreno comune alle differenti e non omogenee "anime" e forze politiche del Paese realmente convinte che occorra voltare pagina prima che sia troppo tardi.

Capisco sempre meno quel che accade nel nostro paese. La domanda è: a che punto è la dissoluzione del sistema democratico in Italia? La risposta è decisiva anche per lo svolgimento successivo del discorso. Riformulo più circostanziatamente la domanda: quel che sta accadendo è frutto di una lotta politica «normale», nel rispetto sostanziale delle regole, anche se con qualche effetto perverso, e tale dunque da poter dare luogo, nel momento a ciò delegato, ad un mutamento della maggioranza parlamentare e dunque del governo?

Oppure si tratta di una crisi strutturale del sistema, uno snaturamento radicale delle regole in nome della cosiddetta «sovranità popolare», la fine della separazione dei poteri, la mortificazione di ogni forma di «pubblico» (scuola, giustizia, forze armate, forze dell'ordine, apparati dello stato, ecc.), e in ultima analisi la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire?

Io propendo per la seconda ipotesi (sarei davvero lieto, anche a tutela della mia turbata tranquillità interiore, se qualcuno dei molti autorevoli commentatori abituati da anni a pietiner sur place, mi persuadesse, - ma con seri argomenti - del contrario). Trovo perciò sempre più insensato, e per molti versi disdicevole, che ci si indigni e ci si adiri per i semplici «vaff...» lanciati da un Ministro al Presidente della Camera, quando è evidente che si tratta soltanto delle ovvie e necessarie increspature superficiali, al massimo i segnali premonitori, del mare d'immondizia sottostante, che, invece d'essere aggredito ed eliminato, continua come a Napoli a dilagare.

Se le cose invece stanno come dico io, ne scaturisce di conseguenza una seconda domanda: quand'è che un sistema democratico, preoccupato della propria sopravvivenza, reagisce per mettere fine al gioco che lo distrugge, - o autodistrugge? Di esempi eloquenti in questo senso la storia, purtroppo, ce ne ha accumulati parecchi.

Chi avrebbe avuto qualcosa da dire sul piano storico e politico se Vittorio Emanuele III, nell'autunno del 1922, avesse schierato l'Armata a impedire la marcia su Roma delle milizie fasciste; o se Hinderburg nel gennaio 1933 avesse continuato ostinatamente a negare, come aveva fatto in precedenza, il cancellierato a Adolf Hitler, chiedendo alla Reichswehr di far rispettare la sua decisione?

C'è sempre un momento nella storia delle democrazie in cui esse collassano più per propria debolezza che per la forza altrui, anche se, ovviamente, la forza altrui serve soprattutto a svelare le debolezze della democrazia e a renderle irrimediabili (la collusione di Vittorio Emanuele, la stanchezza premortuaria di Hinderburg).

Le democrazie, se collassano, non collassano sempre per le stesse ragioni e con i medesimi modi. Il tempo, poi, ne inventa sempre di nuove, e l'Italia, come si sa e come si torna oggi a vedere, è fervida incubatrice di tali mortifere esperienze. Oggi in Italia accade di nuovo perché un gruppo affaristico-delinquenziale ha preso il potere (si pensi a cosa ha significato non affrontare il «conflitto di interessi» quando si poteva!) e può contare oggi su di una maggioranza parlamentare corrotta al punto che sarebbe disposta a votare che gli asini volano se il Capo glielo chiedesse. I mezzi del Capo sono in ogni caso di tali dimensioni da allargare ogni giorno l'area della corruzione, al centro come in periferia: l'anormalità della situazione è tale che rebus sic stantibus, i margini del consenso alla lobby affaristico-delinquenziale all'interno delle istituzioni parlamentari, invece di diminuire, come sarebbe lecito aspettarsi, aumentano.

E' stata fatta la prova di arrestare il degrado democratico per la via parlamentare, e si è visto che è fallita (aumentando anche con questa esperienza vertiginosamente i rischi del degrado).

La situazione, dunque, è più complessa e difficile, anche se apparentemente meno tragica: si potrebbe dire che oggi la democrazia in Italia si dissolve per via democratica, il tarlo è dentro, non fuori.

