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In una nota del Rapporto annuale, che uscirà a settembre, si legge che il federalismo fiscale potrebbe mettere a dura prova la tenuta della società meridionale

La grande stampa accoglie la pubblicazione annuale del Rapporto sulla economia del Mezzogiorno della Svimez (Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno) in generale con attenzione solo ai dati o ai fatti più eclatanti e per contro con scarso interesse ai processi di fondo che sono alla base di quei dati e che i volumi analizzano in dettaglio. Così, qualche anno addietro tutti si resero conto con sorpresa - grazie alla documentazione e alle analisi della Svimez - della ripresa della emigrazione dalle regioni del Sud (circa ottocentomila partenze negli ultimi dieci anni). Per quel che riguarda il rapporto di quest'anno il dato eclatante ripreso dalla stampa è che nel Mezzogiorno due giovani su tre sono disoccupati.

La ripresa della emigrazione non è - né la Svimez pretendeva che lo fosse - una novità: i rapporti dei dieci anni precedenti avevano già documentato questa ripresa indicando un saldo migratorio di settanta o ottanta mila persone all'anno. Ma i rapporti Svimez, tranne casi eccezionali, non godono di grande attenzione, o perlomeno dell'attenzione che meritano. E questo perché le analisi e le relative implicazioni in termini di politica economica sono effettivamente un po' controcorrente.

La Svimez, fin dai tempi di Pasquale Saraceno, il suo presidente storico, non si è mai entusiasmata per i miti correnti sulla situazione del Mezzogiorno, i suoi problemi e le possibili soluzioni. E negli ultimi trent'anni di miti 'meridonalisti' ne abbiamo subiti tanti. Dalle cretinate sul piccolo imprenditore emergente, alle banalità sullo sviluppo a macchia di leopardo, ai distretti industriali trovati nel Mezzogiorno dappertutto (in particolare dove non c'erano) al grande ruolo della economia sommersa - con l'inutile, anzi dannoso, ruolo della Commissione per l'emersione (che non ha fatto emergere un bel nulla) - alla eliminazione dell'intervento pubblico per dare spazio al libero gioco del mercato, alle interpretazioni antropologiche e politologiche del mancato sviluppo e l'individuazione della causa principale nella classe dirigente locale - tesi quest'ultima sbandierata ai quattro venti in particolare dai rappresentanti della classe drigente medesima.

Così, di recente, l'Associazione non ha voluto ascoltare le sirene del federalismo ("federalsimo fiscale" nella dizione corrente) sottolineandone i rischi e indicando sempre interventi e prospettive di altra natura per lo sviluppo del Mezzogiorno e la riduzione del divario Nord-Sud (accresciutosi - come documentato - nell'ultimo decennio). Infatti, tornando ai disoccupati, nel rapporto è ben evidenziato come le cifre attuali non siano solo l'effetto della grande crisi finanziaria internazionale, bensì anche e soprattutto il risultato di scelte di politica economica che hanno penalizzato il Mezzogiorno negli ultimi anni. Ed è bene perciò tenere conto di entrambi gli aspetti - quello congiunturale e quello di più lungo periodo, nonché, ovviamente, dei loro intrecci.

Consideriamo gli effetti della crisi. La nota che anticipa le considerazioni generali del Rapporto di quest'anno (e che sarà distribuito a settembre) inizia come segue: «La grave recessione che ha colpito l'economia mondiale nel biennio 2008-2009 si è abbattuta pesantemente sull'intera economia nazionale, e ha mostrato i suoi effetti più pesanti, in termini di impatto sociale sui redditi delle famiglie e sull'occupazione, nelle regioni del Mezzogiorno. La lenta e difficile fuoriuscita dalla crisi dell'Italia ha interessato soprattutto le aree del Nord del Paese mentre il Sud, dopo la flessione del 2009, appare nel 2010 ancora in stagnazione». C'è dunque sia un effetto particolarmente grave della crisi, sia soprattutto la mancata ripresa. E non per caso: la ripresa si esprime con gli investimenti e questi nel Mezzogiorno sono stati particolarmente carenti. Infatti gli investimenti fissi lordi nel Centro Nord sono aumentati - segno indubbio di ripresa - del 3,5%, mentre l'aumento nel Mezzogiorno non ha raggiunto nemmeno l'1%.

Da notare che questa carenza non ha riguardato solo gli investimenti privati ma anche e soprattutto quelli pubblici: insomma su questo piano c'è stata discriminazione. In maniera molto asciutta la Svimez si esprime così: «Su tale risultato ha pesato sia la contrazione degli investimenti privati, conseguenza della crisi, sia soprattutto la forte contrazione degli investimenti pubblici, conseguenza delle manovre di finanza pubblica e della forte riduzione delle risorse in conto capitale dei fondi aggiuntivi per il Mezzogiorno (Fondo aree sottoutilizzate). Il risultato è ovvio: stagnazione o riduzione dei consumi e peggioramento delle condizioni di vita. La spesa delle famiglie (che esprime la ricchezza o la povertà della gente) è diminuita per effetto della crisi e della mancata politica di sviluppo attuale e precedente. Infatti le difficoltà delle famiglie «vanno al di là della congiuntura ma sembrano ulteriormente aggravarsi di recente in conseguenza delle consistenti perdite di posti di lavoro, che al Sud... spesso riguardano l'unico percettore di reddito all'interno del nucleo familiare». E ciò significa che nella disoccupazione meridionale di oggi bisogna contare non solo i «due giovani su tre», ma anche molti adulti capofamiglia.

A questo proposito giova ricordare che i dati eclatanti sulla disoccupazione nel Mezzogiorno e in particolare su quella giovanile sono tutt'altro che una novità dell'oggi. E, detto per inciso, a questi vanno aggiunti anche coloro, soprattutto donne, che escono dal mercato del lavoro per scoraggiamento. Se i dati di oggi si spiegano almeno parzialmente con la crisi degli anni precedenti, al 2008 meritano spiegazioni che riguardano la politica economica. Scartata ormai da tutti la tesi della rigidità dell'offerta di lavoro, per lo meno da quando sono riprese le emigrazioni, bisogna ricercare le cause nell'economia e soprattutto nella politica economica. Tra la fine degli anni '90 e la prima metà degli anni 2000 anche il Mezzogiorno aveva goduto in parte della crescita di occupazione legata al lavoro precario e in generale alla cattiva occupazione. Ora non c'è più neanche questo; i contratti precari di 5 o 6 anni addietro non si sono trasformati in occupazione stabile ma al contrario hanno dato adito a ulteriore disoccupazione.

Passiamo, per concludere, alle proposte sul tappeto e ai loro prevedibili effetti. «Se in un quadro di questo genere - si legge nel Rapporto - si inserisce anche la prospettiva di un avvio del federalismo fiscale che tende, per altri versi, a determinare effetti redistributivi parimenti sfavorevoli, la tenuta della società meridionale potrebbe rapidamente essere messa a dura prova». L'affermazione può apparire perentoria. Anzi, più precisamente, lo è. Ma essa è surrogata da tutta una vasta serie di studi condotti da studiosi meridionali da Domenicoantonio Fausto allo stesso Adriano Giannola (attualmente presidente della Svimez,) che mostrano - dati alla mano - i costi che il Mezzogiorno pagherebbe nel caso di realizzazione piena del paventato federalismo fiscale, così come cantato non solo dalla Lega e dal Pdl, ma anche da vasti settori del Partito democratico. E proprio una delle rivista della Svimez, la Rivista Giuridica del Mezzogiorno ha ospitato articoli con questo orientamento. Ciò che si mette in luce non è tanto la mancanza di senso di solidarietà nazionale che ha ispirato i provvedimenti in direzione del federalismo fiscale, quanto il carattere discriminatorio che essi assumono tendendo a concentrare la ricchezza nella parte del paese già ora più ricca. E già da ora meccanismi di finanza pubblica distribuiscono risorse a vantaggio nel Nord.

Che fare dunque? Secondo la Svimez «nella crisi il Sud ha pagato già un prezzo molto alto con tagli significativi alle risorse per investimenti; in generale è assolutamente prioritario arrestare la deriva ormai decennale di un Paese che sta consumando il proprio stock di dotazioni produttive. A questo fine va ripristinata la responsabilità attiva dell'operatore pubblico ... La ridefinizione di una politica di sviluppo deve essere una priorità nazionale complessiva che non può essere affidata alla spontanea allocazione del mercato ma rimanda ad interventi di politica industriale attiva volti a modificare nei prossimi anni la specializzazione produttiva del Paese». Insomma uguale, uguale l'opposto di quello che viene solitamente proposto.

IL GIOCO SI FA DURO

di Mario Pianta


Iniziamo da due (piccole) buone notizie. Una viene da Bruxelles: Olli Rehn, Commissario europeo all'economia, si è convinto che emettere eurobonds - titoli europei garantiti dal bilancio dell'Unione - sia una buona idea. Li vuole usare per stabilizzare il debito dei paesi fragili, mentre andrebbero destinati all'economia reale, a finanziare la riconversione dell'Europa a un'economia sostenibile; è comunque un passo avanti, resta da convincere la cancelliera tedesca Angela Merkel. L'altra notizia viene da Roma: il Pd di Bersani si dichiara contrario a inserire nella Costituzione l'obbligo del pareggio di bilancio. È una norma che azzererebbe le possibilità di politiche economiche proprio quando sono indispensabili, nel mezzo di crisi e depressione; un'imposizione tutta ideologica, venuta da Berlino e subito sostenuta, in un delirio quasi unanime sui media, da un arco che da destra arriva a Montezemolo e Veltroni.

In Europa c'è qualche apertura a contromisure che cambino alcune regole del gioco - aspettiamo ancora la tassa sulle transazioni finanziarie - e ieri gli acquisti della Bce di titoli di stato italiani e spagnoli hanno fatto scendere molto i tassi che dobbiamo pagare. In Italia, invece, il gioco si fa duro. Il vertice del Pd prova a smarcarsi da un pressing che potrebbe stritolarlo, quello del «governo tecnico (sopranazionale) che c'è già», annunciato dall'ex Commissario europeo Mario Monti sul Corriere della Sera. Il suo programma - ultraliberista - è stato scritto da Trichet e Draghi, l'attuale e il prossimo presidente della Banca centrale europea: liberalizzazioni, svendita delle proprietà e delle imprese pubbliche, meno protezioni sul mercato del lavoro e licenziamenti facili per tutti.

È questo «passaggio di sovranità» il prezzo che si chiede all'Italia di pagare per «tranquillizzare i mercati» - e risparmiare (forse) 50 miliardi di euro in tre anni di costi aggiuntivi per gli interessi sul debito dovuti agli alti spread rispetto ai tassi pagati dalla Germania.

Sotto la pressione dell'Europa, il governo Berlusconi (quello che crede di esserci ancora) prepara tagli senza precedenti a spesa pubblica e pensioni per arrivare al pareggio di bilancio nel 2013. Le "parti sociali" - industriali, banchieri, sindacati - chiedono discontinuità politica, ma presentano un piano che per metà ricalca quello di Trichet e Draghi. Tutti dimenticano che in questi decenni le liberalizzazioni non hanno portato a crescita e occupazione, ma solo a disuguaglianze e precarietà. Tutti dimenticano che appena due mesi fa gli italiani hanno scelto in quattro referendum di rifiutare la privatizzazione dell'acqua, il nucleare e la giustizia "fai da te"; ora si parla di liquidare come saldi estivi beni e servizi pubblici. Dalla crisi l'Europa e l'Italia possono uscire in un altro modo, ridimensionando la finanza, rilanciando produzioni sostenibili, redistribuendo la ricchezza. L'opposizione in parlamento, il sindacato, i movimenti possono definire quest'agenda diversa, disegnare un futuro comune, dare questi contenuti allo scontro delle prossime elezioni.

In gioco ormai c'è molto di più di qualche taglio al bilancio. Governi annunciati a mezzo stampa, programmi in lettere riservate, Costituzione da cambiare subito, risultati di referendum ignorati. Sembra un golpe di agosto contro la democrazia. Quella - fragile - italiana, ma anche quella - possibile - europea. La discussione sulla "rotta d'Europa" aperta da Rossana Rossanda sul manifesto e sbilanciamoci.info è più urgente che mai.



LE «PARTI SOCIALI»

DOMANI DA TREMONTI.

SENZA LA CGIL

di Roberto Tesi 


Giulio Tremonti ha spedito alle parti sociali una breve nota. In una paginetta c'è scritto quello che occorre fare per ridurre il deficit per il prossimo anno all'1,6 e poi tentare di azzerarlo nel 2013. Insomma, sono delineate alcune idee per la manovra aggiuntiva, che per il 2012 sarà di circa 20 miliardi. Si tratta di ipotesi sulle quali stanno lavorando i tecnici del ministero dell'Economia e della Ragioneria generale dello stato. Forse Confindustria, Cisl e Uil ne sapranno di più in anticipo visto che domani mattina Tremonti dovrebbe incontrarli, facendo fuori la Cgil.

Giulio Tremonti ha spedito alle parti sociali una breve nota. In una paginetta scarsa c'è scritto quello che occorre fare per ridurre il deficit per il prossimo anno all'1,6 e poi tentare di azzerarlo nel 2013. Insomma, sono delineate alcune idee per il varo della manovra aggiuntiva. che per il 2012 sarà di circa 20 miliardi. Si tratta di alcune ipotesi sulle quali stanno lavorando i tecnici del ministero dell'Economia e quelli della Ragioneria generale dello stato. In quel foglietto, ovviamente, solo ipotesi e nulla di definitivo. Forse se ne saprà di più domani alle 15 nell'incontro tra governo e parti sociali. Forse Confindustria, Cisl e Uil ne sapranno di più in anticipo visto che domani mattina Tremonti dovrebbe incontrarli, facendo fuori la Cgil.

Il grosso della manovra (che sarebbe varata con decreto legge) riguarda un taglio di 10 miliardi alle agevolazioni fiscali, cioè alle deduzioni e detrazioni di spese che annualmente vengono inserite nel 730. La manovra originale varata circa un mese fa prevedeva, in realtà, la riforma (cioè tagli all'assistenza ( in particolare pensioni di invalidità e assegni per maternità) che costa all'Inps oltre 90 miliardi l'anno. Ma si tratta di una manovra complicata e delicata che richiede tempi lunghi (e lunghi studi) per essere approvata. E allora Tremonti ha deciso di far scattare subito una tranche della «clausola di salvaguardia» varata dal parlamento a metà luglio. La clausola consiste, per appunto, in tagli alle agevolazioni fiscali. Complessivamente queste agevolazioni costano al fisco (la cifra è stata determinata recentemente da una commissione mista) circa 160 miliardi di euro. I tagli sarebbero lineari, cioè in percentuale uguale per tutte le detrazioni o deduzioni. E altri 10 miliardi di agevolazioni fiscali verrebbero eliminate il prossimo anno se nel frattempo non venisse approvata la norma con i tagli all'assistenza. Si tratta di tagli brutali che potrebbero anche essere sopportabili se ci fosse una riforma complessiva del sistema del welfare. Così, invece, si fa solo cassa. Nota curiosa: i tagli delle agevolazioni per i contribuenti si risolvono nel pagamento di 10 miliardi di tasse in più e in un aumento della pressione fiscale. Tremonti non può sostenere di non metter le mani nelle tasche degli italiani.

Un intervento che potrebbe cambiare la vita di molte persone è quello previdenziale: sparirebbero già da 2012 le pensioni di anzianità. Per il 2010 (la riforma fu varata da Prodi con Damiano ministro del lavoro) è prevista la possibilità di andare in pensione a «quota 96». Ovvero con 60 anni di età e 36 di contributi, oppure con 61 anni e 35 di contributi. Dal 2013 la quota doveva essere innalzata a 97 invece, ma con la nuova proposta, in pensione si potrà andare (gli uomini) solo a 65 anni, oppure con meno anni, ma con 40 anni di contributi. Per le donne (gestione Inps), nulla cambierebbe. O meglio, si sta studiando un meccanismo di innalzamento dell'età pensionabile un po' più celere di quello previsto dal precedente decreto (i 65 anni a regime scatterebbero dal 2030) che porterebbe ai 65 anni nel 2020.

Nella nota di Tremonti non è previsto esplicitamente l'innalzamento di un punto dell'Iva che (evasione a parte) porterebbe un maggior gettito di 9 miliardi. La paura - espressa in primo luogo dalla Confindustria - è che possa dare una spinta all'inflazione. Tuttavia se - come sembra - nel terzo trimestre il Pil dovesse segnare una variazione negativa (e i prezzi smettessero di crescere per il rallentamento globale dell'economia, come sta accadendo per il petrolio) l'aumento dell'Iva potrebbe essere varato. Non in forma lineare, ma tenendo ferma l'Imposta sul valore aggiunto di alcuni beni primari e aumentando di due punti l'Iva per altri beni; quelli di lusso (ma il gettito è scarso) ma anche quelli nei quali l'Italia subisce la concorrenza dei prodotti dei paesi industrializzati che l'Iva la pagano direttamente all'importazione con molte difficoltà di evasione. Il piano Tremonti prevede anche una - molto piccola - riforma dell'imposta di successione: verrebbero ridotti gli attuali massimali di esenzione che attualmente sono fissati in un milione per ciascuno degli eredi diretti. Con una riduzione di un 30-40 per cento del massimale dell'esenzione, l'erario potrebbe incassare nel 2012 circa 3 miliardi in più.

Altra novità: si sta studiando anche la possibilità di una patrimoniale. Ma si tratterebbe di una micro patrimoniale, e non di una patrimoniale generale sugli immobili e la ricchezza mobiliare che anche con una piccola aliquota frutterebbe almeno 15 miliardi. La micro patrimoniale allo studio colpirebbe solo le seconde case. In pratica si tratterebbe solo una super Ici (il cui gettito andrebbe all'erario e non ai comuni) attuata elevando le rendite catastali e questo produrrebbe anche un maggior gettito Irpef.

Circola anche una idea un po' bizzarra: una specie di tassazione sulle transazioni finanziarie. Dovrebbe essere dello 0,5 per mille (50 centesimi ogni mille euro) e colpirebbe le transazioni realizzate non con i contanti (per i quali c'è un limite nei pagamenti fissato in 3.500 euro) ma quelle realizzate con bonifici, assegni, bancomat. Insomma, Tremonti sembra disposto a chiedere aiuto all'informatica che lascia sempre una tracciabilità.

