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Francesco Erbani. Dal Pirellone all´Eur tolte le tutele palazzi storici a rischio svendita

Salvatore Settis. La privatizzazione di un patrimonio

Dal Pirellone all´Eur tolte le tutele palazzi storici a rischio svendita

di Francesco Erbani

Un comma cambia la legge sugli edifici fatti tra il 1941 e il ´61 - Molte fra le migliori architetture del Novecento risalgono proprio al dopoguerra

Da cinquanta a settant´anni. Ora dovranno avere vent´anni di più gli edifici pubblici in Italia se vogliono godere di una particolare protezione. E non essere venduti oppure manipolati. Lo stabilisce un minuscolo comma di un articolo del Decreto Sviluppo, lo sterminato provvedimento che contiene dalla moratoria nucleare alla concessione delle spiagge. E così, anche se firmato da Pier Luigi Nervi, come il Palazzo dello Sport a Roma o da Gio Ponti, come il grattacielo Pirelli, da Giancarlo De Carlo o da Luigi Figini e Gino Pollini, da Mario Ridolfi o da Franco Albini, un edificio pubblico costruito fra il 1941 e il 1961 rischia un po´ di più rispetto a prima del decreto.

La norma è complessa, scritta in un italiano aggrovigliato. Sono in allarme le soprintendenze, ma anche Italia Nostra, gli Archivi di architettura contemporanea e Docomono, l´associazione che salvaguarda edifici e complessi urbani moderni. L´attenzione è alta: chi ha infilato questo comma nel grande convoglio del decreto sembra voglia rendere più agevole la vendita di edifici che altrimenti, prima di passare di mano, dovrebbero essere sottoposti al vaglio della soprintendenza. Ma i pericoli sono anche altri: restauri poco accorti, manomissioni, fino alla demolizione.

L´articolo («Costruzione delle opere pubbliche») dovrebbe modificare il Codice dei Beni culturali e del paesaggio del 2004. La filosofia è quella di «riconoscere massima attuazione al federalismo demaniale e di semplificare i procedimenti amministrativi relativi a interventi edilizi». Deregulation spinta, dunque. Nell´articolo si aggiunge che gli snellimenti sono possibili nei comuni che si adeguano ai piani paesaggistici regionali. Norma equivoca, fanno notare in alcune soprintendenze: i piani paesaggistici c´entrano poco con questo genere di edifici. Inoltre, si aggiunge, la separazione fra beni pubblici e privati è culturalmente poco sensata e si spiega solo perché rende più agevole la vendita dei primi.

Una parte del migliore patrimonio novecentesco potrebbe essere meno salvaguardato. Qualche anno fa un gruppo coordinato dallo storico dell´architettura Piero Ostilio Rossi propose una schedatura degli edifici romani novecenteschi di pregio. Molti quelli realizzati proprio fra il ´41 e il ´61: il Palazzo dei Congressi dell´Eur di Adalberto Libera, il Palazzo che ospita la Fao, il Monumento delle Fosse Ardeatine, la Stazione Termini e poi il Palazzo dello Sport, il Palazzetto dello Sport e lo Stadio Flaminio di Nervi. Anche il ministero ha in corso un censimento: dal dopoguerra al 2005 sono quasi 300 in Italia gli edifici di rilevante valore. Spiega Carlo Olmo, professore a Torino: «L´architettura italiana fra la fine della guerra e gli anni Cinquanta è un riferimento per altri paesi». Il Novecento è il secolo nel quale è sorto dall´80 al 90 per cento di tutto quel che oggi vediamo costruito. E nel secondo dopoguerra la speculazione ha dettato le regole per la crescita delle città e ha prodotto pessime architetture. Ma, sottolinea Olmo, in quei vent´anni si realizzano edifici e quartieri pubblici «che sono una maglia fondamentale nel tessuto cittadino e la cui manomissione produce squilibri nell´organismo urbano». Singoli edifici, dunque, scuole, stazioni, ponti, ma anche edilizia popolare come il Qt8 a Milano di Piero Bottoni o gli interventi dell´Ina-Casa (350 mila alloggi dal 1949 al 1963), dal Tiburtino a Roma (dove lavorarono Ridolfi, Carlo Aymonino, Carlo Melograni, Ludovico Quaroni e altri) alla Falchera di Torino (Giovanni Astengo) a Cesate (Albini, Ignazio Gardella e i BBPR di Belgiojoso, Peressutti e Rogers), dove oltre alle case ci sono chiese, asili e altri manufatti pubblici. Su buona parte di questi edifici la tutela sarà da ora più debole.



La privatizzazione di un patrimonio

di Salvatore Settis

Lo stesso decreto rende meno vincolanti le autorizzazioni paesaggistiche

Contrabbandata fra le «Disposizioni urgenti per l´economia» del decreto-legge 70 del 13 maggio, prosegue l´escalation del governo contro la tutela del paesaggio e dell´ambiente, contro la Costituzione che ne è (o dovrebbe essere) garanzia suprema. La cannibalizzazione del territorio non si limita alle disposizioni "ammazza coste" che di fatto consegnano ai privati ampie e preziose porzioni di territorio che appartengono a noi tutti. Nel decreto c´è di più, e di peggio. Per esempio, l´articolo 4 porta a 70 anni la soglia «per la presunzione di interesse culturale degli immobili pubblici», che fu fissata a 50 anni dalla legge Nasi del 1902 e tale è rimasta fino al Codice Urbani del 2004. Che cosa può voler dire una differenza di vent´anni? Semplice: un edificio del 1943 come il Palazzo della Civiltà del Lavoro a Roma-Eur (il "Colosseo quadrato"), oggi presuntivamente di interesse culturale, con la nuova norma diventa disponibile per alienazioni, cartolarizzazioni, ristrutturazioni. Edifici degli anni Cinquanta potrebbero essere privatizzati senza verifiche dal "tana-libera-tutto" del nuovo decreto.

Ci vuol poco a fiutare dietro questa norma l´ombra sinistra del "federalismo demaniale", che consegna a regioni e comuni le proprietà del demanio nazionale (cioè di noi tutti), invitando gli enti locali a "valorizzare" chiese e palazzi, cioè a venderli, anzi (come già si sta vedendo) a svenderli, privatizzando al ribasso. E infatti il comma 16 dello stesso articolo agita la bandiera del federalismo demaniale per coprire con una spolveratina di zucchero un altro boccone avvelenato. Il limite per la verifica di interesse culturale viene portato a settant´anni non solo per gli immobili pubblici, ma anche per quelli degli enti ecclesiastici ed assimilati (come il Pio Albergo Trivulzio), con conseguente certa dispersione degli arredi. Si aprono così le danze di ulteriori affari per gli amici degli amici, incrementando festeggiamenti e brindisi nelle botteghe di mercanti pronti al saccheggio.

Come scusante di altre privatizzazioni si invocò in passato la pubblica vigilanza su edifici di interesse culturale, poiché una norma già presente nella legge Bottai del 1939 e ripresa dal Codice Urbani (articolo 59) prescrive che il proprietario debba comunicare al Ministero «ogni atto che ne trasmetta in tutto o in parte la detenzione». Niente paura, il governo ha pensato anche a questo: questa norma viene semplicemente soppressa (art. 4, c. 16, nr. 4 del decreto), cestinando la fastidiosa ipotesi che le Soprintendenze, sapendo chi ha in mano un immobile storico, possano verificarne la conservazione. Potremo così sventrare impunemente palazzi del Seicento, trasformare chiese in discoteche e conventi in supermercati o condominii, senza che nessuno ci metta il naso. Già depotenziata per l´assenza di risorse e il calo di personale, la pubblica amministrazione della tutela viene in tal modo inceppata rendendo di fatto impossibile ogni vigilanza.

Il punto più basso del decreto-legge è però un altro. Nello stesso art. 4 c. 16, e sempre «per riconoscere massima attuazione al federalismo demaniale», il decreto introduce una "semplificazione" che capovolge la lettera e il senso del Codice Urbani su un punto di capitale importanza, la tutela del paesaggio. Secondo il Codice (art. 146, c. 5), il parere del Soprintendente sulle autorizzazioni paesaggistiche è "vincolante" in prima applicazione, ma diventa solo "obbligatorio" una volta che i vincoli paesistici siano stati incorporati negli strumenti urbanistici e di piano. Applicando al parere del Soprintendente il silenzio-assenso, il decreto cancella anche questa salvaguardia. Viene così calpestato il principio (sempre affermato dalla legge 241 del 1990 ad oggi) secondo cui il silenzio-assenso non può mai riguardare beni e interessi di valore costituzionale primario come il patrimonio storico-artistico e il paesaggio. Principio riaffermato dalla Corte Costituzionale, secondo cui in materia ambientale e paesaggistica «il silenzio dell´Amministrazione preposta non può aver valore di assenso» (sentenze 26 del 1996 e 404 del 1997).

La nuova norma, se non fermata in tempo, avrebbe natura eversiva, poiché capovolge la gerarchia fra un principio fondamentale della Costituzione (art. 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione») e la libertà d´impresa che l´art. 41 garantisce purché non sia «in contrasto con l´utilità sociale», nel nostro caso rappresentata dalla conoscenza, tutela e fruizione pubblica del patrimonio culturale e del paesaggio. Si darebbe così per approvata la modifica dell´art. 41 periodicamente sbandierata dal governo e appoggiata da Confindustria, ma neppur discussa dalle Camere, secondo cui «gli interventi regolatori dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali che riguardano le attività economiche e sociali si informano al controllo ex post». In questa proposta di controllo postumo, che equivarrebbe di fatto all´azzeramento di ogni controllo, è la radice del silenzio-assenso elevato a principio assoluto: in una Costituzione immaginaria, non nella Carta vigente, la sola a cui dobbiamo rigorosa fedeltà.

Scardinare i principi della tutela e dell´utilità sociale è una bomba a orologeria sganciata sulla Costituzione, in cui questi principi sono saldamente ancorati a una sapiente architettura di valori. Si legano al forte richiamo al «pieno sviluppo della personalità umana» (art. 3), coi connessi valori di libertà e di eguaglianza dei cittadini; si legano ai «diritti inviolabili dell´uomo» connessi alle «formazioni sociali dove si svolge la sua personalità» e ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2). La convergenza fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute «come fondamentale diritto dell´individuo e interesse della collettività» (art. 32) ha inoltre fondato la tutela dell´ambiente come valore costituzionale primario. In questo sistema di valori a difesa del cittadino, la priorità dell´interesse pubblico non cancella, ma limita i diritti della proprietà privata.

Le cosiddette "disposizioni urgenti per l´economia" non sono pensate in beneficio del Paese, ma di pochi affaristi pronti a spartirsi il bottino, sperperando un portafoglio proprietario, quello dei beni pubblici (come le coste e le spiagge) e degli immobili pubblici, ma anche dei paesaggi e dei monumenti soggetti a tutela, devastato da uno sgangherato "federalismo demaniale". Esso non è, come ha detto il presidente del Veneto Zaia, la «restituzione ai legittimi proprietari» di beni indebitamente sottratti da uno Stato-ladrone. Legittimi proprietari dei beni demaniali e dei beni pubblici (come l´acqua su cui siamo chiamati ora a votare) sono tutti gli italiani, "ladro" è semmai chi ci borseggia inscenando lo spezzatino del federalismo, in nome del quale nascono anche le norme più dirompenti del recente decreto-legge. Prima che esso venga convertito in legge, c´è tempo e modo di porvi rimedio.

Il sistema economico si è stancato delle promesse rimaste sulla lavagna di Vespa. Il potere di seduzione del berlusconismo è finito. Il cardinale parla di «primavera». una bella novità

«La destra di Berlusconi e della Moratti è disperata e non ho alcun dubbio che fino all’ultimo momento userà l’insulto, l’inganno e la menzogna, cercherà la provocazione per provare a cambiare il risultato elettorale». Piero Bassetti non è un estremista, nè un frequentatore di centri sociali o un radicale islamico: viene da una famiglia di industriali, è sempre stato democristiano, idealizzava le regioni e il federalismo quando ancora Umberto Bossi suonava le canzoni degli Inti Illimani e frequentava le scuole per corrispondenza.

Bassetti e i suoi amici, assai moderati, del gruppo «Oltre il 51%» si sono schierati con Giuliano Pisapia e questa sera presentano le loro proposte di governo della città, «Milano civica, Milano riparte» con il contributo anche di esponenti del Terzo Polo. Bassetti, cosa vede in questi ultimi giorni di campagna elettorale? «La destra è allo sbando, ma pericolosa. Lo dimostra la somma di assurdità sparate in questi giorni: i ministeri a Milano, il condono delle multe, la ventilata “No tax area”. Sono proposte che non stanno nè in cielo nè in terra. Però dobbiamo stare attenti».

Perchè? Cosa teme? «Sentono la sconfitta che si avvicina, ma non sono diventati tutti scemi. Mi preoccupa la loro voglia di cercare la provocazione. Basta vedere Berlusconi in visita in ospedale alla signora caduta al mercato, oppure la tecnica Sallusti che titola sul Giornale “Brigate Pisapia”. Sono segni preoccupanti, mi aspetto di tutto da questi signori».

Milano è pronta a dare una spallata a Berlusconi? «Penso proprio di sì. Ci sono novità molto interessanti. Prima di tutto la posizione della Chiesa ambrosiana. Ancora una volta la Chiesa esercita la sua vocazione storica, di accompagnare con responsabilità il cambiamento in Lombardia. È di grande significato che il cardinale Tettamanzi parli di “una primavera per la città”. La Chiesa ambrosiana non è mai mancata nei momenti storici e difficili, come dopo Bava Beccaris o come nel 1945, alla caduta del fascismo. Il mondo cattolico ha preso coraggio e sente di poter contribuire al cambiamento».

E i suoi amici industriali, quel che resta della famosa borghesia milanese, sono pronti a tradire il berlusconismo dopo averlo apprezzato e condiviso? «Sì, questa vicenda segnerà un passo avanti della democrazia italiana e anche le imprese hanno capito che non possono abdicare. Soprattutto il tessuto economico e gli imprenditori si sono stancati di Berlusconi, Milano si rende conto che il governo non ha fatto nulla per favorire le enormi potenzialità e occasioni di sviluppo della città. Milano è la sola glocal city a sud delle Alpi, è l’ unica città di grande dimensione capace di avere un rapporto con l’Europa e il mondo, ma le promesse di Berlusconi sono rimaste sulla lavagna di Bruno Vespa. Milano e le imprese non vogliono regali, ma un governo capace di accompagnare lo sviluppo, l’innovazione, le infrastrutture, i grandi progetti a partire dall’Expo».

Così gli imprenditori solo ora si sono accorti che Berlusconi non è credibile? Dove avete vissuto fino a oggi? «È vero, capisco la perplessità. Gli industriali, poveretti, ci hanno messo 17 anni per uscire dall’influenza di Berlusconi e del suo populismo televisivo, basato sul tifo. Il potere di seduzione del berlusconismo è stato forte e diffuso, ma oggi si è esaurito. Lo dimostra anche la freddezza delle Assise confindustriali. Siamo a un punto di svolta, ci possono essere ancora difficoltà ma se Berlusconi perde Milano si apre una nuova fase di speranza e di cambiamento per la città e per il Paese».

La sua scelta pubblica a favore di Pisapia non le ha provocato proteste o critiche da parte dei suoi amici imprenditori e moderati? «Quando stavo nella Dc e avevo certe posizioni per alcuni un po’ troppe aperte, di sinistra, mi capitava di essere criticato, c’era chi mi accusava di tradire le mie origini, la mia famiglia, i miei interessi. Ora che mi sono schierato pubblicamente contro Berlusconi ricevo solo telefonate di consenso e di appoggio».

C´è forse un giudice a Berlino? La giustizia trionfa e chi delinque è punito in modo esemplare? A prima vista sembrerebbe di sì. Le sanzioni oggi deliberate dall´Agcom sono tra le più severe disponibili per quell´organo: colpiscono nella misura massima Tg1 e Tg4 perché recidivi; e sono puniti in misura minore Tg2, Tg5 e Studio Aperto. Ora, l´atto di giustizia, per essere tale, dovrebbe punire chi delinque, risarcire l´offesa e ristabilire l´ordine turbato. Sono stati puniti i colpevoli? Vediamo.

A giudicare dalle reazioni e dai lamenti dei puniti sembrerebbe che un qualche effetto le misure l´abbiano avuto. Si leggano le parole amare che arrivano da Mediaset: siamo allibiti, dicono. E aggiungono che così si nega il diritto di informazione. Singolare argomento, su cui vale la pena di soffermarci. Le ragioni della sentenza sono fondate proprio sulla lesione al diritto dei telespettatori (cioè di tutti i cittadini) a una informazione corretta. Dunque da un lato e dall´altro quello che viene invocato è un grande principio costitutivo della libertà dei moderni. La libertà dell´informazione è stata concepita fin dal ´700 come la condizione fondamentale per la formazione di quel tribunale supremo che nelle costituzioni moderne ha preso il posto un tempo occupato dal giudizio di Dio: il tribunale dell´opinione pubblica, unico giudice dei potenti, termometro regolatore della salute politica di un paese. Ebbene la protesta di Mediaset è un rovesciamento della realtà – un altro, uno dei tanti. Perché quella che milioni di spettatori allibiti hanno visto all´opera il 20 maggio è stata una violenza alla libertà dell´informazione. Chi ha acceso i telegiornali si è trovato davanti a un atto di aperta, clamorosa violazione delle regole dell´informazione vigenti in un paese dalla costituzione democratico-liberale: nella forma, poiché di fatto si è trattato di messaggi a reti unificate, di quelli che in Italia sono riservati ai bilanci di fine anno del Presidente della Repubblica come espressione dell´unità della nazione; nella sostanza, perché tutti e cinque i canali si sono aperti senza filtro giornalistico alcuno allo stesso monologo propagandistico: e così hanno rivelato la loro vera natura di voce al servizio di un padrone incurante di ogni regola. L´offesa è stata gravissima.

