Trascrizione e tipizzazione dei contratti per la circolazione dei diritti edificatori come chiave a sostegno dello sviluppo locale
Dare più certezza alla circolazione dei diritti edificatori. Insiste su questo punto uno degli emendamenti al decreto sviluppo, che sta per iniziare l’esame in aula per la conversione in legge. L’argomento è stato ripreso anche da Inu, Istituto nazionale di urbanistica, che ha posto una serie di proposte all’attenzione dei parlamentari.
Secondo Simonetta Rubinato del Pd, lo sviluppo locale potrebbe essere incentivato dalla compravendita delle cubature. A tal fine sarebbe utile un panorama normativo certo, con la possibilità di trascrivere i contratti che trasferiscono i diritti edificatori. Evoluzione che eviterebbe l’insorgere di molti contenziosi.
Il tutto potrebbe essere completato dalla tipizzazione dei contratti di cessione di volumetria, che darebbe fondamento legislativo al principio della perequazione urbanistica, in base al quale tutti i terreni esprimono la medesima capacità edificatoria. La cubatura di competenza dei terreni non edificabili potrebbe quindi essere venduta a quelli edificabili.
Nel caso in cui il trasferimento avvenga a favore di enti pubblici territoriali, è proposto inoltre l’assoggettamento alle imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura fissa. Al contrario, i privati non avrebbero margini di guadagno.
Sulla stessa lunghezza d’onda l’Inu, che oltre a ribadire la necessità di una legge ad-hoc per il governo del territorio, ferma da anni nelle competenti commissioni parlamentari, ha proposto di inserire lo strumento della perequazione tra le misure per semplificare la realizzazione delle costruzioni private.
L’Inu si è concentrato su una migliore e più ordinata disciplina del Piano regolatore generale, che a suo avviso dovrebbe essere sdoppiato in una parte strutturale e in una operativa.
Le leggi regionali dovrebbero quindi disciplinare i contenuti del piano comunale e intercomunale individuando le componenti strutturali, operative, regolamentari o gestionali. La componente strutturale dovrebbe recepire tutti i vincoli ricognitivi previsti da leggi e da piani di settore, individuare altri valori territoriali da tutelare e compiere scelte di pianificazione. Nella componente operativa dovrebbero invece essere individuate le aree e gli interventi di trasformazione del territorio da promuovere in un arco temporale non superiore ai cinque anni.
L’Istituto nazionale di urbanistica ha infine proposto il ripristino dei tempi di certificazione dell’interesse pubblico sugli immobili storici, da riportare a cinquanta anni dopo che il Dl sviluppo ha innalzato la soglia a settanta anni.
La sindaca credeva che indicare Lupi fosse vincente. Ma i guasti dei cementari sono sotto gli occhi di tutti i votanti
Le elezioni amministrative indicano per la prima volta dopo venti anni la possibilità di aprire ad una nuova prospettiva il futuro delle città. La tornata elettorale ha infatti dimostrato che il ventennio dell'urbanistica contrattata può dirsi concluso per sempre.
A Milano, Letizia Moratti aveva tentato la carta vincente annunciando che nel caso di vittoria al ballottaggio avrebbe nominato Maurizio Lupi assessore allo sviluppo del territorio. Lupi non è un personaggio qualsiasi. Già assessore all'urbanistica dal 1997 al 2001, con il sindaco Albertini, poi deputato Pdl, esponente di primo piano di Comunione e liberazione, amministratore delegato di Fiera di Milano congressi.
Sul tema delle città, Lupi è stato uno degli esponenti più determinati nel tentare di cancellare l'urbanistica dal panorama legislativo italiano. Lo ha fatto come assessore a Milano praticando oltre ogni limite l'urbanistica contrattata. Lo ha fatto come parlamentare con la proposta di legge che porta il suo nome e che non è stata approvata nel 2006 per un miracolo. In quella legge c'era scritto che le amministrazioni pubbliche e la proprietà fondiaria hanno le stesse prerogative nel governare il territorio: è l'economia che deve prevalere ad ogni costo. Letizia Moratti aveva dunque sperato di avere l'asso nella manica, affidandosi alla speculazione immobiliare per recuperare consensi.
Pisapia ha vinto con largo distacco. Per la prima volta la lobby del cemento ha fallito il colpo e dobbiamo chiederci perché. Finora, infatti, la cultura urbana liberista era stata egemone. Urbanisti folgorati sulla via di Damasco si sono messi a cantare le lodi del mercato come unica possibilità di salvezza delle città. Le amministrazioni di centrosinistra hanno fatto propri i paradigmi degli avversari e anche l'opinione pubblica ha dimostrato ampio consenso verso questa impostazione.
A Roma la giunta di Veltroni ha rovesciato 70 milioni di metri cui di cemento (il micidiale Pgt di Milano ne contiene «soltanto» 35 milioni) e nessuno ha fiatato. A Torino sono state approvate circa 150 varianti urbanistiche per lo più ritagliate sulle esigenze della proprietà fondiaria. A Firenze hanno aperto le porte a Ligresti e, se non fosse sufficiente, basta andare a vedere l'inaudito scempio della scuola della Guardia di Finanza. A Venezia, l'isola del Lido viene devastata dal cemento perché solo così si può ristrutturare il Palazzo del cinema. La macchina del consenso funzionava.
Perché allora a Milano il collaudato gioco non ha funzionato? Perché i risultati del ventennio dell'urbanistica liberista sono ormai sotto gli occhi di tutti e i cittadini hanno giudicato sulla base della propria esperienza. Lo hanno fatto le giovani coppie a cui avevano fatto credere che Santa Giulia era il modello di città nuova. Si sono indebitate con un mutuo ed hanno scoperto che la proprietà aveva costruito scuole e abitazioni su un mare di sostanze velenose. Lo hanno fatto le coppie di anziani che - come nel caso della zona Garibaldi - vedono sorgere mostruosi grattacieli che sconvolgono il tessuto della loro città solo per far guadagnare un pugno di speculatori. Lo hanno fatto tutti i milanesi nel vedere che la cancellazione delle regole nelle città (dai "piani casa" al "decreto sviluppo") serve solo a spregiudicati speculatori, compresi i rampolli dell'aristocrazia proprietaria, per fare ciò che vogliono, compresa la casa di batman. A Milano hanno dunque compreso l'imbroglio dell'urbanistica liberista che aggrava le condizioni di vita di tutti per favorire i guadagni di pochi. Ma non è finita, perché la parte più avveduta del sistema finanziario ha compreso, essendo esposta per enormi cifre, che continuare a espandere le città è ormai un gioco folle. C'è troppo invenduto in ogni città d'Italia e continuare così porterà inevitabilmente ad un pericoloso corto circuito.
Lo straordinario merito di Pisapia è stato quello di aver fornito una figura di grande credibilità culturale e morale a questi segmenti di società abbandonati dalla politica. Da Milano arriva dunque un segnale che dobbiamo utilizzare senza incertezze. Al pari del ragionamento sul comparto Italcantieri su cui si è soffermato su queste pagine Guido Viale, le città possono diventare un grande cantiere diffuso che consente la nascita di migliaia di piccole imprese qualificate nel risparmio energetico degli edifici, nella sicurezza e nella sostituzione dell'uso dell'automobile con sistemi su ferro. Una grande riconversione produttiva, dunque, l'unica prospettiva di uscita dalla crisi che può essere disegnata dallo schieramento che ha conquistato Milano, Napoli e tante alte città.
Qualcosa sta probabilmente cambiando nella politica italiana, e un assaggio di questo mutamento lo si è avuto con le elezioni amministrative. Abbiamo già messo in luce la grande novità rappresentata dal l´uso dei media online per aggirare il macigno delle reti televisive e del loro silenzio censorio sui problemi e le condizioni della società italiana. Si tratta non soltanto di un mutamento negli strumenti, ma anche nello stile della politica.
Alle roboanti e rozze abitudini dei politici a usare la parola come arma di offesa e a praticare il killeraggio sistematico della personalità dell´avversario, a un modo incivile di fare politica al quale questa maggioranza ci aveva abituato, a questi fenomeni di imbarbarimento della comunicazione pubblica i cittadini hanno risposto con una girate di spalle. Preferendo leader che parlano poco e quasi sottovoce, campagne elettorali sobrie e senza teatralità, focalizzate sui contenuti invece che sulle frasi fatte. Mentre i leader della maggioranza riempivano il teatro della politica coi loro faccioni sorridenti a rassicurare del futuro, i cittadini andavano alla ricerca di quei candidati che finalmente parlassero di loro, dei problemi del loro quotidiano, dalla disoccupazione, al degrado delle periferie, alla solitudine dei più deboli. Il voto ha rovesciato un ordine del linguaggio e ha messo in luce uno scollamento radicale tra la politica politicata e la politica ordinaria e vissuta. Non contro la politica, quindi, ma contro la politica in uso presso la classe dirigente ufficiale e di governo. Il voto é stato un formidabile atto di disobbedienza: un NO fragoroso a tutto quanto é stato propagandato dall´ufficialità. Una disobbedienza al messaggio politico e ai disvalori della maggioranza. Un´espressione di dissenso forte e radicale tanto quanto radicale é apparso essere il bisogno di moderazione dei toni e dello stile dei politici. E il referendum si appresta ad essere, c´è da giurarsi (e da augurarsi), un secondo round, un altro tassello di questa opera di ricostruzione della dignità della politica. L´uso del diritto di voto come un arma potente per ricordare a chi lo avesse dimenticato dove sta la fonte della legittimità democratica.
La virtù del dissenso, forse la sola virtù che la democrazia coltiva, tende a essere contagiosa e può travalicare i confini dell´opposizione, nella quale si trova più naturalmente accasata. Questo mutamento di clima e l´apertura di nuove possibilità sono un segno di come l´opinione nella democrazia possa variare e mettere in discussione posizioni ideologiche e lealtà a leader e a partiti. Un voto, scriveva Engels, é come "un sasso di carta", un´arma non violenta che riesce a mandare al tappeto l´avversario. È la registrazione inconfutabile della mutabilità dell´opinione, un aspetto che non piace ai conservatori ma che dá il senso del gioco sempre aperto che la democrazia garantisce. Il dissenso é figlio della sovranità del giudizio individuale; non ha solo una funzione negativa, come reazione al potere della maggioranza, ma anche positiva, come affermazione di dignità e autonomia. Ancorché corrodere i sentimenti sociali, rafforza la solidarietà e la cooperazione tra i cittadini poiché come tutti ben sappiamo, discutiamo e ci appassioniamo (e quindi anche dissentiamo) per cose che amiamo e alle quali siamo legati da vincoli profondi.
È probabile che questo spirito di libertà e di dissenso filtri oltre le fila dell´opposizione. A giudicare dalle frenetiche dichiarazioni del dopo voto seguite da una foga riorganizzativa molto eloquente del clima di crisi che si respira al di là della cortina che sigilla le istituzioni dalla società si direbbe che la stessa maggioranza sia stata investita dal vento del dissenso. Pdl e Lega si sono interrogati sulla posizione da tenere circa i referendum, molti di loro hanno messo in conto di poter andare a votare, e si sono spesi perfino in considerazioni su come votare per alcuni dei referendum, e in particolare quello contro l´installazione delle centrali nucleari. Se l´inquilino di Palazzo Chigi ripete che sono referendum inutili e senza senso (proprio perché di senso ne hanno tanto, e non solo simbolico visto che tra i quesiti c´è quello sulla famigerata legge che istituisce il legittimo impedimento) molti dei suoi alleati sono meno certi di lui e sembra anzi che considerino importante andare a votare. Anche questi sono segni eloquenti che qualcosa sta cambiando, malgrado l´assicurazione del nuovo responsabile Pdl che nulla cambia e che tutto si rinsalda, come prima, più di prima. Ma così non pare che sia se é vero che nemmeno le televisioni riescono a mettere sotto silenzio l´informazione sul diritto sovrano che si eserciterà il 12 e 13 giugno. Questi sfilacciamenti del regime di consenso-obbedienza sono un segno degli effetti salutari del dissenso-disobbedienza; dell´importanza che esso svolge nel tenere sveglia la consapevolezza della forza della cittadinanza, capace di mettere in serissima discussione maggioranze che si pensavano granitiche.
Ce lo ripetono in tutte le salse: l'economia italiana per riprendere a marciare ha bisogno di semplificazioni. Bisogna ingaggiare una guerra senza frontiere alla burocrazia. Troppi lacci e vincoli frenano la ripresa, troppe tasse gravano sulle imprese, troppi controlli «rallentano la catena della produzione di valore». Così parlano gli imprenditori e il loro cavalier servente di turno al governo prende appunti e fa scempio non della burocrazia, ma delle norme che tutelano chi lavora.
Il primo atto di questo governo dopo il suo insediamento è stato un attacco al Testo unico della sicurezza del lavoro, una delle non moltissime tracce positive lasciate ai posteri dal governo Prodi. Obiettivo dichiarato, la depenalizzazione dei reati previsti dal Testo. Poi ci si meraviglia, o addirittura ci si scandalizza, quando l'onorata assise degli imprenditori applaude calorosamente l'amministratore delegato della Thyssen Krupp appena condannato per omicidio volontario nel rogo torinese in cui furono bruciati 7 operai metalmeccanici. Più di 16 anni in primo grado, che esagerazione. Così si allontano i capitali stranieri dall'Italia. L'ultimo atto in ordine di tempo messo in scena dal governo Berlusconi è il varo di misure volte a destrutturare il sistema ispettivo.
Un'azienda che abbia «subìto » un'ispezione da parte di una qualsivoglia struttura pubblica preposta al controllo della regolarità e del rispetto delle normative, anche inmateria di sicurezza, potrà vivere in pace per sei mesi e nessun ispettore potrà rimettere il naso nei suoi uffici e officine. Una libertà di saccheggio, come quella concessa ai soldati che hanno conquistato un obiettivo. Una libertà di sei mesi con la possibilità di violare leggi e vite umane nella più completa impunità. È scritto nell'articolo 7 del «decreto sviluppo» - il decreto legge pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 13 maggio che dovrà essere convertito in legge entro 60 giorni.
Giustamente la Cgil chiede correzioni radicali a un testo che denuncia la subalternità politica agli spiriti animali dei nostri imprenditori. La vita di chi lavora non vale niente, prima viene il diritto al profitto. Non era questo lo spirito dei nostri costituenti, o di chi ha stilato quello Statuto dei lavoratori che non a caso il ministro Sacconi vuole gettare alle ortiche senza neppure provocare troppo scandalo. In campo padronale, la sterilizzazione de facto dei delegati dei lavoratori che devono tutelare la sicurezza produce effetti disastrosi. La crisi è un'occasione straordinaria per trasferire tutti i poteri nelle mani dell'impresa utilizzando il ricatto del lavoro.
Se questo è il processo in atto, non possono sorprenderci i dati sull'aumento terribile degli «infortuni» e dei morti sul lavoro nei primi mesi dell'anno, più 22% rispetto allo stesso periodo del 2010. Fermando le lancette della morte a lunedì scorso, 266 lavoratori hanno già pagato con la vita dal 1° di gennaio. Si muore nei cantieri edili e nelle campagne, si muore in fabbrica. Si muore anche andando o tornando dal lavoro in bicicletta travolti dalle automobili alla fine del turno di notte. Ieri è toccato sulla via Emilia a un operaio cingalese, succede sempre più spesso ai sik che tornano dalla campagna laziale pedalando sulla via Pontina. Succede ai metalmeccanici che smontano dal turno alla Fiat di Melfi e si lanciano verso casa distante anche cento chilometri. Ma chi muore così non viene conteggiato, non fa statistica. Se i numeri di questa strage non sorprendono, però, devono continuare a indignare gli uomini e le donne di buona volontà. Ma questi padroni, e questi legislatori, forse non sono uomini di buona volontà. Forse non sono uomini.