PATRIMONIALE PRIMA DI TUTTO

E TAGLIAMO SUBITO DOPO I TORNADO 


di “Sbilanciamoci” 


In parallelo con la manovra di Tremonti, anche Sbilanciamoci.org ha presentato la sua. Se Tremonti e gli altri ministri del Tesoro ogni anno riempiono una stagione politica e parlamentare con quella che un tempo si chiamava finanziaria e ora più semplicemente manovra, da una decina di anni Sbilanciamoci ne propone un'altra, diversa in tutto tranne che nella cifra complessiva. Tremonti in luglio parlava di 50 miliardi da suddividere su tre anni, lasciando «furbescamente» agli ultimi due il peso di gran lunga maggiore.

La controfinanziaria, come è stata chiamata per tanti anni, la contro manovra come la chiamiamo adesso ha invece una distribuzione dei tempi e dei pesi del tutto diversa. Il primo anno, 2012, riceve più della metà del peso. In questo - solo in questo - la contro manovra potrebbe ricevere il plauso della Bce e dei suoi capi presenti e futuri, Trichet e Draghi.

Il manifesto ha pubblicato una pagina dossier dedicata al tema («E' tempo di sbilanci», 1 luglio 2011) e riporta così un passo del testo che racconta le misure previste: «In questa crisi i ricchi non stanno pagando alcun prezzo...Il prezzo della crisi ricade sulle fasce più povere della popolazione. Proponiamo perciò una tassa patrimoniale...» La tassa patrimoniale prevista arriva allo 0, 5% per i patrimoni superiori ai 3 milioni di euro. Le entrate sarebbero di 10,5 miliardi, tutti nel 2012.

Intorno a questa misura una tantum altre permanenti e capaci di rendere un po' più progressiva o meno iniqua la distribuzione dei carichi fiscali nel paese; ritocchi sopportabili per i redditi maggiori e però tali da migliorare la fiducia della grande maggioranza della popolazione nelle istituzioni comuni. E chi si fida sarà meno tentato dall'idea di salvarsi individualmente, «come fanno tutti».

Di fronte all'aumento del prelievo, per i redditi maggiori e per le rendite finanziarie che dovrebbero quasi raddoppiare, raggiungendo il livello europeo del 23%, dal 12,5% attuale, vi sarebbe un largo spazio ai tagli: spese militari, Tornado, Ponte sullo stretto e altre grandi opere; e così via.

Tremonti ha lasciato alla parte finale del triennio il carico maggiore, impegnando anche la legislatura che non gli compete, dopo le elezioni che si prevede e si spera, perderà. E lo ha fatto «furbescamente», come ha scritto nel suo testo Giulio Marcon, ispiratore della contro manovra. Lasciamogli la parola: «La reintroduzione dei ticket, l'inserimento dei costi standard nella sanità, la riduzione dei trasferimenti agli enti locali, il blocco degli stipendi nella pubblica amministrazione, l'intervento sulle pensioni stanno lì a dimostrare quanto ancora una volta il prezzo della crisi è pagato dalle fasce sociali più deboli...».

Invece di questo tipo di tagli che colpiscono la parte della popolazione più esposta alla crisi, vi sarebbe un altro genere di tagli e di misure in positivo e Marcon ne ricorda alcuni: «E' necessario ridurre del 20% la spesa militare e cancellare il programma di 131 cacciabombardieri F35 (che ci costano più di 16 miliardi di euro. Questi sono passi obbligati in tempo di crisi: in Germania e in Gran Bretagna sono state ridotte le spese militari, in Italia, ancora no. E servono misure per rilanciare l'economia attraverso un programma di "piccole opere" (cancellando Ponte sullo Stretto e Tav), di sostegno alla green economy (energie rinnovabili, mobilità sostenibile, agricoltura biologica, ecc.) di incentivo e difesa dei redditi, unica garanzia perché possa riattivarsi una domanda interna. In questo senso la lotta al precariato, il sostegno alle pensioni più basse, il recupero del fiscal drag e il reddito di cittadinanza sono misure assolutamente necessarie in questa fase».

Mentre la manovra di Tremonti è spazzata via dalla Bce, come tempistica e contenuti , la contro manovra Sbilanciamoci regge. Se ne accorgeranno alla Bce?

Temo che il piano del governo per rispondere alla bufera dei mercati non produrrà gli effetti sperati. Non solo per i limiti relativi alle politiche annunciate, né per le turbolenze globali. Oltre a tutto ciò, c’è un altro problema: noi. Gli italiani. E lui. Berlusconi. Insieme al governo "eletto dal popolo". In definitiva: il rapporto fra gli italiani e chi li governa. In parte, si tratta di una novità.

Gli italiani, infatti, nel dopoguerra, hanno sempre reagito alle emergenze, interne ed esterne. Basti pensare alla Ricostruzione degli anni Cinquanta e Sessanta. Quando l’Italia divenne uno dei Paesi più industrializzati al mondo. Gli italiani conquistarono il benessere, l’accesso all’istruzione di massa e ai diritti di cittadinanza sociale. Anche in seguito il Paese continuò a crescere. Soprattutto negli anni Novanta, grazie alle aree e ai settori in precedenza considerati "periferici". Le piccole imprese, il lavoro autonomo, le province del Nord, il Nordest. In quegli stessi anni, gli italiani reagirono alla crisi - economica e politica - affidandosi ai governi guidati da Amato e Ciampi, all’intesa tra il governo e le parti sociali. Gli italiani, allora, affrontarono manovre finanziarie il cui costo complessivo superò largamente i centomila miliardi di lire. E pagarono molto anche tra il 1996 e il 1998, quando al governo erano Prodi e (ancora) Ciampi. Per entrare nell’Europa dell’Euro. Per non restare esclusi dall’Unione - peraltro ancora incompiuta. Pagarono caro, tra molte proteste, comprensibili. Ma pagarono. Perché compresero che non c’era alternativa, se volevano mantenere il benessere e lo sviluppo conquistati con tanti sacrifici. Oggi - lo ripeto - dubito seriamente che riusciremmo nella stessa impresa. Che saremmo - saremo - in grado di affrontare gli stessi costi e gli stessi sacrifici. Con gli stessi risultati.

Ci ostacola, anzitutto, la nostra identità sociale. Il nostro "costume nazionale". Gli italiani, infatti, si sentono uniti dalle differenze, locali e sociali. Sono - siamo - un Paese di paesi: città, villaggi, regioni. L’Italia è, al tempo stesso, un collage, una "casa comune", dove coabitano molte famiglie. Appunto. Perché gli italiani si vedono diversi e distinti da ogni altro popolo proprio dall’attaccamento alla famiglia. E ancora, dall’arte di arrangiarsi. Cioè, dalla capacità di adattarsi ai cambiamenti e di rispondere alle difficoltà. E, ancora, dalla creatività e dall’innovazione. Un popolo di creativi, flessibili, attaccati alla propria famiglia, al proprio contesto locale. E, puntualmente, lontano dallo Stato, dalle istituzioni, dalla politica, dal governo. Una società familista, in grado di affrontare le difficoltà "esterne" di ogni genere. In grado di crescere "nonostante" lo Stato e la Politica.

Si tratta di una cornice condivisa, come ha dimostrato il consenso ottenuto dalle celebrazioni del 150enario. Ma è ancora in grado di "funzionare" come in passato? Penso di no. Il localismo, la struttura familiare e quasi "clanica" della nostra società: sono limiti alla costruzione di una società aperta, equa, fondata sul merito. Ostacoli a ogni tentativo di liberalizzare. Gran parte degli italiani, d’altronde, sono d’accordo sulle liberalizzazioni. Ma tutti, o quasi, pensano di trasmettere ai figli non solo la casa e il patrimonio, ma anche la professione, l’impresa e la bottega. E molti (soprattutto quelli che non hanno un lavoro dipendente) vedono nell’elusione e nell’evasione fiscale una legittima difesa dallo Stato inefficiente, esoso e iniquo. Il quale, da parte sua, non fa molto per allontanare da sé questo ri-sentimento.

Difficile, in queste condizioni, rilanciare la crescita, abbassare il debito pubblico, imporre il pareggio di bilancio. Anche se venisse imposto per legge. Anzi: con norma costituzionale.

Eppure - si potrebbe eccepire, legittimamente - in passato questo modello ha funzionato. Già: in passato. Quando eravamo (più) poveri. Quando dovevamo conquistare il benessere e un posto di riguardo, nella società. Per noi e i nostri figli. Quando la nostra economia e il nostro Paese dovevano guadagnare peso e credibilità, sui mercati e nelle relazioni internazionali. A dispetto dei sospetti e dei pregiudizi nei nostri confronti. Ma oggi non è più così. Non abbiamo più la rabbia di un tempo. Semmai: la esprimiamo nei confronti dello Stato e degli altri. Gli stranieri. E in generale: verso gli altri italiani. Sempre più stranieri ai nostri occhi.

Poi, soprattutto, è da vent’anni che il localismo, il familismo e il bricolage sono andati al potere. Interpretati dal partito delle piccole patrie locali: Nord, Nordest, regioni, città e quant’altro. E dal Partito Personale dell’Imprenditore-che-si è-fatto-da-sé. È da 10 anni almeno che lo Stato è stato conquistato da chi considera lo Stato un potere da neutralizzare. Da chi ritiene le Tasse e le Leggi degli abusi. È da 10 anni almeno che il pessimismo economico è considerato un atteggiamento antinazionale, un sentimento esecrabile che produce crisi. È da 10 anni almeno che "tutto va bene", l’economia nazionale funziona, la disoccupazione è più bassa che altrove (non importa se è sommersa nell’informalità). E se oggi la nostra borsa e la nostra economia arrancano affannosamente - certo, insieme alle altre, ma molto, molto più di ogni altra - la colpa non è nostra, figurarsi. Ma degli altri: i mercati e gli speculatori - cioè, lo stesso. Perché non ci capiscono. Non tengono conto dei nostri "fondamentali", solidi e forti.

Così dubito che gli italiani siano davvero in grado di affrontare la sfida di questo momento critico. Al di là delle colpe altrui, anche per propri limiti. Perché non hanno - non abbiamo - più il fisico e lo spirito di una volta. Perché oggi essere familisti, localisti, individualisti - e furbi - non costituisce una risorsa, ma un limite. Perché la sfiducia nello Stato e nelle istituzioni, oltre che nella politica e nei partiti: è un limite. (E non basta la fiducia nel Presidente della Repubblica a compensarlo.) Perché l’abbondanza di senso cinico e la povertà di senso civico: è un limite. Perché se a chiederti di cambiare è un governo fatto di partiti personali e di persone che riproducono i tuoi vizi antichi: come fai a credergli?

Perché, in fondo, questo Presidente Imprenditore - e viceversa - in campagna elettorale permanente, quando chiede sacrifici, rigore, equità, non ci crede neppure lui. Strizza l’occhio, come a dire: sacrifici sì, ma domani… Basta che paghino gli altri.

Peccato che domani - anzi: oggi - sia già troppo tardi. E gli altri siamo noi.

L’arte di arrangiarsi stavolta non ci salverà. Tanto meno Berlusconi.

Siamo abituati a pensare che ad ogni problema corrisponda una soluzione. Ma ci sono anche rebus che non hanno soluzioni: ad esempio la quadratura del cerchio, o l'equazione di quinto grado. Fra i rebus senza soluzione, a mio parere, c'è anche il problema politico italiano, almeno per ora.

Possiamo prendercela fin che vogliamo con la speculazione, l'irrazionalità dei mercati finanziari, la perfidia delle agenzie di rating (è di ieri la notizia che, per la prima volta, il debito statunitense ha perso la tripla A, almeno nel giudizio di Standard & Poor's). Ma la realtà è che, anche se i mercati si dessero una calmata (cosa che prima o poi succederà), né il mondo, né l'Europa, né l'Italia avrebbero per ciò stesso risolto i loro problemi. Le malattie che la febbre dei mercati mette in evidenza sussistono indipendentemente dal nervosismo dei mercati stessi. E si tratta di malattie molto gravi.

Il mondo è malato perché, dopo aver goduto dei benefici della globalizzazione, non ha trovato - né forse ha veramente cercato - il modo di contenerne alcuni drammatici effetti collaterali, come l'amplificazione degli squilibri economici fra Paesi e l'ipertrofia dei mercati finanziari.

Mercati che sono arrivati a pesare 8 volte il Pil mondiale e quindi (come notava sabato Morya Longo su Il Sole 24 Ore) ormai in grado di incidere sui fondamentali delle economie, anziché limitarsi a misurarne più o meno accuratamente lo stato di salute. E non va certo ad onore della classe dirigente mondiale il fatto che, a quattro anni dallo scoppio della crisi, così poco sia stato fatto per riportare un po' di ordine e di trasparenza nelle transazioni finanziarie.

L'Europa è malata perché è come l'Italia. L'edificio dell'euro non funziona per gli stessi motivi per cui non ha funzionato l'unità d'Italia. Quando si impone un mercato e una moneta unica a territori che hanno enormi divari di produttività, di modernizzazione, di cultura civica, solo un processo di convergenza economica e sociale accelerata può evitare la formazione di squilibri drammatici. L'unificazione monetaria, infatti, sopprime l'unico meccanismo di riequilibrio incisivo, ossia la svalutazione della moneta nazionale. Private della possibilità di svalutare, le economie deboli tendono a importare più di quanto esportino, ed accumulano deficit e debiti pubblici sempre più grandi per potersi permettere un tenore di vita che va al di là di ciò che il Paese effettivamente produce.

In queste condizioni, per contenere gli squilibri c'è solo la via della modernizzazione del territorio più debole, ma questa via - in Europa - è stata percorsa pienamente solo da alcuni Paesi dell'Est, e segnatamente dalla Germania orientale nell'ambito della riunificazione tedesca. Le economie deboli del Mediterraneo - Italia, Spagna, Grecia, Portogallo - sono entrate tutte nell'euro, ma ben poco hanno fatto per meritarsi l'appartenenza all'eurozona. Un processo molto simile a quello che, nell'Italia repubblicana, ha fatto fallire tutti i tentativi di annullare il divario fra Nord e Sud del Paese. Con una differenza importante: che non esistendo un mercato dei titoli di Stato delle Regioni, le nostre nove regioni in deficit (Lazio più tutto il Sud) hanno potuto mascherare il loro status di territori-cicala molto più a lungo di quanto siano riuscite a fare Grecia, Portogallo, Spagna e Italia.

Quanto all'Italia, la sua malattia è simile a quella delle altre economie deboli, ma presenta almeno due complicazioni importanti. La prima è che una parte del Paese, ovvero tutto il Nord inclusa l'Emilia Romagna (ma esclusa la Liguria), ha istituzioni di livello europeo, e tassi di crescita più bassi del resto d'Europa solo perché - attraverso il massiccio prelievo fiscale cui è soggetta - è costretta a sostenere i consumi delle regioni meno produttive.

La seconda complicazione è la nostra classe dirigente, che - a mio parere - ha cessato di essere tale intorno al 1998, appena perfezionato il nostro ingresso in Europa. La stagione che va da Mani pulite e dal tracollo della lira (1992) alla caduta del primo governo Prodi (1998) fu ancora, nonostante vari limiti ed incertezze, una stagione di riforme, di cambiamenti, di tentativi di modernizzazione. E lo fu indipendentemente dal colore politico dei governi, e con il contributo sofferto, ma tutto sommato costruttivo, delle principali forze sociali, a partire dai sindacati. Non così il dodicennio che va dal 1999 ad oggi, in cui la nostra classe dirigente ha progressivamente abbassato le ambizioni riformiste, fino allo stallo degli ultimi due esecutivi (Prodi e Berlusconi), capaci di competere fra loro solo nell'arte del non governo.

Ed eccoci arrivati al perché il rebus politico italiano non ha alcuna soluzione. Il governo Berlusconi ha negato sistematicamente la gravità della situazione, e proprio sulla base di questa diagnosi errata ha ritenuto di potersi permettere una manovra risibile, in cui l'85% dell'aggiustamento necessario per azzerare il deficit veniva scaricato sulle spalle dei governi futuri. Sarebbe stato stupefacente che i mercati non si accorgessero del bluff. Ed è un bene (o meglio è il male minore) che l'Europa, imponendo l'anticipo al 2013 del pareggio di bilancio, abbia di fatto commissariato l'Italia, sostituendosi a un governo paralizzato. Dunque è vero, questo governo è diventato un problema, se non il problema.

Il nostro guaio, sfortunatamente, è che questa opposizione - anzi queste opposizioni - non sono la soluzione, ma una parte del medesimo problema. E' almeno due anni che l'opposizione è convinta dell'inadeguatezza di questo governo, ma neppure in un tempo così lungo è stata in grado di approntare una diagnosi condivisa e una terapia credibile. E' scoraggiante, in questi giorni, leggere sui giornali la cacofonia di valutazioni e di proposte che arrivano da ogni angolo del cantiere delle opposizioni. E ancora più scoraggiante è la genericità, per non dire il vuoto spinto, dei documenti delle cosiddette parti sociali.

La realtà è che nessuno, oggi, è in grado di dire se le attuali opposizioni sarebbero capaci di formare un governo, e tantomeno che cosa un tale governo ci riserverebbe, al di là delle solite chiacchiere su costi della politica, lotta agli sprechi, contrasto all'evasione fiscale. Eppure il rebus è chiaro: se non vogliamo essere in balia dei mercati bisogna trovare 50 miliardi di euro (più tasse e meno spese), e inoltre bisogna trovarli senza provocare né una recessione né una rivolta sociale.

Ecco perché penso che il rebus sia insolubile. Un'impresa come quella oggi richiesta all' Italia potrebbe tentarla solo una classe dirigente credibile. Dove per credibile non intendo solo un po' meno corrotta e squassata dagli scandali, ma soprattutto più lucida, più unita, più coraggiosa, meno ossessionata dalla ricerca del consenso a breve termine. L'immobilismo e l'impotenza di Berlusconi sono diventati il problema dell'Italia, ma la tragedia del Paese è che le opposizioni non hanno usato il lungo tempo del crepuscolo berlusconiano per diventare, esse, la soluzione che il Paese attende.