È secondario chiederci che cosa abbia indotto il premier a quella uscita. In fondo, come sappiamo da tempo, il primo comandamento della sua religione dice che quel che non passa in televisione non esiste: e l´esperienza del paese in tutti questi anni ha dimostrato fin troppo a lungo che quel comandamento aveva un suo valore effettivo. Con quel monologo a reti unificate ha tentato di negare la realtà del risultato elettorale che il primo turno aveva rivelato e riportare l´orologio indietro, cancellando quel che era accaduto e quel che si preannunciava per il prossimo turno. E forse pensava che gli sarebbe andata bene anche stavolta. In fondo per anni l´informazione monopolizzata dal premier è stata un´impunita macchina del falso, per anni la realtà del paese, i suoi problemi veri, sono stati occultati. Abbiamo nel nostro passato una lunga serie di esempi di storie individuali e collettive stravolte o cancellate del tutto.

Ma restiamo alla sentenza dell´Agcom. Si tratta di capire se i cittadini possano sentirsi risarciti, cioè se quella sentenza colpisca veramente il colpevole. No, il colpevole non paga quasi nulla: quei soldi delle multe li paga il bilancio delle televisioni, cioè - per quanto riguarda la Rai - li paghiamo soprattutto noi cittadini. Si tratta anche di capire se l´ordine è stato ristabilito e la lesione riparata. Anche in questo caso la risposta è no. Ben altro ci vorrebbe: la libertà dell´informazione verrà ristabilita solo quando sarà cancellata l´anomalia del regime berlusconiano, una anomalia che è stata chiara ed evidente fin dall´inizio e che si chiama conflitto di interessi. Ma non possiamo trascurare il fatto realmente importante che è accaduto. La stessa dismisura di quello sproloquio ha rivelato proprio ciò che lo sproloquio voleva occultare e cancellare: il sentimento bruciante di una sconfitta, la scoperta che il velo calato dagli schermi televisivi del padrone in tutti questi anni si era lacerato. I risultati elettorali avevano informato il mago dell´immagine che nella sua città c´era una maggioranza che cominciava a svegliarsi dall´incantesimo. Ora, perché sia fatta veramente giustizia, si tratta di procedere nel risveglio. Sappiamo per lunga esperienza del passato che i processi di mutamento sono lenti, avvengono in profondità, sono impercettibili nel loro primo avvio: ma è nella natura dei rivolgimenti politici e sociali che nei loro inizi sia già scritta la storia che seguirà. Bisogna ora aspettare, con pazienza e con fiducia: la ferita inferta dal Cavaliere alle regole elettorali potrà forse essere giudicata dai cittadini nelle urne.

Un paese invecchiato, sfibrato.e sfiduciato. Un paese in ginocchio. È questa la radiografia dell'Italia berlusconizzata in cui crollano le aspettative di lavoro, i giovani cervelli fuggono all'estero,.quelli che restano conducono una vita precaria sostenuta dai.genitori che però stanno impoverendo.

Diminuisce il risparmio, persino la scolarizzazione è in caduta libera. Si lavora e si studia sempre di meno, non si fanno investimenti, si ammazza la ricerca. Ieri ce l'ha raccontato l'Istat, domenica l'abbiamo visto in una delle più efficaci puntate di Report, sabato è stata la volta del Censis.

Altro che luci e ombre, come goffamente sostiene, arrampicandosi su specchi insaponati,.qualche pierino in forza al governo: l'Italia è al collasso,.sempre più diseguale tra nord.e sud e tra ricchi e poveri, tra uomini e donne e tra lavoratori.(o aspiranti tali) indigeni e migranti. Certo, lo sapevamo,.ce l'ha raccontato qualche mese fa Marco Revelli nel suo ultimo libro Poveri noi. Il fatto grave è che non si vede inversione di tendenza; anzi la crisi, che ormai è anche sociale e culturale, si sta aggravando e il tunnel sembra sempre più lungo e scuro .

Questa debacle che ci getta nel sottoscala dell'Europa non è tutto «merito» di Berlusconi, ma nessun altro sarebbe riuscito meglio del telepredicatore delle paure in questo miracolo al rovescio. Con una politica economica dissennata che ha distrutto risorse intellettuali e materiali. E viene ancora a raccontarci che dovremmo avere paura dei comunisti, dei rom, dei minareti, dei centri sociali, quando è proprio da Berlusconi, dal suo governo e dalle sue politiche che dobbiamo guardarci. Già parlare di politica economica – per non dire industriale – è un eufemismo: Berlusconi lo sfrontato e Tremonti il contabile non hanno progetti per il paese, sanno solo tagliare, tutto tranne i sottosegretari, i capital games e i loro interessi.

Siamo rimasti uno dei pochi paesi in cui parlare di reddito di cittadinanza è una bestemmia, ci riempiono la testa con l'amore e la famiglia mentre sterilizzano l'amore (fare figli è un lusso per pochi) e immiseriscono l’ultimo ammortizzatore sociale per un paio di generazioni di giovani precarizzati o espulsi. Poi ci dicono che dobbiamo riprendere a consumare. Finalmente dal paese qualche segnale di vita è arrivato: dai giovani, dagli operai e dagli studenti che portano in piazza la loro dignità, e dalle urne, domenica prossima, potrebbe arrivare un secondo segnale generale: l'Italia ha paura, sì, ma di Berlusconi ed è pronta a liberarsene .

Palacinemapiù alto e «turistico»

di Enrico Tantucci

Un «nuovo» Palacinema, che si ricolleghi a livello infrastrutturale anche agli altri interventi di edilizia tutistica che stanno sorgendo al Lido, come quelli condotti da EstCapital, tra il Lungomare e l’Ospedale al Mare.

E’ l’indicazione che inizia a maturare - raccogliendo anche l’invito del ministro dei Beni Culturali Giancarlo Galan di un’idea nuova per andare avanti - anche dopo la Conferenza di Servizi di ieri che ha affrontato anche il problema delle bonifiche. «L’indicazione emersa è quella di fermare lo scavo del Palacinema alla profondità attuale - spiega il commissario Vincenzo Spaziante - rinunciando alla bonifica dell’amianto a profondità successive, tenendo presente anche che quello della presenza dell’amianto nel sottosuolo dell’isola è purtroppo un’emergenza ambientale che riguarda tutto il Lido, perché scavando è presente praticamente dappertutto. E’ ipotizzabile un rialzo in altezza di qualche metro del nuovo Palazzo, per recuperare parte della cubatura persa rinunciando alla parte interrata. Anche in quest’area, comunque realizzeremo attività compatibile con il rilancio della zona. Tra pochi giorni, anche con il sindaco, ci incontreremo con il ministro Galan per presentare le nuove proposte di modifica del progetto». L’idea che sembra prevalere è quella di tornare all’antico - pur con un appalto a costi più contenuti - che pensi a un collegamento organico con le altre infrastrutture turistiche presenti o in via di realizzazione, come appunto quelle che sta realizzando l’EstCapital di Gianfranco Mossetto. «Nonostante le difficoltà, che sono nazionali e non solo veneziane - spiega ancora Spaziante - andremo avanti con il progetto, collegando il nuovo Palazzo e la Sala Grande ai nuovi poli turistici che si stanno realizzando con l’operazione sull’ex Ospedale al Mare, sfruttando anche tutta la riqualificazione del Lungomare che è già prevista. La Mostra del Cinema da sola non basta e il Palacinena non può essere solo un’opera pubblica, ma deve anche essere capace di generare un indotto economico per giustificarsi».

Dolenti noto arrivano invece dalle manifestazioni d’interesse per l’acquisto dell’area della Favorita, dopo che il bando pubblico era andato deserto. «Abbiamo ricevuto tre manifestazioni d’interesse per la Favorita - spiega Spaziante – tra quelli quella simbolica dei comitati ambientalisti del Lido, ma sono tutte per cifre molto inferiori a quella della stima per l’area che era di circa 20 milioni di euro. Le valuteremo, ma è possibile che - visto che determinati limiti di edificabilità pe l’area della Favorita sono venuti meno - l’offerta di vendita sia riformulata per renderla più appetibile».

Via libera ieri dalla Conferenza di Servizi anche alla bonifica dell’area dell’isola della Certosa dove è prevista la realizzazione di una nuova darsena.

«La nuova darsena? Come la Giudecca»

Bettin: a San Nicolò una superficie di 52 ettari

di Roberta De Rossi

«La darsena di San Nicolò? E’ grande come la Giudecca». L’esempio dell’assessore all’Ambiente Bettin rende bene l’impatto di un’opera che - hanno georeferenziato i tecnici dell’assessorato - occuperà una superficie di 52 ettari.

Osservazioni si aggiungono a nuove richieste di chiarimento - politicamente si chiamerebbero dubbi e critiche - nella relazione tecnica di valutazione di impatto ambientale che gli uffici dell’Ambiente hanno predisposto in vista del prossimo Consiglio comunale, raccogliendo anche le indicazioni dei consiglieri della V e X commissione: un parere non vincolante, ma al quale la commissione regionale di Impatto ambientale e il commissario Spaziante dovranno dare risposta.

Così, la relazione fa propria l’osservazione del consigliere pd Molina sul fatto che i tempi di approvazione della darsena siano stati dimezzati per decreto del presidente del Consiglio, invece che con una nuova legge. Si rileva come - contrariamente allo stesso dl 152/06 che impone il confronto tra più progetti - non sia possibile fare comparazioni perché per i proponenti la darsena dev’essere a mare e altro sito non c’è, mentre per gli uffici andrebbe considerato tutto il bacino. Raccogliendo un preciso allarme del consigliere pd Renzo Scarpa, inoltre, si chiedono monitoraggi ante-durante e post cantiere sull’impatto della mega darsena sulla pesca e indennità per i pescatori professionali, calcolando quanto meno un calo di 46 mila chili di vongole l’anno e un impatto non valutato sulle colonie di seppie, branzini, orate in un braccio di mare molto pescoso. Inoltre, nel progetto non sono stimate le quantità potenziali di scarichi delle imbarcazioni nel bacino chiuso, non risultano relazioni sulla presenza di rifiuti nel sottosuolo (nonostante l’esperienza amianto al Palazzo del Cinema e bonifiche ospedale al Mare), non sono state fatte analisi sull’impatto della darsena sul traffico acqueo, «tema rilevante per i noti danni causati dal moto ondoso».

Ancora, «il progetto non è compiuto sull’aspetto degli scarichi fognari», in una parte del Lido dove sono già emersi rischi di esplosione della rete esistente per troppo carico. Infine, «c’è una sottovalutazione di rischio di perdita dell’orizzonte del Lido», non tanto per la presenza del nuovo molo, quanto di yacht e grandi barche a vela: «Nei rendering ce ne sono poche, come in un martedì di dicembre», chiosa Bettin. Una precisa indicazione è stata data dagli uffici - riprendendo una segnalazione del pdl Costalonga - sulla necessità di mantenere basso l’impatto luminoso della darsena, per evitare di oscurare con l’inquinamento luminoso sistemi di sicurezza come faro di Murano e boe luminose. «Il sindaco ha chiesto al governo di chiarire se finanzierà il Palazzo del Cinema», commenta Beppe Caccia (In Comune), «in quest’incertezza, non ha senso la forzata accelerazione imposta dal commissario Spaziante alle procedure di progetti esclusivamente finalizzati al finanziamento dell’opera originaria, che vanno congelati».

Postilla

Prosegue e si aggrava lo scandalo del Lido di Venezia, un episodio lampante del saccheggio del territorio. Un saccheggio che si giova di un intreccio tra pubblico e privato nel quale gli interessi della proprietà finanziaria comandano la politica e l’amministrazione pubblica, utilizzano la compiacenza (la complicità) di quest’ultima per accrescere la rendita immobiliare, impoveriscono i cittadini di oggi e di domani, sacrificano bellezza e salute e – dulcis in fondo – calpestano la democrazia. Chi voglia saperne di più acquisti il libretto di Edoardo Salzano, Lo Scandalo del Lido , che apre la nuova collana dell’editrice Corte del Fontego dal titolo significativo “Occhi aperti sulla città” (libriccini a 3 € l’uno, per conoscere meglio Venezia). Sconfiggere Berlusconi,è certamente utile, necessario e urgente, ma – come quest’episodio dimostra – non basterà a sconfiggere il berlusconismo di cui anche la storia recente del Lido è testimonianza.

«A volte le regole aumentano la libertà invece di restringerla, ma occorre prima mettersi d´accordo sul significato di libertà». Amartya Sen, 74enne economista indiano, cattedra ad Harvard, ora "in prestito" all´università di Cambridge, premio Nobel 1998, pronuncia la sua apparente provocazione in tono pacato, come un insegnante che corregge con dolcezza l´errore di uno dei suoi studenti. Gli ho appena chiesto di parlare dei limiti della libertà economica, il tema del suo intervento al Festival dell´Economia di Trento (il 26 maggio), ma il professore comincia con una precisazione: «La libertà non si deve mai limitare».

Eppure si discute molto di limiti alla libertà del mercato, dopo il collasso finanziario del 2008.

«Io non ragiono in termini di limitazioni alla libertà». La libertà è la virtù più importante per l´uomo e va sempre preservata. Chiediamoci piuttosto quali sono i fattori che causano una diminuzione della libertà umana. Uno è sicuramente la disoccupazione: senza lavoro, un uomo diventa immediatamente meno libero, non è più libero di decidere il suo destino. Ecco dunque che dobbiamo guardare al problema dal versante opposto: cosa è necessario fare, a livello economico, per ampliare la libertà, intesa come libertà di tutti, degli individui, delle aziende, della collettività».

Quali devono essere, in tal senso, le priorità per l´economia di mercato?

«Molti anni fa ricevetti il premio Giovanni Agnelli per le questioni dell´etica a livello internazionale. Nel mio discorso parlai della libertà individuale come un impegno sociale da raggiungere e difendere, un tema che poi sviluppai in un libro, pubblicato in Italia da Laterza. Mantenere un alto livello occupazionale, diminuire o far scomparire la povertà, garantire un welfare sociale: questi, a mio avviso, gli obiettivi prioritari per un´economia di mercato che funzioni correttamente».

Che lezioni bisogna trarre dalla crisi globale, finanziaria ed economica, che ha investito il mondo tre anni fa?

«La prima è che è una crisi venuta da lontano. I semi di una folle deregulation finanziaria sono stati piantati già all´epoca della presidenza di Ronald Reagan negli Stati Uniti, e la semina è proseguita anche nel corso di amministrazioni e presidenze democratiche, raggiungendo l´Europa, estendendosi al mondo. Non ci si è resi conto che la libertà predicata in quel modo era una libertà fittizia per i mercati, perché creava dipendenze, inefficienze, debolezze strutturali, che avrebbero finito per privare della libertà economica sia le banche che le aziende che i privati cittadini. Perciò sostengo che le regole a volte aumentano la libertà, anziché limitarla».

È stato fatto abbastanza in questi due-tre anni per cancellare tali errori e ripristinare controlli e regole sull´economia globale che ne proteggano il funzionamento?

«Qualcosa è stato fatto, ma in modo insufficiente, specie negli Stati Uniti, il mercato che conosco meglio e che rimane più importante per come influenza gli altri».

Il voto del 15-16 maggio, pur restando connotato più di quanto forse non si dica dalle sue peculiarità amministrative, ha senza dubbio inferto un colpo al sistema: ora si tratta di compiere l'opera. L'analisi delle componenti politiche, psicologiche e personali che ci hanno portato a questo risultato è prematura: ci sarà il tempo per farla dopo, quale che sia il risultato che ci aspetta (forse soltanto una cosa si può dire fin d'ora: in tutti i casi contemplati le primarie, quando si sono svolte regolarmente, hanno innegabilmente giovato). La convergenza assoluta sui candidati prevalenti del centro-sinistra, - in primis Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli, ma anche Zedda a Cagliari - è la prima condizione da realizzare. Poi ci sono altri fronti da tener presenti.

Colpisce la renitenza a scegliere di due forze organizzate come il Terzo Polo e i grillini, uscite con risultati difformi dalle urne, ma comunque ben in grado d'influenzare con le loro scelte il voto finale. Si tratta, com'è ovvio, di situazioni diverse, ma con un tratto comune: non si sentono coinvolte dallo scontro attuale fra centro-destra e (un sia pur variegato a talvolta anomalo) centro-sinistra. Mi pare che sia per tutti costoro un grave errore, anche parecchio autolesionistico.

Nella competizione in atto - ripeto - giocano molto i fattori amministrativi. La fallimentare (e persino un po' oscura) conduzione del comune di Milano da parte di Letizia Moratti ha certo a che fare con il consenso ricevuto da Giuliano Pisapia. Allargo il discorso: va segnalato che il centro-destra si è reso responsabile di alcuni dei casi più clamorosi di cattiva amministrazione locale in Italia nel corso degli ultimi decenni: se si votasse oggi a Roma, con un buon candidato da opporle, la giunta di Gianni Alemanno verrebbe clamorosamente rovesciata.

Questo terreno non va certo abbandonato. E però è inutile negare che il discorso è andato al di là - e di molto - del dato puramente amministrativo. Se non ce ne fossero state le condizioni generali, - e c'erano, - l'avrebbero comunque voluto loro. Sembrava che lì per lì, dopo il primo voto, ne avessero fatto ammenda. Invece i toni - quelli del referendum e della crociata, della calunnia e dell'insulto, della menzogna e della panzana - non sono cambiati, anzi, si sono perfino accentuati. Come mai? La risposta è semplice: perché ormai non sono più capaci di altro; non gli resta che fare appello agli istinti bestiali del "popolo animale" (come loro sperano che sia e come giorno dopo giorno se lo allevano). Ho sentito il ministro La Russa dichiarare che i milanesi non devono votare Pisapia se non vogliono una moschea per ogni quartiere e un accampamento rom di fronte ad ogni scuola ... E quel che Bossi ha detto di Pisapia sta scritto su tutti i giornali ... E', tutto sommato, un segnale di rabbiosa debolezza, che va utilizzato.

Allora quel che è in gioco oggi, - oltre al dato amministrativo, il quale peraltro per molti versi fa corpo con essa - è la possibilità di riportare il paese a un gioco democratico "normale" e alla purificazione della politica dal groviglio ammorbante degli interessi personali e di gruppo.

Dichiararsi equidistanti o, peggio, indifferenti rispetto a questa posta non ha senso. Fa sorgere anzi il sospetto che alcune rendite di posizione in tali campi pensino di continuare a giovarsi proprio della perpetuazione di quello stato di anormalità e di degrado. Invece, solo quando il libero gioco democratico sarà restituito al paese, tutti potranno far valere le loro ragioni fuori del ricatto sistematico che tutti ci sovrasta.