Se le cose stanno così, la domanda è: cosa si fa in un caso del genere, in cui la democrazia si annulla da sè invece che per una brutale spinta esterna? Di sicuro l'alternativa che si presenta è: o si lascia che le cose vadano per il loro verso onde garantire il rispetto formale delle regole democratiche (per es., l'esistenza di una maggioranza parlamentare tetragona a ogni dubbio e disponibile ad ogni vergogna e ogni malaffare); oppure si preferisce incidere il bubbone, nel rispetto dei valori democratici superiori (ripeto: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, la difesa e la tutela del «pubblico» in tutte le sue forme, la prospettiva, che deve restare sempre presente, dell'alternanza di governo), chiudendo di forza questa fase esattamente allo scopo di aprirne subito dopo un'altra tutta diversa.

Io non avrei dubbi: è arrivato in Italia quel momento fatale in cui, se non si arresta il processo e si torna indietro, non resta che correre senza più rimedi né ostacoli verso il precipizio. Come?

Dico subito che mi sembrerebbe incongrua una prova di forza dal basso, per la quale non esistono le condizioni, o, ammesso che esistano, porterebbero a esiti catastrofici. Certo, la pressione della parte sana del paese è una fattore indispensabile del processo, ma, come gli ultimi mesi hanno abbondantemente dimostrato, non sufficiente.

Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d'emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d'autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d'interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l'Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.

Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole. Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando. Se non saranno colte, la storia si ripeterà. E se si ripeterà, non ci resterà che dolercene. Ma in questo genere di cose, ci se ne può dolere, solo quando ormai è diventato inutile farlo. Dio non voglia che, quando fra due o tre anni lo sapremo con definitiva certezza (insomma: l'Italia del '24, la Germania del febbraio '33), non ci resti che dolercene.

Dopo il secolo dei totalitarismi, un nuovo mostro tirannico l’individualismo senza freni che distrugge la società.



Perché un potere sia legittimo, non basta sapere com’è stato conquistato (ad esempio con libere elezioni o un colpo di Stato), occorre ancora vedere in che modo viene esercitato. Fra poco saranno tre secoli dacché Montesquieu ha formulato una regola per guidare il nostro giudizio: «Ogni potere senza limiti non può essere legittimo». Le esperienze totalitarie del XX secolo ci hanno resi particolarmente sensibili ai misfatti di un potere statale illimitato, in grado di controllore ogni atto di ogni cittadino.

In Europa questi regimi appartengono al passato ma, nei Paesi democratici, restiamo sensibili alle interferenze del governo negli affari giudiziari o nella vita dei media, perché queste hanno come effetto la soppressione di ogni limite posto al suo potere. I ripetuti attacchi del Presidente francese o del premier italiano ai magistrati e ai giornalisti sono una dimostrazione di questo pericolo. Tuttavia lo Stato non è l’unico a detenere poteri all’interno di una società. All’inizio di questo XXI secolo, in Occidente, lo Stato ha perso buona parte del suo prestigio, mentre è diventato una minaccia l’ampio potere che detengono alcuni individui, o gruppi di individui. Eppure questa minaccia passa inosservata, perché questo potere si orna di un bel nome, di cui tutti si fanno forti: libertà. La libertà individuale è un valore in crescita, i difensori del bene comune oggi sembrano arcaici.

Come si sia prodotto questo capovolgimento, lo si vede bene nei Paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est. L’interesse collettivo oggi è sospetto: per nascondere le sue turpitudini, il regime precedente l’aveva invocato così spesso che più nessuno lo prende sul serio, lo si considera una maschera ipocrita. Se il solo motore del comportamento è in ogni caso la ricerca del profitto e la sete di potere, se la lotta senza pietà e la sopravvivenza del più adatto sono le dure leggi dell’esistenza, tanto vale smetterla di fingere e accettare apertamente la legge della giungla. Questa rassegnazione spiega perché gli ex burocrati comunisti abbiano saputo rivestire, con una facilità sconcertante, gli abiti nuovi dell’ultraliberismo.

A migliaia di chilometri di lì, negli Stati Uniti, in un contesto storico completamente diverso, si è sviluppato da poco il movimento del Tea Party, il cui programma inneggia alla libertà illimitata degli individui e rifiuta qualunque controllo del governo: esige di ridurre drasticamente le tasse e qualunque altra forma di redistribuzione delle ricchezze. Le sole spese comuni accettate riguardano l’esercito e la polizia, cioè ancora la sicurezza degli individui. Chiunque si opponga a questa visione del mondo viene trattato da criptocomunista! Il paradosso è che questa visione si rifà alla religione cristiana, mentre questa, in accordo con le altre grandi tradizioni spirituali, raccomanda di curarsi dei deboli e dei miserabili.