Giorgio Ruffolo ha scritto un libro dal titolo un po' provocatorio, Il capitalismo ha i secoli contati, e presiede il Centro Europa ricerche (Cer). Di fronte a questa crisi che dici?

Dico che la conta si è accelerata. Continuo a non parlare di crollo, ma è certo che la crisi, la più grave dagli anni trenta del secolo scorso, segna un momento di profonda trasformazione.

Ma qualcosa è cambiato nel nostro capitalismo?

A tre quarti del secolo scorso c'è stata una vera e propria mutazione. Siamo passati dal capitalismo manageriale al capitalismo finanziario. Il primo aveva accettato di subordinare le prospettive di profitto a una politica dei redditi che sanciva un compromesso storico tra democrazia e capitalismo, con il passaggio dalla massimizzazione alla normalizzazione del profitto. Oggi siamo tornati a un regime di esasperata massimizzazione del profitto e nel più breve periodo, con la conseguenza di una mostruosa esplosione delle diseguaglianze. Le conseguenze devastanti di quelle diseguaglianze sulla compressione della domanda sono state evitate ricorrendo massicciamente all'indebitamento, come dire ai posteri. Con la conseguenza di uno sfrenato aumento della liquidità. Alla vigilia della crisi, nel 2007, la liquidità mondiale aveva raggiunto un livello dodici volte superiore al prodotto reale mondiale, di qui la crisi che ha coronato la controffensiva capitalistica. La controffensiva capitalistica è iniziata negli anni '70 con il distacco del dollaro dall'oro ed è esplosa negli anni '80 con la liberalizzazione del movimento mondiale dei capitali, liquidando gli accordi di Bretton Woods, che garantivano, con le limitazioni al movimento dei capitali, le politiche macroeconomiche dei governi. Con la controrivoluzione tatcheriana e reaganiana sono stati ribaltati sia i rapporti di forza tra capitalismo e stati nazionali, sia quelli tra capitale e lavoro. E' finita quella che un grande storico marxista come Hobsbawn aveva definito l'età dell'oro.

Ma c'è qualche differenza tra questa crisi e quella del '29?

Certamente. A fronteggiare quella crisi ci fu l'intervento pubblico: il new deal rooseveltiano e a destra la crescita dello stato in Germania e in Italia, pensa solo all'Iri e alla nazionalizzazione delle banche. Non dimentichiamo il catastrofico ma risolutivo peso della seconda guerra mondiale. Oggi la situazione è molto diversa: dappertutto cresce il debito pubblico. Il peso di un gigantesco salvataggio è stato tutto posto sugli Stati, senza toccare minimamente i redditi e il potere della nuova plutocrazia finanziaria. E al danno si aggiunge anche la beffa: banchieri e finanzieri rimproverano duramente gli stati per un indebitamento che è in gran parte dovuto al loro salvataggio. Non solo: come ci avverte De Cecco, ci sono banche che si sono messe a speculare sul default dello Stato.

In questa crisi generale c'è uno specifico italiano?

Sì, l'incertezza e il teatrale e repentino cambio di marcia sulla manovra, messo in scena dal presidente del Consiglio e dal ministro dell'Economia, tradisce l'incertezza esistenziale di questo governo, ma non altera l'impostazione della manovra. Il suo punto critico non stava nell'entità e nei tempi (secondo i calcoli del Cer, 105 e non 80 miliardi di euro come si è detto, e non tutti concentrati alla fine, ma equamente distribuiti negli anni) e non si risolve con anticipazioni. I suoi punti critici stanno anzitutto nella credibilità di un governo, il cui presidente ha negato per anni la crisi, minimizzandone poi l'importanza fino all'altroieri e, soprattutto nell'impostazione iniqua e recessiva della manovra. Il fatto grave è appunto che la manovra è recessiva, non stimola ma frena la crescita. E ciò essenzialmente per effetto delle restrizioni fiscali, che costituiscono poco meno dei due terzi delle correzioni previste. Una grande manovra avrebbe richiesto (vedi la proposta di Giuliano Amato) un'imposta patrimoniale straordinaria accompagnata dal vincolo immediato del pareggio di bilancio e dalla utilizzazione del prelievo in un forte programma di investimenti e ricerca. Questo dovrebbe proporre la sinistra, che trema al solo pensarci.

Ma in tutto questo non c'è anche una crisi della politica e della cultura?

Quel che oggi rimane della sinistra appare piuttosto inquinato da una cattiva imitazione dai «valori» e dalle pratiche del mercato. Nessuna traccia di un progetto umano ideale alla Marx. Nessuna traccia di un riformismo pratico alla Keynes che fissi le regole di un'economia ecologicamente, socialmente e moralmente giusta.

A tanti anni di distanza che dici della caduta del Muro di Berlino?

Fatte tutte le considerazioni del caso mi verrebbe da dire che il socialismo reale (cosiddetto) che c'era prima era un disastro e che un altro disastro lo ha sostituito. Finito il socialismo reale c'è stato lo scatenamento, in economia, delle pulsioni speculative. Non c'era più il nemico e si poteva fare di tutto. E quel che è stato fatto ci ha portato alla condizione attuale.

Hobsbawm, che tu hai citato, dice che bisogna tornare a Marx. Condividi?

Non certo al suo programma, fallimentare, ma alla sua ispirazione ideale e al suo metodo di analisi storica certamente sì. Magari ci fosse. E magari ci fosse un Keynes che traducesse quella ispirazione in buon riformismo liberale e socialdemocratico. Io voterei per loro.

Politico e economista, Giorgio Ruffolo è presidente del Centro Europa ricerche, che realizza studi e analisi di economia applicata e fornisce ad autorità nazionali e internazionali valutazioni e commenti su prospettive economiche e tendenze della finanza pubblica. Il Cer svolge inoltre attività di ricerca, formazione e consulenza per istituzioni e amministrazioni pubbliche, aziende bancarie e assicurative, industrie, associazioni di categoria.

La Cgil lacerata sui «sei punti»

di Antonio Sciotto 


All'incontro di giovedì con il governo imprese e sindacati si sono presentati con una proposta comune per superare la crisi Malcontento tra le categorie e nella stessa maggioranza per il testo presentato al governo insieme alla Confindustria-Fronti opposti sulle privatizzazioni, la tassa patrimoniale, il pubblico impiego. «Tornare al Direttivo»

Si accende lo scontro dentro la Cgil sul documento in 6 punti presentato al governo, firmato due giorni fa dalla segretaria generale Susanna Camusso con la Confindustria, ma sgradito a una parte della confederazione. In particolare, vengono criticati i passaggi sulle privatizzazioni (che comunque la segretaria ha già ribadito di non condividere), sull'aumento della produttività della pubblica amministrazione (soprattutto a fronte di un governo che ha congelato salari e integrativi), e si contesta un deficit di democrazia, non essendo passata la decisione al vaglio del Direttivo. Dall'altro lato, chi sostiene la linea Camusso, spiega che «il momento è grave, l'Italia rischia il default, e si deve dimostrare senso di responsabilità».

«Il documento è inaccettabile - dice Gianni Rinaldini, dell'area di minoranza «La Cgil che vogliamo» - Così come è inaudito che la Marcegaglia possa presentare delle proposte anche a nome e per conto dei sindacati: un'umiliazione della Cgil». «Privatizzazioni, liberalizzazioni, modernizzazione del welfare, rendere strutturale la detassazione e la decontribuzione dei premi di risultato aziendali senza nulla dire sulla tassazione del lavoro dipendente e degli aumenti retributivi dei contratti nazionali, esprimono una idea, una esplicita volontà punitiva sui più deboli», prosegue Rinaldini, che chiede ora a Camusso di «sospendere gli incontri e convocare gli organismi dirigenti». «Bisogna smetterla di trattare la Cgil - conclude - come se fosse proprietà esclusiva di 2 o 3 dirigenti».

Dalla Fiom, dal suo leader Maurizio Landini, per ora non vengono dichiarazioni esplicite: ma si sa che i metalmeccanici Cgil sono parte integrante della minoranza (tre quarti di loro votò la mozione Rinaldini al Congresso), e non si fa fatica a immaginare che siano contrari al documento. Un netto «no» arriva da un'altra categoria, quella di scuola, ricerca e università, la Flc: lo declina il segretario Mimmo Pantaleo nell'intervista che pubblichiamo in queste pagine.

Molto articolate anche le critiche di Nicola Nicolosi, segretario confederale della Cgil e coordinatore di «Lavoro e società», che dopo aver sempre difeso, dal passato Congresso, le posizioni di Susanna Camusso, adesso si smarca: «Il documento non mi vede d'accordo - spiega in una lunga nota - Altro che bilancio pubblico: il problema dell'Italia è quello di una crescita che non permette il pagamento o la sostenibilità del debito. Se poi anticipassimo le misure fiscali previste in manovra, con l'assurda richiesta di "costituzionalizzare" il pareggio di bilancio pubblico, l'Italia cadrebbe dalla recessione alla depressione». «I contenuti delle proposte delle parti sociali sono l'esatto contrario di quello che servirebbe al paese - conclude Nicolosi - Il parlamento europeo ha proposto una tobin tax, la Cgil da parte sua la patrimoniale. Questo è il programma della Cgil, di cui non c'è traccia in quei 6 punti».

Intanto nei giorni scorsi si era espressa contro una nuova concertazione «tutta ai danni di lavoratori, giovani e pensionati», anche Carla Cantone, segretaria dello Spi Cgil, i pensionati: «È vero che nei momenti molto delicati ci vuole un grande senso di responsabilità, e la Cgil nella sua storia non si è mai sottratta - ha detto Cantone - Ora però basta: non si possono chiedere più sacrifici alle categorie che rappresentiamo senza parlare di equità. Neanche se a chiedercelo sono le opposizioni o la Confindustria».

Posizioni di contrarietà cominciano a emergere anche nei territori: Antonio Mattioli, segretario della Cgil dell'Emilia Romagna, è molto critico rispetto al documento delle parti sociali: «Ci infiliamo in un confronto diventato urgente per altri, per la Cgil lo era sin dallo sciopero generale del 6 maggio, senza sottolineare le nostre priorità: la patrimoniale, la restituzione del fiscal drag, una riforma del pubblico impiego che sblocchi la contrattazione, una riforma della scuola e della ricerca contro le politiche depressive del governo, una lotta alla piaga della precarietà. Si doveva convocare il Direttivo e assumere le nostre priorità a partire dalla piattaforma dello sciopero del 6 maggio e dal giudizio espresso il 5 luglio sulla manovra».

Ieri la segretaria Susanna Camusso ha difeso la sua firma al documento in una intervista a Repubblica, dove chiede le dimissioni del presidente del consiglio e dice no a un anticipo della manovra, «perché è sbagliata e iniqua». Inoltre, Camusso ribadisce la contrarietà alle privatizzazioni, nonostante esse siano contenute tra i 6 punti.

Sostiene questa posizione, tra i segretari di categoria, Stefania Crogi, leader della Flai (agroindustriali): «Io condivido in pieno quel documento - ci spiega - perché dobbiamo capire che l'Italia è in un momento delicatissimo, rischiamo il default, da poco si è espresso anche il presidente della Repubblica Napolitano: a chi chiedeva un Direttivo, dico di guardare all'urgenza del momento, a come sta messo il paese». «Sulle privatizzazioni - dice Crogi - mi pare che Camusso abbia chiarito, nell'intervista a Repubblica, che fanno male: d'altra parte tutti hanno visto il nostro impegno negli ultimi referendum. Anche sulla patrimoniale, dico che resta tra le nostre priorità, seppure non sia stato scritto esplicitamente nel documento: quando si parla di reperire risorse per un'equa tassazione del lavoro, per noi significa tassare i più ricchi. È importante in un momento come questo tenere l'unità sindacale e tra tutte le parti sociali, mentre al governo e al premier chiediamo di andarsene, per tornare a votare».


Mimmo Pantaleo/ Il segretario della FLc contesta la firma

intervistadi Loris Campetti



«Metodo e contenuti sbagliati. Il testo comune va in direzione opposta alla nostra linea» 
«Tutti insieme per fare che? La Cgil deve battersi in difesa dei beni comuni e del welfare, per la redistribuzione della ricchezza attraverso l'imposta patrimoniale»

Mimmo Pantaleo è segretario generale della Federazione lavoratori della conoscenza (Flc) della Cgil, prima mozione congressuale, quella maggioritaria che ha espresso Susanna Camusso. La sua appartenenza non gli impedisce di esprimersi liberamente sull'alleanza tra le «parti sociali»: Confindustria, confederazioni sindacali, rappresentanze del sistema bancario, agricolo, cooperativo, artigianale. Pantaleo non lesina critiche e mette a nudo i contenuti «inaccettabili» del documento presentato al governo Berlusconi e firmato anche da Susanna Camusso. E critica il metodo che ha portato a qesta decisione.

Pantaleo, è cambiata la linea della Cgil?

Io sto ai contenuti. Nel direttivo nazionale si è deciso di dare una battaglia dura contro la finanziaria Tremonti-Berlusconi che provoca un massacro sociale e si sono fissati i punti fondamentali della Cgil per dare una risposta alternativa alla crisi: patrimoniale per far pagare ai ricchi i costi della crisi; difesa dei beni comuni e del welfare; investimenti nella ricerca e nella conoscenza; difesa dei redditi da lavoro dipendente e da pensioni con un riequilibrio nella distribuzione della ricchezza; aumento della tassazione delle rendite finanziarie. Nel documento presentato dalla Marcegaglia leggo l'opposto, vedo una filosofia e delle scelte concrete che vanno in tutt'altra direzione. Lo sappiamo tutti che in una situazione d'emergenza, alle prese con un governo incapace e dannoso, vanno costruite proposte e iniziative, ma certo non sottoscrivendo impegni contrari alle posizioni della Cgil.

Come è maturata la scelta della Camusso?

Posso solo risponderti che io sono abituato alla scuola della Cgil che prevede grandi discussioni nei gruppi dirigenti per costruire le scelte importanti. Di questa cultura non ho visto traccia nel percorso che ha portato al patto tra le parti sociali e al documento comune. Alla ripresa di settembre il direttivo dovrà finalmente discuterne.

E nel merito del patto e del documento?

Non credo che esistano le condizioni per un patto sociale con Confindustria e banche, non c'è condivisione nelle strategie tra gli interlocutori. Coloro con cui abbiamo firmato il documento vogliono privatizzazioni, controriforme del mercato del lavoro e delle relazioni sindacali, liquidazione dello Statuto dei lavoratori. In quale dispositivo della Cgil sta scritto che noi siamo d'accordo? Non hanno certo il lavoro in mente i nostri cofirmatari. Noi, al contrario, dovremmo mettere in campo una forte mobilitazione per una nuova idea di crescita e sviluppo. Non serve adorare il totem della crescita, bisogna parlare di qualità e compatibilità della crescita. Vorrei aggiungere che quanto nel documento «comune» si esalta l'impegno di banche e imprese, noi dovremmo replicare che la drammaticità della crisi italiana è anche il prodotto delle scelte di banche e imprese.

All'inizio si era detto che l'accordo delle parti sociali era finalizzato a determinare una discontinuità di governo. Adesso sono rimasti in pochi a dire che Berlusconi se ne deve andare.

Che un presidente arrogante e un governo disastroso debbano andarsene per aprire la strada a nuove elezioni siamo tutti d'accordo in Cgil. Governi di transizione o governissimi sarebbero in continuità con Berlusconi. Per la Cgil l'alternativa, credo, è nei contenuti e il primo è far pagare la crisi e il risanamento ai ricchi. Con le operazioni politiciste non si va da nessuna parte. La gente chiede un cambiamento vero. Lo chiede a noi, e lo chiede soprattutto alla politica, all'opposizione.

La Cgil ha firmato un mese fa un accordo con Cisl, Uil e Confindustria che va nella stessa direzione del patto sociale...

Sinceramente non vedo questa continuità. Con tutti i suoi limiti, l'accordo sul sistema contrattuale e la rappresentanza, discutibile quanto vogliamo, ha una valenza sindacale. Io per esempio penso che i lavoratori debbano poter votare sempre sugli accordi che li riguardino. Ora, invece, vedo una valenza puramente politica, di cattiva politica nel patto e nel documento delle parti sociali. Tutti insieme per fare che? Ridurre lo stato sociale? Privatizzare i beni comuni? Parliamo di cose serie, e siccome siamo la Cgil parliamo di occupazione, lotta al precariato, diritti, salari, Mezzogiorno.

Sabato scorso, durante la manifestazione svoltasi a Gerusalemme, mi sono guardato intorno e ho visto nelle strade un fiume di gente. Migliaia di persone che da anni non facevano sentire la propria voce. Che, chiuse nei loro problemi e nella loro disperazione, avevano perso ogni speranza di un cambiamento.

Non è stato facile per loro unirsi alle urla ritmate dei giovani coi megafoni. Forse, non essendo abituate ad alzare la voce, si sono sentite imbarazzate, timorose di gridare. E in coro per di più. A tratti avevo l´impressione che ci guardassimo stupiti, perplessi e un po´ increduli di ciò che ci usciva di bocca: eravamo davvero una "folla" rabbiosa che agita i pugni come nelle manifestazioni in Tunisia, in Egitto, in Siria, in Grecia? Volevamo essere una folla come quella? Avevamo intenzioni serie quando gridavamo a ritmo cadenzato "ri-vo-lu-zio-ne!"? E che accadrà se avremo "troppo successo"? Se i cerchi che tengono insieme questo fragile Paese si spezzeranno? Se le contestazioni e l´impeto si trasformeranno in anarchia?

Ma dopo qualche passo è successo qualcosa, qualcosa che è entrato nel sangue. Il ritmo, lo slancio, l´essere insieme. Non un "insieme" minaccioso e senza volto ma un insieme multiforme, sfaccettato, confuso, famigliare, pervaso da un forte senso di "ecco, stiamo facendo la cosa giusta, finalmente stiamo facendo la cosa giusta". E a quel punto è affiorato lo stupore: dove siamo stati finora? Come abbiamo potuto lasciare che tutto questo accadesse? Accettare che i governi da noi eletti trasformassero la nostra salute e l´istruzione dei nostri figli in un lusso?