In questo quadro complessivo alcuni silenzi ci colpiscono ancora di più. Quella di una forza come Futuro e Libertà, ad esempio: nata per ridar fiato ad una destra legalitaria e moderna, come può non rendersi conto che la rinuncia alla scelta in un momento come questo la condanna a una lenta estinzione e all'assorbimento nel grigio pantano moderato? E quello dei grillini, per fare un altro esempio: nati per dar vita a una critica radicale delle forme, dei temi e del personale politico attuali, spesso fondata e giustificata, come non si rendono conto che solo una decisa spallata al sistema berlusconiano di potere potrà aprire le porte eventualmente ad altri processi e altre sentenze?

Insomma, le ragioni per una raccolta di tutte le forze, che prescinda in questa fase ... ripeto, che prescinda in questa fase anche dagli schieramenti passati e persino da quelli futuri, ci sono tutte. Diamoci tutti da fare perché l'appello arrivi lontano ... anzi, arrivi dappertutto.

P.S. In un suo recente intervento sul Corriere della Sera (18 maggio), Pierluigi Battista prende spunto dal recente risultato elettorale per tornare a rinfacciarmi il mio famigerato articolo «Non c'è più tempo» uscito il 13 aprile sul manifesto: «E dunque Alberto Asor Rosa dovrà riporre nel cassetto le sue pur recenti fantasie di golpe democratico, unico rimedio, era parso di capire, per arginare quello antidemocratico incarnato da Berlusconi»; perché, - questo poi in sostanza è il senso complessivo del ragionamento di Battista, - «l'Italia resta una democrazia normale», dove il voto decide, non il golpe.

Da alcuni decenni Battista e io colloquiamo, trovandoci sempre su posizioni diverse, anche se non sempre le stesse, ma sempre, mi pare di poter dire, molto civilmente. Nel caso specifico, come in svariate altre occasioni in precedenza, Battista dimentica, anzi, appunto, torna ancora una volta a dimenticare che le questioni dell'«emergenza democratica», da me poste, erano piuttosto altre, e cioè:

1) E' vero o non è vero che la permanenza di Silvio Berlusconi al potere, con tutto ciò che lui rappresenta, - il conflitto d'interessi, le leggi ad personam, lo scontro devastante con la magistratura, l'insofferenza, anzi l'ignoranza della separazione dei poteri, le continue polemiche con la presidenza della Repubblica e le minacce nei confronti della Corte costituzionale, la pretesa riforma della giustizia, la compravendita plateale di parlamentari, le tentazioni di riforme della Costituzione, - costituisce un rischio, - un rischio voluto, calcolato, perseguito, - d'involuzione populistico-autoritaria della nostra democrazia?

2) Che si fa quando la democrazia è messa a rischio da una maggioranza parlamentare democraticamente eletta?

Potrei limitarmi a osservare che l'allarme sollevato da questi dubbi, onestamente da me come da altri esplicitati, forse è confluito nel risultato positivo del voto di domenica scorsa (positivo? Perché positivo? Ma ovviamente positivo soltanto se si pensa come me che il voto di domenica scorsa sia stato positivo). Io intendo tornare su questi argomenti. Mi auguro che anche Battista sia disponibile a rispondere ora a quelle due domande, di cui il voto, certo, non ha comunque depotenziato la rilevanza strategica.

Stupisce soltanto chi non conosce Milano, il risveglio civico di una città che si interroga da tempo su se stessa e sull’orgoglio perduto. Nel voto che ha spiazzato il centrodestra e sorpreso il centrosinistra c’è molto dell’indignazione che si legge ogni giorno nelle lettere ai giornali, insieme a una richiesta di attenzione della politica e alla domanda di maggiore serietà. Serietà intesa come rispetto, efficienza, controllo, garanzia di equità: messaggi che la città operosa recapita da anni a chi governa attraverso incontri e dibattiti che finiscono inesorabilmente con una domanda: dov’è Milano, dove sono i milanesi. Milano è nello stesso posto di sempre.

Coi suoi numeri da record, i suoi primati, le sue opportunità, tra lampi di luce e zone d’ombra, prove riuscite d’integrazione e nicchie di paura. I milanesi invece sembrano dispersi, perduti in mille isole di resistenza civile: molti si battono per il verde, per una strada, per un quartiere, portano il bene della solidarietà agli emarginati di ogni tipo, malati, anziani, disabili, immigrati, carcerati. Chiedono una città più pulita, più ordinata, la sicurezza senza il coprifuoco, l’attenzione per le piccole cose. Ma spesso bisogna andarli a cercare, per riunire intorno ad un progetto le tante articolazioni di una società minuta in fermento, che si dà da fare per migliorare il benessere dei cittadini e la qualità della vita.

Giuliano Pisapia ha incrociato questo fermento, quel new deal civico organizzato negli ultimi anni in piccoli centri di opinione, associazioni culturali, gruppi di lavoro nei quartieri e nelle parrocchie, che il Corriere aveva documentato nel suo viaggio in camper, attraverso le varie zone della città. Ha dato attenzione e ascolto ai cittadini, in modo semplice e diretto, a differenza della campagna elettorale di Letizia Moratti. Il sindaco uscente aveva già avuto segnali in questo senso, qualcuno aveva già evidenziato la distanza eccessiva tra richieste dei cittadini e Palazzo Marino.

Quando cinquecento persone si autoconvocano al teatro Puccini per discutere del «Manifesto per Milano» , come nel giugno dello scorso anno, vuol dire che c’è una ritrovata voglia di partecipare alle scelte per il futuro della città. Vuol dire che tanti cittadini chiedono ascolto sui loro piccoli e grandi problemi, o vogliono, come il cardinale Tettamanzi, essere protagonisti di una Milano capace di ritrovare la sua leadership nel Paese. Ci si vuole riconoscere in una città capace di dare il giusto valore al merito, di fornire qualche buon esempio e di allontanare il virus della volgarità. Nel «Manifesto per Milano» ci sono parole come rispetto, competenza, responsabilità. Sono parole che ci riguardano (diversamente da quelle del caso Lassini, contro i magistrati). Queste parole torneranno a ripetersi in questi giorni. Ma non si possono svendere nel marketing elettorale.

Gli Indignados hanno già vinto la loro seconda battaglia. A sette giorni dal loro primo grande successo - una mobilitazione di massa con le tende estesa a ben 67 piazze di Spagna - ieri l’inatteso movimento ha registrato il secondo successo: la polizia non li sloggerà né oggi né domani dalle agorà della Tendopolilandia d’Europa, come invece chiedeva la Commissione Elettorale Centrale, per non turbare la giornata di riflessione e il voto delle amministrative di domenica. Le forze dell’ordine interverranno solo se si registreranno atti violenti. Ma finora gli Indignados sono più pacifici di Gandhi. E a Madrid ieri a mezzanotte in 25 mila hanno accolto l’inizio della prima giornata del divieto con un «grido silenzioso» sulla emblematica Puerta del Sol.

Già nel primo pomeriggio di ieri, ultimo giorno della campagna elettorale per rinnovare tutti i comuni e i governi di 13 delle 17 regioni spagnole, giungeva la buona novella, diramata ai giornali online da fonti governative. La partita si era annunciata difficile, dopo la decisione della Commissione Elettorale Centrale che, in nome della legge, intendeva proibire le concentrazioni di persone in spazi pubblici, subito respinta dagli Indignados. Il principale partito dell’opposizione, i popolari (centro-destra), invocava il rispetto delle regole della democrazia. Ma il callido Zapatero si è inventato un escamotage. Ufficioso, ma che rasserena il Paese.

Prima si è mosso il ministro degli Interni, Alfredo Perez Rubalcaba, che per seguire la situazione potenzialmente esplosiva ha rinunciato al suo ultimo comizio: «Le forze di sicurezza non sono sul campo per creare due o tre problemi dove ce n’è uno solo, e si atterranno alla legge». Alludeva alle cariche della polizia, che avrebbero significato un massacro su scala nazionale e una sconfitta ancor più bruciante di quella annunciata (i popolari dovrebbero stravincere dappertutto)? No, evocava l’applicazione della Legge sulla Sicurezza Cittadina.

L’articolo 16 rimanda a un legge del 1983, approvata dall’ex premier socialista González, che dice: «La polizia può dissolvere riunioni e manifestazioni quando viene scardinato l’ordine pubblico, con pericolo per le persone o le cose, o quando si indossano uniformi paramilitari». Non è questo il caso del movimento degli Indignados, che vuole solo «Democrazia Reale Adesso». Utopica certo, come la richiesta di cambiare la riforma elettorale che premia i partito maggioritari, socialisti e popolari, ma con l’immenso pregio della non violenza. Aiutata solo dalla colossale forza di Internet e dalla solidarietà e simpatia di gran parte del Paese.

In una Spagna che ha riconquistato la democrazia nel ‘77 dopo 38 anni di dittatura franchista e repressione sanguinaria, in cui i carri armati e le cariche fanno parte di un passato sepolto, Zapatero ha fatto capire che la Spagna non è la Libia. «La polizia agirà bene, correttamente. Il governo garantirà i diritti di tutti - ha esordito alla radio filo-socialista Ser -. Provo grande comprensione per le rivendicazioni degli Indignados, sono il principale interpellato. La ragione delle proteste è la grave crisi economica, con il suo riflesso sull’occupazione e soprattutto sulla disoccupazione giovanile al 43%».

I popolari, che non dovrebbero essere penalizzati dal possibile aumento dell’astensionismo (36% alle amministrative 2007) che terremoterebbe invece i socialisti, scherzano sulle «Piazze Tahir». «Convochiamo un campeggio davanti alle sede della Rosa madrilena di calle Ferraz fino a quando Zapatero non se ne va», irrideva Aguirre, presidente della regione madrilena. Prova che la tensione si sta allentando. I giovani violenti e organizzati sono forti solo nei Paesi Baschi e a Barcellona. Una mappatura che fa sperare bene. La Spagna sarà Tendopolilandia, ma è pur sempre Europa, non il Nord Africa. E si permette di insegnare che persino le proteste clamorose degli Indignados, se non violente, sono permesse.

Un Berlusconi senza Milano è come un pesce senza acqua, un Berlusconi silenzioso è come un cantante senza voce, un Berlusconi con le preferenze dimezzate è come un attore senza pubblico. Lo specchio di Narciso s'è rotto irreparabilmente, lui, Narciso, è irreparabilmente ferito, e il seguito del mito è noto. Hanno un bell'inventarsi somme e sottrazioni Verdini e gli altri: non c'è calcolo che possa tornare, senza Milano. Milano dove tutto ebbe inizio, e dove tutto doveva franare per poter davvero terminare. Siamo al termine, infatti, e del resto non da oggi: negli ultimi due anni - quelli, sarà un caso? dello svelamento del sistema di scambio fra sesso, potere e denaro, stranamente cancellato nei commenti elettorali - lo smottamento del consenso per Berlusconi è stato lento ma costante: alle europee del 2009, alle regionali del 2010 e oggi. Una crepa, due crepe, ma la frana di oggi vale doppio.

Non solo perché era stato lui, Berlusconi, a stabilire la soglia delle 53.000 preferenze, non una di meno, per poter cantare vittoria contro «la sinistra sinistrata che altrimenti mi farà il funerale». Ma perché nella sua narrazione incantatrice Milano era il set dove nel 2011 si sarebbe dovuto chiudere il cerchio della sua discesa in campo del '94. Lì era nato con Mani pulite il protagonismo dei giudici, e lì doveva morire con i suoi comizi con la claque davanti al Palazzo di giustizia. Lì era nata la seconda Repubblica, e lì bisognava trarre la legittimazione elettorale per dare la spallata finale alla Costituzione. Lì era nato l'impero economico del premier-tycoon, e lì si poteva contare sul peso dei soldi per stracciare l'idealismo leggero di Pisapia il Rosso. Lì la sinistra era stata snaturata dalla modernizzazione degli anni Ottanta, e lì non sarebbe mai risorta. Lì la movida nei locali notturni aveva fornito alimento al bunga-bunga, e lì si poteva esser certi che una barzelletta idiota al giorno continuasse a nutrire in eterno il populismo sessuale del Grande Seduttore.

Ma lì, invece di chiudersi, il cerchio s'è aperto. Inaspettatamente, o più decisamente di quanto ci si potesse aspettare: come capita quando davvero una tela si strappa e il mutamento precipita. E' presto, s'intende, per cantare vittoria: le armate disperse della «nuova destra» che fu tenteranno di tutto per incollare i cocci nei pochi giorni che hanno davanti a Milano. E a Roma, le ripercussioni potranno accelerare ma anche, all'opposto, frenare temporaneamente la rotta della maggioranza. Però quel secco dimezzamento dei consensi milanesi non lascia spazio a molti dubbi: è l'incantesimo della persona che si è rotto, l'aureola del carisma, l'onnipotenza del Capo, l'identificazione nella virilità dell'uomo. La bolla dell'immaginario che per un ventennio ha alimentato un trucco è scoppiata. Quando l'immaginario scoppia, capita che si resti senza parole. E' per questo che Berlusconi non ne ha, e nemmeno gli sarà facile trovarne.

La città ha detto basta all’arroganza»

di Luca Rojch

OLBIA. Difficile immaginarlo con la maglietta di Che Guevara e l’eskimo all’assalto del fortino del centrodestra. Il mite uomo in pipa e doppiopetto di ordinanza che ha raso al suolo la casa delle libertà, Gianni Giovannelli, è più un’icona della moderazione. Passeggia davanti all’ingresso del municipio in attesa di sedersi dopo due mesi sulla poltrona da cui era stato spodestato. Ma tra il Giovannelli I e il Giovannelli II c’è in mezzo una rivoluzione che ha schiantato il cuore del berlusconismo. Che ha cancellato la capitale balneare dell’impero azzurro.

Una fetta di storia. La Coalizione civica, miracolosa miscela di centrosinistra e terzo polo, ha trovato l’amalgama giusto per creare una corazzata che ha strappato la più berlusconiana delle città al centrodestra. Un vaccino al contagio azzurro che per oltre 10 anni ha conquistato l’Italia. L’uomo che ha guidato la strana rivoluzione mite è Gianni Giovannelli. «La città ha capito le ragioni della mia scelta - dice -, non la ricerca di una poltrona, ma il rifiuto di logiche poco trasparenti. Olbia ha compreso che all’origine della coalizione c’è l’esigenza di risolvere le emergenze. Siamo nati in questo modo, con una spinta dal basso, dal popolo, che ha mosso i partiti. La città ha punito l’arroganza. Gli atteggiamenti eccessivi manifestati anche in campagne elettorali munifiche in tempi di crisi. Aerei, palloni, manifesti e altro. È stata punita la logica del vae victis. Del sei con me o contro di me». Giovannelli stila anche il programma dei 100 giorni. «Affronteremo le grandi emergenze della città, Tarsu, strade, opere urbanistiche, riorganizzazione della macchina amministrativa, commercio, decoro urbano e sicurezza. Verificheremo tutti gli appalti e lo stato di attuazione dei lavori pubblici». Giovannelli non è stupito del successo. «Mi aspettavo una affermazione così forte. Non è stato merito mio, ma un successo della coalizione».

L’architetto della Coalizione, l’uomo che ci ha messo l’ingegno, il cervello e il cuore, è il senatore Gian Piero Scanu. Il suo coraggio è stato premiato. È il candidato più votato con 820 preferenze. Lui spiega i motivi del successo in modo semplice. «L’esperienza della Coalizione civica verrà esportata nel resto del paese - dice -. La forza è nella capacità di fare incontrare la politica e le persone. La coalizione parte dalla gente, dalla spinta arrivata dal basso, accolta, interpretata e affiancata dai partiti. Olbia aveva bisogno di democrazia e libertà, non solo economica. La città ha subìto come uno sfregio la formazione di un gruppo di potere che di fatto ha spaccato la comunità e ha determinato profonde divisioni. Ha creato la logica del con me o contro di me». Decise anche le priorità. «Lavoro, lavoro, lavoro - conclude -. Sono migliaia le famiglie in difficoltà. Dobbiamo mettere loro davanti a tutto». Un altro dei padri di questo successo è Giommaria Uggias, europarlamentare dell’Idv e capolista. «La vittoria è del progetto e della collegialità - dice -. È la vittoria di un metodo premiato al di là della mia personale affermazione. L’Idv ha avuto una progressione astronomica, 4 anni fa ha preso 0,38%, oggi sfiora il 5. Una grande soddisfazione».

Zedda-Fantola, ballottaggio ad alta tensione

di Giuseppe Centore

Primo turno al candidato del centrosinistra, ma ora c’è lo spauracchio «anatra zoppa»

Il voto disgiunto premia il giovane vendoliano, ma la sua coalizione è stata superata dalle liste del centrodestra

CAGLIARI. Sono separati da 413 voti, andranno al ballottaggio senza avere la vittoria in tasca. Le certezze su chi amministrerà per i prossimi anni il Comune finiscono però qui. Il resto è già oggetto di velata o diretta campagna elettorale, dalla composizione del consiglio, e all’esistenza o meno di un premio di maggioranza, già adesso per le liste del centro-destra. Sarà questo infatti il tema più discusso sino al ballottaggio. Alla fine, poco prima delle dieci del mattino, i dati hanno decretato che Massimo Zedda ha prevalso, nei voti di preferenza per poche centinaia di voti sul suo avversario: 42272 rispetto ai 41859 voti ottenuti da Massimo Fantola.

Rispetto alle comunali di cinque anni fa uno stravolgimento dei rapporti di forza, non solo per i candidati a sindaco ma anche per le liste. Allora con 95mila votanti (in questa tornata sono stati duemila in più), il candidato del centro-sinistra ottenne 36mila voti, mentre la somma dei voti dei candidati del centro-destra (uno risulterà vincente, l’altro dopo aver cercato uno spazio autonomo a destra è diventato capo di gabinetto del presidente Cappellacci) arrivava a 55mila voti.

Le percentuali non lasciavano spazio a dubbi, 38 per cento contro 59,5 per cento. Analogo il discorso sul partito principale della coalizione di centrodestra. Cinque anni fa Fi+An arrivarono a 21mila voti, oggi il Pdl si è fermato a 13mila e ottocento (anche sommando i 2175 voti di Fli il saldo è negativo di cinquemila voti). La crisi del centrodestra è tutta in questi numeri. Una crisi profonda, che ha prodotto due risultati complementari: la vittoria di Zedda, o il testa-a-testa in quasi tutte le zone della città. C’è stata una sola eccezione significativa, quella del quartiere di Sant’Elia: qui Fantola ha preso 343 voti in più del suo avversario, e, dato ancor più significativo, non c’è stata una sola scheda per tutti i candidati che non recasse anche il voto di lista.