Improvvisamente, come se per quasi vent´anni non avesse costruito il proprio potere sulla concitazione degli animi, Berlusconi invita alla calma, sul nucleare. È il perno della campagna contro i referendum: non si può decidere, «sull´onda dell´emozione» causata da Fukushima, con il necessario distacco. Lo spavento, ripetono i suoi ministri, «impedisce ogni discussione serena».
La parola chiave è serenità: serve a svilire alle radici il voto del 12-13 giugno. È serenamente che Berlusconi proclama, proprio mentre Germania e Svizzera annunciano la chiusura progressiva delle loro centrali: «Il nucleare è il futuro per tutto il mondo». È una delle sue tante contro-verità: la Germania cominciò a investire sulle energie alternative fin da Chernobyl, e il piano adottato il 6 giugno non si limita a programmare la chiusura di tutti gli impianti entro il 2022: la parte delle rinnovabili, di qui al 2020, passerà dal 17 per cento al 38, per raggiungere l´80 nel 2050. È emotività? Panico? Non sembra. È il calcolo razionale, freddo, di chi apprende dai disastri e non li nasconde né a sé né ai cittadini. È una presa di coscienza completamente assente nel governo italiano, aggrappato all´ipocrita nuovo dogma: «Non si può far politica con l´emozione».
Si può invece, e l´esempio tedesco mostra che si deve. La politica è una pasta il cui lievito è l´emozione che persevera, non c´è svolta storica che non sia stata originata e nutrita da passioni tenaci, trasformatrici. L´emozione può iniettare nel cuore fatalismo ma può anche rimettere in moto quello che è immobile, aprire gli occhi quando hanno voglia di chiudersi, e tanto più disturba tanto più scuote, sveglia. Le catastrofi (naturali o fabbricate) hanno quest´effetto spaesante. D´altronde lo sconquasso giapponese non è il primo. C´è stato quello di Three Mile Island nel 1979; poi di Chernobyl nell´86. Berlusconi salta tre decenni, e censura il punto critico che è stato Fukushima, quando afferma che tutto il pianeta prosegue tranquillo la sua navigazione nucleare.
La serenità presentata d´un tratto come via aurea non ha nulla a vedere con le virtù della calma politica: con la paziente rettifica di errori, con la saggezza dell´imperturbabilità. È un invito al torpore, alla non conoscenza dei fatti, alla non vigilanza su presente e futuro. Sembra una rottura di continuità nell´arte comunicativa del premier ma ne è il prolungamento. Ancora una volta gioca con passioni oscure: con la tendenza viziosa degli umani a procrastinare, a nutrire rancore verso chi fa domande scomode, a non farsi carico di difficili correzioni concernenti l´energia, gli stili di vita, la terra che lasceremo alle prossime generazioni. L´emozione accesa da Fukushima obbliga a guardare in faccia i rischi, a studiarli. Lo stesso obbligo è racchiuso nel referendum sulla gestione privata dell´acqua, e in quello sulla legge non eguale per tutti. Di Pietro ha ragione: mettere sui referendum il cappello di destra o sinistra è un insulto agli elettori, chiamati a compiere scelte che dureranno ben più di una legislatura. È sminuire la forza che può avere l´emozione, quando non finisce in passività e rinuncia.
Anche lo spavento - la più intensa forse tra le emozioni - ha questa ambivalenza. Può schiacciare ma anche sollevare, rendere visibile quel che viene tenuto invisibile. La responsabilità per il futuro, su cui ha lungamente meditato il filosofo Hans Jonas, è imperniata sulle virtù costruttive - proprio perché perturbanti - che può avere la paura. Di fronte al clima degradato e al rapporto perverso che si crea fra le crescenti capacità tecnologiche dell´uomo e il potere, lo spavento è sentinella benefica: «Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità non intendiamo la paura che dissuade dall´azione, ma quella che esorta a compierla».
Temere i pericoli significa pensare l´azione come anello di una catena di conseguenze: vicine e lontane, per il nucleare, l´acqua e anche la legge. Per paura ci nascondiamo, ma per paura si cerca anche la via d´uscita. Un affastellarsi di emozioni generò nel ´700 i Lumi, che sono essenzialmente riscoperta del pensiero critico, rifiuto della piatta calma dei dogmi. Per Kant, illuminismo e modernità nascono con un atto di inaudito coraggio: Sapere aude! osa sapere! La filosofia comincia con la meraviglia e il dubbio, secondo Aristotele, perché chi prova queste emozioni riconosce di non sapere e, invece di gettare la spugna, osa.
La modernità, non come epoca ma come atteggiamento, è questo continuo osare, dunque farsi coraggio nel mezzo d´una paura. È ancora Jonas a parlare: «Al principio speranza contrapponiamo il principio responsabilità e non il principio paura. Ma la paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità, altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo perorarne la causa, perché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici».
La paura non è l´unica emozione trasformatrice. La malinconia possiede analoga energia, e anche lo sdegno per l´ingiustizia, il dolore per chi perisce nella violenza. Claudio Magris ha descritto con parole vere l´indifferenza con cui releghiamo negli scantinati della coscienza i cadaveri finiti a migliaia nel mare di Sicilia (Corriere della sera, 4-6-11). Sono parole vere perché disvelano quel che si cela nella tanto incensata serenità: l´assuefazione, la stanca abitudine, «l´incolmabile distanza fra chi soffre e muore e quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono esser troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo». Tuttavia in quei gorghi bisogna discendere, quei morti non vanno solo onorati ma ci intimano ad agire, a far politica alta.
Berlusconi ironizza spesso sulla tristezza. Sostiene che le sinistre ne sono irrimediabilmente afflitte, e paralizzate. Non sa che Ercole, il più forte, è archetipo della malinconia. In uno dei suoi racconti (Disordine e dolore precoce) Thomas Mann si spinge oltre, scrivendo a proposito della giustizia: «Non è ardore giovanile e decisione energica e impetuosa: giustizia è malinconia».
Emozionarsi è salare la vita e la politica, toglier loro l'insipido. Evocando i naufraghi dimenticati, Magris si ribella e scrive: «Il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più. A differenza di Cristo, non possiamo soffrire per tutti». Non siamo Cristo, ma possiamo avere un orientamento che ricorda le sue virtù, le sue indignazioni, il suo pathos. Herman Melville dice: Gesù vive secondo i tempi del cielo, per noi impraticabili; noi siamo orologi mentre lui è cronometro, costantemente orientato sul grande meridiano di Greenwich. Ricordare il cronometro significa avere a cuore i morti con spavento, perché spaventandoci cercheremo vie nuove. Nella Bibbia come nel Corano il cuore è sede della mente che ragiona.
È vero, per agire dobbiamo evitare che i disastri ci travolgano. Ma non è detto che la soluzione sia ignorarli, non commuoversi più. Il 15 aprile scorso, a Gaza, un giornalista e cooperante italiano, Vittorio Arrigoni, è stato strangolato (da estremisti salafiti, è stato detto). L'omicidio fu condannato dall'Onu, da Napolitano, dal governo. Ma alle sue esequie, il 24 aprile a Bulciago, non c'era un solo rappresentante dello Stato, generalmente così zelante nei funerali. L'unica corona di fiori fu inviata dal manifesto. Piangere l'assassinio di Arrigoni era politicamente scorretto, non sereno. Ma onorare i morti è passione nobile; come la paura, la malinconia e non per ultima la vergogna: l'emozione sociale e trasformatrice per eccellenza. Lo riscopriamo alla vigilia dei referendum, ma lo sappiamo da quando Zeus, nell'Agamennone di Eschilo, indica la strada d'equilibrio: «Patire, è capire».
Risparmio energetico decisivo per il futuro
Mario Pirani
Fino all´ultimo, tra bugie e ricorsi, il governo tenta di impedire i referendum, in primis il nucleare. Ragioniamo come se non dovessero venire nuovi intoppi, cercando, comunque, di spiegare che la posta in gioco resta in ogni caso decisiva per il futuro dell´economia italiana. E non soltanto se permanesse la furbata della moratoria per un anno ma per l´esigenza in ogni caso di mettere in piedi una politica energetica che l´attuale governo si è dimostrato incapace di gestire. Quanto al nucleare, beati i tedeschi e gli svizzeri i cui governi hanno sottratto alla tanto bistrattata emotività dell´opinione pubblica l´onere della scelta, decidendo, senza bisogno di referendum, una marcia indietro su tutta la linea. In proposito, peraltro, è utile sottolineare che quei paesi fecero una scelta nucleare allorquando i costi di quel tipo di produzione dell´energia elettrica erano nettamente competitivi con le altre fonti. Oggi quelle centrali si avviano al compimento del loro ciclo di vita (alcune lo hanno già sorpassato) ma affrontare un piano per sostituirle comporterebbe una spesa enorme. Secondo un recente rapporto del Massachussets Istitute of Technology, dal 2003 in poi i costi stimati per la costruzione di un impianto nucleare sono cresciuti al tasso del 15% annuo che negli ultimi cinque anni è addirittura raddoppiato. Di conseguenza le industrie private, che un tempo vantavano nel settore la loro autosufficienza, richiedono oggi indispensabili sostegni pubblici. Infine l´aumento dei costi è destinato a incrementarsi ancora, non tanto per i problemi connessi al combustibile e alla produzione, quanto alle spese crescenti per adeguarsi a più avanzati criteri di sicurezza (peraltro mai assoluta), allo smaltimento delle scorie radioattive e allo smantellamento degli impianti dismessi.
Di fronte a un simile stato dell´arte dovrebbe essere considerata una fortuna l´uscita dell´Italia dal settore fin dal disastro di Cernobyl, il che ci permetterebbe oggi un ripensamento globale della politica energetica, riconsiderando alcune priorità recepite con troppa faciloneria. In particolare mi riferisco all´enfasi con cui alcune organizzazioni ambientaliste, sia lo stesso governo, elargendo gli incentivi pubblici più alti al mondo, hanno rappresentato come alternativa unica al nucleare l´incremento delle fonti alternative (eolico e fotovoltaico). In realtà il costo di queste tecnologie e le dimensioni finanziarie del sostegno pubblico (in bolletta o per altra strada), come anche le limitazioni all´utilizzo (quando non c´è vento o di notte, quando non c´è sole) dovrebbero consigliarne una utile da non trascurare ma in dimensioni ragionevolmente minori di quanto oggi sbandierato. Viceversa andrebbe affrontata con grande impegno una pianificazione mirante alla efficienza energetica, non solo per gli effetti ecologici ma come volàno di sviluppo industriale. Per quanto riguarda il primo punto un dossier degli Amici della Terra (l´organizzazione che si è più impegnata su questo settore) rileva che l´Agenzia internazionale dell´Energia prevede la possibilità per il 2050 di ridurre le emissioni di Co2 del 53% grazie a misure di efficienza energetica (mentre le fonti rinnovabili darebbero il 21% e l´atomo il 6%). Ancor più convincente il piano presentato dalla Confindustria, introdotto dalla Marcegaglia con queste parole: "L´efficienza energetica è il pilastro portante della green economy". Esso propugna lo sviluppo di prodotti di nuova tecnologia ad alto risparmio energetico, anche in rapporto a idrocarburi e carbone nei settori dell´illuminazione, dei trasporti, nelle pompe di calore, negli elettrodomestici, nell´edilizia residenziale, nei motori elettrici, nelle caldaie, ecc. Insomma il risparmio, o efficienza energetica che dir si voglia, implica un balzo in avanti di tutta l´economia italiana a costi minori e con calo netto dell´inquinamento. Finora il governo si è comportato come se significasse: "Spegnete la luce quando uscite di casa!".
La maschera del cavaliere
Adriano Prosperi
La settimana che si apre è quella del referendum. Non è un appuntamento pacifico. Si leggono ogni giorno interventi appassionati e opinioni molto diverse. Non è l’acqua il vero problema del referendum: e non lo è nemmeno il fuoco della fissione nucleare anche se proprio intorno al nucleare il governo ha ingaggiato una sorda battaglia: non sul merito, visto che il Pdl ha dichiarato di lasciare liberi i suoi seguaci, ma sulla questione preliminare se il quesito debba o no essere sottoposto al voto.
Domani la Corte Costituzionale dovrà rispondere al ricorso presentato dal governo attraverso l’Avvocatura di Stato, con l’argomento che la sospensione per dodici mesi del programma nucleare italiano varata dopo la tragedia giapponese del reattore di Fukushima avrebbe modificato sostanzialmente la situazione rendendo improponibile il referendum.
La matassa apparentemente complessa del ricorso si dipana facilmente. Il fatto è che nel contesto della tragedia di Fukushima, la domanda relativa al nucleare posta dai promotori del referendum si profila chiaramente come quella più capace di realizzare le due condizioni indicate dall’articolo 75 della Costituzione: che partecipi la maggioranza degli aventi diritto al voto e che la proposta soggetta a referendum ottenga la maggioranza dei voti validi. Ora, una cosa deve essere chiara. Che si realizzino o meno le centrali nucleari in Italia al nostro premier non potrebbe importare di meno. L’unico futuro che gli importa è il suo. Non le scorie nucleari ma quelle penali dei reati comuni di cui è accusato nei processi pendenti a suo carico sono i problemi che occupano il suo orizzonte. E il tentativo che ancora una volta lo impegna allo spasimo è quello di mascherare il fine dell’interesse suo privato dietro le nebbie di una confusa discussione sui problemi del paese. Il punto è che tra i quesiti del prossimo referendum ce n’è uno, il quarto e ultimo, che riguarda il "legittimo impedimento a comparire in udienza" fissato dall’art. 2 della legge 7 aprile 2010: grazie a questa legge, che più "ad personam" di così si muore, Berlusconi è stato autorizzato da una maggioranza asservita ai suoi bisogni a infischiarsene degli inviti a comparire in udienza nei processi nei quali figura come imputato. Se il referendum passasse, Berlusconi sarebbe riportato alla condizione di cittadino di un paese dove la legge vale per tutti. Dunque è necessario che la questione del nucleare esca dai quesiti del referendum se si vuole esorcizzare il rischio che venga abrogato anche il "legittimo impedimento". A questo scopo il premier ha giocato la carta della sospensiva.
L’esito delle recenti elezioni amministrative ha mandato un messaggio di estrema chiarezza. Per Berlusconi l’unico rimedio possibile davanti al disastro è "guadagnare il beneficio del tempo", come suggerivano i consiglieri dei sovrani degli staterelli italiani preunitari quando incombeva la minaccia di confronti militari con le grandi potenze europee. Il tempo, appunto: bisogna che per un po’ di tempo il popolo italiano sia tenuto lontano dalle urne, ora che ha dimostrato di essersi riscosso dall’incantesimo e di non essere più disposto a farsi trascinare dalle emergenze personali del premier. E il referendum imminente minaccia una grandinata che questo governo molto traballante non può sostenere. Da qui la necessità di ostacolare in ogni modo la regolarità della consultazione ricorrendo al tentativo disperato del bluff. Parliamo di disperazione e di bluff a ragion veduta. La sospensione del programma nucleare è stato il bluff di un giocatore disperato. E anche impudente. Nella conferenza stampa col presidente francese Sarkozy del 16 aprile scorso Berlusconi ha dichiarato apertamente che il governo italiano, cioè lui stesso, resta convinto che "l’energia nucleare sia il futuro del mondo". Dunque nella sostanza niente cambia negli orientamenti del governo. Ora, una sentenza della Corte Costituzionale (la n. 68 del 1978) ha affermato chiaramente che "se l’intenzione del legislatore rimane fondamentalmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio che siano state apportate dalle Camere, la corrispondente richiesta /referendaria/ non può essere bloccata, perchè diversamente la sovranità del popolo (attivata da quella iniziativa) verrebbe ridotta ad una mera apparenza". Ecco il punto decisivo: la sovranità del popolo, il cuore della democrazia, ha nell’istituto del referendum la sua manifestazione più alta, proprio per questo regolata in maniera particolarmente attenta dai padri costituenti. L’idea di democrazia implica l’assenza di capi, come ha scritto Kelsen e come ci ha ricordato di recente Luigi Ferrajoli. Implica anche che sia cancellato lo strappo al principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge (art.3): proprio di tutti, nessuno escluso.