Non levare un grido quando i funzionari del ministero del Tesoro schiacciavano la protesta degli assistenti sociali e ancor prima quella dei disabili, dei sopravvissuti alla Shoah, degli anziani, dei pensionati? Come abbiamo potuto, per anni, condannare i bisognosi e gli affamati a una vita di umiliazione e delegare la loro assistenza alle mense dei poveri, agli enti di carità? Come abbiamo potuto abbandonare i lavoratori stranieri alle angherie di oppressori e persecutori, di mercanti di schiavi e di donne? Come abbiamo potuto rassegnarci a una prepotente politica di privatizzazione che ha sgretolato tutto ciò che avevamo caro: la solidarietà, la responsabilità e l´assistenza reciproca, la sensazione di appartenere a un solo popolo? I motivi di questa indifferenza sono molti, si sa, ma a mio parere ciò che ha sconvolto più di ogni altra cosa i sistemi di controllo e di allerta della società israeliana è stata la profonda spaccatura generata dall´occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Occupazione che ha fatto affiorare i lati negativi e malati della nostra società e noi, forse per paura di affrontare ad occhi aperti la realtà, ci siamo abbandonati con entusiasmo a ogni genere di narcotizzanti e di anestetizzanti. A volte guardavamo in faccia la realtà. A qualcuno piaceva molto, altri ne erano inorriditi e disgustati. Ma anche questi dicevano sospirando: le cose stanno così. Quasi questa fosse una situazione ineluttabile, un castigo divino. E oltretutto abbiamo permesso alle televisioni commerciali di riempire il vuoto della coscienza collettiva descrivendoci in termini di predatori in lotta per la sopravvivenza che si accaniscono gli uni contro gli altri disprezzando i deboli, i diversi, i "brutti", gli "stupidi", i "poveri". Da tanti anni ormai abbiamo smesso di dialogare, e sicuramente di ascoltare. Come sarebbe infatti possibile in questo clima di "arraffa più che puoi" non aggredirci a vicenda, razziare? In fin dei conti è quello che ci dicono di fare in tutti i modi possibili: ognuno per sé.

E più queste incessanti schermaglie ci indebolivano più era facile controllarci, manipolarci, stordirci, vittime di un occulto ed efficace "divide et impera". E così, per i detentori del capitale, del potere e degli organi di stampa, l´occuparsi di questioni cruciali si trasformava in uno scontro tra "chi ama il Paese e chi lo odia", "chi gli è fedele e chi lo tradisce", "chi è un buon ebreo e chi ha dimenticato di esserlo". Ogni dibattito razionale finiva immerso in uno sciroppo di sentimentalismo, di patriottismo e di nazionalismo kitsch, di ipocrita virtuosità e di vittimismo. Un poco alla volta ci è stata preclusa la possibilità di criticare lucidamente ciò che stava accadendo. Israele si è ritrovato a mantenere verso i propri cittadini un atteggiamento totalmente in contrasto con i suoi valori e ideali di un tempo.

Ma ecco che, improvvisamente e contrariamente a ogni previsione, è accaduto qualcosa. La gente si è svegliata, si è aperta a un´iniziativa che ancora non si sa dove ci porterà, che non è ancora del tutto comprensibile o descrivibile a parole ma che si chiarisce e prende forma leggendo gli slogan che, usciti d´un tratto dal guscio dei cliché, si trasformano in sentimenti vivi: "Il popolo vuole giustizia sociale, non carità!", e altre frasi e formule di epoche passate. A tratti, nell´aria, si avvertono i segnali di una possibile guarigione, di una rettifica, e torna qualcosa di dimenticato: il rispetto per noi stessi. Per il singolo e per tutto Israele.

C´è una forza enorme, un po´ illusoria e inebriante, in questo risveglio. Sarebbe allettante farsi trascinare dall´euforia (e da una sensazione di rinnovata gioventù). Sarebbe facile cadere nell´illusione che stiamo di nuovo distruggendo il vecchio mondo. Ma le cose non stanno esattamente così. Il vecchio mondo non è del tutto da buttar via. Ha ottenuto anche dei buoni risultati, soprattutto nel mantenere la stabilità economica mentre altre nazioni collassavano. Risultati che, peraltro, permettono ora al movimento di protesta di manifestare liberamente le proprie aspirazioni nonché di realizzarne qualcuna. Per questo l´attuale lotta deve esprimersi in un linguaggio totalmente diverso da quello delle precedenti. Più di ogni altra cosa deve basarsi sul dialogo, accomunare e non dividere, incentrarsi sui princîpi, non su opportunismi e consorterie. Solo così l´attuale iniziativa potrà mantenere il grande sostegno pubblico che ha avuto finora. Proprio la genericità del movimento di protesta permette a ogni gruppo che ne fa parte di mantenere le proprie idee politiche e convinzioni, contrarie le une alle altre, eppure – per la prima volta in decenni – di promuovere anche una piattaforma comune, civile e umana, e persino provare orgoglio di appartenere a questa comunità. Chi in Israele potrebbe permettersi di rinunciare a risorse enormi come queste?

L´attuale movimento di protesta e la sua onda d´urto propongono un possibile dialogo tra chi, da decenni, non si parla più. Tra classi sociali diverse e distanti, tra religiosi e laici, tra arabi ed ebrei. In questo processo di possibile identificazione comune potrebbe svilupparsi un dialogo più realista ed empatico tra la destra e la sinistra, per esempio riguardo all´indifferenza della sinistra verso gli evacuati dalla striscia di Gaza. Un dialogo che potrebbe anche salvare qualcosa del senso di solidarietà reciproca al quale un paese come il nostro non può permettersi di rinunciare.

È facile criticare e dubitare di un movimento giovane. In genere è sempre più facile trovare ragioni per non agire in maniera ferma e coraggiosa. Ma chiunque presti ascolto alle aspirazioni recondite dei manifestanti, capirà che forse si sta aprendo una finestra su un futuro diverso. Forse a questo si riferiva una ragazza che durante il corteo di Gerusalemme mi ha detto: «Guardi, la dirigenza è ancora vuota di contenuto, come lei ha detto nel suo discorso in Piazza Rabin nel 2006, ma il popolo non lo è».

Traduzione di Alessandra Shomroni

Per invertire rotta l'Ue dovrebbe "sterilizzare" buona parte dei debiti degli Stati membri: un default continentale Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia potrebbero essere travolte, come nel bowling, dalla caduta del birillo greco

Il "contagio greco" non esiste. La Grecia non è che il primo di molti birilli presi di mira nel gioco del bowling che tiene impegnata la finanza internazionale. Che le finanze greche possano salvarsi ormai non lo crede più quasi nessuno. Il gioco è solo quello di tirare per le lunghe perché non si intravvedono misure in grado di raddrizzare la situazione. Portogallo, Spagna, Irlanda o Italia potrebbero essere travolte, proprio come nel gioco del bowling, dalla caduta del birillo greco; ma ciascuno di questi paesi potrebbero anche essere il primo a cadere; ed essere lui, poi, a travolgere tutti gli altri. È l'intera costruzione dell'Unione Europea che rischia il collasso. E al centro di questa evenienza c'è l'euro. L'idea che si possa espellere dall'euro, uno a uno, i corpi infetti non sta in piedi. Intanto, anche da un punto di vista materiale, è un'operazione assai difficile; senza procedure; e tanto più rischiosa se attuata non secondo un piano cadenzato, ma sotto l'incalzare della speculazione. L'euro ha privato i governi degli Stati membri di due degli strumenti tradizionali delle politiche economiche: la svalutazione e l'inflazione controllata (attraverso l'emissione di nuova moneta). Il terzo, la fissazione del tasso di interesse, non la fanno più né gli Stati membri né la Bce. Chi la accusa di immobilismo non tiene conto che nel contesto attuale tassi di sconto più bassi fornirebbero denaro più facile non all'investimento produttivo, ma alla speculazione. Ma il fatto è che da tempo l'indebitamento degli Stati membri ha consegnato la fissazione dei tassi di interesse - vedere per credere - ai cosiddetti "mercati", a cui i governi di tutto il mondo si sono assoggettati. Una condizione di subalternità che per alcuni decenni è stata "prerogativa" dei paesi del cosiddetto "Terzo mondo", strangolati dal Fondo monetario internazionale; ma che la globalizzazione sta ora estendendo a tutti i paesi del pianeta. Per invertire rotta l'Unione europea dovrebbe probabilmente assumere - e "sterilizzare" - buona parte dei debiti degli Stati membri: un default continentale, che certo sarebbe preferibile alla caduta in ordine sparso dei singoli Stati. In entrambi i casi, con i tempi che corrono, a rimetterci saranno tutti: economie "forti" comprese.

Ma che cosa ha ridotto governi e partiti a competere tra loro facendo a gara a chi è più adatto o capace di soddisfare o tacitare i "mercati"? E che cosa sono mai questi "mercati", ai quali è stata trasferita quella "sovranità", cioè il governo della vita di milioni di persone, che le Costituzioni di tutti gli Stati democratici assegnano al popolo? Sono la finanza internazionale, la forma più compiuta, astratta e "delocalizzata" del capitale. Dietro il quale ci sono però grandi patrimoni privati - si chiamino hedge fund, private equity o fondi di investimento - che sono cresciuti grazie a un gigantesco trasferimento di ricchezze (mediamente, il 10 per cento del Pil di quasi tutti i paesi; il che, per un salario, può però voler dire il 30-40 o anche il 50 per cento del potere d'acquisto) dai redditi da lavoro a quelli da capitale. Poi ci sono le grandi banche, a cui la deregolamentazione degli ultimi venti anni ha permesso di investire, ma anche di speculare, con il denaro dei depositanti. Al terzo posto vengono le grandi multinazionali (petrolio, grande distribuzione, costruzioni, alimentare, farmaceutica, ecc.) che "integrano" i profitti delle attività estrattive o manifatturiere operando in borsa con le proprie tesorerie.

Ma i soggetti più forti dei cosiddetti "mercati" sono assicurazioni e fondi pensione - in Italia, questi ultimi, alle prime armi; ma all'estero da tempo padroni di immense risorse - che per garantire alti rendimenti ai loro investimenti non esitano a strangolare imprese e gettare sul lastrico quei lavoratori che hanno affidato loro il denaro con cui affrontare la propria vecchiaia. Tanto che in borsa le quotazioni di un'impresa spesso salgono quando aumentano i cosiddetti "esuberi". È il capitalismo diffuso - o "popolare" - bellezza!

Ma se l'euro - così come è stato fatto, perché l'idea non era male - sta travolgendo l'Unione Europea, a mettere alle corde l'intero pianeta, Europa compresa, è stata la diffusione pressoché universale del "pensiero unico", cioè del liberismo: l'idea che il mercato, o i mercati, debbano governare il mondo e siano la soluzione migliore per rispondere alle esigenze di chiunque. Si tratta di una rappresentazione talmente lontana e diversa dalla realtà della vita quotidiana della gente da renderne impraticabili tanto la comprensione che il governo. Per tutti; anche per coloro - molti o pochi - che se ne avvantaggiano; o per coloro - pochi o molti - che sanno benissimo trattarsi di una favola per allocchi. Per queste sue caratteristiche il liberismo rappresenta oggi la forma più compiuta e diffusa di travisamento della realtà e la presa che da tempo esercita sul pensiero e gli orientamenti di governanti e governati di tutto il mondo è rappresentabile solo come una vera e propria "dittatura dell'ignoranza". Da questo punto di vista il berlusconismo e le sue propaggini ormai estese a tutti gli anfratti del mondo politico e culturale italiano non sono che un caso particolare - più evidente e pronunciato in Italia - di un fenomeno che caratterizza a livello mondiale l'intera epoca in cui viviamo. Con effetti tragici e paradossali, ma proprio per questo rivelatori. Prendete per esempio il capofila di quel circo Barnum che sono i corsivisti del Corriere della Sera (Massimo Mucchetti escluso): dopo averci assicurato che il fallimento della banca Lehman Brothers era un evento salutare, e poi che la crisi mondiale era agli sgoccioli, o che la Gelmini aveva fatto una grande riforma, e infine che la manovra di Tremonti aveva messo al sicuro il bilancio dello Stato, ora - 2 luglio 2011 - Francesco Giavazzi affida all'"intuizione" del Berlusconi imprenditore (avete letto bene: "intuizione": e dopo vent'anni di regime tutti sanno di che cosa si parla: truffe e panzane) il compito di risollevare le sorti del paese. Come approdo finale della dottrina economica liberista, di cui Giavazzi è un alfiere, non c'è male.

Il fatto è che, vista la situazione di impotenza in cui il pensiero unico e le "intuizioni" di Berlusconi ci hanno cacciato, le ricette per tirarsene fuori scarseggiano. Anzi, sono una sola, e si chiama "crescita"; che, scendendo alla sua declinazione pratica, vuol dire privatizzazioni (in barba ai risultati del referendum), liberalizzazioni (come se l'Italia non fosse il paese che offre - alle imprese - le maggiori libertà del mondo: vedi l'imprenditoria di mafia e camorra o, per scendere sul "legale", i metodi di Sergio Marchionne), taglio della spesa pubblica (come se l'Italia non avesse le spese per scuola, ricerca, sanità, famiglia e disoccupazione più basse d'Europa); e poi, lavorare di più (copyright di Giuliano Amato: non lavorare tutti, ma fare lavorare di più chi già lavora); per finire con le Grandi opere (Tav, Ponte, autostrade, gassificatori ed expò: investimenti inutili, devastanti, costosi e senza prospettive di "rientro"). Così la nostalgia di una crescita che non c'è e non tornerà più si consuma nell'invidia per la Germania, come se i successi dell'economia tedesca non fossero indissolubilmente legati ai disastri dei paesi dell'Unione più deboli: quelli verso cui si dirige, senza reciprocità, metà delle sue esportazioni (l'altra metà va in Usa e in Cina: due paesi che non godono più, ma che soprattutto non godranno più nei prossimi anni, dei successi che li hanno resi potenti e arroganti).

Purtroppo la dittatura dell'ignoranza e del pensiero unico - l'idea che a governare il mondo siano e debbano essere i "mercati" - non si arresta sulla soglia del Corriere né su quella dei partiti di maggioranza e di opposizione. Ha pervaso, e da tempo, tutta la società e, in qualche misura, ciascuno di noi. Persino per difendere una bella trasmissione come Vieni via con me, non ci si è appellati alla qualità intrinseca dei suoi contenuti, e nemmeno agli ascolti - che pure in qualche modo sono legati, e viziati, dal mezzo su cui transitano - ma alla pubblicità che il programma poteva raccogliere e far incassare alla Rai. Come dire: è il mercato - della pubblicità - che decide del valore di un'opera. Di fatto la delega al mercato - l'idea che spetti ai mercati il governo del mondo e della nostra vita quotidiana - ci ha resi tutti in qualche misura impotenti e imbelli: incapaci, e a volte anche restii, ad autogovernarci e a rivendicare il potere e il diritto di farlo.

Una grande battaglia è stata vinta con i referendum, soprattutto se pensiamo alla scarsità - e all'oscuramento - delle forze che lo hanno promosso. Ma adesso, per raccoglierne i frutti, bisogna mettersi in grado di "governare dal basso", con la forza dell'iniziativa, dei saperi diffusi e della solidarietà, i "beni comuni" che i Sì hanno sottratto all'obbligo della privatizzazione: non solo il servizio idrico integrato, ma tutti i servizi pubblici locali disciplinati dall'art. 23 bis ora abrogato: trasporto e mobilità urbana, gestione dei rifiuti, distribuzione e generazione di energia, mercato ortofrutticolo, mense e molte altre cose ancora. Per farlo bisogna attrezzarsi; e non è una cosa facile. Ma è solo in una crescita di una cittadinanza attiva impegnata nella costruzione di queste nuove forme di gestione, né privata né "pubblica" - nel senso di statale - che si possono formare e costituire un nuovo orientamento culturale, nuovi saperi tecnici e gestionali, e una nuova "classe dirigente" in grado di esautorare e sostituire quella inetta e corrotta - politica e imprenditoriale - da cui siamo governati. Gli embrioni di questo ricambio già ci sono, si tratta di riconoscerli, rafforzarli, farli crescere: domani potranno attrarre e inglobare anche le componenti meno compromesse di chi è oggi alle leve di comando.

(guidoviale.blogspot.com)

La crisi che il paese sta attraversando è davvero grave, sotto ogni profilo, nel quadro della crisi che investe la Ue. Rilanciare la crescita è una strada necessaria ma ardua da trovare e da percorrere. Che in tale situazione il presidente Silvio Berlusconi si permetta prima battute quali l´invito a investire nelle sue aziende «che continuano a fare utili», poi assicuri che la situazione non può peggiorare, e spiattelli sul momento un piano anti-crisi in otto punti, vuoto di qualsiasi sostanza, offende l´intelligenza di tutti i cittadini italiani. Come uno può pensare sul serio di rilanciare la crescita mediante un ampliamento della libertà economica da inscrivere nella Costituzione, quasi che tale libertà non esistesse quando negli anni 60 il paese cresceva al tasso del 5-6 per cento l'anno? O di modernizzare il mercato del lavoro, quando alcuni milioni di lavoratori giovani e meno giovani hanno già sperimentato di persona che cosa ciò significa nell'età berlusconiana, se non precarietà, retribuzioni stagnanti da quindici anni, sindacati in difficoltà, diritti dei lavoratori in declino?

Quando non siano battute offensive oppure trovate inimmaginabili, come modificare la Costituzione per rilanciare subito la crescita, gli otto punti del piano anti-crisi indicati dal presidente del Consiglio sembrano ripresi tal quali dalle vecchie ricette del Fondo monetario internazionale. Bisogna ridurre a ogni costo la spesa pubblica. Avviare un grande piano di privatizzazioni dei servizi pubblici. Modernizzare il sistema di welfare e le relazioni sindacali (cioè tagliare le prestazioni del primo e ridurre al minimo il potere dei sindacati). Sono ricette di destra, che la crisi iniziata nel 2007 ha contraddetto in ogni possibile modo, ma che il governo italiano e la maggior parte dei governi Ue, combinando ottusità, incompetenza e un tot di malafede, hanno ora ripreso come rimedi alla crisi, trasmessa dalle banche ai bilanci pubblici.