Il secondo risultato è stata la differenza tra i voti per i candidati a sindaco e i voti per le loro liste: il centrodestra ha avuto 45287 voti di lista, il centrosinistra 32101. Numeri che hanno un significato politico, e una probabile conseguenza legale. Il dato politico è che Fantola ha avuto 3428 voti in meno delle sue liste, Zedda 10171 consensi in più della coalizione che lo sosteneva. Una città dove la terza età prevale, con interi quartieri dove gli ultrasessantacinquenni sono la maggioranza assoluta dei residenti, che ha dato fiducia, in questo primo turno, a un trentacinquenne; magari non se la sono sentita di votare i partiti che lo sostenevano, ma il candidato a sindaco sì.

Il voto disgiunto è stato scientifico? I boss del centrodestra, ciascuno con il proprio ambito territoriale di vie, piazze e rioni ben identificabile e il parlamentare di riferimento, hanno dato “libertà di scelta” al loro bacino elettorale per mandare un segnale al sindaco distinto (anche se non distante) dalla Pdl? Solo gli incroci sezione per sezione dei prossimi giorni potranno rispondere a queste domande. È certo però che le liste del centrodestra hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei voti di lista espressi. Basta questo dato a far scattare il premio di maggioranza, e quindi a proclamare subito un consiglio con 23 eletti dal centrodestra, sedici del centrosinistra e il candidato sindaco Artizzu? Sarebbe questa l’ipotesi di scuola della cosiddetta “anatra zoppa”, figura retorica del lessico politico anglosassone, che si applica in Italia al caso in cui un sindaco viene eletto al ballottaggio, ma le liste della coalizione avversaria ottengono la maggioranza dei seggi già al primo turno, impedendo così una omogeneità di governo tra sindaco e consiglio comunale. Si applicherà l’“anatra zoppa” anche a Cagliari?

Il senatore del Pd Francesco Sanna è convinto del contrario. «Il Consiglio di Stato lo scorso anno ha chiarito come si interpreta la legge elettorale per i Comuni: le liste collegate a Fantola hanno preso meno della metà dei voti di tutti i candidati a sindaco, e non avranno alcun premio da subito». Ne è convinto anche il presidente della Provincia Graziano Milia, sicuro della vittoria al ballottaggio per Zedda, «le energie nuove di queste settimane lasciano ben sperare». Sicuramente non ne sono convinti i candidati del centrodestra, pronti a fare ricorso in caso di scelte non a loro favorevoli da parte dell’ufficio centrale elettorale. Il calendario procedurale comunque eviterà di dover affrontare questo aspetto sino a ballottaggio concluso: solo dopo la proclamazione del sindaco avverrà la ripartizione dei seggi, e a quel punto potranno eventualmente essere predisposti ricorsi, in caso di vittoria di Zedda. In ogni caso l’argomento della governabilità sarà centrale in tutta la campagna elettorale, anche se non compare nelle prime dichiarazioni. E così se Zedda e Fantola hanno incontrato nelle stesse ore i leader delle loro coalizioni, il primo dichiara di aver già ripreso la campagna elettorale, senza commenti, mentre il secondo segnala «il clima di entusiasmo raggiunto dall’alleanza e dal candidato a sindaco».

Per il resto dichiarazioni in linea con le attese, con il coordinatore regionale di Idv Patrizio Rovelli che ammonisce a non abbassare la guardia e il segretario del Pd cagliaritano Yuri Marcialis che definisce storico il dato dei partiti maggiori. In città da decenni il partito più rappresentativo del centrosinistra è stato in affanno, mai premiato ad ogni tornata elettorale: adesso il Pd ha preso 15259 voti, contro i 13862 del Pdl; niente male per un partito dato moribondo sino a ieri. E il dato si presta a una duplice lettura: la lista Pd oggettivamente era meno trascinante di quella del Pdl, basta vedere le preferenze dei loro candidati, e a sinistra, rispetto a ciqnue anni fa, la concorrenza è stata molto più agguerrita. Non è escluso che il Pd abbia ricevuto voti moderati in uscita dallo schieramento avversario. Sarebbe questa la vera novità del primo turno; un ulteriore campanello d’allarme per Fantola, a prescindere dall’anatra zoppa ben ritta sulle zampe.

Ecco, quello che si può leggere sul volto di Dominique Strauss-Kahn mentre sta in tribunale e viene a sapere che resterà in carcere, che nessuna cauzione lo tirerà fuori di lì, che non solo una grande avventura politica finisce in quell’aula ma una vita libera, una reputazione politica nobile. Ha la barba sfatta, gli occhi sperduti, la bocca come di chi d’un tratto s’accorge d’aver bevuto veleno, i tratti legnosi del caduto, colpito da nemesi inaudita. Eppure quel volto non appartiene a un uomo ignaro, incosciente di sé e del paese dove lavora, colto di sorpresa dalla vastità del delitto (tentato stupro, aggressione sessuale, sequestro di persona: non sono accuse minori).

Strauss-Kahn sapeva com’è fatto il mondo, conosceva l’America e una giustizia che non concede impunità ai potenti e anzi spettacolarizza l’uguaglianza di tutti davanti alla legge (lo si è visto nel caso del finanziere Madoff, di Spitzer costretto a dimettersi da governatore di New York per un giro di escort). Conosceva a perfezione, come tutti coloro che sono ai vertici del potere e non sono stupidi, che ogni sua mossa era da anni spiata con occhio non solo curioso ma avido, spesso vendicativo. Conosceva anche i propri avversari, e ne aveva tanti sia in Francia sia altrove, da quando era direttore del Fondo monetario internazionale e aveva cominciato ad affrontare a modo suo, controcorrente, una crisi economica che tutto aveva messo in forse, e in primis l’ideologia stessa del Fondo. Dostoevskij ci fornisce il ritratto più calzante di quel che DSK è divenuto in queste ore: un potente scaraventato a terra, un uomo che ha sfidato il destino e che di fatto è un suicidato. Più precisamente: un giocatore d’azzardo che non gioca a casaccio, ma compulsivamente.

La politica è piena di simili Posseduti – in medicina si parla di dipendenza senza sostanze: in Italia ne sappiamo qualcosa, anzi molto. Giocano con tutto: non solo col potere politico ma col proprio corpo e con i corpi altrui, che calpestano. Dostoevskij racconta questa speciale dipendenza: il suo Giocatore finge l’attaccamento al lucro (o al sesso) ma l’oscuro oggetto del desiderio è altro: è l’«estrema bramosia di rischio, la voglia di stupire gli spettatori rischiando follemente». Inabissato nell’umiliazione, il direttore del Fondo monetario ha il volto di Aleksej Ivanovic: «Mi sembra di essermi fatto come di legno, di essermi come impantanato nella melma». Fatale, la roulette ha fermato il suo giro. Nella vita e nella politica, la chiave è nel vocabolario del croupier: «les jeux sont faits», «rien ne va plus». I giochi sono fatti, le puntate sono chiuse. Rien va: avrebbe chiuso Tommaso Landolfi.

Strauss-Kahn, non un Eroe ma un Giocatore dei nostri tempi. E forse anche di altri tempi: l’agonia della democrazia di Weimar, Fritz Lang la riassunse nella figura allegorica dello Spieler, del Giocatore. Può darsi che la vicenda sia una lurida montatura, o un equivoco atroce, anche solo in parte. Può darsi che qualcuno abbia teso una trappola, nella suite del Sofitel. Ma se trappola c’è stata, è stata tesa a un uomo che ha prestato il fianco, immerso nel fascino del rischio: ogni sorta di rischio, dal più nobile al più sozzo, fino allo stupro. A un uomo che intrecciava politica e sesso, senza tema di provocare disgusto. C’è una politica del disgusto – Martha Nussbaum ne descrive le ordalie in Disgusto e umanità – e Strauss-Kahn non l’ha messa nel calcolo. Se hai un punto debole, la politica del disgusto fa sì che resti impigliato e tramortito come un grosso ragno dentro l’aggrovigliata, troppo aggrovigliata tela che hai tessuto con le tue mani.

Il fatto che DSK non abbia calcolato razionalmente, pur conoscendo il precedente di Spitzer, che sia vissuto senza un grammo di prudenza: questo crea sgomento. Ha preferito la roulette agli scacchi, che secondo Benjamin Franklin insegnano ben diversi comportamenti: «Primo: la preveggenza, che guarda un po’ nel futuro e considera le conseguenze che possono venire da un’azione, perché il giocatore pensa continuamente. Secondo: la circospezione, che percorre l’intera scacchiera o scena dell’azione, le relazioni fra i diversi pezzi e le situazioni, i pericoli a cui sono rispettivamente esposti, (...) le probabilità che l’avversario faccia questa o quella mossa e attacchi questo o quel pezzo. Terzo: la cautela di non fare mosse troppo affrettate» (La morale degli scacchi, 1779). La regola dello scacchista è «accettare tutte le conseguenze della tua precipitazione». Strauss-Kahn l’ha sprezzata e ha perso tutto: la bramosia lo ha stritolato e rabbuia le stesse sue battaglie politiche. Forse non teneva a esse come diceva. Era pronto a sperperarle, sprecarle. Alcuni dicono: forse era un politico leggero, che si gettava nell’agone capricciosamente, che nell’intimo non ne aveva sufficientemente voglia. Non era un antipolitico come Berlusconi, ma si è comportato come se lo fosse.

È talmente incredibile, la sua storia nell’hotel (l’aggressione di una cameriera, e poi la colazione con la figlia come se nulla fosse, e infine i preparativi del viaggio in Europa dove l’attendevano riunioni decisive su Grecia e Portogallo minacciati dalla bancarotta) che allo stupore s’aggiunge qualcosa di infuriante. Se la sequela dovesse rivelarsi veridica, se l’accusa del procuratore venisse confermata, lo stupore si tramuterebbe in disgusto e anche collera. Disgusto per come un potente del mondo perde il senso della realtà, e viene a tal punto trasformato dalla politica e dal potere da accantonare sia la decenza sia la prudenza. Collera per le ripercussioni dell’accaduto e per l’idiota sottovalutazione prima del disastro, poi della soddisfazione che esso procurerà a tanti che esecravano la sua persona.

Questo colpisce nelle vicende di chi, forte della posizione di comando esercitato nel Fondo, si preparava presumibilmente a tornare in Francia, a duellare con Sarkozy nelle presidenziali del 2012. Colpisce l’abissale indifferenza alle frecce che possono trafiggere il potente, quando con disinvoltura si asserve alla roulette. Ci sono tutti gli ingredienti della favola nera: c’è il Dr. Jekyll che beve la miscela che s’è fabbricato e barcolla in vie notturne tramutato in criminoso Mr. Hyde. E c’è qualcosa di talmente cupo che si stenta a non fantasticare su avversari che altro non aspettavano che il finale sbandamento. Perché gli avversari politici esistevano, sesso e violenza non occupavano tutti gli spazi di DSK. Quel che stava facendo, nel Fondo, era secondo alcuni una rivoluzione. Appena 9 giorni prima del fattaccio, Joseph Stiglitz, l’economista che da anni denuncia i misfatti del Fmi, scrisse un articolo in cui annunciava la svolta radicale che Strauss-Kahn voleva imprimere all’istituzione: la fine delle condizioni capestro imposte ai paesi poveri, il «nesso indispensabile tra equità, occupazione e stabilità economica», la volontà di mettere tale nesso al centro del governo mondiale dell’economia (discorso alla Brookings Institution, 13 aprile 2011, vedi http://www.imf.org).

Anche per questo sul web ci si interroga, si parla di trame livide. Si ricorda l’offensiva contro Assange, accusato di stupro per screditare Wikileaks. Si enumerano i poteri forti (a Wall Street o in Francia) che potrebbero profittare del ragno suicidatosi nella tela. È troppo presto per trovare risposte chiare. E in fondo importa poco, sapere se il film noir è anche un noir politico. Per gli effetti che ha, è la storia di una gigantesca sconfitta politica. Di un giocatore talmente imbozzolato che nulla sa, come in Borges, dei pezzi che ha mosso: «Dio muove il giocatore, e questi il pezzo. Quale dio dietro Dio la trama ordisce di tempo e polvere, sogno e agonia?».

Diciotto anni dopo la grande speranza suscitata da Nando Dalla Chiesa - sconfitta dalla Santa Alleanza di poteri forti e istinti deboli che si formò attorno alla Lega per salvare Milano dal " comunismo" - pedalo verso la mia casa milanese nella notte fresca di luna piena. Si chiude un ciclo negativo, la passione e la mobilitazione che ho visto attorno a Pisapia sono paragonabili forse soltanto a quella primavera del 93. Ma questa volta al ballottaggio non arriviamo come allora con la sorpresa di un risultato molto più basso del previsto, ma al contrario con un vantaggio che nessuno aveva messo nel conto. Più di 40 mila voti di vantaggio, più di 6 punti percentuali. E' un vantaggio omogeneo in tutta la città, tanto che persino nel centro storico il presidente di zona sarà di centro-sinistra. Cosa è successo?

Il buon risultato di Pisapia e del centrosinistra non è stato sorprendente ne imprevisto: abbiamo vissuto per mesi un impegno costante,quasi martellante. Ogni tanto c'era il timore che fosse un grande movimento rivolto a se stesso, con tutte le serate, gli incontri, le cene tra di noi e i nostri amici.

I risultati confermano che tutte le sfumature di centro sinistra e sinistra si sono unite in un amalgama solido. Ma rimanendo sè stesse. Avevamo preso 320 mila voti nel 2006 con il candidato sindaco Ferrante. Ne prendiamo 316 mila nel 2011 con Pisapia. La popolazione si è leggermente ridotta, quindi gli attuali 316 mila valgono l'1 per cento in più dei 320 mila di 5 anni fa. Non hanno votato per il centro sinistra le figure sociali antropologiche della destra, le "macchiette" della base sociale berlusconiano-leghista. Venerdì sera mi guardavo attorno intensamente nella piazza piena per Vecchioni in Duomo. "Perché questa lunga notte dovrà pur finire". Facce diverse, in genere sconosciute, non il giro ristretto dell'attivismo politico, varie generazioni, facce serie e intense ma facce di centro di sinistra. Erano seri e preoccupati perché - come capitava anche a me – non sapevano bene cosa stava succedendo nel campo avverso. La rimonta? La compra dei voti? Ma lo sfondamento invece è avvenuto proprio nel campo berlusconiano. Da 353 mila voti del 2006 la Moratti scende a 273 mila. Sotto il 42%. Un risultato così basso non era previsto.

E le schede con vota incrociato Lega-Pisapia che gli scrutatori raccontano di aver visto qua e là sono solo una metafora di quel che sta succedendo, non un fenomeno statisticamente rilevante. La Lega ha perso in voti (meno 17.500) e percentuali rispetto al risultato in città delle regionali dell'anno scorso, non meno del Pdl (meno 15 mila). A una prima occhiata sono voti rimasti a casa, andati al Terzo Polo e un po' dappertutto, insomma sono la crisi tanto attesa e così ben mascherata fino all'ultimo. Fino a quando arrivavano fino alla nostra festicciola pre-elettorale nel cortile dei Navigli sabato sera le voci dei sondaggi con la Moratti al 49. Quelle voci che mi facevano temere che le sue liste avrebbero potuto superare il 50%, bloccando il premio di maggioranza alle liste di Pisapia. Macchè 49. Gli elettori mentivano ai sondaggi, o ci arrivavano solo i peggiori. Non è in qualche gaffe dell'ultima settimana che va cercata la ragione di questa crisi del centro-destra. Né in qualche inefficienza comunale, penso mentre percorro rassicurato alcune delle nuove piste ciclabili inaugurate dalla Moratti nelle ultime settimane. Sembra una crisi seria. Affrontiamo il ballottaggio senza ansia ma senza perdere un colpo. Chiedendo di tornare a Milano a tutti gli amici e i conoscenti che sono o risiedono all'estero - che forse non sanno che se tornano possono votare. Che vengano a partecipare alla sconfitta del berlusconismo.

L'unico vero contenuto di questa campagna elettorale sembra essere l'infamia della destra. È mancata un'idea di sinistra. Hai girato tutta l'Italia, che idea ti sei fatto? Che cosa hai trovato?

Intanto che l'operazione della destra è scientifica, non è uno scivolamento sulle provocazioni, sulle battute, sulle diffamazioni o sulle piccole fisiologiche infamità di una campagna elettorale. C'è il disegno di cancellare le questioni reali di un paese che è oppresso da una sofferenza sociale veramente drammatica: portare l'Italia dalla dimensione della realtà nella dimensione della propaganda.

Questa è la tecnica delle campagne elettorali berlusconiane.

Sì. Dall'altro però negli eccessi di questa specifica campagna elettorale si intravede anche una significativa inquietudine, la percezione che il popolo del centrodestra non è totalmente mobilitato, che ci sono crepe significative nel sistema di consenso del berlusconismo. Questo sforzo della macchina del fango è davvero emblematico: è aperta la possibilità di espugnare la capitale del berlusconismo.

Ma la sinistra che cosa ha messo in campo in questa campagna elettorale?

Intanto le primarie. Hanno rappresentato la fine di una stagione depressiva. Pensa a come si immaginava di andare e come invece si sta andando concretamente alla vicenda del comune di Milano. Le primarie sono state la selezione di personalità della società milanese che hanno portato un valore aggiunto straordinario e poi nel processo di partecipazione democratica è accaduto un fatto non irrilevante: si è per la prima volta illuminata la scena del malgoverno della destra. E come se noi non avessimo avuto il coraggio di nominare questo oggetto scabroso che è la Milano degradata e sporca, la Milano che si cimenta come un pezzo di Calabria con le vicende dell'Expo, la Milano rinchiusa nelle proprie nevrosi e nei propri affarismi. Ci accorgiamo che non è più la grande capitale euromediterranea della modernità e dell'innovazione.

Questo è il contenuto più forte che è venuto nella campagna elettorale?

