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Quante manovre ancora e per giungere dove? Qual è la direzione delle politiche economiche delle democrazie occidentali più o meno consolidate? I livelli di riflessione che queste domande suggeriscono sono due, uno relativo ai caratteri delle specifiche scelte nazionali e uno relativo alla dimensione globale o, se si vuole, sovrannazionale. A proposito del primo livello, osserviamo che le manovre si ripetono a scansione regolare perdendo il carattere di eccezionalità con il quale sono proposte, giustificate e approvate. Inoltre, si assomigliano un po’ tutte. Se si va a rileggere quanto scrivevano quotidiani e riviste specialistiche nel giugno 2010 a commento della manovra economica del governo per i successivi due anni e mezzo, ci si accorge che anche allora si usava l’espressione "lacrime e sangue".

Come allora, anche in questi giorni in occasione della nuova manovra "lacrime e sangue", si è assistito a un dualismo altrettanto e forse più radicale con un "gioco" che ha certamente agevolato la velocità della decisione. Come allora, anche questa volta, la manovra ha dosato sacrifici in proporzione alla forza politica dei settori sociali interessati: colpire genericamente tutti significa colpire chi è già più debole e, inoltre, senza lobby protettive. Come allora, anche in questa occasione la manovra è depressiva e non tonica rispetto alle potenzialità di crescita della società, le quali sono affidate alla speranza in una provvidenziale congiuntura favorevole dell’economia internazionale e alle libere forze del mercato – si "spera" che queste ultime non scaglino la loro maledizione inappellabile come divinità dell’Olimpo. Oggetto di una fede che rassomiglia più a un talismano psicologico che a una previsione ragionevolmente realistica.

In sostanza i governi, il nostro tra questi, si stanno da diversi anni allenando a fare manovre economiche e a mettere in campo le strategie giustificative più sicure con lo scopo di scongiurare l’ira funesta di potenze senza volto. La differenza consiste essenzialmente nella decisione di chi far più pagare, quanto e come. I governi italiani di questi ultimi anni si sono specializzati a sacrificare il futuro, forse perché non ha lobby o forse perché sperano che la proverbiale capacità degli italiani di farcela in qualche modo farà il miracolo. Ecco allora che i tagli sulla scuola e l’umiliazione di chi è portatore forzatamente inattivo di forza lavoro sono i due pilastri consolidati sui quali si costruiscono le manovre economiche.

Se è difficile riconoscere l’identità di una manovra rispetto all’altra poiché tutte si assomigliano nei caratteri essenziali ancora più difficile cercare di comprendere quale sia il corso degli eventi che con queste manovre si intende proporre o evitare, suggerire o scongiurare. Il livello di riflessione si dovrebbe spostare a questo punto oltre gli stati nazionali. Fino a quando ancora il nostro come gli altri Paesi dovranno fare "manovre lacrime e sangue"? Qual è l’obiettivo e a che cosa esattamente si aspira? La manovra, questa come le altre che l’hanno preceduta, non si limita solo a togliere e tagliare ma anche a promettere privatizzazioni nella proprietà e nella gestione di servizi pubblici: dall’elettricità ai trasporti, ma non solo. Servizi e beni che fino ad ora erano stati con più o meno successo tenuti al riparo dal mercato si chiede prepotentemente che siano dati in toto al mercato. Sembra che i mercati non sopportino la concorrenza del pubblico su beni che possono essere generatori di ricchezza e profitto. Tutto ciò che è economico è per ciò stesso oggetto del mercato libero. Si tratta di decidere, ovviamente, che cosa mettere nel paniere "economico".

Fino a qualche decennio fa sarebbe per esempio risultata una bestemmia, in Europa almeno, che la salute fosse trattata come bene economico. Oggi la maggioranza degli Stati europei sembra meno convinta che questa distinzione valga ancora (del resto la tecnologia e la farmaceutica, settori che afferiscono a multinazionali potentissime, impongono al governo della sanità pubblica limiti notevoli). Lo stesso vale per altri settori. Negli Stati Uniti perfino la repressione e le carceri sono diventati beni economici gestibili dalla "società civile" e fonte di guadagno (le multinazionali fanno grandi profitti con il lavoro asservito dei detenuti mentre le congregazioni religiose si alimentano gestendo parte dei servizi carcerari).

La lotta tra mercato libero e bene pubblico sembra sia la vera protagonista di questo permanente stato di default contro cui le democrazie di tutto il mondo stanno combattendo. Con uno svantaggio nemmeno troppo implicito: non possono, se è vero che sono bastioni di libertà, sconfessare o anche solo limitare la libertà di mercato. Soprattutto non possono più definire che cosa debba restare fuori del mercato – un potere che la politica si era arrogata nei decenni della ricostruzione postbellica e che andava sotto il nome di "stato sociale". La democrazia è ora invitata senza nemmeno troppa gentilezza a ritirarsi dalla società; il potere della scelta politica deve autocircoscriversi in quei settori che tradizionalmente sono dello Stato: la sicurezza individuale (della vita e della proprietà) e la sicurezza delle frontiere. Le ambizioni di usare lo Stato per creare una società democratica devono fermarsi qui. E le manovre che di anno in anno vengono imposte (preferibilmente in estate quando tutti siamo un po’ più distratti e smobilitati) sono come tasselli di questo mosaico in formazione di ridescrizione dell’identità delle società democratiche. La critica giusta sul carattere della manovra per l’ineguale e quindi iniqua distribuzione dei sacrifici e dei costi dovrebbe fare uno sforzo ulteriore ed estendere l’obiettivo oltre i confini dei singoli Paesi e delle singole manovre per farci vedere, se possibile, la mutazione epocale in corso.

Postilla

La mutazione epocale che è avvenuta ha assoggettato ogni cosa alle leggi non genericamente “dell’economia”, ma dell’economia capitalistica. Questo sistema economico non è l’unico che è esistiito e non è l’unico possibile. Se vogliamo conservare la speranza dobbiamo continuare a credere che un’altra economia è possibile, e che si può cominciare a costruirla oggi, nella fatica e nell’incertezza delle sperimentazioni guidate da una volontà ma non ancora da una lucida teoria. Occorre tener viva la fiammella della possibilità di una nuova “mutazione epocale”

Venerdì pomeriggio, la notizia dell’esplosione nel centro di Oslo ha provocato in molti un immediato riflesso condizionato. Si trattava con tutta probabilità di un’autobomba e quindi di terrorismo di origine islamica. Niente di più classico. Esasperante, tragica routine.

Poi, col passare delle ore, sono arrivati i dettagli della strage sull’isolotto di Utoya ed è emerso quel giovane biondo, con lo sguardo azzurrino. Alla certezza iniziale sulla natura jihadista dell’attentato è succeduto un momento di incredulità. Il terrorista era un puro scandinavo. Un norvegese aveva ammazzato decine di ragazzi norvegesi a sangue freddo. L’assassino era di incontestata origine europea, era un cristiano e fiero di esserlo. Se il pensiero che si trattasse di un arabo, di un musulmano, era stato un riflesso condizionato, la scoperta che il criminale era "uno dei nostri" ha suscitato sgomento. Il terrorismo può dunque essere europeo. La sorpresa ha stordito non solo i norvegesi.

I primi sospettati, supposti jihadisti nostalgici di Bin Laden, sono via via scomparsi dai telegiornali e dalle prime pagine dei quotidiani (e speriamo che non vi ritornino) ed è affiorata la tesi dell’attentato neo nazista, poiché il giovane biondo, identificato come Anders Behring Breivik, 32 anni, di professione agricoltore, è subito risultato "anti marxista, anti Islam, anti multiculturale".

La polemica delle attribuzioni contrapposte, tra chi sosteneva la natura islamica dell’attentato e chi sosteneva quella di un’azione concertata di estrema destra, non ha avuto il tempo di svilupparsi, perché (con la riserva che nel corso delle indagini emergano complici e con loro una qualche organizzazione), il giovane biondo con gli occhi azzurrini appare sempre più un assassino solitario, un uomo psichicamente anormale, un individuo affetto da paranoia.

Ma anche se questa diagnosi venisse confermata, essa non ridurrebbe comunque la strage norvegese a un’azione compiuta da un pazzo, quindi a un affare di competenza dei soli psichiatri. Anders Behring Breivik è un tumore annidatosi e sviluppatosi nella nostra società europea, dove la crescita dei gruppi di estrema destra ha creato un’atmosfera che può spingere persone psichicamente disturbate a gesti di illimitata violenza. Lo sostiene Hajo Funke, professore alla Libera Università di Berlino e studioso dei fenomeni di estrema destra. E con lui sono d´accordo non pochi altri esperti nella materia.

Non c’è del resto bisogno di ricorrere agli specialisti per rendersi conto che l’opposizione all’immigrazione, in particolare a quella musulmana, alla globalizzazione, al multiculturalismo, e a tutto quello che lo favorisce, Unione Europea inclusa, rafforza i movimenti populisti solerti nel presentarsi come difensori dell’identita nazionale o dei particolarismi regionali. Ed anche se quei partiti non predicano la violenza, essi creano un clima di odio che la favorisce, anche a livello individuale. Una violenza non riservata alla Norvegia, giudicata una contrada, a torto o a ragione, tradizionalmente tollerante, ma anche possibile in tanti altri paesi, con tradizioni meno virtuose.

La lotta al terrorismo di origine islamica è stata e resta giusta, indispensabile, e dopo l’11 settembre non poteva che mobilitare la quasi totalità delle varie intelligences occidentali. Ma si può sostenere, come il New York Times, che probabilmente si è sottovalutato il pericolo del terrorismo di estrema destra. L’attentato alle Torri Gemelle ha fatto ad esempio dimenticare, lo ricorda sempre il Nyt, quello avvenuto sei anni prima, nel 1995, a Oklahoma City, dove un estremista di destra uccise 168 persone con un ordigno a base di fertilizzanti, come quello piazzato nel centro di Oslo da Anders Behring Breivik.

È stato dato, ad esempio, scarso rilievo a quel che è accaduto lo scorso novembre nella città svedese di Malmo, dove un uomo è stato arrestato con l’accusa di avere aggredito una dozzina di immigrati. In un caso con esito mortale. Sempre in Svezia un partito di estrema destra, quello dei Democratici svedesi, ha ottenuto il 5,7 % dei voti ed è entrato per la prima volta in Parlamento. In Danimarca il Partito del Popolo danese ha venticinque seggi su 179 e in Olanda il partito di Geert Wilders, il Partito della Libertà, ha ottenuto il 15,5 per cento alle ultime votazioni. Sono nuovi e vistosi coefficienti elettorali che provano la crescita dell´estrema destra nell´Europa del Nord, le cui società sono ritenute aperte, accoglienti con gli immigrati.

Nell’Europa del Sud gli esperti dedicano ovviamente particolare attenzione al Front National francese, del quale Nicolas Sarkozy cerca di contenere la crescita, a un anno dalle elezioni presidenziali, sottraendo non poche idee al limite della xenofobia, a Marina Le Pen, nuovo leader e pericoloso concorrente. La Lega di Umberto Bossi, con una schietta tendenza anti immigrati, è addirittura al governo a Roma.

In molti scritti l’assassino norvegese si dichiara difensore della "cultura nordica" e condanna il multiculturalismo, in particolare la contaminazione araba. Con un altro stile, ben inteso, tre grandi leader europei hanno sostenuto tesi identiche. Il primo ministro del paese europeo più rispettoso dei diritti degli immigrati, l’inglese David Cameron, ha condanato il multiculturalismo. E lo stesso ha fatto a chiare lettere Angela Merkel, anche se la cancelliera tedesca non si è poi risparmiata nell´enfatizzare la necessità dell´immigrazione. In quanto al presidente francese ha promosso una campagna sull’identità nazionale, rivelatasi sfortunata. E comunque per Parigi l’assimilazione resta un dogma, e si guarda dall´ammettere il comunitarismo, e quindi il multiculturalismo.

Sarebbe troppo sbrigativo, anzi assurdo, affermare che l’assassino di Oslo e Utoya ha espresso con la bomba e il mitra i propositi di eminenti dirigenti europei. Non mi permetto di dirlo. Né lo penso. Ma l’atmosfera europea risente di quelle idee. Anders Behring Breivik era, a quel che sembra, un cane sciolto negli ultimi tempi. L’estrema destra norvegese non ha un vero leader, è un mosaico di tanti gruppi, sempre più numerosi, i quali traducono in discorsi fanatici, i normali propositi della società politica democratica. E Breivik si abbeverava a quelle fonti.

Un abisso di diseguaglianze si è spalancato davanti alla società italiana, negli stessi giorni in cui veniva certificato un drammatico ritorno della povertà, di cui ha scritto su queste pagine, con i toni giusti, Adriano Sofri. La povertà è certo la condizione che più rende visibile la diseguaglianza. Ma quel che sta avvenendo, soprattutto dopo la manovra finanziaria, è una vera e propria costruzione istituzionale della diseguaglianza che investe un´area sempre più vasta di persone, ben al di là di vecchi e nuovi poveri.

La distribuzione dei "sacrifici" è rivelatrice. Uno stillicidio di balzelli che incide su chi può essere più facilmente colpito, che lima i già ristretti margini dei bilanci familiari. Si è calcolato il peso che avranno gli aumenti di imposte, tariffe, prezzi. Peso insostenibile per taluni, quasi non influente per altri. L´effetto complessivo della manovra peserà per il 13,3% sui redditi bassi e per il 5% su quelli più alti. La rappresentazione della spinta istituzionale verso la diseguaglianza non potrebbe essere più netta.

È così tornata, in ambienti insospettabili, la vecchia espressione "macelleria sociale". Ma è una macelleria ben selettiva, vista la cura con la quale si è voluto tenere lontano da alcuni ceti anche un contributo poco più che simbolico al risanamento dei conti pubblici. Rivelatrice è la cinica dichiarazione di un ministro della Repubblica che, di fronte alla proposta di un significativo aumento della tassa per le automobili di maggiore cilindrata, ha esclamato: «Ma quelli votano per noi!». Il suo grido di dolore è stato prontamente raccolto, e la platea dei colpiti da quella misura è stata drasticamente ridotta. Mentre troppi diritti vengono messi in discussione, sembra che il solo al quale si deve continuare a dare piena legittimazione sia quel "diritto al lusso", che fa bella mostra di sé nella pubblicità di alcuni prodotti. Demagogia? O registrazione di una situazione di fatto nella quale si manifestano segni inquietanti di un ritorno della "democrazia censitaria", dove l´accesso anche a diritti fondamentali è sempre più condizionato dalle risorse di cui ciascuno dispone?

Il caso che illustra più direttamente lo stato delle cose è quello dei ticket sanitari, che rivela una doppia diseguaglianza. La prima nasce dal fatto che il ticket di 10 euro per le prestazioni specialistiche, sommato all´eliminazione della franchigia di 36,15 euro, colpisce pesantemente i redditi più bassi, riguarda impiegati, lavoratori, cassintegrati e, malgrado alcune esenzioni, introduce un pesante filtro selettivo che, ovviamente, produce discriminazione. La seconda diseguaglianza nasce dall´appartenenza regionale. Alcune regioni hanno già deciso di non applicare il ticket, scelta possibile solo nelle regioni più ricche. Si dirà che questo è l´effetto della cattiva amministrazione in materia sanitaria di molte regioni. Ma tutto questo produce una distorsione gravissima. Si trasforma l´accesso al diritto alla salute, il "più fondamentale" tra i diritti fondamentali, in una variabile che lo subordina al reddito e all´appartenenza regionale. A una prova così impegnativa, il federalismo "all´italiana" conferma una delle più serie critiche che erano state avanzate, la costruzione di un paese a velocità variabili in materia di diritti, dunque proprio sul terreno dove l´eguaglianza deve essere massima.