Prima di indicare perché dette ricette sono suicide, sotto il profilo economico, politico e sociale, non si può far a meno di notare, con qualche preoccupazione, che le proposte avanzate dalle parti sociali contengono ricette del tutto analoghe. Il loro «drastico programma per rilanciare la crescita» chiede a sua volta di tagliare la spesa pubblica, lanciare un piano di privatizzazioni, modernizzare (rieccolo, il più minaccioso dei termini quando si parla di riforme) le relazioni sindacali e il mercato del lavoro. Che un tale piano sia stato redatto e sottoscritto da Confindustria è comprensibile. Che sia stato sottoscritto anche dalle confederazioni sindacali, tra cui nientemeno che la Cgil (anche se la segretaria Susanna Camusso ha detto di non essere del tutto d´accordo in tema di privatizzazioni), sta forse a indicare che la situazione è percepita di tale gravità da costringere tutti a non badare più all´identità del vicino nella scialuppa di salvataggio. Ma forse anche - e questo vale per tutta la Ue - che «gli dei fanno uscire di testa coloro che vogliono condurre a perdizione».

Sia nel piano anti-crisi buttato lì dal presidente Berlusconi, sia nelle proposte delle parti sociali a lui presentate per rilanciare la ripresa, si avverte nel fondo un´idea scriteriata: che la spesa pubblica sia una passività che bisogna assolutamente ridurre allo scopo di far crescere l´economia. È un´idea che le due parti paiono condividere con la destra repubblicana in Usa, quella che ha appena voluto tagliare l´assistenza ai poveri ma non le tasse ai super-ricchi, perché così, osa sostenere, si crea occupazione. Che l´idea non stia in piedi lo dice perfino l´Onu, in un recente rapporto sulla situazione economica mondiale: «Molti governi, in specie nei paesi sviluppati, stanno orientandosi verso l´austerità di bilancio. Ciò inciderà negativamente sulla crescita economica globale durante il 2011 e il 2012».

Ma nei due documenti in parola, oltre alle idee sballate, spiccano quelle che mancano. Non c´è in essi, ad esempio, una parola sul fatto che l´Italia non cresce perché i suoi investimenti in ricerca e sviluppo sono al fondo delle classifiche Ocse. E qui le imprese non possono puntare il dito contro lo stato, perché se è vero che questo ha contribuito alla povertà della R&S, sono esse che hanno chiuso o malamente ridimensionato i grandi centri di ricerca che l´industria italiana vantava negli anni 60 e 70, nel settore della chimica, della metallurgia, delle telcomunicazioni. Per tacere infine di un´assenza macroscopica, nei due documenti, del problema alla base della bassa crescita: la redistribuzione del reddito dal basso verso l´alto avvenuta negli ultimi decenni. Almeno 8-10 punti di Pil sono migrati in Italia (ma anche in altri paesi Ue) dai salari ai profitti e alle rendite. Se non si interviene su questo snodo fondamentale, cominciando almeno con il discuterne, di ripresa se ne riparlerà nel 22mo secolo.

E’ incredibile. Provate ad inserire su Google news le parole “rivoluzione islanda”. Il risultato della ricerca è che molti blog ne parlano oltre ad alcune testate di informazione online alternative ai broadcaster, mentre risultano “non pervenute” le testate dell’establishment, se così si può dire.

Ora, se non ci fosse Internet, se non avessi letto un link postato da un mio amico ieri su Facebook, io oggi non saprei che in Islanda si è svolta una vera e propria rivoluzione che partiva da una situazione analoga a quella attuale italiana e di molti altri Paesi in uno stato di crisi politica, economica e finanziaria e che si è risolta con una serie di passaggi, come dire, da “manuale del buon senso civico”. La sintetizzo qui di seguito, sperando di essere fra le poche persone nell’ignoranza in cui sarei rimasta se non avessi letto l’articolo pubblicato su Informare per resistere e altri blog d’informazione che sono andata a cercare attraverso Google.

In Islanda, a seguito di una disastrosa crisi finanziaria, i cittadini sono riusciti a far dapprima dimettere il governo in carica al completo, mentre le principali banche responsabili venivano nazionalizzate, si sono rifiutati di pagare i debiti che queste avevano contratto con la Gran Bretagna e l’Olanda a causa della loro ignobile politica finanziaria (con tanto di arresti dei principali finanzieri e top manager responsabili della bancarotta del Paese) e in conclusione sono passati alla creazione di un’assemblea popolare per riscrivere la propria Costituzione. Tutto questo è accaduto attraverso una vera e propria rivoluzione, senza spargimenti di sangue, con le proteste e le urla in piazza, una rivoluzione contro il potere politico-finanziario neoliberista che aveva condotto il Paese nella grave crisi finanziaria.

L’altro strumento “rivoluzionario” sul quale ora sta lavorando la società islandese è l’”Icelandic Modern Media Initiative”, un progetto finalizzato alla costruzione di una cornice legale per la protezione della libertà di informazione e dell’espressione con l’obiettivo di creare un ambiente sicuro per il giornalismo investigativo, un “paradiso legale” per le fonti, i giornalisti e gli internet provider che divulgano informazioni giornalistiche.

Concludo dicendo che, come a tutte le persone normali, certamente mi interessano le notizie di cronaca, come ad esempio quelle relative all’omicidio passionale di Ascoli Piceno o il delitto di Avetrana, a patto che non se ne parli tutte le sere per cinque minuti di telegiornale, o quelle politiche relative al missile libico contro la nave italiana, e mi può stare anche bene leggere che Berlusconi sostenga che il Paese è solido, anche se nutro molti dubbi e forti preoccupazioni in merito. Ma subire l’ennesima censura informativa, come quella di cui mi sono resa conto ieri, quando poi mi tocca sentire o leggere servizi giornalistici che mettono sull’avviso le persone sulla pericolosità di Internet, no, non lo posso più accettare.

Vivo in una Paese che si proclama libero, che amo, anche se ogni tanto mi verrebbe voglia di scappare all’estero, e voglio continuare a pensare che l’Italia sia una nazione democratica, dove vige il principio della libera informazione. Quindi pretendo di conoscere notizie sull’Islanda, come credo tutti, anzitutto attraverso i mezzi di informazione tradizionali, molti di questi tra l’altro sovvenzionati dallo Stato, che rivendicano la loro autorevolezza, la neutralità e la libertà dalle ingerenze politiche, e che però, chissà perché, spesso accusano di poca professionalità e credibilità il giornalismo che nasce dal basso, dalla rete. Quel giornalismo per cui oggi io sono più consapevole di ieri ma anche decisamente più indignata.

Viene da dire che siamo proprio messi male. Silvio Berlusconi, che sciocco non è, ha fatto un discorso di ordinaria amministrazione. Come ha detto, già nel corso della trasmissione, Guido Gentili del Sole 24 ore, è un discorso che avrebbe potuto fare tre mesi fa. Talvolta far finta di niente - come ha fatto Berlusconi - è un modo accorto di fronteggiare problemi che non si è in grado di risolvere. Nessuna proposta, nessuna iniziativa nel discorso del Cavaliere, quasi un tutto va bene madama la marchesa. In ogni modo io resto dove sono.

Francamente deludente in questa situazione di crisi italiana e mondiale la replica del Partito democratico, per bocca di Bersani. Critiche, denunce, ma zero proposte. Nulla su cosa il maggiore partito di opposizione propone in alternativa allo scorrere dei fatti, alla resistenza di Berlusconi, ai rischi del disastro per l'economia (e non solo) del nostro paese. Berlusconi è messo assai male e l'elusività del suo discorso lo conferma, ma rebus sic stantibus continuerà a occupare Palazzo Chigi. E addirittura si permette attraverso la voce del neosegretario del suo partito Angelino Alfano di accusare l'opposizione di essere partito dei mercati e non dei cittadini.

«Da tutto ciò che accade - scriveva Alfredo Reichlin sull'Unità di ieri - emerge l'estrema debolezza della politica». E - sempre Reichlin - si domanda se «è abbastanza chiara la nostra diversità politica». Domanda non da poco.

Il discorso di Berlusconi è stato assolutamente elusivo, ma egualmente elusiva è stata la replica di Bersani. Non basta accusare Berlusconi dei fallimenti che sono sotto gli occhi di tutti, se non si ha l'intelligenza e la forza di proporre un'alternativa che non sia solo la richiesta di elezioni anticipate. Il Pd deve (dovrebbe) avere la forza e l'intelligenza di proporre un'alternativa di governo. Gli esiti dei referendum e delle recenti elezioni amministrative dovrebbero incoraggiarlo. C'è una società che di Berlusconi ha cominciato a stancarsi, ma a questa società bisogna offrire serie proposte per uscire dalla crisi e dai fallimenti bancari, per combattere l'attuale decrescita e la crescita dei disoccupati.

Dire che Berlusconi è cattivo, se non si propone nulla di buono, serve solo a far continuare, e sempre in peggio, la crisi del paese. Insomma, c'è una seria crisi della politica e, aggiungerei, della sinistra. Ma Berlusconi - lo conferma il suo discorso di ieri - è proprio messo male, solo che il suo star male mette al peggio l'Italia e questo, paradossalmente, lo rafforza.

Adesso ci si mette anche il Governo italiano. Come se, in piena crisi economica, i parlamentari non avessero altro da fare che dare via libera a una proposta di legge che vieta nei luoghi pubblici burqa e niqab. Come se l´esempio della Francia e del Belgio dovesse in questo caso essere necessariamente seguito, laddove in altre circostanze ci si inalbera non appena qualcuno osi fare un paragone tra quello che succede in casa propria e quello che invece accade all´estero…

Certo, la giustificazione della legge è intrisa di buoni propositi. Si parla della liberazione delle donne segregate e senza diritti. Si invoca l´umiliazione di tutte coloro che non possono riappropriarsi del proprio destino. Ci si scaglia contro questa forma di "aberrante imposizione". Burqa e niqab sarebbero un mezzo di oppressione per le donne, un modo per metterle al margine della società rendendole anonime e trasparenti. Si può tuttavia veramente vietare l´utilizzo per strada del velo integrale, punendo coloro che lo portano? Non è sempre pericoloso quando, nel nome della libertà, si decide di legiferare sul modo in cui ci si possa o debba vestire in pubblico?

Molte donne musulmane sono ostili al velo integrale e mettono chiaramente in rilievo come il Corano non lo preveda: il fatto stesso di indossarlo significherebbe accettare la possibilità di restare fuori dalla società. Tante altre però, come hanno spiegato alcune francesi davanti alla Commissione parlamentare (la Commission Gérin), sostengono che portare un niqab è oggi un modo per proteggersi dallo sguardo maschile, una maniera per esprimere la fierezza di essere musulmane in un mondo occidentale considerato decadente e corrotto. Nascondendo ciò che copre, il velo, per definizione, riesce contemporaneamente a mostrare e a distogliere lo sguardo. Da questo punto di vista, è in genere utilizzato per proteggersi dalla vista degli altri, per sottrarsi alla logica della vergogna. Per mostrarsi e farsi vedere, bisogna volerlo: permettere allo sguardo altrui di posarsi su di noi senza ferirci. Il velo può allora essere un riparo per colei che lo porta, a patto, però, di non chiudersi mai completamente. Se serve a proteggere il mistero del corpo, deve anche lasciar intravedere qualcosa - gli occhi, una caviglia, una ciocca di capelli. Il rischio, altrimenti, è quello di diventare un "sudario". A seconda del contesto, del luogo e dell´identità di colei che lo porta, indossare un velo può essere un gesto religioso come un atto di conformità a un costume; può essere il frutto della sottomissione a minacce o intimidazioni, oppure un atto provocatorio e di sfida identitaria. Se alcuni veli sono in grado di dar forma al corpo femminile, il velo integrale, però, non lascia intravedere proprio nulla. E trasforma il corpo della donna in una "macchia cieca". Al punto da rendere incomprensibile il fatto che alcune donne accettino di portarlo. Si può tuttavia anche solo immaginare di risolvere un problema di questo genere a colpi di legge, soprattutto quando si sa che di donne col niqab ce ne sono veramente poche? Non è del tutto assurdo pretendere di liberare qualcuno attraverso un divieto? Non sarebbe meglio ascoltare ciò che dicono le donne velate - invece di affermare perentoriamente che non sono mai libere - e offrire loro degli strumenti critici per valutare meglio il peso e le conseguenze delle proprie scelte?

La strada per l´emancipazione è lunga e difficile. Non si può sottovalutare l´impatto della ghettizzazione sociale in cui vivono molte donne. È per questo che si dovrebbe fare attenzione a non passare troppo velocemente dalla logica della "repressione" a quella della "gentile indifferenza". Come se portare un velo integrale fosse sempre il risultato di una decisione libera e matura. Talvolta è una scelta. Altre volte, come è stato mostrato da recenti casi giudiziari in Francia, è il frutto di un´imposizione. La realtà è sempre piena di sfumature e si dovrebbe evitare non solo di strumentalizzare i valori delle lotte femministe, ma anche di banalizzare le difficoltà dell´integrazione.

In un´epoca come la nostra, in cui la questione della laicità va di pari passo con l´aumento non solo degli integralismi religiosi, ma anche dell´intolleranza e del razzismo, forse bisognerebbe interrogarsi di nuovo sul significato dell´espressione "integrazione" e cercare di capire come il rispetto delle differenze non implichi necessariamente una rinuncia ai valori in cui si crede, come l´uguaglianza, la libertà e la pari dignità. Ogni Paese ha certamente un proprio patrimonio culturale specifico, che va di pari passo con la storia della propria unità, con le contraddizioni e le difficoltà che si sono di volta in volta incontrate per imparare a vivere insieme. Ma erigere barriere o promulgare leggi che, nel nome della libertà e della dignità, interferiscono con le scelte dei singoli individui non serve a pacificare una società. Questo tipo di strategie non fa altro che spingere alla radicalità. Invece di contribuire a organizzare le condizioni reali che possono permettere alla libertà femminile di non restare solo un valore astratto.

L’ultimo numero del settimanale del Sole 24 Ore dedicato al territorio (n.29 del 30 luglio) denuncia il fallimento dell’ulteriore allentamento delle regole portato avanti dal governo Berlusconi. I numeri confermano che aver reso pressoché automatico i permessi di costruzione senza controllo da parte delle amministrazioni pubbliche, non ha fatto aumentare per nulla il numero delle iniziative edilizie in tutte le regioni. Segno evidente che il mercato è saturo e necessiterebbe di ragionamenti e politiche di ampio respiro.

La giunta regionale del Lazio guidata da Renata Polverini non è tra i lettori dell’autorevole rivista e guidata dal cieco furore contro le funzioni pubbliche, ha approvato il peggior piano casa tra le regioni italiane. Non c’è infatti il minimo disegno strategico nel distribuire a piene mani la rendita parassitaria fondiaria. Sono soltanto due i risultati ottenuti: il primo è quello di aver cancellato forse per sempre l’urbanistica dal panorama legislativo: dall’urbanistica al piano casa, come sostiene Italo Insolera. Il secondo è quello di aver colpito duramente le poche forme di controllo pubblico su quanto avviene nelle città che diventeranno così più invivibili.

Nelle zone a bassa densità, le uniche spesso che conservano un po’ di qualità, chi avrà le possibilità potrà aumentare altezza e volumetrie del proprio edificio. Gli altri, i vicini che non hanno le stesse possibilità economiche vedranno sparire spazi verdi, alberi, panorami. Avranno più traffico automobilistico e ne riceveranno un danno economico. I selvaggi che scrivono le leggi regionali saranno soddisfatti.

Gli effetti su quanto resta del tessuto industriale regionale saranno devastanti. E’ previsto infatti l’aumento delle cubature dei capannoni industriali e la possibilità di riconvertirli in abitazioni. Al difficile percorso dell’innovazione tecnologica, alla ricerca di nuovi prodotti e nuovi mercati, al rischio d’impresa viene contrapposta una gigantesca autostrada per dismettere tutto, lucrare rendita e portare i soldi nei paradisi fiscali. Ci penserà Tremonti o chi per lui a farli tornare con generosissime aliquote.

C’è poi l’aspetto più grave -forse quello per cui si sono battuti con maggior determinazione i pasdaran della Regione-: aggredire le aree vincolate, cancellare i vincoli paesaggistici, minare la stessa sopravvivenza dei pochi e asfittici parchi regionali. Con la nuova legge si possono aumentare le cubature anche nelle zone sottoposte a vincolo di legge, costruendo addirittura decine di nuovi porti; si possono agevolmente superare i vincoli dei piani paesaggistici che infatti non si approveranno mai; si può costruire anche nelle aree pregiate dei parchi regionali.

E infine, la ciliegina che ha fatto inorridire perfino l’ex presidente della regione Veneto Galan, che pure dovrebbe avere uno stomaco di ferro per aver digerito l’alluvione di capannoni che funesta la regione che ha governato per tanti anni. Galan ha tuonato contro l’ennesimo condono edilizio mascherato presente nella legge. Ecco dunque il piano casa peggiore d’Italia: un miscuglio di incultura, deroghe e condoni.

Il Partito democratico si è distinto per un emendamento vergognoso, a ulteriore conferma che dalla cultura del mattone e della speculazione non si sposta ed è identico alla destra liberista. Ma una novità si coglie nell’atteggiamento della sinistra. I verdi di Angelo Bonelli e Sel hanno svolto con coerenza il proprio ruolo di disegnare un’alternativa. Di una nuova cultura che ambisce a diventare maggioritaria basata su un concetto semplice: città e territori sono beni comuni.

La storia di successo dell'ingegner Del Vecchio e Luxottica, l'idea di giustizia e la crisi italiana. Ovvero perché tassare i patrimoni e le successioni (e meno i redditi) è giusto, efficiente e necessario

Secondo la rivista americana Forbes (2011), Leonardo Del Vecchio è il secondo uomo più ricco d'Italia, dopo Michele Ferrero, con un patrimonio netto di 11 miliardi di dollari e 71º nella classifica mondiale. A differenza di quest'ultimo, l'intera ricchezza accumulata è esclusivamente riferibile al suo operato non avendo ereditato alcuna attività di qualche valore. Il patrimonio è ascrivibile in primo luogo al possesso della società di diritto lussemburghese Delfin S.à.r.l. che controlla il 68,5% di Luxottica Group Spa, multinazionale attiva nella produzione di occhiali e quotata sulla Borsa di Milano e detiene, tra le altre, partecipazioni in Unicredit e Assicurazioni Generali. Secondo la stessa rivista, la retribuzione percepita nel 2009 come Presidente di Luxottica assomma a "soli" 1,2 milioni di euro.