Il centrosinistra ha a disposizione la propria mobilitazione locale e la capacità di mettere a fuoco i danni sociali del governo in carica. Non ha prodotto quella spinta necessaria che potrebbe venire dalla costruzione di un'agenda comune, di un cantiere comune del centro sinistra, nazionalmente questo non c'è. La destra italiana gioca la sua partita soprattutto nelle quattro città fondamentali Torino, Milano, Bologna e Napoli. Il centrosinistra gioca quattro partite differenti da cui ciascuno potrà desumere un significato generale.

A proposito di partite differenti: a Reggio Calabria il candidato di Rifondazione è sostenuto dal Pd ma Sel invece sta con l'Idv, e a Napoli sostiene Morcone contro De Magistris.

Noi, le forze di centrosinistra, ci presentiamo a ranghi sparsi in dinamiche contrapposte e questo è un male ma è una derivazione del problema principale che ti dicevo prima, perché ovviamente se manca un programma ed una regia generale è chiaro che sul terreno locale talvolta si ha la sensazione del liberi tutti, no? Per me che sono il leader di una formazione molto giovane e molto segnata dalle spinte della partecipazione e della rivendicazione di un modello democratico, non c'è (sia nella mia volontà che nella mia possibilità) una gestione giacobina delle vicende locali, tant'è vero che nella partita più difficile che è quella napoletana alla fine il mio suggerimento è stato di passare per una consultazione di tutti gli iscritti, anche perché io ho considerato un errore drammatico esibire lì, nel luogo in cui il centrosinistra aveva cumulato tanti errori e tante sconfitte e tuttavia nel luogo in cui aveva bisogno di provare a risalire la china, ritrovarsi divisi.

Tu hai lanciato «un'opa» sul Pd sostenendo che o si ristruttura tutto il campo progressista o si resta perennemente all'opposizione. Questa opzione è ancora in campo come scelta strategica?

C'è bisogno di un nuovo centrosinistra e vorrei specificare che cosa significa l'aggettivo nuovo in questo caso. C'è bisogno di non mettere in campo un modello di relazione tra quella che abbiamo chiamato anima radicale e quella che è l'anima riformista, tra le componenti antagoniste e le componenti moderate di una coalizione di centrosinistra. Non c'è invece bisogno di costruire la coalizione come un procedimento di somma algebrica.

Per quello parlavo di ristrutturazione del campo.

Perché poi quello che si riproduce è sempre una contesa in cui prevale l'elemento del posizionamento simbolico, ideologico. Siccome penso che siamo tutti quanti spiazzati e sconfitti, credo che abbiamo bisogno molto di portare il confronto interno sul merito delle cose. Per questo dico: aprire il cantiere significa ciascuno portando le proprie esperienze, la propria sensibilità alla costruzione di un'idea dell'Italia, alla costruzione di un'analisi tendenzialmente omogenea sulle ragioni della crisi. Questa crisi non è una qualunque crisi, ha dentro di sé oltre a una dimensione economico finanziaria e una dirompente dimensione sociale, una proiezione direi antropologica. E' una crisi dell'idea medesima dell'Italia, della sua capacità di stare assieme, di riconoscersi in elementi identitari, in un'idea civile, in una narrazione civile. Dobbiamo entrare nel merito di una ricerca che riguarda il lavoro e i suoi diritti, la formazione e il futuro delle giovani generazioni, l'ecologia come nome nuovo dell'economia. Rimescolare molto le carte, non secondo il trionfo del tatticismo o dell'alleanzismo legato al bisogno di guadagnare consenso. Abbiamo bisogno di proporre una grande alleanza all'Italia migliore che è stata umiliata negli anni di questa Italia peggiore che ci governa.

Tu sei stato l'unico politico a parlare della politica come di una narrazione, capacità di comunicare i sentimenti, delle idee. La parola narrazione è diventata un luogo comune. A questa parola quale cosa corrisponde? Tu, Di Pietro e Grillo siete tre leader senza partito.

A questo campo di forze vorrei esporre un problema: la politica oggi può essere una idea semplificata della realtà, può essere una fuga dalla complessità o non dobbiamo invece riconnettere la politica alle domande della vita e a una forte dimensione culturale, anche ricostruendo l'alternativa come vocabolario dell'alternativa? Da parte di molti di noi talvolta la prevalenza invece della ricerca di una scorciatoia, di un abbrivio linguistico e culturale, come una bestemmia cambierà il mondo, una bestemmia vi seppellirà, non è così. Abbiamo bisogno di sapere esattamente quali sono i marchingegni della riproduzione, per esempio, del consenso a questa destra in Europa. L'educazione alla complessità per me è un punto decisivo del campo di chi vuole cambiare questa società e per questo però a volte tra di noi, penso a Grillo, prevale un elemento microconflittuale, non solo ma prevale anche un linguaggio.....

Hai aspramente polemizzato con il linguaggio di Grillo che ti aveva citato alludendo alla tua omosessualità. Lo stesso Grillo che ha difficoltà a scegliere tra Pisapia e Moratti. È questo l'inizio o è la fine?

L'antipolitica finisce in un politicismo miope. Perché anche l'antipolitica è una politica. Mi pare che Berlusconi sia il campione di una politica che si è strutturata perfino come disprezzo delle procedure tipiche della politica dentro una democrazia matura.

Grillo aggressivo nei confronti della sinistra e anche sessista...

Gliel'ho detto, ma senza animosità. Da parte mia c'è la ricerca di un colloquio, di un dialogo, di una spiegazione. Sono troppo angosciato dall'integralismo, sempre nemico dell'umanità. La politica è anche mediazione, ascolto di voci differenti, costruzione di punti di equilibrio. Fuori da questo, i gruppi sono sette che si credono depositi di verità con la lettere maiuscola.

I moralisti in mutande sono ora infatuati del bel libro di Franco Cassano, «L'umiltà del male». Lo contrappongono ai moralisti e agli aristocratici della sinistra, ai puritani che vorrebbero questa oscenità della democrazia nel rispetto delle regole.

Giù le mani da Franco Cassano. Il suo è un pensiero vivo, non banale, non convenzionale di una sinistra che si interroga, che non cova sogni revanscisti e non si struttura sulle proprie frustrazioni, ma va in mare aperto, guarda il moto delle onde, si chiede che succede intorno a noi. Franco ha avuto l'acutezza di sollevare il problema dell'immoralismo di questa classe dirigente che si è strutturata come un linguaggio pubblico che ha perfino voluto riscattare, come se fosse una buona cosa quella debolezza della borghesia italiana, quell'incapacità di essere classe generale, portatrice di un disegno generale di trasformazione. E' una tara storica della vicenda nazionale italiana. A questo immoralismo che occhieggia i vizi che qualcuno intravede nei costumi più sedimentati del popolo nostro, rispondere con un moralismo petulante e talvolta livoroso, non produce né un effetto di decostruzione del consenso altrui, né la contaminazione di una nuova etica pubblica. Per questo c'è bisogno che a sinistra torni ad agire l'ago e il filo che cuce nella stessa tela diritti di libertà, diritti umani e diritti sociali.

Nella tua campagna elettorale hai molto insistito proprio sulla libertà come responsabilità.

Sì, perché noi dobbiamo contestare la riedizione della nozione della libertà in chiave berlusconiana. Loro quando immaginano la privatizzazione della costa italiana probabilmente stanno dando una proiezione a quella idea di libertà. Quando si sente dire, in alcune aree della cosiddetta Padania, «padroni in casa nostra», siamo alla libertà patrimoniale predatoria.La libertà, lo dico con timore, dello stupro; se ci pensi un attimo, è la libertà elaborata da un genere onnipotente proprietario, mentre la libertà dei moderni si è strutturata in riferimento alla questione della miseria e dell'ignoranza come emancipazione dalla miseria e dall'ignoranza Nella combinazione tra libertà dalla miseria e libertà dall'ignoranza c'è davvero libertà dalla paura. Invece loro costruiscono una libertà tutta interna al paradigma della paura.

Vendola ha appena finito un consiglio d'amministrazione di un istituto di ricerca scientifica che si chiama Ipres. Ha passato una mattinata con il sottosegretario Roccella per la battaglia per l'allattamento al seno. Ora sta andando a fare chiusure di campagne elettorali a Bisceglie e Barletta. E oggi per lui è ancora campagna elettorale in Sicilia dove si vota tra una settimana. Hai la stessa passione dell'inizio o questa Italia sfasciata ti ha fiaccato?

L'ho detto anche in qualcuno dei comizi: ho sempre vissuto con felicità la politica ma da qualche anno è come una ferita; non ne posso fare a meno perché è il senso della mia vita, però sento un dolore molto grande perché sempre di più la politica è galleggiamento dentro la mucillagine, è il negoziato con le lobby, con le corporazioni. Tu vedi un paese spappolato e l'annuncio di una politica che non arriva mai. Hai di fronte la battuta che noi leaders di sinistra puzziamo, che le donne di sinistra sono racchie e hai la sensazione che a tutto questo bisognerebbe contrapporre davvero una mobilitazione forte, un grande cantiere, una grande agenda. E invece ho il dolore di non sapere ancora se stiamo costruendo un vero percorso di alternativa.

I referendum, per i temi che propongono e per la forma diretta del voto, possono rappresentare la nuova agenda?

I referendum non pongono solo tre temi decisivi: il no al nucleare, l'acqua come bene comune e l'uguaglianza di fronte alla legge. Disegnano uno scenario nuovo. Immagina la coalizione del lavoro (lo sciopero generale) e la coalizione dei beni comuni: eccolo il nuovo cantiere del centrosinistra. Berlusconi è stata la dissipazione

La Repubblica

"Il decreto spiagge scritto sotto dettatura degli stabilimenti"

di Corrado Zunino

ROMA - Chiamato da tutto l’arco ambientalista a esprimersi sul "decreto spiagge", il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha mostrato dubbi. Le sue perplessità sono centrate, innanzitutto, sulla necessità di ricorrere allo strumento del decreto (che richiede requisiti di straordinaria necessità e urgenza), in particolare per alcuni articoli dell’atto. Quindi, l’attribuzione del diritto di superficie ai possessori della licenza per i prossimi 90 anni è un argomento che la presidenza della Repubblica non ha gradito. Sull’ultimo lavoro di Giulio Tremonti, Napolitano ha chiesto uno studio del Nucleo valutazione del Quirinale - il segretario generale e alcuni consiglieri - immaginando di poter indicare alcune anomalie e correzioni possibili, senza mettere in discussione la sua firma.

Ieri è stata Italia Nostra ad appellarsi al presidente della Repubblica. «Questa sorta di privatizzazione dei beni demaniali ad uso e consumo di chi intende speculare su di essi», ha scritto l’associazione, «chiaramente contrasta con l’articolo 9 della Costituzione, che prevede che la Repubblica tuteli il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». Il Wwf e il Fondo ambiente italiano, a dimostrazione della contraerea alzata da tutti gli ambientalisti, hanno disvelato invece la scrittura del decreto «sotto la dettatura dell’Assobalneari».

Così le due associazioni raccontano il copia e incolla del governo: «Fatti e documenti parlano chiaro, il 27 gennaio 2010 in un incontro con il ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla, l’Assobalneari, costola di Confindustria turismo, ha consegnato una nota dal titolo "Il nuovo demanio marittimo: gli obiettivi di Assobalneari Italia"». In quel papiello si chiedevano sostanzialmente tre cose: la proroga delle concessioni in essere sino al 2015, l’introduzione del diritto di superficie sul demanio marittimo e le previsioni di concessioni demaniali cinquantennali. Due richieste su tre sono state rispettate alla lettera: le concessioni al 2015, già contestate dall’Unione europea, e l’introduzione del diritto di superficie sulla battigia. Sulle concessioni di lungo periodo il governo ha praticamente raddoppiato: 90 anni, a fronte della richiesta imprenditoriale di 50 anni. Wwf e Fai sostengono ora: «Il governo agisce sotto dettatura dell’Assobalneari».

Le associazioni ecologiste ricordano il "boom" contemporaneo delle spiagge private italiane: tra il 2001 e il 2010 gli stabilimenti balneari sono raddoppiati passando da 5.368 a 12.000 «e per molto tempo le concessioni sono state assegnate direttamente», tanto da richiamare l’intervento dell’Unione europea. Il modello che va profilandosi, dicono, «è quello delle cittadelle del divertimento: piscina, palestra, sauna, bar, ristorante, discoteca, negozietti oltre a spogliatoi, cabine, bagni e docce. Ombrelloni e sdraio, ormai, sono solo l’ammennicolo che giustifica la concessione demaniale».

Angelo Bonelli, pioniere degli esposti a Napolitano, aggiunge: «La criminalità organizzata potrebbe avviare una imponente operazione di conquista del demanio perché ha forti capitali da poter riciclare. Ci sono tutte le condizioni affinché la Direzione nazionale antimafia presti attenzione a questo provvedimento». Federconsumatori studia un ricorso alla Corte costituzionale: «Continuiamo a considerare allucinante una norma che prevede il regalo delle nostre coste agli stabilimenti balneari», dice il presidente Rosario Trefiletti.

Raffaele Fitto, ministro degli Affari regionali, assicura che in realtà il presidente della Repubblica non ha perplessità, «solo ha chiesto di comprendere i contenuti del decreto». E così l’Europa: «Hanno detto "leggerò il decreto", ma non prendono una posizione. Puntiamo a un confronto con la Commissione europea per spiegare i contenuti specifici del nostro paese».

la Repubblica

Spiagge, legge sotto dettatura

di Tito Boeri



I nostri governanti sono stati spesso accusati di mancanza di lungimiranza, ma stavolta bisogna davvero ricredersi.

Il decreto sullo sviluppo varato la scorsa settimana dal Consiglio dei ministri guarda lontano, molto lontano. Stabilisce, infatti, a chi saranno affidate le concessioni demaniali sulle nostre spiagge fra ben 90 anni. Non ci sarà nessuna gara in cui le concessioni vengano offerte al miglior offerente, ma una semplice proroga delle concessioni in essere. Le tariffe verranno negoziate solo dopo che la proroga è stata concessa, quando dunque i gestori hanno tutto il potere contrattuale dalla loro. Il tutto, come il Quirinale avrebbe già fatto notare, avviene in palese violazione delle norme comunitarie sulla concorrenza. La famosa direttiva Bolkenstein, quella che sin qui aveva evocato altri generi acquatici (molti si ricorderanno della paventata invasione degli idraulici polacchi dopo l’implementazione della direttiva), prevede infatti che le concessioni abbiano durate molto più brevi (tra i 5 e 10 anni) e vengano rinnovate con vere e proprie gare. I beneficiari delle norme approvate dal Consiglio dei ministri sono circa 24.000 operatori, tra stabilimenti balneari, alberghi e campeggi, che si tramandano questo patrimonio di generazione in generazione.

Per una volta si è voluto pensare ai figli, anche a quelli che devono ancora nascere, ma solo ai loro. Se lo vorranno, potranno avere un futuro balneare con rendite molto elevate: un metro quadro di spiaggia viene sub-affittato a prezzi anche 50 volte superiori a quelli pagati per la concessione. Se avranno altri piani, potranno rivendere la concessione, un capitale che li metterà per sempre al riparo dal precariato di figli meno fortunati. Nella legislatura del federalismo, gli enti locali si vedono costretti a rinunciare a entrate cospicue, trasferendo patrimoni e redditi a operatori che molto spesso (pensiamo ai litorali sardi) vivono a centinaia di chilometri di distanza. I residenti dovranno, invece, pagare tasse più alte per avere spiagge presumibilmente tenute peggio e servizi di ristoro (sono loro, anziché i turisti, i principali consumatori) molto più cari.

Ci si chiederà cosa tutto ciò abbia a che vedere con lo sviluppo del Paese che il decreto vorrebbe favorire. Ma, a ben guardare, la norma sulle spiagge è tutt’altro che un’eccezione nel dispositivo. Non c’è nessuna traccia del preannunciato pacchetto liberalizzazioni per benzina, farmaci e assicurazioni. E, leggendo con cura tra le righe (grazie al lavoro certosino di Angelo Baglioni, Luigi Oliveri e Stefano Landi su www.lavoce.info), ci si accorge che sono davvero tante le norme che proteggono chi oggi occupa posizioni di rendita.

In nome della semplificazione, si rinuncia ad esempio alle gare per le opere fino a un milione di euro (raddoppiando il valore degli appalti per i quali si possa procedere a trattativa). Questo significa meno concorrenza e meno trasparenza al tempo stesso. La vera semplificazione richiederebbe interventi su vincoli operativi e burocratici presenti nel codice dei contratti, a partire dai tempi della programmazione e a quelli per la stipula dei contratti, ben più lunghi di quelli richiesti per lo svolgimento delle gare. Invece si opta per ridurre la concorrenza e la trasparenza favorendo pratiche collusive ai danni della collettività.

Un altro esempio liquido è quello delle norme sui mutui. Sembrano andare incontro alle famiglie povere che hanno contratto mutui a tasso variabile, permettendo loro di ridurre le spese per interessi ora che i tassi stanno salendo e che molte di loro si trovano in condizioni finanziarie difficili. Ma, a guardar bene, ci si accorge che si tratta solo di un’assicurazione contro il rischio di un ulteriore aumento dei tassi, che potrebbe rivelarsi anche molto costosa per le famiglie (nel passaggio da variabile a fisso le rate dovrebbero aumentare mediamente del 20 per cento). Infatti, la rinegoziazione dei mutui non congela affatto i tassi ai livelli attuali, ma al livello stabilito sulla base "delle aspettative del mercato sulla dinamica futura dei tassi". Solo se i tassi dovessero salire di più di quanto già oggi si prevede potranno esserci vantaggi per le famiglie in un futuro che potrebbe comunque essere lontano.

Oltre alla presa in giro, c’è anche la beffa. Fissando un livello a cui rinegoziare i mutui, la legge facilita la costruzione di un cartello di banche, che potranno così allinearsi ai prezzi stabiliti dal decreto.