Questa progressiva cacciata dei più deboli dall´area dei diritti non consente la considerazione, consolatoria, che così sempre accade per i provvedimenti generali, che hanno effetti diversi a seconda del reddito delle persone. L´ultima manovra, infatti, avviene in una fase in cui la tutela dei diritti è stata già pesantemente ridotta dalla crisi economica, come mostra uno studio dell´Agenzia europea per i diritti fondamentali del dicembre 2010. Il congiungersi di questi diversi fattori sta creando una situazione in cui si mette in discussione "il diritto all´esistenza", e si ricacciano le persone in una condizione che le obbliga alla quotidiana ricerca di una precaria sopravvivenza. Non più "l´esistenza libera e dignitosa", di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, ma una esistenza subordinata a una contribuzione diseguale imposta dallo Stato, alle pretese di imprese che svuotano il lavoro di umanità e diritti.

I nostri, infatti, sono i tempi della vita precaria, della sopravvivenza difficile, del lavoro introvabile, delle rinnovate forme di esclusione legate alla condizione d´immigrato, all´etnia. In questo clima, dove massimo dovrebbe essere lo sforzo per produrre quella coesione sociale di cui tanto si parla, si moltiplicano invece i meccanismi di esclusione e di divisione. Poveri e diseguali: questo il nostro destino? La pura logica dei tagli offusca la capacità di progettare, di riflettere ad esempio sulla possibilità di riordinare l´intera materia dei sostegni legati alla disoccupazione per trasformarle in un reddito di base di cittadinanza, come sta accadendo in diversi paesi, mettendo al centro dell´attenzione proprio il diritto all´esistenza come diritto fondamentale della persona (lo ha fatto la Corte costituzionale tedesca).

Tornare a prendere in considerazione l´eguaglianza, la dignità, i diritti fondamentali. Non è un lusso, è la via della saggezza politica in un tempo in cui, altrimenti, i conflitti sociali si trasformano in rifiuto, rivolta. È quel che sta accadendo con la denuncia quotidiana della inaccettabilità dei privilegi di ceti, non solo quello politico, che hanno sempre più legato il loro modo d´essere a una vantaggiosa diseguaglianza. La costruzione oligarchica della società ha trovato la sua base materiale in retribuzioni sproporzionate, in franchigie per concludere qualsiasi affare, in vertiginose crescite della distanza tra i salari dei dipendenti e quelli dei dirigenti (nel caso Fiat è di 1 a 423: non è demagogia, ma informazione, ricordarlo). La questione è al centro delle discussioni di questi giorni, e la ricordo perché, muovendosi con inconsapevolezza, si può dare origine ad un´altra diseguaglianza. Penso, in particolare, a quel particolare costo della politica rappresentato dal finanziamento dei partiti. Innumerevoli vergogne lo hanno accompagnato in questi anni. Ma si torna sulla via maestra cancellandolo? John Rawls, tra i tanti, sottolinea come le risorse pubbliche siano indispensabili per evitare che la politica diventi prigioniera degli interessi privati. Riformiamo profondamente questo strumento, ma evitiamo che l´accesso alla politica sia riservato agli abbienti, per non ricadere nella radicale diseguaglianza della "cittadinanza censitaria".

Da qualche tempo, in nome della necessità di ridurre i «costi della politica» , ha ripreso vigore l’idea di abolire le Province come enti locali. Ma davvero sarebbe una buona idea? Naturalmente non basta l’argomento che le Province «costano» . Tutte le istituzioni «costano» . Il problema è se «servono» . Le Province «enti inutili» ? È vero che alla Costituente si era pensato che la creazione delle Regioni le avrebbe reso superflue. Ma poi l’idea rientrò; e l’esperienza successiva ha condotto viceversa ad un progressivo rafforzamento delle funzioni del livello di governo provinciale, pur dopo l’istituzione delle Regioni.

Sono lontani i tempi in cui si diceva che le Province servivano solo per strade, manicomi e assistenza agli illegittimi. Le Province continuano ad occuparsi di strade, ma le loro funzioni sono andate crescendo. Nella legge del 1990 sulle autonomie locali e nel testo unico del 2000 la Provincia è definita come l’ «ente locale intermedio tra Comune e Regione» , che «rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e ne coordina lo sviluppo» . Tra le funzioni delle Province vi sono quelle riguardanti «vaste aree intercomunali o l’intero territorio provinciale» , nei settori della difesa del suolo, della difesa dell’ambiente, dei trasporti, dello smaltimento dei rifiuti, dell’istruzione secondaria di secondo grado.

Alla Provincia fanno poi capo rilevanti funzioni di programmazione, in particolare il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio. Chi dovrebbe svolgere queste funzioni, se venissero soppresse le Province? Non è pensabile che compiti di «area vasta» possano essere attribuiti agli oltre 8.000 Comuni (dei quali circa 7.500 con meno di 15.000 abitanti): dunque essi andrebbero in gran parte alle Regioni. In teoria sarebbe anche possibile immaginare un sistema di «enti intermedi» costituiti da associazioni di Comuni, con uffici e strutture condivisi.

Ma l’esperienza dice che mettere d’accordo fra loro 20 o 100 Comuni della stessa area per esercitare insieme delle funzioni è assai complicato, e non è detto costi meno che affidare tali funzioni ad un ente autonomo come la Provincia. Né, ovviamente, è proponibile un accorpamento massiccio dei piccoli Comuni: l’autonomia comunale si nutre della storia e del senso di autoidentificazione delle comunità, grandi e piccole, sul quale è destinato ad infrangersi ogni disegno «razionalizzatore» astratto.

Sarebbe anche possibile immaginare che la Regione decentri i suoi uffici nel territorio. Le unità organizzative (e il personale) però non diminuirebbero. Si «risparmierebbe» solo l’elezione di presidenti e di consigli: ma siamo sicuri che l’accentramento politico in capo alla Regione, che ne risulterebbe, sia una soluzione soddisfacente? Uno dei timori e dei rischi che da sempre caratterizzano il nostro sistema delle autonomie è quello del «centralismo» regionale. Non è affatto detto che un semplice decentramento amministrativo della Regione sia in grado di soddisfare le aspirazioni di autogoverno delle popolazioni.

Il punto, semmai, è un altro. Le realtà regionali non sono tutte eguali. La Lombardia ha 9 milioni di abitanti e oltre 1.500 Comuni: immaginare che tutte le funzioni di «area vasta» siano governate dal Pirellone sarebbe follia pura: provate a dire agli abitanti dei piccoli e grandi Comuni del Comasco o del Bresciano che tutto ciò che è sovracomunale deve dipendere politicamente da Milano! Non è lo stesso se si tratta di una Regione piccola o piccolissima. La Valle d’Aosta (125.000 abitanti e 74 Comuni) non è suddivisa in Province. Si può discutere se davvero il Molise (320.000 abitanti e 136 Comuni) debba essere articolato in due Province.

Ma nelle grandi Regioni l’esigenza di avere enti intermedi rappresentativi delle popolazioni è difficilmente negabile. Allora non si tratta di abolire tout court le Province, programma irragionevole e impraticabile. Semmai di limitare le spinte localistiche impedendo che nascano sempre nuove piccole Province (come le otto in cui da ultimo si è frammentata la Sardegna). E, viceversa, di dare vita finalmente, nelle aree metropolitane, a cominciare da Milano, a un vero ente di governo (elettivo) di dimensione corrispondente, che sostituisca la Provincia e riunisca in sé non meno, ma più funzioni rispetto ad essa. È la Città metropolitana, prevista da dieci anni nella Costituzione e mai realizzata (mentre si è costituita la nuova Provincia di Monza e della Brianza).

Si eviterebbe così che i problemi del territorio della «grande Milano» — dalla pianificazione territoriale dei grandi insediamenti agli interventi per evitare le periodiche esondazioni del Seveso — restino affidati all’asimmetrico rapporto fra un Comune capoluogo dai confini ristretti ma che ogni giorno è «usato» anche da centinaia di migliaia di abitanti dell’hinterland, e un gran numero di Comuni piccoli o medi privi di voce in capitolo. Meno retorica dell’antipolitica, e più capacità di affrontare i problemi con razionalità: è chiedere troppo, nell’Italia di oggi?

Postilla

L’articolo espone, con la massima chiarezza e puntualità, le ragioni della Provincia. Ci sarebbe solo da aggiungere una riflessione sul ruolo (suicida) della politica dei partiti. Quando si discusse sui modi di affrontare le nuove esigenze dell’”area vasta”, si constatò, come ricorda Onida, che «mettere d’accordo fra loro 20 o 100 Comuni della stessa area per esercitare insieme delle funzioni è assai complicato», come l’esperienza insegnava. Si decise allora di procedere al “recupero delle istituzioni esistenti” (è il titolo di un editoriale di Urbanistica informazioni), di riutilizzare le province in ragione delle nuove esigenze, di formare le “città metropolitana” in alcune aree e contestualmente di dotare di nuove funzioni di “governo del territorio” le province nel resto del territorio nazionale.

L’attuazione della legge (la 142/1990) avrebbe dovuto comportare un forte impegno politico per trasformare il suo dettato in una radicale azione per ridisegnare i confini delle amministrazioni subregionali, per rendere adeguati i gruppi dirigenti delle province (e delle città metropolitane) ai nuovi compiti, e insomma per svolgere un’operazione politico-amministrativa analoga a quella che altri paesi (per esempio la Francia) avevano posto sul tema del riordino delle competenze amministrative.

Questo impegno politico non ci fu, da parte di nessuno dei partiti delle Prima Repubblica. E’ davvero difficile pensare che sappia fare di più il personale politico della Seconda Repubblica, che ha addirittura moltiplicato le province, aggiungendone 8 nuove tra il 1992 e il 2000, e altre 7 successivamente: tra queste, la BAT-provincia (Barletta, Andria, Trani) il cui stemma onora questo articolo. (e.s.)

Per il benessere dell'umanità sembra che niente sia meglio delle grandi opere. L'economia cresce e diventiamo più ricchi. Forse è stato così all'inizio, quando l'Inghilterra lanciava nel mondo macchine a vapore e il maresciallo Rondon attraversava il Brasile piantando pali del telegrafo, ma oggi ne conosciamo anche i giganteschi effetti negativi. Le grandi dighe, ad esempio, le opere simbolo dello sviluppo, sconvolgono territori e vite quotidiane, distruggono comunità, sommergono foreste, luoghi sacri e siti archeologici, cancellano memorie storiche. Danni documentati dagli ambientalisti - tre volumi curati da Teddy Goldsmith, direttore della nota rivista inglese The Ecologist, e le inchieste dell'International River Network, organizzazione con base in California - ma non solo. Agli inizi degli anni Novanta fece scalpore il rapporto indipendente sul complesso faraonico che imbrigliava il fiume Narmada, in India, così negativo da costringere la Banca mondiale a ritirare i finanziamenti. Nel 2000, a Londra, una commissione di esperti di 36 Paesi su otto grandi dighe concluse che i costi erano maggiori dei benefici.

Di quest'anno le prime ammissioni preoccupate del governo cinese sulla colossale Tre Gole: scomparsi i laghi della valle dello Yangtzee, aumentati i sedimenti e l'inquinamento, siccità e gravi problemi per la vita del milione e mezzo di sfollati.

Un altro esempio che i pro Tav preferiscono ignorare è la storia economica disastrosa del tunnel sotto la Manica che unisce via ferrovia Londra e Parigi, costruito da un consorzio privato che l'ha in gestione. Sbagliate le previsioni di traffico passeggeri e merci, sottovalutati i rischi. Sempre sull'orlo del fallimento, una volta sono i piccoli azionisti a cacciare i manager e un'altra sono le banche a bocciare i piani di ristrutturazione del debito. Perché si insiste?

Una stessa convinzione, diventata ormai un'ideologia, muove governi e istituzioni finanziarie internazionali, prima fra tutte la Banca mondiale: salvare il mondo attraverso grandi progetti, i soli che possono sradicare la povertà e sviluppare l'economia. I governi vogliono grandi opere che servono grandi affari a grandi imprese e la Banca le sostiene, elargendo finanziamenti che vengono in gran parte dai governi stessi, sono cioè i nostri soldi, senza alcun controllo democratico. Nessun popolo elegge i direttori della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, organismi che decidono il destino di intere nazioni. Gioca poi un immaginario ancora acceso da un mito ottocentesco che innerva ogni pagina "Affari e Finanza": la locomotiva. La Germania è la locomotiva d'Europa...Un motore va e trascina i vagoni.

Uno Stato con il Pil che cresce, un settore produttivo nuovo o uno vecchio consolidato, una serie di grandi opere sono il traino di un'economia che scorre su percorsi fissati in precedenza da cui è impossibile deviare, pena il deragliamento. Solo che nel secolo dell'ipotesi Gaia e delle tecnologie pioniere, locomotive e carburanti rinviano a un modello-mondo da prima rivoluzione industriale. Idee inadeguate per la contemporaneità, che ha bisogno di inventiva, collegialità, senso del vivente. Ma i miti muoiono lentamente.

Con la manovra finanziaria approvata la settimana scorsa, il reddito delle famiglie con figli è stato preso in ostaggio in vista della futura riforma fiscale e assistenziale. Solo se quest’ultima verrà approvata entro il 2013, infatti, non verranno attuate le previste riduzioni lineari dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale di cui possono attualmente godere le famiglie, in particolare quelle con figli.

L’impatto di quelle riduzioni è fortemente regressivo: inciderebbe maggiormente sulle famiglie a reddito più modesto. Ma anche se la riforma fiscale e assistenziale venisse approvata in tempo le cose non cambierebbero molto per le famiglie con figli. La riforma, infatti, ha lo scopo non tanto di razionalizzare e rendere maggiormente equo il coacervo di istituti - oltre 400 - che si sono accumulati senza logica nel tempo. Ha lo scopo pressoché esclusivo di ridurre la spesa, ovvero di determinare un risparmio non inferiore a 4.000 milioni nel 2013 e 20.000 milioni annui a decorrere dal 2014. Un obiettivo solo mascherato dal richiamo alla libertà di scelta dei cittadini. La bozza di delega, infatti, all’articolo 2 recita che il "criterio base della delega" è quello di applicare le nuove aliquote rispettivamente del 20%, 30% e 40% "su di un imponibile per quanto possibile non eroso dai regimi fiscali che nel corso degli anni sono stati introdotti per indirizzare le scelte e i comportamenti del contribuente verso obiettivi che lo Stato considerava costruttivisticamente meritevoli, lasciando invece alle persone e alle famiglie libertà di scelta in ordine all’uso del loro denaro. A questo effetto il governo è delegato ad eliminare o ridurre in tutto od in parte i regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale".

