La parola magica di questa confusa fine d'agosto è coesione. Sotto gli auspici di un mai così dinamico Presidente della Repubblica, tutti la invocano: coesione tra le forze politiche, coesione tra le forze sociali, tutti insieme per salvare l'Italia nel suo 150° compleanno. Ma da chi, destra e sinistra, capitale finanziario, produttivo e lavoro dovrebbero salvare un paese alla deriva? Dalla Grande Crisi, naturalmente, dalla mancata crescita, dal rischio di bancarotta. Anche la crisi è diventata una parola magica, addirittura neutrale. E la crescita, un dogma indiscutibile. La coesione invocata da troppi e per scopi opposti è un inganno.
La crisi non è il prodotto del destino ma di scellerate politiche liberiste, non colpisce tutti allo stesso modo ma scatena i suoi effetti devastanti sui più deboli. Pensare di uscirne con un'alleanza contro natura tra chi l'ha provocata e accompagnata e le sue vittime sarebbe una scelta suicida, foriera di un massacro sociale insostenibile.
La coesione necessaria, al contrario, è quella tra le forze sociali alle quali si vorrebbe nuovamente presentare il conto dei danni provocati dal maremoto liberista: giovani senza lavoro né reddito, dunque privati di autonomia e futuro; lavoratori ridotti a pedine del capitale, come d'autunno sugli alberi le foglie; precari già caduti dall'albero, a cui ogni diritto è negato; cittadini generosamente disponibili a battersi in difesa del bene comune e del territorio, traditi da una politica cinica e autoritaria; pensionati logorati da una vita di lavoro e da quelle tasse che a troppi vengono risparmiate e condonate.
É sulla base di queste considerazioni che abbiamo accolto con sollievo la decisione del gruppo dirigente della Cgil, questa volta tempestiva, di indire per il 6 settembre uno sciopero generale contro la manovra classista del governo che colpisce in un'unica direzione e usa la crisi per regolare il conflitto di classe a favore dei più forti. E' una scelta che lascia aperta una speranza e forse una sponda a chi ormai sente di aver perduto ogni rappresentanza politica e fatica a trovarne una sociale. E' una scelta coraggiosa che segnala una possibile autonomia da un Pd che ha rotto un equilibrismo per schierarsi contro lo sciopero.
La proclamazione dello sciopero è una netta scelta di campo, potrebbe persino rappresentare un segnale di distensione all'interno della Cgil tra due linee differenti: da un lato chi aveva firmato l'accordo interconfederale Cisl, Uil e Confindustria su contratti e rappresentanza e a seguire un appello comune con banche e imprenditori presentato al governo. Dall'altro lato chi pensa che quei due passaggi abbiano segnato una perdita di autonomia della Cgil e aperto, al tempo stesso, la strada all'aggressione del trio Berlusconi-Tremonti-Sacconi ai diritti dei lavoratori, allo Statuto e alla Costituzione. Ora, esplicitate le opposte ricette anticrisi delle "parti sociali" - Emma Marcegaglia si lamenta per le troppe tasse pagate dai ricchi e si scatena contro le pensioni di anzianità mentre approfitta a man bassa dei prepensionamenti - che senso avrebbe confermare quell'accordo tra lupi e agnelli, magari attraverso una consultazione dimezzata? Lo sciopero generale è una scelta coraggiosa e impegnativa, se chi lo ha indetto ci crede davvero non può contraddirlo rivendicando un'alleanza contro natura. Altri, da ben diverse
Nadia Urbinati, La lezione di mr. Buffett
Gad Lerner, Perché è giusto tassare i patrimoni
Carlo Castellano, L’evasione fiscale
La lezione di mr. Buffett
di Nadia Urbinati
Perché fa tanto scalpore che un super-ricco ritenga di dover pagare più tasse e pensi che i suoi simili debbano fare altrettanto? La proposta del super-ricco Warren Buffett non è nuova: era stata ventilata lo scorso anno da Hillary Clinton la quale ebbe il coraggio di denunciare lo sfacciato privilegio che i ricchi si sono conquistati, anche grazie alla stabilità sociale che la democrazia garantisce. Infatti, se i meno abbienti continuano a stare al gioco e non rovesciano l’ordine sociale, se non bruciano auto e non assaltano negozi (o lo fanno solo sporadicamente), è perché a nessuno è consentito di acquisire un vantaggio così sfacciato da stravincere.
Su questo tacito accordo la disegueglianza economica può convivere con l’eguaglianza politica e non mettere a repentaglio la stabilità sociale. Ora, il Signor Buffett si è rivolto alla Commissione del Congresso che è in procinto di tagliare le tasse per almeno un trilione e mezzo di dollari nei prossimi dieci anni. Ha ricordato ai rappresentanti che a conti fatti, egli paga il 17% per cento di tasse mentre i cittadini medi pagano tra il 33% e il 41%. Ha infine fatto presente che i super-ricchi contribuiscono meno in tutti i sensi ai costi sociali (per esempio non mandando i figli a morire in Afghanistan) mentre sono i più "coccolati" dallo Stato, quasi che "appartenessero a una specie in via di estinzione" che merita protezione - benché siano ben lontani dall’estinguersi visto che hanno agguerriti avvocati difensori nelle commissioni legislative.