Insomma, col decreto sviluppo, il governo ha deciso che, non solo non ci saranno riforme (lo sapevamo già dal silenzio-assenso a riguardo del cosiddetto Piano nazionale delle riforme), ma che addirittura si faranno passi indietro sul piano delle liberalizzazioni. C’è poco da stupirsi. Un governo fragile, diviso e distratto è ostaggio delle lobby, dall’Abi, all’Ance, all’Assobalneari. Sapevano bene, loro che di litorali se ne intendono, che per il governo questo decreto era l’ultima spiaggia. Pur di avere il loro accordo, era disposto a tutto, anche a farsi dettare il testo di legge.

il manifesto

Il paesaggio è un bene costituzionale

di Alberto Ziparo

Fanno bene ambientalisti e movimenti di difesa del territorio a chiedere a Giorgio Napolitano di non firmare il Decreto Sviluppo, visti i contenuti espliciti di apertura alla privatizzazione ed alla cementificazione di un bene paesaggistico primario quale la fascia costiera. Va ricordato infatti che il paesaggio è tutelato ai sensi dell'articolo 9 della Costituzione ed è compreso nel Titolo I, in quanto «principio fondativo» dell'ordinamento statale. Questa assunzione non fa una "ubbia culturalista" dei costituenti, ma il riconoscimento dell'esistenza di una legislazione sulla tutela di beni culturali e ambientali assai avanzata, di riferimento per tutti gli stati occidentali, che aveva - ancora prima della Costituzione - già segnato dettati normativi importanti con le leggi sui beni culturali e il paesaggio del 1909, del 1922 (qualche mese prima della Marcia su Roma) e soprattutto con i due provvedimenti del 1939.

L'Italia è stata infatti la prima nazione al mondo a "costituzionalizzare" il paesaggio - sottolinea Salvatore Settis - ricordando così che la citata normativa post-unitaria e prima le tante leggi che avevano contrassegnato le diverse entità istituzionali che contrassegnarono l'Italia preunitaria - dallo Stato Pontificio a Firenze, dal Regno borbonico a quello savoiardo - sancivano «l'acquisizione sociale e culturale» del patrimonio paesaggistico quale categoria da tutelare ex legge, in quanto «espressione identitaria degli italiani nel loro costituirsi come cittadinanza».

Oggi il Codice (Decreto Urbani del 2004 e successive) dichiara che tra gli elementi fondamentali del patrimonio paesaggistico statale, tra i «temi paesaggistici» «di primario interesse nazionale», c'è la fascia costiera che «per i 300 metri dalla linea di battigia» (molte Regioni hanno esteso tale area di rispetto) viene tutelata integralmente. Il Codice ha sancito la necessità di salvaguardia assoluta di un bene, anche perché lo stesso era già largamente compromesso: il nostro paesaggio costiero è infatti abbrutito ed imbruttito da abusi, costruzioni in deroga, possibilità di esulare dai vincoli nei centri urbani, situazioni preesistenti alla norma. Tuttavia la legge ha inteso negli anni ribadire l'esigenza di salvaguardia «almeno degli ambiti non compromessi» e di recupero «dei brani già alterati» di paesaggio costiero, richiamandone la valenza costituzionale. Una censura del Presidente della Repubblica, prima degli inevitabili ricorsi alla Consulta, sarebbe quindi atto dovuto, più che giustificato.

Il Decreto sullo sviluppo, espressione tipica della dittatura dell'ignoranza che contraddistingue i nostri anni, pretende di risolvere, con modi superficiali quanto volgari, una delle maggiori querelle di politica dei suoli nazionale: il nodo storicamente critico tra diritti «di proprietà e di superficie» che ha sovente problematizzato fino all'ingestibilità l'urbanistica italiana. Il riformismo territoriale ha infatti assunto quanto stabilito dalla legislazione "progressista" fin dal 1967: «Il titolo di proprietà non da' diritto di disporre della destinazione d'uso di un suolo, in quanto i diritti di superficie sono stabiliti dallo strumento urbanistico, rappresentante dei superiori interessi della collettività». Questa norma è stata oggetto di contenziosi e conflitti infiniti, anche prima del 1980, quando la Corte Costituzionale, proprio sottolineando che il territorio - a differenza del paesaggio - non è inserito tra i «fondamenti» dell'ordinamento statale (la Costituzione ne tratta all'articolo 117), non legittima la supremazia della tutela dello stesso «quale interesse collettivo» superiore a quelli legati alla proprietà. Di qui la rimessa in discussione degli stessi vincoli urbanistici e previsioni dei piani, «in attesa di una prossima riforma generale del regime dei suoli», eternamente di là da venire.

Oggi il nostro ineffabile esecutivo risolve questo nodo al contrario: il diritto di superficie può essere differito da quello di proprietà, ma non «per superiori interessi collettivi», bensì per «superiori interessi speculativi», nella fattispecie di operatori turistici e costruttori. Se l'ambito in questione è inserito in distretti turistici da "valorizzare" può essere edificato o trasformato; al di là di qualsiasi tutela paesaggistica e destinazione urbanistica. Siamo al delirio.

Nel merito della questione, se i nostri ministri leggessero le statistiche sul consumo di suolo, sull'edilizia vuota ed inutilizzata, e sul fatto che - a dispetto della cementificazione delle spiagge - ormai in molte località gli hotel non si riempiono nemmeno a ferragosto, forse rifletterebbero sull'insensatezza delle loro proposte.

Non bisogna essere catastrofisti e pessimisti per vedere che le cose vanno di male in peggio. Sul fronte dell'economia, suona la solita triste musica, con il padronato privo di freni inibitori, il sindacato in fibrillazione, uno sciopero generale di cui si sono accorti in pochi, un ennesimo uomo di Goldman Sachs, questa volta in salsa italica, in procinto di scalare la Bce, e dulcis in fundo, l'Ocse che raccomanda di privatizzare l'acqua. Sul piano politico, ci siamo imbarcati in un'ennesima, stupidissima, illegale ed immorale guerra imperialista che costa, solo all'Italia, cento milioni di euro al mese e che causa una strage continua di migranti innocenti; i fascisti tornano aggressivamente in pista con mazze e coltelli ed i media di regime incolpano i centri sociali. Berlusconi si scopre timoroso del popolo sovrano e cerca disordinatamente di cancellare i referendum proponendo soluzioni truffa, giuridicamente impercorribili ma devastanti sul piano della comunicazione. Se fossimo in tempi normali, questo tentativo giuridicamente pasticcione altro non meriterebbe che una scrollata di spalle. Il sistema costituzionale prevede un controllo preventivo di legittimità costituzionale da parte del Presidente della Repubblica ed in questo caso davvero le condizioni per apporre la firma senza rinviare alle Camere non ci sono. Ma, con la teoria del «naturale sviluppo», è defunta la fiducia nella interpretazione costituzionale del Supremo Garante. Se il Decreto sarà convertito (ma il tempo stringe) Egli lo firmerà. Saremo quindi costretti all'ultimo momento a difendere a fondo i referendum di fronte all'Ufficio Centrale presso la Corte di Cassazione. Siamo ben provveduti ed in ottima compagnia (si veda l'appello su www.siacquapubblica.it) e affronteremo anche questo passaggio.

Di fronte a ciò impazzano i circenses di destra che abbrutiscono vieppiù popolazioni ridotte a consumatori a credito. A Londra il «matrimonio del secolo», da noi il rituale di beatificazione di un papa ossessivamente anticomunista e le parate militariste per i 150 anni della Repubblica. Chi si indigna per tutte queste miserie e vuole davvero farla finita con questa classe dirigente deve fare molta attenzione a utilizzare bene il proprio voto alle amministrative, scegliendo rigorosamente candidati che promettano un'autentica «inversione di rotta» con relativa rinascita di una credibile alternativa di sinistra. La situazione è molto variabile. A Milano è facile: Pisapia va sostenuto senza se e senza ma. Una sua vittoria nella città simbolo del craxismo e del berlusconismo avrebbe una portata politica dirompente. A Torino invece la sinistra è stata massacrata nel tritacarne delle primarie. Non c'erano le condizioni per partecipare, molti di noi lo avevano detto. Posto che Fassino non è votabile per una persona di sinistra, il voto va dato a Juri Bossuto, candidato di Fds e Sinistra Critica, che speriamo riceva molti voti disgiunti di quei compagni che voteranno consiglieri comunali di Sel, dei Verdi o del Pd (qualcuno di sinistra ancora c'è). Se l'antifassino di sinistra ottenesse un risultato significativo (per es. il 5%) si potrebbe tornare a far politica (e non antipolitica) di opposizione anche sotto la Mole. A Napoli c'è un'altra partita chiave. De Magistris, alleato con Fds, va sostenuto a spada tratta. Il suo programma, in gran parte opera di Alberto Lucarelli, co-redattore dei quesiti referendari e già esponente di punta della Commissione Rodotà, è un'autentica inversione di rotta. Una vittoria di De Magistris (con Lucarelli assessore ai beni comuni cosa importantissima in terra di spazzatura) avrebbe a sua volta una portata dirompente non solo in chiave antiberlusconiana (il che è ovvio), ma soprattutto sarebbe un'autentica spallata da sinistra al modo di pensare bipartisan dominate. Per questo occorre sperare che anche qui molti elettori di Sel e del Pd votino disgiunto.

L'inversione di rotta che può iniziare a Milano e Napoli si completerebbe poi il 12 e il 13 giugno con una clamorosa vittoria ai Referendum. In un mese da oggi possiamo creare le condizioni perché, almeno in Italia, tutto cambi. Non si possono risparmiare le energie.

Le mosse di Berlusconi sono da tempo prevedibili, perché appartengono ad una logica che egli ha trasferito nel mondo della politica senza mai farsi contagiare dal "senso delle istituzioni". Non può sorprendere, quindi, lultimo suo proclama: «Dobbiamo cambiare la composizione della Corte costituzionale, dobbiamo cambiare i poteri del Presidente della Repubblica e, come avviene in tutti i governi occidentali, attribuire più poteri al governo del Presidente del Consiglio». Proprio le ultime parole sono rivelatrici. Scompare il "Governo della Repubblica", di cui parla larticolo 92 della Costituzione. Al suo posto viene insediato il "Governo del Presidente del Consiglio", una formula che esprime la logica proprietaria dalla quale Berlusconi non ha mai voluto separarsi. Limprenditore è fedele alle sue origini, e nel suo modo dagire si ritrova la vecchia e di nuovo vitale formula secondo la quale "la democrazia si ferma alle porte dellimpresa". Governare è esercizio di potere assoluto. Chi si presenta come un intralcio lungo questo cammino deve essere eliminato.

Prevedibile o no, lultima accelerazione inquieta, assomiglia ad un assalto finale. Gli ostacoli li conosciamo. Magistratura a parte, nellultima fase della storia della Repubblica le garanzie si sono concentrate in due istituzioni, il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Ma questo non dipende da una impropria volontà di potenza. Discende da un progressivo indebolirsi del sistema dei controlli, dei pesi e contrappesi che caratterizzano larchitettura costituzionale e dei quali non ci si è preoccupati quando è cominciata la stagione delle "spallate", delle manipolazioni delle leggi elettorali, del bipolarismo ad ogni costo, della "governabilità" senza aggettivi. Troppi apprendisti stregoni hanno lastricato la strada che oggi Berlusconi si ritiene legittimato a percorrere senza scrupoli. Così, nel deserto istituzionale, le funzioni di garanzia, ineliminabili in democrazia, si sono rifugiate nelle due istituzioni che il Presidente del Consiglio ha ieri pubblicamente rifiutato.

Mai, però, il tiro era stato alzato tanto in alto, per colpire deliberatamente il Presidente della Repubblica. Malumori, reazioni violente lasciate trapelare, senza tuttavia trasformare in conflitto aperto una relazione difficile. Cautele ormai abbandonate. Così comè, il Presidente della Repubblica non è più accettabile. Questo, a chiare lettere, ha detto ieri Berlusconi.

Le ragioni di questa mossa sono nitide. Inaccettabile, per chi si nutre di sondaggi, la fiducia crescente riposta dai cittadini in Giorgio Napolitano. Inammissibile il quotidiano rivelare le lacerazioni del tessuto istituzionale per chi vuole manipolarle impunemente. Oltraggiosa la pretesa di custodire la legalità costituzionale per chi vuole trasformare linvestitura popolare in un "lodo" che lo pone al disopra delle leggi.

Berlusconi sa benissimo che una riforma costituzionale che azzoppi in un colpo solo Presidente della Repubblica e Corte costituzionale esige tempi lunghi. Ma non gli importa. Nel momento in cui dice esplicitamente che i poteri del Presidente della Repubblica devono essere ridotti, lascia intendere che sono male utilizzati. Invita così ad una pubblica "sfiducia" a Giorgio Napolitano, facendo divenire asse della sua politica il copione che già linformazione di rito berlusconiano aveva cominciato a scrivere. Vuole demolire limmagine del Presidente super partes, mostrarlo non come un garante, ma come lespressione di una parte.

Napolitano parla anche perché troppi sono silenziosi, o ridotti al silenzio. Ma la voce delle istituzioni non può spegnersi. Da esperto della comunicazione, Berlusconi è inquieto perché sa che quella non è una voce che parla nel deserto, ma trova ascolto perché dice verità e così concentra sulla Presidenza della Repubblica lattenzione dei cittadini consapevoli della gravità di una situazione che Berlusconi e i suoi gabellano come il migliore dei mondi.

Una relazione non populista con i cittadini insidia lo stesso modo dessere di Berlusconi. Ma questo manifestarsi duna opinione critica diffusa appare monco, perché rivela gli inaccettabili silenzi di una cultura alla quale non si chiede di essere militante, bensì dessere parte di una difficile discussione pubblica, di testimoniare almeno quelle "ingenue idealità etiche" alle quali, contro il realismo politico, si richiamava nel 1929 Benedetto Croce votando contro il Concordato.

Passata la festa gabbato lo santo? In altre parole: come si muoverà la Cgil dopo lo sciopero generale del 6 maggio? Si aprirà una fase nuova, di responsabilità verso un paese in ginocchio, e dunque di conflitto; o, al contrario, lo sciopero segnerà la fine di una stagione che ha visto il maggior sindacato come unica solida sponda contro il pensiero unico, oggi pronto a ripartire all'inseguimento di un sogno concertativo con Cisl, Uil e padronato?

La riuscita della protesta è andata oltre le aspettive, e forse addirittura oltre l'investimento dell'organizzazione, sostiene malignamente chi più ci aveva puntato: la maggioranza dei lavoratori dipendenti ha incrociato le braccia e le oltre cento piazze in cui si è manifestato si sono riempite di operai, impiegati, tecnici, ricercatori, insegnanti, ma anche studenti, tantissimi giovani - cioè precari senza prospettive né rappresentanza sindacale. Del resto, quella politica chi ce l'ha? Nelle piazze la protesta si è naturalmente estesa dal governo, l'obiettivo scelto da chi ha promosso lo sciopero, alla Confindustria. E l'organizzazione padronale non ha neanche aspettato 24 ore a dar ragione, da Bergamo, ai suoi detrattori. Sarà sempre più difficile, con la linea scelta da Emma Marcegaglia, sostenere l'obiettivo del blocco sociale antiberlusconiano che dovrebbe mettere sulla stessa barca gli operai e i loro padroni, in nome di uno sviluppo deciso solo da chi sta al timone della barca e che, come dimostra Marchionne, non è disposto a rispettare neanche le regole del mare. Fuor di metafora, non tollera alcuna regola che non si fondi sulla sacralità del profitto e della rendita, in un mercato globale darwiniano senza vincoli sociali e ambientali. Vogliamo dimenticare gli applausi confindustriali di Bergamo al capo della ThyssenKrupp?

Ieri si è tenuto il Comitato centrale della Fiom, la categoria Cgil più esposta agli strali di Marchionne e dell'intero padronato che, come sempre, si aspetta dalla Fiat il là per ribaltare i rapporti di forza. Sogna la vendetta di classe ed è impegnato a costruirla, con l'aiuto del governo, dividendo i sindacati e arruolando i più disponibili con la complicità dell'opposizione parlamentare. La Cgil vive la Fiom come una risorsa o come un problema? Il rapporto tra Corso d'Italia e i suoi metalmeccanici è sempre stato vivace e talvolta si ha l'impressione, dall'esterno, che ci sia qualcuno alla ricerca del regolamento dei conti. Il fatto che intorno alla generosa lotta della Fiom in difesa del contratto nazionale e dei diritti individuali e collettivi sia cresciuta la solidarietà di chi, nel movimento degli studenti, dei precari, nell'associazionismo legato alla tutela del territorio e dei beni comuni, si batte contro il modello sociale dominante, può addirittura produrre richiami all'ordine. Come se la Cgil fosse un partito terzinternazionalista e non una casa comune, libera, aperta ai nuovi fermenti sociali.

Oggi si riunisce il direttivo nazionale della Cgil, le diverse linee si confronteranno e, sperabilmente, troveranno un punto di unità. Che difficilmente segnerà una svolta definitiva in un senso o nell'altro. Certo non potrà essere contraddetto il principio di una ragionevole autonomia delle categorie rispetto alla confederazione, così come esiste l'autonomia reciproca tra le Rsu e l'organizzazione sindacale, come ieri ha ribadito Maurizio Landini in relazione alle polemiche esplose dopo le decisione dei delegati Bertone di votare sì a un referendum di cui pure non riconoscono la legittimità. E al tempo stesso, di chiedere alla Fiom di non cambiare il suo orientamento e dunque di non votare il testo-truffa imposto da Marchionne. Questa dicotomia si spiega - oltre che con l'autonomia delle Rsu - con il fatto che la vittoria del no avrebbe consentito alla Fiat di riconsegnare l'azienda al procedimento fallimentare.

Dentro la Cgil non è in atto un conflitto tra due monoliti ma un confronto aperto, con posizioni articolate delle varie categorie dell'industria, dei servizi, della conoscenza e dei pensionati e delle camere del lavoro. Esistono poi una maggioranza che fa capo alla segreteria nazionale e una minoranza congressuale, «la Cgil che vogliamo», che è maggioranza tra i metalmeccanici, dove del resto esiste un'articolazione uguale e contraria. È una forma di democrazia, normale e feconda, nel maggiore dei sindacati italiani, sostenuto da quasi sei milioni di iscritti e capace di mobilitare la maggioranza dei lavoratori. Un valore da proteggere, e di cui andare fieri. Chiedere alla Fiom firme tecniche in calce a (non)accordi truffa, oppure al contrario di sanzionare le Rsu che sono state spinte dalla loro condizione a prendere una decisione diversa, è legittimo naturalmente, ma non fa fare passi avanti sul terreno della democrazia. Piuttosto che di critiche, il gruppo dirigente della Fiom avrebbe bisogno di solidarietà - quella dei lavoratori, degli studenti e dei precari ce l'ha già: la battaglia in difesa dei diritti, dei contratti e della democrazia meriterebbe di diventare una battaglia generale.

