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La Cgil è in campo. Minato 


di Loris Campetti 


Contratti. Quelli nazionali si possono derogare, la «tregua» sospende il diritto di sciopero e i lavoratori non possono più votare accordi e delegati. Il direttivo approva l'accordo con Cisl, Uil e Confindustria con 117 sì, 21 no e un astenuto. Ora la consultazione degli iscritti. Fiom e minoranza denunciano una svolta pericolosa per democrazia e i diritti dei lavoratori

Il direttivo nazionale della Cgil ha approvato a larga maggioranza il dispositivo con cui si sottoscrive l'accordo siglato con Cisl, Uil e Confindustria con cui si modificano profondamente le norme che regolano democrazia e rappresentanza nei posti di lavoro, la natura e il valore dei contratti nazionali e persino alcuni diritti fondamentali, come quello di sciopero. 117 voti favorevoli, 21 contrari e un solo astenuto sanciscono un cambiamento di stagione e - secondo chi si è opposto alla firma - la natura stessa del sindacato. Dato l'investimento fatto dalla segreteria e personalmente da Susanna Camusso sul «ritorno alla normalità» della Cgil nel rapporto con le altre confederazioni chiamate fino a ieri «complici» e con la Confindustria, il voto di ieri è stato di fatto un «voto di fiducia» alla segretaria generale. Anche i dubbi e i mal di pancia, che non mancano, sono stati messi da parte e le percentuali raccolte dai sì e dai no rispecchiano gli schieramenti usciti dal congresso nazionale.

Ora, il testo dell'accordo insieme al dispositivo approvato che lo «interpreta» saranno messi a disposizione di tutti gli iscritti alla Cgil che entro il 17 di settembre dovranno esprimersi anch'essi con un voto. Sembra escluso che Cisl e Uil accettino una consultazione generale dei loro iscritti e a nessuno - tranne alle minoranze Cgil - è venuto in mente di consegnare la decisione finale a tutti i lavoratori interessati, con o senza tessere sindacali. Il «perimetro» interessato, cioè gli iscritti alla Cgil che potranno dire la loro, comprende i dipendenti delle aziende che aderiscono a Confindustria. Quel che gli iscritti non potranno conoscere è il documento della minoranza congressuale, perché nelle assemblee nelle fabbriche e negli uffici il loro documento non avrà cittadinanza. In teoria, il segretario della Fiom Maurizio Landini dovrebbe andare alla Fiat o in Fincantieri a difendere la posizione contro cui ha votato e si è battuto. O forse alle assemblee la relazione sarà fatta solo dai dirigenti fedeli alla linea. Sembra di leggere Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler: «La vostra fazione, cittadino Rubasciov, è stata battuta e disfatta. Volevate spezzare il Partito, pur dovendo sapere che una scissione nel Partito avrebbe significato la guerra civile. Sapete dello scontento fra i contadini, che non hanno ancora imparato a comprendere il senso dei sacrifici imposti loro. In una guerra che può scoppiare da qui a qualche mese, tali correnti possono portare a una catastrofe. D'onde la necessità imperiosa per il Partito di essere unito. Esso deve essere come fuso in una colata, tutto cieca disciplina e fiducia assoluta. Voi e i vostri amici, cittadino Rubasciov, avete creato una frattura nel Partito. Se il vostro pentimento è sincero, dovete aiutarci a sanare questa frattura. Come vi ho detto, è l'ultimo servizio che il Partito vi chiede».

A decidere le modalità della consultazione saranno le categorie interessate (quelle del «perimetro») e le assemblee dovranno svolgersi entro il 17 di settembre, per consentire l'elaborazione dei risultati non oltre il 20 e, dunque, la formalizzazione della firma della Cgil in calce all'accordo. Susanna Camusso ha sostenuto il testo sottoscritto con la motivazione che finalmente si chiude la stagione degli accordi separati. Tesi contestata dalla Fiom e dalla minoranza, secondo cui l'unica garanzia per evitare che si continuino a firmare contratti e accordi di parte è il diritto di voto di tutti i lavoratori interessati. È proprio questo uno dei punti critici dell'accordo, un punto che concerne la democrazia: mentre si raccolgono le firme per un referendum che restituisca ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti, questo diritto viene negato ai lavoratori. «Forse i lavoratori non sono cittadini? si chiede il segretario generale della Fiom Maurizio Landini. Il portavocie della «Cgil che vogliamo», Gianni Rinaldini, aveva chiesto una gestione «più democratica» della consultazione tra gli iscritti ma è stato respinto con perdite.

Dal principio «una testa un voto» si passa alla mediazione sindacale ma, sostiene Susanna Camusso, «c'è sempre una relazione con i lavoratori e la loro rappresentanza». Più difficile invece sostenere che il contratto nazionale non si tocca, visto che le deroghe sono previste in tutti i casi di crisi, ristrutturazione e investimenti. Cioè sempre. Inoltre, ricorda Rinaldini, se nel 2009, quando fu siglato un accordo separato sul sistema contrattuale da tutti tranne la Cgil, si fossero applicate le regole previste con l'accordo unitario varato ieri dal direttivo, anche senza la firma della Cgil che non ha il 50% più uno della rappresentanza sarebbe passato e avrebbe avuto valore generale. La «tregua» (il divieto di sciopero), sostiene il dispositivo, impegna «soltanto» le organizzazioni firmatarie dell'accordo e non i singoli lavoratori.

Ieri di fronte alla sede nazionale della Cgil, in Corso d'Italia a Roma, un gruppo di delegati «autocovocati» ha manifestato contro l'accordo con uno striscione in cui era scritto «No al patto di resa finale, il sindacato non si deve suicidare». In alcune fabbriche, in Toscana e in Lombardia, c'è anche chi ha scioperato contro l'accordo unitario.

L'ex segretario generale Guglielmo Epifani ha dato il suo appoggio alla scelta della segreteria, al contrario di Giorgio Cremaschi che ha messo in fila tutte le ragioni di un voto contrario al direttivo.

Gallino: «Così si va a destra»

intervista di Francesco Paternò

Il sociologo: «Contratto sempre derogabile, la "tregua" è un colpo ai diritti»

Il sociologo Luciano Gallino non ha dubbi: l'intesa sul lavoro firmata dalla Cgil il 28 giugno scorso «rappresenta uno spostamento a destra». E continua a pensare anche che alla Fiat non dispiacerebbe avere un «pretesto per ridurre o rinunciare agli investimenti in Italia».

L'accordo interconfederale con la Confindustria riavvia un processo di contrattazione unitario che pare però preoccupante. Il contratto nazionale non diventa così sempre derogabile?

In effetti il secondo comma dell'art. 7 dell'accordo prevede che in presenza di «situazioni di crisi» o di «investimenti significativi» si possono modificare gli istituti del CCNL. Sia le une che gli altri possono venire definiti in cento modi diversi, in specie nelle piccole e medie imprese. Perciò, di fatto, in tema di prestazioni lavorative, orari e organizzazione del lavoro, il CCNL è derogabile praticamente senza limiti.

L'accordo non toglie quasi definitivamente la possibilità per i lavoratori di votare intese firmate dai vertici sindacali?

Non mi pare vi siano dubbi. Quando un accordo aziendale è firmato da una rappresentanza certificata, i lavoratori non hanno più la possibilità di esprimere il loro consenso o dissenso in merito ad esso. In astratto, potrebbero anche organizzarsi per esprimerlo, ma stando all'accordo interconfederale esso non avrebbe alcun valore. Paradossalmente, il principio per cui i lavoratori hanno comunque il diritto di esprimersi mediante il voto è ribadito con particolare forza dallo statuto della stessa Cgil.

Secondo lei, perché la Cgil oggi ha firmato quel che nella sostanza è la stessa cosa che non ha firmato nel 2009?

Da anni la Cgil ha tutti contro: le altre due confederazioni, il governo, il 90 per cento degli accademici che si occupano di lavoro, i media, perfino gran parte dei politici del centro-sinistra. L'accordo in parola rappresenta senza dubbio uno spostamento verso destra, ma in un contesto politico e culturale che nonostante la crisi, o meglio proprio per sfruttare la crisi, appare sempre più virare a destra, un'organizzazione così vasta e complessa non può non avvertire anche al proprio interno spinte per portarsi su posizioni meno distanti da quelle dominanti.

Quale è il suo giudizio sulle Rsa?

I membri delle Rsu sono eletti dai lavoratori. I membri delle Rsa sono designati dai sindacati, anche se minoritari. In altre parole le Rsu sono una forma, imperfetta quanto si vuole, di democrazia diretta o partecipativa. Le Rsa sono un'ennesima forma di democrazia per delega dall'alto. Sono per la prima forma di democrazia.

La centralità che assume sempre di più la contrattazione aziendale non rischia di accentuare la tendenza alla frammentazione del sistema industriale italiano?

Su questo non c'è il minimo dubbio. Un sistema che è già di per sé il più frammentato della Unione europea a 17 ed è molto meno organizzato, ad onta delle infinite discussioni su distretti in forme di cooperazione interaziendali come avviene invece con i «poli di competitività» in Francia, le «reti di competenza» in Germania, ecc.

Come valuta la «tregua», in sostanza la sospensione del diritto di sciopero?

E' un altro colpo inferto alla libertà di associazione e di azione sindacale.

Cosa prevede nelle relazioni fra Fiat e Fiom, se il prossimo 18 luglio il tribunale desse ragione al sindacato sul contratto di Pomigliano?

Ho l'impressione che alla Fiat non spiacerebbe avere un pretesto per ridurre o rinunciare agli investimenti in Italia. Il suo centro produttivo è ormai in Brasile e in Messico, dove a Toluca vengono costruite sia la 500 che i macchinoni Chrysler da vendere in Italia e in Europa con la placchetta Lancia o Alfa Romeo. Nel 2010 la Fiat ha prodotto in Italia meno auto di quante non ne abbiano prodotte al loro interno Germania, Francia, Regno Unito, Spagna, Polonia, Repubblica Ceca e Serbia. Ritornare ad essere, dall'ottavo, anche solo uno dei primi tre costruttori è un impegno di enorme portata. Se ai lavoratori italiani e alla Fiom potesse venire appioppata definitivamente l'accusa di essere inaffidabili, poco produttivi, renitenti alle forme moderne di organizzazione del lavoro, il disegno americanocentrico del Lingotto ne sarebbe facilitato.

Spostare la Consob da Roma a Milano. A più riprese la Lega Nord è tornata alla carica con questa proposta, presentata alla Camera lo scorso 23 giugno. L'ultima volta lo ha fatto l'excapogruppo del Carroccio a Palazzo Marino Matteo Salvinialla vigilia delle elezioni comunali di Milano,poi perse nettamente dal centro-destra. In linea di principio avrebbe senso che l'autorità di controllo dei mercati avesse sede nella città della Borsa. La proposta leghista ha tuttavia incontrato dure critiche da parte di addetti ai lavori e sindacati. Questi ultimi per esempio hanno stimato in 50 milioni di euro l'aggravio che il trasferimento comporterebbe per il bilancio della Consob.



La classifica

A supporto dei contrari allo spostamento al nord della sede principale dell'authority arriva un recente studio di Simon-Kucher & Partners. La società di consulenza ha stilato una classifica delle città italiane in base alla capitalizzazione delle società che vi hanno sede. Dallo studio, che prende in esame 38 società quotate del paniereFTSE MIB(mancanoTenaris, che ha sede in Lussemburgo, ed Stm, che ha base in Svizzera) emerge che la capitalizzazione delle società che hanno sede a Roma è di gran lunga superiore a quella delle milanesi. In base alla chiusura di borsa del 26 maggio 2011, quella delle romane ammonta a 175 miliardi e 340 milioni di euro mentre quella delle milanesi è di 43 miliardi e 150 milioni.



Il peso delle big

La ragione di tale sproporzione sta nel fatto che a Roma hanno sede le due maggiori società quotate italiane:Eni (oltre 65 miliardi di market cap) edEnel (43,73). A queste poi si aggiunge un colosso del calibro diUnicredit(29 miliardi e 720 milioni di capitalizzazione). La banca ha ufficialmente sede legale in via Alessandro Specchi 16 a Roma e non, come in molti potrebbero pensare, nella più nota Piazza Cordusio a Milano ,dove invece c'è quella operativa. Altre romane sonoAtlantia(9,66 miliardi), Bulgari(3,68),Enel Green Power(9,25),Finmeccanica(4,94),Lottomatica(2,45) eTerna(6,75).



Milano e Torino

La quotate di maggior peso a Milano sonoLuxottica Group(10 miliardi e 310 milioni) eTelecom Italia(12,99 mld). AggiungendoMediaset,Mediobanca,Pirelli & C,Banca Popolare di Milano; AzimuteImpregilosi arriva a 43 miliardi e 150 milioni di euro. Milano è distanziata poco da Torino, la città diFiat(7,72 miliardi)Fiat Industrial(10.06) e della controllanteExor(3,64). Con la banca Intesa Sanpaolola capitalizzazione delle torinesi arriva a 41 miliardi e 690 milioni di euro.



Al terzo posto San Donato Milanese

Al terzo posto di questa classifica c'è San Donato Milanese, comune alle porte di Milano dove sorge Metanopoli, la "città del metano" voluta da Enrico Mattei nel secondo dopoguerra per i lavoratori dell'Eni. Qui hanno sedeSaipemeSnam Rete Gasche insieme fanno 30 miliardi e 290 milioni di euro di capitalizzazione. Nella classifica compaiono anche piccoli centri come Sant'Elpidio al Mare (provincia di Fermo) dove ha sede laTod's(2,75 miliardi di market cap).

MILANO - Le province, per ora, non si toccano. Con i voti contrari del Pdl e la decisiva astensione del Pd, la Camera dice infatti «no» alla proposta di legge sulla loro soppressione presentata dall'Idv. Un risultato che accende la polemica all'interno delle opposizioni, visto che non solo il partito di Antonio Di Pietro ma anche il Terzo Polo ha invece votato a favore.

I NUMERI - Più in dettaglio, la Camera ha respinto innanzitutto il mantenimento del primo articolo del testo, quello che cancellava le parole «le province» dal Titolo V della Costituzione (225 i voti contrari, 83 quelli a favore, 240 gli astenuti). Poi, è stata bocciata l'intera proposta di legge dell'Idv.

LA POLEMICA - «Si è verificato un tradimento generalizzato degli impegni e dei programmi elettorali fatti da destra a sinistra - attacca Di Pietro -. Tutti hanno fatto a gara nel far sognare gli italiani sul fatto che si sarebbe tagliata la "casta" eliminando le province e poi non hanno mantenuto gli impegni. In aula si è verificata una maggioranza trasversale: la maggioranza della "casta"». «Mi dispiace molto perché il Pd ha perso l'occasione per fare una cosa saggia, visto che se avessero votato a favore il governo sarebbe andato in minoranza» rincara la dose il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini. Il Pd risponde con Pier Luigi Bersani: «Non ci facciano per favore tirate demagogiche, noi abbiamo una nostra proposta che prevede di ridurre e accorpare le Province ma bisogna anche dire come si fa, perché le Province gestiscono un certo numero di cose importanti, come ad esempio i permessi per l'urbanistica».

Postilla

La proposta di legge costituzionale dell'Idv proponeva la semplice cancellazione delle province dalla Costituzione, rinviando a una futura legge la definizione degli istituti e strumenti che avrebbero dovuto sostiituirle. Qui gli argomenti con cui Di Pietro ha motivato la richiesta di cancellazione dalla Costituzione delle province quali livelli di governo della Repubblica, quali sono oggi insieme allo stato, alle regioni, alle aree metropolitane (?) e ai comuni. Li si mettano a confronto con il dibattito politico-culturale che si svolse in preparazione alla legge sugli enti locali, soprattutto in relazione ai problemi di assetto urbanistico e territoriale di area vasta. Ma le questioni di merito, soprattutto quando riguardano l'assetto del territorio, interessano poco. Salvo piangere e protestare dopo, quando il territorio si ribella.

Il tema della libertà in Rete attraversa il mondo, mobilita ovunque il popolo di Internet e oggi troverà una sua particolare manifestazione a Roma con una "notte bianca" per protestare contro un provvedimento dell´Autorità per la garanzia nelle comunicazioni in materia di diritto d'autore.

Provvedimento che potrebbe essere approvato domani. Il punto chiave della delibera riguarda il potere che l´Agicom assumerebbe di oscurare, anche in via cautelare, con un semplice procedimento amministrativo e senza le necessarie garanzie, l´accesso a siti e servizi web per presunte violazioni del diritto d´autore.

Bisogna dire subito che il modello tradizionale del diritto d´autore sta strettissimo alla rete, ne ignora le caratteristiche. Un legislatore consapevole dovrebbe in primo luogo prendere atto di questo dato di realtà, partire dalla premessa che la Rete è un luogo di condivisione del sapere, che il diritto di manifestazione del pensiero ha trovato strade nuove, sì che provvedimenti puramente repressivi legati ai vecchi schemi concretamente possono diventare uno strumento che, con il pretesto della tutela del diritto d´autore, introducono una nuova e inammissibile forma di censura.

Non si nega la necessità di dare tutele alla creazione artistica, di perseguire i comportamenti illegali. Ma non si può entrare nel futuro con la testa rivolta al passato. Abbarbicati a un modello di diritto d´autore di cui pure i liberisti contestano ormai l´efficienza, non vogliamo renderci conto che oggi il vero tema è quello che Lawrence Lessig ha chiamato "il futuro delle idee" nel tempo di Internet, legato alla diffusione delle tecnologie digitali, alla generalizzazione delle pratiche di condivisione del sapere, alle nuove modalità di creazione rese possibili dalla Rete. E ricordiamo pure che due anni fa il premio Nobel per l´economia è stato attribuito a Elinor Ostrom proprio per i suoi studi sulla conoscenza come bene comune, e che qualche settimana fa all´Onu è stato presentato un documento che definisce l´accesso a Internet come un diritto fondamentale d´ogni persona.