Il fatto è che molte delle misure che si vogliono eliminare sono destinate alle famiglie. E si tratta di misure che si ispirano al principio fiscale della redistribuzione: a parità di reddito riducono il prelievo sui nuclei familiari più numerosi. È il caso delle detrazioni per i figli a carico. Non è chiaro in che consista la libertà di scelta se l’eliminazione di queste facilitazioni non è sostituita da nulla e anzi si auspica un ancor maggiore coinvolgimento della famiglia nel far fronte ai bisogni economici e di cura dei propri componenti. Il potere d’acquisto di un’ampia fetta delle famiglie verrà semplicemente ridotto, comprimendo ulteriormente i consumi e quindi anche le stesse possibilità di ripresa. Non vi è dubbio che occorre mettere mano a una razionalizzazione complessiva del frammentato e carente welfare italiano, riducendo le iniquità per cui, a parità di reddito e bisogno, vi è chi può godere di più misure di sostegno (ad esempio assegni per i figli e detrazioni) e altri di nessuna (gli incapienti e coloro che non hanno un reddito da lavoro dipendente). E certo vi sono persone che godono impropriamente dell’assegno di accompagnamento. Ma ce ne sono molte altre che dovrebbero riceverlo, o avere servizi sostitutivi, ma non ricevono nulla. Così come non vi è un vero reddito minimo per chi si trova in povertà. Il welfare per le famiglie e per chi si trova in povertà è troppo risicato, oltre che ineguale, per pensare di effettuare risparmi in questo settore. Sarebbe già ottimo se si riuscisse a spendere meglio, più equamente e con maggiore efficacia. Ma i risparmi vanno cercati altrove. Sembra che anche i mercati la pensino in questo modo, non ritenendo realistica una manovra e un progetto di riforma non solo rimandati di due anni, ma che, nella loro regressività, tolgono fiato a chi già è in difficoltà. In questo contesto, anche l’opposizione e i sindacati dovrebbero avanzare proposte precise, non limitandosi a evocare la lotta all’evasione come sorta di magica lampada di Aladino che tutto risolverebbe. La lista del possibile è lunga, dalle liberalizzazioni sin qui efficacemente bloccate dagli interessi costituiti, al taglio, da domani e non in futuro, dei privilegi e dei redditi dei parlamentari ed ex parlamentari fino a quelli delle amministrazioni locali, dei grandi dirigenti pubblici e del parastato e, perché no, di alcuni conduttori televisivi. Dalla eliminazione di tutti i privilegi fiscali che favoriscono esclusivamente gli abbienti alla eliminazione tout court delle detrazioni, sempre regressive, a favore di trasferimenti diretti selettivi. Dall’anticipo dell’innalzamento dell’età pensionistica delle donne nel settore privato alla flessibilizzazione dell’età alla pensione per tutti

L'austerità finanziaria votata dal Parlamento venerdì 15 luglio sancisce l'impoverimento assoluto, non relativo, cui viene soggetta la grande maggioranza della popolazione italiana almeno da quando il passaggio all'euro ha comportato una massiccia redistribuzione del reddito a favore degli strati più ricchi. L'Italia si situa ormai in una dimensione che va oltre la crisi in corso. Solo un utopistico boom europeo, da anni Sessanta per intenderci, può arrestare l'immiserimento in corso.

Infatti la deindicizzazione totale e parziale delle pensioni non verrà certamente abolita, anche in caso di ripresa; così come non saranno annullati i ticket, né gli slittamenti salariali. Né verrà sospesa la moltiplicazione dei tagli a livello regionale e comunale, aggravati dal famigerato federalismo fiscale. L'ipotesi più concreta è che, come in Grecia, i tagli contribuiranno a perpetrare l'indebitamento rendendolo ancor più pesante.

A partire dalla manovra di Giuliano Amato nel 1992, la politica economica dei vari governi in carica si è caratterizzata per l'austerità di bilancio. Stando ai dati armonizzati prodotti dall'Ocse, dal 1993 al 2007 il deficit pubblico italiano proveniva interamente dal pagamento degli interessi sul debito. Il bilancio primario, cioè senza il computo degli interessi, è stato sempre attivo. Ciò ha comportato, fino al 2007, una marcata riduzione del deficit in rapporto al prodotto interno lordo. Il processo fu facilitato dal calo del tasso di interesse e dalla notevole performance dell'export italiano, grazie alla fase della lira debole, al boom consumistico delle tecnologicie negli Usa, in Brasile o nell'Argentina.

Dopo il 2000 - e col crollo delle dotcom statunitensi, di Brasile, Argentina e Russia - il deficit pubblico riprese a salire, rimanendo però sui livelli fissati dai criteri di Maastricht. Tra il 2001 ed il 2008 la media annua italiana è stata del 3,1%, contro il 2,2% dell'eurozona. Si noti però che, nel 1993, il deficit di bilancio italiano oltrepassava il 10% del Pil ed era quasi il doppio della media dei paesi che oggi fanno parte dell'unione monetaria. Tra i paesi dell'eurozona, l'Italia ha quindi subito la maggiore riduzione del deficit pubblico senza ottenere alcun beneficio. Le politiche di distruzione del bilancio hanno quindi contribuito alle disfunzioni infrastrutturali del paese, al crollo del meridione, all'arroccamento sulle rendite finanziarie e all'incapacità di affrontare la rivalutazione del tasso di cambio (connessa all'adozione dell'euro), se non attraverso la deflazione salariale.

Ma la moneta unica ha condotto tutti i paesi membri ad usare la deflazione salariale come criterio di competitività capitalistica. L'euro ha cementato l'unità del capitale nei confronti del lavoro e dei pensionati, permettendogli di dividersi su altre questioni, secondarie però ai rapporti di classe. L'impatto sulla domanda (deflazione salariale e gara europea sui tagli di bilancio) ha comportato, dal 2001 in poi, una forte riduzione nel tasso di crescita dell'eurozona. Il calo italiano è stato però ben maggiore, acuendo il divario con la media della zona. La stagnazione europea e la connessa crisi italiana hanno fatto risalire il deficit pubblico, anche perché le esportazioni non hanno contribuito a rilanciare l'economia. In passato, le esportazioni avevano sempre aiutato a «riacciuffare» la dinamica capitalistica per via della persistente aporia tra sviluppo interno e domanda estera. Dall'entrata in vigore dell'euro, però, la domanda reale interna è stata ulteriormente compressa dal surplus primario di bilancio e dalla deflazione salariale, mentre i conti esteri sono diventati ancora più negativi.

Malgrado la loro dinamica, le esportazioni italiane sono state neutralizzate da almeno tre fattori: deflazione salariale (soprattutto in Germania, che ha compresso la domanda interna con l'obiettivo programmato di massimizzare l'export), l'aumento dei prezzi energetici dal 2004, lo spostamento di una fetta notevole della domanda europea verso beni di consumo made in China. Il tutto coronato dalla scomparsa di settori avanzati, come impeccabilmente documentato da Luciano Gallino.

L'Italia era quindi un vaso di coccio pieno di crepe, non di ghiaccio come la torrida Grecia, già prima della crisi del 2008. È in quest'ottica che bisogna capire perché l'obiettivo di pareggiare il bilancio per il 2014 - anticipando la stessa Germania che entrerà in anoressia solo nel 2016 - significa l'impoverimento assoluto del popolo senza la possibilità di uscire dalla crisi.

È un coro quello che si leva sul costo della politica. Effettivamente in Italia quel costo è particolarmente elevato a causa dell´invasione della società politica nella società civile, che dà luogo a una rendita contaminata da inquinamenti mafiosi. Si parla della politica come di una corporazione. Magari! Le corporazioni avvertono i pericoli che le minacciano e sono pronte, quando quelli diventano imminenti, a pagare il costo di un ripiegamento: come sarebbe da noi la riduzione del numero dei deputati (promessa da secoli) o l´abolizione delle province. La politica italiana sembra invece priva anche dell´istinto di conservazione. Non è una corporazione. È una consorteria.

Ciò detto è incredibile e anche vergognoso che si punti il dito sulla invasione senza dire una parola sulla evasione. Sul fatto che un terzo del reddito reale, quello dei più ricchi, si sottrae ai propri doveri fiscali.

Pochi numeri rendono l´idea. Stime dell´Istat collocano il tasso di evasione medio nazionale al 13,5 del reddito dichiarato. Medio, significa benefici praticamente nulli per i dipendenti e i pensionati, stratosferici per gli autonomi e i rentiers che presentano un tasso di evasione rispettivamente del 56 e dell´84 per cento del reddito. In parte cospicua anche se non accertabile quelle ricchezze evasive affluiscono nei paradisi fiscali.

Secondo un calcolo dell´Ocse, che dovrebbe sorvegliarli e contrastarli, a fine 2008 i capitali accolti in paradiso ammonterebbero globalmente a circa 7 mila miliardi di dollari. Lo Scudo fiscale eretto dal nostro governo apre ai capitali italiani peccatori le porte del paradiso: una provvidenziale via di redenzione. Chiudere i paradisi? Anche per Nostro Signore sarebbe difficile: non ci si può sottrarre al ricatto capitalistico della migrazione dei capitali "altrove". Verrebbe voglia di dire: è il capitalismo, stupido. Ma c´è modo di non subire interamente il ricatto.

Primo, denunciandolo, come si fa con la mafia. Ora, l´Italia è il solo paese al mondo in cui un presidente del Consiglio dichiara invece pubblicamente di comprendere le ragioni degli evasori.

Secondo: il rapporto tra Stato e capitalismo, che può essere declinato in modi assai diversi. Si va dalle repubbliche di banane dei Caraibi al compromesso socialdemocratico o cattolico democratico tra democrazia e capitalismo.

Il livello del confronto dipende in primo luogo, ovviamente, dal rapporto di forze. Per i "mercati" altro è avere a che fare con l´Italia o con l´Europa: e qui si misura il costo della fiacchezza europea. Dipende poi dalla competenza e dalla qualità dei governi nazionali.

Ci sono due aspetti che possono aumentare il grado di autonomia della politica dal ricatto capitalistico per i governi nazionali: i conti in ordine e l´autorevolezza. In Italia purtroppo non disponiamo né degli uni né dell´altra. I conti sono pessimi. Quanto all´autorevolezza siamo piuttosto lontani da quella del generale de Gaulle (proprio in tema di paradisi fiscali non dimentichiamo che il generale minacciò di intervenire militarmente a Montecarlo. Solo Bossi potrebbe farlo con le sue baionette padane) e più vicini a una repubblica di banane.

Un soprassalto di dignità è quello che il presidente della Repubblica, il solo vero garante della dignità del Paese, ha ottenuto dal senso di responsabilità delle opposizioni con il via libera all´approvazione di una manovra disapprovata. Ma non basta certo. Affidare una manovra economicamente sconnessa e socialmente iniqua alla gestione di un governo rissoso? È questo che ci aspetta nei prossimi due anni?

La manovra in parlamento sarà immediata; questo è il momento delle decisioni irrevocabili, come si diceva una volta. Sotto le bombe - Moody's e compagni che tirano alle banche italiane mentre è Giulio Tremonti, alle spalle dell'onorevole Milanese, l'anatra zoppa - si è formata da noi un'Unione sacra che solo la misurata retorica del presidente chiama «coesione». L'opposizione si è liquefatta, affidandosi a una di quelle parole dal suono magico: tregua.

«Ecco come arrivare al pareggio subito». Il Sole 24Ore». (Roberto Perotti e Luigi Zingales) ha titolato così un editoriale dal soave occhiello: «Decalogo draconiano». Confindustria e governo vi hanno attinto largamente, o forse lo hanno largamente ispirato. Se al primo punto del decalogo sono indicate le privatizzazioni delle imprese pubbliche rimaste, o per meglio dire la vendita dei pacchetti azionari detenuti in nome del Tesoro dalla Cassa dei depositi e prestiti; se al secondo compare l'eliminazione delle Fondazioni bancarie, è il terzo che conta davvero. Vi è intimata la privatizzazione delle municipalizzate, le imprese che gestiscono nelle città i trasporti, l'acqua, l'elettricità, i rifiuti. Tremonti lo ribadisce ai banchieri riuniti in assemblea, escludendo il caso dell'acqua, ormai protetta dal risultato referendario del mese scorso. Sostiene Tremonti: gli enti locali saranno spinti a vendere «attraverso un sistema di incentivi e disincentivi». Detto altrimenti, chi si adegua e vende i beni comunali riceverà i contributi dello stato, che mancheranno invece ai sindaci riottosi.

E' facile notare che un simile comando è tipico di uno stato centralista che vuole eliminare ogni forma di autonomia locale. La misura riporta l'intero quadro politico indietro di decine di anni, agli albori della prima repubblica, con buona pace del federalismo proclamato ogni due giorni. Un secondo aspetto è che lo stato centrale - il governo di concerto con l'opposizione - in questo modo di fatto s'impadronisce di beni e attività che non sono suoi, privandone i comuni e gli abitanti. Sono beni comuni che lo stato, con il ricatto, costringe a vendere, per contenere i propri debiti, impietosire la finanza internazionale e mostrare la propria modernità.

Inoltre la cessione di attività decisive come i trasporti urbani mette le città alla mercé dei fondi e delle banche che hanno anticipato i mutui necessari agli investimenti. Infine, chi garantirà il servizio già pubblico? Se il fondo straniero, nuovo proprietario della rete tranviaria, dovrà scegliere tra maggiori profitti e migliori vetture, come si comporterà? Siamo sicuri della continuazione del servizio notturno? Chi avrà davvero la forza di imporre regole al nuovo proprietario, potente, di nazionalità indefinita, che opporrà sempre i diritti superiori del capitale?

I giorni dell'attacco finanziario all'Italia sono ormai alle spalle. Qualcuno è convinto che il paese abbia retto, tanto che l'attacco è stato respinto. A ben vedere la finanza internazionale ha inferto un colpo alla straordinaria Italia dei referendum. Primo paese del capitalismo avanzato, l'Italia si era mostrata capace di ribellarsi e di scegliere la via dei beni comuni, della democrazia partecipata, del rifiuto al nucleare. Era un colpo intollerabile per coloro che si considerano i padroni del mondo: andava subito cancellato. Occorreva un segnale forte, valido per tutti, in Europa e fuori: nessuna libertà a chi si oppone. Il segnale è arrivato: i beni comuni delle città italiane sono in vendita.



La nota Istat su «La povertà in Italia», relativa al 2010, ci restituisce l'immagine di un'Italia povera. Di un paese socialmente fragile, con un esercito di 8.272.000 individui (462.000 in più rispetto al 2009) in condizione di povertà relativa (costretti cioè a una spesa mensile inferiore a una soglia che per una famiglia di due membri è pari a 992 euro). E con 1.156.000 famiglie in condizione di povertà assoluta, per le quali cioè risulta impossibile procurarsi un pacchetto di beni e servizi considerati il minimo indispensabile per condurre una vita decente. Era così prima della crisi. Continua ad esserlo durante la tempesta.

Soprattutto però i dati Istat confermano la persistenza, anzi l'aggravamento, di tutte le caratteristiche che sono state indicate come tipiche del "modello di povertà" italiano. Un modello patologico, senza confronti in Europa. Esse sono tre. In primo luogo lo squilibrio nord-sud, con un differenziale territoriale che per la povertà relativa raggiunge le 5 volte: il 67% della povertà italiana continua a concentrarsi nel Mezzogiorno, nonostante vi risieda appena il 31% della popolazione. In secondo luogo l'altissima incidenza della povertà tra le famiglie numerose, in particolare quelle con figli minori a carico, che fa dell'Italia la maglia nera in Europa per quanto riguarda la più scandalosa delle povertà, quella dei minori, che qui raggiunge la percentuale record del 25% (secondo l'agenzia statistica europea Eurostat). Infine l'alto livello di povertà, sia relativa che assoluta, tra i lavoratori. La presenza, imbarazzante, dei working poor, dei "poveri al lavoro". O, se si preferisce, di coloro che sono poveri sebbene lavorino (più del 6% sono in condizione di povertà assoluta!).