La discussione che si apre oggi nel gruppo dirigente della Cgil è incoraggiata dall'esito positivo dello sciopero. È un confronto a cui in molti dovrebbero prestare attenzione.

I ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri: la diseguaglianza invece di diminuire aumenta e non solo nei paesi in via di sviluppo, anche in Europa. In Italia più che altrove. Una tendenza che crea ingiustizie, blocca la crescita e frena l´ascensore sociale: quel meccanismo che fa sperare ai padri di potere dare ai figli una vita migliore.

Lo denuncia l´Ocse con una ricerca che mette a nudo le disparità nei paesi dove il benessere dovrebbe essere sempre più diffuso. Così non è: nei 34 stati che fanno parte dell´organizzazione, il 10 per cento della popolazione più ricca ha in media redditi superiore nove volte rispetto al dieci per cento della popolazione più povera. Un divario che cresce sia dove il «gap» era già evidente, come in Israele e Usa, che nei paesi dove la diseguaglianza sociale è sempre stata bassa, come la Svezia o la Germania.

In questo quadro, restando all´Europa, l´Italia è uno dei paesi che fa peggio: le fasce che stanno ai vertici della ricchezza hanno redditi sei volte superiori a quelle che stanno alla base della piramide. E negli ultimi venti anni la diseguaglianza è aumentata. Lo studio dell´Ocse la misura attraverso l´indice Gini (è zero quando tutti i redditi sono uguali, è uno dove la differenza è massima): da noi, nel 1985 era fermo allo 0,30, nel 2008 è arrivata quasi allo 0,35. Uno dei peggiori dati messi a segno dai paesi europei. In coda alla classifica ci fanno compagnia il Portogallo, il Regno Unito, Polonia ed Estonia. Francia, Germania e Spagna stanno tutte attorno allo 0,30. La ricchezza, considerato il lungo periodo, è dunque aumentata, ma lo sviluppo ha premiato solo chi già stava bene: dagli anni Ottanta od oggi i più ricchi, in Italia, hanno visto crescere i loro già consistenti redditi dell´1,1 per cento, agli altri sono andate le briciole: le fasce basse possono contare su disponibilità aumentate solo dello 0,2 per cento. Per loro nulla si è mosso.

Commentando i dati, le Acli parlano di una «pesante retrocessione sociale» legata ad una «competizione internazionale che ha fortemente indebolito il nostro sistema produttivo: le ragioni delle disuguaglianze nel nostro paese vanno individuate innanzitutto nell´endemica debolezza dei redditi di lavoro dipendente e nella quasi totale assenza di un sistema generalizzato di tutele nel mercato del lavoro».

Il fatto è che la mancata distribuzione della ricchezza, fa notare l´Ocse, mette in pericolo anche lo sviluppo futuro. L´impossibilità per i giovani di migliorare il proprio status sociale ed economico «avrà un inevitabile impatto» sul paese che verrà.

La globalizzazione, che secondo i più ottimisti, doveva generare miglioramenti diffusi, ha generato dunque un aumento delle disparità. Perché? L´analisi dell´Ocse (Growing income inequality in Oecd countries: what drives it and how can policy teckle it?) fa notare che il processo ha favorito chi poteva contare sulle migliori qualifiche e che la diversa struttura delle famiglie e il maggiore contributo dei redditi da profitti del capitale hanno fatto il resto. Come agire ora? Per l´ Ocse gli strumenti «più diretti e potenti» per tentare un recupero sono le riforme delle politiche fiscali e previdenziali e le misure di sostegno al reddito. Ma da sole non bastano: bisogna creare lavoro e stappare le famiglie alla povertà aumentando l´occupazione, la formazione e l´istruzione delle persone poco qualificate. Bisogna investire insomma sul capitale umano e sulla scuola.

Mi duole dirlo perché, come molti lettori di Repubblica, ritengo che gli Stati Uniti siano una grande democrazia dotata di alcune ottime istituzioni e che molti politici e intellettuali statunitensi abbiano tanto da insegnarci, a noi europei. Mi duole dirlo, ma l´uccisione di Bin Laden ha costituito una seria violazione di almeno due di tre principi etico-giuridici fondamentali.

Anzitutto, informazioni iniziali intorno a un suo "corriere" sono state acquisite attraverso la tortura, autorizzata ufficialmente e mai condannata, neanche ai più alti vertici degli Usa. La norma che vieta la tortura e non la giustifica mai, dico mai, è diventata un "principio costituzionale" della comunità internazionale, e a nessuno dovrebbe essere consentito di infrangerla senza essere debitamente processato e punito. Stranamente Panetta, l´attuale capo della Cia e prossimo Segretario alla Difesa, nel 2008 condannò la tortura osservando che non può essere giustificata da ragioni di sicurezza nazionale. Poi nel febbraio 2009, davanti al Senato, affermò che l´annegamento simulato (waterboarding) era sì illegale ma, se egli fosse stato nominato capo della Cia, non avrebbe punito coloro che lo avessero commesso. Stupefacente! La tortura rimane illegittima anche nei casi in cui essa consente di ottenere utili informazioni. Chi ha torturato va punito anche in questi casi, per riaffermare il valore supremo di quel divieto.

La seconda violazione è consistita nel compiere una operazione militare in territorio pakistano senza il consenso di quello Stato. In una parola, è stata violata la sovranità del Pakistan. Ma qui Obama può invocare importanti esimenti. Islamabad aveva l´obbligo nei confronti di tutta la comunità internazionale di reprimere il terrorismo e non lo ha fatto. Questo obbligo era rafforzato da quello assunto bilateralmente nei confronti degli Usa di ricercare e arrestare Bin Laden, obbligo che aveva come "corrispettivo" la consegna statunitense al Pakistan di un miliardo di dollari l´anno. Nell´omettere platealmente e per molti anni di adempiere quell´obbligo il Pakistan ha in un certo senso legittimato una "azione sostitutiva". Il raid statunitense può essere equiparato, per certi aspetti, a quelle operazioni di salvataggio dei propri cittadini, tipo Congo (intervento dei belgi nel 1960) o Entebbe (intervento israeliano nel 1976), che sono state ritenute legittime in passato.

La terza violazione è quella di un principio fondamentale di civiltà giuridica. Uno Stato democratico non può trasformarsi in assassino, tranne che in due casi. Anzitutto nell´ipotesi di violenza bellica in atto. Ma tra gli Usa e Al Qaeda non c´è guerra, né internazionale né civile; l´azione statunitense contro le reti terroristiche di Al Qaeda è solo azione di polizia che, se intende dispiegarsi a livello internazionale, ha bisogno della cooperazione delle forze dell´ordine degli altri Stati, gli Usa non essendo un gendarme planetario. Del resto, anche in una guerra internazionale il nemico può essere ucciso solo in campo di battaglia, non a casa sua, tranne che si difenda con le armi, sparando e uccidendo; se sorpreso inerme nella sua dimora, va catturato e, se autore di crimini di guerra, processato. L´altro caso in cui lo Stato può uccidere legalmente è quando deve far eseguire con la forza ordini legittimi contro persone che deliberatamente si sottraggono all´arresto (ad esempio, si può uccidere un rapinatore che tenta di scappare sparando contro i poliziotti che cercano di catturarlo). Se uno Stato accusa uno straniero di crimini gravissimi, lo arresta (o la fa arrestare all´estero dalle autorità del luogo) e lo processa. Nel caso di Bin Laden tutto lascia pensare che l´ordine fosse di ucciderlo: era disarmato; ha opposto qualche resistenza facilmente superabile da uomini armati fino ai denti. Qui i principi etico-giuridici sono chiari. Averli trasgrediti è grave. Mettetevi però nei panni di Obama: egli sapeva che un processo, davanti a un tribunale statunitense o internazionale, sarebbe durato per lo meno due anni (fra istruttoria, dibattimento e sentenza), con Bin Laden detenuto. Obama deve aver pensato agli innumerevoli atti terroristici che Al Qaeda avrebbe scatenato nel mondo, durante il processo. E poi: dove detenere Bin Laden, a Guantánamo, che si cerca di chiudere al più presto possibile, o in un carcere in territorio statunitense, dove nessuna delle autorità statali lo prenderebbe, per ragioni di ordine pubblico? E come evitare che Bin Laden trasformasse l´aula giudiziaria in una tribuna politica, come hanno fatto Milosevic e Karadzic all´Aja? Un processo avrebbe anche portato alla luce le collusioni della Cia con Bin Laden ai tempi dell´invasione russa dell´Afghanistan, nonché gli ambigui rapporti della Cia con l´ex capo dei servizi segreti sudanesi, Sala Gosh, per un tempo protettore di Bin Laden in Sudan. Si sarebbe trattato inoltre di un processo nel quale la presunzione di innocenza di cui avrebbe dovuto godere l´accusato sarebbe stata minima e lo sbocco finale scontato. Obama ha così optato per l´opportunità politica contro valori morali e giuridici. Il che non giustifica affatto la sua decisione, ma permette di comprenderne le motivazioni. Resta il fatto che ancora una volta la Realpolitik ha battuto l´etica ed il diritto.

Il blitz ad Abbottabad solleva un problema più generale. Negli Usa, le autorità di polizia non procederebbero mai alla tortura, perché è vietata, e inoltre ogni prova ottenuta con quei metodi non avrebbe alcun valore in un processo. Inoltre l´uso di armi letali da parte delle forze dell´ordine è strettamente regolato, e lo "stato di diritto" esige che non si possano commettere "esecuzioni extragiudiziali". Tutte queste protezioni valgono per cittadini statunitensi o per gli stranieri che abbiano commesso un reato contro un cittadino Usa. Ma dal 2011 gli Usa hanno creato un limbo sia giuridico sia territoriale (Guantánamo) per presunti terroristi stranieri, tra l´altro ammettendo la tortura. Ed ora di fatto ammettono anche le "esecuzioni extragiudiziali" con blitz all´estero. Bisogna dunque chiedersi se gli Usa ritengano che la "supremazia del diritto" valga solo al loro interno, mentre perde ogni valore nel campo delle relazioni internazionali. Se così fosse, dovremmo seriamente preoccuparci per le prossime mosse della Superpotenza planetaria, oggi ancora guidata da un uomo che, almeno a parole, dice di credere nel diritto e nella giustizia.

In 10 articoli scatta la deregulation che Tremonti ha promesso a imprese e commercianti. Diritti di occupazione delle coste, più facile noleggiare yacht e costruire posti barca. Parte il saccheggio italiano.

Non costa nulla alle casse pubblichee libera tutti da vincoli e controlli.UnBengodi che «aiuta le imprese» (lo dice Giampaolo Galli),le banche, i costruttori, ristoratori,albergatori, baristi delle zonecostiere finalmente liberi di ampliarele attività su spiagge ed arenili.Di più: potranno anche allestiresenza troppi permessi pontiligalleggianti, posti barca, parcheggiper gli yacht, una vera prioritàper l’Italia dopo la crisi. Altrimentichi ci pensa ai più ricchi durante lacrisi? Comunque «la spiaggia restapubblica e accessibile a tutti» assicuraGiulio Tremonti. È specifica:«Non vendo le coste». Meno maleche lo specifica. Il ministro non faneanche quello che gli operatori turisticichiedono, cioè abbassarel’Iva, come osserva Enrico Gasbarra(Pd). Ma questo costerebbe.

Questa in estrema sintesi la presentazionea Palazzo Chigi dell’ultimatrovata pre-elettorale del governo:il decreto cosiddetto per lo sviluppo.Incastonato tra un interventodi Silvio Berlusconi su sottosegretari,Napoli, nuove autostrade aNord, l’annuncio di Paolo Romanidel nuovo decreto sulle rinnovabili(su cui è già arrivato un ricorso degliinvestitori esteri) e quellodell’Economia sull’ok di Bankitaliaalla Banca del Sud (cara al superministro),il «poderoso» provvedimentoorchestrato da Tremonti apparecome una disperata rincorsa verso ilconsenso, che in 10 articoli inglobanorme fiscali, ambientali, industriali,bancarie, sull’acqua, sulla scuola,sulla ricerca, sul lavoro, sulla ricerca.Sta di fatto che mentre scriviamoil testo ancora non si conosce, ed èancora da limare secondo il «ministro-delfino».

FRUSTATA

La «frustata» all’economia parte dal credito d’imposta sperimentale per 24 mesi per le aziende che investono in ricerca, che potranno dedurre il 90%. Come si possa fare, senza spendere, resta un mistero. Il ministro annuncia un metodo innovativo, un «prelievo volontario» che sarà spiegato in seguito. Segue un credito d’imposta per le assunzioni al Sud, norma ripescata dal governo Prodi.

Ma la vera «carne» arriva conl’articolo 3, che riguarda appunto lereti d’impresa, le zone a burocraziazero, i distretti alberghieri e le coste.«Tutto ciò che riguarda gli operatoribalneari sarà oggetto di diritto di superficiedi 90 anni». Per Tremonti «èil momento di valorizzare il turismosoprattutto nelle coste, fermo il dirittodi passaggio sulla spiaggia. Tuttociò che è terreno su cui ci sono insediamentituristici, strutture ricettive,chioschi. Pensiamo a un dirittolungo, che dia una prospettiva ditempo logica per fare davvero gli investimenti.Così si creano lavoro einvestiment. Èun meccanismo in divenire,le entrate andranno alle Regionie ai Comuni e al Ministero degliinterni nelle zone a burocrazia zero». Esultano le associazioni deicommercianti, mentre gli ambientalistidenunciano il saccheggio. SecondoLegambiente, infatti, la norma«in modo totalmente illogico eanacronistico, di fatto privatizza ilpatrimonio costiero cedendolo a pochisoggetti più ricchi a scapitodell`intera cittadinanza cui vienealienato il diritto di usufruire liberamentedel territorio e delle parti piùpreziose del nostro paesaggio». Menocontrolli anche in campo fiscale.

Anzi: basta con la «persecuzione»della guardia di Finanza e degliispettori, che danneggiano la credibilitàdi unfisco che vuole trasparenzae che quindi deve dare rispetto,spiega il ministro. Così arrivano lesanzioni per gli ispettori che «eccedononel loro ruolo» (che vuol dire?).«Se i comportamenti sono gravi,gravi saranno anche le relativesanzioni, nessuna esclusa». Insomma,la gravità sta nel fare i controlli,non nel non pagare le tasse. In unpaese dove l’evasione supera i 120miliardi l’anno di gettito. I recuperifinora si sono concentrati sulle grandiimprese, mentre le medio-piccolesono rimaste a briglia sciolta. Perevitare di disturbare troppo gli imprenditori,che già plaudono, Tremontichiede anche ai finanzieri dieffettuare i controlli senza divisa. Atutto questo si aggiunge la nuova sogliaper le gare negli appalti pubblicie l’innalzamento del tasso usurario,che le banche considerano necessariomentre i consumatori giudicanoassolutamente pericoloso. Losviluppo finisce qui.

Festeggiata con grida di trionfo negli Stati Uniti, l´uccisione di Bin Laden crea nelle menti più sconcerto che chiarezza, più vertigine che sollievo.

La storia che mette in scena somiglia ben poco a quel che effettivamente sta accadendo nel mondo: è parte di una guerra contro il terrore che gli occidentali non stanno vincendo in Afghanistan, e da cui vorrebbero uscire senza aver riparato nulla. È un´operazione che rivela la natura torbida, mortifera, dell´alleanza tra Usa e Pakistan: una potenza, quest´ultima, che usa il terrorismo contro Afghanistan e India, e che per anni (cinque, secondo Salman Rushdie) ha protetto Bin Laden. Che lo avrebbe custodito fino a permettergli di costruirsi, a Abbottabad, una casa-santuario a 800 metri dal primo centro d´addestramento militare pakistano.

Ma l´operazione nasconde due verità ancora più profonde, legate l´una all´altra. La prima verità è evidente: Bin Laden era già morto politicamente, vanificato dai diversi tumulti arabi, e la cruenza della sua esecuzione ritrae un Medio Oriente e un Islam artificiosi, datati, che ancora ruotano attorno a Washington. Il terrorismo potrebbe aumentare, anche se l´America, che ha visto migliaia di connazionali morire nelle Torri Gemelle, gioisce comprensibilmente per la giustizia-vendetta. Come in M – Il mostro di Düsseldorf l´assassino è stato punito, ma l´ultima scena manca: quella in cui una mano potente agguanta il colpevole, lo sottrae alla giustizia sommaria, lo porta in tribunale. La parola che sigilla il film di Fritz Lang è: «In nome della legge». È la formula performativa che non s´è sentita, a Abbottabad. Con i nostri tripudi avremo forse contribuito alla trasfigurazione di M – il mostro di Al Qaeda.

Oltre che morto politicamente Bin Laden era divenuto irrilevante, prima di essere ucciso. La sue cellule gli sopravvivono, non avendo in realtà bisogno d´un capo per agire. Ma il suo desiderio di forgiare l´Islam mondiale era già condannato. Il mondo arabo e musulmano sembra aver imboccato una via, dal dicembre 2010, che rompe radicalmente con la visione che egli aveva dell´Islam, dell´indipendenza e dignità araba, della democrazia occidentale. La rivoluzione araba è cominciata con un evento, in Tunisia, che lui avrebbe ripudiato: la decisione di un giovane arabo di protestare contro il regime uccidendo se stesso, non seminando morte come un kamikaze, immaginando l´inferno fuori di sé.

Il terrorismo come metodo emancipatore non ha più spazio nelle cronache odierne, perché il suo obiettivo strategico è percepito da milioni di arabi come la radice stessa del male: come atto che espropria di potere il cittadino ordinario, che lo trasforma in uomo nudo, infantilizzato, mosso da paura. Seminando panico, l´atto terrorista congela l´emancipazione dal basso, proprio perché agisce in nome del popolo, non con il popolo. Gran parte dell´Islam non seguì questa via, dopo l´11 settembre, e meno che mai condivise il sogno di un califfato teocratico mondiale, che Bin Laden coltivava. Le sommosse arabe lo hanno ucciso prima degli americani, con le proprie forze e i propri martiri: in Tunisia, Egitto, Yemen, Siria, Marocco, Libia. Le piazze non si sono risvegliate grazie a lui, per il semplice motivo che Bin Laden non aveva scommesso sul loro risveglio ma sul loro sonno, e il più delle volte sulla loro morte (Al Qaeda ha ucciso più musulmani che non-musulmani, secondo uno studio pubblicato nel dicembre 2009 dal Combating Terrorism Center di West Point).