Da qui bisogna partire, come fa, ad esempio, il "programme numérique" appena presentato dal Partito socialista francese, che indica come obiettivi l´abrogazione della legge Hadopi (che ha finalità censorie analoghe a quelle della delibera dell´Agicom), la fine della "guerra alla condivisione" dei contenuti presenti su Internet, l´accettazione dello scambio dei beni culturali al di fuori del mercato, nuove forme di gestione dei diritti degli autori. Si condividano o no questi obiettivi, e le specificazioni che li accompagnano, è comunque evidente che si impone un cambiamento di registro per affrontare il tema della conoscenza in Rete, partendo proprio dalla premessa che siamo di fronte alla necessità di inventare nuove forme giuridiche, come già sta avvenendo, ad esempio attraverso la possibilità dell´autore di gestire la propria opera con la tecnica dei "creative commons" (cinque milioni di casi anche in Italia).

L´Agicom deve prendere atto di tutto questo, rinunciando alla frettolosa approvazione di regole censorie e aprendo una vera consultazione in materia. Ma il punto centrale di una vera riflessione collettiva deve essere un altro e partire da un interrogativo molto semplice. Si può ammettere che in una materia cruciale per l´assetto delle libertà e dei diritti, per lo sviluppo complessivo e le dinamiche della società, le regole vengano da una autorità indipendente? Questo è materia di stretta competenza del Parlamento, che non può sfuggire ad una responsabilità davvero di natura costituzionale. Inammissibile, comunque, è la pretesa di imporre sanzioni con un semplice provvedimento amministrativo quando sono in questione diritti fondamentali, cancellando una competenza propria della magistratura, come prevede la Costituzione e come ha ricordato in Francia il Conseil constitutionnel, dichiarando illegittima una norma che affidava ad una autorità amministrativa, e non ai giudici, la competenza in materia.

Non possiamo dire che la libertà in Rete è un bene prezioso, con una scappellata alle primavere arabe, e poi accettare spensieratamente logiche che possono ridurre al silenzio chi si esprime su Internet.

Ieri ho partecipato alla manifestazione in Val di Susa. Eravamo in migliaia, a manifestare pacificamente il nostro dissenso. Sui giornali e dalla politica solo menzogne Sono appena rientrato dopo 6 ore di marcia a Chiomonte. Incredibile, un serpente umano colorato e festante proveniente da tutta Italia percorreva i boschi verdeggianti della media Valsusa in una giornata calda e luminosissima. La stima minima è di 50.000 persone, quella massima 100.000, fate voi... Statale del Monginevro bloccata e autostrada pure.

In queste ore ancora si sparano lacrimogeni, un teatro osceno per un Paese civile nel museo archeologico del villaggio neolitico della Maddalena di Chiomonte, che la polizia ha usurpato come suo quartier generale. Lì, nel punto di contatto tra manifestanti e poliziotti io non sono stato, e qualche ferito c'è, qualche sasso è volato, qualche episodio da deplorare può darsi che ci sia, ma aspettiamo a parlare quando avremo sentito i racconti e visto i video di chi era lì... Il 412 della polizia ha volato sopra di noi come fossimo stati in Afghanistan, dalle 8 alle 18 almeno, e sono 100 euro al minuto... io non ci sto, è uno scenario surreale per aprire un cantiere.

Ciò che vi vorrei dire a caldo è:

1) già ora le prime pagine dei giornali titolano di guerriglia, di back bloc e altre amenità simili: si tratta di elementi del tutto marginali della giornata, ciò che conta, e che doveva essere oggetto dei titoli, è l'enormità della gente normale qui confluita, cittadini italiani ed europei, famiglie con bambini, pensionati, professionisti, docenti, medici, artigiani, studenti che da tutta italia (pullman da Pisa, Macerata, Udine, Bologna, Genova...) hanno affrontato levatacce e disagi, per venire a passare una domenica di civile indignazione insieme a noi. Chapeau a tutti loro, che dimostrano come vi sia una presa di coscienza sempre più vasta del problema dei beni comuni e una voglia individuale di "contare" qualcosa sul piano delle scelte. Mi sembra che politica e giornalisti siano terribilmente indietro, impegnati a proteggere i loro privilegi o tremebondi a sperare che il loro servilismo porti una promozione sulla scala sociale. Ma la gente sta correndo più veloce di loro. Ho parlato con centinaia di persone e ne ho tratto una grande impressione di competenza, di coraggio, di onestà, di passione. Altro che black-bloc!

2) tutti hanno ben chiaro, per vivere ogni giorno sulla propria pelle altre simili usurpazioni sui loro territori, che le priorità per il Paese sono altre, che nessuno vuole questi monumenti faraonici ma desidera interventi semplici, evidenti e efficaci sulla quotidianità. Tutti hanno ben chiaro che i tempi stanno cambiando in fretta. Nelle ore di marcia sotto il sole, i discorsi che sentivo fare erano dei rapporti dell'Asia con il mondo occidentale, della crisi delle risorse, dell'opposizione economia capitalistica-benessere, dell'impossibiltà della crescita continua, della crisi petrolifera... insomma, un campione interessante di pubbliche riflessioni sul presente e sul futuro.

3) speriamo che ognuno di loro stasera su facebook dica: "c'ero anch'io e vi spiego quali menzogne i giornali e la tv diffondono su di noi e su questa faccenda".

4) fino al 12 luglio 1980 non c'era il traforo autostradale, quindi sulla ferrovia attuale passavano tutte le merci e i passeggeri per la Francia, inclusa la navetta per le automobili Bardonecchia-Modane. Nel 1980 eravamo forse all'età della pietra? La ferrovia attuale bastava allora, basterebbe a maggior ragione in un mondo futuro con meno risorse. Ma Chiamparino è al delirio sviluppista e vede il Tav Valsusa come una fede: o il Tav o la terribile decrescita! Allora Tav sia. Aggiungo che un'opera di questo genere avrebbe un overhead di sistema enorme rispetto a opere più semplici e resilienti. In un'epoca postpicco petrolifero, l'imponente infrastruttura tecnologica ed energetica necessaria a garantire la sicurezza di un tunnel di 54 km con temperature interne di oltre 50 C, collasserebbe dopo pochi mesi, anche solo per via dei costi. Vedere Rutilio Namaziano... le mitiche strade di Roma, poco dopo la caduta dell'impero erano impraticabili per mancanza di manutenzione e si preferiva il periglioso viaggio via mare da Roma alla Liguria piuttosto che affrontare il fango dei tratturi maremmani...

5) finanziamento europeo: per ora, a inizio cantiere, si parla di sbloccare 671 milioni di euro, pari a circa il 4,5% del valore del progetto (calcolato dell'ordine dei 15 miliardi di euro, anche qui non ci sono mai numeri trasparenti). In caso di realizzazione successiva, si parla di ulteriore finanziamento EU del 30% della sola tratta internazionale, che escluderebbe quindi i circa 2 miliardi di euro della tratta di adduzione Torino-Chiomonte, interamente a carico italiano. Sono dati vaghi perchè è quel poco che si riesce a leggere sui giornali locali. Anche questo fatto dovrebbe indignare tutti: non c'è uno straccio di rapporto ufficiale che faccia chiarezza verso i cittadini. I promotori, che i dati immagino li avranno, con fior di tecnici pagati per far solo quello, tacciono, lasciando tutti noi a baloccarci con stime e supposizioni. Anche questo è strano: se avessero dati seri, certi e inoppugnabili a sostegno dell'opera, non pensate che avrebbero già convocato una conferenza stampa internazionale, spazzando via ogni nostra chiacchiera? Invece stanno nascosti nelle gallerie, lasciando che la gente si arrabbi, che i politici sfornino la loro retorica, che i pochi come noi che tentano di ragionare si spacchino la testa su dati faticosamente estratti qua e là.

6) la stretta alleanza politica bipartisan che mostra un tenacissimo blocco favorevole all'opera, è un altro elemento di sospetto. In genere il politico, massimamente quello italico, quando trova un muro invalicabile nei propri affari, lo aggira, scantona, sceglie altri obiettivi più facili, ma non si mette contro una marea montante di rabbia popolare che sta diventando un elemento incognito estremamente instabile. Qui invece sono passati vent'anni di proteste e continuano tutti imperterriti ad andare in rotta di collisione contro il massiccio d'Ambin. Butto lì, non è che devono aver fatto tante e tali facili promesse sulla divisione di questa appetitosa torta, che ora qualcuno ha la canna di fucile puntata dietro la schiena se non le mantiene e non paga pegno?

Ciao a tutti dalla Valsusa, qui comunque è una serata ancora molto calda. Speriamo che serva a qualcosa.

Le tracce cercatele a Siena, il 9 e il 10 luglio. Perché si sono date appuntamento lì, a Santa Maria della Scala. Sono le donne che una domenica di febbraio sono scese in piazza alzando per bandiera una frase di Primo Levi, «Se non ora quando?». Non è un partito: per un giorno è sembrato un grande, grande movimento. Lo è davvero? Avrà gambe per camminare? E che fine ha fatto in questi mesi, dove si è disperso dentro questa Italia di pubblicità volgari, escort, donne licenziate dalle fabbriche, precariati spinti, ragazze immigrate costrette a matrimoni combinati, futuri incerti e crisi? Per rispondere a questa domanda bisogna andare a Siena, ascoltare, guardare, cercare di capire, contarsi.

Le rappresentanti dei 120 comitati di «Se non ora quando?» si ritrovano a Santa Maria della Scala e con loro molte altre donne: sono già quasi 900 le adesioni. Da Napoli verranno con un pullman, da Parma idem. Tante, dieci volte quel che si poteva prevedere alla vigilia e le richieste di partecipazione continuano sul blog (http://senonoraquandosiena910luglio.wordpress.com). «Mi era sembrata perfetta Santa Maria come simbolo dell´accoglienza - racconta Tatiana Campioni, direttrice del complesso museale che dava tetto e conforto ai pellegrini sulla via Francigena - ma mi sa che ci sta forse stretta».

Le adesioni piovono da tutta Italia e non sono soltanto donne. «Uomini e donne che si sono riconosciuti nella mobilitazione trasversale e apartitica del 13 febbraio potranno prendere la parola per scrivere insieme - dicono le organizzatrici - l´agenda delle richieste femminili per l´Italia di domani». Centinaia di prenotazioni ad alberghi e bed & breakfast, poi una rete di accoglienza allestita su due piedi dalle donne del comitato senese, cinquanta posti letto offerti gratis e già spazzati via. Ne servono altri. Parecchi altri. «Facciamo un appello alle famiglie di Siena, soprattutto del centro storico, perché aprano le loro case e si facciano avanti per ospitare il 9 luglio, a dormire, conoscersi e incontrarsi le donne che verranno in città» spiega Carla Fronteddu, 26 anni, un dottorato di ricerca di Filosofia politica.

«E´ bellissimo sapere che ci sono molte più adesioni del previsto, significa che c´è una grande energia e voglia di impegnarsi su questi argomenti - prosegue Tatiana Campioni - Quando Francesca Comencini, una delle ideatrici della manifestazione di febbraio, è venuta a Siena a presentare il suo libro abbiamo parlato di «Se non ora quando?» e di dove organizzare un incontro nazionale. Non volevamo una grande città perché sembrava troppo dispersiva così io ho proposto Santa Maria della Scala e a Siena il sindaco Franco Ceccuzzi ha subito accolto l´iniziativa offrendo la collaborazione del Comune». Tutto apparentemente perfetto. Il fatto è che i numeri lievitano di giorno in giorno (chi volesse partecipare deve compilare la scheda sul blog) e probabilmente se le adesioni si trasformeranno in presenze fisiche, bisognerà presto trovare soluzioni alternative al complesso museale. La macchina organizzativa è al lavoro: nei prossimi giorni dovrebbe esserci un incontro con il sindaco per fissare meglio la logistica.

Il programma invece è già abbastanza definito: i temi attorno ai quali si svilupperà questa due giorni, saranno corpo, maternità, lavoro e rappresentazione della donna. Si comincia il 9 luglio poco prima di mezzogiorno con le proiezioni video del 13 febbraio, poi aprirà i lavori Linda Laura Sabbadini direttrice centrale dell´Istat e l´economista Tindara Abbado. Una rappresentante della stampa estera racconterà perché la manifestazione di febbraio ha conquistato le prime pagine dei giornali in mezzo mondo e come viene letta oltre frontiera la questione femminile nel nostro Paese. Quindi spazio agli interventi. La regista Francesca Comencini ha girato alcuni spot che si possono trovare online sull´incontro di Siena. A sera, la festa probabilmente (ma la cosa è tutta ancora da definire) in qualche piazza. E il giorno successivo proposte e contenuti.

Per sfamare le partecipanti è stato chiamato un catering declinato al femminile, la cooperativa Mondomangione che aiuta donne disagiate: sul blog di «Snoq» (acronimo di «Se non ora quando?») si possono prenotare i pasti. E´ stata avviata anche una sottoscrizione per far fronte ai costi di un´organizzazione che si sta facendo sempre più complessa (bonifico Associazione Promozione Sociale «Se non ora quando?» Nazionale-IBAN: IT13Y0501803200000000155055 presso Banca Etica, Roma).

L´incontro nazionale sarà un momento importante per capire gli umori di questo eterogeneo neo-movimento che sta ponendo con forza domande sul ruolo della donna nel futuro dell´Italia. Per ascoltarne le tante voci, per elencare gli argomenti e cominciare da stilare una specie di patto, cominciare a mettere in agenda le battaglie, stabilendo delle priorità. Dai comitati di base dell´università, alle femministe che hanno solcato le strade nei cortei degli Anni Settanta, dalle immigrate di seconda generazione, alle donne espulse come esuberi dal mondo del lavoro. Il fronte è molto ampio e diversificato, anche politicamente sono tante le anime che si sono trovate nel corteo di «Se non ora quando?». Le prove di dialogo non saranno scontate: andranno comunque in scena dal 9 al 10 luglio e bisognerà capire se c´è e quanto è forte il collante che tiene unito il movimento. «Le donne non sono una questione, sono la maggioranza del Paese» sottolinea Carla Fronteddu del comitato senese. Da lì bisognerà partire.

Neanche il "Generale Agosto" potrà farla dimenticare. La stangata d´estate, imperniata sul combinato disposto della manovra da 47 miliardi varata giovedì scorso, gli effetti degli aumenti delle tasse locali ai quali ha aperto la strada il federalismo fiscale, e gli interventi spot come quelli sulle accise per la benzina per finanziare l´emergenza Libia e le spese per la cultura, rischia di essere dolorosa. Per la Cgia di Mestre la correzione per il solo anno in corso costerà 741 euro per ciascun italiano. la Federconsumatori, che valuta le misure in termini di perdita di potere d´acquisto, prevede un salasso di 927 euro a famiglia.

La via dolorosa è già iniziata con l´aumento delle accise sulla benzina scattate nell´ultima settimana: in tutto 6 centesimi al litro, Iva compresa, che hanno già fatto lievitare il costo del pieno. La data del 30 giugno ha anche consentito di fare il bilancio degli aumenti delle addizionali Irpef comunali, consentite dal decreto sul federalismo: 55 municipi, tra i quali Brescia e Venezia, hanno messo in campo aumenti fin da quest´anno dello 0,2 per cento. Anche le Province sono sul piede di guerra: 29, un terzo del totale, hanno approvato l´aumento dell´aliquota sulla Rc auto del 3,5 per cento, come stabilito dal federalismo, portandosi a quota 16 per cento. Si attende - a giorni - solo il decreto attuativo per far partire gli aumenti della base imponibile dell´Ipt, l´imposta sui passaggi di proprietà che potrà essere elevata del 30 per cento e sarà legata alla potenza fiscale. Ed è solo l´inizio della danza, perché i rincari potranno essere reiterati dal 1° gennaio del 2012.

I tagli di 9,3 miliardi agli enti locali imposti dalla manovra saranno la miccia che renderà inevitabili gli aumenti delle tasse locali, ad esempio nei 2.500 comuni che hanno ancora l´addizionale Irpef a quota zero. Senza contare che le Regioni, negli anni topici dell´impatto della manovra potranno aumentare le addizionali Irpef fino al 3 per cento.

E ancora: dal primo gennaio del prossimo anno tornerà il ticket di 10 euro sulla diagnostica e sulla specialistica, mentre i «codici bianchi» al pronto soccorso pagheranno 25 euro. Nemmeno due anni e, nel 2014, come previsto dalla manovra di giovedì scorso, scatterà la possibilità di un aumento della quota nazionale dei ticket sulla farmaceutica. Secondo le stime dell´Università di Tor Vergata, la manovra comporterà un taglio di 10 miliardi in tre anni alla sanità pubblica, innescando aumenti dei ticket e tasse regionali (500 euro all´anno a famiglia).

La tassa sulle auto più potenti è stata ridimensionata, ma aumenti pendono sugli automobilisti se passerà la contrastata norma sul «pedaggiamento» dei tratti stradali Anas come il Gra e e la Salerno-Reggio. Brutte sorprese, inoltre, per i risparmiatori e coloro che hanno un dossier titoli: schivato all´ultimo momento il ritorno del fissato bollato su ogni transazione, arriva però l´aumento del bollo sui dossier titoli che viene più che triplicato e passa a 120 euro.

Senza considerare che il governo nei prossimi tre anni avrà in mano una delega che gli consente di aumentare, seppure gradualmente, l´Iva: una misura che nessuno può escludere che arrivi prima dei tre anni previsti. Del resto i rincari camminano a passo veloce, da due giorni sono scattati aumenti di luce e gas: la norma che avrebbe potuto compensare i rincari e ammorbidire la bolletta energetica del 3-4 per cento con un taglio degli incentivi è scomparsa dalla manovra. Mentre si profila un nuovo rischio: le grandi aziende concessionarie di beni pubblici, come le autostrade, gli aeroporti e le ferrovie, subiranno una stretta nei bilanci sulle politiche di ammortamento e non è escluso che si vedano costrette a chiedere nuovi aumenti tariffari.

Un caso così non si trova nemmeno nel manuale del perfetto maschio-padrone dell'800. Ma i manuali non servono, quando il senso comune del terzo millennio rotola all'indietro e detta comportamenti senza vergogna. Del resto, perché vergognarsi? Dev'essere stato per buon cuore che i dirigenti della Ma Vib hanno scelto fra i loro 30 dipendenti 13 donne, tutte donne e solo donne, da mandare prima in cassa integrazione e poi a casa, «così possono stare a curare i bambini», tanto «in famiglia il loro è comunque un secondo stipendio». In altre parole, un optional. Di lusso. Come è un optional, di lusso, che le donne, che i bambini li curano comunque, pretendano pure di lavorare. Ma in tempi di crisi, i lussi non ce li possiamo più permettere. Un capitombolo e oplà, si torna all'antico: uomo-capofamiglia-lavoratore, donna-madre-moglie (cureranno meglio anche i mariti se stanno a casa, no?), e un solo stipendio che basta e avanza. Com'erano belli e ordinati gli anni 50.