Due, tre giorni dopo il terremoto dell'ultima consultazione amministrativa, il Cavaliere era di nuovo in giro fra i potenti della terra a mostrare con l'ostentazione del suo immarcescibile sorriso (in verità sempre più macabro) e con le pacche distribuite sulle spalle di Biden e di Medvedev che nulla era cambiato, che si andava avanti senza neanche guardarsi intorno, che la forza era ancora dalla loro parte. L'incoronazione del figlio prediletto, Angiolino Alfano, a Segretario (!) del Pdl colorava d'una tinta decisamente comica i lineamenti di quello che vorrebbe forse essere un lento e magari contrattato declino (come per l'amico Gheddafi non è da escludere che si pensi a un'uscita di scena con salvacondotto giudiziario e conservazione integrale del patrimonio male acquisito).
Però così non va bene. Il paese non è in grado di reggere altri due anni all'attuale, catastrofica conduzione governativa, con annessi e connessi di natura giudiziaria, etico-politica, ecc. ecc. Dunque, all'ordine del giorno oggi c'è innanzitutto e sopra tutto il disarcionamento del cavaliere dal suo decrepito ronzino nei prossimi mesi; la stesura di una nuova legge elettorale che restituisca agli elettori la libertà di scelta nella composizione delle liste e dei candidati; e l'indizione di nuove elezioni che consentano di avere un Parlamento non più soggetto, come questo vergognosamente lo è, al ricatto del denaro e dei favoritismi. Questo è il minimo: alla delineazione delle alleanze e alla formazione del nuovo Governo si può pensare cammin facendo. Ma intanto si deve chiedere alle forze politiche antiberlusconiane che s'impegnino, con la inventività giuridica e la forza contrattuale che sono loro proprie, a realizzare questo programma minimo, elementare: ora questi devono andarsene. Uso il plurale perché sia chiaro che ad uscire di scena dev'essere non il solo B ma l'intera sua squadra. L'idea che la fine della legislatura sia garantita da un centro destra non guidato dal Cav ma da un altro nome della sua parte politica, magari con il Pd che si assume «una quota di responsabilità» (Massimo D'Alema), mi sembra aberrante e risolutamente volta a depotenziare fin dall'inizio il processo positivo ora cominciato.
Affinché la richiesta non appaia troppo sforzata o velleitaria, occorre un minimo pronunziarsi sulla natura e sui caratteri del terremoto che si è manifestato fra il 28 e il 30 maggio scorsi. Non v'è ombra di dubbio, mi pare, che il paese si sia spostato verso il centro-sinistra. Ma contemporaneamente il centro-sinistra si è spostato verso sinistra.
Questi sono i due dati inconfutabili da cui quel terremoto è stato contraddistinto: tacerli o metterli tra parentesi significherebbe fare un passo all'indietro. Ma c'è dell'altro. Perché quei due dati si rivelassero così chiaramente sono state necessarie tre condizioni. Innanzi tutto restituire il più possibile alla cittadinanza il diritto della scelta (primarie, ma non solo: associazionismo, recupero di molteplici individualità negate, valorizzazione delle professionalità, e così via): è su questa strada che si è verificato uno straordinario recupero di energie giovanili. In secondo luogo pescare i candidati tra le facce meno note in politica e più rispondenti alla natura della scelta popolare precedentemente indicata. In terzo luogo il pronto allineamento delle forze democratiche sulle due scelte suddette anche là dove esse non coincidevano o addirittura configgevano con i propri stretti interessi e convenienze di partito.
Se si andrà avanti per questa strada anche a livello nazionale, l'insostenibilità di un Governo che non corrisponde più al paese emergerà con evidenza sempre maggiore. Si è detto più volte nei mesi passati: bisogna aprire una fase costituente con tutte le forze politiche che ci stanno. La parola d'ordine, per quanto non resti priva di una sua pertinenza e utilità, è stata superata dagli eventi: ormai la fase costituente s'è aperta nel paese, a Milano, Torino, Trieste, Napoli, Mantova, Pavia, Novara, Arcore, Orbetello, determinando un'inversione di rotta negli orientamenti politici e, io direi, culturali del paese, che forse ha dei precedenti solo nelle elezioni regionali e politiche del 1975 e '76. L'occasione non va perduta, anzi va praticata sino in fondo.
Quel che voglio dire è: siamo all’interno d’un solo, grande, entusiasmante processo. E perciò: i quattro referendum del 12-13 giugno, forse per una scelta imprevista della Provvidenza («La c’è, la c’è...!»), non sono stati fatti cadere nei medesimi giorni del voto amministrativo. Oggi, infatti, se è più difficile raggiungerne il quorum, il loro significato a posteriori è aumentato a dismisura. Essi rappresentano per se stessi delle buone cause, da condurre in porto senza esitazioni. Ma quanto è già avvenuto nel voto amministrativo li carica d’un signi- ficato ancora maggiore, e non parlo soltanto di quello che, una volta approvato, rappresenterebbe un altro sonoro invito al Cavaliere a scendere di sella e ad avviarsi finalmente, senza più oscene resistenze, verso le porte dei Tribunali che lo aspettano spalancate. Nel nucleare e nell’acqua sono esemplarmente radicate due delle fondamentali pretese della specie di una buona sopravvivenza umana. Dunque, democrazia e scelte di sopravvivenza e di destino tornano, come nei momenti migliori, ad avvicinarsi. Lo dicevamo anche la volta passata: tutti al voto, e tutti a votare bene
Sergio Marchionne ha affermato che l´Italia deve cambiare atteggiamento nei confronti di Fiat Auto. L´Italia dovrebbe diventare più comprensiva nei confronti delle sue strategie. Più aperta al nuovo che esse rappresentano in tema di relazioni industriali e di piani produttivi. Da ciò si dovrebbe anzitutto dedurre che i suoi uffici gli passano da tempo una rassegna stampa largamente incompleta. Una pur rapida scorsa agli articoli pubblicati nell´ultimo anno o due, alle dichiarazioni dei politici, ai comportamenti di due dei maggiori sindacati su tre, porta a concludere che nove articoli su dieci dei maggiori quotidiani, quattro quinti degli accademici, l´intero governo, e perfino gran parte dei politici di opposizione si sono espressi con fervore dalla parte delle strategie di Fiat. Tutti d´accordo: chi critica Fiat si oppone al nuovo che avanza, ai dettami della globalizzazione, allo sviluppo industriale del paese.
Quel che vuole l´ad più noto al mondo tra i costruttori d´auto (pochissimi tra il pubblico sanno chi sia l´ad di Volkswagen, del gruppo Peugeot-Citroen, di Ford, ma tutti sanno chi è il grande comunicatore a capo della Fiat-Chrysler) non è dunque un atteggiamento più favorevole del Paese: vuole semplicemente che nessuno lo critichi. Ora, dato che nessuno fa nulla per niente, si potrebbe chiedere a Sergio Marchionne che cosa sia lui disposto a fare affinché la minoranza che non lo applaude come invece fanno gli americani e la maggioranza dei commentatori italiani cambi atteggiamento. Tra le tante, vengono in mente due o tre cose.
Marchionne dovrebbe riconoscere in primo luogo che lo sviluppo del diritto del lavoro, ovvero dei diritti personali dei lavoratori ha rappresentato in Italia tra gli Anni 60 e l´inizio degli Anni 80, per milioni di persone, la porta di accesso a un mondo dove anche il più povero, il meno istruito, il più sprovvisto di mezzi, aveva diritto ad essere trattato come persona, poteva con i compagni levare la voce per migliorare la propria condizione, non era più soggetto agli umori ed agli arbitri dei caporali che con un cenno di mano reclutavano all´alba, oppure no, i braccianti a giornata.
Questo salto da un mondo dove uno non contava niente a uno in cui, attraverso i sindacati da un lato, e la legislazione del lavoro dall´altro, uno sentiva di contare qualcosa, è stato più ampio e significativo in Italia che non in altri paesi europei i quali o non avevano visto interrotta da una dittatura la crescita del movimento sindacale, come in Gran Bretagna e in Francia, oppure si erano trovati subito dopo la guerra con una legislazione imposta dai vincitori che assegnava notevole peso politico ed economico al sindacato, come in Germania. Un elemento essenziale di tale salto in avanti e all´insù nella scala dei diritti è stata, in Italia, la libertà di associazione sindacale e di contrattazione collettiva. Appunto quella che il piano di Pomigliano prima e quello di Mirafiori dopo appaiono voler eliminare alla radice.
In questa prospettiva il confronto che tanto la Fiat quanto i suoi sostenitori propongono con le relazioni industriali in Usa è del tutto privo di senso. Per tre ragioni concomitanti: sia la legislazione che la giurisprudenza americane sono molto più arretrate di quelle dell´Europa occidentale; i sindacati hanno subito a causa delle politiche neoliberali, da Reagan in poi, sconfitte catastrofiche; infine si trovano addosso il peso enorme delle pensioni e della sanità privata su basi aziendali, per salvare le quali debbono accettare qualunque compromesso al ribasso. Come hanno dovuto fare i sindacati della Chrysler.
In secondo luogo chi si permette di non festeggiare ogni mossa della Fiat potrebbe cambiare atteggiamento se l´ad si disponesse finalmente a diradare la coltre di nebbia che fino ad oggi grava sul piano chiamato Fabbrica Italia.
Con le sue 650.000 unità prodotte in patria nel 2010 l´Italia, come costruttore di auto, è stata ormai sopravanzata non solo da Germania e Francia, ma anche da Spagna, Regno Unito, Polonia, e perfino dalla Repubblica Ceca e dalla Serbia. Stando al piano sopra indicato, nel 2014 la Fiat dovrebbe tornare a produrre nel nostro Paese oltre un milione e mezzo di vetture. Ma dove, e come, con quali catene di fornitura dei diversi livelli? Tre quarti di un´auto sono costruiti fuori dagli stabilimenti in cui si effettua l´assemblaggio finale. Davvero uno può credere che Mirafiori, che oggi lavora una settimana al mese quando va bene, sarà definitivamente rilanciato assemblando grossi suv progettati e costruiti in gran parte in Usa? O che negli stabilimenti della ex Bertone, nel Torinese, saranno prodotte 50.000 Maserati, bellissime auto da 130.000 euro al pezzo, una quantità dieci volte superiore a quelli che si vendono attualmente? O, ancora, che Pomigliano ritornerà anch´essa a nuova vita producendo un modello di utilitaria ormai vecchiotto, che costa molto meno produrre in Polonia o in Brasile?
Ecco, se in merito a questo paio di punti l´atteggiamento della Fiat cambiasse, smettendo di presentare un balzo all´indietro in tema di libertà sindacali come il nuovo che avanza, e fornendo indicazioni realistiche su ciò che progetta di fare quanto a organizzazione complessiva delle sue produzioni, compreso il centralissimo capitolo della fornitura, anche coloro che per ora hanno più di una perplessità sia sul salto all´indietro che essa propone nel campo delle relazioni industriali, sia sul nebuloso piano Fabbrica Italia, potrebbero cambiare atteggiamento.
L´antidoto al berlusconismo non poteva che sprigionarsi dall´interno della società milanese. La nuova sinistra del Nord è nata nell´unico modo in cui poteva nascere, cioè come alternativa culturale a un sistema di potere ventennale che, proprio a Milano, appariva granitico, pur non essendolo, grazie all´organicità della sua ideologia.
Una visione mercificata delle relazioni umane, in cui la parola "libertà" veniva disinvoltamente brandita per zittire le aspirazioni di "uguaglianza" e "fratellanza"; una "libertà" del privilegio rivolta perfino contro il vincolo comunitario della "legalità".
Facile dirlo, ora che è successo davvero: per liberare l´Italia bisognava cominciare dalla liberazione di Milano. Ma fino a ieri il senso comune prevalente era ben altro. Una visione spregiudicata, talvolta cinica, della politica come mera misurazione dei rapporti di forza, ereditata dalle scuole di partito novecentesche, liquidava come dilettantismo ingenuo questa prospettiva di crescita della partecipazione dal basso, valorizzata infine da un leader come Giuliano Pisapia: anticarismatico, ma con un netto profilo culturale alternativo.
A lungo è prevalsa la convinzione che l´Italia potesse essere governata da sinistra nonostante Milano, solo accerchiandola e neutralizzandola. Quasi che il Lombardo-Veneto andasse considerato per sua stessa natura terra ostile a un progetto incentrato sulla giustizia sociale, su un prelievo fiscale equamente ripartito, sui valori della solidarietà nei confronti dei più deboli. Quasi che insieme alle fabbriche fosse scomparso anche il proletariato.
La teoria della Milano inespugnabile, dunque da sottomettere grazie a una maggioranza conseguita altrove (come nel 1996 e nel 2006), prevedeva necessariamente la variabile tattica dell´infiltrazione, o del compiacimento subalterno. Mai risolto l´enigma di come la sinistra possa rendersi attraente per i non meglio precisati "ceti emergenti", da ultimo ribattezzati "popolo delle partite Iva" - parole balbettate timidamente dai dirigenti romani in trasferta, come volessero esibire dimestichezza con una lingua straniera - ha alimentato per anni la scorciatoia della lusinga. Le più prestigiose Fondazioni dei leader politici nazionali sbarcavano a Milano facendosi sponsorizzare convegni sui temi della finanza, del credito e della sicurezza, all´unico scopo di conservare il rapporto con un establishment che gli era familiare per via delle sue frequenti incursioni nei palazzi romani; e per la comune pratica dell´economia di relazione. Sì, stiamo parlando proprio di quell´establishment che secondo le teorie in auge nel Pd milanese mai avrebbe potuto appoggiare un esponente politico della sinistra nella competizione per Palazzo Marino, perché inaccettabile ai "moderati". Ora sappiamo com´è andata, grazie alle primarie del novembre 2010 che hanno sovvertito la sua indicazione.
La traduzione nella politica locale di questa abitudine di compiacere la società del Nord, o meglio l´immagine deformata che ne trasmettevano i mass media, ha comportato imbarazzanti episodi di subalternità ai falsi argomenti della destra. Ricordiamo certi sì alle ronde; il documento del Pd lombardo in cui si proponeva un tetto alla presenza dei bambini stranieri nelle scuole; la polemica contro l´ultimo governo Prodi accusato di eccessiva debolezza con i rom; la corrività su un federalismo di facciata. Pareva che il leghismo dovesse trovare una declinazione da sinistra, nel nome di una presunta volontà popolare.
Intanto l´elettorato di sinistra - nelle periferie, ma non solo - voltava le spalle a questi astuti professionisti della tattica, con una massiccia propensione all´astensionismo. Solo l´esemplare comportamento di Stefano Boeri, sconfitto alle primarie ma impegnato dal giorno dopo alla testa del Pd nella campagna per Pisapia, ha consentito il lusinghiero successo del partito di Bersani, evitandone una pericolosa deriva. Quando già al suo interno qualcuno prospettava una scelta autolesionistica ma coerente col mito di Milano città imprendibile: appoggiare la candidatura dell´ex sindaco di destra Gabriele Albertini. Chiamando un´altra volta gli elettori a votare il "meno peggio", nella convinzione sbagliata che il volto della sinistra milanese risultasse loro impresentabile.