Ebbene, tutti e tre questi aspetti risultano - in alcuni casi drammaticamente - peggiorati nell'ultimo anno. È sconvolgente che la povertà relativa sia aumentata, in un solo anno, tra le famiglie numerose, di ben 5 punti percentuali (dal 24,9% al 29,9%). E che nel Meridione, tra le famiglie con tre e più figli minori, il balzo sia stato addirittura di 11 punti (dal 36,7% al 47,3%). Significa che lì, un minore su due vive in una famiglia povera. E che una famiglia numerosa su tre è povera. Nel Meridione, d'altra parte, è peggiorata verticalmente anche la posizione dei lavoratori autonomi (dal 14% al 19,2%) e quella delle persone con titolo di studio medio alto (dal 10,7% al 13,9%), a dimostrazione di quanto la crisi sia arrivata a mordere nel vivo anche tra le classi medie (è un segnale nefasto che «tra le famiglie con persona di riferimento diplomata o laureata aumenti anche la povertà assoluta, (dall'1,7% al 2,1%)».

Possiamo immaginare quale possa essere l'effetto degli interventi lineari della manovra or ora approvata a tempo di record, su questa ampia parte dolente del Paese. Che cosa comporti il taglio delle detrazioni fiscali per figli minori e asili nido o per cure pediatriche; la soppressione di servizi essenziali in campo educativo e sanitario; la reintroduzione dei ticket, accompagnati agli effetti sperequativi del cosiddetto "federalismo fiscale". Sale sulle ferite. Come di chi preme sulla nuca di un uomo che affoga.

La politica più screditata degli ultimi decenni ha imposto agli italiani i sacrifici più duri. Una riedizione del biennio 1992-1993, probabilmente aggravata e peggiorata. Che la manovra economica sia – in queste circostanze – inevitabile, non toglie che essa sia legittimata più dallo stato di necessità e dall´autorità di Napolitano che non dalla supremazia della politica, dalla sua lungimiranza, o almeno dal consenso popolare. La rapidità con cui i due rami del parlamento hanno approvato i sacrifici presenti e futuri, con la responsabile copertura politica anche di chi ha votato No, vuole trasmettere l´idea dell´urgenza e della compattezza ai mercati finanziari.

Ma non convince il fronte interno. Ossia i cittadini, che vedono, certo, l´unità della classe politica ma che al tempo stesso constatano lo scollamento impressionante fra questa e la società.

La società non è, in sé, il ricettacolo del Bene – è un crogiolo instabile di paure e di egoismi, oltre che di speranze. E la politica non è in sé il Male: anche se oggi è in crisi strutturale e morale, minacciata com´è dalla disastrosa autonomia dell´Economico (e della Finanza) e dalla penosa inadeguatezza di troppi suoi esponenti, è pur sempre la funzione direttiva della Cosa pubblica, un´attività nobile e difficile che deve avere le caratteristiche tanto dell´esercizio intellettuale quanto della saggezza pratica quanto della competenza tecnica. Ebbene, oggi la politica non mostra questo volto: e si presenta invece come una Casta – percorsa da troppa corruzione e collusa con troppi poteri opachi – che non riesce a comunicare alla società, né a leggerne i segni.

Non comunica. E infatti non sa cogliere l´occasione che questa doppia crisi – economica e politico-morale – le offre per rilegittimarsi agli occhi dei cittadini. Mentre interviene per decreto sulla vita delle famiglie, mentre si accanisce sui bilanci del ceto medio e basso, mentre alza i ticket e taglia servizi ai deboli, mentre colpisce i risparmiatori e il pubblico impiego, mentre alza le tasse (o abbassa le detrazioni) a chi le paga nel contesto d´evasione a tutti noto, non trova invece la forza e l´intelligenza per un gesto simbolico – non però demagogico né inefficace – che riavvicini i politici ai cittadini, i potenti a coloro che devono subire. Qualcosa come un provvedimento che dimezzi, fino dalle prossime elezioni il numero dei parlamentari, norme organiche e severe contro la corruzione, la riforma immediata dell´infame legge elettorale. Per iniziare, basterebbe la capacità di trovare un atteggiamento unitario verso l´arresto dei parlamentari per i quali la magistratura lo chiede; o che i ministri sospettati di mafia abbiano un soprassalto di decoro e si dimettano. Messaggi di questo tipo non vengono oggi dalla politica – capace, al contrario, di votare una legge talebana sul "fine-vita", pur consapevole che tre quarti degli italiani la aborrisce, e che è, oltre che barbara, anticostituzionale.

Non sa, poi, leggere i segni dei tempi. Le elezioni amministrative e i referendum, ma anche la protesta delle donne, sembrano passare come acqua fresca sui Palazzi del potere. Una società civile che si mostra non fatta solo di chiusure e di rancori, un messaggio non qualunquistico di protesta e di fiducia nel futuro, una scommessa sul valore di ciò che è pubblico e comune, un´ansia di dignità individuale e collettiva, una ricerca di spazi di cultura e di comunicazione, la voglia – urlata, senza rabbia – di partecipare alla ricostruzione di un Paese umiliato; tutto ciò chiede ascolto e risposta, vuole attenzione, esige una parola che lo decifri, che offra un senso, che immagini una nuova democrazia. Un´idea che ripensi il ruolo dei partiti e li apra alla società, invece che farne delle arene di carrierismi e dei serragli di complotti; che ne attenui la presa sulle infinite "spoglie" di cui la politica si impadronisce, e che spartisce fra i propri adepti, suscitando nella società rabbia, risentimento e feroce spirito d´imitazione.

Tutto ciò resta invece senza riscontro. Prima di tutto a sinistra, dove la parola d´ordine è ancora "educare le masse", e dove, in nome di una superiorità della politica che oggi in Italia non può proprio essere invocata, ci si prepara a far digerire, nel prossimo futuro, una politica moderata a un elettorato che è ben più radicale dei suoi rappresentanti – ai quali, per fare un esempio, non è ancora venuto in mente di fornire un elenco delle leggi berlusconiane che, senza alcun costo per le casse dello Stato, sarebbero abrogate nel caso di vittoria. Ma perfino a destra ci si sta già accorgendo che quella del "partito degli onesti" era o un´illusione o una boutade, e che la strada verso la riscoperta della politica e verso l´autonomia del partito (e del segretario politico) dal suo declinante padrone è ancora molto lunga.

Il potere logora chi non ce l´ha, d´accordo. Ma un potere che non capisce neppure quando deve riformarsi, che non coglie le occasioni per rigenerarsi, si logora da sé. Si potrebbe scrollare le spalle e ricordare che quos vult perdere deus amentat, che dio rende stolti quelli che vuol rovinare. Ma la rovina non sarà solo dei politici: se aumenterà la scollatura fra questa politica e la società che si risveglia, l´attuale crisi perderà, verosimilmente, le proprie potenzialità morfogenetiche e democratiche. Priva di sponde politiche la società lascia presto cadere le proprie speranze, soprattutto in tempi difficili, e dà il peggio di sé. Anziché una nuova politica libera e moderna in una società viva, c´è così il rischio – e l´Europa ne offre già esempi – che sulle rovine della democrazia trionfino egoismi selvaggi e populismi inquietanti.

Referendum sulla “Grande Milano”

di Guido Podestà

Gentile Sindaco Giuliano Pisapia, intendo, come già feci con Letizia Moratti, lavorare con lei, unitamente con gli altri sindaci del Milanese, alla costruzione «dal basso» della Città metropolitana. L’obiettivo è quello di garantire ai cittadini più efficienza amministrativa e maggiore razionalizzazione dei cosiddetti «costi della politica» .

Le propongo, quindi, di dare seguito all’impegno di operare in questa direzione, così come ci siamo detti nel nostro primo incontro e come abbiamo riaffermato davanti alle assemblee di Confcommercio e di Assolombarda. Sarei felice, pertanto, se lei, assieme a una rappresentanza degli altri 133 sindaci della Provincia, accettasse di entrare nel Comitato promotore del referendum sull’istituzione del nuovo Ente, che, tramite questa lettera aperta, propongo di celebrare entro il 2012 in tutti i 134 Comuni del territorio.

L’entrata in attività del Comitato, nel quale andrebbero coinvolti esponenti della società civile, delle associazioni datoriali e dei sindacati, dovrebbe, a mio avviso, avvenire in ottobre previa convocazione, a settembre, di Stati generali.

Il quadro normativo ci offre, nel rispetto delle prerogative riconosciute al Parlamento, la possibilità di formulare un progetto di Città metropolitana e di chiamare alle urne i cittadini allo scopo di verificarne il consenso. Su quest’aspetto, suggerisco il 2016 del dopo Expo. Ma non voglio dettare una road-map.

Desidero, piuttosto, fornire, in sintonia con lei, risposte all’esigenza di accelerare la nascita della Città metropolitana. A tale Ente dovrebbero essere affidate competenze di area vasta in ordine a infrastrutture, trasporti, mobilità, ambiente, ciclo idrico integrato, pianificazione urbanistica, sviluppo economico e occupazione. Il nostro territorio, capace di contribuire per il 10%alla formazione del Pil, teatro dei più importanti processi politici italiani e caratterizzato da un continuum urbanistico tra il capoluogo e i Comuni di prima e seconda cintura, risulta un laboratorio ideale.

Si tratta di una convinzione della quale ho messo al corrente sia i presidenti delle Province destinate a trasformarsi in Città metropolitane, durante un incontro risalente al luglio 2010, sia il capo dello Stato, nell’ambito del colloquio svoltosi a Palazzo Isimbardi nell’aprile 2010. Il presidente Giorgio Napolitano concordò sulla necessità di velocizzare l’iter e sottolineò le similitudini di sviluppo territoriale ininterrotto di Milano e di Napoli. L’esigenza da me avvertita di trasporre il nuovo Ente dall’architettura costituzionale alla realtà non è riconducibile a polemiche e campagne giornalistiche legate alle ipotesi di abolire tout-court le Province.

La mia posizione, al riguardo, è nota. Credo che la cancellazione indifferenziata di moltissimi Enti amministrati con rigore, come tutti quelli lombardi, non comporterebbe un risparmio ma, semmai, un incremento di costi e una frammentazione di competenze tra Comuni e Regioni in contrasto con il bene dei cittadini. La Provincia di Milano, che, già agli inizi del ’ 900, il sindaco del capoluogo Emilio Caldara voleva cancellare, risponde in pieno ai requisiti della Città metropolitana.

Questa circostanza è confermata non solo dai lavori della Commissione di ex sindaci di Milano (Carlo Tognoli, Paolo Pillitteri, Piero Borghini, Marco Formentini e Gabriele Albertini), che, all’indomani del mio insediamento e rispettando un impegno assunto in campagna elettorale, ho incaricato di formulare una proposta di Città metropolitana, ma pure dagli studi dell’Isap, sostenuto dalla Provincia e dal Comune nonché presieduto prima da Tognoli e oggi da Ugo Finetti.

Il nostro Ente, che persino i più convinti assertori dell’abolizione delle Province riconoscono non costare un euro allo Stato ma, anzi, assicurare, unico tra quelli italiani, un saldo positivo all’Erario (oltre 16 milioni di euro), amministra, del resto, il territorio motore dell’economia italiana proiettato verso Expo con realizzazioni infrastrutturali e prospettive di crescita occupazionale traguardanti il 2015. Chiudo questa lettera aperta invitandola a Palazzo Isimbardi per procedere, già dalla prossima settimana, a un nuovo confronto sui passi da muovere insieme verso la meta, indicata dai residenti, della Città metropolitana.

Grande Milano, partiamo dal 2016

di Giuliano Pisapia

Gentile Presidente Guido Podestà, ho letto con attenzione e interesse la sua lettera pubblicata ieri e condivido la volontà di un lavoro comune tra le istituzioni milanesi per dare concretezza alla nascita della Città metropolitana di Milano, che porterebbe al superamento dei nostri attuali enti locali. È questo un tema a me così caro da averlo già affrontato durante la mia attività parlamentare.

Mi trovo d'accordo sugli obiettivi di una maggiore efficienza amministrativa, di migliori servizi ai cittadini e della razionalizzazione dei costi, soprattutto in un momento di crisi economica quale quello che ha investito il nostro Paese. Abbiamo il dovere di essere buoni amministratori, rispettando la fiducia che i milanesi hanno riposto in noi. La realizzazione della Città metropolitana, peraltro inserita in Costituzione e prevista dalla Legge delega 42/2009, è un passo fondamentale in questa direzione.

Certo non si tratta di un'azione concretizzabile in un giorno, ma possiamo aprire un percorso serio per far si che già tra cinque anni si possa votare per il nuovo Ente. Il 2016 è una buona data, sulla quale è possibile dare già oggi rassicurazioni. Ma non si possono, e non si debbono, trovare più alibi. Oltre alle iniziative referendarie, è possibile ripartire dal contenuto del Disegno di Legge depositato in Senato nel 2009 sull'istituzione della Città metropolitana di Milano. Il documento è collegato alla Carta delle Autonomie ed è già all'esame della Commissione Affari Costituzionali.

Si tratta però di un percorso lento che va assolutamente reso più veloce. Sono quindi più che disponibile a un incontro con lei e con i rappresentanti degli altri Comuni per valutare le iniziative per dare attuazione ad azioni virtuose per il bene del nostro territorio e dei nostri cittadini. A partire da una sollecitazione nei confronti del Parlamento richiamando il senso di responsabilità e di forte volontà riformatrice per una nuova architettura costituzionale, che non deve ricadere nel taglio ai servizi, ma in una maggiore efficienza.

Ma fin da subito, in attesa di un legislatore talvolta troppo lento, è possibile operare insieme per trovare e dare risposte concrete su temi per definizione sovracomunali come quelli, tra gli altri, dell'inquinamento, della mobilità e della cultura. Da parte del Comune ribadisco che c'è il massimo impegno a far si che la Città metropolitana di Milano diventi realtà. Lo conferma il fatto che abbiamo già dato il via, come dichiarato in campagna elettorale, al processo di trasformazione dei Consigli di Zona. Si tratta di un segnale fortissimo che consentirà ai "parlamentini"di diventare vere e proprie municipalità in grado di operare autonomamente e in condizioni di equilibrio rispetto ai Comuni dell'Area, preparando di fatto il terreno alla nascita della Città metropolitana di Milano, tanto attesa a parole, ma ancora lontana nei fatti.

Un impegno che avevamo preso con molti sindaci e amministratori della Provincia, nel corso di vari incontri che si erano svolti ancora prima che diventassi sindaco. Di questo sarò felice di riparlarne con lei nei prossimi giorni.

Postilla

Meglio tardi che mai. Ma ripetiamo la nostra domanda: le Città metropolitane non avrebbero dovuto essere costituite, e i confini amministrativi delle Province sul territorio residuo ridisegnate, fin dal 1992? Chi ha impedito ai soggetti politici che oggi vogliono abolire province (e le connesse Città metropolitane) di fare il loro dovere?

Mentre vengono ulteriormente ridotte le risorse di comuni e regioni, alla faccia del tanto sbandierato federalismo che da quest´ultima manovra riceve l´ultimo colpo, Tremonti promette che i futuri risparmi derivanti dai tagli ai costi della politica saranno destinati all´8 per mille per finanziare il terzo settore. Questa promessa è insieme peculiare dal punto di vista formale e molto insidiosa da quello sostanziale. Dal punto di vista formale non si capisce il meccanismo istituzionale che ha in mente Tremonti. L´8 per mille non è alimentato da trasferimenti diretti dello Stato. Il suo ammontare è deciso dalle scelte dei contribuenti, pur all´interno di un meccanismo poco trasparente che fa sì che la quota totale dell´8 per mille del gettito da assegnare allo Stato piuttosto che a una o l´altra confessione religiosa sia deciso dalla piccola minoranza che opera una scelta esplicita. Lo Stato, poi, fa più o meno quello che vuole con la propria quota, utilizzata di solito come sorta di fondo di riserva per finanziare le cose più varie. Basterebbe impegnarsi a finanziare il terzo settore, peraltro già destinatario del 5 per mille, senza dirottarvi altri fondi.