L'ingegner Del Vecchio è arrivato al centro degli equilibri del potere economico e finanziario italiano e gode di buona reputazione; è stato oggetto di cronaca non favorevole soltanto in occasione di alcune contestazioni da parte dell'amministrazione finanziaria dello stato per irregolarità fiscali. Anche per tale ragione, la sua vita è emblematica di molti aspetti del capitalismo contemporaneo, non solo italiano.

Dalla biografia riportata in Wikipedia si legge che, orfano, trascorse i primi anni di vita nel collegio dei Martinitt a Milano e iniziò presto a lavorare come apprendista incisore in una fabbrica di stampi per ricambi automobilistici e montature per occhiali. Nel 1958, a 23 anni, si mette in proprio aprendo una bottega di occhiali in provincia di Belluno; dopo alcuni anni fonda la società Luxottica. A partire dal 1995 gli vengono conferiti numerosi titoli accademici honoris causa, tra i quali, nel 2006, la laurea in Ingegneria dei materiali dal Politecnico di Milano.

Nei suoi 60 anni di lavoro, che includono i primi come apprendista incisore, ha accumulato in media ogni giorno, oltre 500.000 euro. I dati relativi alle imposte versate al fisco nello stesso periodo come persona fisica non sono noti, ma è ragionevole ipotizzare che, se si esclude una transazione di 300 milioni di euro effettuata nel 2009 con l'erario per sanare operazioni di esterovestizione di redditi provenienti da attività italiane, l'aliquota media sia del tutto marginale (probabilmente il totale delle tasse pagate in 60 anni è inferiore a 80 milioni di euro, pari all'1% della ricchezza accumulata).

Il risparmio medio giornaliero dell'ing. Del Vecchio è pari al reddito da lavoro di 25 anni di molti dipendenti italiani. Il confronto non è tra grandezze omogenee, perché in un caso si parla di accumulo di ricchezza, cioè al netto delle spese di mantenimento (non irrisorie atteso che Del Vecchio è proprietario, tra l'altro, di uno yacht di 62 metri), nell'altro di reddito prodotto per il sostentamento del dipendente e della sua famiglia. L'aliquota minima d'imposta sul reddito delle persone fisiche è pari al 23% ed è più elevata per i percettori di un reddito annuo di 25.000 euro.

Il confronto sollecita una serie di domande, morali ed economiche che vanno oltre il caso dell'ing. Del Vecchio, le cui qualità imprenditoriali sono fuori discussione; esso è qui riportato esclusivamente come esemplificazione estrema della distribuzione della ricchezza presente nel nostro Paese.

1. È eticamente accettabile un sistema economico e sociale come l'attuale che consente enormi disparità nel livello di ricchezza dei propri cittadini? La questione che va affrontata è se nel sistema capitalistico la scala di ordinamento delle persone in base ai meriti riconosciuti dal mercato risponda a requisiti di valutazione oggettivi ed equi, intendendosi con quest'ultimo attributo la sintesi di valori socialmente condivisi (ad esempio competenza, onestà, professionalità, correttezza, impegno).

2. È eticamente accettabile un sistema fiscale che consente, a fronte di un enorme accumulo di ricchezza, di versarne all'erario soltanto una quota molto ridotta? Per la maggior parte delle persone ricche, l'accumulo patrimoniale proviene da attività imprenditoriali e si manifesta soltanto in minima parte sotto forma di reddito, che costituisce la base imponibile su cui si calcolano le imposte dirette nel nostro Paese; viceversa il reddito è l'unica o la principale fonte di ricchezza per la maggior parte dei lavoratori. Tale disparità di trattamento rende il sistema fiscale fortemente regressivo all'aumento della capacità contributiva, tra l'altro in contrasto con il dettato della Costituzione repubblicana.

3. È eticamente accettabile un sistema fiscale che non prevede tasse sulla successione ereditaria? Anche accettando l'ordinamento dei redditi dato dal mercato, non si capisce perché la scelta dei propri genitori possa costituire un fattore premiante, talvolta gigantesco. Quando l'asse ereditario dell'ing. Del Vecchio sarà suddiviso fra i suoi sette figli, ciascuno di essi entrerà in possesso di oltre un miliardo di euro, pari al reddito di 50.000 anni di lavoro di un lavoratore dipendente di medio livello.

4. È economicamente razionale favorire una distribuzione del reddito fortemente concentrata? È statisticamente assodato che la propensione al consumo delle persone diminuisce al crescere della ricchezza e in situazioni di non pieno utilizzo dei fattori produttivi, un aumenti dei consumi può favorire la crescita. Si tratta di una ben nota teoria economica, di tratto keynesiano (cioè del principale economista del secolo scorso) per cui nelle fasi di crisi, le politiche redistributive del reddito e della ricchezza favoriscono la ripresa produttiva.

5. È economicamente razionale accrescere l'indebitamento dello stato per consentire alla fascia di popolazione più benestante di essere sostanzialmente esente dal finanziamento della spesa pubblica? Il debito pubblico italiano ha raggiunto il 120% del Pil, la quota più elevata dei paesi europei, ad eccezione della Grecia, e nelle ultime settimane lo stato paga un premio al rischio sui propri titoli superiore di circa 3 punti percentuali a quello degli analoghi titoli tedeschi, con una maggiore spesa per interessi dell'ordine di 50 miliardi di euro. Tale situazione finanziaria costringe lo stato a tagliare le spese relative ai servizi pubblici, impoverendo l'intera collettività nazionale.

Le risposte ai suddetti quesiti segnalano l'importanza di introdurre un'imposta diretta annuale sul patrimonio e sulle successioni che in prospettiva vada a sostituire una parte consistente del gettito proveniente dall'imposta sul reddito.

Secondo l'ultima indagine sulla ricchezza del nostro Paese pubblicata dalla Banca d'Italia nel dicembre del 2010, la ricchezza netta media delle famiglie italiane è pari a circa 350.000 euro (140.000 euro quella pro capite) e «la distribuzione della ricchezza è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione»: il 10% delle famiglie più ricche detiene il 45% della ricchezza complessiva mentre la metà più povera detiene solo il 10% della ricchezza totale. In valore assoluto ciò significa che in media circa 2,5 milioni di famiglie hanno un patrimonio dell'ordine di 1,5 milioni, 10 milioni di nuclei dispongono di una ricchezza lievemente superiore a quella media italiana, mentre è molto bassa la ricchezza di metà della popolazione.

A partire da questi dati si può ipotizzare l'introduzione di un'imposta patrimoniale annuale che colpisca in modo progressivo la ricchezza superiore a una determinata soglia. Ipotizzando un valore di 500.000 euro, la base imponibile complessiva sarebbe dell'ordine di 3.000 miliardi di euro.

Un sistema a quattro aliquote potrebbe avere la seguente struttura: 5 per mille per la quota compresa tra 500.000 e 1 milione di euro; 10 per mille per la quota compresa tra 1 e 3 milioni di euro; 15 per mille per la quota compresa tra 3 e 10 milioni di euro; 20 per mille per la quota eccedente.

Tale sistema porterebbe ad un maggior gettito per l'erario dell'ordine di 40 miliardi di euro l'anno. Ove si consentisse di dedurre dall'imposta sul reddito la patrimoniale versata all'erario, il gettito netto sarebbe inferiore. Si tratta di sacrifici complessivamente limitati per la parte più benestante della popolazione: ad esempio la patrimoniale per una famiglia con una ricchezza netta di 1 milione di euro sarebbe pari ad appena 2.500 euro

L'imposta sulle successioni potrebbe seguire la medesima scala con aliquote molto più elevate.

L'introduzione di queste misure - e un insieme di altre operazioni sul bilancio pubblico - porterebbe al risanamento finanziario, a una riduzione consistente della spesa per interessi e renderebbe possibile una significativa riduzione dell'imposizione sul reddito, che ha raggiunto livelli eccessivi per il ceto medio produttivo che paga le tasse.

Sono trascorsi trentuno anni dalla strage di Bologna. Per ricordare le vittime è stato inaugurato ieri, nel parco di Villa Toschi, un monumento dedicato ai sette bambini morti nell´attentato, il più grave della storia repubblicana: Angela Fresu (3 anni), Luca Mauri (6), Sonia Burri (7), Manuela Gallon (11), Kai Mader (8), Eckhardt Mader (14) e Cesare Francesco Diomede Fresa (14). Tante storie piccole e anonime polverizzate da una mano assassina; un insieme di traiettorie possibili divenute all´improvviso un futuro negato. Non per una tragica fatalità, come sarebbe più comodo pensare, ma perché in Italia nel 1980 c´era chi faceva politica mettendo le bombe allo scopo di uccidere dei cittadini inermi. La stazione di Bologna è uno snodo ferroviario tra i più importanti in Italia e tanti viaggiatori in questi anni hanno sostato, almeno una volta, davanti a uno squarcio nel muro, una ferita di marmo, che ricorda il luogo in cui fu lasciata la bomba. Una lapide riporta l´elenco degli 85 morti e il nome di Angela Fresu, la più piccola delle vittime, con accanto gli anni scolpiti a una sola cifra, si distingue dagli altri, obbligando inevitabilmente il passeggero frettoloso a interrogarsi sul senso del nostro viaggio, come un´ombra che passa improvvisa tra un treno e l´altro.

Per l´attentato sono stati condannati i tre terroristi neofascisti Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, che continuano a professarsi innocenti. Se i mandanti restano ancora oscuri, sono stati però individuati i responsabili di alcuni depistaggi: il piduista Licio Gelli, il faccendiere Francesco Pazienza e i membri dei servizi segreti Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. Per questa ragione l´attentato di Bologna costituisce un´anomalia nella storia dello stragismo italiano: l´unico caso in cui la magistratura è riuscita a stabilire una verità giudiziaria non limitata alla manovalanza. L´azione di depistaggio aveva l´obiettivo di accreditare una pista internazionale che distogliesse gli inquirenti dalla realtà italiana e di affermare l´idea presso la pubblica opinione che quella sentenza fosse il prodotto di una cospirazione delle cosiddette «Toghe rosse».

Continuare a ricordare la strage di Bologna non significa solo omaggiare quelle vittime innocenti, ma anche non dimenticare tali azioni di depistaggio ordite da quanti hanno avvelenato la fragile democrazia italiana per favorire una stabilizzazione conservatrice del quadro politico. Per questo motivo è molto grave che, per il secondo anno consecutivo, alla cerimonia non parteciperà alcun ministro della Repubblica. Il governo non c´è per indifferenza civile e per imbarazzo politico: il 2 agosto è una giornata dedicata al ricordo, ma questo governo preferisce l´oblio. Si tratta di uno sgradevole atto di insensibilità istituzionale che, secondo il presidente della Associazione familiari Paolo Bolognesi, avrebbe un significato ritorsivo: i ministri eviterebbero la cerimonia non per paura dei fischi, che dovrebbero comunque avere il coraggio e la dignità di affrontare nel caso ci fossero, o, come hanno sostenuto, per evitare strumentalizzazioni politiche, ma perché «i familiari delle vittime hanno parlato molto di mandanti e di P2», la loggia segreta coinvolta nei depistaggi alla quale anche il presidente del Consiglio era iscritto.

Oggi Angela Fresu avrebbe 34 anni, sarebbe potuta essere mille cose e invece non ha fatto in tempo a diventare nulla se non un´innocenza caduta in una voragine mostruosa. Non è morta per il valore delle sue idee e per i propri atti responsabili e dunque non ha neppure l´esile privilegio di questa consolazione. Ci ricorda, però, le infinite possibilità contenute in ogni vita, la speranza che le è stata negata. Di sua madre Maria non è rimasto nulla, il corpo incenerito dalla bomba: nulla se non una poesia di Andrea Zanzotto che ancora aiuta a non dimenticare quel corpo e lo trasforma nel simbolo di un´altra Italia che lotta contro la smemoratezza e l´inciviltà: «E il nome di Maria Fresu/ continua a scoppiare/ all´ora dei pranzi/in ogni casseruola/ in ogni pentola/in ogni boccone/ in ogni/rutto – scoppiato e disseminato –/in milioni di/dimenticanze, di comi, bburp». (vedi qui)

Sono la Nuova Romea, l'autostrada Cispadana, il collegamento autostradale Campogalliano-Sassuolo, il Ti-Bre, il famigerato Passante Nord e il bolognese People Mover. Opere superflue, se non inutili. Frattini, presidente regionale Legambiente: "ancora il solito, troppo trasporto su gomma e il pochissimo su rotaia"

Ogni giorno in Emilia Romagna vengono mangiati da cemento e asfalto 8 ettari di terreno. Dal 1975 a oggi il conto è di oltre 100 mila ettari, circa il 5% del territorio regionale. Ma non solo. Questa sarebbe anche una delle regioni più inquinate d’Europa e a più alta densità di strade che la attraversano. È Legambiente a lanciare l’allarme con un dossier sulla colata di asfalto e cemento che si potrebbe abbattere lungo la via Emilia nei prossimi anni: “Si punta ancora molto sulle opere per l’automobile e poco su quelle ferroviarie”, spiega Lorenzo Frattini, presidente regionale di Legambiente.

Le strade contestate in Emilia Romagna. Sono 6 le mega-opere che preoccupano gli ambientalisti. Opere secondo loro superflue, se non inutili. La prima è l’autostrada Orte-Mestre, anche chiamata Nuova Romea, i cui lavori per 10 miliardi di euro dovrebbero partire nel giro di qualche anno. L’opera, nel tratto che va dal Po a Ravenna, potrebbe avere un impatto ambientale su zone come il parco del delta del Po, le valli di Comacchio e quelle dell’Appennino centrale. Legambiente propone un’alternativa: sistemare la “vecchia” Romea, una delle strade più pericolose d’Italia, e metterla in sicurezza assieme alla E 45, che da Cesena porta a Terni.

Poi c’è l’autostrada cispadana, la prima regionale d’Italia, che la giunta Errani ha messo nel piano per unire le province di Reggio e Ferrara tagliando la pianura al di sotto del Po. L’opera, secondo Legambiente, danneggerebbe un territorio già martoriato da strade e dall’inquinamento.

A preoccupare gli ambientalisti c’è poi il collegamento autostradale Campogalliano-Sassuolo, che, “vista la presenza di una strada a scorrimento veloce molto vicino farebbe risparmiare appena dieci minuti senza aiutare il distretto della ceramica”.

Poi c’è il cosiddetto Ti-Bre, 85 chilometri tra la Parma-La Spezia e la A22 del Brennero. L’opera, sostiene Legambiente, che rischia di rimanere a metà, visto che per ora i fondi si sono trovati solo per un primo lotto. Per quanto riguarda il terzo ponte sul Po a Piacenza, l’idea viene considerata superabile togliendo per esempio il pedaggio tra i caselli di Castelvetro e Cremona e spostando in quel tratto il traffico dei tir.

Infine Legambiente si scaglia contro l’idea del Passante Nord, un’opera da 2 mila milioni di euro che dovrebbe decongestionare il bolognese. Si tratta di 40 chilometri che da Ozzano a Anzola circonderebbero a semi-anello la città, impattando – sostengono gli ambientalisti – sulla pianura. Molti comuni, come Castel Maggiore, Granarolo e Castenaso rischierebbero di trovarsi circondati tra l’attuale nodo autostradale e il futuro anello del passante.

E sulle opere i tentativi sono stati “rabberciati e incoerenti”. Presentando il suo dossier l’associazione ecologista ha sottolineato la scarsa lungimiranza delle ultime amministrazioni. “Ci sono stati in questi 15 anni tentativi rabberciati e incoerenti”, spiega Claudio Dellucca, responsabile bolognese di Legambiente. Dellucca elenca i casi dei fallimenti della metropolitana, mai partita, del Civis, il tram su gomma i cui lavori vanno avanti da anni, ma che forse non funzionerà mai.

Dellucca fa infine appello al Comune perché fermi il People Mover, la navetta che dovrebbe collegare in 7 minuti e mezzo la stazione ferroviaria all’aeroporto Marconi. Il People mover è da qualche giorno sotto la lente di Palazzo d’Accursio che dovrà valutarlo e dargli il definitivo via libera. “È un’opera che può essere sostituita potenziando le linee ferroviarie con una stazione in via Bencivenni da raggiungere con una navetta o un tapis roulant”, spiega Dellucca.

Oltre Bologna, gli interventi contestati in Regione. Ma non ci sarebbe solo Bologna tra le città con una scarsa visione d’insieme del sistema dei trasporti. Il caso della metropolitana di Parma è per gli ambientalisti l’esempio di una mega-opera sovradimensionata per una città che necessitava di interventi più ridotti e meno rischiosi finanziariamente.

Infine l’ultimo affondo nei confronti di viale Aldo Moro, accusata di essere tentennante: “Nonostante nello stesso rapporto per il Piano dei trasporti regionale si leggano osservazioni critiche sull’eccessivo investimento per il trasporto su gomma, la Regione ha comunque deciso confermare le mega-opere stradali”, spiega Kim Bishop di Legambiente. “Nel vecchio piano regionale gli investimenti su strade e ferrovie sono uguali, al 50% per ognuno”, cioè pochi per gli ambientalisti. “Ma tra i finanziamenti al trasporto su ferro il 70% sarà dedicato all’alta velocità, mettendo ancora una volta all’angolo i pendolari”.

Immaginate di vivere in un Paese scandinavo. Uno di quelli dove l’amministrazione della cosa pubblica funziona, dove non si hanno notizie di scandali politici di un qualche peso. E pensate che una legge come quella approvata in Parlamento un paio di settimane fa, a seguito della manovra economica, fosse stata fatta, ad esempio, in Danimarca o in Finlandia. La nuova norma dice che le amministrazioni pubbliche potranno affidare, senza obbligo di gara, appalti che non eccedano la cifra di un milione di euro. Vale a dire che se una amministrazione pubblica (scandinava) dovesse ristrutturare una scuola, costruire una piccola strada, asfaltare una piazza e la spesa stimata fosse sotto il milione di euro, potrà chiamare direttamente la ditta (scandinava) e affidarle l’appalto.