Quale sinistra è, dunque, la nuova sinistra protagonista della liberazione del Nord dall´egemonia berlusconian-leghista?
Stiamo parlando della città che prima ancora di Tangentopoli aveva vissuto lo scisma di Craxi. Cioè la frantumazione della cultura riformista consumata proprio negli anni che ne avrebbero dovuto consacrare l'egemonia a sinistra, in seguito al definitivo fallimento del movimento comunista. Le inchieste giudiziarie di Mani Pulite fecero sì che a Milano la linea di demarcazione imposta dal nascente bipolarismo italiano producesse effetti brutali. Restarono dall´altra parte, più o meno inglobate nel sistema di potere berlusconiano, componenti significative del riformismo lombardo socialista, ex comunista e cattolico. Non sono pochi i rappresentanti di questi filoni riformisti che accettarono incarichi amministrativi e di governo nel centrodestra, o magari nella Compagnia delle Opere. Qualcuno con disagio, altri accontentandosi di vantaggi personali.
La simpatia manifestata nei confronti del garantista antiberlusconiano Giuliano Pisapia da parte di uomini come Carlo Tognoli, Bruno Tabacci, Piero Borghini, lasciano sperare che la nuova sinistra del Nord abbia in sé le caratteristiche per superare questa frattura storica. E spalanca inedite prospettive di crescita per lo stesso Partito democratico.
Ma sbaglieremmo limitandoci a questa lettura politologica della riconquista di Palazzo Marino. La figura straordinaria del maestro elementare Paolo Limonta, coordinatore dei Comitati elettorali di Pisapia, regista accorto di una campagna alla quale non ha voluto sacrificare neppure un´ora di insegnamento, chiama in causa la più grave dimenticanza di chi guardava a Milano come città naturaliter di destra. Bisognava esserci, nel giugno 2009, ai funerali del cantautore della sinistra milanese Ivan della Mea, nel "suo" circolo Arci-Corvetto, per ricordare come la rete dell´associazionismo popolare socialista, comunista, cattolico, sessantottino, ramificata lungo più di un secolo nei quartieri cittadini, ha continuato a esistere. Dimenticata, in attesa che qualcuno le rivolgesse di nuovo parole d´impegno e riscatto. Quanto ai vilipesi centri sociali, c´è voluto Claudio Bisio, star di Mediaset, per ricordare quanto gli sia debitrice la cultura milanese. Demonizzarli, in una metropoli afflitta dal disagio giovanile, è stato prima di tutto un segno di ignoranza, tanto più ora che questo universo ha dispiegato nella rete della comunicazione virtuale il potenziale formidabile dei suoi linguaggi creativi.
Nella Curia arcivescovile del cardinale Dionigi Tettamanzi, nel Palazzo di Giustizia di Edmondo Bruti Liberati e nella Fondazione Cariplo del vecchio democratico Giuseppe Guzzetti, la Milano che da anni mal sopportava il malgoverno e gli abusi della destra ha trovato dei punti di riferimento più saldi di quelli offerti da un centrosinistra titubante. Finché, grazie allo strumento partecipativo delle primarie, questa Milano si è messa in cammino facendo da sé. Si è scoperta giovane, o ringiovanita. Si è manifestata attraverso il suo volto migliore, plurale e collettivo, senza paura di spaventare i "moderati". Che oggi la ringraziano.
Conversazione fantastica e post elettorale in cui il despota (indovinate a chi somiglia?) avverte: «Celebrate il successo di oggi, ma domani dovrete fare i conti con quello che ho seminato nelle menti e i cuori degli italiani»
Democratica: «Trenta maggio 2011. Oggi è il giorno della mia festa. Ho indossato un abito grigio e ho messo fiori nei capelli per celebrare. L’abito è grigio perché alla democrazia non si addicono passioni forti e colori sanguigni. E’ una forma d governo "normale" che richiede impegno quotidiano, partecipazione, attenzione».
Tiranno: «La festa per te non implica la sconfitta per me. Festeggio oggi, vestendomi in abiti sgargianti o smorti (suggerisci lo stilista di punta: lo farò mio, con ogni anoressia che impone a chi sfila su quelle passerelle del nulla), e proseguo col nutrirti di battute di spirito. Il potere mi apparterà ormai, comunque. “Innovative ricchezze” e particolari filiazioni costituiscono garanzie. Democrazia? Si è mai concretizzata? Con chi? E chi sarei io? Nel libro VIII de La Repubblica di Platone, leggo: “Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quante ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, son dichiarati tiranni”. Ubriacati di libertà? O di ciò che in passato è stato sublimato, ma pure assiduamente cercato grazie a me, o proiettato in me? Evasioni fiscali, condoni di ogni genere (chi a Milano non possiede un vero e proprio attico, un tempo mero magro sottotetto?), guadagni facili, ignoranze, incompetente al potere, mafie, maschilismi, narcisismi, e via di dicendo. Primitivi, stando a Thomas Hobbes. Terminerà forse “la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto per parlare con più riverenza di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa”?».
Scettica: «Non festeggio, non esulto. Non perché non riconosca con razionale soddisfazione che le regole democratiche funzionano e facciano sentire che vale la pena stare al gioco, che gioco c’è. Non festeggio perché diffido delle celebrazioni. Come diffido delle visioni catastrofiche. Fino a qualche mese fa, tu Democratica gridavi alla crisi della democrazia e oggi sembri giá convinta che crisi non ci sia piú. Come se una vittoria elettorale fosse capace a dissipare i dubbi e le ombre che ti hanno oppressa in questi anni. Non credo che una vittoria sia sufficiente per concludere che tutto è normale. Certo, la normalitá delle procedure democratiche funziona, e questo è dimostrato dal fatto viene accettata da tutti l’alternanza di governo municipale. Tuttavia, non sottovaluterei i potenti mezzi che tu Tiranno puoi ancora sfoderare contro Democrazia. Per esempio, il monopolio dei mezzi di comunicazione, e l’enorme potere clientelare e finanziario che gestisci all’oscuro di tutti noi e della legge. Insomma, una viola non fa primavera».
Democratica: «È vero. Ricordo, inoltre, che la democrazia è quella forma di governo nella quale il coraggio non dovrebbe essere importante. Lo ha fatto presente anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’ 8 marzo 2010, per le celebrazioni della giornata della donna. Non dovrebbe. Non ci sarebbe, infatti, bisogno di coraggio se la democrazia fosse in grado di garantire, oltre al buon funzionamento delle istituzioni, anche condizioni eque nella gestione delle istituzioni medesime. Invece noi in Italia sappiamo che tu, Tiranno, detieni il monopolio dei mezzi di comunicazione, come ha ricordato lo Scettico, e possiedi enormi ricchezze con cui acquistare ogni cosa, compresi voti e coscienze. Poiché, dunque, la nostra democrazia rimane ancora fragile, occorre essere pronti a usare anche il coraggio, oltre alle altre antiche virtù: giustizia, prudenza, temperanza».
Tiranno: «Le mie risorse sono davvero abbondanti, e poi, senza dubbio, essendoci in ciascun individuo un piccolo tirannello pronto a far tacere la ragione e con una democrazia che riposa proprio sulle scelte degli individui, allora ho di che sperare. Tu, Democratica, celebra pure il tuo successo di oggi, poi domani dovrai comunque fare i conti con quello che in questi anni ho seminato nelle menti e nei cuori dei cittadini italiani. Di me non riuscirai con facilità a liberarti».
Incassato il trionfo dei ballottaggi ed il previsto via libera della Cassazione al referendum sul nucleare, si tratta ora di dare pieno significato politico al primo successo della sinistra nella storia della seconda repubblica. I successi di candidati autenticamente alternativi a Napoli, Milano e Cagliari, sebbene assolutamente necessari per iniziare finalmente ad invertire la rotta anche in Italia dopo vent'anni di pensiero unico, non sono di per sé sufficienti. È fondamentale, per dare un senso politico nazionale a questo vero e proprio rinascimento della coscienza civile e politica italiana, vincere i referendum il prossimo 12 e 13 giugno. L'affluenza alle urne, piuttosto bassa anche ai ballottaggi, rende l'idea di quanto ciò sia difficile. Tuttavia è proprio il referendum il passaggio essenziale per dimostrare la vocazione maggioritaria di questa nuova progettualità, radicalmente alternativa rispetto alla visione che ha fin qui dominato e che ancora spadroneggia non soltanto al governo ma anche in Parlamento.
I referendum infatti (proprio come i candidati vincenti di Milano, Napoli e Cagliari) letti nel loro insieme, rompono senza ambiguità con il ventennio del pensiero unico. Quelli sull'acqua possono finalmente mettere la pietra tombale sull'ideologia delle liberalizzazioni che ha avuto, e in gran parte ancora ha, nel Partito democratico (incluso il segretario nazionale) una sua roccaforte. Da anni raccogliamo dati a livello internazionale sui risultati effettivi delle privatizzazioniliberalizzazioni (per fortuna nessuno perde più tempo cercando di distinguere i due concetti). Da ben prima della grande crisi del 2008 siamo stati capaci di redigere, con metodo empirico, le leggi ferree che le governano: aumento delle tariffe; riduzione degli investimenti (anche sulla sicurezza: vedi ritorno dell'epatite A in Inghilterra); aumenti dei compensi dei manager; aumento dei budget per la pubblicità (necessari per controllare l'informazione). Da anni sappiamo che la gestione privata è incompatibile con i beni comuni, perché essi (ciò vale anche per i servizi pubblici diversi dall'acqua, come il trasporto e la gestione dei rifiuti) resistono alla logica produttivistica ed aziendalistica e vanno governati nella logica ecologica della riproduzione (in altre parole devono essere sostenuti da sussidi perché il loro valore è ecologico) e della soddisfazione dei diritti fondamentali.
Da anni sappiamo che la contrapposizione fra pubblico e privato, declinata nella (falsa) alternativa secca a somma zero fra Stato e mercato (più stato=meno mercato; più mercato=meno stato) stritola i beni comuni come una tenaglia, perché stato e mercato, lungi dall'essere antitetici, sono il prodotto storico della stessa logica individualistica, gerarchica e competitiva che, se non imbrigliata da processi politici autenticamente democratici e partecipativi, produce soltanto violenza e saccheggio. Stato e mercato cospirano contro i beni comuni e la follia nucleare costituisce la quintessenza di tale tradimento dell' interesse pubblico (ossia collettivo) a favore di quello privato (sia esso delle imprese beneficiarie degli appalti o dei partiti appaltatori). La questione nucleare non c'entra con quella energetica! Essa, come la costruzione delle Piramidi nell'antico Egitto o le grandi dighe nelle società idrauliche, serve soltanto a costruire un modello di controllo sociale fondato sulla centralizzazione piena del potere e delle risorse, sull'ideologia securitaria ed autoritaria e sull'annientamento delle libertà civili fondamentali dei cittadini. Contro questo modello di sviluppo si sono ribellati i movimenti. I referendum rimettono all'ordine del giorno la necessità che i requisiti della «pubblica utilità», della «riserva di legge» e dell'«indennizzo equo» non accompagnino solo l'espropriazione del privato a favore del pubblico ma anche del pubblico a favore del privato.
Quella iniziata ieri è una fase costituente decisiva per il nostro paese e forse anche oltre i nostri confini. L'elettorato italiano ha detto basta ad una subcultura politica incapace di adeguarsi alla crisi che stiamo vivendo, ad un linguaggio e ad una prassi che ripetono un triste mantra di continuità culturale come se la fine della storia non fosse a sua volta finita. È un mantra che, in nome dello sviluppo e di una falsa concezione dell'economia, sa solo offrire un modello di convivenza triste, competitiva, senza rete. Un modello a cui gli elettori stanno finalmente reagendo. Insieme possiamo finalmente costruire un'Italia in cui sia più bello per tutti vivere.
La Corte di Cassazione ha fatto la sua parte, con intelligenza giuridica e senso delle istituzioni. Gli effetti della decisione di far tenere il referendum sul nucleare sono evidenti, viene sventato il colpo di mano di un governo prepotente e incompetente. Viene impedita una frode del legislatore a danno degli elettori. Viene restaurata la legalità costituzionale. Disprezzata da chi pensava che con uno sgangherato tratto di penna potesse esser fatta tacere la voce dei cittadini. Viene così disinnescata la trappola congegnata con l´apparenza dell´abrogazione delle norme sulla costruzione delle centrali nucleari e con la sostanza di un governo che pretendeva di tenersi le mani libere per far ripartire a suo piacimento il programma nucleare. Un espediente misero, un´evidente legge truffa, che violava il principio secondo il quale il referendum non si tiene solo se la nuova legge va esattamente nella direzione voluta dai suoi promotori.
La Cassazione ha colto la malafede governativa (implacabilmente documentata dalla memoria presentata da Alessandro Pace) e ha trasferito il referendum proprio sulla parte truffaldina della nuova norma. La morale di ieri è limpida. E ancora possibile sottrarre libertà e diritti all´aggressione di cui sono continuamente oggetto. La sconfitta politica del governo e della maggioranza non poteva essere più chiara.
Da tempo, infatti, eravamo costretti a fare i conti con una linea governativa sempre più pericolosa, avventurosa, costosa. Una linea, però, che ormai incontra resistenze sempre più decise, che hanno cominciato a demolirla e che, insieme, stanno facendo emergere le vere questioni nelle quali si riconoscono i cittadini. E non trascuriamo la decisione presa nella stessa giornata di ieri dall´Agcom, che ha dato indicazioni alla Rai perché sia assicurata una effettiva informazione sui referendum, dopo la vergogna dei silenzi, delle trasmissioni semiclandestine, degli spot "informativi" che sembravano fatti apposta per togliere ai cittadini ogni voglia di andare a votare.
Questa strategia antireferendaria è fallita. Fuggita dal referendum, la maggioranza si trova ora a fare i conti con un nuovo smacco. Chi sarà indicato come responsabile? Qualche povero amanuense? Gli eterni giudici comunisti? E deve soprattutto fare i conti con quei cittadini "emotivi" ai quali si è cercato di negare il diritto di voto. Che, però, sono ora in buona compagnia, con l´emotiva Angela Merkel che ha decretato la fine del programma nucleare tedesco.
Riportati nella loro interezza sulla scena istituzionale, i quesiti referendari sono destinati a caratterizzare ulteriormente e ad accelerare le dinamiche politiche appena avviate. Le elezioni amministrative hanno visto la comparsa di nuovi soggetti, non solo i nuovi sindaci, ma tutto quel mondo di donne, giovani, studenti, lavoratori, indignati di ogni età che, nei mesi passati hanno rivitalizzato la politica e che più d´uno aveva liquidato con un´alzata di spalle. I referendum, da parte loro, segnalano ora la comparsa di una nuova agenda politica, costruita intorno a temi forti, che parlano del futuro di tutti. Di un punto di unione tra queste due vicende, le elezioni amministrative e i referendum, e che si trova proprio nelle forze in campo, perché il miracolo del milione e quattrocentomila firme per i referendum sull´acqua "bene comune", record assoluto per la materia referendaria, nasce proprio dalla mobilitazione di persone che poi sono state protagoniste nel tempo delle elezioni e che, a maggior ragione tornano ad esserlo in queste giornate.
Beni comuni, appunto. Questo è il tratto unificante dei quesiti referendari. Il bene comune dell´acqua sottratto alle pretese speculative. Il bene comune della salute e dell´ambiente sottratto al rischio nucleare. Il bene comune della legalità sottratta ad una giustizia a due velocità prodotta dal legittimo impedimento. Il caso o l´astuzia della ragione o la Provvidenza hanno fatto sì che si producesse una congiunzione così significativa. In un colpo solo possiamo dare alla vita, ai bisogni, all´eguaglianza, al futuro un senso che sembrava perduto.