Non ci si crede. E si stenta a credere pure che intervistata da un tg, una delle operaie licenziate parli di spalle per paura di ritorsioni. Più di tutto, si stenta a credere il fatto che chiude il cerchio: gli operai, maschi, che decidono un presidio di solidarietà con le colleghe, ma al dunque si sottraggono e tornano zelanti e obbedienti al lavoro. E' solo il ricatto della crisi? O il miraggio di poter tornare a essere dei veri uomini con le mogli al seguito e la pastasciutta in tavola?

Licenziare le donne quando sono incinta è ridiventata un'abitudine. Licenziarle con la giustificazione che così i figli staranno meglio può diventare una bestemmia. E un oltraggio a quell'erogazione gratuita del lavoro di cura che le donne svolgono regolarmente insieme al lavoro retribuito, senza che l'uno risenta dell'altro e spesso con migliori risultati degli uomini. L'assurdo è che mentre tutto questo accade nel civile e profondo Nord, a Roma si decida di alzare l'età pensionabile femminile. Sarà perché a 60 anni non ci sono più bambini da accudire. E per i genitori anziani basta una badante. Da pagare, va da sé, col secondo stipendio.

In base a quale criterio, mi chiedo, il manager Franco Pronzato poteva fare il consigliere d´amministrazione dell´Enac, ricoprendo contemporaneamente l´incarico di "coordinatore nazionale del trasporto aereo" nel Pd? Una circostanza come questa basta e avanza per evidenziare il rapporto patologico instaurato fra partiti e società civile nella nostra democrazia malata. L´incarico pubblico assegnato senza neppure mascherare la sua finalità lottizzatoria, viene notato ora solo perché Pronzato va in carcere, accusato di avere percepito una tangente sull´appalto per la rotta aerea Roma-Isola d´Elba. Emergono contiguità con altri "facilitatori" d´affari, come Vincenzo Morichini, che intercedeva nella raccolta di contributi privati per la Fondazione Italianieuropei, dopo aver ceduto a Massimo D´Alema la sua quota di comproprietà della barca a vela Ikarus. Per constatare quanto Franco Pronzato ci tenesse a rivendicare la sua vicinanza al segretario del Pd, Pierluigi Bersani, è sufficiente un clic alla voce "Curriculum" del suo sito, dove campeggiano due foto con "l´amico". A poco vale obiettare che tale prassi è ordinaria amministrazione nel centrodestra. Basti pensare a due esponenti di rilievo del Pdl come Maurizio Lupi e Giampiero Cantoni, che presiedono altrettante società della Fiera di Milano, con relativi emolumenti. Gli esempi di doppi incarichi consentiti dalla legge, ma non dalla pubblica decenza, occuperebbero purtroppo molte pagine di giornale.

La solita obiezione del "così fan tutti" non può essere accampata però dal Partito democratico, che fin dalla sua nascita s´impegnò a contrastare il malcostume della lottizzazione e la prassi conseguente del favoritismo negli appalti. Ricordo bene, per aver partecipato ai lavori della commissione incaricata di elaborare il Codice etico del Pd, talune resistenze sul capitolo delle incompatibilità. Ci veniva ricordato sottovoce che gli incarichi assegnati nei cda di aziende pubbliche e semipubbliche, o nelle Fondazioni, a consiglieri comunali, provinciali, regionali, consentivano una loro retribuzione surrettizia altrimenti impossibile. Ma il principio dell´incompatibilità alla fine s´impose; sebbene largamente disapplicato.

Il caso di Franco Pronzato, al di là dei risvolti penali legati a un´ipotesi di vera e propria corruzione che la magistratura dovrà giudicare, si segnala per la sua smaccata evidenza. Il manager genovese da decenni legato al gruppo dirigente Pci-Pds-Ds-Pd, infatti, sedeva già inserito nel cda dell´ente pubblico più importante del settore aereo quando venne nominato responsabile del partito sulla medesima materia. Per intenderci, è come se Nino Rizzo Nervo o Giorgio Van Straten, consiglieri d´amministrazione Rai "in quota" al centrosinistra, assumessero pure la guida dell´ufficio comunicazione del Pd. E ciò mentre il segretario Bersani va promettendo in tv che non ci saranno mai più dei lottizzati del suo partito in Rai.

Ben si capisce che qui non è in causa la diatriba fra il partito e gli antipartito. Ma il protagonismo della nuova cittadinanza democratica senza cui il centrosinistra non avrebbe mai conseguito le vittorie di maggio, può instaurare un relazione proficua con i gruppi dirigenti dei partiti solo alla condizione che questi siano disponibili a rimettere in discussione la loro sovranità e i loro comportamenti. Il verticismo dei "nominati" e l´affarismo dei lottizzati sono degenerazioni che si tengono l´una con l´altra. Non a caso hanno spesso come protagoniste le medesime personalità che non dissimulano la propria idiosincrasia nei confronti delle associazioni della società civile. Ora che la nuova politica non è più una mera suggestione, e anzi le dobbiamo la concreta speranza di un cambiamento d´epoca, tocca in primo luogo al Pd correggersi e dare il buon esempio.

Adesso non potrà più dire che mentre in America lo osannano qui in Italia gli tirano i gatti morti sul finestrino. Adesso anche da noi qualcuno lo ama. Sergio Marchionne, filosofo del Dopo Cristo, ha vinto su tutta la linea. Dopo aver cooptato Cisl e Uil alla sua corte, dopo aver dettato le regole alla Confindustria con un ricatto - o cambiate tutto come dico io o vi saluto - analogo a quello a cui sono stati sottoposti gli operai di Pomigliano - o rinunciate a diritti e dignità o chiudo e vi mando tutti a spasso - l'amministratore delegato della Chrysler-Fiat ha sbancato anche in Corso d'Italia. Incassa la resa della Cgil guidata da Susanna Camusso.

Adesso i contratti nazionali sono derogabili dunque non esistono più, siglando così la fine del basilare principio di solidarietà che ha regolato il lavoro nel secondo dopoguerra del Novecento. Adesso gli operai non possono più votare gli accordi e i contratti, firmati per loro conto da apparati sindacali sempre più organici al blocco di regime e dunque sempre meno sindacati. Adesso gli operai non possono scioperare, essendo stata sancita una «tregua». Come se il crollo di vendite di automobili Fiat in Italia e in Europa dipendesse da chi lavora alla catena di montaggio di Mirafiori o di Pomigliano, come se le tute blu avessero le braccia conserte per dimostrare la loro novecentesca aggressività e non perché non hanno nulla da costruire.

Tutto questo è avvenuto a Roma, nella dependance della Confindustria su cui erano puntati gli occhi dei lavoratori e di tutti quei cittadini e quelle cittadine che, insieme alla Fiom, avevano alzato il vento democratico del cambiamento. Adesso la strada si fa difficile e bisognerà riprendere a pedalare in salita tra le secchiate non di acqua rinfrescante ma di fango. Si è chiusa un'epoca, gridano gioiosi padroni e sindacati, plaudono i ministri, va fuori dalle righe persino il normalmente sobrio Sole 24 Ore, organo dei confindustriali che spara «Una firma per un'epoca nuova». Il Pd è contento, ma pensa un po'.

Siamo alla fine della storia? Lasciamo in pace Fukuyama, la storia non procede mai in modo rettilineo. Tra le parole di un accordo scritto nel fango e la realtà c'è di mezzo una variabile: le persone in carne e ossa, i lavoratori e tutti quelli che pensano al lavoro come a un bene comune e che non sono soli, hanno dalla loro la Fiom che «resiste ora e sempre all'invasore» come il villaggio gallico di Asterix e Obelix. Resiste e scompagina le carte ricordando a potenti e poveracci che ci sono diritti intangibili validi per tutti (sennò si trasformano in privilegi) che la dignità delle persone viene prima dei profitti. Bisognerà tenere i nervi a posto, tutti quelli che non intendono adeguarsi al modello sociale imposto da Marchionne dovranno tenere i nervi a posto. Perché la storia continua. La generosa battaglia della Fiom è una battaglia per la democrazia, perciò è una battaglia generale. Ma la Fiom, e gli operai, da soli non ce la possono fare. Non dobbiamo lasciarli soli.

Una crisi finanziaria di dimensioni globali è di nuovo alle porte. E non sarà l'ultima. Il mondo si sta avvitando intorno ai suoi debiti. Con liberismo e globalizzazione («finanzcapitalismo», orribile termine introdotto da Luciano Gallino) gli Stati hanno ceduto il potere di creare il denaro - il diritto di «battere moneta» - al capitale finanziario. Quasi tutti gli Stati dei paesi sviluppati si sono pesantemente indebitati con il sistema finanziario (quelli dell'ex Terzo Mondo lo sono da sempre). Lo hanno fatto in parte per salvare banche o aziende sull'orlo del crack; in parte per finanziare spese sia essenziali (infrastrutture, «welfare» o stipendi del Pubblico impiego non sostenuti da sufficienti entrate fiscali), sia illegittime (costi della corruzione e dell'evasione fiscale), sia inutili e dannose (armamenti, costi della «politica», di grandi opere o di «grandi eventi»). Per esempio, gran parte del debito che sta portando la Grecia al fallimento è dovuto, oltre che alla corruzione e dall'evasione fiscale, alle spese sostenute (senza adeguati ritorni) per le Olimpiadi di Atene e per l'acquisto - da Francia e Germania, gli Stati che oggi la stanno strangolando - di armamenti per «difendersi» dalla Turchia: due paesi della Nato che si armano l'un contro l'altro, comprando le stesse armi dagli stessi paesi e addestrandosi a farsi la guerra (c'è di mezzo il petrolio dell'Egeo) nelle scuole militari degli stessi fornitori.

Gli Stati si indebitano perché di nuovo denaro non ne possono creare più di tanto. In parte se lo sono vietato, con leggi nazionali (come negli Usa) o accordi internazionali (come le regole di governo della Bce e il Patto di stabilità dell'Unione Europea). In parte hanno già una montagna di debiti contratti perché per molto tempo indebitarsi era più facile che imporre nuove tasse o sostenere l'economia con l'emissione di nuova moneta e un'inflazione controllata. Quello che gli Stati nazionali hanno perseguito indebitandosi (evitare nuove tasse o maggiore inflazione) adesso li strangola; e oggi i paesi europei, anche se potessero tornare alla moneta nazionale e svalutarla, difficilmente otterrebbero un aumento di competitività con cui accrescere le esportazioni e ripagare parte del loro debito, come recita l'ortodossia economia (quella che consiglia alla Grecia di «uscire dall'euro»); si ritroverebbero solo con un debito in valuta estera ancora più pesante. Se invece, come consiglia, anche in questo caso, l'ortodossia economica, tagliano la spesa pubblica - mettendo alle strette o alla fame una parte crescente dei propri cittadini - e svendono servizi, demanio e beni comuni per ottenere un avanzo primario, soffocano ancora di più l'economia e non saranno mai più in grado di pagare né debito né interessi. È una strada senza uscita.

Se la cosa riguardasse solo la Grecia, che è un piccolo paese, una soluzione forse si troverebbe; ma riguarda anche l'Irlanda, il Portogallo, la Spagna, l'Italia, il Belgio e in prospettiva la Francia, che adesso fa invece la voce grossa. E riguarda anche gli Stati Uniti (anche il loro debito rischia un ribasso del rating), gli unici che finora avevano potuto continuare a «creare moneta» perché i loro dollari non li rifiutava nessuno. Ma crisi, salvataggi e sconti fiscali per i più ricchi (quelli che neanche Obama osa toccare) hanno moltiplicato per due il loro debito, che è quasi tutto in mani altrui; e poiché ora ne devono rinegoziare una quota consistente si trovano anche loro alle strette. La retorica - mai suffragata dai fatti - secondo cui ridurre le tasse «crea sviluppo» ha messo tutti nei guai. Poi ci sono le rivoluzioni dei paesi arabi, che a breve porranno inderogabili scadenze al sistema finanziario mondiale. Insomma, qualunque cosa venga decisa per la Grecia, si tratterà solo di tamponare una falla per rinviare un crack inevitabile.

Gli Stati non «comandano» più il denaro perché i cordoni della borsa sono ora nelle mani della finanza internazionale: basta la minaccia di un ribasso del rating ed è come se dal bilancio di uno Stato si volatilizzassero di colpo miliardi di euro. E per un paese che va in rovina c'è sempre, da qualche altra parte, qualcuno che guadagna miliardi. È la finanza internazionale, bellezza! Quella che ha riempito di titoli fasulli banche e risparmiatori rivendendo un numero infinito di volte i propri crediti dopo averli impacchettati in titoli derivati di cui era - ed è, perche sono ancora in circolazione - impossibile conoscere origine e composizione. A certificare che quei mucchi di carte, ma ormai anche solo di bit, sono moneta sonante ci pensavano e pensano tre agenzia mondiali interamente possedute da alcune delle banche che quei certificati li vendono. Ora, e sempre con denaro fittizio, la speculazione si è spostata sulle materie prime e sulle derrate alimentari, mettendo alla fame mezzo mondo. E minaccia di far fallire, uno dopo l'altro, un buon numero di Stati. Ma dobbiamo per forza continuare a lasciare in mano a costoro le redini dell'economia?

C'è un altro modo per affrontare la situazione: imporre ai propri governi un cambio di rotta. Il che richiede certo «rigore fiscale», ma non quello che ci vorrebbero imporre Tremonti. Il rigore, cioè i tagli nel bilancio, vanno imposti ai costi della politica, alla corruzione, all'evasione fiscale, alle rendite finanziarie, agli armamenti, alle guerre contro paesi che abbiamo contribuito ad armare fino a ieri, alle grandi opere, ai grandi eventi, alla burocrazia (ma senza segare l'albero del Pubblico impiego; curandolo invece ramo per ramo, coinvolgendo che ci lavora, perché dia frutti migliori). Ma un cambio di rotta richiede anche una montagna di nuove spese: in ricerca, in istruzione (scolastica e permanente), in manutenzione del territorio, in riconversione delle fabbriche obsolete o senza mercato, in promozione di una conversione energetica che ci liberi gradualmente dalla dipendenza dall'estero e dai combustibili fossili, in un'agricoltura che restituisca fertilità ai suoli e cibo sano ai consumatori. E soprattutto per garantire a tutti e ciascuno possibilità di non dipendere giorno per giorno dai capricci di un mercato globale fuori controllo e dall'arbitrio di imprese attente solo alle quotazioni del loro capitale.

Sono in gran parte le stesse rivendicazioni (e persino le stesse parole: «non vogliamo pagare la vostra crisi») delle rivolte che infiammano le strade della Grecia e delle manifestazioni che riempiono quelle della Spagna - e ora anche del Belgio - e che hanno un unico sbocco possibile: in prima istanza, l'annullamento del patto di stabilità e della stretta sui bilanci degli Stati membri. Poi la garanzia di un reddito decente per tutti. Ma fin da subito c'è da adoperarsi per coinvolgere il maggior numero di soggetti, ciascuno con le sue competenze e a partire dai luoghi dove abita, vive e lavora, nella costruzione dal basso di un piano di interventi articolato su cui esigere l'impegno dei governi, quali che siano, sia a livello locale che nazionale. Oggi programmi del genere non ci sono: troppo pochi ci pensano e quasi nessuno ne parla, perché cambiare radicalmente il paese sembra ancora un sogno. Ma l'Europa di domani, nel pieno di una crisi finanziaria che coinvolgerà l'intero continente e nel mezzo di una crisi ambientale che sta investendo l'intero pianeta, non sarà mai più come quella che abbiamo conosciuto fino a oggi. Se non vogliamo precipitare nel caos che si sta avvicinando, bisogna cominciare a discutere concretamente, caso per caso, delle cose che vogliamo, senza aver paura della sproporzione delle forze in campo. Il vento sta cambiando. «Prepariamoci» titola il suo ultimo libro Luca Mercalli, parlando delle condizioni in cui dovremo a vivere nella crisi ambientale. Prepariamoci anche a una nuova crisi finanziaria che cambierà radicalmente i rapporti di forza nelle situazioni in cui ci troveremo a operare.

Le chiamano guerre senza uomini, unmanned wars, e stanno stravolgendo il nostro rapporto con i conflitti militari e anche col potere. Protagonista è un velivolo che non ha bisogno di pilota perché basta schiacciare da lontano un bottone, e l´aggeggio parte: si chiama drone. A seconda della convenienza esplora terreni oppure decima persone: è un proiettile che varca oceani. Traiettoria, bersaglio, funzioni sono decisi da impenetrabili cerchie di tecnici e politici. Dopo aver bramato per anni guerre a zero morti, adesso Washington predilige guerre a zero uomini. Costano meno, e soprattutto non sono politicamente dannose: l´avversario stramazza, ma svanisce il rischio di veder tornare le salme dei nostri soldati. La connessione tra potere e opinione pubblica si spezza, così come si spezza il nesso tra guerra, legge, democrazia. Non solo. Hai l´impressione che il mondo non sia che un video con playstation, azionato da ignoti individui al servizio di un centro sfuggente che s´avvale impunemente dell´extraterritorialità: come la smisurata mappa di Borges, che «aveva l´immensità dell´impero e coincideva perfettamente con esso». Parte il proiettile, colpisce, e non resta che un ronzio (questo significa drone: il ronzio di un´ape maschio).

In Afghanistan queste offensive sono cominciate da tempo ma adesso sono estese a Pakistan, Yemen, Libia. Dieci anni fa Washington disponeva di 50 droni, oggi di 7 mila. Il drone è diventato una panacea, a partire dal momento in cui le guerre al terrore sono finite in vicoli ciechi. Una dopo l´altra, quasi tutte naufragano. In Afghanistan, dove sono schierati circa 4000 soldati italiani, la sconfitta è data per certa anche se non ammessa: l´aumento delle truppe deciso da Obama ha eccitato gli insorti, accrescendo l´odio delle popolazioni e consegnando a talebani e Al Qaeda terre sempre più vaste (l´intera cintura attorno a Kabul, le regioni ai confini col Pakistan: l´80 per cento circa del paese). Un rapporto pubblicato lunedì dall´International Crisis Group conferma l´esistenza di un´«oligarchia criminale di affaristi tra loro connessi, comprendente governanti corrotti e malavita, che domina l´economia usando gli aiuti occidentali».