Si passa, in questi casi, da un estremo all’altro, dal tutto-Stato totalitario al tutto-individuo ultraliberale, da un regime liberticida a un altro, di spirito «sociocida», per così dire. Ora il principio democratico vuole che tutti i poteri siano limitati: non solo quelli degli Stati, ma anche quelli degli individui, anche quando rivestono i vecchi abiti della libertà. La libertà delle galline di attaccare la volpe è uno scherzo, perché non ne hanno la capacità: la libertà della volpe è pericolosa perché è la più forte. Attraverso le leggi e le norme che stabilisce, il popolo sovrano ha tutto il diritto di restringere le libertà. Questa limitazione non tocca allo stesso modo tutta la popolazione: idealmente, limita coloro che hanno già molto potere e protegge chi ne ha molto poco.

Il potere economico è il primo dei poteri nelle mani degli individui. Lo scopo di un’impresa è generare profitti, senza i quali è condannata a sparire. Ma al di fuori dei loro interessi particolari, gli abitanti di un Paese hanno anche interessi comuni, ai quali le imprese non contribuiscono spontaneamente. Tocca allo Stato liberare le risorse necessarie a prendersi cura dell’esercito e della polizia, dell’educazione e della salute, dell’apparato giudiziario e delle infrastrutture. O della protezione della natura: la famosa mano invisibile attribuita ad Adam Smith non serve a molto, in questi casi. Lo si è visto con la marea nera nel Golfo del Messico, nella primavera 2010: lasciate senza controllo, le compagnie petrolifere cercano i materiali da costruzione poco costosi e dunque poco affidabili. Di fronte allo smisurato potere economico di individui o di gruppi di individui, il potere politico si rivela spesso troppo debole.

La libertà di espressione a volte viene presentata come il fondamento della democrazia, e per questa ragione non deve conoscere freni. Ma si può dire che è indipendente dal potere di cui dispone? Non basta avere il diritto di esprimersi, occorre anche averne la possibilità; se non c’è, questa «libertà» non è che una parola vuota. Tutte le informazioni, tutte le opinioni non vengono accettate con la stessa facilità nei grandi media. Ora la libera espressione dei potenti può avere conseguenze funeste per i senza-voce: viviamo in uno stesso mondo. Se si ha la libertà di dire che tutti gli arabi sono degli islamisti non assimilabili, essi non hanno più quella di trovare lavoro e neppure di camminare per strada senza essere controllati.

La parola pubblica, un potere tra gli altri, a volte deve essere limitata. Dove trovare il criterio che permetta di distinguere le limitazioni buone da quelle cattive? Soprattutto nel rapporto di potere tra chi parla e colui di cui si parla. Non si ha lo stesso merito se si combattono i potenti del momento o si indica al risentimento popolare un capro espiatorio. Un organo di stampa è infinitamente più debole dello Stato, non c’è dunque ragione di limitare la sua libertà di espressione quando lo critica, purché la metta al servizio della libertà.

Quando il sito Mediapart rivela una collusione tra poteri economici e responsabili politici, il suo gesto non ha nulla di «fascista», qualunque cosa dicano quelli che sono presi di mira. Le «fughe di notizie» di WikiLeaks nulla hanno di totalitario: i regimi comunisti rendevano trasparente la vita dei deboli, non quella dello Stato. In compenso, un organo di stampa è più potente di un individuo e il «linciaggio mediatico» è un abuso di potere.

I difensori della liberà d’espressione illimitata ignorano la distinzione tra potenti e impotenti, il che permette loro di coprirsi da soli di alloro. Il redattore del quotidiano danese Jyllands-Posten, che nel 2005 aveva pubblicato le caricature di Maometto, cinque anni dopo torna sulla questione e modestamente si paragona agli eretici del Medioevo bruciati sul rogo, a Voltaire nemico della Chiesa onnipotente o ai dissidenti oppressi dalla polizia sovietica. Decisamente la figura della vittima esercita oggi un’attrazione irresistibile! Ciò facendo, il giornalista dimentica che quei coraggiosi praticanti della libertà di espressione si battevano contro i detentori del potere spirituale e temporale del loro tempo, non contro una minoranza discriminata. Porre limiti alla libertà di espressione non significa sostenere la censura, ma fare appello alla responsabilità dei padroni dei media. La tirannia degli individui è certamente meno sanguinosa di quella degli Stati; eppure anch’essa è un ostacolo a una vita comune soddisfacente. Nulla ci obbliga a rinchiuderci nella scelta tra «tutto-Stato» e «tutto-individuo»: abbiamo bisogno di difenderli entrambi, e che ciascuno limiti gli abusi dell’altro.