Molti sono sconcertati [e] continuano a giudicare i referendum sull´acqua in particolare con criteri di convenienza economica e non colgono le dimensioni di un vero passaggio d´epoca che non può essere affrontato con le categorie del passato. Forse stiamo entrando davvero in un mondo tutto nuovo, e questo può far tirare un respiro di sollievo. Ma servono molta fede e molto impegno.
La prova è vicina, il 12 e 13 di giugno.
L'anatra zoppa? «Non esiste», risponde con la serenità che lo accompagnerà durante tutta l'intervista. Massimo Zedda è convinto che il centrosinistra avrà, oltre al sindaco, anche la maggioranza del consiglio comunale nonostante al primo turno le destre abbiano raccolto più voti. Del resto i precedenti gli danno ragione. Né anatra zoppa né pulcino bagnato: il trentacinquenne primo cittadino di Cagliari nasconde, dietro quell'aria un po' così, una solidità che gli è data da tre doti che mi colpiscono: passione politica, fiducia e, appunto, serenità. Adesso che ha superato con i massimi voti gli scogli delle primarie, del primo e del secondo turno dovrà recuperare almeno un po' dei chili persi battendo strada per strada la sua città. Si è appena comprato un vestito nuovo perché quello vecchio è diventato troppo largo.
Cagliari città di destra, in mano ai costruttori, ai commercianti, a una borghesia conservatrice. La sinistra e poi il centrosinistra non hanno mai creduto di poter vincere, al massimo si preoccupavano di scegliere uomini e politiche moderate, diciamo pure con qualche complicità per vivere in una realtà segnata dal destino. Cos'è successo? Come è stato possibile il miracolo?
Nessun miracolo, semplicemente ci abbiamo creduto fin dall'inizio, ci abbiamo messo passione e abbiamo raccolto i frutti di uno straordinario lavoro collettivo. Mi hanno avvicinato centinaia di persone, di giovani che si sono messi a disposizione nella campagna elettorale. Mica si limitavano a distribuire volantini, li facevano loro, si inventavano iniziative, incontri, coinvolgevano altre persone. Chi l'ha detto che Cagliari è una città di destra? Dovremmo chiederci piuttosto che cosa offriva il centrosinistra, quale diversa idea della città e dei beni comuni aveva. Noi abbiamo proposto un'alternativa, nel metodo - la partecipazione, la trasparenza, l'onestà - e nel contenuto.
Ti hanno votato i giovani, ma anche i padri e i nonni dei giovani. Anche quelli che hanno sempre pensato che per la sinistra non ci fosse nulla da fare se non riproporre politiche moderate, puntate al centro e incentrate su un ceto politico immodificabile.
Questo è il punto. Dire che non c'è nulla da fare è una giustificazione che nasconde impotenza e pigrizia. Invece bisogna osare, provarci, basta con l'introiezione della sconfitta. Già alle primarie qualche compagno mi chiedeva di ritirarmi per non oscurare o ridimensionare la vittoria del candidato doc data per certa. Io ho semplicemente risposto che non avrei oscurato nessuno, semplicemente avrei vinto, lo capivo parlando con le persone di cose concrete.
Quali sono le cose concrete?
Mica mi chiedevano dei guai giudiziari di Berlusconi, volevano discutere del lavoro che non c'è e quando c'è è precario, dei servizi, della scuola, dell'ambiente. Io ho sempre detto che non ho ricette miracolistiche e che le risposte vanno costruite insieme, con il contributo e la partecipazione di tutti. Per questo bisogna coinvolgere il mondo del lavoro, delle professioni, della cultura, della ricerca. Ma con ottimismo: se un secolo fa chi ha costruito le prime esperienze di cooperative, le associazioni, i sindacati, avesse avuto l'atteggiamento di chi pensa che di fronte ha un mondo troppo ostile e complicato, non avrebbero costruito un bel niente.
Vuoi dire che ti saresti immaginato un esito straordinario come quello che oggi fa interrogare tutti? Vincere le primarie, e infine sbaragliare l'avversario lasciandolo indietro di venti lunghezze?
E mica sono così presuntuoso, però, ripento, pensavo che ce l'avrei fatta quando ho visto esplodere l'entusiasmo delle magliette rosse. Anche rosse e blu che sono i colori di Cagliari con quel «2011» che ricorda il numero 11 della maglietta di Gigi Riva. È vero, sono di più le magliette tutte rosse: e allora?
Ti aspetta un compito molto difficile. Come pensi di affrontarlo?
Sto rinunciando a molti spazi privati, persino ai soldi che prendevo da consigliere regionale. Faccio sacrifici ma con soddisfazione cercando di restituire alla politica contenuti e etica che sono i motori della partecipazione. La politica non è interesse personale. Con questo spirito e in tanti si possono spostare macigni, e l'occupazione da queste parti è un macigno. Un sindaco non può fare da solo, deve stimolare le persone, i giovani ma non solo, deve aiutare questa città e la sua parte migliore a scollarsi di dosso sfiducia e passività, favorire una presa di coscienza collettiva che è l'unico modo per cambiare. Non basta dire come fanno tutti che serve il confronto: serve il lavoro e l'impegno comune, serve la condivisione. Vorrei coinvolgere movimenti, associazioni, categorie. Voglio che il sindacato mi tracci dei profili, non che mi dicano dei nomi, per affrontare il nodo del lavoro.
Poi però dovrai fare una giunta, e le pressioni dei partiti, forse anche dei vecchi ceti politici, non mancheranno.
Anche per fare la giunta non ho bisogno di nomi. Ho visto in questi giorni vecchi compagni piangere dalla gioia per aver scoperto che era vero, si poteva fare. Conta più questo, una grande motivazione, o un assessorato? A volte si racconta la politica peggio di come è. A volte si trovano insormontabili problemi che non lo sono: sai che stiamo spendendo solo il 17% dei fondi europei? E allora quando dico che bisogna mettere mano alla piaga del precariato, anche tra centinaia di dipendenti del Comune, non sono pazzo. Del resto, se un'azienda o un'amministrazione per vent'anni rinnova alle stesse persone contratti precari e a termine vuol dire che di quelle persone ha bisogno.
Cosa ha più contribuito alla tua vittoria?
Quando si vince o si perde le ragioni sono sempre molte. Il vento del cambiamento generale, l'assunzione di responsabilità di nuove generazioni, le proteste sociali di questi mesi che hanno assediato Cagliari e la Regione, studenti, pastori, partite Iva, precari, operai.
La personalizzazione spinta da una riforma elettorale che riduce il potere dei consigli ed esalta quello dei sindaci può cambiare anche le persone migliori
Nelle magliette rosse abbiamo scritto «Ora tocca a noi», il mio nome non compare neppure. Io dovrò avere uno stile, un comportamento adeguati al ruolo, ma voglio essere sempre quello che sono.
Il vecchio monito «se tira l’edilizia tira tutta l’economia» è forse un po’ abusato ma nasconde una verità di fondo: difficilmente per lo sviluppo dell’occupazione e della ricchezza si può fare a meno dell’indotto creato dalle costruzioni, dato che da solo esso pesa circa il 10 per cento della produzione lorda nazionale. Potrà forse farne a meno la Milano dell’ecologismo neocomunista di Pisapia? Probabilmente no. Il peso del mattone nell’economia milanese che, storicamente difettando di risorse naturali o bellezze paesaggistiche da sfruttare, ha avuto come ricchezza principale nient’altro che la propria posizione geografica, è sempre stato grande.
Un perfetto emporio, un’area a vocazione terziaria è normale che conviva con le gru: la vetrina deve essere sempre moderna, nuova, sfavillante. Per questo da sempre Milano si consuma e si ricostruisce, mantenendo qualche angolo di ricordi ma sempre proiettata verso il nuovo. Negli ultimi anni la trasformazione di Milano ha imboccato una fase nuova, salendo verso l’alto, con i grattacieli che attirano gli sguardi dei passanti sotto i cantieri e impiegano migliaia di operai per la loro costruzione. Adesso da questi cantieri si guarda con preoccupazione alla rivoluzione di Palazzo Marino e ci si domanda cosa cambierà con il nuovo sindaco che, in modo esplicito, aveva promesso una «ripartenza da zero» rispetto al Piano di governo del territorio vigente. Non per niente tutta l’industria delle costruzioni è stata da subito definita come la grande sconfitta di questa tornata elettorale e i cognomi degli immobiliaristi famosi come Cabassi e Ligresti, i Catella o i Caltagirone, Hines e Bizzi vengono pronunciati da qualche ingenuo con un tono che ricorda molto l’«Ei fu» di manzoniana memoria. In particolare, per Ligresti il contrasto fra i suoi progetti di espansione urbanistica verso il sud della città e i punti del programma di Pisapia che invece vagheggiano in quell’area prati orti e paperelle sembra del tutto inconciliabile.
Ma le cose stanno proprio così? Difficile. Se si dovesse prendere alla lettera l’intento del nuovo sindaco che proclama al primo punto delle sue strategie urbanistiche la necessità di «smettere di crescere nel territorio e valorizzare l’agricoltura di prossimità» staremmo freschi: Milano che punta sull’agricoltura è come far puntare Piacenza sull’alpinismo. È vero che la sinistra ci ha abituato a queste sciocchezze demagogiche mirate a colpire il «core business» dei territori in nome di un ecologismo da signori, vedi l’infausta tassa sugli yacht inventata da Soru in Sardegna. In quel caso però i mancati introiti li avrebbe come al solito pagati Milano a suon di trasferimenti ma se anche Milano si mettesse a giocare con l’orticello non ci sarebbe più qualcun altro a cui far pagare il lusso.
È più probabile quindi che in realtà la grande rivoluzione sarà solo di facciata e che a Milano si continuerà a costruire tanto quanto prima, magari cambiando gli attori e infiocchettando di verde il cemento. La contraddizione era infatti evidente sin dalle prime riunioni per il programma di Pisapia quando si toccava il delicato tema dei parcheggi: con il sorrisone pacioso veniva spiegato agli astanti che in sostanza la Moratti cattiva voleva i parcheggi per far arrivare in centro più macchine con conseguente smog e morte (fischi e buu tra i convenuti) mentre l’idea era quella di realizzare parcheggi per i residenti in modo da poter togliere le macchine dalle strade e far crescere pascoli e ruscelli (applausi a scena aperta). Oplà, riuscito il giochetto di prestigio: i parcheggi si faranno sempre, ma se da una parte erano brutti sporchi e di destra dall’altra saranno belli puliti e di sinistra. Nessuno che avesse alzato il ditino per osservare che un parcheggio è sempre un parcheggio, che è fatto di cemento e che si realizza scavando per terra. Dato che probabilmente le cose andranno in questa direzione sarebbe carino se Pisapia cominciasse da subito a comunicare chi sono i costruttori e gli immobiliaristi «buoni» che, di certo, già stanno preparando cazzuole e betoniere. Le Coop dei costruttori? Qualche bel cognome dell’edilizia allegramente attivo nei purissimi comitati pro Sinistra Ecologia e Libertà? La domanda non è peregrina perché non è indifferente sapere se dobbiamo prepararci a una delle solite furbe operazioni di immagine della sinistra (e passi) o se nella prossima giunta prevarranno gli integralismi stile Carlo Monguzzi, quello che, per intendersi, ebbe la bella pensata di proporre la chiusura di tutto il nord Italia per una settimana per ridurre lo smog. Tanto mica paga lui.
Sono bastate poche ore perché apparisse evidente a tutti qual era il vero scontro, la vera minaccia per il gruppo di potere berlusconiano. Non l’estremismo, non l’islamismo, non il terrorismo, non il comunismo raffigurati dall’immagine di “Pisapia canaglia”, ma il mattone. Nell’immaginario dei berluscones (che la loro gigantesca macchina propagandistica ha tentato di dissimulare) la buona borghesia lombarda non è la classe legata all’innovazione e al profitto industriale ma alla rendita immobiliare; non al progresso della scienza ma allo sfruttamento della tecnologia, e allo sviluppo degli strumenti di comunicazione e mistificazione capaci di giustificare il parassitismo economico e sociale: quel parassitismo di cui rendita e potere sono gli ingredienti essenziali.
La loro speranza è che, nonostante tutto, anche Pisapia e il nuovo governo della città restino fedeli allo slogan obsoleto per cui, come ricordano, «se tira l’edilizia tira tutta l’economia».
La nostra speranzaè quella opposta: che la nuova maggioranza resti fedele alla catena di eventi, di volontà espresse, di proposte avanzate da associazioni, comitati, gruppi di cittadinanza attiva che si sono manifestati negli ultimi anni: di quei «tanti sassolini bianchi» che (come ha scritto Barbara Spinelli) hanno costituito il sentiero della vittoria, a Milano cme a Napoli, Cagliari e in tante altre città e province italiane.
Ciò che noi aspettiamo con speranza da Pisapia è abbondantemente raccolto sulle pagine di eddyburg: a proposito del Parco sud e del consumo di suolo (ricordiamo con orgoglio il contributo che abbiamo dato con l’appello su cui raccogliemmo un numero inaspettato di adesioni), del Piano di governo del territorio e della profonda revisione del progetto della giunta sconfitta, dell’Expo e delle vistose alternative emerse fin dai primi mesi della sua discussione. In sostanza, ciò che aspettiamo con speranza sono gli atti conseguenti a quel profondo cambiamento di rotta di cui Pisapia a Milano è per noi l’espressione: assumere, come principio direttore delle politiche della città e del territorio, quello del maggiore benessere per tutti (a partire dai più deboli), anziché quello della massimizzazione del potere e della ricchezza per gli usurpatori del bene comune.
Se non ci fossero state persone come Giuliano Pisapia e Luigi de Magistris, nelle due città malate d’Italia che sono Milano e Napoli, probabilmente non avremmo assistito in diretta alle fine politica di Berlusconi e della sua inaudita magia. Molti elementi hanno contato, e tra questi sicuramente la coalizione divenuta un garbuglio, la cocciuta scommessa di Gianfranco Fini su una nuova destra legalitaria, la smisurata insipienza di un premier che s’aggrappa follemente a Barack Obama come Michele Sindona s’aggrappò negli anni ‘70 agli amici americani.
Ma il vento più impetuoso viene da altrove, viene da dentro gli animi, è una forza che ha travolto tutti i copioni consueti. Eravamo abituati a dire, con Gramsci, che quel che urge è il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà. Non è vero. Quel che ha vinto, a Milano e Napoli, è l’ottimismo della ragione: lo sguardo chiaro, veggente, sui tanti segnali degli ultimi anni. Il non possumus di Fini, le onde viola, la manifestazione delle donne il 13 febbraio, irradiatasi da Internet come virus ("Bastava non votarlo", diceva un cartello: è stato preso sul serio). Qualche giorno dopo, al festival di San Remo, il televoto scelse Roberto Vecchioni e anche quello fu un segno.
Alle nostre spalle, ci sono tanti sassolini bianchi che hanno finito col mostrare la via, come nella fiaba di Grimm. Li abbiamo messi noi, cittadini-elettori. Il castello che sembrava granitico, è il popolo sovrano che l’abbatte; lo stesso popolo che il premier usa per affermare un potere illimitato. Un’immensa e tranquilla fiducia di potercela fare, un’intelligenza-conoscenza dell’Italia reale, una voglia di provare alleanze interamente centrate sull’etica pubblica e la legalità, un’estraneità profonda ai partiti dell’opposizione, alle loro élite: questi gli ingredienti che hanno fatto lievitare il pane che abbiamo mangiato lunedì. E il senso che sì, più di Gramsci valeva Pessoa: «Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola». Chi ha ottimismo della volontà, lasciando che la ragione si deprima e inebetisca, altro non gli resta che la volontà di potenza.