Questo il lido desolato cui è approdata la quasi decennale guerra afghana; a questo son serviti i 2.547 caduti della coalizione, i morti civili (tra 14.000 e 34.000), i milioni di profughi, e un costo, per l´Occidente, di oltre 500 miliardi di dollari. La sola America spende ogni mese 10 miliardi. Ecco perché sono nate le trattative Usa coi talebani: cioè con l´avversario che si pretende di combattere, sterminandolo magari con i droni. Il cambio di strategia avviene senza partecipazione degli europei, e senza che essi chiedano conto. Tutte le guerre, anche in Yemen e Libia, sono concepite come brevi e regolarmente s´impantanano. Il fallimento è immenso, l´idea delle missioni umanitarie è a pezzi. Il vocabolo stesso - umanitario - nella migliore delle ipotesi non dice più nulla. Nella peggiore è svilito, giustificando dentro e fuori casa una diffusa e orgogliosa indifferenza al soffrire e morire dell´altro.

È a questo punto che è apparso il drone, cui Obama ricorre assai più sistematicamente di Bush: in Afghanistan e Libia ma anche in paesi come lo Yemen, dove pretende di non guerreggiare, o come il Pakistan, col quale Washington formalmente è alleato. Muovendosi nell´aria come predatori, i droni rappresentano una novità da molti punti di vista: politici, legali, etici. Negli Stati Uniti non è l´esercito a gestirli ma la Cia: difficilissimo chiamarla a rispondere democraticamente delle sue cacce extraterritoriali. E pressoché impossibile, per cittadini e Parlamenti, arginare i governi che danno ordini. Che si sia aperto un baratro tra popolo e potere, storcendo la democrazia, lo si è visto quando Obama si è rifiutato di sottoporre l´intervento libico all´approvazione parlamentare: la guerra condotta con droni e senza uomini non è guerra, ha obiettato. «Non è ostilità». La legge del 1973 che obbliga i Presidenti a smettere dopo 60 giorni i conflitti, salvo autorizzazione del Congresso, non vale più.

I droni annientano postazioni libiche e uomini, l´operazione è già costata al Pentagono 716 milioni di dollari e se continua costerà entro settembre 1,1 miliardi, ma appunto: è un ibrido. Stephen Walt, professore di relazioni internazionali a Harvard, denuncia l´inaudito sotterfugio. Che stiamo facendo in Libia - domanda nel suo blog - se non una guerra? «Quel che sappiamo, è che abbiamo inviato missili Cruise e droni per colpire vari bersagli militari; che più volte abbiamo attaccato il quartier generale di Gheddafi; che diamo informazioni agli alleati Nato che compiono raid per proprio conto».

Quando Bush s´armò contro il terrore molti lo criticarono, in America ed Europa. Era sbagliato il termine guerra: dava ai terroristi il nobile statuto di belligerante. Meglio escogitare una politica che riconoscesse le radici del male, accompagnandola a sequestri bancari e azioni di polizia come si fa con le mafie. Lo scacco in Iraq e Afghanistan non ha tuttavia insegnato alcunché e la vecchia strategia continua, solo che s´acquatta e mimetizza: i droni rivoluzionano la tecnica, i cervelli, la democrazia, ma a fini conservatori. La politica di ieri vien resa più efficace eludendo la legge internazionale, sottraendola a controlli democratici. La parola guerra scompare, ma guerra resta: per chi viene ucciso non è una differenza enorme, farsi ammazzare da velivoli con piloti o senza. In patria, saranno ricordati come morti in guerra. Dominiamo forse la mappa immaginaria di Borges. Non i vocaboli del mondo reale.

La nuova guerra viene condotta nel frattempo in Pakistan e Yemen. Anche qui, è stato Obama a incrementare le occulte guerre senza equipaggi. In Yemen, l´offensiva è condotta nella convinzione che né il governo locale né gli istruttori militari Usa siano capaci. La guerra senza uomini è clandestina, opaca, mortifera: nessuno è responsabile. Lo Stato israeliano è ricorso ripetutamente agli UAV (unmanned aerial vehicles) nella guerra in Libano del 1982 e a Gaza (Piombo Fuso) nel 2008. È l´arma perfetta per un occupante che si finge non occupante.

Lo scandalo è che nessuna discussione seria è iniziata, tra europei e americani, sul futuro in cui stiamo entrando. Da tempo le amministrazioni Usa sprezzano la Nato, che richiede troppe consultazioni pubbliche ed è vista come residuo fastidioso della guerra fredda. Solo gli Stati europei, governi italiani compresi, s´aggrappano accidiosamente al residuo sfilacciato. Eppure ce ne sarebbero, di cose da ripensare. L´articolo 11 della nostra Costituzione ripudia la guerra ma non l´esclude, visto che «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità» imposte da organismi internazionali di cui siamo parte e che promuoviamo. Ma queste istituzioni dove sono, quando si tratta di pace e guerra? L´Europa non ha il fegato né per chiederlo, né per osare una propria risposta.

Non rimane che questo ronzio d´api in cielo, ma nessuno sa chi spari, chi sia giuridicamente imputabile. Spesso non si sa neanche il volto dell´ucciso, nonostante l´anonimato sia vietato dal diritto internazionale. È proibito anche seppellire la vittima in fosse comuni o luoghi non identificabili, come il mare nel quale è stato immerso Bin Laden: perché se scoppia una controversia, come riesumare la salma?

Cosa significa l´articolo 11, in tali condizioni? La guerra dei droni è a immagine della mappa di Borges, e arriverà il momento in cui i cartografi la riterranno inutile: «Non senza empietà, l´abbandoneranno alle inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei Deserti dell´Ovest sopravvivono lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendicanti».

I No Tav.
Un movimento «comune»

di Pierluigi Sullo

In Valle di Susa si scontrano il passato e il futuro. La mobilitazione militare di migliaia di poliziotti, di tutti i media, di pressoché tutti i partiti e delle istituzioni locali e nazionali, di Confindustria e di plotoni di parlatori televisivi di centro-qualcosa non è riuscita a capovolgere la realtà: il passato è il preteso "sviluppo", la vantata modernità del mega-tunnel che distruggerebbe la valle; il futuro sta nelle azioni, nei progetti, nelle proposte dei valsusini che si oppongono a questa "grande opera", i No Tav.

Ieri, sulla Repubblica, Ilvo Diamanti ha scritto, a proposito dei referendum: «C'era nell'aria una domanda di valori... diversi da quelli propagandati dal "pensiero unico"», e, aggiungeva, in occasione dei referendum «è avvenuta "la scoperta del movimento"... una molteplicità di esperienze: diverse, diffuse e articolate». Chiediamoci quale sia il movente, anzi la cultura, che anima, in modo diffuso e articolato anch'essa, queste esperienze. E perché risulta che nel referendum le motivazioni "politiche", ossia dare una lezione a Berlusconi, e lo stesso quesito sul legittimo impedimento, fossero di gran lunga meno importanti, agli occhi di chi è andato a votare, dell'oggetto dei referendum: la tutela dell'acqua dalla privatizzazione e il rifiuto del nucleare. Ovvero, la ripulsa di due capisaldi di un modo - irrimediabilmente vecchio, ormai gravemente dannoso - di guardare alla vita della società. Un modo che, con uno stile e un linguaggio che i partiti e gli opinion maker cominciano a scoprire solo ora, la nuova società organizzata respinge - cambiando anche en passant i sindaci di grandi città e le percentuali di partecipazione ai voti referendari. I beni comuni non sono commerciabili, privatizzabili, sottoponibili alla logica inesorabile della massima profittabilità. E per conseguire questo scopo si deve creare una nuova forma della democrazia, dato che quella vecchia è ormai pienamente nelle mani di chi i beni comuni vuole a tutti i costi commerciare e privatizzare. Qui sta la frattura sempre più profonda tra i "rappresentanti" e i cittadini.

Questo "movimento" - più che altro un cambio progressivo di civilizzazione e di mentalità, di relazioni tra persone e dentro le comunità - non è "nuovo". Viene ora a compimento un processo iniziato alla fine del secolo scorso, che ha avuto le sue tappe nell'opposizione alle guerre - quella contro la Serbia e quella contro l'Iraq - e nelle manifestazioni come quella di Seattle, nei Forum sociali mondiali, nello zapatismo e nell'insorgenza indigena latinoamericana, nel grande movimento che a Genova, dieci anni fa, fu aggredito in modo feroce. E lo fu, come ora i valsusini, perché il potere ha perso la sua legittimità, qualcuno direbbe la sua egemonia: il suo discorso sullo "sviluppo" che certo costa ma che frutterà inevitabilmente benessere suona ora come una brutta favole in cui il lupo divora l'agnello. Perché nel frattempo l'espressione "beni comuni" si è allargata a tutta la vita della società: tale è l'acqua, tale l'energia, ma lo è anche il suolo, quello agricolo e quello urbano, lo sono l'aria e il paesaggio, il mutuo aiuto sociale (o welfare), bene comune è evitare che i sottoprodotti di un modo di vivere dissennato riempiano le strade come a Napoli, lo sono il lavoro (il buon lavoro utile alla società) e la stessa democrazia.

Di questo rinascimento, in fondo al tunnel di trent'anni di liberismo, ossia del capitalismo più cinico nei confronti del contesto sociale e ambientale, i cittadini della Val di Susa sono padri fondatori. La loro opposizione alla Tav è iniziata vent'anni fa, e in questo periodo hanno resistito ad ogni sorta di minaccia e di tentativi di corruzione, hanno argomentato e conquistato non solo la partecipazione dei loro concittadini ma la simpatia di chiunque, in Italia, si trovi alle prese con quel genere di "sviluppo", si tratti di un'ennesima autostrada, di un rigassificatore, di una speculazione fondiaria in città già esauste. I No Tav sono i fratelli della «molteplicità di esperienze» di cui parla Diamanti. Perciò nel 2005, quando le truppe di un altro ministro degli interni li invasero, furono decine di migliaia a migrare verso l'ultima valle in alto a sinistra, dove formarono un corteo lungo 80 mila persone e insieme ai valsusini si ripresero Venaus. Lo facevano per se stessi, non solo per solidarietà, e gettavano le fondamenta di quella bella casa comune che è il solo no sancito da un voto popolare, in tutto il mondo, al furto dell'acqua.

Ora risulta che la valle sia bloccata, che gli operai - chiamati dalla Fiom - siano in sciopero. Nonostante la conquista della Maddalena e il ridicolo atteggiamento da "veni, vidi, vici" di Maroni, quello che "fa casino" nella Lega nord. Sanno anche loro, Fassino, Marcegaglia e il capo della polizia ferroviaria di Torino, Spartaco Mortola, condannato per la "mattanza" alla Diaz e quindi promosso, che non si può fare un tunnel di quel genere contro un'intera popolazione. Vogliono solo mettere le mani su un po' di soldi europei e aprire un cantiere, fare qualche buco per terra e battersi il petto come gorilla soddisfatti. Lo stesso Castelli, quello che da ministro della giustizia visitò nel 2001 la caserma di Bolzaneto mentre i ragazzi venivano torturati, e non notò nulla di strano, e che ora dice che gli argomenti dei No Tav sono "tutte balle" (è il loro stile), ha dovuto ammettere, da viceministro alle infrastrutture, che il mega-tunnel è del tutto inutile, ai fini del traffico ferroviario, che piuttosto diminuisce. Ma sappiamo che è molto utile a imprese, a politici, alla mafia, ad arraffare denaro. E a spezzare le reni, colpendo i valsusini, a quelli che in tutto il paese pretendono di fare politica a modo loro, ad esempio umiliando la Lega a casa sua, a Milano.

Non sappiamo cosa decideranno di fare adesso i valsusini. Se chiameranno a una manifestazione, è probabile che sarà anche più grande di quella del 2005. Ma sarebbe un grande segnale se, come nel 2003 milioni di balconi furono decorati con i colori della pace, e come in primavera molte finestre esposero la bandiera blu dell'acqua, ora si producessero, distribuissero ed esponessero ovunque le bandiere bianche con la scritta rossa "No Tav", come si vede da anni in Val di Susa. È un'idea come un'altra: la fantasia non manca di sicuro, al movimento dei beni comuni.



Alla Maddalena la società dei beni comuni

di Ugo Mattei

Una bellissima serata estiva. Automobili parcheggiate in ordine su chilometri di strada tra Gravere e Chiomonte. Un serpente illuminato, lunghissimo, fiaccole in fila che procedono silenziose dal primo cancello della Libera Repubblica della Maddalena, fondata sui beni comuni, fino al campo base. Tende in bell'ordine, un'organizzazione attenta a ogni dettaglio. Una tenda con i medici, un presidio di avvocati, un'attenzione assoluta alla legalità formale e sostanziale. Il campo base regolarmente concesso dal Comune; regole condivise, attente al rispetto della natura. Nessuno può buttare per terra neppure un mozzicone spento. 5000, forse 8000 persone raccolte nella serata di domenica sera. Un palco allestito dal quale parlano intellettuali, artisti, sindacalisti, il leader di Rifondazione Paolo Ferrero, quello del Partito Comunista dei lavoratori Marco Ferrando, quello storico del movimento No Tav Alberto Perino, recentemente inquisito per reati d'opinione: autorevolissimo e rassicurante.

Viene letto un appello a fermarsi che avevamo messo insieme affannosamente nel pomeriggio (fra i firmatari anche due magistrati); viene portata la solidarietà dei compagni del Valle occupato, anche loro in lotta per un bene comune. Il popolo dei beni comuni, impegnato nelle battaglia contro lo scempio legale, sociale e politico della Tav, discute e condivide. C'è consapevolezza di essere dalla parte della ragione, tanto formale quanto sostanziale. La strategia di resistenza fondata sulla non violenza ma sulla fisicità "con la schiena dritta" è ribadita, ma non c'era neppure bisogno di farlo. È la conseguenza naturale della prosecuzione in Val Susa di quella lotta per la difesa dei beni comuni che implacabilmente sta cambiando gli assetti politici del nostro paese. I beni comuni sono concepibili soltanto in una logica ecologica, sono legittimati da un grande progetto costituente di lungo periodo, il solo che potrebbe salvare la vita sul pianeta. Questa logica collettiva, a differenza di quella individualizzante della proprietà privata e dello Stato sovrano, include e non esclude, diffonde il potere, sconfigge ogni sopraffazione.

Tutto è condivisione a Chiomonte. La Libera Repubblica della Maddalena è stata, e ancora sarà, una buona pratica globale di governo locale dei beni comuni. Alla Maddalena c'era la parte migliore dell'Italia, quella che sconfiggerà un modello di sviluppo scellerato, imposto senza alternative da un pensiero unico bipartisan. Il potere se ne accorge. Ha paura perché vede messa in discussione la sua legittimità formale e sostanziale. Per questo risponde con la violenza dei suoi blindati, dei suoi lacrimogeni, dei suoi arresti. Il potere (di maggioranza e opposizione parlamentare) sa di essere oggi privo del sostegno politico della maggior parte del paese.

Tutti quei temi referendari che solo due settimane fa si sono rivelati maggioritari nel paese sono declinati, come in un minilaboratorio, in Val di Susa. Negli scorsi mesi la resistenza di fronte all'implacabile tenaglia dell'alleanza fra Stato e capitale privato, che produce saccheggio in nome della legalità, ha reso naturalmente coerenti (e vincenti) la battaglia per l'acqua e quella contro il nucleare. Oggi si tratta di far capire a tutto il paese che quello stesso scontro, con tutti gli stessi protagonisti sull'uno e sull'altro fronte, è in corso intorno alla Tav, un nuovo grande progetto di saccheggio. Farlo capire è difficile ora come allora, perché il blocco mediatico oscura la verità, confonde la ragione e il torto, asserisce falsità con la stessa violenza fascista (le cose vanno chiamate col loro nome) con la quale migliaia di uomini armati ed equipaggiati di tutto punto hanno brutalizzato, nelle prime ore del mattino, quella mirabile simbiosi fra uomo e territorio che è la Libera Repubblica della Maddalena. Da oggi questo territorio, questo primo esperimento di "Società dei beni comuni" è occupato illegalmente, governato dalla logica brutale della sopraffazione sull'uomo e sulla natura. La lotta sembra impari. Anche il referendum sull'acqua sembrava una battaglia impossibile da vincere.

É opportuno ricordare che il movimento No Tav non si batte solo (con altissima civiltà e competenza) per la salvezza della valle, ma anche contro un’opera che, al di là della retorica di cui la maggioranza dei potenti (della politica, dell’economia e della comunicazione) la ammanta, è inutile, dannosa e costosa per il bilancio pubblico (cioè per i cittadini). Rinviamo ai molti articoli in questa cartella che dimostrano come e perché quell’opera è una truffa. Per esempio, Che siate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga, oppure volete sapere perchè L'analisi costi-benefici boccia la Torino - Lione, oppure volete sentire il parere del prof. Marco Ponti che vi racconta perchà I costi dell'alta velocità corrono più dei treni. E per venire ai più recenti, ancora il parere di Marco Ponti, e i numeri ricordati da Luca Mercalli

Grande è il disordine sotto il nostro cielo. Due mesi di consultazioni - elezioni amministrative e referendum - hanno rivelato un cambiamento profondo nel clima d´opinione. Ma non è ancora chiaro come e perché sia avvenuto. I dati dell´Atlante Politico, raccolti da Demos nel sondaggio condotto nei giorni scorsi, offrono al proposito molte indicazioni. Utili a decifrare i motori della svolta elettorale - e politica - di questa fase. 