La seconda verità è strettamente connessa alla prima, e concerne le guerre americane ed europee posteriori all´11 settembre. Terrorismo e guerre imperiali al terrore sono stati in tutti questi anni fratelli gemelli, e insieme barcollano. Si sono nutriti a vicenda, fino ad assomigliarsi. La guerra al terrore che oggi vince una delle sue battaglie è la stessa che ha prodotto Guantanamo e Abu Ghraib: le prigioni senza processi, la tortura banalizzata. Una volta abbattute le frontiere del possibile, scrive Clausewitz, è difficilissimo rialzarle: e infatti Obama non ha avuto la forza di chiudere Guantanamo. Forse non ha neppure rinunciato alla tortura, come ha lasciato intendere il portavoce del dipartimento di Stato Philip Crowley prima di dimettersi, il 13 marzo scorso. Lunedì, alla Bbc, Crowley non ha escluso che sia stata usata la tortura, per estrarre dai detenuti di Guantanamo informazioni sul rifugio di Bin Laden. Alla vigilia delle dimissioni aveva parlato di torture e maltrattamenti del soldato Manning (colpevole d´aver fornito documenti a WikiLeaks) inflitte nella prigione di Quantico in Virginia. Senza attendere il processo Obama ha detto, il 21 aprile: «Manning ha infranto la legge».

Fred Halliday, il compianto studioso del Medio Oriente, ha scritto nel 2004 che la nostra modernità ha al suo centro questa complicità fra terrorismo e esportazione della democrazia dall´esterno: «Ambedue hanno imposto con la forza le proprie politiche e le proprie visioni a popoli ritenuti incapaci di proteggere se stessi, proclamando le proprie virtù storiche mondiali, richiamandosi a progetti politici che solo loro hanno definito». Halliday concludeva: «Il terrorismo può essere sconfitto solo se quest´arroganza centrale (evidente nel colonialismo di ieri come nel terrorismo di oggi, ndr) viene superata» (Opendemocracy, 22-4-04).

Ambedue le violenze sui popoli (terrorismo e guerra al terrorismo) sono figlie di ideologie apocalittiche che della realtà non si curano. I popoli che dovevano esser «salvati» hanno dimostrato di voler vigilare su se stessi senza voce del Padrone. Anch´essi sono pronti a morire, ma senza glorificare la morte come i kamikaze. Senza quello che Unamuno chiamò, durante la guerra civile spagnola, il «grido necrofilo» di chi sceglieva come motto «Viva la muerte!». L´uccisione di Bin Laden è un´ennesima salvezza venuta da fuori, che chiude gli occhi.

Eppure è venuto il momento di aprire gli occhi, anche per gli europei che usano seguire l´America senza discutere. Di capire come mai la potenza Usa ha attratto su di sé tanto odio. Quel che è perverso nell´odio, infatti, è che esso nasconde sempre una dipendenza, una segreta ammirazione, un bisogno dell´altro, idolo o Satana. La guerra al terrorismo non comincia l´11 settembre 2011, così come la prima guerra mondiale non comincia con lo sparo a Sarajevo. Comincia nella guerra fredda, quando Washington decide di combattere l´espansione sovietica con ogni mezzo: aiutando regimi autoritari, e anche finanziando e aizzando il radicalismo islamico in Afghanistan.

Non dimentichiamolo, mentre ascoltiamo Obama che annuncia di aver voluto «consegnare Bin Laden alla giustizia» (bring to justice) nel preciso momento in cui invece lo faceva giustiziare. Durante la guerra sovietica in Afghanistan, Reagan chiamava i mujaheddin non jihadisti ma freedom fighters, combattenti per la libertà. Eppure si sapeva che erano terroristi e basta. In un´intervista al Nouvel Observateur, il 15-1-98, il consigliere per la sicurezza di Carter, Brzezinski, racconta come Washington aiutò i jihadisti contro il governo prosovietico di Kabul, nel luglio ´79, sei mesi prima che l´Urss intervenisse. L´intervento del Cremlino fu scientemente forzato «per infliggergli un Vietnam» politico-militare. Brzezinski non rimpiange l´aiuto ai futuri terroristi, e al giornalista esterrefatto replica: «Cos´ha più peso nella storia del mondo? I Taliban o il collasso dell´impero sovietico? Qualche esagitato musulmano o la liberazione dell´Europa centrale e la fine della guerra fredda?».

Sono dichiarazioni simili a creare sconcerto, vertigine. Tanti morti - a New York, Madrid, Londra, e in Tanzania, Kenya, Indonesia, India, Pakistan - quanto pesano, nei Grandi Disegni delle potenze? Valgono l´esecuzione d´un sol uomo? Sono solo qualcosa di politicamente utile? Parole come quelle di Brzezinski erano ricorrenti nel comunismo: nelle democrazie sono veleno. E se così stanno le cose, perché ci hanno detto che la guerra contro qualche esagitato terrorista musulmano era la cruciale, l´infinita, la madre di tutte le guerre? Bin Laden era il mostro di Frankenstein che ci siamo fabbricati con le nostre mani: negli anni ´70-´80 pedina di vasti giochi euro-russi, nel XXI secolo nemico esistenziale.

I giovani protagonisti delle sommosse arabe chiedono ben altro: non un nemico esistenziale (lo hanno avuto per decenni: erano l´America e Israele), ma costituzioni pluraliste, leggi uguali per tutti, separazione dei poteri. Non è detto che riescano: il dispotismo li minaccia, cominciando da quello integralista. Ma per difenderci dal demone di Frankenstein non possiamo sperare che in loro.

«Vivo o morto» fu il grido di guerra lanciato da George W. Bush contro Osama Bin Laden all'indomani dell'11 settembre, con annessa taglia di 25 milioni di dollari. Di chiara marca texana, il grido e la taglia annunciarono l'eclissi del lo stato di diritto sotto le macerie delle Torri gemelle. Nel lessico dello stato di diritto, a differenza che nel vocabolario da Far West, vivo o morto non è la stessa cosa: ne va del confine fra la giustizia e la vendetta. Prenderlo vivo, Osama Bin Laden, e consegnarlo a un tribunale, avrebbe aiutato il difficile processo di elaborazione della vulnerabilà impressa sullo spirito pubblico americano dalla ferita dell'11 settembre; annunciarlo morto, aiuta viceversa a suturare quella ferita con un rigurgito di potenza (come dimostra l'improvviso slittamento di senso subito nelle piazze in festa dallo slogan obamiano «Yes we can»). A onta delle parole del Presidente, dunque, più che giustizia è fatta vendetta; il che getta un'ombra sulla festa, e rischia di rievocare gli «spiriti animali» dell'era Bush proprio nel momento in cui la morte di Bin Laden ne sigla simbolicamente la conclusione, già consumata politicamente con l'elezione di Obama e con la sua svolta nei confronti del mondo arabo e islamico.

Giustamente si osserva da più parti che l'eliminazione di Bin Laden avviene quando già la «primavera democratica» nordafricana - a sua volta debitrice dello storico discorso di Obama al Cairo nel 2009 - ha decretato la sconfitta del suo progetto, la crisi della sua organizzazione, l'obsolescenza della sua icona. Ma le icone hanno la loro importanza simbolica aldilà della loro fungibilità immediata, e che l'icona del capo di Al Quaeda si sia rotta resta un fatto simbolicamente rilevantissimo aldilà della sua perdita di influenza politica. Bin Laden - un nome che Jacques Derrida soleva scrivere fra virgolette, a significare appunto la potenza dell'icona a prescindere dall'uomo, e perfino dalla sua esistenza reale - non è stato solo il leader della rete terrorista globale che ha mostrato la vulnerabilità della più grande potenza mondiale e tenuto in scacco per un decennio le democrazie occidentali. Pura e ieratica sembianza senza Stato e senza indirizzo, intermittente apparenza mediatica fatta di videomessaggi, incombente presenza virtuale più forte della malattia che lo logorava, il principe saudita ha è stato per dieci anni l'incarnazione del «fantasma fondamentale» dell'inconscio geopolitico occidentale traumatizzato dalla fine del mondo bipolare: il fantasma del Nemico imprendibile e sempre ritornante, lo spettro a cui non smettere di dare la caccia. Non importa che sia vivo o morto, quel che importa è che gli daremo la caccia, diceva Bush con la sua taglia; non importa che io sia vivo o morto, quel che importa è che il mio fantasma continui a incombere sull'America, rispondeva Bin Laden con le sue periodiche apparizioni virtuali.

Quanta potenza e quanta violenza reali quel fantasma sia stato capace di muovere lo sappiamo dalla contabilità delle guerre - «permanenti», «infinite», «preventive» - che in suo nome sono state condotte. Ed è alla potenza del fantasma e della caccia al fantasma che il cadavere di Bin Laden oggi mette fine. L'icona si è rotta; la caccia è finita. Che ne sarà, della politica dell'occidente, senza quel fantasma? Guerre, politiche securitarie, controlli pervasivi di polizia, gabbie di Guantanamo: tutto questo dovrebbe di conseguenza svanire. Salvo riprodurre lo spettro per clonazione: dev'essere per questo che in tanti si precipitano a dire che Bin Laden non c'è più ma il pericolo resta anzi si aggrava: morto un fantasma se ne fa un altro, morto un nemico se ne trova un altro. Il nuovo banco di prova della discontinuità di Obama dall'era Bush sta qui, in una politica che del fantasma del Nemico sappia fare a meno, e che, uccisa l'icona,tolga di mezzo rapidamente pure i detriti.

Il racconto degli ideali di una generazione di progettisti che doveva ricucire il tessuto nazionale a confronto con il presente "Da un certo punto in poi è mancata la scuola che creava intellettuali e non solo tecnici" "Negli anni 0ttanta la politica ha rinunciato alle regole e le città sono cambiate"

«Se mi piace la bandiera italiana?». Gae Aulenti, protagonista del design internazionale, incurva la virgola delle sopracciglia: «Scusi, ma che domanda è?». La casa-bottega di Brera, un palazzetto settecentesco sventrato e ricostruito in un unico spazio interrotto da strette scale di ferro, racconta oltre mezzo secolo di storia nazionale. Le agende del suo lavoro insieme a Rogers e Samonà, la collezione della rivista Casabella, i prototipi della lampada pipistrello, tra gli oggetti forse il più amato. Di lei è stato scritto che è il primo architetto ad aver dimostrato che l´architettura è un sostantivo di genere femminile. Da Tokyo a Buenos Aires, da San Francisco a Parigi e Barcellona, non c´è grande città che non porti un suo segno. È un personaggio-simbolo della Milano razionale e colta, la città degli illuministi, del Verri e del Beccaria, la città della Resistenza, dell´antifascismo, della classe operaia nel secondo dopoguerra, ma le sue origini affondano nel Mezzogiorno, nelle campagne di Calabria e Puglia, figlia della borghesia di Trani nata per caso in Friuli. Una doppia radice sintetizzata in quel bisillabo Gae che è la forma breve di Gaetana, regalo della nonna pugliese.

Lei come si definirebbe?

«Mi sento un´italiana, e basta. Ho forse avuto la fortuna di non vivere in un solo luogo, notando le differenze tra culture e regioni sideralmente distanti. Mio padre lasciò la Puglia per andare a studiare a Ca´ Foscari, e nel 1927 arrivai io. Ma poi d´estate ci immergevamo nel verde e nell´azzurro del Mezzogiorno, dove partecipavo a rituali contadini che hanno lasciato un´impronta nelle mie visioni. Se dovessi indicare l´essenza dell´italianità, vado a cercarla nella diffusa qualità del paesaggio: ovunque la nostra testa riposa sulla bellezza. Un´armonia che sa di eterno. Se ne avverte costantemente la durata della storia».

Nessun contrasto tra le due radici?

«Non direi. Sul finire degli anni Quaranta approdai in una Milano che intrecciava diversi caratteri regionali, idiomi, parlate espressive nutrite dai dialetti. Una trama di grande qualità, che in qualche modo rispecchiava la nostra identità nazionale, che si nutre di differenze. In questo siamo unici, diversi da tutti gli altri popoli. Mi verrebbe da dire che l´italianità è un´aspirazione, più che una condizione acquisita una volta per tutte. Questo incrocio di storie differenti ti obbliga costantemente a interrogarti».

Al Politecnico, appena ventenne, l´incontro con Ernesto Nathan Rogers. Che Italia progettavate di costruire?

«Intanto dovevamo ricostruirla. Milano portava le ferite dei bombardamenti. È una delle ragioni per cui m´iscrissi alla Facoltà di Architettura. L´idea principale era quella della continuità storica e culturale, fisica e concettuale. Bisognava costruire nel rispetto del "tessuto" d´un luogo, del suo ordito più profondo, senza rotture né traumi. Brodskij dice che nella cultura italiana opera un telaio che tesse la sua essenza più profonda, generata dalla piega d´un paesaggio o dalla facciata d´un palazzo. Il nostro dovere di architetti consisteva nel trovare le tracce più nascoste di questa trama».

Chi riuscì meglio in questa ricerca?

«Un esempio può essere la Torre Velasca, simbolo della città insieme al Duomo e al Castello Sforzesco. Negli anni Cinquanta Rogers ed Enrico Peressutti la progettarono in continuità con il passato – la forma della torre – e nel rispetto di un´idea precisa della città. Naturalmente questa scuola italiana era aperta a un vasto intreccio di suggestioni internazionali».

Oggi però non manca il respiro cosmopolita.

«Quel che manca è la scuola italiana, e sappiamo il disastro. Rogers ci ripeteva spesso che il dovere di un architetto era di essere un intellettuale prima che un professionista».

Cosa intendeva?

«Posso leggerle un passo di Vitruvio? "L´architetto sappia di lettere, sia perito nel disegno, erudito nella geometria, conosca molte, molte istorie, diligente ascoltatore di filosofi, s´intenda di sentenze giureconsulti, non sconosca l´astrologia e le leggi del cielo". Ho reso l´idea? Oggi si costruisce senza regole, l´architetto tende ad autorappresentarsi, incurante dell´integrazione con l´identità urbana».

Quando è cambiato il volto delle nostre città?

«Quando l´Italia ha smesso di essere amministrata, ossia un quarto di secolo fa. È negli anni Ottanta che la politica ha rinunciato a definire le regole, e gli architetti ne hanno approfittato, in nome di un principio sbagliato e illusorio: ossia che l´assenza di regole avrebbe favorito invenzione e creatività».

È vero il contrario?

«La regola severa ti costringe all´essenza. Il risultato di questo malinteso è sotto i nostri occhi: le città sono sfasciate. E l´architettura sembra virare in decorazione. Faccia attenzione a molte nuove costruzioni: non c´è più una linea retta. Vanno di moda le geometrie inclinate, per delle stupidaggini. Tanti piccoli Gehry, che scopiazzano rinunciando all´essenza».

La buona architettura nasce dalla buona urbanistica.

«In quegli anni sono venute meno entrambe: il risultato immediato ha vinto sulla lunga scadenza. E l´architettura italiana ha cominciato a perdere prestigio nel mondo».

In che cosa si distingueva un architetto italiano?

«Dalla capacità di disegnare tutto, dal piccolo oggetto alla casa che deve ospitarlo. Un confronto con lo spazio che includeva urbanistica, architettura, design».

Dietro l´invenzione del design c´era la trasformazione dell´Italia da paese contadino a paese industriale. Lei come cominciò?

«La prima cosa che feci fu una sedia a dondolo, marchio Poltronova. Ero totalmente persa. Ma allora si lavorava a contatto con gli operai, non c´era differenza tra produttore e design. Passavo le giornate in fabbrica, pigliando strisce di legno e intrecciandole. Il nostro lavoro era insieme molto artigianale e molto intellettuale, in una trama di corrispondenze con il cinema e il teatro. Oggi ci si interroga meno sulla funzione dell´oggetto, sul suo rapporto con la vita e la società».

Per questo è tramontato il made in Italy?

«Quaranta anni fa i grandi designer erano anche grandi architetti. Oggi sono per lo più decoratori, avendo rinunciato al rapporto con l´insieme».

Lei ha conosciuto le burocrazie di tutto il mondo, dall´americana alla francese, dalla tedesca alla spagnola. In che cosa siamo diversi?

«In Italia puoi vincere un concorso e rimanere senza lavoro se nel frattempo decade l´amministrazione che l´ha bandito. Altrove non è così. A Parigi vinsi la gara per il musée d´Orsay con Giscard d´Estaing, ma lo realizzai nell´era di Mitterrand, che veniva a trovarmi in cantiere. Prevedo l´obiezione: ma quella è la burocrazia francese, lo Stato forte. No, è accaduto anche nella più fragile Spagna: per costruire il museo nazionale della Catalogna ci sono voluti diciotto anni e non so quante amministrazioni. Però ce l´abbiamo fatta».

Come architetto donna s´è mai sentita discriminata?

«Appena arrivata a Parigi, al primo incontro ufficiale dopo aver vinto la gara, mi domandarono perplessi "Où est Monsieur Aulenti?". Pensavano fossi la moglie. In Italia ho sempre fatto finta di niente. Aiuta».

Le piace il nostro tricolore?

«Mi viene una risposta vigliacca, che però cancello».

La dica.

«Ho sempre preferito la bandiera rossa, ma è troppo facile. La verità è che non ci ho mai pensato».

E lo stellone repubblicano?

«Non me lo chieda. Dei simboli non ci si chiede mai il perché».

Forse non si conoscono molto. L´Italia ha una simbologia dimessa.

«E se le dicessi che è una cosa positiva? Noi siamo una nazione con tante storie e tante culture, che alimentano invenzione e non ortodossia».

Accade spesso che la sua austerità sia enfatizzata come un tratto molto poco italiano.

«Non sono sicura che l´esuberanza sia un tratto nazionale né un carattere meridionale. Se penso alla grande letteratura siciliana, dov´è questa esuberanza? Non è del principe di Salina, piuttosto del personaggio di don Calogero Sedara, esponente della piccola borghesia in ascesa. Forse la gestualità pittoresca è una cifra italiana più recente. Gli esempi pubblici non mancano».

Che cosa non le piace oggi di Milano?

«Non riesco più a leggerla, a interpretarne il movimento e il filo conduttore. I mezzi pubblici ricoperti di pubblicità contribuiscono a questa confusione. Prevale un senso di disordine che non è solo estetico ma civile».

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