L’ottimismo dell’intelligenza apre lo sguardo ai segni – rendendo visibile l’invisibile – entra in sintonia con le mutazioni di una società, resuscita parole diradatesi per malinconia. È possibile ricostruire una Milano accogliente, capitale morale. È possibile strappare il Sud a mafia, ‘ndrangheta, camorra, corona unita, cominciando dalla città-Babilonia che è Napoli. Non ci fa paura la paura. Luigi Bersani ha avuto la saggezza (dopo due sconfitte dei candidati Pd: alle primarie milanesi e nel primo turno a Napoli) di presentire che questa primavera italiana lui doveva assecondarla, aiutarla. Come scrive nel suo blog Pietro Ancona, già segretario della Cgil, Bersani s’è mostrato capace di buon senso: «Ha preferito vincere senza essere il protagonista principale, piuttosto che perdere essendolo». Anche questo è ottimismo dell’intelligenza.
Non siamo più invischiati in un Pd che corre da solo, che fa cadere Prodi presumendo di liberarsi della zavorra di Antonio Di Pietro o della sinistra radicale. Che per anni ha avuto come scopo essenziale quello di esser battezzato «riformista» dal finto sacerdote Berlusconi. Pisapia, Vendola, De Magistris guardano al potere senza più complessi: aspirano a prenderlo, con fiducia in sé, nel proprio ragionare, negli elettori. Gli stessi vizi della sinistra radicale (la riluttanza a governare, a pagare il prezzo che questo comporta) si fanno obsoleti e inutili.
Crederci, non crederci: questo era il dilemma, se parafrasiamo Amleto. «Se sia più nobile sopportare gli oltraggi, i sassi, i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli». Sulla bilancia è stata la forza trasformatrice della verità a pesare: forza malinconica forse – disvelatrice di fatti e misfatti – ma non pessimista. I veri giustizialisti sono stati in questi anni coloro che più esecravano i magistrati. Fino a quando non si è condannati in terzo grado, tutto è permesso: gli insulti, le più immorali condotte pubbliche. Gli elettori delle amministrative restituiscono alla politica la sua vera ambizione: quella di agire e correggersi prima che intervenga il magistrato. Quella di non contar frottole, quando la crisi infuria.
C’è infine la crisi, che cambia il vento: un po’ come in America quando vinse Obama. I candidati dell’opposizione non si sono accontentati più di dire: «Noi italiani siamo fatti così, c’è poco da fare». C’è invece, a cominciare da sé. Basta legger con cura i dati Istat sull’economia che barcolla, e la chimera dell’Italia immunizzata evapora. Basta scoprire come l’economia di intere regioni stagni, perché pervasa dall’illegalità, dallo sprezzo dello Stato. È molto significativo che a Napoli sia un uomo di legge («malato di protagonismo», dicevano le sinistre fino a poco tempo fa) ad aver conquistato uno straordinario 65,4 per cento. Tutto quello che sappiamo dei disastri economici causati dalle mafie, o del peso ricattatorio esercitato a Napoli e Roma da persone come Cosentino, gli ottimisti dell’intelligenza l’hanno appreso da indagini giudiziarie preziose. I magistrati sono per Berlusconi brigatisti, cancri, uomini antropologicamente diversi. Ora è antropologicamente diversa gran parte d’Italia. Sarà interessante vedere se anch’essa sarà insultata: come la Consulta, la Costituzione, il Quirinale, la magistratura, l’informazione indipendente.
Nel berlusconiano impero dei segni, tanti s’erano installati: vassalli riottosi, ma pur sempre vassalli. Anche il Pd, quando faceva mancare i propri voti alla Camera; anche Casini, quando approvava la legge liberticida sul fine vita. Scoraggiamento e pessimismo li inchiodavano dov’erano. Un’altra Italia ha fatto scoppiare la bolla dei segni, con la spilla dei buoni argomenti, la mitezza dei candidati, anche con lo scherno: c’è stato un momento, fra i due turni, in cui ha fatto irruzione l’ironia e il banco di Berlusconi è saltato. È stato quando un utente twitter ha lanciato un appello alla Moratti: «Il quartiere Sucate dice no alla moschea abusiva in via Giandomenico Puppa! Sindaco rispondi!". Al che il sindaco: «Nessuna tolleranza per le moschee abusive!». Era una bufala, né Sucate né Puppa esistono. Così come non esistono l’Italia berlusconiana, gli annunci miracolosi del premier. Un’esilarante fandonia ha scacciato la fandonia sempre meno allegra, sempre più cupa, del leader.
Prima o poi la ribellione doveva venire, connettersi al mondo reale. Un mondo dove i giovani, stando all’Istat, sono derubati di futuro: con tassi di disoccupazione superiori di 3,7 punti rispetto alla media europea; con un’emigrazione all’estero in aumento, perché il merito da noi non conta più. Quasi la metà dei giovani occupati è precaria. Quasi un quarto è Neet (acronimo inglese di Not in Education, Employment or Training).
Ora si tratta di vedere cosa l’opposizione farà: come costruirà, dopo aver distrutto. Come si mobiliterà per il referendum su acqua, legittimo impedimento (legalità), nucleare. È un’impresa colossale, dopo anni di crisi negata. Il 24 maggio, la Corte dei Conti ha ammonito: per raggiungere un rapporto fra debito pubblico e Pil pari al 60% (per evitare la bancarotta greca, come chiesto dall’Europa), l’Italia dovrà ridurre il debito del 3% all’anno, pari oggi a circa 46 miliardi.
Per Berlusconi, è missione impossibile: a causa del governo infermo, e del populismo. Ma sinistra e altri oppositori ne sono capaci, dopo aver sostenuto in questi anni che Prodi cadde per colpa del rigore? Sono capaci di dire che le tasse non vanno diminuite, che nell’economia-mondo la crescita sarà debole, i sacrifici non comprimibili, l’equità tanto più indispensabile? La strada è impervia. Ma l’Italia forse ascolta oggi parole di verità, se chi le dice avrà l’ottimismo dell’intelligenza, oltre a quello della volontà.
Un voto di liberazione. Una svolta. I magnifici risultati di Milano e Napoli rompono l'incantesimo di un ventennio, travolgono i vecchi equilibri, infrangono lo stile di un ceto politico. Esplosi subito dopo la chiusura dei seggi, con percentuali da capogiro, emozionanti nelle proporzioni (specialmente quelle di Napoli), i risultati non giungono inaspettati. Ancor prima che dal voto comunale, erano annunciati dalle straordinarie mobilitazioni sociali che hanno segnato gli ultimi due anni della vicenda nazionale. Nel momento peggiore del peggior berlusconismo, seppellito dagli scandali sessuali e dalla dolorosa crisi economica, dalla parossistica guerra contro la magistratura e dal vergognoso spettacolo parlamentare, si è preso la scena un paese umiliato ma non rassegnato.
Le proteste dei giovani, delle donne, degli operai, del mondo della cultura e dell'informazione hanno riempito piazze libere (dai partiti) e arato in autonomia il seme del cambiamento. Chi ne sminuiva la potenza con il ritornello dell'antipolitica, di un antiberlusconismo da ceto medio radical-chic, oggi riceve l'ennesima, sonora smentita.
Nei due campi del malato bipolarismo italiano il voto di maggio spariglia. Berlusconi e Bossi frullano dentro una centrifuga impazzita che strappa il mantello al re e toglie alla Lega la corona di regina della "padania". Nell'altro emisfero della politica arriva al Pd un messaggio altrettanto limpido: i successi elettorali sono il tesoretto portato dai candidati. E non viceversa. Le prove di governi tecnici a-berlusconiani avanzate dal partito di Bersani e dal Terzo Polo appaiono retrodatate, ferme a un'altra epoca rispetto alla novità rivelata dalle campagne elettorali di Pisapia, De Magistris, del giovane Zedda a Cagliari, uniti da un elemento cruciale e determinante: l'essere stati scelti o dalle primarie o fuori dalle alchimie delle nomenklature. Non è in gioco il passaggio di Palazzo Chigi da uno schieramento all'altro, magari sul binario di una fallimentare corsa al centro. C'è di più, si sta giocando un'altra partita, come del resto ci dicono i quesiti referendari. Nucleare, acqua e legittimo impedimento parlano di un'altra storia, di un'altra democrazia, della centralità dei beni comuni imposti al linguaggio pubblico grazie ai movimenti e nonostante le forze politiche arroccate su posizioni liberiste e sviluppiste.
C'è chi paragona questo straordinario risultato elettorale a quello delle elezioni amministrative del '93 quando la valanga dei sindaci, eletti direttamente, anticipava il governo dell'Ulivo del '96 sostanziandone il rapporto con il territorio. Iniziava allora il rinascimento napoletano di Bassolino, e molti giovani sindaci andavano al governo delle grandi città, dal nord al sud, da Palermo a Torino. Probabilmente qualcosa di analogo è accaduto anche nello smottamento prodotto dal voto di ieri, una scossa fortissima, anche psicologica, che potrebbe accelerare le elezioni politiche generali e inaugurare la stagione di un centrosinistra con una bussola puntata su un'alleanza di alternativa.
Ieri in Italia sono finiti gli Anni Ottanta. Raramente nella storia umana un decennio era durato così a lungo. Gli Anni Ottanta sono stati gli anni della mia giovinezza, perciò nutro nei loro confronti un dissenso venato di nostalgia. Nacquero come reazione alla violenza politica e ai deliri dell’ideologia comunista. L’individuo prese il posto del collettivo, il privato del pubblico, il giubbotto dell’eskimo, la discoteca dell’assemblea, il divertimento dell’impegno. La tv commerciale - luccicante, perbenista e trasgressiva, ma soprattutto volgarmente liberatoria ne divenne il simbolo, Milano la capitale e Silvio Berlusconi l’icona, l’utopia realizzata. Nel pantheon dei valori supremi l’uguaglianza cedette il passo alla libertà, intesa come diritto di fare i propri comodi al di fuori di ogni regola, perché solo da questo egoismo vitale sarebbe potuto sorgere il benessere.
Purtroppo anche il consumismo si è rivelato un sogno avvelenato. Lasciato ai propri impulsi selvaggi, ha arricchito pochi privilegiati ma sta impoverendo tutti gli altri: e un consumismo senza consumatori è destinato prima o poi a implodere. Il cuore del mondo ha cominciato a battere altrove, la sobrietà e l’ambientalismo a sussurrare nuove parole d’ordine, eppure in questo lenzuolo d’Europa restavamo aggrappati a un ricordo sbiadito. La scelta di sfidare il Duemila con un uomo degli Anni Ottanta era un modo inconscio di fermare il tempo. Ma ora è proprio finita. Mi giro un’ultima volta a salutare i miei vent’anni. Da oggi si guarda avanti. Che paura. Che meraviglia.
Da Milano e Napoli, con percentuali che soltanto un mese fa sembravano impossibili, l´Italia dei Comuni manda un chiaro segnale a Silvio Berlusconi: è finito il grande incantamento, il Paese vuole cambiare pagina.
La svolta nasce nelle città che scelgono i sindaci di centrosinistra e bocciano la destra, ma il segnale è nazionale ed è un segnale politico che parla ormai chiaro. Dopo il primo turno i ballottaggi confermano che Berlusconi è sconfitto al Nord come al Sud, è sconfitto in prima persona e attraverso i candidati che ha scelto e sostenuto, è sconfitto nel bilancio negativo che gli italiani hanno fatto non soltanto del suo governo, ma ormai della sua intera avventura politica.
Nell´Italia pasticciata di questi anni, il voto fa chiarezza, perché è univoco. Dopo Torino e Bologna, riconfermati già al primo turno, passano ora al centrosinistra con Milano anche Trieste, Novara, Pordenone e Cagliari, mentre De Magistris addirittura sfonda a Napoli, quasi doppiando il suo avversario.
Il tentativo di rimpicciolire il risultato, d´incantesimo, a una dimensione locale (dando tutta la colpa della sconfitta ai soli candidati-sindaco) è patetico, da parte di chi lo ha trasformato in un test nazionale per un mese intero, mettendo a ferro e fuoco la campagna elettorale.
Quando a Milano il sindaco uscente è stato fermato sotto il 45 per cento da Pisapia, salito al 55,1, è chiaro che la capitale spirituale e materiale del berlusconismo si è ribellata a questo ruolo, riprendendo la sua autonomia e chiudendo un ventennio. Quando a Napoli De Magistris ha stravinto con il 65,4, lasciando Lettieri al 34, 6, vuol dire che le promesse di Berlusconi sui rifiuti e gli abusi edilizi non sono state credute, e l´alternativa al malgoverno della città è stata cercata non a destra ma a sinistra, dov´era presente una forte discontinuità.
Berlusconi non convince quando governa coi suoi sindaci, non vince quando si propone coi suoi uomini come alternativa. Ma perde anche nelle roccheforti della Lega, come nel novarese o a Gallarate, portando la sua crisi personale e politica come una bomba nel corpo inquieto del grande alleato: che dopo aver lucrato elettoralmente (e in termini di potere) nella corsa al traino del Pdl oggi scopre la negatività di quel legame così stretto da soffocare ogni identità autonoma dentro gli scandali del premier, nell´incapacità di governare, nell´annuncio continuo di una pseudoriforma della giustizia che è in realtà un puro privilegio personale del sovrano, alla ricerca ossessiva di un volgare salvacondotto.
È a tutto questo che si è ribellato il Paese. E soprattutto alla falsa rappresentazione di sé, con una propaganda forsennata e suicida che ha presentato Milano come la capitale del male, in balia di tutto ciò che secondo Berlusconi può spaventare una borghesia immaginaria e da strapazzo, zingari, islamici, gay e terroristi: una città che può essere salvata e redenta soltanto dalla mano del Grande Protettore. Con questa predicazione di sventura (ripetuta dopo la sconfitta: "Vi pentirete"), l´ex "uomo col sole in tasca" non si è accorto di proiettare un´idea spaventosa e malaugurante dell´Italia, che i cittadini hanno giudicato pretestuosa, negativa e menzognera.
La prima lezione è che non si può guidare un Paese, dopo aver ottenuto il consenso popolare, e contemporaneamente parlare come se si fosse all´opposizione di tutto, lo Stato, le sue istituzioni, i suoi legittimi poteri, persino il buonsenso. Questo estremismo ideologico sta perdendo Berlusconi, e ha rotto l´incantamento, insieme con le promesse mancate, la compravendita ostentata, gli scandali, la legislazione ad personam.
La cifra complessiva che unisce tutto ciò è la dismisura, la disuguaglianza, l´abuso di potere e il privilegio. Ma questo abuso trasformato in legge, la dismisura che si fa politica, la disuguaglianza che diventa norma, il privilegio che deforma l´equilibrio tra i poteri, sono ormai la "natura" di questa destra, risucchiata per intero - dopo l´espulsione della corrente finiana, l´unica capace di autonomia - dentro il vortice berlusconiano che nella disperazione travolge ogni cosa pur di aprirsi un varco di sopravvivenza.
Per questo sono ridicoli i distinguo degli araldi berlusconiani che solo nelle ultime ore hanno incominciato ad imputare al Capo i suoi errori, dopo averlo eccitato ad ogni eccesso nei mesi della fortuna, quando vincere non bastava, bisognava comandare, e governare non era sufficiente, si doveva dominare.
È questa gente che ha aiutato Berlusconi a disperdere il tesoro di consenso conquistato due anni fa, e oggi non sa suggerirgli altro che qualche capriola pirotecnica, qualche giochetto da predellino, qualche invenzione nelle sigle e nella toponomastica politica, come se il problema del Premier e della destra fosse di pura tattica e non di sostanza - di "natura", appunto - e tutto si risolvesse nella propaganda, amplificata dai telegiornali.