1. La prima causa è la delusione. Nei confronti del governo, di Berlusconi, ma anche della Lega. Il giudizio sul governo non è mai stato così negativo, da quando è in carica. Come, d´altronde, quello su Berlusconi. Apprezzato dal 26% degli elettori. Quasi 10 punti in meno rispetto a sei mesi fa. Perfino Bossi lo supera, seppur di poco. Tuttavia, i suoi elettori sono insoddisfatti. Tanto che, tra i motivi della partecipazione al referendum, i leghisti indicano la volontà di "punire il (loro) governo" in misura maggiore rispetto a tutti gli altri elettorati (43%; 10 punti in più della media generale). D´altronde, non è un caso che il leader più apprezzato sia Tremonti. Cioè: l´alternativa a Berlusconi. 


2. La "delusione" verso il governo si riflette negli orientamenti elettorali. Il Pdl, infatti, è superato dal PD. In generale, peraltro, il vantaggio dei partiti di Centrosinistra su quelli della Maggioranza supera ormai i 7 punti. D´altronde, Bossi l´ha detto chiaramente, a Pontida. Se si votasse oggi, la Sinistra vincerebbe. Per cui conviene "resistere". Asserragliati nel Palazzo. 


3. Tuttavia, il cambiamento del clima d´opinione ha altre ragioni, oltre la delusione. Anzitutto, la voglia di partecipazione, che ha spinto quasi il 60% degli elettori a votare, in occasione del referendum. Nonostante l´indifferenza o l´ostilità dei partiti di maggioranza. Nonostante il silenzio di MediaRai. O forse proprio per questo. D´altra parte, ha votato oltre un quarto degli elettori del PdL, ma quasi metà (il 42%, per la precisione) di quelli della Lega. Un orientamento favorito dall´emergere di nuove domande e nuovi valori. Il quesito relativo al "legittimo impedimento" risulta, infatti, il meno importante, secondo l´opinione degli elettori. Scelto dal 13% dei votanti (intervistati da Demos). Molto più larga la componente di quanti attribuiscono maggiore significato ai quesiti sul "nucleare" e sulla "privatizzazione dell´acqua". Segno che la mobilitazione ha intercettato sentimenti che vanno ben oltre l´antiberlusconismo. C´era nell´aria una domanda di valori (e anche "timori") diversi da quelli propagati dal "pensiero unico" del nostro tempo. Il referendum ha fornito loro l´occasione di "rivelarsi" ed esprimersi.


4. Tuttavia, il clima d´opinione non cambia da solo. Non bastano la "delusione" e le "nuove paure" - relative all´ambiente, alla salute, al lavoro - a modificarlo. Ci vogliono nuovi "attori", in grado di ri-scrivere l´agenda pubblica. Imponendo all´attenzione dei cittadini nuovi temi.
Ciò è avvenuto in occasione del referendum - e prima delle amministrative. In questo esatto momento è avvenuta la "scoperta del movimento". Formula semplice e un po´ semplificatoria, attraverso cui si è cercato di definire la mobilitazione sociale - inattesa - alle amministrative e ai referendum. In effetti, non di "un" movimento, si tratta. Ma di una molteplicità di esperienze: diverse, diffuse e articolate. Nella società e sul territorio. Hanno agito e scavato per - e da - molto tempo, in modo carsico. Oltrepassando l´area tradizionalmente "impegnata", prevalentemente composta da uomini, di età matura.

I dati dell´Atlante politico di Demos tratteggiano, al proposito, una radiografia piuttosto precisa e chiara. Diversa dalla tradizione. Proviamo a ricostruirla, risalendo (o ri-scendendo), un ramo dopo l´altro, "l´albero della partecipazione".
a) Se il 57% degli elettori italiani ha votato al referendum, il 16% ha fatto campagna elettorale. Oltre un quarto dei votanti. Tanti, se si pensa agli stereotipi che vorrebbero la società amorfa e conformista. 
b) In secondo luogo: quasi il 60% di chi ha partecipato alla campagna elettorale (il 9% dell´elettorato) non l´aveva mai fatto prima. Si tratta di una partecipazione "nuova", caratterizzata da componenti sociali tradizionalmente periferiche, rispetto all´impegno politico. In primo luogo e in particolare, le donne e i giovani. Un terzo dei "nuovi" impegnati, infatti, ha meno di trent´anni. Una misura doppia rispetto a quel che si osserva nell´ambito degli impegnati di "lungo corso". Parallelamente, nell´area della "nuova" partecipazione appare molto ampio il contributo degli studenti - ma anche degli operai. La partecipazione "tradizionale", invece, è ancora animata da pensionati e impiegati pubblici.
c) Quanto alle modalità e ai canali di partecipazione, solo il 18% circa delle persone impegnate in campagna elettorale ha adottato modelli di "militanza" esclusivamente tradizionali. Partecipando a comizi, manifestazioni, distribuendo volantini, ecc. 
Metà di coloro che si sono impegnati nel referendum, invece, ha praticato una sorta di "campagna leggera". Realizzata attraverso contatti personali. Con amici, genitori, nonni, zii, cugini. Parenti e conoscenti. Infine, la rimanente parte dei cittadini impegnati (circa un terzo) ha seguito un modello "reticolare". Ha, cioè, utilizzato le nuove tecnologie della comunicazione e in particolare la Rete. 
Si tratta di due modelli altrettanto importanti. Il primo perché penetra nelle pieghe della vita quotidiana. Plasma il senso comune. Coinvolge persone altrimenti escluse dai messaggi politici. L´altro modello, invece, sfida la - e si sottrae alla - comunicazione tradizionale. In particolare, al/la televisione e a/i suoi padroni. Pubblici e privati. 
Entrambe queste modalità di partecipazione, peraltro, sono poco visibili. E per questo non sono state colte per tempo. 
I "nuovi" protagonisti dell´impegno politico - donne, giovani e studenti - si sono caratterizzati per un elevatissimo utilizzo del modello "reticolare". 


5. Quelli che hanno votato al referendum, quelli che si sono impegnati per militanza consolidata o per la prima volta. Hanno un orientamento politico trasversale. Prevalentemente di Centrosinistra. Ma molti di essi sono di Centro e di Destra. Oppure incerti e disillusi. Canalizzarne il consenso: non sarà facile per nessuno. Non può venire dato per scontato da nessuno. Neppure nel Centrosinistra. Dove si sono già accese le liti e le dispute - partigiane e personali. Per contendere il "nuovo" clima d´opinione. Per intercettare le molecole della "nuova" partecipazione. Largamente inattesa e invisibile. Anche a Centrosinistra

Di Pietro dice a Bersani di darsi una mossa e convocarvi. E a voi di Sel, Vendola, di non anteporre le primarie al programma.

Non mi piace l'atteggiamento di chi ha sempre addosso una toga e un dito puntato. Propongo a tutti una clausola di stile: evitiamo gli effetti speciali. Capisco il problema di Di Pietro: vede esaurito lo spazio della rincorsa a sinistra. E sceglie di ricollocarsi come ala destra del centrosinistra. In sostanza torna al moderatismo radicale delle origini. Intendiamoci, non è trasformismo, solo un riposizionamento. Ma è inaccettabile il modo: offre un argomento formidabile a una maggioranza allo sbando, attacca Bersani e me dicendo che non c'è l'alternativa. E propone il tema del programma nella forma più vecchia e politicistica: lui, io e il leader Pd dovremmo riunirci in una stanza per scrivere il libro del futuro?

Non ci sta?

Ma sarebbe capovolgere il significato di quello che è accaduto in Italia nelle ultime settimane. Sottrarre alla partecipazione democratica, a quel diritto di ingerenza che ha scompaginato i giochi ai referendum, l'oggetto vero del cambiamento, e cioè le scelte che devono riguardare la vita, il lavoro, la scuola, l'ambiente, la parità di genere. Facendo leva su un punto vero, il ritardo di tutti noi a mettere in campo quel processo e quel cantiere oggi maturi.

Ecco, nel merito l'ex pm ha ragione.

Non se riduce l'alternativa a un problema di agreement fra stati maggiori.

Quando invece chiedete primarie di programma che proponete nei fatti?

Faccio un esempio che mi riguarda: se nelle primarie pugliesi avesse vinto Francesco Boccia (deputato Pd, due volte sconfitto da Vendola, ndr) il più grande acquedotto d'Europa, il nostro, sarebbe stato privatizzato. Era immaginabile decidere del sì o no alla privatizzazione in un incontro riservato del centrosinistra? Invece ha deciso il popolo. E per piacere, non facciamo un'inutile disputa nominalistica sulla nozione di popolo. Ma il Pd alla direzione di oggi (ieri, ndr) ha fatto scelte importanti. Ha superato il dibattito su primarie sì o no, oggi siamo al come e al quando. E se posso dire una cosa a Bersani sul come, più vasta è la platea più rappresentano il cambiamento.

Insisto: in concreto cosa sono le primarie sul programma?

Nella contesa bella, spero, incassiamo le convergenze, penso alla tassazione delle rendite, e discutiamo alla luce del sole sui punti di divergenza. Per esempio di cosa significa fuoriuscire dal contratto nazionale con il rischio di far schiantare la condizione di lavoratrici e lavoratori. Di questi temi, ormai liberi da ipoteche ideologiche, non è forse giusto parlare dentro la piazza, perché la politica non sia un discorso calato dall'alto?

Parlate di una nuova sinistra unitaria, ma Bersani non risponde.

Il popolo del centrosinistra è mescolato, arricchito dalle competenze e dalle passioni di tanti senza tessere in tasca. La politica non si esaurisce nel recinto dei partiti. E la forza di alcune questioni, sottovalutate anche dal centrosinistra, è evocare una nuova fondazione della res publica, la trama dei beni comuni, il primato dell'interesse collettivo, un'idea forte di socialità.

Non è rischioso convocare i gazebo prima di sapere quando si vota?

Ormai è possibile mettere le primarie in calendario. Senza paura del confronto tra noi. Non ho la sindrome del vampiro, non ho l'ossessione di erodere consensi al Pd. Ho lavorato a costruire un soggetto politico il cui obiettivo non fosse l'autosufficienza. E lo stile non fosse la boria di partito.

Lei definisce Sinistra ecologia libertà 'movimento', non partito. Non a tutti piace, in Sel.

Movimento è più importante, comprende il partito, ma più tante altre cose. Bisogna essere laici, non avere atteggiamenti feticistici verso i luoghi che costruiamo. Sono solo strumenti.

Ma se non chiedete un tavolo dei leader, dove dovranno essere decise le primarie e il programma?

Non dico che gli incontri fra noi non siano importanti. Ma dobbiamo dare segnali all'altezza dell'attesa che si è creata nel paese. Si tratta di costruire anche momenti simbolici.

Come si immagina questi 'momenti' simbolici?

Non voglio immaginare niente, non mi interessa avere il copyright di nulla. Tanta Italia ci guarda con molta speranza e qualche ansia. Dobbiamo interrogarla, continuare a farla sentire protagonista, chiederle di aiutarci a scrivere l'agenda del cambiamento. Faccio un esempio: le mobilitazioni nella scuola, nell'università, nella cultura hanno squadernato una straordinaria dimensione di competenze a cui è indispensabile attingere. Oppure: ora tutti si accorgono di quanto sia catastrofica la dimensione della precarietà. Il mondo dei precari racconta storie, propone scelte. Vogliamo ascoltarli? Ho in testa la stagione milanese: una riappropriazione della politica come dello strumento che ti fa capire dove siamo finiti. Il berlusconismo è stato la più grave forma di privatizzazione della politica. Gramsci avrebbe detto 'rivoluzione passiva'. Il centrosinistra non può che essere il contrario della passivizzazione.

Questa piazza comune include la Federazione della sinistra? Loro temono che vogliate tenerli fuori.

Figuriamoci se è mia intenzione escluderli. Sono io oggetto di un atteggiamento schizofrenico: un giorno la proposta unitaria, un altro la contumelia. Mi piacerebbe tornare a discutere con loro. Vedo che anche nel dibattito interno si sollevano critiche alla marginalità e all'orgoglioso sconfittismo a cui sembrano candidarsi. Per quanto mi riguarda, chi declina la radicalità in termini di minoritarismo non sta sulla mia strada. Detto questo, lotterò perché non ci siano esclusioni a sinistra. Ma il tema è l'autoesclusione di chi considera il terreno del governo come una sorta di perdizione e quello dell'opposizione una salvazione.

Non le dispiace essere considerato un populista di sinistra?

Se posso fare la parte del vanitoso, no. Faccio tendenza. Le espressioni che ho inventato, dalla «rivoluzione gentile» all'«Italia migliore», alla «narrazione», sono state imitate e emulate. Ma lascerei correre questa discussione stucchevole. Oggi (ieri, ndr) Massimo Mucchetti, economista rigoroso, elogia sul Corriere della sera il lavoro del presidente Vendola sull'acquedotto pugliese. Ecco cosa intendo: sento il dovere di sottrarmi alla scorciatoia della bella sconfitta. Siamo chiamati a organizzare la speranza e a trasformarla in un blocco sociale, una nuova egemonia culturale.

La crisi greca rappresenta in modo impietoso come il sistema finanziario di fatto governi ormai la Ue mediante i suoi bracci operativi: la Commissione europea, il Fmi e la Bce. I governi eletti dal popolo hanno scelto da tempo di fungere da rimorchio al sistema finanziario. Avrebbero dovuto riformarlo dopo l´esplosione della crisi nell´autunno del 2008, quando, con le parole del ministro tedesco dell´economia di allora, Peer Steinbruck, «abbiamo visto il fondo dell´abisso». È vero che a Bruxelles si discute da due anni di riforme finanziarie, ma dinanzi alla natura ed alle dimensioni del problema si tratta del solito secchiello per vuotare il mare.

Non avendo riformato il sistema finanziario, ed avendolo anzi aiutato a diventare più potente di prima, i governi Ue si trovano ora esposti alle sue pretese. Giusto come è avvenuto negli Stati Uniti. Al momento esso pretende siano salvate le banche dalla crisi del debito greco, in vista di altre richieste analoghe che nei prossimi mesi potrebbero riguardare il Portogallo, la Spagna, l´Italia. Fedeli al loro ruolo di organi democraticamente eletti che non vedono alternative se non quella di soggiacere al dettato di organi mai eletti da nessuno, quali sono la Ce, la Bce e l´Fmi , i governi Ue sono unanimi nell´esigere dalla Grecia di ridurre drasticamente il suo debito pubblico. Ha vissuto al disopra dei suoi mezzi, affermano, e ora deve imboccare un severo percorso di austerità. Come sia formato tale percorso lo sanno tutti, anche perché è lo stesso che quasi tutti i governi Ue, compreso quello italiano, stanno proponendo ai loro cittadini: tagliare i salari, le pensioni, la sanità, la scuola; privatizzare tutto, i trasporti, le spiagge, i servizi collettivi, le isole, i porti, e perché no, il Partenone.

Ciò che si tace in merito alla crisi greca è che le sue cause non sono quelle di solito addotte; che i rimedi finora proposti in sede Ue sono peggiori del male; e che la paralisi politica cui è stato ridotto il governo greco, privato della possibilità di decidere alcunché in tema di politica economica, costituisce uno svilimento della democrazia di importanza mondiale. Innanzitutto la causa prima dell´elevato debito pubblico non risiede affatto in un eccesso di spesa sociale, bensì in un flusso troppo ridotto di entrate fiscali, imputabile a un alto tasso di evasione durato parecchi anni. Adesso il governo greco, pressato dalla Ue, chiede ai pensionati, ai lavoratori, agli insegnanti, agli impiegati pubblici, di restituire al bilancio dello stato i miliardi di euro, in moneta attuale, sottratti col tempo ad esso da una minoranza che percepisce un reddito centinaia di volte superiore al loro. Dopo averli pure incolpati – il governo tedesco per primo – di lavorare poco, andare in pensione prima degli altri cittadini Ue, percepire pensioni d´oro, fare troppe ferie: laddove tutti i dati disponibili, per chi voglia appena informarsi, attestano che si tratta di affermazioni false.

Ma a quanto ammonta realmente il debito pubblico della Grecia, di cui si dice che potrebbe far saltare l´intera zona euro? Si tratta di 350 miliardi di euro. È certo una bella somma. La quale però rappresenta soltanto il 3,7% del Pil dell´intera zona euro, esclusa quindi una grande economia come il Regno Unito. Non soltanto: il 43% di tale debito è in mano a creditori greci, che per metà sono banche. Dal totale vanno ancora tolti 7 miliardi di debiti verso gli Usa, 3 verso la Svizzera, circa 2 nei confronti del Giappone. Il debito greco verso la Ue (banche e stati compresi) consistente soprattutto in obbligazioni e altri titoli, ammonta dunque a meno di 190 miliardi di euro, di cui circa 35 sono dovuti alla Bce. Ora, dal 2008 ad oggi i Paesi Ue, a parte la Svizzera, hanno speso o accantonato oltre 3.000 miliardi di euro (tre trilioni) per salvare le proprie istituzioni finanziarie. Ed ora davvero tremano perché un´economia tutto sommato periferica è in difficoltà per ripagare, a rate, poco più del 6% di tale somma? Il y a quelque chose qui cloche, dicono i francesi, qualcosa che non va nell´intera faccenda.

Le cose che non vanno sono principalmente due. La crisi greca è in primo luogo un´anteprima di quel che potrebbe succedere ad altri Paesi, Italia compresa, se i governi Ue non la smettono di subire le manovre del sistema finanziario, ivi comprese le agenzie di valutazione, e non provano sul serio a regolarlo, anche per evitare che ci piombi addosso tra breve una crisi peggiore di quella del 2008. Lo scenario comprende com´è ovvio il rinnovo potenziato di manovre speculative che i maggiori gruppi finanziari costruiscono scientemente per estrarne il maggior profitto possibile in forma di interessi e plusvalenze; il che implica, come insegnano i modelli di gestione del rischio, il far correre un rischio elevato non già ai gruppi stessi, bensì ai cittadini oggi greci, domani spagnoli o italiani. Ma comprende anche una spinta selvaggia alle privatizzazioni, che essendo condotte sotto la sferza della troika Ce, Fmi e Bce, consisteranno al caso in vere e proprie svendite di immensi patrimoni nazionali. L´Italia, dopotutto, ha ottomila chilometri di coste e centinaia di isole da mettere all´asta, più il Colosseo e magari l´intera Venezia; altro che la Grecia.