Ecco, adesso spostiamoci nel nostro Paese. E immaginiamo che questa legge, parte della manovra economica approvata in fretta e furia da Camera e Senato nelle scorse settimane, sia invece diventata realtà nell’Italia delle cricche, degli orologi preziosi e delle escort portati in dono a politici e funzionari per ingraziarsene i favori.

Con un tratto di penna i nostri legislatori hanno raddoppiato il limite entro cui si era obbligati a indire una gara pubblica. Questo limite, 500 mila euro, era stato fissato appena un paio d’anni fa. Quanti sono gli appalti sopra un milione di euro nel nostro Paese? Pochissimi.

Walter Schiavella, che è segretario generale della Fillea, gli edili della Cgil, tra i primi si è battuto perché la norma non entrasse nella manovra. Ma la semplificazione del dibattito politico sul testo, con la corsa all’approvazione con il fiato sul collo della speculazione finanziaria, ha fatto perdere peso anche alle critiche più motivate.

Il dato resta però impressionante: “L’80% degli appalti pubblici – afferma Schiavella carte alla mano (in parte le pubblichiamo in questa pagina ndr) – è per cifre inferiori al milione di euro”. La norma, quindi, ha un effetto pratico immediato che è quello per cui la politica, da sola, vale a dire senza valutare il progetto o il prezzo migliore, può decidere chi lavora e chi non lavora in Italia. Diventa una scelta autonoma, legale, dei governi di città, province, regioni, asl. Una scelta con ogni evidenza soggetta ai “corteggiamenti” delle imprese che devono lavorare per continuare a sopravvivere.

Questo, però, segnala Schiavella, è solo il primo effetto negativo per un settore, quello edile, che nella crisi “ha perso il 20% rispetto al Pil”. Una cifra enorme anche se paragonata al periodo del dopo-tangentopoli “in cui – ricorda il segretario Fillea – si perse il 9,6%”. Questo, dunque, è il quadro da cui si parte: aziende in sofferenza, grandi appalti pubblici al lumicino (“il fondo unico per le infrastrutture segna 250 milioni per il 2012, 500 per il 213 e 800 per il 2014”), regole difficili da far rispettare. L’unico mercato ancora ricco resta quello delle cosiddette “emergenze”, che agisce, ricorda Schiavella, sempre con leggi in deroga (le inchieste sulla cricca attengono proprio al rapporto tra questi pubblici ufficiali e gli imprenditori aggiudicatari delle opere pubbliche).

Per il resto, si assiste a un mercato per cui il 10% dei costruttori ottiene oggi in Italia il 28% degli appalti pubblici e ad una preoccupazione che è apparsa evidente a tutti gli addetti ai lavori ma non ai legislatori. La preoccupazione riguarda il tessuto produttivo degli edili nel nostro Paese: “Se non vanno avanti le imprese che meglio possono reggere il confronto con il mercato, ma quelle che hanno legami più o meno leciti con la politica – attacca Schiavella – non sarà un bene per l’economia. Soprattutto se queste imprese ‘scorrette’ abbiano legami con i gruppi della malavita organizzata”. Pensiamo al movimento terra o all’intero ciclo del cemento. Ultima preoccupazione: se l’unico discrimine per ottenere un appalto pubblico è avere un buon rapporto con il politico di turno, a chi importerà più della qualità del prodotto finale?

La politica della Gelmini ha messo in pratica il principio espresso da Roger Abravanel: “Si premiano i migliori indipendentemente dal reddito” (intervista al Corriere della Sera del 11-7-2010). La retorica sulla meritocrazia è stata usata come pretesto per creare un altro carrozzone pubblico – la Fondazione per il merito, con relativo presidente e consiglio di amministrazione – e soprattutto per demolire il diritto allo studio che, secondo lor signori, servirebbe solo a studenti mediocri e figli di evasori.

Stiamo ai fatti. Il sistema attuale assegna le borse ai meritevoli anche se privi di mezzi. La misura del merito per avere la borsa è accertata dagli esami sostenuti fin dal primo anno, con un criterio più severo rispetto ai sistemi di Germania e Francia che verificano solo al secondo anno. Applicare esclusivamente, come propone Abravanel, la valutazione del merito con un test standardizzato di ingresso, cosa molto diversa dalle prove di orientamento, sarebbe un'ingiustizia sociale e nessuno in Europa si è sognato di farlo, neppure i governi di destra. Il figlio della famiglia povera che arriva all’università ha già superato ostacoli difficili per l’assenza di borse di studio nelle medie superiori e non può essere inchiodato ai risultati della precedente formazione scolastica, anzi va aiutato con un sussidio proprio per avvicinarlo alle stesse opportunità del figlio di papà. Poi manterrà quell'aiuto solo meritandoselo con buoni risultati negli studi. Ne si puó pensare di scaricare i costi degli studi sui prestiti da restituire in età da lavoro. Con uno stipendio medio di ingresso di circa mille euro il giovane laureato dovrebbe pagare l'affitto della casa, la pensione integrativa, la restituzione del prestito per gli studi… e poi dovrebbe anche campare.

Oggi in Italia la soglia di reddito per ottenere la borsa è più restrittiva che in Europa e ciò nonostante neppure tutti gli aventi diritto la ottengono effettivamente. Il diritto allo studio è garantito solo al 9% della popolazione studentesca - ben lontano dal 25% della Francia e della Germania – e lascia scoperti non solo i ceti poveri ma anche quote significative del ceto medio. Il fondo statale è di 100 milioni, circa la metà di quanto contribuiscono gli stessi studenti col la tassa regionale del diritto allo studio, e nei prossimi anni tenderà a scomparire con 26 milioni nel 2012 e 13 milioni nel 2013.

In questa drammatica penuria di risorse la ministra, raccogliendo il suggerimento del suo ispiratore, vuole estendere il sussidio anche ai figli di papà, diminuendoli di conseguenza agli studenti privi di mezzi. A quel punto anche gli esecrati evasori fiscali non avranno più il problema di presentare dichiarazioni mendaci, rischiando un controllo della Guardia di Finanza, alla quale oggi molti enti per il diritto allo studio inoltrano le domande ricevute. Comunque, che siano evasori o no, i figli di papà non hanno certo bisogno del sussidio statale per sostenersi negli studi. Semmai a loro e a tutti i meritevoli, in questo caso davvero a prescindere dal reddito, andrebbero offerte opportunità di alta formazione, ad esempio serie scuole di specializzazione, buoni dottorati e, quando vi sono le motivazioni, anche attività di ricerca. Il sussidio pubblico, soprattutto se le risorse sono scarse, andrebbe invece concentrato sui meritevoli che non ce la fanno a sostenere i costi degli studi. Almeno questo dice la nostra Costituzione. E anche il buon senso. Solo la destra italiana pensa il contrario.

Le belle parole sul merito servono a coprire la vecchia politica di togliere ai poveri per dare ai ricchi.

Ci sono 150 miliardi di euro sui conti clandestini che tuttora gli italiani detengono illegalmente all´estero, al riparo dagli occhi del fisco. Un centinaio è investito in azioni, fondi, obbligazioni e titoli pubblici. Il resto in depositi e conti bancari. Lo scudo Tremonti, insomma, è servito a poco: nel 2009 sono rientrati, nonostante i termini favorevoli offerti, solo fra metà e un terzo dei soldi fuori legge investiti in titoli. E´ la stima contenuta in uno studio appena pubblicato da due ricercatori della Banca d´Italia, che hanno messo a confronto una lunga serie di dati statistici. I due ricercatori - Valeria Pellegrini ed Enrico Tosti - si sono concentrati, in particolare, sugli investimenti di portafoglio, cioè in titoli, perché qui era possibile mettere a confronto i dati dei paesi che hanno emesso i titoli e sui loro acquirenti, con i dati all´altro capo della catena, cioè in Italia. Il divario che ne risulta equivale ai capitali non dichiarati. A fine 2008, prima cioè che Tremonti varasse la normativa per il rimpatrio autorizzato dei capitali, corrispondevano ad un ammontare fra 124 e 194 miliardi di euro.

I capitali illegali all´estero non sono un fenomeno solo italiano. A livello globale, dice lo studio, il divario fra attività e passività dichiarate è pari ad un po´ più del 7 per cento del Pil mondiale. L´Italia, però, va oltre: i titoli non dichiarati, nel 2008, equivalevano ad una quota fra il 7,9 e il 12,4 per cento del Pil nazionale, appunto fra 124 e 194 miliardi di euro. Negli anni, gli italiani hanno portato questi soldi all´estero con metodi ben noti. Gonfiando le spese per importare e dimagrendo gli incassi delle esportazioni, se sono imprese. Con i contanti portati dagli spalloni, se sono privati. Oppure, servendosi di un buon commercialista e di qualche finanziaria svizzera, con sistemi più raffinati: un investimento dichiarato e legale, all´inizio, in paesi al di sopra di ogni sospetto. Da qui, l´investimento in paesi con legislazioni meno stringenti, in società fittizie che poi falliscono o false transazioni. I soldi così disponibili vengono poi investiti in obbligazioni di paesi sicuri o, soprattutto, in fondi in Lussemburgo o nei centri off shore come le isole Cayman o Bermuda.

Lo scudo ha limato quelle percentuali. Nei dati ufficiali, il grosso dei rientri origina da conti e depositi bancari, ma i due ricercatori ritengono che si sia trattato del passaggio finale, dopo aver liquidato gli investimenti in titoli. Perciò ricalcolano i dati ufficiali dello scudo, attribuendo al disinvestimento di titoli circa 60 dei 97 miliardi di euro rientrati. Se, dunque, i capitali in titoli, inizialmente non dichiarati, erano pari a 140 miliardi di euro - la cifra intermedia fra 124 e 194 miliardi che lo studio della Banca d´Italia assume come riferimento - mancano all´appello, oggi, 80 miliardi di euro che gli italiani continuano a detenere clandestinamente all´estero: un ammontare pari al 5,5 per cento del Pil nazionale. Il dato si riferisce al 2009. I due ricercatori calcolano che, nel 2010, questa quota sia ulteriormente salita al 6,8 per cento, cioè a poco meno di 100 miliardi di euro.

Accanto agli investimenti illegali di portafoglio - in azioni, fondi, obbligazioni, titoli pubblici - ci sono gli altrettanto illegali conti correnti nelle banche estere. Basandosi sulle statistiche della Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, Valeria Pellegrini ed Enrico Tosti calcolano che i depositi all´estero non dichiarati ammontassero, a fine 2009, ad una cifra fra i 45 e i 50 miliardi di euro.

Che ci fanno insieme le associazioni dei padroni piccoli, medi, grandi, artigiani, agricoli, con i banchieri, i cooperatori e i sindacati? Si sono messe insieme tante sigle, quelle che contano, le «parti sociali», per lanciare un appello disperato al Paese: la finanza ci mazzola, l'economia si trova in stato preagonico, lo sviluppo non si vede all'orizzonte e questo governo non ha l'autorevolezza per raddrizzare il timone e portare la nave Italia fuori dalla scogliera, verso il mare aperto. Se si vuole far ripartire la locomotiva (meglio sarebbe dire la littorina) è necessaria una discontinuità: fuori dai piedi Silvio Berlusconi che sputtana l'Italia nel mondo e avanti con un governo tecnico capace di tagliare spese e salari e obbedire agli ordini delle istituzioni finanziarie internazionali. Un tal governo avrebbe un blocco sociale compatto al suo fianco, perché la condizione che la nave vada è che tutti remino nella stessa direzione - l'armatore e il comandante a dare ordini e battere il tempo dalla tolda e gli operai nella stiva a eseguire. Per questo dev'essere preventivamente abbandanata ogni ipotesi di conflitto. Ecco a cosa serve la firma dei sindacati in calce al «patto», più precisamente di Cisl e Cgil perché Angeletti non ha ancora capito se Berlusconi resisterà o sarà costretto a gettare la spugna e dunque sceglie la prudenza.

Il manifesto della «discontinuità» incontra il pensiero di un Sergio Marchionne particolarmente affezionato alla metafora della nave da guerra che combatte nel libero mercato contro le altre navi da guerra, in cui il nemico del rematore non è più l'armatore con cui dev'essere pappa e ciccia ma la nave nemica, e dunque i rematori e l'armatore nemici. Tutti uniti per salvare il paese, in pace come in guerra, sembra un appello lanciato dal presidente Giorgio Napolitano per essere fatto proprio da un arco di forze che va da Bersani a Fini, naturalmente aperto a un pdl postberlusconiano.

Prima che antipopolare è - sarebbe - un patto politicista, finalizzato per molti dei sottoscrittori a garantire un governo di unità nazionale, o di transizione che dir si voglia, senza Berlusconi ma impedendo il passaggio del timone nelle mani del centrosinistra come esito possibile e forse anche probabile di un ricorso anticipato alle urne. Questo vuol dire «discontinuità». Un patto vuoto di contenuti che immagina manovre economiche non dissimili da quelle di Tremonti. Non un patto per lo sviluppo ma un patto contro Berlusconi, blindato da tutti per evitare ipotetici cambiamenti di campo. Ammesso che il centrosinistra garantirebbe un cambiamento di paradigma e di interlocutori nella definizione di un piano anticrisi.

Come ha detto ieri al manifesto il segretario della Fiom Maurizio Landini e come ripete oggi Sergio Cofferati sul nostro giornale, le organizzazioni sindacali dovrebbero organizzare grandi mobilitazioni contro la manovra ingiusta e la politica economica del governo, invece di stringere patti contro natura e inefficaci ad affrontare la precipitazione della questione sociale in autunno. Scegliere invece la seconda strada, da parte della Cgil, segnala un'ulteriore, pericolosissima perdita di autonomia del sindacato.

Sui parchi in Lombardia il federalismo funziona al contrario: la Regione azzera i consorzi di gestione e si annette i poteri affidati ai Comuni. A meno di qualche ripensamento, una spudorata operazione di potere colpisce ancora una volta il verde, il territorio e l’integrità delle aree protette.

Non si può che rilanciare il grido d’allarme delle tante associazioni ambientaliste che in questi giorni hanno continuato a segnalare i dubbi e i pericoli di un’operazione considerata un salto nel vuoto: i precedenti di rapina del verde pubblico nei 24 parchi regionali, che costituiscono un terzo del territorio lombardo, dovrebbero mettere in guardia da una decisione che indebolisce la tutela di un sistema creato per garantire equilibrio, in una zona ad alta densità di traffico e industrie. È paradossale che il crollo di un argine difensivo per il verde passi proprio nella Regione che si prepara a ospitare l’Expo ambientalista e sostenibile del 2015. Ma che coerenza c’è tra i progetti di valorizzazione dell’agricoltura e delle cascine lombarde e la possibilità di espropriare fette di terreno da riservare al cemento, a interventi urbanistici che pesano su un habitat straordinario come il parco del Ticino o all’inutile terza pista dell’aeroporto di Malpensa? Troppe volte in passato l’eccesso di prudenza e l’indifferenza politica hanno avallato gli scempi sul territorio; troppe volte in nome di una discrezionalità di parte sono stati privilegiati gli interessi dei pochi beneficiati dalle concessioni edilizie. Negli ultimi vent’anni le grandi infrastrutture e il cemento si sono mangiati un pezzo di Regione grande quanto le città di Varese e Bergamo. E le previsioni parlano di altri 53 milioni di metri quadrati di aree agricole che rischiano di essere spazzate via. La nuova legge che la regione oggi si appresta a varare è un semaforo verde in questa direzione, una direzione sbagliata, affrettata, pericolosa. Per questo è naturale sollevare dubbi, proprio mentre le inchieste della Procura aprono interrogativi su altre procedure disinvolte adottate da alcune pubbliche amministrazioni, in nome di una presunta pubblica utilità. Anche qui, con la nuova legge si parla di doverosa necessità per salvare i parchi dalla sicura soppressione, dopo una norma maldestra approvata in Parlamento. Ma l’unica necessità è quella di rafforzare i controlli sul territorio. Non è sospetta una legge che va nella direzione contraria?

"Dopo i campi di sterminio, stiamo assistendo allo sterminio dei campi". Queste parole di un grande poeta, Andrea Zanzotto, descrivono bene quel che sta accadendo in questi anni in Italia. Prigionieri di un modello di sviluppo arcaico e senza futuro, politici di ogni colore si sono alleati di fatto con chi considera il territorio materia inerte per speculazioni d’ogni sorta, e non più, come è stato per secoli, preziosa fonte di salute, cibo, vita. In un Paese dall’economia notoriamente immobile, da vent’anni inseguiamo l’idea stolta e perdente secondo cui lo sviluppo economico coincide con l’edilizia, con il consumo di suolo, con la devastazione dei paesaggi storici.

Berlusconi è il corifeo di questo gigantesco spreco della nostra risorsa più preziosa; ma i suoi seguaci si contano nelle fila di ogni partito, come ben si vide quando la parola d’ordine del fallimentare “piano casa”, lanciata dal presidente del Consiglio però mai tradotta in legge dal governo, fu prontamente raccolta da tutte le regioni italiane (senza eccezione). Invano si ripete, a orecchie sorde a ogni discorso, che la crisi economica che attraversiamo nasce dalla “bolla immobiliare” americana, e che non si può combattere con una bolla immobiliare nostrana.

Pessime abitudini, sordità culturale, incapacità di pensare, intrecci di interessi privati, vischiosità di procedure amministrative, avidità di guadagno e mancanza di immaginazione congiurano nel consegnare il suolo della patria nelle mani sbagliate, nell’indirizzare sul “mattone” il risparmio senza tener conto dell’enorme invenduto (120.000 appartamenti fra quelli costruiti negli ultimi due anni). «La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi se si vuol salvare il suolo in cui vivono gli italiani» (Luigi Einaudi).