Ma è soprattutto dal punto di vista sostanziale che questa promessa appare molto insidiosa, proseguendo nella linea già tracciata dal libro bianco sul welfare, in cui si è evocata esplicitamente la carità e gli istituti caritativi come risorsa principe del welfare dopo la famiglia, e poi dalla finanziaria 2011 ove la, miseranda, social card per alcune categorie di poveri è stata data in gestione, appunto, a istituti caritativi e di terzo settore. Tra una finanziaria e una manovra di aggiustamento dopo l´altra, le possibilità dei comuni di fornire servizi essenziali ai cittadini sono state progressivamente ridotte in modo drastico. Per il terzo settore (categoria molto eterogenea), invece, si ha un occhio di riguardo, sperando che faccia un po´ di supplenza, ma anche produca consenso. E´ un meccanismo simile a quello messo in opera nella scuola, dove ai tagli nella scuola pubblica non hanno fatto seguito quelli alle scuole private (cattoliche).

Il sospetto è che con questa promessa, che non costa nulla perché a futura memoria (mentre i tagli agli enti locali colpiscono subito), Tremonti prosegua la sua campagna personale presso le gerarchie e il mondo cattolico, per ottenere lo status di politico di riferimento. E´ una campagna che sta avendo successo, come testimoniato dalle motivazioni del premio che gli è stato recentemente assegnato dall´Università Cattolica. Ma è fatta a spese del ruolo degli enti locali e delle stesse condizioni di cittadinanza sociale nel nostro paese. Le organizzazioni di terzo settore, così come quelle di volontariato, sono una grande ricchezza. Ma non possono essere loro a garantire diritti di base e criteri universalistici. Neppure possono diventare una sorta di strumento dello Stato, pena la loro perdita di autonomia. Se ciò può andare bene a qualcuna di queste associazioni, forti della colonizzazione dello spazio pubblico che sono riuscite a operare con il sostegno dei politici, come avviene, ad esempio, con Comunione e Liberazione in Lombardia, ad altre questa possibile deriva desta legittime preoccupazioni.

Pessima giornata, ieri, per la civiltà giuridica di questo paese. Pessima giornata per la legittimazione sociale del Parlamento, che si allontana vertiginosamente dalle persone, da anni favorevoli quasi all´80% al diritto di ciascuno di decidere liberamente sulle modalità del morire.

Questo ci dice il voto con il quale la Camera dei deputati ha approvato le norme sulle "dichiarazioni anticipate di trattamento" che espropriano ciascuno di noi del potere di decidere sul morire. Non è ancora una legge della Repubblica, perché il testo dovrà di nuovo essere esaminato dal Senato. Ma, dopo che si è riusciti a peggiorare un testo orribile già all´origine, ogni speranza che i senatori possano avere qualche ripensamento sembra del tutto infondata.

Al posto della volontà della persona compare ormai, violenta e invadente, quella del legislatore.

Perdiamo il diritto all´autodeterminazione, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 438 del 2008, ha riconosciuto come diritto fondamentale della persona. Si esclude, infatti, che la persona possa liberamente stabilire quali siano i trattamenti che intende rifiutare qualora, in futuro, si trovi in situazione di incapacità. Le sue dichiarazioni non hanno valore vincolante, vita e corpo della persona sono sottratti al governo dell´interessato e affidate a regole autoritarie, alla pretesa del legislatore di farsi scienziato, ed alla decisione del medico. La persona scompare, altri soggetti compaiono al suo posto. La dignità nel morire è cancellata.

Invece di rispettare la persona quando riflette sul momento più difficile e intimo della sua esistenza, si dà voce ad uno spirito vendicativo, esplicitamente dichiarato da quelli che hanno attribuito al testo votato ieri la funzione di chiudere la fase aperta dalla decisione della Corte di Cassazione nel caso di Eluana Englaro.

Una rivincita contro una sentenza definita "giacobina" (quale approssimazione culturale in questo modo di esprimersi!), mentre si è trattato di una sentenza così accuratamente argomentata da mettere la nostra giurisprudenza al livello della miglior riflessione giuridica internazionale su questi temi.

Ieri, al contrario, ci siamo allontanati dall´Europa e dal mondo, spinti dal medesimo, cieco furore ideologico che ha prodotto la pessima legge sulla procreazione assistita, che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima in alcuni dei suoi punti più significativi e di cui si occuperà anche la Corte europea dei diritti dell´uomo.

Questo è il destino al quale va incontro la legge sul testamento biologico. Ed è inquietante che nel dibattito parlamentare siano state usate parole quasi intimidatorie, quando si detto che sarebbe un brutto giorno per la democrazia quello in cui la Corte costituzionale decidesse contro la maggioranza del Parlamento, una volta investita del giudizio sulla nuova legge.

Possibile che ogni volta si debba ricordare ai parlamentari che le corti costituzionali sono appunto "giudici delle leggi", che hanno proprio il compito di vegliare sul rispetto dovuto dal Parlamento alla Costituzione? Possibile che ignorino che la discrezionalità del legislatore incontra limiti precisi in particolare quando sono in questione la vita, la salute, la dignità della persona?

La verità è che il testo votato ieri non chiuderà le polemiche, ma avvierà una lacerante stagione di conflitti. Si è detto che si voleva sottrarre ai giudici il potere di decidere sulla vita. Accadrà il contrario, perché siamo di fronte a norme che apriranno la via a contestazioni, a ricorsi, a eccezioni di incostituzionalità.

Si è imposta una logica che rende le persone prigioniere proprio di quelle costrizioni dalle quali, con un testo semplicemente ricognitivo del diritto all´autodeterminazione, avrebbero potuto liberarsi. Si corre il rischio di vie traverse, di sotterfugi. Esattamente il contrario della lezione civile di Beppino Englaro, che ha accettato la via aspra e lunga della legalità, e che ieri, per questo, è stato insultato nell´aula di Montecitorio. Si incentiverà il terribile "turismo eutanasico" verso altri paesi, un cammino che già più d´uno ha cominciato dolorosamente a percorrere.

Questi sono i frutti amari dell´ideologia, della pretesa di sottomettere ai propri convincimenti "le vite degli altri", proprio quelle che dovrebbe essere massimamente rispettate. E´ quel che accade in tutti i paesi che hanno approvato leggi in questa materia, è quel che hanno fatto, con vera carità cristiana, la Conferenza episcopale tedesca e il Consiglio delle Chiese evangeliche nell´opuscolo con il quale hanno dato ai fedeli le istruzioni sul testamento biologico, che legittimano quasi tutto quello che in Italia viene vietato.

Ma questo è pure il frutto amaro di un bipolarismo distruttivo, di una cieca obbedienza di parlamentari ormai senza relazione alcuna con il mondo che li circonda, di una appartenenza imposta dal fatto che il loro destino personale e politico è solo nelle mani del padrone della maggioranza.

Nella vituperata Prima Repubblica la civiltà del confronto non venne meno neppure nella discussione di leggi assai più dirompenti per i problemi di fede che ponevano, come quelle sul divorzio e, soprattutto, sull´aborto. Oggi che si prospetta il ritorno di un partito cattolico, con imprimatur cardinalizio, la vicenda del testamento biologico non è l'auspicio migliore.

La vicenda delle province e del tanto chiacchierato voto alla Camera un merito ce l’ha, ed è quello di avere finalmente riportato in primo piano aspetti rimasti finora sullo sfondo o del tutto ignorati. Intendiamoci, non poche reazioni di autorevoli esponenti politici anche del centro sinistra non brillano e non aiutano molto a dare risposte serie e non demagogiche. Quasi si fosse finalmente scoperto dove si annidano i famigerati centri di poteri di una casta insaziabile, superstipendiata e spendacciona, come la pipa che stavamo cercando e l’avevamo in bocca; le province. Il tutto accompagnato da dichiarazioni tipo; servono le unioni comunali, si potrebbe pensare anche ad una elezione non diretta, dimenticando o ignorando che queste ipotesi e esigenze che, abbiano o no qualche validità, non hanno certo il pregio della novità e in qualche caso sono anche già state sperimentate.

Il punto, infatti, che stenta ancora ad emergere è che non stiamo parlando solo di gestione su cui si dicono anche cose strambe come quella che le province gestirebbero solo le strade; questo era vero negli anni 70, ma non lo è più da tempo. In ogni caso anche gli esempi che ricorrono più spesso sono i consorzi, gli enti e così via che gestiscono generalmente specifici aspetti settoriali dalla bonifica agli ATO e che potrebbero essere sciolti per affidare i loro compiti alle province o alle unioni dei comuni. Ma da quando sono state istituite le regioni, rinnovate le leggi degli enti locali, diversamente ripartite le competenze su una diversa e nuova scala istituzionale statale, regionale e locale e spesso in rapporto con le nuove competenze comunitarie, è il governo complessivo del territorio che ha registrato la maggiori innovazioni prima con la legge 183 sul suolo e poi dal 91 la legge quadro sui parchi preceduta peraltro da importanti e innovative leggi regionali. E’ anche - se non soprattutto - in conseguenza di questo nuovo ingresso istituzionale nella gestione del territorio e dell’ambiente che anche gli enti locali non hanno dovuto occuparsi più solo di strade o di manicomi. Le autorità di bacino con i loro piani idrogeologici e i parchi ugualmente con i loro piani non urbanistici ma ambientali, aprono un nuovo capitolo anche per gli enti locali, oltre che per le regioni e lo stato che devono agire su dimensioni e scale ormai non più soltanto intercomunali o interprovinciali ma anche interregionali e internazionali. Colpisce non poco perciò, che questo improvviso riaccendersi di polemiche sull’area vasta ignori che quelle dimensioni ineludibili dei bacini come dei parchi, non coincidono quasi mai con i confini amministrativi persino statali; vedi Santuario dei cetacei, vedi Convenzione alpina. Lo stesso si può dire per il paesaggio che il nuovo codice è tornato a separare da quella connessione e integrazione sancita dalla Convenzione europea, ma anche da quelle leggi prima richiamate. Sarà un caso, ma in queste roventi polemiche dopo il voto della Camera, che sembra abbia fatto scoprire a più d’uno che avevamo deciso da tempo - ma non è vero - di abrogare le province, nessuno di quelli che straparlano di strade non citino mai i piano territoriale di coordinamento, ossia strumenti preposti a quel governo del territorio di cui si sono perse le tracce e non solo a Pontida. Che l’area vasta abbia così perso smalto e in troppe situazioni abbia lasciato il passo a dimensioni assai meno vaste, è dovuto anche al fatto che quelle nuove scale di governo del territorio ricordate, sono state penalizzate, azzoppate, modificate senza che nessuno o quasi - anche di quelli che oggi si sbracciano sulle province - battessero ciglio, a cominciare dal parlamento.

Che il bacino del Magra sia unico ma riguardi due regioni, Toscana e Liguria e che due dei tre parchi nazionali - sempre in Toscana - siano interregionali ossia tosco-emiliani, che Liguria e Toscana con la Sardegna siano nel Santuario dei cetacei con la Francia e il principato di Monaco, non pone qualche problema anche alle aggregazioni intercomunali o a quelle aggregazioni di più province di cui si sta parlando senza per la verità molto coinvolgimento nonostante la nostra legge regionale sulla partecipazione?

Prima di votare in consiglio regionale non sarebbe stato preferibile - tanto più che talune questioni hanno dimensione nazionale - coinvolgere più soggetti per evitare quello che teme Marras, e cioè che il tutto serva a poco? Ecco perché il riordino o se si preferisce la riforma delle istituzioni non può essere confinata nel capitolo della lotta alla casta e dei privilegi della politica. Qui è facile fare demagogia, sul resto non perché servono idee serie e non bastano di sicuro le battute sulla rottamazione.

La Grecia, dunque, non èl’unica area di crisi. E il problemanon è più circoscritto al Portogallo e all’Irlanda. Ora che le locuste della speculazione hanno messo nel mirino il bersaglio grosso, cioè il nostro Paese ma anche la Francia, la Spagna e la stessa istituzione dell’Euro, ci accorgiamo di come fossero stati sottovalutati i segnali di instabilità in Europa indotti dagli effetti della crisi finanziaria americana e poi dalla recessione. A tre anni dal terremoto finanziario degli Stati Uniti, dalla rottura del sistema dei mutui subprime fino al fallimento di storiche banche, non abbiano imparato nulla, la lezione nonè servita a nessuno. Siamo ancora qui vittime della speculazione e della finanza, assistiamo al trionfo della rendita e alla sconfitta della politica e del lavoro. E la Consob fa quasi tenerezza quando “impone” la comunicazione delle posizioni al ribasso, mentre sul mercato si scatenano i cavalieri dell’Apocalisse.

L’Italia ha creduto, anzi si è illusa, che Berlusconi e Tremonti avessero davvero la situazione sotto controllo, che nessuno avrebbe osato attaccarci perchè «noi stiamo meglio degli altri», perchè «la crisi non esiste» e se c’è «l’abbiamo ormai superata». Tutte citazioni del nostro premier (oggi atteso alla “prima” del Milan... speriamo che non ci vada) e del ministro dell’Economia. Adesso è arrivato il conto, ed è un conto che pagherà l’intero Paese.

I mercati non hanno creduto al valore della manovra di rientro del debito, non hanno condiviso i tempi, non hanno fiducia che questo governo con una maggioranza così sfilacciata e litigiosa possa davvero risanare i conti. L’attacco all’Italia è partito la scorsa settimana, è esploso ieri facendo vittime illustri in Borsa e nei titoli del debito pubblico, e continuerà. Continuerà perchè le locuste si fermeranno solo quando vedranno scorrere lacrime e sangue e potranno incassare i loro profitti per poi trasferire le loro offensive su altri obiettivi. Oggi i mercati vogliono solo una cosa dal nostro Paese: l’approvazione immediata dalla manovra da parte del parlamento e l’anticipazione al 2012 e 2013 dell’obiettivo di pareggio. E se quelli della manovra di Tremonti non sono 40 e passa miliardi, allora ci vorrà qualcuno in grado di trovarli.

Il clima che si respira, piaccio o no, è lo stesso dell’estate 1992 quando Giuliano Amato si presentò al tg della sera per informare gli italiani della svalutazione della lira e del varo di una manovra da 90mila miliardi di lire, compreso il prelievo una tantum dal nostro conto corrente bancario. L’Italia si rimise in pista, la svalutazione competitiva della lira fornì fiato alle imprese e poi l’accordo del ‘93 tra le parti sociali fece il resto. Ci vorrebbe un altro Ciampi, o il Prodi che ci portò in Europa, ma non è aria. Ci possiamo aggrappare alla telefonata del cancelliere Merkel che, dopo aver ritardato per interessi elettorali gli aiuti ad Atene, è in ansia per l’attacco all’Italia che, nonostante tutto, ha la seconda industria manifatturiera d’Europa, assai integrata con quella tedesca.