Una seconda cosa che non va è la Bce. Il suo limite fondamentale, imposto dal trattato istitutivo della Ue, sta nell´avere come massimo scopo statutario la stabilità dei prezzi, ossia la difesa dall´inflazione. Ciò spiega in parte la lentezza e la goffaggine con cui si è mossa a fronte della crisi greca. Ma un simile limite equivale a decidere per legge, poniamo, che il pronto soccorso del maggior ospedale cittadino si occupa soltanto di lesioni alla gamba sinistra. Le altre due banche centrali dell´Occidente, la Banca d´Inghilterra e la Fed, hanno tra i loro scopi statutari anche lo sviluppo e la crescita dell´occupazione. Scopi che perseguono pure creando esplicitamente nuovo denaro: una funzione fondamentale che gli stati Ue hanno ceduto alla Bce, ma che questa non sembra voler esercitare come, dove e quando più ne avrebbero bisogno. Per questo motivo nella Ue cominciano a moltiplicarsi le voci favorevoli a un ampliamento degli scopi statutari della Bce. La crisi greca potrebbe essere una buona occasione per passare dalle voci all´azione. Sempre che i governi non temano di disturbare la macchina di cui sono per ora a rimorchio

Un potere ormai terrorizzato da se stesso, dagli scandali che mettono a nudo la sua debolezza, dal consenso in fuga, decide di alzare il ponte levatoio e chiudersi nel Palazzo assediato, separandosi dai cittadini. È questa la vera ragione della legge bavaglio che per la seconda volta Berlusconi vuole calare sulla stampa e sulle inchieste con la cancellazione delle intercettazioni telefoniche, impedendo ai magistrati di indagare sul crimine e ai cittadini di conoscere, di capire e di giudicare.

È un´altra legge ad personam, costruita per proteggere il vertice del governo dall´inchiesta sulla P4, che infatti ieri il ministro Alfano ha attaccato come "irrilevante", dimenticandosi di essere Guardasigilli: perché l´inchiesta svela il malaffare di una centrale governativa di potere occulto e piduista per condizionare le istituzioni, l´economia e la Rai, minacciando, promettendo e proteggendo.

Un potere indebito, di fronte al quale si genuflettono incredibilmente ministri, grand commis e uomini di un falso establishment tarlato, incapace di autonomia e di dignità, valvassori che chiedono insieme protezione e libertà di saccheggio. Ma questa deviazione – ecco il punto – nasce nel cuore del berlusconismo, e riporta al vertice del governo, per conto del quale si promettono nomine, si minaccia fango, si imbandiscono affari. È questo che gli italiani non devono sapere. Dunque, legge bavaglio bis: i magistrati non potranno perseguire i reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili. I cittadini potranno conoscere le notizie sui crimini nella misura che il governo vorrà.

Con ogni evidenza è un problema di democrazia, che riguarda tutti. Già una volta l´opinione pubblica ha bloccato il bavaglio, con la battaglia del post-it. Lo farà ancora, perché l´Italia di oggi non può accettare un abuso sui doveri dello Stato, sui diritti dei cittadini, sulla libertà.

Le urne referendarie hanno sancito la nascita di un nuovo blocco sociale che sostiene un'idea di riforme opposta a quella che sostengono i partiti. Ma nel dibattito pubblico predomina ancora la vecchia politica

Brutte nubi si addensano sulla democrazia italiana. I rappresentanti del blocco sociale perdente a Napoli, Milano e soprattutto ai referendum fingono di non aver capito la lezione. La maggioranza parlamentare, sconfitta sonoramente alle urne, si arrocca intorno al Decreto Sviluppo che "passa" largamente, nonostante l'evidente fibrillazione politica di questi giorni. Bossi, che non sembra azzeccare più un colpo, potrebbe aver mollato il ministro dell'Economia, cosa che, per fortuna, dovrebbe mettere in soffitta l'ipotesiincubo ventilata da Ida Dominijanni su questo giornale, ossia di un Tremonti a maggioranza alternativa «tutti tranne Berlusconi» per «fare le riforme» alla greca (cioè dissanguare il popolo) prima del voto. La distorsione tipica di una democrazia rappresentativa che non rappresenta si presenta così in Italia come un caso di scuola. Il governo (ma direi in realtà la classe politica), quanto mai debole nel paese, si rafforza in Parlamento anche perché l'opposizione non ha alcuna voglia di mantenere alta la pressione. Per questo dobbiamo dire chiaro e forte che ad arroccarsi non è la maggioranza ma il "blocco sociale" sconfitto, fatto di uomini, figli della "fine della storia" che portano avanti un'idea di riforme ormai bocciata dalla maggioranza del paese.

Il "riformismo" dei Draghi, dei Catricalà e dei Bersani (ma ovviamente la lista è lunga e cito qui solo chi ha più rumorosamente esternato in questi giorni) di cui straparlano pure sovente gli sbracati esponenti della classe politica al governo, altro non è che la promozione ideologica di una politica reazionaria al servizio del più forte (la politica della crescita), di cui Confindustria ed i suoi sindacati gialli si illudono di poter essere i principali beneficiari. Il riformismo che liberalizzando privatizza, che flessibilizzando precarizza, che modernizzando scempia il territorio, è stato bocciato dalla maggioranza assoluta degli italiani al referendum. Si è costituito il 13 giugno un nuovo blocco sociale che genuinamente condivide preoccupazioni di lungo periodo e che sostiene un'idea di riforme radicalmente opposta a quella che ancora inquina il nostro dibattito pubblico ed i suoi stanchi protagonisti.

È un riformismo, quello emerso dai referendum, che vuole ridurre le diseguaglianze, ripensare il rapporto fra pubblico e privato in modo meno sbilanciato a favore di quest'ultimo, affrontare davvero le cause della crisi che ha determinato la fine della "fine della storia". Questo riformismo nuovo, maggioritario nel paese, gradualistico nel senso di Treves e di Salvemini, ha oggi un obiettivo diverso rispetto all'edificazione del socialismo: il suo obiettivo è contribuire alla salvezza rispetto all'imminente catastrofe ecologica, affrontando finalmente i nodi seri relativi all'organizzazione di una democrazia industriale complessa (seppur semiperiferica come l'Italia), che non può più sostenere il ricatto del complesso finanziario-militare. Questi sono temi e problemi che l'Italia condivide non certo solo con Spagna e Grecia ma con tutto il mondo industrializzato. Il nuovo blocco sociale riformista, che mette al primo posto la riduzione della diseguaglianza, vuole finalmente affrontare questi problemi e non nasconderli sotto il tappeto, passando tempo a cincischiare col folklore di Pontida.

Per chi si fa e si è fatto interprete di questo blocco sociale durante la campagna referendaria in cui così tante persone hanno potuto finalmente aprirsi e discutere di politica, è assai grave che la sola cosa sensata uscita da Pontida, ossia l'impossibilità di affrontare la crisi sociale se si continua a spendere denaro per la guerra, sia stata rintuzzata da Napolitano con la solidarietà piena di tutto il Pd. Uscire dalla dipendenza (tossica) da un modello di sviluppo fondato su guerre del tutto fini a se stesse ( se non direttamente predatorie) non può che essere la priorità indiscussa del nuovo riformismo uscito dalle urne referendarie. Quella è la strada principale per sanare i conti, tracciando al contempo un grande piano pubblico di cura del territorio, della natura, della qualità della vita di tutti fondato sulla valorizzazione dei beni comuni e sul recupero di un po' di etica pubblica.

I partiti, tutti quanti, si facciano una ragione che questo è il messaggio chiaro e forte uscito dalle urne! Un messaggio che certo premia i movimenti ma che adesso deve essere interpretato politicamente con una visione alta, riformista nel senso nuovo del termine capace di dare vera voce e soggettività politica al nuovo blocco sociale. Invece il Decreto sviluppo contiene l'Agenzia per l'acqua, un'idea bocciata dal popolo sovrano. Il Pd fa eco, riproponendo quella sua bruttissima legge sull'acqua che era stata proposta per pura iattanza all'inizio della raccolta delle firme e che, con il Decreto sviluppo, condivide la filosofia di fondo dello Stato regolatore. Ma l'idea di Stato regolatore che non agisce direttamente nell'economia e che si limita a dettare le regole per la concorrenza fra privati è stata spazzata dal referendum, dopo essere stata indebolita perfino in Europa dal Trattato di Lisbona. Il settore pubblico rafforzato , ristrutturato e democratizzato deve tornare a "fare" e a "saper fare": questo ha chiesto il popolo dei beni comuni.

Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: il privato e la logica aziendalistica e finanziaria di breve periodo che necessariamente lo pervade non è la soluzione. Molto spesso, sempre nelle ipotesi di monopolio naturale come l'acqua, esso è il vero problema cui oggi tutti insieme dobbiamo far fronte. Il Pd ci dica chiaramente se vuole interpretare questa nuova visione o se resta legato alle lenzuolate bersaniane e agli estremismi della Lanzillotta. E se sta da questa parte, e vuole farsi interprete dell'esito referendario, si batta piuttosto per mettere all'ordine del giorno il disegno di legge riforma dei beni pubblici della Commissione Rodotà, che dà senso giuridico ai beni comuni e che giace da oltre un anno in Senato con Finocchiaro e Casson primi firmatari.

A dieci giorni dal referendum il connubio letale fra profitto (sperato) e rendita (certa), che determina il nostro sviluppo insostenibile fondato sulla religione della crescita, seguita a tenere in campo i suoi ventriloqui bipartisan. Si fa finta di niente e si ripete che, dopo il referendum, esiste la possibilità di scegliere fra pubblico, privato o misto. Finiamola prima che sia troppo tardi! Dopo il referendum c'è una sola via legittima: quella dei beni comuni che sono incompatibili con profitto e rendita. Il popolo sovrano rivuole tanto il rispetto democratico della sua chiara volontà quanto, nell'immediato, il 7% che sta pagando sulle sulle bollette idriche che da ormai 10 giorni costituisce un illecito bottino. Gli italiani votando in massa hanno difeso oltre all'acqua anche il referendum e la loro sovranità diretta. Se non vedranno subito l'esito in bolletta né avranno spiegazioni immediate e credibili su come quei soldi verranno spesi nel loro interesse, sapranno studiare le mosse e riprendersi direttamente quel denaro per spenderlo a favore del futuro di tutti. Poi ci riprenderemo anche la democrazia!

MAN mano che si moltiplicano crisi e bancarotte degli Stati, crescono in Europa le rivolte degli indignati: in Grecia, Spagna, anche in Italia dove il tracollo è per ora solo temuto. I governi tendono a vedere il lato oscuro delle rivolte: il faticoso riconoscimento della realtà, la rabbia quasi cieca. Ma la cecità spiega in piccola parte una ribellione che ha come bersaglio non solo i contenuti, ma le forme di comportamento (dunque l´etica) dei governi: l´abitudine a una vista sempre corta, abbarbicata al prossimo voto o sondaggio; la vocazione a nascondere conti squassati. A non dire la verità su immigrazione o deficit, ad accusare i giornali, le Banche centrali, l´Europa: tutti sospettati di spandere brutte notizie.

L´Italia in questo è all´avamposto. Da quando è tornato al governo, Berlusconi ripete lo stesso ritornello: lo squasso è nelle vostre teste disfattiste, noi ce la facciamo meglio di tanti paesi virtuosi. Lunedì ha detto d´un tratto, ai microfoni: «La crisi non è finita». Non ne aveva mai annunciato l´inizio. Come si spiega l´allarme dei mercati sulla nostra economia e sulla paralisi governativa, se le cose andavano nel migliore dei modi? Il governo se lo spiega probabilmente con le gag del ministro Brunetta: se milioni di precari sono «l´Italia peggiore», vuol dire che c´è del marcio in chi soffre la crisi invece di creare ricchezza.

Non dimentichiamo che una delle iniziative più trascinanti degli indignados spagnoli concerne l´informazione. L´ha presa Antòn Losada, professore di Scienze politiche, e s´intitola "Sinpreguntasnocobertura" (senza domande niente copertura). Migliaia di giornalisti hanno aderito. Se una conferenza stampa non ammette quesiti scomodi sarà boicottata, e il potere resterà solo con i suoi barcollanti giuramenti. È segno che nelle rivolte c´è una domanda, possente, di verità e giustizia. Alla crisi non si risponde solo imponendo la cinghia più stretta, e instillando nel popolo paure incongrue. Si risponde con la trasparenza d´informazioni: sulle tasse che non si possono abbassare, sul calo demografico che solo l´immigrazione frenerà, sugli ingredienti della crescita che sono la giustizia, la legalità, il merito, il prezzo che possono pagare i più fortunati e ricchi.

Alle rivolte generate dalla crisi, i governanti italiani reagiscono con tagli che colpiscono tutti indiscriminatamente, e soprattutto con false promesse. Tremonti stesso, oggi considerato uomo del rigore, ha mal tollerato lungo gli anni i moniti della Banca d´Italia, permettendo che nella Lega e nella destra montasse l´irresponsabilità. In un editoriale di mercoledì sul giornale greco Kathimerini, il direttore Nikos Konstandaras parla del «fascino impossibile della solitudine»: è l´illusione che la crisi non scoppierà, se gli Stati chiudono gli occhi all´Europa, al mondo, ai mercati. Certo, i mercati sono strane bestie: possono scatenarsi istericamente - hanno sete di sangue - e in questo non sono molto diversi dai militanti leghisti che reclamano meno tasse e secessione (verso quale paese del balocchi, dove non ti chiedono nulla ed è sempre domenica?). Hanno la vista corta, ma non anticipano del tutto a casaccio le catastrofi: scattano foto istantanee di governi istantanei, e ne traggono conclusioni. Accanto all´urna elettorale, sono un nostro secondo tribunale. Saranno loro, se non lo fanno altri, ad «aprire la crisi»: quella vera, che screditerà Berlusconi, che sfiderà anche l´opposizione, e metterà a nudo la presente non-politica italiana.

Giacché non è politica nascondersi, fingersi Stati sovrani che decidono da soli, ignorare l´esistenza di uno spazio pubblico europeo verso cui siamo responsabili come verso la nazione. Esiste ormai una res publica che oltrepassa i nostri confini, che ha sue regole, e i cui dirigenti non sono emanazioni dei governi ma rispondono a geografie più vaste. Valga come esempio la nomina di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea. Una scelta ineccepibile, ma fatta nella più sgangherata e vecchia delle maniere. In cambio della nomina, Sarkozy ha chiesto che venisse liberato un posto per Parigi nell´esecutivo Bce e Berlusconi gli ha dato la testa di Lorenzo Bini Smaghi, come se quest´ultimo fosse un suo uomo, non un dirigente dell´Unione. Il mandato di Bini Smaghi, prescelto nel 2005 per otto anni, scade il 31-5-2013 e non può esser revocato né da Stati né da accordi tra Stati. Non è uno schiaffo a lui, ma alle istituzioni europee verso cui va la sua lealtà. Il caso crea peraltro un precedente ominoso: ogni governo potrà decidere da ora in poi di sottrarre mandati e regole alla giurisdizione europea.

La reazione di Bini Smaghi è stata rigorosa, da questo punto di vista. In un discorso tenuto in Vaticano su etica e affari, il 16 giugno, ha spiegato la ferita alle istituzioni europee con parole chiare e vere: «Non è un caso che i banchieri centrali abbiano adottato come loro protettore San Tommaso Moro, che con la sua indipendenza di giudizio e la ferma convinzione nella supremazia dell´interesse pubblico riuscì a resistere alle pressioni del Re Enrico VIII, del quale era stato il più stretto consigliere (...) fino ad essere costretto alle dimissioni, incarcerato e condannato a morte». Tommaso Moro volle servire Dio piuttosto che il re cui prima sottostava. L´interesse pubblico cui allude Bini Smaghi è quello, superiore agli Stati, dell´Unione: è solo quest´ultima a poterlo «dimettere». La violazione del Trattato di Maastricht, giustificata con la presunta «regola non scritta tra gli Stati», è palese. Anche Mario Monti, ex commissario europeo, ha mostrato irritazione: il governo, ha detto domenica a Lucia Annunziata, si è comportato in modo «dilettantesco» e «paradossale», disponendo di Bini Smaghi come di una propria pedina («Le decisioni spettano a Bini Smaghi e alla sua coscienza. È sbagliato aspettarsi giuridicamente e moralmente che avrebbe dato le dimissioni, se non si è parlato prima con lui di questo tema»).

Anche qui, sono mancati informazione trasparente e riconoscimento dello spazio pubblico europeo. Così come non c´è trasparenza sulle tasse che non si possono abbassare, sull´immigrazione di cui abbiamo bisogno, economicamente e demograficamente. È stato calcolato che i flussi migratori si eleveranno a 4,4 milioni nel 2011, che supereranno 8 milioni nel 2031 e 10 nel 2051: « Il valore finale - scrive l´economista Nicola Sartor - è inferiore di 8 milioni a quanto necessario, secondo l´Onu, a compensare la flessione della popolazione nazionale in età attiva» (Invecchiamento, immigrazione, economia, Il Mulino 2010).

Gran parte degli equivoci sono imputabili all´Unione: all´inerzia dei suoi dirigenti, succubi degli Stati. Ancora una volta, è il parlar vero che manca: è per un eccesso di false cortesie e per l´assurda deferenza verso i grandi Paesi che l´Europa è giunta alle odierne bancarotte, scrive Monti in un illuminante articolo sul Financial Times di ieri. Sono tante le politiche su cui l´Unione potrebbe far valere la sua parola: a cominciare dalle missioni di guerra, abusivamente dette «di pace». L´articolo 11 della nostra Costituzione, quello che ripudia la guerra, prevede limitazioni volontarie della sovranità nazionale e azioni congiunte con organi internazionali. Le guerre che sta consentendo andrebbero oggi ridiscusse dall´Europa, alla luce di una politica Usa che comincia a trattare unilateralmente con i talebani e a dubitare dell´utilità della Nato.

Una Commissione europea autonoma, conscia della propria autorità, reagirebbe a tutti questi eventi (caso Bini Smaghi, debiti sovrani, guerre) come ai tempi di Walter Hallstein. Il primo capo dell´esecutivo di Bruxelles non esitò a confutare De Gaulle, alla fine degli anni ‘60, in nome della nascente res publica europea. Fu un «perdente designato», scrive lo storico Corrado Malandrino in una bella biografia pubblicata dal Mulino: ma ci sono sconfitte che salvano, se le si vuol salvare, le istituzioni umiliate.