Invece quando si esce dall´incantamento bisogna fare i conti con la politica. Il Paese non è governato, e il voto lo conferma. La compravendita a blocchi dei parlamentari dà un´illusione di forza numerica, ma non dà vita ad una coalizione politica coerente e coesa. L´attacco forsennato alla magistratura, alla Consulta, al Quirinale, ai cittadini che la pensano diversamente sfibra il Paese e lo calunnia nelle sue istituzioni, cioè nel suo fondamento costituzionale e repubblicano, che andrebbe preservato dalla battaglia politica.
Berlusconi trasmette sempre più - fino alla drammatica immagine del colloquio con Obama - l´idea di un leader alieno nelle istituzioni che dovrebbe non solo guidare, ma rappresentare. È un uomo che sfida lo Stato e non vi si riconosce appieno, e che oggi ha perduto anche il contatto con quel "popolo" che ha sempre contrapposto alla Repubblica e persino al cittadino.
Un uomo di Stato, dopo una simile sconfitta, con la posta fissata così in alto, dovrebbe dimettersi. Ma conoscendo il Premier non è il caso di pensarlo: per ora. Assisteremo a proclami roboanti e promesse mirabolanti, e non sarà difficile riconoscere dietro le parole l´ansia di un leader che perde terreno, deve alzare ogni giorno l´asticella, avverte il distacco dell´alleato e la diffidenza del suo stesso partito. Per questo il Premier dopo un breve travestimento da moderato tornerà irresponsabile, dando fuoco a tutte le sue polveri, infiammando di bagliori anti-istituzionali un´agonia che - come diciamo da anni - sarà terribile.
Così facendo, sarà lui a suscitare un arco di forze davvero responsabili, repubblicane, che si troveranno fatalmente insieme a difendere ciò che deve essere difeso, dalla Costituzione al Quirinale, alle istituzioni di controllo e di garanzia. In questo quadro, il Pd sta dimostrando di essere una struttura servente della democrazia repubblicana, perno dell´opposizione e di ogni alternativa, e il suo leader prende forza ad ogni passaggio. Il Terzo Polo ha dato prova di essere irriducibilmente autonomo dal potere di questa destra, e portatore di una cultura delle istituzioni, che dà un senso al moderatismo, sopravvissuto alla maledizione berlusconiana. L´area di Vendola e Di Pietro sa proporre a tutta la sinistra (e persino al centro) uomini e soluzioni nuove, per vincere.
La novità infatti è il vero segno di De Magistris e Pisapia, insieme con la diversità dal modello berlusconiano. E la prima diversità è la serenità, la sicurezza, l´ironia. Anche per questo il cupo arrocco berlusconiano, che tenterà di chiudere a pugno le forze residue intorno ad un governo già condannato, è una risposta vecchia e disperata alla crisi che da oggi è aperta. L´Italia non può essere imprigionata nel pantano perdente di Berlusconi, dopo che con il voto ha scelto di cambiare. Un´altra politica è possibile, un altro Paese la pretende.
Una città in marcia verso uno sviluppo sostenibile, che torna a giocare alla pari con le grandi città dell’Europa e del mondo. Una comunità di cittadini felici di vivere la loro città finalmente affrancati dalle ansie di una gestione scandita dalla paura dell’altro e del diverso. Una città in cui si respira aria pulita, nelle strade e nei palazzi delle istituzioni. Una città finalmente capace di valorizzare l’universo femminile. Una città in cui i giovani, stufi di sentirsi narrare al futuro, possano essere protagonisti, qui e ora.
Questo è il volto di Milano che mi impegno a disegnare a partire da martedì, se sarò eletto Sindaco. All’inizio era solo un sogno, poi nel corso di undici mesi di una campagna elettorale sempre più partecipata, è diventato probabile, poi possibile. Non ho mai visto in trent’anni di attività politica tanta partecipazione, tanto entusiasmo come nelle ultime due settimane di campagna elettorale. Ora, con l’aiuto dei milanesi, questo sogno può diventare finalmente realtà.
Economia della conoscenza, creatività digitale, tecnologie verdi, ricerca scientifica: saranno motori innovativi dello sviluppo ritrovato di Milano che deve tornare a essere capitale economica del paese. E’ in questo quadro che vive e si realizza anche la nostra Expo 2015 che, andando oltre i sei mesi effettivi di esposizione, dovrà lasciare lavoro, intelligenza e nuovi spazi al servizio dei cittadini e non una cementificazione fine a se stessa. Nella convinzione che l’ambiente naturale, dall’aria al verde, è un bene comune da difendere con determinazione perché l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo non sono “negoziabili”.
La mia Milano sarà una città aperta e inclusiva, in cui il cittadino sarà al centro: soggetto e non oggetto. Donne e uomini, bambini e anziani da strappare alle loro solitudini, nuovi cittadini in arrivo dai quattro punti cardinali, a tutti il Comune aprirà le sue porte per ascoltare i loro bisogni senza mai mancare di dare risposte. Dal centro alle periferie per troppo tempo trascurate, da cui intendo far partire la mia azione di governo per porre fine a un loro degrado in cui possono annidarsi ingiustizie e criminalità. Milano garantirà il diritto a un luogo di culto per ogni religione, come dicono la Cei, il cardinale Dionigi Tettamanzi e la nostra Costituzione. Non ci sarà l’islamizzazione di Milano. Una moschea c’è in tutte le grandi città europee, c’è a Roma, Milano anche in questo deve essere una grande città europea. E in ogni caso lavoreremo per rendere la città più sicura e serena, convinti peraltro che la serenità ci puòessere solo se c’è una vera giustizia. Quindi l’affermazione della legalità, il rispetto dei diritti e dei doveri, per tutti e senza distinzioni, saranno la base della nostra azione. Ma con una consapevolezza: più sicura è una città illuminata, che vive e non chiude i suoi quartieri.
E non c’è luce più grande di quella trasmessa dalla Cultura, in tutte le sue possibili declinazioni. Qualcuno ha detto che con la cultura non si mangia. Invece nella mia Milano sarà il principale motore di sviluppo: dalle scuole alle università, dalla Scala ai teatri sperimentali, dalle pinacoteche alle biblioteche di quartiere, gli investimenti in questo settore metteranno in moto un meccanismo virtuoso di creatività e innovazione che garantirà alla città di essere tra i protagonisti che stanno disegnando il futuro del mondo.
Speriamo lunedi di fare il balzo definitivo nel futuro
L'emendamento governativo all'art. 5 della legge di conversione del decreto-legge n.34 del 2011 rivela in maniera palese l'intento del legislatore, del resto apertamente dichiarato dal Presidente del Consiglio e dai principali esponenti della maggioranza, di impedire lo svolgimento del referendum abrogativo contro l'installazione in Italia di centrali nucleari, già fissato per il 12 e il 13 giugno. È pur vero che tale emendamento prevede l'abrogazione delle norme sottoposte a referendum. Tuttavia esso esprime, nel suo primo comma, la chiara volontà non già di abbandonare, come propongono i quesiti referendari, bensì di sospendere la «definizione ed attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare», in attesa e «al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare». Tale volontà è confermata dal comma 8 dell'emendamento, che prevede che «entro dodici mesi dall'entrata in vigore» della legge sarà adottato un piano energetico nazionale che non esclude affatto, ma implicitamente include l'opzione nucleare, in evidente contrasto con la proposta referendaria.
Fu proprio con riferimento a un simile contrasto che la Corte Costituzionale, con le sentenze nn. 68 e 69 del 1978, decise che, qualora una nuova disciplina legislativa, pur abrogando «le singole disposizioni cui si riferisce il referendum», non ne modifichi «i principi ispiratori» e «i contenuti normativi essenziali», allora «il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative». I sottoscritti auspicano perciò che l'Ufficio per il referendum presso la Corte di Cassazione, sulla base dell'accertamento dell'evidente contrasto tra i principi ispiratori dell'emendamento approvato e l'intento dei proponenti del referendum, voglia trasferire il quesito referendario sul primo e sull'ottavo comma di tale emendamento, così consentendo agli elettori di pronunziarsi contro la pervicace volontà del legislatore di non abbandonare il programma nucleare.
Gaetano Azzariti, Francesco Bilancia, Eva Cantarella, Mario Caravale, Paolo Di Lucia, Mario Dogliani, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Guido Martinotti, Stefano Rodotà, Massimo Siclari, Federico Sorrentino
Giorgio Napolitano ha promulgato la legge, appena approvata dalla Camera, che contiene la "moratoria" nucleare voluta dal governo. Dunque la parola può passare ora alla Corte di Cassazione che dovra decidere se il testo uscito dal Parlamento supera o meno il quesito referendario. E i magistrati dell´Ufficio centrale per il referendum sono stati già convocati alle ore nove del primo giugno.
Dunque mercoledì prossimo si saprà se gli elettori che si recheranno alle urne il 12 e il 13 giugno troveranno, oltre alle schede sull´acqua e sul legittimo impedimento, anche quella sul quesito che chiede di bloccare per sempre i progetti nucleari del governo.
Un passaggio scontato e previsto quello della Cassazione. Anche se ieri il Quirinale, annunciando la promulgazione della legge, ha sentito il bisogno di ricordare che non tocca al presidente della Repubblica, ma proprio alla Cassazione, stabilire se il referendum sul nucleare si deve fare o meno.
Replica indiretta a chi chiedeva a Napolitano di non promulgare la legge. Questa richiesta, per esempio, era arrivata dal senatore democratico Felice Casson e dall´ex procuratore di Firenze Ubaldo Nannucci.
In questo caso al coro non si è unito Antonio Di Pietro. «Prendiamo atto e rispettiamo la decisione di Napolitano: non poteva fare altrimenti», dice il leader dell´Idv. L´ex pm però aggiunge: «Resta il fatto che gli effetti di questa legge sono una truffa ai danni dei cittadini, perché governo e maggioranza tentano in maniera prepotente di impedire che si svolga il referendum, calpestando il diritto di voto degli italiani».
L´Idv annuncia una sua memoria all´Ufficio centrale per il referendum che chiede di tenere ugualmente il referendum. Una richiesta che si aggiunge a quelle annunciate dal Pd e dai comitati referendari. Lo scontro adesso si trasferisce sui i tempi e i modi dell´informazione su referendum.
La Rai doveva iniziare a informare il 4 aprile, ma i balletti in commissione di Vigilanza Rai hanno "mangiato" quasi tutto il tempo a disposizione. Ieri, per discutere di informazione e referendum c´è stato un incontro fra i comitati promotori e il vicedirettore Antonio Marano. Secondo il comitato Viale Mazzini ha assicurato che «le tribune elettorali saranno spostate in momenti della giornata di maggior ascolto televisivo e verranno fatte puntate di approfondimento dei più seguiti talk show sui referendum». Fumata bianca, invece, per gli spot negli spazi di maggior ascolto, per le tribune referendarie in prima serata e sulla presenza di rappresentanti dei comitati promotori nei talk show. I comitati sono alla fine insoddisfatti e adesso chiedono di incontrare Sergio Zavoli.
Signor Presidente, il governo ha posto la fiducia in parlamento per esercitare, con modalità inedite, una forzatura al fine di far passare un decreto che "neutralizza" il referendum abrogativo della legge che ripropone il nucleare nel nostro paese. Tralasciamo qui ogni considerazione politica sul disprezzo con il quale la sovranità popolare viene umiliata nel nostro paese e non entriamo nel merito delle valutazioni giuridiche in base alle quali la Corte di Cassazione deciderà nella sua autonomia. Ci poniamo invece un problema che, pur nella sua ovvietà fin qui poco considerata, pensiamo sollevi una questione costituzionale.
Noi pensiamo che se il precedente inaugurato dal governo in questa occasione si affermasse, una espressione determinante della sovranità e del potere popolare - il referendum - sarebbe nel nostro paese di fatto liquidato. In una parola, se di fronte ad ogni richiesta di referendum avanzata dai cittadini ed accolta dagli organi istituzionali preposti la contromossa dell'esecutivo fosse un provvedimento a maggioranza di sospensione (per un breve periodo) della legge in questione, verrebbe sospeso anche il potere abrogativo o convalidativo di cui il popolo è titolare qualora si raggiungesse il quorum in regolari votazioni. Se poi il marchingegno per la prima volta introdotto nell'esperienza repubblicana viene addirittura accompagnato dall'intenzione dichiarata di riproporre la legge di cui si è chiesta l'abrogazione in un tempo successivo, quando si «saranno calmate le acque», il referendum diventerebbe un istituto a discrezione della maggioranza parlamentare, che i cittadini non potrebbero mai riprendere nelle loro mani.
Signor Presidente, la domanda non è di poco conto e non riguarda soltanto la sua facoltà di firmare o respingere un provvedimento. La Costituzione riconosce al Popolo italiano un solo mezzo per esercitare la propria volontà di cambiare le leggi espresse durante una legislatura dalla maggioranza dei parlamentari da lui votati. All'istituto del referendum sono stati posti dalla Costituente vincoli che si rivelano più stringenti nella situazione attuale, al punto da rendere il raggiungimento del quorum un fatto di per sé straordinario, se si considera la scarsa informazione che gli italiani residenti e quelli all'estero continuano a ricevere. Ma oggi, con il voto anomalo di sospensione e rimando di un Parlamento costretto alla fiducia, rischia di essere definitivamente "neutralizzato".
Signor Presidente, noi possiamo rivolgerci solo a Lei, per chiederLe di prendere in esame in tutte le sue implicazioni la prospettiva da noi temuta. Fidiamo in una sua parola e in un suo intervento.
Vendita delle spiagge, riduzione della tutela del paesaggio e dei beni culturali, imposizione del piano casa alle regioni, aumento della trattativa privata, appalti selvaggi.
Il nuovo decreto legge per lo sviluppo approvato dal governo Berlusconi[1] (1) è già diventato assai famoso per la polemica sulla “vendita delle spiagge e ammazza coste”. Il testo pubblicato, dopo le critiche pesanti delle associazioni ambientaliste, della Commissione europea e i rilievi del capo dello stato, ha ridotto a 20 anni la durata delle concessioni ma ha lasciato il diritto di superficie (cioè la proprietà degli immobili sul demanio ai privati) che invece oggi è un diritto di concessione. In pratica questo significa che alla scadenza dei 20 anni lo stato vorrà le spiagge libere da infrastrutture e manufatti dovrà pagare ai privati il loro valore, diventando beni che si possono vendere o ereditare. In pratica è saltato per gli arenili il concetto di demanio pubblico (cioè un bene indisponibile al privato) e questo sarà un volano micidiale per cementificazioni e costruzioni in aree naturali, che anzi dovrebbero essere sgomberate e riqualificate per la loro fruizione con interventi ecosostenibili.
Va aggiunto che nel provvedimento, sempre all’articolo 3, sono previste anche semplificazioni per la realizzazione di porti turistici, di cui conosciamo numerosi progetti sparsi per l’Italia e che insistono quasi sempre su aree naturali e demaniali.
Ma sono anche tante altre le novità “negative” che il decreto legge introduce contro la tutela e i vincoli in materia ambientale e paesaggistica. È di questi giorni la denuncia di Salvatore Settis[2] (2) contro l’innalzamento da 50 a 70 anni della soglia di “presunzione di interesse culturale degli immobili pubblici” e per gli edifici degli enti ecclesiastici e assimilati, che potranno quindi essere venduti senza troppi vincoli, e che in buona parte saranno consegnati a Comuni e regioni per attuare il “federalismo demaniale” e fare cassa con le privatizzazioni. Si tratta di tutti gli edifici fatti tra il 1941 e il 1961, con le migliori architetture del novecento di Adalberto Libera, Gio Ponti, Mario Ridolfi e Pier Luigi Nervi, solo per fare alcuni esempi.