[Traduzione di Marina Verna]

Il Presidente Napolitano, che quando parla d’Europa usa veder lontano e ha sguardo profetico, ha fatto capire nel giorni scorsi quel che più le manca, oggi: il senso dell’emergenza, quando una crisi vasta s’abbatte su di essa non occasionalmente ma durevolmente; l’incapacità di cogliere queste occasioni per fare passi avanti nell’Unione anziché perdersi in «ritorsioni, dispetti, divisioni, separazioni». Son settimane che ci si sta disperdendo così, attorno all’arrivo in Italia di immigrati dal Sud del Mediterraneo. Numericamente l’afflusso è ben minore di quello conosciuto dagli europei nelle guerre balcaniche, ma i tempi sono cambiati. Lo sconquasso economico li ha resi più fragili, impauriti, rancorosi verso le istituzioni comunitarie e le sue leggi.

Durante il conflitto in Kosovo la Germania accolse oltre 500mila profughi, e nessuno accusò l’Europa o si sentì solo come si sente Roma. Nessuno disse, come Berlusconi sabato a Lampedusa: «Se non fosse possibile arrivare a una visione comune, meglio dividersi». O come Maroni, ieri dopo il vertice europeo dei ministri dell’Interno che ha isolato l’Italia: «Mi chiedo se ha senso rimanere nell’Unione: meglio soli che male accompagnati». La sordità alle parole di Napolitano è totale.

La democrazia stessa, che contraddistingue gli Stati europei e spinge i governi a preoccuparsi più dell’applauso immediato che della politica più saggia, si trasforma da farmaco in veleno. Di qui la sensazione che l’Unione non sia all’altezza: che viva le onde migratorie come emergenza temporanea, non come profonda mutazione. Governi e classi dirigenti sono schiavi del consenso democratico anziché esserne padroni e pedagoghi con visioni lunghe. Non a caso abbiamo parlato di spirito profetico a proposito di Napolitano. È la schiavitù del consenso a secernere dispetti, rancori, furberie. Tra le furberie che ci hanno isolato c’è la protezione temporanea eccezionale che il nostro governo ha concesso a 23.000 immigrati. La protezione è prevista dal Trattato di Schengen, ma solo per profughi scampati a guerre e persecuzioni: non vale per i tunisini, come ci hanno ricordato ieri la Commissione e gli Stati alleati. Non è violando le regole che l’Italia suscita solidarietà. Può solo acutizzare le diffidenze: un altro veleno che mina l’Unione.

Per questo vale la pena soffermarsi sul significato, in politica, dello spirito profetico. Vuol dire guardare a distanza, intuire le future insidie del presente, ma innanzitutto comporta un’operazione verità: è dire le cose come stanno, non come ce le raccontiamo e le raccontiamo per turlupinare, istupidire, e inacidire gli elettori. Di questo non è capace Berlusconi ma neanche gli altri Stati e le istituzioni europee: i primi perché sempre alle prese con scadenze elettorali, le seconde perché intimidite dalle resistenze nazionali. La lentezza con cui si risponde alle rivoluzioni arabe non è la causa ma l’effetto di questi mali.

La prima verità non detta è quasi banale, e concerne l’intervento in Libia e il nostro voler pesare sui presenti sconvolgimenti arabi e musulmani. Condotta con l’intento di apparire attivi, la guerra sta confermando il contrario: una grande immobilità e vuoto di idee. È un attivarsi magari sensato all’inizio, ma che mai ha calcolato le conseguenze (compresa un’eventuale vittoria di Gheddafi) sui paesi arabi-africani e sui nostri. Fra le conseguenze c’è l’esodo di popoli. Un esodo da assumere, se davvero vogliamo esserci in quel che lì si sta facendo. Invece siamo entrati in guerra senza pensarci, né prepararci.

La seconda verità, non meno cruciale, riguarda l’Europa e i suoi Stati. L’occultamento è in questo caso massiccio, ed è il motivo per cui il capro espiatorio della crisi migratoria non è l’Italia come gridano i nostri ministri ma – se non si inizia a parlar chiaro – l’Unione stessa. L’evidenza negata è che da quando vige il Trattato di Lisbona, molte cose sono cambiate nell’Unione. Le politiche di immigrazione erano in gran parte nazionali, prima del Trattato. Ora sono di competenza comunitaria, e la sovranità è passata all’Unione in quanto tale. Questo anche se agli Stati vengono lasciati, ambiguamente, ampli spazi di manovra, in particolare sul «volume degli ingressi da paesi terzi».