Quello che è accaduto ieri sui mercati non è un episodio isolato diun sistema sbagliato, anzi malato. La crisi è sistemica. Siamo ostaggi e impotenti davanti ai movimenti di capitali speculativi, i governi per difendersi dovrebbero chiudere le borse,temiamo i giudizi delle agenzie di rating dopo averle finanziate e valorizzate (e certi leader laburisti e progressisti del passato che ostentavano le “medaglie” di Moody’s o Standard & Poor’s, oggi dovrebbe sparire). L’affronto degli speculatori, che non sono qualche cosa di estraneo a questo sistema ma ne sono parte integrante, è senza pudore. Il Wall street journal ha tributato gli onori a Mario Draghi, nuovo presidente della Bce,come garante della stabilità della moneta unica. E ieri l’euro è stato preso a sberle sui mercati. A Londra viene premiata Intesa- San Paolo come miglior banca italiana, nelle stesse ore il titolo dell’istituto perde il 7% in Borsa. Non cambia mai nulla. Tre anni fa, quando a New York fallì la Lehman Brothers “ la banca che non poteva fallire”, quando la crisi travolse il mondo industrializzato, con la perdita di milioni di posti di lavoro, governi e leader politici di ogni colore si impegnarono a limitare le invasioni della finanza, a difendere il risparmio e l’occupazione contro la rendita, a tagliare le retribuzioni dei manager. Ma non è cambiato niente.

Così va il mondo.

Una classe politica non è sempre il riflesso del paese, non solo perché, come ben sappiamo, i sistemi elettorali possono facilmente falsarla, ma anche perché è molto probabile che dopo la sua investitura elettorale le opinioni dei cittadini cambino anche se si tratta di un mutamento solo sentito e percepito. Dalla primavera del 2008 ad oggi molte cose sono avvenute che hanno incrinato il consenso alla maggioranza. Elencarle vorrebbe dire fare una lunga lista di scandali e casi di corruzione ai quali sono seguiti pochissimi casi di dimissioni e invece molte dichiarazioni diffamanti e attacchi agli organi giudiziari e alla stampa o alle istituzioni che osavano bloccare provvedimenti o limitare i danni di decisioni prese. Dopo tre anni gli italiani hanno dimostrato di non gradire più la politica e i comportamenti di questa maggioranza. Lo hanno dimostrato indirettamente nelle elezioni amministrative e con i quattro referendum. La loro voce aveva un senso assai chiaro, ma la classe politica nazionale ha adottato la strategia della sordità e dell´indifferenza. Siccome non si è trattato di elezioni politiche, si è detto, tutto deve e può continuare come prima, e se possibile più spavaldamente di prima. I tiri mancini tra i membri del governo e il clima da rissa di cui la maggioranza ha dato spettacolo in Parlamento e fuori (salvo ripetere ai fedeli inossidabili che tutto va per il meglio e questo è il migliore dei governi possibili) ha del surreale e del tragicomico. Non migliora l´immagine della nostra classe politica il comportamento di pusillanime codardia di un Pd che non mantiene saldo neppure il suo programma politico (abolizione delle Province) e sembra quasi che abbia timore di essere maggioranza nell´opinione del paese.

Tutto porta ad allargare invece che accorciare il distacco tra la politica dentro e la politica fuori delle istituzioni. Un segno nemmeno troppo criptico di una rappresentanza politica malata e zoppa, alla quale si adatta bene la descrizione di Lewis Namier della classe politica inglese alla vigilia dell´indipendenza americana: faziosa, corrotta, famelica e indifferente all´opinione del paese. Ora, se è vero che sono le elezioni a dare autorevolezza sovrana all´opinione dei cittadini, è altresì vero che nel tempo che intercorre tra due tornate elettorali non sta scritto da nessuna parte che gli eletti e il governo possano fare e disfare a loro piacimento ciò che vogliono (facendo grande affidamento sulla memoria corta dell´opinione mediatica). Tra un´elezione e l´altra la rappresentanza dovrebbe mantenere un dialogo informale con la società, registrarne gli umori, anche quelli sfavorevoli, interessarsi insomma non solo del voto dei cittadini ma anche delle loro opinioni. L´impressione invece è che a chi governa interessi davvero soltanto far sì che l´opinione venga via via riportata nell´alveo dell´accondiscendenza, che essa sia da ascoltare solo quando è addomesticata. Anche a costo di mettere un macigno tra i fatti e le parole.

Un esempio: la discussione sulla manovra che dissanguerà le amministrazioni locali, il servizio sanitario nazionale e tutto ciò che è pubblico, a cominciare ovviamente dalla scuola (la perenne punita di questo governo) e dai servizi sociali di sostegno a chi ha più bisogno come anziani e handicappati, ebbene questa discussione non ha mostrato grande interesse per ciò che gli italiani saranno costretti ancora una volta a subire senza possibilità alcuna di far sentire la loro voce e, anzi, contraddetti dal Presidente del Consiglio (che ha voce potentissima) il quale continua imperterrito a ripetere che il governo, contrariamente a quello di altri paesi europei, "non metterà le mani delle tasche degli italiani". Ma come giustificare questa affermazione con i tagli che toglieranno molti soldi dalle tasche degli italiani togliendo loro servizi e sostengo senza dare loro alcuna certezza dell´efficacia dei loro sacrifici, come ha spiegato Tito Boeri su questo giornale? Non si giustifica infatti, ma lo si ignora e lo si nega. E come giustificarla con la riforma che scippa alle donne i risparmi derivanti dall´aumento dell´età della pensione nel pubblico impiego (3 miliardi e mezzo nei prossimi sette anni) senza alcuna politica programmatica che si impegni se non altro a usare queste risorse a beneficio del lavoro delle donne?

Non pare esserci rispondenza tra parole e interessi di chi governa e interessi e vita di chi opera e lavora. Una schizofrenia che raggiunge l´apice nelle parole del Presidente del Consiglio nell´intervista rilasciata a Repubblica, una riprova ulteriore di assenza di dimestichezza con la politica democratica. È infatti il leader che decide chi andrà e dove, descrivendo la geografia umana e politica delle istituzioni di domani: dal Quirinale al Governo. Come se a lui spetti preparare il nostro futuro: non quello del suo partito, si badi bene, ma il nostro. L´Italia come una sua azienda della quale l´amministratore delegato disegna l´organigramma, dove poco o nulla conta che ci sia una cittadinanza, salvo il fatto che è "un mercato di consenso e di voti". E perché il mercato risponda a chi investe secondo le aspettative tutte le energie verranno messe in moto; c´è chi parla "per gli elettori" (ovvero dice ciò che è conveniente dire, non ciò che è per noi conveniente sapere) e c´è chi parla "per i mercati": un ministro per le orecchie del popolo e uno per quelle degli investitori. Dove stia il vero è e resta un rebus. L´accountability, il rendere conto, da cui dipende la differenza tra democrazia elettorale e oligarchia eletta, è violata senza alcun scrupolo. Se la classe politica alla quale il governo rappresentativo e costituzionale da vita è, come ci spiega Peter Oborne, una leadership che ha internalizzato l´idea di dovere pubblico perché ha gradualmente appreso a distinguere ciò che è nell´interesse di sé come gruppo o partito da ciò che è nell´interesse del paese, l´Italia di oggi non ha una classe politica.

"Quando Olivetti inventò il pc", un documentario che vorremmo tutti vedessero, non fosse che per riflettere sul patrimonio di genialità ma anche sugli abissi d´insipienza che la nostra Italia si porta dentro. La storia che Sky ci ha raccontato – a cura di Alessandro Bernard e Paolo Ceretto – svela a spettatori certamente ignari come il primo personal computer, la macchina più innovativa della nostra epoca che rivoluzionerà l’agire dell’umanità intera e da cui scaturiranno fino ad oggi infinite evoluzioni, venne ideato, progettato, disegnato e materialmente fabbricato in un capannone di Ivrea da un gruppetto di fantasiosi ingegneri italiani, tecnici della nuova scienza. Con loro non più di 400 fra designer, economisti, esperti di materiali, operai e tecnici altamente specializzati, animati dal figlio di Adriano, Roberto Olivetti, (di cui nel documentario purtroppo si parla troppo poco, come si tace sul geniale capo progetto, Mario Tchou, un cinese nato a Roma, morto in un incidente d´auto dopo l´avvio dell´impresa).

Alle loro spalle, nume tutelare di riferimento, Enrico Fermi, che credette fin dall´inizio nella possibilità di trasformare i mastodontici calcolatori elettronici, bisognosi per l´uso di addetti informatici in camice bianco, in oggetti portatili a disposizione di ogni tipo di consumatore. Un sogno impossibile, dicevano i più o, al massimo, un progetto destinato a restare allo stadio del prototipo avveniristico. Gli unici a crederci eravamo un gruppetto di amici di Roberto Olivetti, incantati dalla sua fantasia progettuale.

Il documentario scandisce le fasi del passaggio dall´utopia alla scienza applicata attraverso l´esperienza di un gruppetto di avanguardia guidato dall´inventore della scheda magnetica, precursora del floppy disk, ingegner Pier Giorgio Perotto, con i suoi più diretti collaboratori (Gastone Garziera, De Sandre, Faggin, inventore del microprocessore, l´architetto Mario Bellini che disegnerà la macchina). L´ultima fase di questa epopea tecnologica viene svolta in semi clandestinità. Quando, morto Adriano Olivetti, la società si trova in difficoltà, il gruppo d´intervento dei big dell´industria e delle banche, con alla testa Cuccia e Valletta. pongono, infatti, come condizione che la divisione elettronica venga venduta agli americani. Nessuno di loro capisce nulla di computer e Valletta afferma: "È stato un grande errore imbarcarsi in qualcosa di impossibile per gli europei. Del resto se nessuno ha costruito una macchina simile vuol dire che non serve a niente". L´ordine viene eseguito, ma Roberto ha un colpo di furberia. Dichiara che la Programma 101 non è un computer ma una piccola calcolatrice e la sottrae alla svendita. Il gruppetto dei "congiurati" seguita a lavorare in un capannone coi vetri oscurati per non farsi scoprire. Col fiato alla gola arrivano a costruirla in tempo per l´esposizione mondiale di New York del 1965.

Gli espositori della Olivetti la relegano in una stanzetta puntando tutto sulle calcolatrici elettromeccaniche. Fino a quando l´entusiasmo dei visitatori, che all´inizio non credono al miracolo e cercano invano i fili a cui il computer sia collegato, non li travolge e sono costretti a mettere la Programma 101 al centro del padiglione. Se ne vendono subito 40.000 esemplari. Ma la battaglia non è vinta. L´americana Hewlett Packard la copia moltiplicandone le potenzialità. Accusata di plagio sborsa 900.000 dollari per acquisire tutti i brevetti. Fatto fuori Roberto, i nuovi dirigenti di Ivrea sono ben lieti di liberarsi di questa eredità. A loro scusante vi è il fatto che la meccanica era ancora vincente sul mercato e la cultura elettronica non era neppure percepita da quella cultura industriale che non andrà al di là del " piccolo è bello" della futura Padania. I pionieri di Ivrea, colpevoli di aver capito tutto 15 anni prima di Bill Gates e che ogni paese avrebbe glorificato, furono sconfitti e irrisi in vita e dimenticati dopo la loro scomparsa.

L’accusa più falsa che viene veicolata dal gigantesco network in mano ai poteri forti, riguarda la “perdita” di 670 milioni di finanziamento europeo per realizzare la grande opera causata dalla cecità dei movimenti. Pochi giorni fa su Il Manifesto, Marco Revelli ha ribadito la verità: se si accetta di prendere il modesto finanziamento si perderanno i 20 miliardi di euro necessari a costruire una gigantesca e inutile grande opera.

20 miliardi di dollari è l’ammontare del debito contratto da Atene per coronare il grande sogno di perseguire la grande opera per eccellenza: le Olimpiadi che si svolsero nel 2004. Era il 1997 quando la capitale greca avanzò la candidatura e in breve tempo si creò il comitato d’affari necessario al raggiungimento del sogno. Grandi banche pronte a finanziare il debito, grandi imprese europee pronte a accaparrarsi i ghiotti appalti finanziati a debito con i soldi pubblici. Il fallimento economico dell’evento fu devastante. Le prime stime del 1997 parlavano solo di 1, 3 miliardi di dollari. Qualche anno dopo, il costo era quadruplicato, salendo a 5 miliardi. A consuntivo sono stati spesi 20 miliardi di euro. Alcuni economisti parlano di una voragine ancora maggiore. Dietro al sogno si nascondeva un incubo.

Le città - in quel caso la meravigliosa Atene - e i territori - in questo caso la val di Susa - sono diventati feudi di proprietà di un ristretto gruppo di istituti di credito, di grandi imprese, di società di rating pronte a seminare il panico sui mercati finanziari. Finanziano la spesa pubblica, se ne impadroniscono - guadagnando fiumi di denaro - e poi chiedono il conto all’intera società. In questi giorni sono stati concessi alla Grecia dall’Unione Europea 120 miliardi di euro di prestiti (il 20% circa serve per sanare il buco olimpico, dunque), e il motivo principale del prestito è che le banche europee rischiavano altrimenti di perdere parte del credito. Con la dilazione del credito riprenderanno i loro soldi e metteranno in vendita un’intera nazione.

La val di Susa sta dimostrando con studi concreti che il fallimento economico della realizzazione della Tav è certo. Non potranno esserci ritorni in termini di passeggeri perché il bacino d’utenza è oggettivamente ristretto. Non potranno esserci ritorni per il transito merci sia perché è dubbio che venga realizzata la linea ad alta capacità, sia perché in Svizzera sono già meglio attrezzati di noi. Nel caso dunque che l’opera andasse avanti per la cecità di chi ci governa e di un opposizione parlamentare culturalmente annientata, tra poco più di un decennio l’intero paese sarà costretto a pagare il debito che avremo contratto per finanziare le imprese e le banche che tengono in ostaggio il nostro ceto politico.

La battaglia della val di Susa assume dunque un valore straordinario. Azzerare l’opera significa risparmiare un fiume di soldi che potrà essere dislocato su altre poste di bilancio. Dal sostegno all’economie locali, ai progetti di messa in sicurezza del territorio e delle città, alla realizzazione dei servizi sociali che ancora mancano lì e in tante altre valli. Altre imprese beneficeranno dei finanziamenti oggi indirizzati solo a quelle poche che controllano il mondo dell’informazione. Un’altra agenda di lavoro, dunque: da un'unica inutile grande opera a tante piccole opere che nel loro insieme fanno un grande progetto di sviluppo. Il territorio come bene comune.

E di fronte a questa sfida, fa pena dover leggere il commento su quanto accade in val di Susa da parte del sindaco di Torino che ha affermato che essere contro la Tav è segno di “regressione culturale”. Parla per se stesso, ovviamente, e per coloro che ancora fanno finta di credere nella favola che le grandi opere portano sviluppo. Portano invece il mostruoso debito che oggi strozza la Grecia. Devono evidentemente nascondere quanto sta oggi avvenendo con spirito bipartisan. Quando Atene vinse la “sfida” olimpica che avrebbe contribuito al collasso economico del paese ellenico aveva di fronte la candidatura della Roma guidata dal centro sinistra. Non contento dello scampato pericolo, in questi ultimi due anni il sindaco Alemanno ha nuovamente candidato la città per le Olimpiadi del 2020 e maggioranza dell’opposizione capitolina rappresentata dal Pd non ha fatto battaglia. Anche ora che le intercettazioni telefoniche a carico di Bisignani e soci svela l’intreccio vergognoso degli interessi e delle speculazioni da parte di coloro che cantavano le lodi della candidatura, prima fra tutti l’Unione degli industriali laziale.

Evidentemente una parte della sinistra è ormai incapace di rompere la subalternità culturale con cui ha guardato alla globalizzazione e il futuro sta nell’intelligenza collettiva della val di Susa.

Abbiamo assistito in questi giorni ad un dibattito sulla cancellazione delle Province intriso di demagogia e di superficialità.