Il caso del comune di San Vincenzo, che sta occupando in questi giorni molto spazio sul Tirreno e su altri giornali, è esemplare. A ogni festa popolare, a ogni occasione, si dispiegano sui muri le idilliche foto della San Vincenzo che fu, paesaggi e panorami che non ci sono più. La realtà è che, a fronte di un continuo calo dei residenti, il territorio comunale è stato spietatamente cementificato, con un consumo di suolo doppio di quello medio della provincia di Livorno e più che triplo della media toscana, fino all’obbrobrio di un “porto turistico” che ha letteralmente ricoperto di cemento centinaia di metri di spiaggia già pubblica, trasformandoli di fatto in un centro commerciale, invano ribattezzato “Itaca” (offendendo Ulisse e Omero), come invano le strade asfaltate del porto-shopping center sono state intitolate populisticamente a locali famiglie di pescatori. Il tentativo di recuperare coi nomi e con vecchie foto ingiallite quel che viene distrutto coi fatti denuncia la coda di paglia dell’amministrazione comunale, ma non attenua i suoi torti.

In un territorio martoriato dalla cecità di chi lo ha amministrato, non c’è che da sperare in chi lo amministra oggi. Cartina di tornasole delle intenzioni dell’amministrazione comunale è la tenuta di Rimigliano, 560 ettari di assoluta meraviglia, contro i quali intendeva accanirsi la speculazione edilizia, quando la proprietà (per intenderci, il Tanzi della Parmalat: un emblema dell’imprenditoria italiana) voleva lottizzare, costruire un enorme albergo, distruggere una straordinaria oasi flori- faunistica. Quando il sindaco Michele Biagi mi propose, qualche mese fa, di visitare la tenuta con lui e i suoi collaboratori, fui felice di sentirgli dire che il nuovo Regolamento urbanistico avrebbe previsto il pieno recupero delle bellissime case poderali, senza aumento di cubatura e rispettandone le caratteristiche architettoniche; che gli annessi agricoli sarebero stati solo in minima parte destinati a supporto delle funzioni residenziali; che la tenuta sarebbe diventata un parco da visitarsi, con pieno rilancio delle attività agricole; che non erano previste nuove costruzioni né nuove cubature.

Apprendo ora, da una lettera del sindaco al Corriere Fiorentino, che è invece previsto «un albergo più piccolo, al massimo di 6000 metri quadrati»; e apprendo dai giornali che a supporto delle attività agricole sarebbero destinati appena 650 metri quadri, men che insufficienti per 560 ettari. Queste ed altre gravi perplessità, almeno in parte presenti anche nelle osservazioni della Regione, dovrebbero indurre a riaprire un tavolo di discussione, ma è proprio quello che (sembra) il sindaco Biagi intende escludere, coinvolgendo per misteriose ragioni anche un cittadino come me (senza affiliazioni politiche) in una generale chiamata di correo: «Rimigliano, tutti sapevano: anche Settis», titola infatti il Corriere Fiorentino. Il sindaco sostiene che di discussione ce n’è stata anche troppa, del resto in linea con lo Statuto del suo Comune, che nel prevedere la possibilità di referendum consultivi di iniziativa popolare espressamente esclude fra le materie soggette a quesiti referendari «l’assetto del territorio» (art. 28, lettera h). Ma la discussione su questi temi non è mai troppa, perché i delitti consumati contro il territorio sono irreversibili.

San Vincenzo non è certo l’unico Comune in Italia (e nemmeno in Toscana) in cui miopie amministrative e avidità di privati hanno largamente esagerato nel consumare il suolo.

Ma altri Comuni, altri sindaci hanno capito quando è tempo di smettere con la droga dell’edificazione illimitata (questo è spesso il senso dello “stop al consumo di territorio” deciso dai “Comuni virtuosi” o reclamato dai cittadini).

A San Vincenzo, lo stesso quadro conoscitivo annesso al nuovo piano strutturale del Comune offre un dato agghiacciante: a fronte di un consumo di territorio del 10,6% nel 1999, nel 2009 si è raggiunto il 17,6%, con un incremento del 70% in dieci anni. A tanta overdose è tempo di dire “basta!”.

Nelle preziose memorie del primo sindaco di San Vincenzo, Lido Giomi («Io c’ero. Storie e memorie di una vita vissuta»), si trovano foto e notazioni commoventi: il porto costruito negli anni Settanta e allora gestito dal Comune, con la spiaggia ora profanata dal cemento, è messo a confronto col porto di oggi, dove a causa della «diga foranea talmente vasta, considerando le riflessioni fatte dai tecnici già nel 1970, è probabile che l’arenile scompiata definitivamente. Insomma, ciò che ha rappresentato la carta d’identità del nostro Comune fin dalla sua nascita un giorno non ci sarà più. Chi beneficerà di un lavoro così ampio a mare aperto? Non certo gli stabilimenti balneari, che dovranno portare la sabbia con mezzi meccanici, con danni economici e ambientali. Valeva la pena di spendere tanti miliardi per un aumento di circa cento posti barca? Chi ci guadagna da questa operazione? Cittadini e villeggianti per andare al mare dovranno spostarsi in macchina verso Donoratico o Rimigliano».

D’altronde, prosegue Lido Giomi, «in questi ultimi anni il peso urbanistico sul territorio si è fatto molto pesante. Sono state costruite centinaia e centinaia di case, anche troppe e qualche volta nei posti sbagliati. Il costo della casa è uno dei più alti in tutta la provincia e per questo motivo i giovani si trasferiscono spesso in altri Comuni. Intanto i cittadini residenti sono diminuiti di quasi 1000 unità rispetto al 1970. Questo tipo di sviluppo non ha risolto il problema della casa per i residenti, ha prodotto tante doppie case senza risolvere il problema della disoccupazione per i giovani.

Se solo vedessi, in qualche modo, un’inversione di tendenza rispetto al presente sarei più fiducioso; invece no, da trent’anni a questa parte si continua a mentire anche a noi stessi, si continua a costruire a macchia di leopardo, disseminando case dovunque senza una programmazione urbanistica, con costi enormi per la collettività. Il fatto è che il valore e la preservazione del patrimonio ambientale non si possono in alcun modo monetizzare. Invece, sono sempre i soldi a “farla da padrone”».

Nella postfazione al libro di Lido Giomi, il sindaco Michele Biagi dice che Giomi è una figura esemplare. «che nel tempo ha mantenuto, se non accresciuto, la sua autorevolezza, ben al di là del suo ruolo politico». Ben detto, sindaco Biagi: ma allora segua i consigli del suo autorevole predecessore. Il gravissimo errore del porto è ormai compiuto: ma ora stop al consumo di territorio a San Vincenzo, per favore!

Dobbiamo purtroppo continuare a subire le prepotenze di una maggioranza parlamentare lontana dalla percezione stessa di che cosa significhi rispetto per i diritti civili. È passato appena un giorno dalla severa lezione impartita dalla Corte Costituzionale, che ha dichiarato illegittimo il divieto di sposarsi per gli immigrati senza permesso di soggiorno, perché così veniva negato un diritto fondamentale della persona.

Ed ecco che la Camera dei deputati ha subito voluto smentire questo segnale di civiltà che, per un momento, ci aveva fatto sentire vicini ai Paesi che praticano il buon diritto, quello che ha la sua bussola nel rispetto dell´altro, nell´accettazione della diversità come fondamento dell´eguaglianza. Nell´aula di Montecitorio si è bloccata la possibilità di approvare una norma contro l´omofobia, usando addirittura, in maniera del tutto distorta l´argomento di una sua incostituzionalità. Il mondo capovolto. È il trionfo degli spiriti beceri, dell´alata parola dei ministri che indicano al pubblico disprezzo i "culattoni" e poi trovano alleati in chi continua a praticare un fanatismo ideologico in nome della morale e della "natura". Una volta di più, miseramente, la politica del disgusto ha vinto sulla politica dell´umanità, per usare le parole di Martha Nussbaum, sui cui scritti mi ero permesso di richiamare l´attenzione pochissimi giorni fa. Parole al vento.

Conosciamo le ragioni che avevano indotto a proporre una norma contro l´omofobia. Bisognava reagire a un clima omofobico, non più strisciante, ma dichiarato, grazie al quale alle parole si sono aggiunte le aggressioni fisiche. La regressione culturale che ci circonda, il cui linguaggio ci dà quotidiane testimonianze, è stato l´ottimo terreno di coltura di questi atteggiamenti. In questi casi la norma giuridica, al di là dei suoi aspetti punitivi, ha un elevato valore simbolico. È il segno di una società che non dà cittadinanza a specifici comportamenti, che rifiuta istituzionalmente ogni loro legittimazione.

Nessuno degli argomenti portati a sostegno della pregiudiziale di incostituzionalità è convincente. Alcuni, anzi, sono davvero segno di un´imbarazzante modestia giuridica, per non dire una malafede che si traduce nel peggior cavillare. Proprio per evitare alcune obiezioni, dopo il voto contrario del 2009, si era rinunciato ad introdurre un vero e proprio reato di omofobia, limitandosi a prevedere una semplice aggravante. Neppure questo è bastato. Si è detto che il riferimento all´"orientamento sessuale" è troppo generico, sicché la norma mancava della necessaria chiarezza e tassatività, lasciando troppo spazio alla discrezionalità dei giudici. Ma dell´orientamento sessuale parlava già il Trattato di Maastricht, su di esso è tornato il Trattato di Lisbona e la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea ne parla all´articolo 21 tra i casi di illegittima discriminazione (tutti documenti a suo tempo votati dal Parlamento italiano). Si tratta di un concetto tutt´altro che inafferrabile, i cui contorni sono stati definiti non solo culturalmente, ma attraverso un´ampia casistica giurisprudenziale. Nessun rischio di incertezza o di arbitrio, dunque. Per quanto riguarda, poi, la tesi secondo la quale si tratterebbe di un trattamento di favore per gli omosessuali che avrebbe creato una disparità di trattamento in altri casi o per altri soggetti, siamo di fronte ad un´altra sgrammaticatura giuridica.

Dovremmo sapere che l´eguaglianza consiste certo nel trattare in modo eguale situazioni simili, ma anche nel trattare in modo differenziato situazioni tra loro sostanzialmente diverse, come più volte ha detto la Corte costituzionale. E questo è proprio il caso dei comportamenti omofobici. Questa brutta giornata parlamentare è stata comunque segnata da qualche divisione all´interno della maggioranza.

Diciotto deputati del Pdl si sono astenuti (tra questi i ministri Carfagna e Romani) e uno, Versace, ha votato contro le pregiudiziali di costituzionalità. Qualcosa comincia a muoversi, e questo induce ad insistere perché si possa giungere ad una legge civile. Ma questa vergognosa vicenda impone due considerazioni politiche. Quale ragionevole dialogo sulle riforme in materia di giustizia e diritti può essere avviato con una maggioranza che al Senato cerca di imporre l´ennesima legge ad personam ed alla Camera sbarra sempre la via all´incivilimento del sistema giuridico? Quale alleanza politica è possibile tra le forze di centrosinistra e una Udc che appoggia la legge contro il testamento biologico, affossa la norma sull´omofobia, continua ad inveire contro il risultato dei referendum sull´acqua?

Paola Concia, relatrice alla Camera, ha proposto di avviare l´iter per una legge di iniziativa popolare. Bisogna farlo subito, utilizzando anche la spinta civile che viene dai movimenti attivi nella società. Le persone vive contro le anime morte del Parlamento. Su questo bisognerà tornare, perché la vicenda di ieri ha confermato l´esistenza di un gravissimo problema di rappresentanza. Le istituzioni non possono reggere quando ogni giorno i cittadini sono costretti a registrare incapacità di cogliere le dinamiche sociali, disprezzo per le minoranze, sacrifici di diritti civili e sociali.

Il richiamo del presidente Napolitano al premier sul decentramento dei ministeri segnala con opportuna gravità che le farse possono aprire la via a crisi gravi. Non sono mai ammissibili se coinvolgono le istituzioni e sono ancor più intollerabili nei momenti di difficoltà di un Paese. Sono assolutamente illecite se chiamano in causa questioni generali e costituzionali. Dalla meditata iniziativa del presidente Napolitano viene anche un monito a non sottovalutare le conseguenze del concitato e sempre più dissennato dibattersi di una maggioranza in agonia. Concitato e convulso anche in quella Lega che fino a un anno fa sembrava ancora in ottima salute: le elezioni regionali del 2010 la avevano fortemente irrobustita, proiettandola oltre i suoi tradizionali confini. Proprio quel successo le avrebbe imposto di riesaminare radicalmente una politica di cortissimo respiro e priva di prospettive reali (in primo luogo europee) per gli stessi "interessi del Nord", oggi ridotti alla mascherata dei finti ministeri di Monza (patetico approdo, in realtà, dei parlamenti padani di quasi vent´anni fa). Così non è stato.

Il confuso e pericoloso dibattersi della maggioranza costringe a riflettere a fondo sulla fase che attarversiamo, e molti interventi hanno evocato la crisi di Tangentopoli e il crollo del sistema dei partiti che essa innescò. A spingere in questa direzione non è solo il crescere della corruzione e il discredito del ceto politico ma la sensazione che siano crollati progressivamente gli architravi di una lunga stagione. L´ultimo atto, una manovra finanziaria pesantissima e socialmente iniqua, ha smentito un´intera politica basata sulle menzogne e sulla irresponsabilità economica. Ed è stata resa ancor più iniqua dall´immunità garantita agli sprechi e agli sperperi della politica: in questo scenario è apparsa ancor più intollerabile l´impunità penale dei singoli. È solo l´ultimo atto, come s´è detto: la fiducia nel "nuovo miracolo italiano" è un ricordo lontanissimo e il fallimento della "politica del fare" ha la sua conferma più drammatica nelle perduranti sofferenze e nella dolorosa incertezza di futuro dell´Aquila. E il premier che aveva più volte garantito la fine dell´emergenza a Napoli non è in grado di imporre alla Lega neppure misure elementari e doverose di provvisorio ripiego. Per questa via, come ha scritto Aldo Schiavone, la leadership di Berlusconi è diventata ormai «un grumo di macerie e potere, un impasto denso di seduzione finita e di ostinazione che resiste», mentre si intravede sempre più chiaramente sullo sfondo quell´infittirsi di reti illegittime di cui la P3 e la P4 sono state espressione. Il crescere degli scandali privati e pubblici, dunque, ha fatto solo risaltare meglio la fine annunciata di una fascinazione politica.

Volge dunque al termine su tutti i versanti un rapporto del centrodestra con il Paese che si è consunto da tempo. Qui vi è certo qualche significativa somiglianza, ma anche qualche differenza, con lo scenario dei primi anni Novanta. La corruzione aveva superato da tempo, allora, i livelli di guardia ma a far esplodere l´indignazione contribuì in modo decisivo la fine di quel "patto di tolleranza" fra governanti e governati che negli anni Ottanta aveva progressivamente sostituito il consenso. Era basato, in buona sostanza, sul prevalere degli interessi degli uni e degli altri (leciti o illeciti che fossero) sul bene comune. Tolleranza dell´evasione fiscale, condoni, e uso sempre più innaturale della spesa (non solo al Sud) ne erano stati gli strumenti, ed era proceduta di pari passo l´occupazione e la spartizione dello Stato da parte dei partiti di governo. Quella politica portava inevitabilmente al disastro ma la sua fine fu accelerata da una crisi economica profonda e dal processo di unificazione europea, che ci imponeva di invertire quella spirale. Ci impediva di ampliare ulteriormente un debito pubblico giunto al 120% del prodotto interno lordo. Ci "costringeva" ad essere virtuosi. La rivolta antifiscale di chi temeva più seri controlli fu la prima reazione degli interessi colpiti (e di più generali illegalismi), il Mezzogiorno divenne il simbolo negativo dell´abuso della spesa pubblica e la corruzione politica apparve sempre più intollerabile: la Lega cavalcò tutti questi umori e prosperò su di essi, costruendo il primo pilastro di un nuovo inganno.

Oggi come allora, e sia pure in forme diverse, una fase più lunga è al termine e la sua fine coinvolge culture, o inculture, profonde. Giuseppe De Rita ha osservato che, assieme al "governare facile" del berlusconismo, sono oggi in crisi tutti i miti della "seconda repubblica", incentrati su «improbabili e taroccate innovazioni delle istituzioni e delle classi dirigenti», e volge al termine anche «il primato dell´individualismo e del soggettivismo etico». Già in precedenza, negli straordinari risultati elettorali recenti e nello spirito collettivo che essi hanno fatto emergere molti avevano visto la vera fine della stagione iniziata negli anni ottanta, basata appunto sul dispregio delle norme e delle regole collettive, e su un "rampantismo" sempre più avido di puntelli e sussidi (spesso illegittimi).

Andrebbe compreso meglio, però, perché le culture, o inculture, degli anni ottanta hanno potuto durare così a lungo. Perché hanno potuto sopravvivere a quello stesso crollo che avevano provocato vent´anni fa, e riproporsi poi in altre forme. Le ragioni sono indubbiamente molte, e rimandano anche al Paese, ma un dato non va rimosso: nella bufera di Tangentopoli e nel crollo di un sistema politico ormai screditato la sinistra non seppe avanzare fino in fondo, in alternativa, proposte e modelli di buona politica. Più ancora, non seppe proporre una nuova idea di Italia, e sperperò anche le potenzialità che era riuscita a metter in campo con il primo governo Prodi. Al termine di esso prevalse il ritorno a una politica vecchia e destinata alla sconfitta (lo ha ricordato benissimo, di recente, Umberto Eco). C´è da sperare che la storia non si ripeta, ma i segnali non sono confortanti: e non solo sul versante della corruzione, che vede esponenti del Partito democratico sul banco degli accusati per episodi di rilievo e che impone una riflessione non episodica. Più in generale, il Pd non ha dimostrato sin qui di essere all´altezza della ventata di speranza alimentata dai recenti pronunciamenti elettorali. Non ha ancora dimostrato di essere capace di rinnovarsi profondamente, come essa richiedeva: di qui una sostanziale immobilità e la permanente assenza di una visione lucidamente alternativa. Con molte, infelici conseguenze quotidiane.

C´è da sperare con forza che il centrosinistra sia in grado di invertire una stanca e logora consuetudine mettendo in campo con urgenza energie e progetti nuovi, adeguati al momento. Programmi e figure di altissimo profilo e di grandissima credibilità, in grado di contrastare il gravissimo deterioramento della situazione. E di permettere agli elettori di sperare ancora. È una condizione assolutamente necessaria per chiudere definitivamente una fase e aprirne con fiducia una nuova. Ma sembra ancora tutta da costruire.

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