Risultato: l’Unione, anche perché guidata a Bruxelles da un Presidente debole, prono agli Stati, non sa che fare della propria sovranità. Non ha una politica verso i paesi arabi, di cooperazione e sviluppo. Tuttora non ha norme chiare sull’asilo, sull’integrazione dei migranti, né possiede il corpo comune di polizia di frontiera che aveva promesso. Ma soprattutto, non ha le risorse per tale politica perché gli Stati gliele negano, riducendo la sovranità delegata a una fodera senza spada. Per questo alcuni spiriti preveggenti (l’ex ministro socialista Vauzelle, il presidente del consiglio italiano del Movimento europeo Virgilio Dastoli) propongono una cooperazione euro-araba gestita da un’Autorità stile Ceca (la prima Comunità del carbone e dell’acciaio). Come allora viviamo una Grande Trasformazione, e Monnet resta un lume: «Gli uomini sono necessari al cambiamento, le istituzioni servono a farlo vivere».

Se il Trattato di Lisbona significasse qualcosa, non dovrebbero essere Berlusconi e Frattini a negoziare con Tunisia o Egitto, con Lega araba o Unione africana. Dovrebbero essere il commissario all’immigrazione Cecilia Malmström e il rappresentante della politica estera Catherine Ashton. Resta che per negoziare ci vogliono progetti, iniziative: e questi mancano perché mancano risorse comuni. La condotta dei governi europei è schizoide, e tanto più menzognera: gli Stati hanno avuto la preveggenza di delegare all’Europa una parte consistente di sovranità, su immigrazione e altre politiche, ma fanno finta di non averlo fatto, e ora accusano l’Europa come se gli attori del Mediterraneo fossero ancora Stati-nazione autosufficienti.

La terza operazione-verità, fondamentale, ha come oggetto l’immigrazione e il multiculturalismo. È forse il terreno dove il mentire è più diffuso, tra i governanti, essendo legato alla questione della democrazia, del consenso, della mancata pedagogia, degli annunci diseducativi. Risale all’ottobre scorso la dichiarazione di Angela Merkel, secondo cui il multiculturalismo ha fatto fallimento. Poco dopo, il 5 febbraio in una conferenza a Monaco sulla sicurezza, il premier britannico Cameron ha decretato la sconfitta di trent’anni di dottrina multiculturale. Il fatto è che il multiculturalismo non è una dottrina, un’opinione. È un mero dato di fatto: in nazioni da tempo multietniche come Francia Inghilterra o Germania, e adesso anche in Italia e nei paesi scandinavi. L’operazione verità non consiste nel proclamare fallito il multiculturalismo: se un dato di fatto esiste, fallisce solo se se estirpi o assimili forzatamente i diversi. Se fossero veritieri, i governi dovrebbero dire: il multiculturalismo c’è già, solo che noi – Stati sovrani per finta – non abbiamo saputo né sappiamo governarlo.

Dire la verità sull’immigrazione è essenziale per l’Europa perché solo in tal modo essa può osare e fare piani sul futuro. Urge cominciare a dire quanti immigrati saranno necessari nei prossimi 20 anni, e quali risorse dovranno esser mobilitate: sia per mitigare gli arrivi cooperando con i paesi africani o arabi, sia edificando politiche di inclusione per gli immigrati economici e per i profughi (la frontiera spesso è labile: la povertà inflitta è una forma di guerra).

Tutto questo costerà soldi, immaginazione, pensiero durevole. Comporterà, non per ultimo, un ripensamento della democrazia. Ci sono cose che non si possono fare perché maturano nei tempi lunghi e l’elettorato capisce solo i risultati immediati, spiega l’economista Raghuram Rajan in un articolo magistrale sulle crisi del debito ( Project Syndacate, 9 aprile 2011). Il bisogno di immigrati che avremo fra qualche decennio in un’Europa che invecchia è, paradossalmente, quello che dà forza ai nazional-populisti: in Italia, Francia, Belgio, Olanda, Ungheria, Svezia, Finlandia. Il dilemma delle democrazie è questo, oggi. Esso costringe governanti e governati a fare quel che non vogliono: smettere l’inganno delle sovranità nazionali, guardare alto e lontano, insomma pensare. E far politica, ma con lo spirito profetico che vede la possibile rovina (il «passo indietro» paventato da Napolitano) e la via d’uscita non meno possibile, se è vero che il futuro non cessa d’essere aperto.

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