I cittadini e le imprese ci chiedono di riformare con coraggio la pubblica amministrazione per renderla più snella ed efficiente e per consentire al Paese riforme ormai non più rinviabili. Tutto ciò è tema che riguarda seriamente il Partito Democratico e la sua capacità di collocarsi in modo convincente sul terreno delle riforme, spiegando ai cittadini ciò che intende fare e soprattutto ciò che farà al governo del Paese. Per questo la scelta del Partito di non sostenere l’ipotesi demagogica dell’Idv e dei centristi, volta solo all’incasso di un consenso a breve, ci convince.

Di fronte alla presa di posizione di autorevoli esponenti del nostro partito, per “amor di verità” crediamo di dover richiamare il nostro programma elettorale del 2008, che come Presidenti di Provincia abbiamo condiviso e che prevedeva l’eliminazione entro 1 anno di tutti gli ATO, settoriali e non, attribuendo le loro competenze alle Province. Si prevedeva inoltre l’eliminazione delle Province là dove si costituiranno le aree metropolitane.

Mai, come Presidenti di Provincia, abbiamo attestato l’associazione della quale facciamo parte, su posizioni di difesa acritica dell’attuale sistema istituzionale.

Crediamo però che un grande partito abbia il dovere di spiegare ai cittadini quale Paese ha in mente. Peraltro, mentre ragioniamo di tutto ciò, il Parlamento si appresta ad approvare la Carta delle Autonomie, testo fondamentale per l’attuazione del federalismo, perché in esso vengono definite le funzioni fondamentali di Comuni e Province; in pratica il “chi fa che cosa” nel sistema delle autonomie locali. Le Associazioni delle autonomie e le Regioni hanno suggerito soluzioni diverse, ognuna a difesa del livello di governo che rappresentano, ed il Governo ha compiuto una difficile mediazione. Siamo sicuri che quel testo non debba essere più preciso per evitare ogni sovrapposizione di competenze, definendo con esattezza il mestiere di ciascuno, per rendere la vita più semplice ai cittadini e alle imprese, e rendere possibili significativi risparmi, semplicemente evitando che tutti facciamo le stesse cose? E, visto che si parla solo di Comuni e Province, non è il caso che le Regioni facciano la stessa cosa, evitando di distribuire in modo irrazionale o, ancor peggio, di trattenere, funzioni che possono essere conferite agli enti più vicini ai cittadini, così che possano avere finalmente, per una loro esigenza, un solo interlocutore?

E allora qualche domanda è legittima.

L’abolizione delle Province porta con sé l’abolizione dei capoluoghi e quindi l’eliminazione di prefetture, questure, uffici decentrati dello Stato e delle Regioni?

Si vuole cioè concentrare il potere e l’economia pubblica in venti città e non più in cento città italiane?

Si vogliono eliminare soltanto le Province e lasciare organizzati lo Stato e le Regioni come adesso e quindi, di fatto, spostare a livello Regionale compiti, funzioni e personale, vista la oggettiva difficoltà di trasferire ai Comuni competenze di area vasta?

Se fosse così 50.000 dipendenti residenti in quasi tutti gli oltre 8.000 comuni italiani, che svolgono per la gran parte funzioni legate al territorio, rimarrebbero irrimediabilmente nelle Province e le Regioni non potrebbero far altro che costituire agenzie, società e sovrastrutture con costi facilmente immaginabili.

Al di là della demagogia è arrivato il tempo delle proposte serie. Su di esse i Presidenti di Provincia saranno al tavolo di chi vuole riformare profondamente l’Italia: presto, bene e con coraggio, senza posizioni pregiudiziali e pronti a condividere scelte che riguardino anche e soprattutto le Province. Quello che non è tollerabile è la continua delegittimazione di rappresentanti delle istituzioni, eletti dai cittadini e che in trincea si confrontano quotidianamente con le difficoltà che stiamo attraversando. Al Partito Democratico chiediamo di scegliere subito la strada da percorrere, strada di riforme profonde che può e deve riguardare tutti i livelli istituzionali del Paese. Il centrodestra in lunghi anni di governo non ne è stato capace, sta a noi dimostrare che riformare le istituzioni seriamente è possibile.

I Presidenti di provincia Pd dell’Unione delle province d’Italia: Antonio Saitta (Torino), Nicola Zingaretti (Roma), Fabio Melilli (Rieti), Andrea Barducci (Firenze), Beatrice Draghetti (Bologna), Giovanni Florido (Taranto), Piero Lacorazza (Potenza).

Una domanda:

ma le Città metropolitane non avrebbero dovuto essere costituite (e i confini amministrativi delle province sul territorio residuo ridisegnate) fin dal 1992?

I moribondi di Palazzo Montecitorio stanno per approvare una legge ideologica, violenta, bugiarda, sgrammaticata, incostituzionale. È la legge sul testamento biologico, altrimenti detta «dichiarazioni anticipate di trattamento». E faccio esplicito riferimento a un classico della critica parlamentare – I moribondi del Palazzo Carignano, scritto nel 1862 da Ferdinando Petruccelli della Gattina.

La maggioranza parlamentare sempre più delegittimata per gli scandali che l´attraversano, per l´impunita vocazione a secondare ogni pretesa del suo Capo, per la distanza abissale dal rispetto dovuto ai cittadini pretende di impadronirsi della vita stessa delle persone. Non si cura dei documenti analitici mandati a tutti i senatori e deputati da più di cento giuristi che mostrano i gravi limiti tecnici della legge. Disprezza l´opinione pubblica perché, come da anni ci dicono le periodiche rilevazioni dell´Eurispes, il 77% degli italiani è favorevole al diritto di decidere liberamente sulla fine della vita. Mentre ripetono la sempre più mendace formula "non mettiamo le mani nelle tasche degli italiani", il presidente del Consiglio e la sua docilissima schiera mettono le mani sul corpo di ciascuno di noi.

La legge è ideologica e violenta, quintessenza di un dispotismo etico che vuole imporre a tutti il parzialissimo, controverso punto di vista di una sola parte a chi ha convinzioni, fedi, stili di vita diversi. Afferma la «indisponibilità» della vita: ma questa è una affermazione in palese contrasto con l´ormai consolidato diritto al rifiuto e alla sospensione delle cure, che in moltissimi casi è già stato esercitato con la consapevolezza che si trattava di una decisione che avrebbe portato alla morte. Nega il diritto di rifiutare trattamenti come l´alimentazione e l´idratazione forzata, escludendone il carattere terapeutico in contrasto con l´opinione delle società scientifiche e con l´evidenza della pratica medica. Riflette un fondamentalismo cattolico incomprensibile: il muro alzato dalle gerarchie vaticane contrasta clamorosamente, ad esempio, con l´apertura mostrata dalla Conferenza episcopale tedesca Varcate le Alpi, quel che lì è materia di legittimo dibattito pubblico improvvisamente diventa questione di fede?

È bugiarda, perché il suo titolo – che si richiama al consenso informato, all´alleanza terapeutica tra medico e paziente, alla rilevanza delle dichiarazioni fatte dalla persona per decidere consapevolmente sul come morire – è clamorosamente contraddetto dal contenuto delle singole norme. Il consenso della persona è sostanzialmente vanificato, perché le sue dichiarazioni non hanno valore vincolante e non possono riguardare questioni essenziali come quelle dell´alimentazione e dell´idratazione forzata. L´alleanza terapeutica si risolve nello spostamento del potere della decisione tutto nella direzione del medico. Le «dichiarazioni anticipate di trattamento» sono vere macchine inutili, frutto di un delirio burocratico che impone faticose procedure alla fine delle quali vi è il nulla, visto che sono prive di ogni forza vincolante.

Siamo di fronte ad una vera "legge truffa", ad un testo clamorosamente incostituzionale. Legittimi punti di vista non possono essere trasformati in norme che si impongono alla volontà delle persone violando i loro diritti fondamentali. La discrezionalità del legislatore, in questi casi, è esclusa esplicitamente dall´articolo 32 della Costituzione: «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E la Corte Costituzionale ha riconosciuto il diritto della persona di «disporre del proprio corpo»; ha severamente escluso che il legislatore possa arrogarsi il ruolo del medico e dello scienziato: e soprattutto ha affermato in modo nettissimo che l´autodeterminazione è un "diritto fondamentale" della persona. Proprio quell´autodeterminazione che il voto della Camera vuole cancellare.

Questo scempio si sta consumando nel più assoluto silenzio. Perché l´opposizione, oltre ad impegnarsi in una purtroppo vana battaglia di emendamenti, non ha praticato nemmeno per un minuto un ostruzionismo che avrebbe almeno avuto la funzione di informare l´opinione pubblica del gravissimo scippo che si sta consumando a danno di tutti? Il Pd continua a rimanere pr igioniero delle sue divisioni interne, che sono divenute un ostacolo alla cultura e alla ragione? Perché persiste il timore di dispiacere alle gerarchie vaticane, non al ricco e aperto mondo dei cattolici? Perché, soprattutto, a nulla è servita la lezione delle elezioni amministrative e dei referendum che mostrano una società viva, reattiva, alla quale bisogna fare appello tutte le volte che sono in questione i diritti fondamentali delle persone?

Ricordo una volta di più Montaigne: «la vita è un movimento ineguale, irregolare, multiforme». La legge deve abbandonare la pretesa di impadronirsi d´un oggetto così mobile, sfaccettato, legato all´irriducibile unicità di ciascuno. Quando ciò è avvenuto, libertà, dignità e umanità sono state sacrificate e gli ordinamenti giuridici hanno conosciuto una inquietante perversione. Non a caso «la rivoluzione del consenso informato» nasce come reazione alla pretesa della politica e della medicina di impadronirsi del corpo delle persone, che ha avuto nell´esperienza nazista la sua manifestazione più brutale. L´autoritarismo non si addice alla vita, né nelle sue forme aggressive, né in quelle «protettive». Riconoscere l´autonomia d´ogni persona, allora, non significa indulgere a derive individualistiche, ma disegnare un sistema di regole che mettano ciascuno nella condizione di poter decidere liberamente.

Immersa nella nube di «cupio dissolvi» che troppo spesso la acceca, la sinistra ha perso una formidabile occasione. Astenersi alla Camera, nel dibattito sul disegno di legge costituzionale per la soppressione delle province, è stato un errore imperdonabile. È come se l´opposizione, dopo aver trovato un prorompente e promettente varco politico dentro la società italiana che ha votato alle amministrative e ai referendum, gli avesse improvvisamente e inopinatamente voltato le spalle.

Dilettantismo? Opportunismo? Masochismo? Forse tutte e tre le cose. Sta di fatto che la politica, come la vita, è attraversata da fasi. L´esito della doppia tornata elettorale di maggio e di giugno imponeva una scelta inequivoca, che rendesse manifesta la capacità della sinistra di saper «leggere» la fase, e di saperla cogliere con tempestività e mettere a frutto con intelligenza. La fase suggerisce l´esistenza di un´opinione pubblica sempre più stanca delle menzogne di un governo mediocre e inaffidabile, e sempre più stufa delle inadempienze di una «Casta» ricca e irresponsabile. Il ddl sull´abolizione delle province era la prima opportunità utile, offerta soprattutto al Partito democratico, per dimostrare di saper stare «dentro la fase».

C´era in ballo una ragione tattica, innanzi tutto. Tra molti mal di pancia, l´altroieri il Pdl e la Lega hanno votato contro il testo proposto dall´Idv, rinnegando l´ennesima promessa tradita della campagna elettorale del 2008. La soppressione delle province era nel programma di governo del centrodestra, che ora se la rimangia allegramente, non solo rinunciando a cancellare le province esistenti, ma creandone di nuove. Sbarrargli la strada con un voto compatto di tutte le opposizioni avrebbe significato una quasi certa vittoria parlamentare, una clamorosa sconfitta della resistibile armata forzaleghista e un palese disvelamento delle sue contraddizioni interne.

Ma c´era in ballo soprattutto una ragione strategica. Il «movimento invisibile» che attraversa il Paese (secondo la felice metafora di Ilvo Diamanti) invoca da tempo un sussulto di dignità dall´establishment. Un taglio credibile ai costi della politica (tanto più di fronte all´ennesima burla prevista sul tema dalla manovra anti-deficit da 40 miliardi) resta uno dei temi più sensibili per una quota crescente di opinione pubblica, che subisce con disagio una condizione sociale sempre più dura e insicura e reagisce con indignazione di fronte ai privilegi sempre più intollerabili delle classi dirigenti. Auto blu, aerei blu, stipendi blu, pensioni blu. Tutto è blu, nel meraviglioso mondo del Palazzo.

Gli italiani chiedono alla politica efficienza, produttività, equità. Le misure appena varate dal ministro del Tesoro non gli offrono nulla di tutto questo. L´abolizione delle province era invece il primo test, sia pure collocato su un piano parzialmente diverso, per dare una risposta a questa domanda degli italiani. Il Pd quella risposta gliel´ha negata. E non ha capito che cogliere un «attimo» come questo è il modo migliore per evitare che monti ancora l´onda dell´antipolitica. È il metodo più efficace per contenerla, senza lasciarsi travolgere e poi essere costretti a subirla e a inseguirla. Com´è successo tante volte alla sinistra, dai girotondi di Nanni Moretti ai raduni di Beppe Grillo.

Ai riformisti non si richiede l´agio di lasciarsi «etero-dirigere» dalle masse, rifiutando la fatica necessaria di provare invece a guidarle. Il voto favorevole alla soppressione delle province poteva essere motivato senza cedimenti al populismo e al qualunquismo, perché la buona politica non deve mai ridursi a un´alzata di mano o alla x su una scheda. Il Pd aveva strumenti per inquadrare quel voto in uno schema di riordino complessivo dell´architettura istituzionale, dove non si punta a picconare a casaccio un sistema di autonomie locali codificato dalla Costituzione. Quello che non doveva fare è trincerarsi dietro la difesa di questo sistema, per giustificare la sua codina astensione. Ed è invece esattamente quello che ha fatto. Legittimando così i peggiori sospetti di chi vede in questa mossa malsana l´intenzione malcelata e maldestra di salvare le solite guarentigie e le solite poltrone.

Le province italiane sono 110. Costano al contribuente circa 17 miliardi di euro, cioè quasi la metà dell´importo della stangata a orologeria di Tremonti. Le presidenze di provincia occupate dal Pd sono 40, contro le 36 del Pdl, le 13 della Lega, le 5 dell´Udc. Tutti tengono famiglia. Ma se la sinistra non ha la forza e il coraggio di dimostrare agli italiani che non tutti sono uguali, la partita dell´alternativa non comincia nemmeno. Siamo fermi a Nenni: le piazze si riempiono, ma le urne si risvuotano.

Postilla

Ha ragione Giannini a denunciare la mancanza di coraggio della sinistra. Ma la sinistra (Giannini si riferisce alla sinistra parlamentare, cioè al PD) non ha sbagliato perché si è astenuta sulla proposta Di Pietro. Proposta che era anch’essa sbagliata, ancora più radicalmente, come è sbagliata la critica alla mancata abrogazione della provincia che è venuta da altre parti della “sinistra coraggiosa”, a cominciare dal suo più interessante rappresentante, Nichi Vendola. La sinistra, quella “senza coraggio” e quella coraggiosa, hanno sbagliato per un’altra ragione.

In realtà la denuncia di Giannini e la critica di Vendola dimostrano quanta distanza c’è tra la puntuale denuncia e critica di ciò che avviene sul territorio (consumo di suolo, frane e alluvioni, malfunzionamenti delle reti delle comunicazioni, della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della gestione dell’edilizia pubblica e privata, dell’organizzazione dei servizi di livello territoriale, dell’organizzazione del ciclo alimentare dell’uomo e così via) e la conoscenza degli strumenti mediante i quali quei malanni possono essere sanati.