Ancora più grave è una semplificazione contenuta nel decreto che toglie potere alle Soprintendenze sui pareri per la tutela del paesaggio. Il Codice Urbani escludeva il silenzio-assenso per le autorizzazioni paesaggistiche (anche in coerenza con sentenze della Corte Costituzionale) che invece con il decreto legge 70/2011 viene introdotta: dopo 90 giorni dalla ricezione degli atti il parere “si considera favorevole” come scritto all’articolo 4, comma 16 del provvedimento.
Una grave inversione del principio di tutela del paesaggio e dell’ambiente, che sommato alle difficoltà operative della pubblica amministrazione preposta alla tutela, produrrà altri scempi e aggressioni al patrimonio del nostro belpaese.
Del resto è tutto il decreto legge a essere ispirato dalla filosofia che – allentando i vincoli, aumentando ulteriormente le semplificazioni nei processi decisionali e per le autorizzazioni a costruire, riducendo le gare d’appalto nei lavori pubblici – tutto questo costituirà un volano per il rilancio dell’edilizia e quindi per lo sviluppo del paese. Eppure dato che è almeno un decennio che si sono introdotte norme in questa direzione i risultati non si sono visti, anzi, viene messa a rischio la ricchezza vera del nostro paese: la sua storia urbana, il suo patrimonio, il suo paesaggio. Viceversa è aumentata la cementificazione del suolo, il dissesto idrogeologico, senza miglioramenti della qualità architettonica del costruito, con infrastrutture indifferenti al territorio e il fallimento della Legge obiettivo, con periferie sempre più degradate e carenti di servizi come risultato della pianificazione per “varianti” e delle perequazioni sistematiche.
Nonostante il fallimento non ci sono ripensamenti, e l’Italia è sempre più lontana dalle esperienze dei principali paesi europei che hanno fatto della sostenibilità, della riqualificazione edilizia, del risparmio di consumo di suolo, dei quartieri vivibili, delle reti e servizi di trasporto collettivo, i punti cardine delle loro politiche.
Anche la concorrenza viene sacrificata nel decreto sviluppo, con l’incremento della trattativa privata per interventi fino a un milione mentre prima la soglia era fissata a 500.000 euro. Qualche tempo fa avevamo denunciato un provvedimento parlamentareapprovato alla camera e ora in discussione al senato che triplicava la soglia per la trattativa privata da 500.000 a 1,5 milioni di euro. Adesso il governo con il decreto legge dice la sua raddoppiando la trattativa privata fino a un milione, indicando che le imprese che devono essere invitate informalmente sono cinque nel caso di importo fino a 500.000 euro e 10 da 500.000 a un milione. Infine è previsto che sia obbligatorio pubblicare l’avviso a conclusione con i dati dell’appalto e del vincitore.
In realtà immaginare un rilancio dell’economia evitando le gare e sottraendo mercato alla concorrenza è ben noto come non funzioni perché alimenta l’incremento dei costi, la discrezionalità e la scarsa trasparenza nella pubblica amministrazione, fino a vere proprie azioni di corruzione e concussioni messe in atto per accaparrarsi gli affidamenti, di cui le inchieste della magistratura hanno ben dimostrato purtroppo gli intrecci tra politica e affari. Anche in questi giorni, con gli affidamenti diretti legati ai grandi eventi e alla protezione civile.
Non solo, è dal 2002 che la corsa al rialzo della soglia per la trattativa privata prosegue inesorabile, che aumenta l’opacità mentre l’economia ristagna proprio perché il problema non sta nei tempi del bando di gara, che tutto sommato sono la fase più corta del processo (52 giorni), mentre processo decisionale e stipula del contratto sono ben più lunghi, mediamente 10-12 mesi.
Aumentare la trattativa privata è dunque un alibi come lo sono diverse altre misure contenute nel decreto legge che cambiano il Codice unico per gli appalti. Espropri preordinati per le opere strategiche che passano da cinque a sette anni, riduzione da tre anni a uno per il periodo di dissociazione delle condotte illegali dei manager e per riabilitare l’impresa i cui vertici sono stati condannati per reati contro la pubblica amministrazione, estensione dell’autocertificazione anche per la documentazione sulle condanne riportate, accorciamento dei tempi per esempio per la conferenza dei servizi istruttoria sul progetto definitivo delle opere strategiche, che passa da 90 a 60 giorni.
Nel decreto è inclusa anche una robusta modifica della finanza di progetto: i privati potranno presentare alle amministrazioni pubbliche proposte per interventi in concessione di lavori pubblici o di pubblica utilità non ricompresi nella programmazione triennale approvata dall’amministrazione. Come dire che saranno i privati – con le loro esigenze e interessi – a suggerire cose serve all’interesse collettivo mentre la pubblica amministrazione (sempre più indebolita dai tagli generalizzati) dovrà comunque procedere a valutare queste proposte. In pratica equivale ad annientare l’utilità della programmazione triennale, strumento già fortemente indebolito, come del resto lo è ormai da tempo tutta la pianificazione degli interventi, ormai ridotte a liste.
Tutti elementi di semplificazione che di sicuro non aumenteranno l’emergere delle aziende sane, la qualità dei progetti e delle opere, una robusta concorrenza nel mercato, i processi di partecipazione dei cittadini alle scelte e la vigilanza della pubblica amministrazione: gli unici elementi che l’esperienza ci ha insegnato in questi anni capaci di produrre risultati concreti ed opere che poi i cittadini utilizzeranno davvero.
Vi sono poi due aspetti nel decreto che puntano al contenimento dei costi delle opere pubbliche e meritano un approfondimento più ragionato: l’importo complessivo delle riserve non superiore al 20% dell’importo contrattuale e il tetto del 2% per le opere compensative (era del 5%) che devono essere strettamente correlate all’opera principale e inclusive delle mitigazioni ambientali richieste dalla commissione di Valutazione di Impatto Ambientale (art.4, comma 2, lettera r).
Giusto il contenimento dei costi ed una frenata alla lievitazione sistematica delle riserve ma il provvedimento non affronta a monte la qualità dei progetti, la loro funzionalità ed integrazione di rete e funzionalità territoriale, che sono gli elementi che hanno determinato (oltre all’assenza di gare come nell’alta velocità e nelle concessioni autostradali) aumenti dei costi finali e numerosi contenziosi. Con la legge obiettivo era stato esteso l’uso dell’appalto integrato – dove il costruttore progetta e realizza con lo scopo di ridurre i contenziosi con le imprese – eliminando la progettazione indipendente, ma questo sistema evidentemente non ha funzionato.
Per esempio nelle grandi opere ferroviarie si sono approvate le linee separatamente dai nodi urbani, è mancata quasi sempre l’integrazione di servizio tra rete veloce e rete locale; per le autostrade in proiect si tende a disegnare una striscia di asfalto senza tutte le interconnessioni con la rete viaria locale (per dimostrare che costa poco e rende tanto), adesso siamo ai lotti costruttivi e non più funzionali: come dire che invece di selezionare dalla lunga lista di opere da realizzare quelle davvero utili e sostenibili, si tende ad approvare tutto e poi avviare pezzi di opere, dai tempi e dai costi finali incerti.
Giusto eliminare opere compensative non connesse all’opera che sono diventate in diversi casi un modo poco elegante e per niente trasparente per acquisire il consenso degli enti locali, ma in molti casi le opere compensative hanno migliorato la qualità dei progetti, l’inserimento ambientale, indennizzato i cittadini colpiti dai cantieri e dagli espropri, integrato i servizi a rete, cioè aiutato pessimi e vecchi progetti a diventare migliori. Se i progetti resteranno pessimi e le opere compensative si riducono si alimenterà solo un grande contenzioso con le amministrazioni locali, con i cittadini e anche con le imprese, che di certo non aiuterà ad accelerare gli investimenti come il decreto sviluppo si propone di fare.
Del resto in questi mesi qualche ripensamento sulle grandi opere è in corso: dall’autostrada “frugale” invocata dall’ing. Giovanni Castellucci[3] (3), amministratore delegato di Atlantia, a proposito dell’Autostrada Tirrenica, alle grandi opere “low cost”. Per esempio per la Tav Torino Lione adesso si ipotizza un progetto leggero e per fasi costruttive, mantenendo la linea storica fino a Susa, realizzando una sola canna del tunnel nella tratta internazionale ed eventualmente la seconda se servirà dopo il 2030. Una strategia che dà ragione alle critiche degli ambientalisti e del popolo No Tav, che hanno sempre puntato il dito sulla scarsa utilità dell’opera a fronte degli elevati costi ambientali e finanziari.
Purtroppo governo e imprese non ammettono il fallimento della legge obiettivo, insistono con la retorica delle grandi opere (ormai senza lavagna però....) e si tentano ulteriori e inutili scorciatoie di semplificazione.
Nello stesso provvedimento all’articolo 5 sono poi contenute altre pesanti norme per il rilancio del piano casa per le costruzioni private. Il governo riprova a forzare le regioni: se entro 120 giorni queste non approveranno norme regionali in linea con il decreto sviluppo, le previsioni entreranno automaticamente in vigore. Previsto un aumento del 20% di cubatura in deroga al piano regolatore, anche attraverso demolizione e ricostruzione, il mutamento delle destinazioni d’uso e la modifica della sagoma degli edifici esistenti. Previsto il “silenzio assenso” per il rilascio del permesso di costruire, a esclusione dei casi di vincoli ambientali e paesaggistici; estensione della Scia agli interventi precedentemente regolati dalla Dia. Prevista la “cessione di cubatura” avallando da strumenti di perequazione e compensazione dei diritti edificatori. Minisanatoria per difformità nella realizzazione di interventi edilizi su altezza, distacchi, cubatura e superficie fino al 2% in variazione delle misure progettuali.
Insomma un complesso di norme che già ha messo in allarme le regioni, che hanno chiesto e ottenuto un tavolo dal governo per valutarne l’impatto e il rispetto delle proprie prerogative in materia urbanistica, prima di esprimere il proprio parere.
Da segnalare infine che i piani attuativi compatibili con lo strumento urbanistico generale sono approvati dalla giunta comunale e non più dal consiglio comunale, e che in caso di Valutazione ambientale strategica (Vas) applicata sul piano, questa non dovrà più essere effettuata sui piani attuativi, a meno siano difformi dal piano allora la Vas sarà effettuata solo sugli aspetti mai considerati (vedi art. 5, comma 8). Misure semplificatorie che riducono i processi di partecipazione e controllo sia dei consigli comunali, dei comitati di cittadini e delle associazioni ambientaliste.
Questo è un autentico decreto per lo sviluppo “insostenibile”. Cittadini, associazioni ambientaliste, urbanisti e comitati si stanno mobilitando ovunque e da tempo contro il partito del cemento e del consumo di suolo. Solo la politica e le istituzioni devono ancora imparare ad ascoltarli.
[1]Decreto Legge 70/2011 recante “Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia” pubblicato sulla G.U. n.110 del 13 maggio 2011.
[2]Salvatore Settis. La privatizzazione di un patrimonio. Intervento pubblicato su La Repubblica del 25 maggio 2011.
[3]Intervista su Il sole 24 ore del 9 febbraio 2011 all’ing. Castellucci, AD di Atlantia. “Opere più frugali per coinvolgere i privati” Un esempio? L’autostrada Tirrenica. La concessionaria SAT ci ha fatto ridurre i costi da 3,5 a meno di 2 miliardi”.
Nulla di sostanziale è cambiato con l'approvazione definitiva del decreto omnibus, che contiene lo «scippo» del referendum sul nucleare. Già sapevamo che non c'erano le condizioni di necessità ed urgenza previste dalla Costituzione, come ribadito da un appello di giuristi ed intellettuali, pubblicato sul sito www.siacquapubblica.it e sottoscritto da quasi 8000 persone (si può ancora farlo). E già sapevamo che la sospensione del piano energetico altro non è che un tentativo furbesco di depotenziare la tornata referendaria del prossimo 12 e 13 giugno, che proverà ad assestare il colpo del ko ad un governo già traballante. Prevedibile era anche il voto di fiducia, date le condizioni sgangherate di una maggioranza parlamentare che non è in grado di affrontare alcuna discussione nel merito dei problemi.
Del resto, era stato proprio un voto di fiducia, quello con cui era stato approvato alla Camera il decreto Ronchi lo stesso giorno in cui in Senato veniva presentata la proposta di legge della Commissione Rodotà, a costringerci al referendum sull'acqua bene comune. Mentre sarebbe stata necessaria una discussione seria sulla strutturazione giuridica del nostro patrimonio pubblico e dei nostri beni comuni, ecco che il governo tentava il saccheggio definitivo di acqua e servizi pubblici.
Neppure imprevedibili erano le scorrettezze del governo per scongiurare scongiurare dei referendum temuti perché rappresentano la prima risposta istituzionale di rango costituzionale, in un paese occidentale, espressamente contraria al modello di sviluppo neoliberista. Una tornata referendaria contro l'ideologia delle privatizzazioni e la concentrazione del potere tipica di un modello di sviluppo fondato su grandi opere inutili e dannose come le centrali nucleari non poteva che scatenare ogni sorta di interesse contrario. Se a questo si aggiunge, in salsa italica, una battaglia per la sottoposizione alla legge del Presidente del Consiglio, non può sfuggire il significato politico potenzialmente dirompente della partita che abbiamo aperto.
In una prima fase Ronchi e Tremonti hanno cercato di far credere che fosse stata l'Europa ad averci dettato la privatizzazione dell'acqua e che quindi i referendum non fossero ammissibili. Questa tesi sfidava il buon senso, visto che in Francia si è ripubblicizzato e in Olanda da sempre si usa un modello pubblico partecipato. Sconfitta questa tesi alla Corte Costituzionale, il governo ha investito 350 milioni di euro per far fallire il quorum, rifiutando l'accorpamento con le amministrative. Non pago dello sperpero, dopo l'incidente atomico di Fukushima, che aveva trasformato il referendum sul nucleare nel vero traino dell'intera operazione quorum, ha posto in essere una campagna, anche mediatica, fatta di un mix fra silenzio e mistificazione della realtà.
Tuttavia l'effetto boomerang del tentativo truffaldino di scippo referendario inserito nel decreto omnibus è stato evidente. Oltre all'appoggio ufficiale del Pd, abbiamo incassato quello, molto importante, del mondo cattolico e forse perfino della Lega. Un sostegno naturale, quest'ultimo, vista la brutale centralizzazione del potere operata dalla legge Ronchi, che toglie ai territori ogni possibilità di scelta su come gestire acqua e servizi pubblici.
Adesso la palla è nel campo del Presidente della Repubblica, e soltanto se lui firmerà subito dovrà poi pronunciarsi l'Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione. A costo di essere accusati, come si usa fare oggi con chi pretende che il Presidente tuteli sempre la Costituzione, di «tirare per la giacca Napolitano», mi sento di chiedergli di non firmare e di cogliere quest'occasione per «chiedere alle Camere una nuova deliberazione» (art. 74 Cost.). Il supremo garante dovrebbe rinviare loro il decreto omnibus con un messaggio che chiarisca il senso della locuzione «in casi straordinari di necessità e di urgenza» (art. 77 Cost.) e soprattutto il significato costituzionale del voto di fiducia. Questa sarebbe una buona azione costituzionale, che salverebbe il referendum sul nucleare e darebbe una nuova lezione di diritto costituzionale ad una maggioranza restia ad apprenderlo.
In caso contrario, dovrebbe essere la Cassazione a scongiurare il saccheggio della democrazia. Gli alti giudici potranno farlo semplicemente seguendo i precedenti orientamenti, secondo cui è allo spirito e non solo alla lettera della norma che devono guardare nel decidere se il referendum sia superato da un successivo provvedimento legislativo. In questo caso tanto lo spirito quanto la lettera del decreto omnibus dimostrano che esso non rende il referendum superfluo perché di mera moratoria si tratta.