La sonante affermazione del quorum e dei sì nei quattro referendum di domenica scorsa, congiunta ai risultati delle ultime elezioni amministrative, costituisce senza ombra di dubbio la base di quel potenziale passaggio storico, al quale molti in passato avevano guardato e per cui avevano lavorato. In attesa di tornarci su per un'analisi più circostanziata, io mi sentirei di fare questa preliminare osservazione.

Tale affermazione è il frutto di diecimila rivoli diversi, che si sono congiunti quando l'occasione propizia si è presentata. Persino a determinare l'occasione propizia stessa avevano trovato una loro convergenza protagonisti diversi, non sempre in precedenza convergenti. Questa, fra le tante cose che non so o dico male, posso dirla con sufficiente certezza. Presiedo da diversi anni un'organizzazione ambientalista di base, la «Rete dei Comitati per la difesa del territorio», attiva soprattutto in Toscana, ma presente anche altrove. Ebbene, abbiamo combattuto in tale veste battaglie alla morte con le organizzazioni storiche della politica italiana, in particolare il Pd, a livello regionale, provinciale e municipale, per impedire scempi e abusi di ogni natura (ora va un po' meglio).

La stessa cosa si potrebbe dire, in molti casi a miglior ragione, per i Comitati per l'acqua e contro l'energia nucleare. E tuttavia su questo punto determinato le divergenze e persino gli scontri si sono fusi in una scelta unica. Potrebbe essere un buon monito per il futuro: a patto che nessuno si precipiti ora a mettere il cappello sul risultato referendario, come già troppe volte sta accadendo. Il risultato è entusiasmante, ma non è ancora una proposta politica unitaria né tanto meno un progetto di cambiamento. Le condizioni sono state poste dal popolo sovrano; ma per riempirle di contenuti e renderle effettuali e operative bisognerà lavorarci, e parecchio.

Più in generale è la questione della democrazia (criteri di funzionamento, valori, identità, sorprese positive ma anche, non dimentichiamolo, paurose regressioni) che viene in tal modo riproposta. Con opportuna sincronia - che non è difficile immaginare involontaria, ma non priva tuttavia di una sua logica relazione con lo spirito e i bisogni del tempo - è apparsa in questa settimane La felicità della democrazia, un «dialogo» fra Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (Bari, Laterza, 2011), che, come dicono gli autori, ingenera molti «dubbi» ma definisce anche molte «certezze»: per esempio quella secondo cui è a questa forma di governo e di Stato che va affidato, nel bene e nel male, nell'adesione sincera come nella critica spietata (non è detto che i due atteggiamenti siano totalmente in contrasto fra loro), il destino delle presenti e delle future generazioni, almeno fin quando il nostro sguardo è in grado di spingersi.

Ne ha ragionato su queste colonne con la consueta acutezza Ida Dominijanni (« Democrazia, il nome e la cosa», il manifesto, 25 maggio 2011 ), in un'ampia recensione, di cui condivido tutto, anche le virgole. Io invece trarrò occasione da questo bel libro per alcune osservazioni aggiuntive, spero non del tutto fuori del quadro.

La prima è, direi, di ordine prevalentemente personale. È per una coincidenza, senza dubbio, che a me è accaduto di scrivere e pubblicare un miliardo di anni fa un saggio intitolato La felicità e la politica («Laboratorio politico», 1981; poi in La repubblica immaginaria, Milano, Mondadori, 1988). Questo potrebbe voler dire, mi pare, che il tema ha una lunga storia, strettamente legata, nel nostro paese, con la storia da noi tutt'altro che infrequente, delle crisi della democrazia. Nel 1981, infatti, ossia in tardissima era comunista, appena prima del crollo e dello sfracello del sistema, invocare scandalosamente la sintesi, - meglio, il connubio - fra felicità e politica significava spezzare una lancia contro le perduranti - e fino all'ultimo in quell'ambito prevalenti - tendenze ideologico-virtualistiche. Io ancoravo quell'ipotesi a una nozione di democrazia come «governo dei mediocri» (dei «mediocri», non dei «peggiori», come giustamente precisa Zagrebelsky), ossia di quelle «masse» talvolta operose ma talvolta anche depravate, da cui è sempre più difficile oggi far emergere le «élites» (un altro dei grandi problemi di una democrazia che sia in grado di autoriformarsi). Sicché si potrebbe chiudere questa specie di disgressione, osservando che la parola d'ordine, l'obiettivo, l'aura della felicità, invocati da Mauro e Zagrebelsky, servono a far emergere «individui» dalla «massa» (ma è chiaramente la stessa cosa), ossia, oltre che a trasmettere «benessere» a ricostituire in forma nuova delle «élites» (per esempio, i giovani ci provano in questa fase più di altri, e si capisce perché: ne va della loro sopravvivenza) e dunque a garantire «un governo non mediocre delle mediocrità» («come governare non mediocremente un sistema delle mediocrità»).

La seconda osservazione riguarda il rapporto fra democrazia e legalità, che attraversa ovviamente tutto il «dialogo» di Mauro e Zagrebelsky, ma senza soffermarcisi in modo particolare. È per me del tutto evidente che Silvio Berlusconi, e le forze che rappresentava, e ancora oggi nonostante tutto rappesenta, sono entrati come un corpo estraneo nel meccanismo, già per suo conto precario, della democrazia italiana, agendo catastroficamente sul versante delle regole («legalità») e al tempo stesso cercando di adattare prepotentemente - ma, è questa l'anomalia italiana, con il consenso di maggioranze parlamentari comunque acquisite - i meccanismi istituzionali del sistema («democrazia») alla sua sistematica, permanente, «costituzionale» vocazione all'illegalità.

Si poteva fare di più, le istituzioni, tutte le istituzioni, potevano fare di più per impedire che il Cavaliere continuasse a sguazzare così a lungo nel suo brodo d'illegalità e di corruzione? Sì, io penso di sì, ed è questo uno dei punti su cui varrebbe la pena di tornare a riflettere a mente un poco più distesa: poiché i risultati referendari sono stati felicemente (è proprio il caso di dirlo) acquisiti, ma l'emblema dell'illegalità è ancora al potere, e intende restarci.

Ne potrei concludere che in Italia la battaglia per la democrazia è sempre stata più robusta e vitale della battaglia per la legalità, soprattutto quando la legalità riguarda i potenti. Invece mi limito a chiedere agli esperti, che ancora non hanno risposto, se l'assenza d'iniziativa in questo specifico campo è una conseguenza della mancanza di regole ad hoc oppure di una lassitudine (atavica?) di costumi che lascia passare come trascurabili o inaccostabili fenomeni e comportamenti che altrove in Europa verrebbero invece considerati semplicemente come impensabili (e che infatti, osservati da lì, ci espongono a un dileggio quotidiano al di là dell'immaginabile).

A puro titolo di amplificazione problematica del discorso - e anche a puri fini di divertissement intellettuale - aggiungo che altri paesi europei, passati come noi attraverso esperienze devastanti, più prudentemente di noi hanno pensato bene di mettersi al riparo dai rischi che noi invece corriamo (che abbiamo corso?). Penso alla Germania: più precisamente alla sua Costituzione democratica (ringrazio l'amico Enrico Ganni, tedeschista della Casa editrice Einaudi, per le preziose suggestioni). L'art. 79, comma 3, di tale Costituzione prevede che i primi venti articoli della medesima (i «Grundrecht»: insomma, grosso modo, i nostri «Principi fondamentali») siano immodificabili. Chiaro? Immodificabili: immodificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare e in qualsiasi situazione. La Costituzione tedesca è stata messa dunque come in una corazza. Ma non basta. Fra i venti articoli ce n'è uno, forse non a caso proprio l'art. 20, che sembrerebbe fatto proprio al caso nostro (o al caso mio?): in esso, infatti, dopo aver definito la natura fondamentale della Repubblica tedesca («uno Stato federale, democratico e sociale») si enuncia il cosiddetto «diritto di resistenza». «Tutti i Tedeschi hanno diritto di resistere a chiunque tenti di rovesciare questo ordinamento, qualora non vi sia altro rimedio possibile». Chiaro anche questo? «Tutti i Tedeschi», «qualora non vi sia altro rimedio possibile».

Naturalmente non ci si può richiamare alla Costituzione di un altro paese per tutelare la legalità e la democrazia del proprio. E neanche sfuggono gli elementi di rischio potenziale che la norma contiene nei confronti di minoranze o di dissidenti. E però il richiamo ai «Grundrechte» della Costituzione tedesca può consentirci di tornare all'inizio del nostro discorso, e cioè, appunto, alla tutela su tutti i versanti, della nostra democrazia. La domanda è: qual è il limite, dov'è il limite, oltre il quale la «resistenza» all'arbitrio diviene legale, e in quali forme?

La democrazia italiana non è in grado di tollerare che il Governo del Capo illegalitario continui ancora: ogni giorno che passa sprofondiamo di più nella melma. Sarebbe bello - e felice - che a toglierlo rapidamente di mezzo concorressero ora insieme gli strumenti della democrazia rappresentativa e l'esercizio risoluto della legalità repubblicana. Sarebbe in ogni senso una buona «fin de partie».

Ci sono tanti luoghi ai quali l´osservatore delle cose italiane dovrebbe guardare in questi giorni: Milano e Napoli, per esempio, ma anche le piazze finanziarie e le capitali europee dove si affrontano i problemi del debito italiano e si dettano le regole che dovranno governare la nostra economia. Ma il luogo sul quale oggi si concentra l´attenzione dell´informazione politica è un piccolo comune in provincia di Bergamo con un nome che risvegliava un tempo solo gli echi scolastici di una brutta poesia di Guglielmo Berchet: Pontida.

È dal raduno annuale della Lega, con elmi e spadoni di un Medioevo di carta, che si attende una risposta importante. Intanto i gruppi dirigenti dei partiti, ben lungi dal seguire il saggio consiglio del Presidente Napolitano di cercare di «ritrovarsi uniti su grandi obiettivi comuni», sembrano uniti solo nello star fermi - uno spasmodico "surplace" in attesa che sia l´altro a fare la prima mossa. Così si è creata una speciale atmosfera di attesa della parola del Bossi: già, perché a parlare sarà solo lui. Alla sua parola il compito di ricreare quell´unione mistica tra il capo e un popolo che - a detta dei dirigenti della Lega - ha pur dato di recente ai suoi capi una sberla clamorosa. Dal verbo di Pontida è dunque lecito attendersi un segnale di svolta. Intanto qualcosa di nuovo c´è pur stato: di nuovo, anzi d´antico. Parliamo delle misure recenti prese a caldo dal ministro Maroni, l´uomo forte della Lega, il vero candidato a gestire un possibile governo di fine legislatura col benestare dell´azzoppato Berlusconi. Recano il suo sigillo personale. Un decreto fulminato a tambur battente ha triplicato d´un sol colpo, da sei mesi a diciotto, il periodo di detenzione dei clandestini nei Cie e ha introdotto una durissima procedura per i "respingimenti".

Torneremo su questa parola. Ma intanto segnaliamo anche la proposta del ministro per la politica internazionale: in una intervista del 17 giugno Maroni ha chiesto che la Nato schieri le sue navi davanti alle coste libiche per impedire la partenza di profughi. Non sembra molto realistico agitare lo spettro dell´invasione di masse libiche in un paese dove alla data del 17 maggio scorso secondo l´alto commissario Onu per i rifugiati erano arrivate dalla Libia circa 14.000 persone in tutto. Quanto al decreto contro gli immigrati, si tratta di una misura di una durezza terrificante ma del tutto irrealistica. Intanto è basata su premesse false. Non è vero, come ha dichiarato il ministro dell´Interno, che il decreto è «coerente con le norme dell´Unione europea»: la direttiva europea sui rimpatri chiedeva gradualità nel percorso di rimpatrio dell´immigrato irregolare. Invece il decreto impone una espulsione immediata e colpisce chi non ottempera al primo ordine di espulsione con la galera da uno a quattro anni (da uno a cinque per i recidivi). Senza contare le sanzioni in danaro: l´immigrato irregolare dovrebbe pagare da tremila a diciottomila euro.

Pura irrealtà per l´economia degli immigrati: ma anche per il ministro. Lo dimostra il fatto che tutta la procedura dovrebbe passare attraverso il giudice di pace. Secondo l´avvocato Livio Cancelliere dell´Asgi (associazione studi giuridici sulle immigrazioni) nessun giudice di pace applicherà mai queste sanzioni. Dunque, si tratta solo di propaganda pre-Pontida.

Ma proviamo a leggere queste norme con lo sguardo dei disperati: quella parola "respingimento" è una bestemmia, come hanno ben compreso per primi molti commentatori del mondo cattolico, concordi nel condannarlo senza esitazione. È la cancellazione brutale di una tradizione antichissima ancora viva nelle nostre culture, quella che vedeva nell´esule, nel supplice una figura sacra agli dèi. Oggi "respingimento" significa essere ributtati nell´inferno senza che nessuno ti chieda se sei un perseguitato politico o religioso o se lo diventerai una volta respinto. Intanto, gli "irregolari" chiusi nei Cie penseranno a quel che li aspetta là dove saranno rimandati. Conosciamo i loro pensieri: saranno come quelli di Nabruka Mimuni, l´immigrata quarantenne da trent´anni in Italia (ma non italiana per la legge) che circa due anni fa si uccise impiccandosi nel Cie di Ponte Galeria a Roma.

Dunque, niente di più vecchio di queste novità: è ancora l´antica politica della paura. Colpire l´immigrazione, trattare il clandestino come un delinquente, vuol dire riproporre al Paese la ricetta usata finora per farne salire la febbre xenofoba. Per un po´ questa ricetta ha funzionato. Ma la massa di cittadini che ha riempito le piazze e si è messa ordinatamente in fila davanti ai seggi del referendum ha mandato un segno molto chiaro: le cose sono cambiate, il Paese sta guarendo. Ci vogliono paraocchi speciali per non vederlo. Le risposte plebiscitarie alle quattro domande hanno inviato ai governanti una richiesta di diritti e di solidarietà, contro l´appropriazione privatistica dei beni comuni, contro l´impunità per i potenti, contro scelte che mettono a rischio l´ambiente e il futuro delle giovani generazioni. E anche questo è stato, a suo modo, un "respingimento".

Forse, dopo la perdita di Milano e Napoli, la sconfitta al referendum è la più avvilente nella storia di Berlusconi. Si era messo in testa che ignorandolo l’avrebbe ucciso, l’aveva definito «inutile», e il giorno del voto se n’era andato pure al mare, esemplarmente. Niente da fare: il quorum raggiunto e i quattro sì che trionfano non sono solo un colpo inferto alla guida del governo.

È una filosofia politica a franare, come la terra che d’improvviso si stacca dalla montagna e scivola. È un castello di parole, di chimere coltivate con perizia per anni. «Meno male che Silvio c’è», cantavano gli spot che il premier proiettava, squisita primizia, nei festini. Gli italiani non ci credono più, il mito sbrocca: sembra l’epilogo atroce dell’Invenzione di Morel, la realtà-non realtà di Bioy Casares. Per il berlusconismo, è qualcosa come un disastro climatico.

Tante cose precipitano, nel Paese che credeva di conoscere e che invece era un suo gioco di ombre: l’idea del popolo sovrano che unge la corona, e ungendola la sottrae alla legge. L’idea che il cittadino sia solo un consumatore, che ogni tanto sceglie i governi e poi per anni se ne sta muto davanti alla scatola tonta della tv. L’idea che non esistano beni pubblici ma solo privati: il calore dell’aria, l’acqua da bere, la legge uguale per tutti, la politica stessa. L’idea, più fondamentale ancora, che perfino il tempo appartenga al capo, e che un intero Paese sia schiavo del presente senza pensare - seriamente, drammaticamente - al futuro. Più che idee, erano assiomi: verità astratte, non messe alla prova. Non avendo ottenuto prove, il popolo è uscito dai dogmi. Lo ha fatto da solo, senza molto leggere i giornali, gettando le proprie rabbie in rete. È una lezione per i politici, i partiti, i giornali, la tv. La fiamma del voto riduce una classe dirigente a mucchietto di cenere.

Pochi hanno visto quello che accadeva: il futuro che d’un tratto irrompe, la stoffa di cui è fatto il tempo lungo che gli italiani hanno cominciato a valutare. Erano abituati, gli elettori, a non votare più ai referendum. Questa volta sono accorsi in massa: a tal punto si sentono inascoltati, mal rappresentati, mal filmati. Nessuna canzoncina incantatrice li ha immobilizzati al punto di spegnerli. Berlusconi lo presentiva forse, dopo Milano e Napoli, ma come un automa è caduto nella trappola in cui cadde Craxi nel 1991 - andare al mare mentre si vota è un rozzo remake - e con le sue mani ha certificato la propria insignificanza. Impreparato, è stato sordo all’immenso interrogativo che gli elettori di domenica gli rivolgevano: se la sovranità del popolo è così cruciale come proclama da anni, se addirittura prevale sulla legge, la Costituzione, come mai il Cavaliere ha mostrato di temere tanto il referendum? Come spiegare la dismisura della contraddizione, che oggi lo punisce?

Il popolo incensato da Berlusconi, usato come scudo per proteggere i suoi interessi di manager privato, non è quello che si è espresso nelle urne. È quello, immaginario, che lui si proiettava sui suoi schermi casalinghi: un popolo divoratore di show, ammaliato dal successo del leader. Chi ha visto Videocracy ricorderà la radice oscena della seduzione, e le parole di Fabrizio Corona: «Io sono Robin Hood. Solo che tolgo ai ricchi, e dò a me stesso». Nel popolo azzurro la libertà è regina, ma è tutta al negativo: non è padronanza di sé ma libertà da ogni interferenza, ogni contropotere. Ha come fondamento la disumanizzazione di chiunque si opponga, di chiunque incarni un contropotere. Di volta in volta sono «antropologicamente diversi» i magistrati, i giornalisti indipendenti, la Consulta, il Quirinale. Ora è antropologicamente diverso anche il popolo elettore, a meno di non disfarsi di lui come Brecht consigliò al potere senza più consensi. Era un Golem, il popolo - idolo d’argilla che il demiurgo esibiva come proprio manufatto - e il Golem osa vivere di vita propria. Il premier lo aveva messo davanti allo sfarfallio di teleschermi che le nuove generazioni guardano appena, perché la scatola tonta ti connette col nulla. E quando ti connette con qualcuno - Santoro, Fazio, Saviano - ecco che questo qualcuno vien chiamato «micidiale» e fatto fuori.