In tempi nei quali l’attenzione della sinistra (e non solo) era meno miope e più colta, nei quali la strategia non era meno importante della tattica e non ne era schiava, si rifletté a lungo, in Parlamento e fuori, su due versanti paralleli: che cosa fare della provincia, e che cosa fare per risolvere alcuni problemi del territorio. Si trattava appunto dei problemi dai quali cominciavano a nascere quei malanni che ho sopra elencato: malanni che vengono deprecati quando si manifestano, e dei quali si dimostra di ignorare le cause e gli strumenti che permettano di rimuoverle.

Il legislatore di allora comprese ciò che quelli attuali (e i loro suggeritori) hanno dimenticato: che per governare efficacemente il territorio non bastano le competenze dei comuni e quelle delle regioni. Esistono problemi per i quali il comune è troppo piccolo e frammentato, e la regione troppo grande e lontana. Occorre, come in altri paesi, una dimensione intermedia alla quale affidare il governo di “area vasta” . Si tentò una strada in alcune regioni (il Piemonte, la Lombardia, l’Umbria tra gli altri), e in alcuni esperimenti a livello statale (la legge speciale per Venezia del 1973): si inventarono i “comprensori”. I comprensori non funzionarono anche perché, non essendo i loro organi eletti direttamente dai cittadini (allora si credeva fino in fondo alla democrazia, almeno a quella rappresentativa), non riuscivano a decidere quando gli interessi generali confliggevano con quelli del singolo comune. Allora si ebbe un’idea convincente: anziché inventare un nuovo ente elettivo di primo grado, ciò che implicherebbe una modifica della costituzione, perché non utilizzare, modificandone radicalmente competenze e organizzazione, un istituto esistente e allora poco utile, appunto la provincia? Così si fece, con la legge 142 del 1990, al termine di una lunga riflessione e sperimentazione.

Ma i tempi erano cambiati. Era cambiata la politica, era cominciata un’epoca di cui il caxismo è stato” la fase infantile”, il berlusconismo quella matura. La fiducia nella pianificazione, nel pubblico, nel “noi” era scemata. Nell’ombra affilavano i loro dentini i Lupi e i Brunetta. La sinistra era «parassitizzata» (per adoperare la metafora entomologica di Piero Bevilacqua) dall’ideologia neoliberista. La cultura urbanistica ufficiale invitava a praticare la “facilitazione” delle operazioni immobiliari. Anziché essere intelligentemente riformate per adempiere i loro nuovi compiti vennero utilizzate così come lo erano stato, regioni, comuni – e l’ampia e crescente pletora del mondo parastatale. Quasi dappertutto, ma non dappertutto: alcune lavorarono seriamente, nel silenzio dei media; e se il parlamento fosse ancora una cosa seria provvederebbe a studiarne l’operato, prima di discuterne l’eliminazione.

E allora, chiediamo a Massimo Giannini, a Nichi Vendola e agli altri, vogliamo risolvere il problema dando un segnale demagogico e illusorio con l’abolire le province? Oppure decidiamo di impegnare le nostre risorse (e magari, dove li abbiamo, i nostri poteri democratici) per riformarle davvero? Se alla domanda di pulire la politica e ridurne le spese rispondiamo con la demagogia e il pressapochismo, non andremo certo lontano. Aspettiamo risposte.

Meno di mille euro al mese, meno che a inizio carriera, per quasi un giovane su due quando smetterà di lavorare. La relazione del Censis per Unipol traccia un quadro preoccupante dell’Italia che verrà.

Un’Italia di anziani poveri. Con il 42% dei dipendenti, oggi giovani fra i 25 e i 34 anni, che intorno al 2050 andrà in pensione con meno di mille euro al mese. I lavoratori in questa fascia di età sono attualmente il 31,9%, e guadagnano una cifra inferiore a mille euro. Ciò significa che molti di loro si troveranno ad avere dalla pensione pubblica un reddito addirittura più basso di quello che avevano a inizio carriera. E la previsione riguarda i più fortunati, cioè i 4 milioni di giovani oggi inseriti nel mercato del lavoro con contratti standard. Poi ci sono un milione di giovani autonomi o con contratti atipici e 2 milioni che non studiano né lavorano. Perchè, come ha certificato l’Istat solo qualche giorno fa, il tasso di disoccupazione giovanile è da tempo ormai sul 30%.

È questo il quadro che emerge dai risultati del primo anno di lavoro del progetto «Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali» realizzato da Censis e Unipol. Si parte da un assunto di base: il nodo pensioni si fa sempre più complicato. L’Italia resta uno dei paesi più vecchi e longevi al mondo. Nel 2030 gli over 64 anni saranno più del 26% della popolazione: ci saranno 4 milioni di persone non attive in più e 2 milioni di attivi in meno. Il sistema pensionistico, sottolinea il rapporto, dovrà confrontarsi con seri problemi di compatibilità ed equità. Se le riforme delle pensioni degli anni ‘90 hanno garantito la sostenibilità finanziaria a medio termine, oggi a preoccupare è il costo sociale della riduzione delle tutele per le generazioni future. A fronte di un tasso di sostituzione del 72,7% calcolato per il 2010, nel 2040 i lavoratori dipendenti beneficeranno di una pensione pari a poco più del 60% dell’ultima retribuzione (andando in pensione a 67 anni con 37 di contributi); mentre i lavoratori autonomi vedranno ridursi il tasso fino a -40% (a 68 anni con 38 anni di contributi).

ZERO TUTELE

Dati che dovrebbero preoccupare, e molto, ma che invece non suonano affatto come un campanello d’allarme per il governo. Non per il ministro al Welfare Maurizio Sacconi, almeno: «Proiezioni di questo tipo credo che siano molto opinabili, scontano ipotesi di percorsi lavorativi che nessuno può disegnare in un tempo di così straordinari cambiamenti», commenta. E punta sulla «necessità di forme di previdenza e assistenza complementari». «Il tema c’è ed ha una dimensione importante», replica l’amministratore delegato di Unipol, Carlo Cimbri. «Una volta continua - il tasso di sostituzione era pari al 90% dell’ultima retribuzione. Oggi al 70% e calerà ancora». Fondamentale, quindi, anche per lui «trovare forme di integrazione della previdenza». Ma non è così semplice. La relazione del Censis, dicono Cgil, Cisl e Uil, è solo la conferma di un allarme lanciato più volte. «Tutti gli studi - spiega Susanna Camusso, leader Cgil - dicono che, a sistema invariato, con una crescita così bassa e sei i punti di Pil persi negli ultimi anni, le pensioni del futuro saranno troppo basse. E non vale - aggiunge - scaricarle in termini di responsabilità sui giovani, dicendo che non si fanno subito la previdenza complementare; il lavoratore precario non ha le risorse per farlo». Dati che «fanno rabbrividire» per il Pd, che proporrà come emendamento alla manovra la proposta che consente di trasferire le annualità di contribuzione versate oltre quelle necessarie per raggiungere l’età pensionabile dai genitori ai figli, già presentata alla Camera, come «nuovo patto generazionale».

«Complementare» (leggi: privata), peraltro, oltre alla previdenza rischia di essere sempre di più pure la sanità. L’indagine Censis parla anche di questo: le famiglie spendono in media mille euro l’anno per visite mediche private, fino a 1.400 euro se qualcuno ha bisogno del dentista. Aumentano quindi i servizi sanitari pagati di «tasca propria». Nell’ultimo anno solo il 19,4% delle famiglie ne ha potuto fare a meno, mentre oltre il 70% ha acquistato medicinali a prezzo pieno in farmacia, il 40% ha fatto ricorso a sedute odontoiatriche, il 35% a visite mediche specialistiche e più del 18% a prestazioni diagnostiche.❖

Vale la pena meditare su cosa significhi precisamente partito degli onesti, visto che a proporlo è stato il nuovo segretario del Pdl. ossia della formazione che sin qui non aveva la rettitudine come stella polare. Può darsi che Alfano abbia emesso un mero suono, un flatus vocis senza rapporto alcuno con la realtà, ma i realisti che credono nella consistenza delle parole hanno tutto l´interesse a ripensare vocaboli come onestà, morale pubblica, virtù politica. A meno di non essere incosciente, il ministro della Giustizia non può infatti ignorarlo: i passati diciassette anni non sono stati propriamente intrisi di probità (lui stesso ne è la prova vivente, avendo aiutato Berlusconi a inserire nella manovra economica un codicillo ad personam, che tutelando il premier dalla sentenza sul Lodo Mondadori nobilita a tutti gli effetti il concetto di insolvenza nel privato). Alle spalle abbiamo un´epoca corrotta, molto simile al periodo dei torbidi che Mosca conobbe fra il XVI e il XVII secolo, prima che i Romanov salissero al trono e mettessero fine all´usurpazione di Boris Godunov.

Meditare sull´onestà dei politici significa che da quest´epoca usciremo - se ne usciremo - a condizione di capire in concreto cosa sia la morale pubblica, e come la sua cronica violazione abbia prodotto una propensione al vizio quasi naturale, che va ben oltre la disubbidienza alle leggi. Soprattutto, significa guardare al fenomeno Berlusconi come a qualcosa che è dentro, non fuori di noi: la cultura dell´illegalità, i conflitti d´interesse vissuti non come imbarazzo ma come risorsa, non sono qualcosa che nasce con lui ma hanno radici più profonde, non ancora estirpate. Sono un male italiano di cui il premier è il sintomo acutizzato: chiusa la parentesi non l´avremo curato ma solo preteso d´averlo fatto. L´inferno non sono gli altri, ogni giorno lo constatiamo: dal dramma dei rifiuti a Napoli alle vicende che scuotono il partito di Bersani e D´Alema.

Il fatto è che ci stiamo abituando a restringere la nozione di morale pubblica. L´assimiliamo a una condotta certamente cruciale – l´osservanza delle leggi, sorvegliata dai tribunali – ma del tutto insufficiente. Perché esistano partiti onesti, altri ingredienti sono indispensabili: più personali, meno palpabili, non sempre scritti. Attinenti alle virtù politiche, più che a un dover-essere codificato in norme scritte. Precedenti le stesse Costituzioni.

Di che c´è bisogno dunque, per metter fine alla leggerezza del vizio che riproduce sempre nuovi boiardi e nuovi disastri trasversali come la monnezza napoletana e la corruttela? Gli ingredienti mancanti sono sostanzialmente due: una memoria lunga della storia italiana, e un´idea chiara di quelle che devono essere le virtù politiche a prescindere dalle norme scritte nel codice penale.

La memoria, in primo luogo. Non si parla qui di un semplice rammemorare. Le celebrazioni ci inondano e forse anche ci svuotano; esistono date che evochi continuamente proprio perché sono stelle morte. Per memoria intendo la correlazione stretta, e vincolante, tra ieri e oggi: ogni atto passato (come ogni omissione) ha effetti sul presente e come tale andrebbe analizzato. Diveniamo responsabili verso il futuro perché lo siamo del passato, di come abbiamo o non abbiamo agito. Il ragionamento di Tocqueville sull´individuo democratico vale anche per le sue azioni, specialmente politiche: la «catena aristocratica delle generazioni» viene spezzata, e lascia ogni anello per conto suo. Così come avviene per l´individuo, l´atto – sconnesso dalla vasta trama dei tempi – «non deve più nulla a nessuno, si abitua a considerarsi sempre isolatamente (...) Ciascuno smarrisce le tracce delle idee dei suoi antenati o non se ne preoccupa affatto. Ogni nuova generazione è un nuovo popolo (...) La democrazia non solo fa dimenticare a ogni uomo (a ogni azione) i suoi avi, ma gli nasconde i suoi discendenti e lo separa dai suoi contemporanei: lo riconduce incessantemente a se stesso e minaccia di rinchiuderlo per intero nella solitudine del suo cuore».

La citazione si applica perfettamente alla calamità napoletana. Sono settimane che i leghisti sbraitano, negando la solidarietà con una città che precipita. Se la memoria funzionasse, non potrebbero. Dovrebbero dire, a se stessi e agli italiani, la verità: se Napoli e la Campania sono diventate un´immensa mefitica discarica di rifiuti tossici e non tossici, è perché il Nord da vent´anni ha perpetuato quello che Tommaso Sodano, ex senatore e oggi vice di de Magistris, chiama lo «stupro del Sud»: una «specie di guerra etnica, giocata con l´arma del rifiuto, alimentata dalla camorra, ma anche da una catena di falsificazione e di enti di controllo assenti». Il Nord è responsabile di quanto avviene a Sud, quali che siano le colpe delle amministrazioni campane. La sua industrializzazione ha prodotto rifiuti tossici smaltiti senza trattamento nel Sud, sancendo con la connivenza di clan camorristi la morte del Mezzogiorno, e avvelenando uomini, animali, fiumi, piantagioni (Tommaso Sodano, «La Peste«, Rizzoli 2010).

Il secondo ingrediente, essenziale, è la virtù personale del politico. Indipendentemente dal codice penale, essa dovrebbe escludere frequentazioni di mafiosi, connivenze con personaggi come Cosentino, assuefazione infine alla droga che è il conflitto d´interessi. Piano piano cominciamo a capire come mai, sul conflitto d´interessi berlusconiano, la sinistra non ha mai fatto nulla, anche quando governava: il conflitto era droga anche per lei. Come definire altrimenti il caso Franco Pronzato? Ecco infatti un uomo, vicinissimo ai vertici Pd, che nello stesso momento in cui agiva nel consiglio d´amministrazione dell´Enac (Ente nazionale per l´aviazione civile), era coordinatore nazionale del trasporto aereo nel Pd. Pronzato ha percepito tangenti sulla rotta Roma-Isola d´Elba e il suo corruttore, Morichini, ha fatto favori finanziari a D´Alema. «L´incarico pubblico assegnato senza neppure mascherare la sua finalità lottizzatoria viene notato ora solo perché Pronzato va in carcere», ha scritto Gad Lerner su «Repubblica« (30 giugno).

Lo scandalo esiste solo quando la magistratura interviene: qui è il male italiano che precede Berlusconi, e per questo è urgente pensare la morale pubblica. Il mondo si rimette nei cardini così: individuando il punto dove la legge non arriva, e però cominciano le indecenze, le cattive frequentazioni, la triviale leggerezza del politico. Non tutte le condotte sono perseguibili penalmente (il doppio incarico di Pronzato non è illegale) ma politicamente non denotano né probità né prudenza: due virtù fra loro legate. Si parla di giustizialismo, del potere dei giudici sulla politica. Se questo accade, è perché la morale pubblica ha come unico recinto la magistratura, e non anche la coscienza.

Borsellino ha detto, in proposito, cose che restano una bussola: «La magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire: ci sono sospetti, anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica (...) Però siccome dalle indagini sono emersi fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi». Se le conseguenze non sono state tratte, «è perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza». (La presenza di grossi sospetti) «dovrebbe quantomeno indurre, soprattutto i partiti politici, non soltanto a essere onesti ma a apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche non costituenti reati». Era questo il fresco profumo di libertà che augurava all´Italia, prima d´esser ammazzato. Non era flatus vocis, il suo, anche se è stato preso per tale da un´intera classe politica.

Dopo Berlusconi, la morale pubblica sarà da reinventare: non uscirà come Afrodite dalle acque. S´imporranno farmaci forti, perché gli italiani osino fidarsi del Politico. Oggi non si fidano: i No-Tav pacifisti di Val di Susa dicono questo. Possiamo sprezzarli, possiamo denunciare la sindrome Nimby (Not In My Backyard, «non nel mio cortile»). Ma non senza dire, prima, che tutti soffrono la stessa sindrome, a cominciare dal Nord di Bossi.

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