Il popolo magari si ricrederà, ma per il momento ha abolito il Truman Show. Ha deciso di occuparsi lui dei beni pubblici, visto che il governo non ne ha cura. Non sa che farsene del partito dell’amore, perché nella crisi che traversa non chiede amore ai politici ma rispetto, non chiede miraggi ottimisti ma verità. Accampa diritti, ma non si limita a questo. Pensare il bene pubblico in tempi di precarietà e disoccupazione vuol dire scoprire il dovere, la responsabilità. Celentano lunedì sera ha detto che siamo disposti perfino ad avere un po’ più freddo, in attesa di energie alternative al nucleare. Per questo si sfalda il dispositivo centrale del berlusconismo: la libertà da ogni vincolo è distruttiva per l’insieme della comunità. Era ammaliante, ma lo si è visto: perché simile libertà cresca, è indispensabile che il popolo sia tenuto ai margini della res publica.

Specialmente nei referendum, dove si vota non per i partiti ma per le politiche che essi faranno, il popolo prende in mano i tempi lunghi cui il governo non pensa, e gli rivolge la domanda cruciale: è al servizio del futuro, un presidente del Consiglio che ha paura dell’informazione indipendente, che ha paura di dover rispondere in tribunale, che elude la crisi iniziata nel 2007, che non medita la catastrofe di Fukushima e considera il no al nucleare un’effimera emozione? Pensa al domani o piuttosto a se stesso, chi sprezza la legalità pur di favorire piccole oligarchie, il cui interesse per le generazioni a venire è nullo? Ai referendum come nelle amministrative il tempo è tornato a essere lungo. Non a caso tanti dicono: si ricomincia a respirare.

La crisi ha insegnato anche questo: non è vero che il privato sia meglio del pubblico, che il mercato coi suoi spiriti animali s’aggiusti da sé, che la politica privatizzata sia la via. I privati non sono in grado di costruire strade, ferrovie, energia pulita per i nipoti. Vogliono profitti subito e a basso costo, senza badare alla qualità e alla durata. Berlusconi si presentò come il Nuovo ed era invece custode di un disordine naufragato nel 2007. Non era Roosevelt o Eisenhower, non ha edificato infrastrutture per le generazioni che verranno.

Ogni persona, dice Deleuze, è un «piccolo pacchetto di potere», e l’etica la costruisce su tale potere. Berlusconi pensava - forse pensa ancora - che questo potere fosse suo: che non fosse così diffuso in pacchetti. Pensava che il cittadino non avesse bisogno di verità; che il coraggio te lo dai nascondendola. Pensava (pensa) che il coraggio consista nel ridurre le tasse, e chi se ne importa se l’Italia precipita come la Grecia o se pagheranno i nipoti. Pensava che, bocciato il legittimo impedimento, puoi farti una prescrizione breve, come se il popolo non avesse proscritto ogni legge ad personam. Il Cavaliere ha eredi nel Pdl. Ma all’eredità come bene consegnato al futuro non ha mai badato, convinto che la crisi sia come la morte (e lui come la vita) per Epicuro: «Finché Silvio c’è, la crisi non esiste. Quando la crisi arriva, Silvio non c’è». Tanti ne sono convinti, e lo incitano a «tornare allo spirito del ‘94»: dunque a mentire sulle tasse, di nuovo.

Chi lo incita sa quello che dice? Ha un’idea di quel che è successo fra il 1994 e il 2011? Rifare il ‘94 non è da servi liberi, ma da gente che ignora il mondo e ne inventa di falsi. Se fossero liberi e coraggiosi non sarebbero stupidi al punto di consigliare follie. Se insistono, vuol dire che sono servi soltanto. La loro retorica è così smisurata che neppure capiscono la nemesi, che s’è abbattuta sul loro padrone.

Gli effetti benefici dell'onda lunga dei referendum hanno indirettamente ripulito un piccolo grande obbrobrio contenuto nel decreto sviluppo: una norma che portava a 20 anni il diritto di superficie dei privati sulle spiagge italiane (i primi tre commi dell'articolo 3 relativi al demanio pubblico). Cancellati, come non detto, e dire che inizialmente la regalìa era prevista addirittura fino a 90 anni: una concessione secolare che la Ue aveva ritenuto «non conforme» alla disciplina del mercato comune.

Lo cancellazione della concessione ridotta a 20 anni è stata decisa ieri dal governo nel corso dei lavori della commissione lavoro e bilancio alla Canera, accogliendo alcuni emendamenti presentati dalle opposizioni. Saggia e popolare decisione, anche se adesso, per dare sostanza a questo colpo di freno alla furia privatrizzatrice dei businnesmen governativi, bisognerebbe trovare il coraggio di ripulirle davvero le spiagge nostrane, considerando che sono già le più cementificate d'Europa - al 60% secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per l'Ambiente (Unep).

Il pericolo è tutt'altro che scongiurato ma almeno, in attesa di nuove norme da valutare con grande attenzione, è stato fatto un passo nella direzione giusta. «È convinzione del Pdl - dichiara Sergio Pizzolante, membro Pdl della commissione finanze alla camera - che sia necessario definire norme, condivise con l'Europa, in grado di garantire continuità nella gestione delle spiagge anche dopo il 2015 per gli operatori che hanno fatto investimenti e creato valore commerciale». Per questo il governo nei prossimi giorni convocherà le categorie economiche coinvolte nella gestione delle spiagge per «una soluzione complessiva che dovrà vedere la luce entro l'anno».

Angelo Bonelli, presidente dei Verdi, non è tranquillo e non ha alcuna intenzione di abbassare la guardia visto che la materia sarà trasferita nella legge comunitaria, e non si sa ancora in quali termini. «Il rischio - spiega - purtroppo resta inalterato perché restano in piedi i commi 4 e 5 dell'articolo tre, quelli che prevedono, attraverso le zone a burocrazia zero, di edificare su spiagge ed arenili». Come dice Maurizio Fugatti del Wwf, «bene che ci sia un ripensamento, anche se ci auguriamo che la norma non spunti in un altro provvedimento». Sebastiano Venneri, vicepresidente nazionale di Legambiente, di fronte alla cancellazione di una «aberrazione giuridica» oggi preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno. «Un altro successo per i cittadini. Dopo la vittoria su nucleare e acqua pubblica, la cancellazione di questa norma rappresenta una nuova vittoria per tutti i cittadini, gli imprenditori onesti e per coloro che hanno a cuore i beni comuni. Questa estate è cominciata bene, ora avanti per liberare le spiagge dai cancelli e dal cemento».

Sulla stessa linea il commento di Ermete Realacci, responsabile green economy del Pd. «Il governo - dice - è stato costretto a fare marcia indietro su una scelta miope e sbagliata, il diritto di superficie ventennale oltre ad essere una minaccia per l'ambiente e le coste italiane rappresentava un rischio anche per le migliaia di imprese del settore, perché quella norma era ritagliata sugli interessi di pochi grandi investitori, magari per solleticare l'ingresso di capitali stranieri di dubbia provenienza». Armando Cirillo, responabile turismo del Pd, partito che ha proposto la modifica della norma, adesso chiede al governo un intervento complessivo per tutelare il settore turistico-balneare. Una norma per archiviare la procedura d'infrazione avviata dalla Ue nei confronti dell'Italia. Una legge quadro per affidare le concessioni demaniali marittime e contrastare gli interventi speculativi, tutelando gli investimenti eco-compatibili effettuati dai privati sulle spiagge. Riaprire un confronto in sede Ue per «affermare la peculiarità delle imprese turistico-balneari». E, infine, il Pd chiede anche l'approvazione del piano nazionale per il turismo.

A proposito di turisti. Rispetto all'anno scorso, i prezzi sulle spiagge sono cresciuti dell'1,5%. Mentre rispetto al 2001, solo dieci anni fa, i prezzi sono aumentati del 136%. Una famiglia di quattro persone spende in media 97 euro per una giornata al mare, e senza scialare. E questo problema, c'è una norma che lo risolve?

L'onda anomala dell'acqua pubblica

di Andrea Palladino

Le privatizzazioni selvagge, i tabù del centrosinistra, la repressione poliziesca di ogni forma di disobbedienza civile nata fuori dai partiti
Dalla prima rivolta internazionale contro le corporation al Forum di Corviale, cronaca di una svolta globale e locale costruita dal basso

C'è una data dimenticata dietro il successo straordinario, epocale, dei referendum sull'acqua. Febbraio 1997: sulla mailing list Forum international sur la globalisation appare un messaggio di uno studioso statunitense, Tony Clarke. E un documento allegato, che nel giro di pochi giorni inizia a circolare in decine di paesi, il Multilateral Agreement on Investment. Due mesi prima Martin Khor, direttore del Third World Network, Ong con base in Malesia, era riuscito a ottenere la bozza di quell'accordo sugli investimenti che l'Ocse stava segretamente preparando, che verrà da lì a poco conosciuto semplicemente come Mai. Khor aveva scansionato il documento per poterlo divulgare il più possibile, attraverso la rete internet. Fu un'esplosione, il vero annuncio del terzo millennio, la data di nascita del movimento mondiale contro la globalizzazione. E ieri in Italia, quattordici anni dopo, si celebrava la prima vittoria popolare di quell'onda lunga nuova, disobbediente, cresciuta fuori dalle segreterie di partito, reticolare, creativa e in grado di cambiare radicalmente la realtà, dal locale al globale.

L'opposizione al Multilateral Agreement on Investment fu in grado di bloccare quel primo tentativo di imporre le regole delle corporation, che si basavano sulla supremazia delle multinazionali rispetto agli stessi governi. Era solo la prima tappa, perché le grandi società dei servizi non abbandonarono mai quel progetto, cambiando semplicemente strategia dopo l'inaspettata opposizione internazionale della società civile. Lo spirito dell'accordo sugli investimenti dell'Ocse è subito dopo rientrato in pieno nelle grandi privatizzazioni dei beni comuni, dal Brasile al Sudafrica, dall'Inghilterra all'Italia. Dal 1997, però, il granellino di sabbia che aveva momentaneamente bloccato l'ingranaggio delle privatizzazioni si è moltiplicato all'infinito, si è mostrato a Seattle, e poi a Genova. Ha lasciato sui marciapiedi le prime vittime, come Carlo Giuliani, ha visto massacrare i più giovani nella scuola Diaz, nella macelleria che era solo un assaggio del massacro sociale che si preparava.

In Italia è dopo il 2001 che partono le grandi privatizzazioni dell'acqua. Un timing perfetto, scandito dai due governi Berlusconi e dalla timidezza del governo Prodi, quando l'ala liberista del Pd - composta dalla coppia Bassanini-Lanzillotta - abbracciò in pieno le teorie elaborate dall'Ocse qualche anno prima. Ma il granellino dei movimenti cresceva sotterraneo, nei territori, ampliava la propria forza attraverso le battaglie locali di Aprilia, di Arezzo, di Frosinone, della Campania, della Sicilia, dei Castelli Romani. Aggiungeva alla forza del movimento la crescita del consenso popolare, di fronte all'aberrazione della privatizzazione dell'acqua.

La tappa centrale del successo del referendum ha come scenario il lungo serpentone di Corviale, nella periferia estrema di Roma. Il Forum dei movimenti dell'acqua, nel 2006, aveva già raggiunto la maturità che serviva per iniziare a costruire il cammino durato cinque anni che è esploso ieri nelle urne. Dal 2003 aveva partecipato a un'altra campagna, stavolta europea, contro la direttiva che privatizzava i servizi pubblici, la famigerata Bolkestein.

Di quell'incontro a Corviale non rimane nessuna cronaca nelle principali testate nazionali. In fondo quel movimento che si occupava di acqua, che difendeva i beni comuni quando quelle parole erano considerate quasi tabù anche nel centrosinistra, che chiedeva l'uscita delle multinazionali dalla gestione dei servizi idrici, mentre l'ultimo governo di centrosinistra della capitale affidava tutto ad Acea, stringendo accordi segreti con i francesi di Suez, sembrava una cosa minuscola per gli opinionisti più accreditati.

Dal quel Forum di Corviale è poi uscita la pietra miliare del movimento per l'acqua pubblica, la legge di iniziativa popolare, presentata in Parlamento accompagnata da 450 mila firme, una cifra record. Ben pochi parlamentari, probabilmente, hanno mai letto quegli articoli, né tanto meno hanno cercato di discuterla. Non hanno capito che quelle migliaia di firme erano in realtà solo la prima pietra per la costruzione di un consenso che ieri ha sfiorato i 30 milioni di italiani, restituendo al paese la possibilità di decidere e di cambiare lo stato delle cose.

Servirebbero migliaia di pagine per raccontare quello che in questi quattordici anni è accaduto. Serve soprattutto la mente sgombra dai rituali della politica decotta delle segreterie di partito. Il movimento che ha reso possibile il miracolo è l'incarnazione della metafora della Cattedrale e del Bazar, utilizzata anni or sono per descrivere la filosofia dell'open source. Le grandi realizzazioni medioevali avevano un architetto in grado di controllare anche il minimo movimento dell'ultimo scalpellino; un modello opposto a quello del Bazar, dove l'informazione è sempre condivisa e corre orizzontalmente, in una rete neurale di pari che abbatte ogni gerarchia. Così l'Italia che si è presentata ieri nelle urne è fatta di migliaia di granelli, di comitati in grado da soli di condurre battaglie senza sosta contro i giganti dell'acqua.

L'esperienza, la conoscenza, lo studio dei contratti capestro, lo smascherare le strategie commerciali più immonde - come quella di staccare l'acqua con i vigilantes armati - sono l'immenso patrimonio condiviso, aperto, open source. Un modello che è stato in grado di coinvolgere città per città, municipio per municipio, quartiere per quartiere tutte quelle persone che avevano perso ogni speranza di cambiare. Per questo ieri si è celebrata una vittoria realmente e profondamente popolare, che ha un protagonista assoluto, il cambiamento non più arrestabile cresciuto dal basso. Così forte da superare lo sbarramento mediatico costruito quando ormai era troppo tardi, e in grado ora di proseguire - con ancora più forza - quella lotta di lunga durata per la riconquista dei beni comuni, per la ricostruzione di un futuro possibile e giusto.

Verso un manifesto dei beni comuni

di Alberto Lucarelli



Oggi, a due settimane dai trionfi di Napoli e Milano e a dieci anni dal G8 di Genova, festeggiamo la vittoria del referendum sull'acqua e soprattutto un nuovo modo di fare Politica. È nato un nuovo laboratorio politico, si è raggiunta una vittoria voluta con tutte le forze dal forum dei movimenti per l'acqua e da tutta quella cittadinanza attiva che progressivamente ha capito la necessità di riconquistare se stessi e soprattutto la voglia di far politica e di vedere affermati i propri diritti. Il movimento referendario ha avuto la forza e il coraggio, sin dall'inizio del suo percorso, di declinare un nuovo modo di fare politica, di esprimere nuove soggettività, al di fuori del sistema dei partiti.

Partiti in pochi, ma decisi e già consapevoli dei saccheggi che si stavano realizzando sui beni comuni, il movimento con coerenza, rigore, umiltà, forza di ascolto e di inclusione ha saputo e voluto raccogliere e declinare il "grido" di Genova 2001, dichiarando l'esigenza di uscire dalle logiche proprietarie e individualistiche, per affermare spazi e beni comuni dove poter esercitare e veder soddisfatti i propri diritti. Oggi si raccoglie il frutto di una semina non compresa, sbeffeggiata, avversata dall'establishment istituzionale, ma anche una semina che i più avvertiti avevano compreso che avrebbe determinato un'inversione di rotta e spezzato quell' intreccio affaristico tra borghesia mafiosa, politica, economia e pezzi deviati dell'amministrazione pubblica.

A partire dal 2001 si è aperto in Italia, attraverso il ruolo determinante di tante realtà locali e di tante pratiche sociali, la battaglia dei beni comuni contro la privatizzazione selvaggia dei diritti di cittadinanza ma anche contro gli abusi di un pubblico sempre più corrotto e contaminato da interessi particolari. Si è riusciti a liberare il concetto vuoto di partecipazione dai formalismi giuridico-istituzionali e dai giochetti della democrazia formale; si sono contrastati con fermezza ipocriti meccanismi di cooptazione o di strumentalizzazione.

La truffa "normativa" della partecipazione è stata smascherata sviluppandosi all'esterno e a volte anche contro i meccanismi legislativi che miravano ad irretirla. A partire dalla vittoria di oggi pretenderemo che le politiche pubbliche (nazionali e locali) non siano più calate dall'alto e che le istanze partecipative, elemento decisivo per la gestione dei beni comuni, si trasformino in veri diritti, espressione di antagonismo, proposta, gestione e controllo. Tutti i comuni dovranno adottare delle delibere che impongano l'affermazione della democrazia partecipativa, sperimentando anche laddove non previsto dalla legislazione vigente reali ed effettive forme di coinvolgimento.

La vittoria di oggi è la prova che partecipazione e beni comuni sono nuove categorie che stanno contribuendo alla nascita di nuove soggettività politiche fuori ed oltre il sistema dei partiti. Attraverso le battaglie sull'acqua, ma direi in senso più ampio attraverso le battaglie a difesa del lavoro, del territorio, dell'università pubblica, dei diritti dei migranti, contro il nucleare e gli inceneritori, i cittadini si riapproprieranno del diritto di esprimersi sui beni comuni, sui beni di loro appartenenza, su quei beni che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali. Sono avvertiti tutti quei comuni compiacenti che preferiscono fare affari con i privati piuttosto che difendere i beni della comunità. Questi amministratori si troveranno di fronte cittadini pronti a reagire a veri e propri piani di svendita dei servizi pubblici locali oltre che del patrimonio pubblico. Le comunità locali non sono più disposte a tollerare dei municipi gestiti da giunte che, unitamente a "pezzi" della borghesia mafiosa, perseguono interessi particolari, assumendo decisioni «non partecipate e calate dall'alto». Da oggi obiettivo politico primario sarà la realizzazione di un governo pubblico e partecipato dei beni comuni, in una prospettiva di effettivo cambiamento.

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