Il super-ricco americano ci ha dato un’esemplare lezione di democrazia. Nel nome dell’eguaglianza di considerazione e della libertà che ciascuno gode di ricercare la propria felicità, Buffett ha rivendicato una giusta tassazione che distribuisca sacrifici in proporzione alle possibilità. Prima che l’egemonia reaganiana facesse illudere i poveri che privilegiando i ricchi avrebbero ricevuto un qualche beneficio (perché, secondo la vulgata, meno tasse significherebbe più soldi da investire), i ricchi pagavano di più di quanto non paghino oggi e non per questo la società era più povera. Pochi ricordano e dicono che fino agli anni 50 i super-ricchi americani pagavano molte ma molte più tasse di ora (e anche le tasse di successione, magicamente sparite in molti stati democratici).
Buffett riporta in circolazione quella vecchia idea e rivolto a repubblicani e democratici suggerisce loro di invertire rotta e fare quello che in altri gravi momenti del passato hanno saputo fare: equilibrare il taglio delle spese con l’incremento delle tasse per i più abbienti. Si tratterebbe, lo ha ricordato di qua dell’Atlantico Jean-Paul Fitoussi, di una scelta che oltretutto non deprimerebbe i consumi. Ma, soprattutto, risponderebbe a un maggiore senso di giustizia perché riporterebbe il principio di proporzionalità al centro del discorso politico rinsaldando il patto di unità tra cittadini, un patto che il privilegio, invece, erode. Lo ha ripetuto con straordinaria chiarezza il nostro Presidente della Repubblica dal palcoscenico del Meeting di Rimini: verità sullo stato dell’economica ed equità delle misure economiche sono due facce della stessa medaglia; insieme possono motivare solidale responsabilità.
In questi diversi moniti è riflessa un’identica cruciale questione, emersa insieme alla trasformazione democratica delle società moderne: l’importanza di affiancare ai due pilastri individualisti (libertà ed eguaglianza) quello della solidale responsabilità verso la società tutta; un principio sancito anche nell’articolo 41 della nostra Costituzione, oggi sotto attacco da parte del governo perché, ci dicono i ministri, limita la libertà d’impresa in quanto chiede all’impresa responsabilità verso la società. Solidale responsabilità verso il patto fondativo della società non significa comunismo; significa invece riconoscere che è conveniente per tutti che ciascuno contribuisca secondo le proprie possibilità accertabili e accertate al mantenimento delle basilari condizioni della vita associata - un’idea che a Palazzo Chigi non piace se è vero che il Presidente del consiglio identifica le tasse con il furto ("mettere le mani nelle tasche degli italiani") come se esse non servissero invece a ciò che è negli interessi degli italiani. Avere una giustizia efficiente e giusta, una burocrazia non spolpata ma resa funzionale al suo servizio (del quale la società ha comunque bisogno), un sistema scolastico e di ricerca degno di questo nome, un sistema di difesa e di sicurezza che consolidi il senso di tranquillità del vivere quotidiano: tutto questo è un bene da proteggere. E’ utile per tutti, ricchi e meno ricchi.
Insomma nell’argomento del super-ricco americano all’equità fiscale come nell’appello del Presidente Napolitano alla verità (sullo stato dell’economica ma anche dei contribuenti di fronte al fisco) non c’è alcun moralismo. Non c’è la noblesse oblige di chi è disposto a far l’elemosina al povero né un generico appello buonista alla solidarietá. C’è invece il richiamo molto ragionevole e opportuno alla "fraternità" tra cittadini - un sentimento meglio traducibile con l’interesse bene inteso che aveva colpito Alexis de Tocqueville nel suo viaggio americano, lui che veniva da un paese che aveva pagato un prezzo altissimo a causa dei privilegi di casta e del risentimento da essi generato. I rivoluzionari dell’89, volendo gettare le basi del nuovo ordine politico, avevano voluto affiancare alla libertá e all’eguaglianza la fraternità.
Le vicende tragiche del Terrore non hanno eliminato il senso di questo principio pur cambiandone le forme di attuazione: incardinato in un sentimento religioso di unità e compassionevole aiuto, il termine venne poi reinterpretato come "associazione" (termine caro a Mazzini) così da imprimere un senso di volontarietà al contributo di ciascuno alla vita sociale. Al di là della storia complessa del termine, è importante sottolineare come una società democratica composta di individui liberi e uguali abbia bisogno di un legame di solidarietà fra i cittadini più forte di quello che l’obbedienza alla legge può creare, di un individualismo cooperativo, non atomistico.
In alcuni momenti critici le diseguaglianze economiche richiedono un intervento che sappia infondere un senso di responsabile solidarietà che è poi senso di ragionevole utilità, di vera convenienza. La verità sullo stato dell’economica di una società e l’onestà dei cittadini di fronte ai loro obblighi fiscali sono funzionali alla fiducia, la quale è condizione perché ci sia solidarietà. E appunto, tra le verità da svelare vi è il privilegio di cui godono i pochi. Il super-ricco Buffett ha detto che il trattamento di favore garantito attualmente ai detentori di patrimoni crea un senso di privilegio al quale quei pochi si attaccano come a un dono naturale, con giustificato risentimento da parte dei super-poveri. È un dato certo e misurabile che i privilegi sono in aumento in tutte le società democratiche mentre diminuisce l’eguaglianza di opportunità (in un’intervista rilasciata a questo giornale, Luca Cordero di Montezemolo parlava alcuni giorni fa di un incremento delle condizioni di monopolio). Il privilegio cerca di preservarsi e si radica facendosi ordine castale; questo è un pericolo enorme poiché la diseguaglianza di ceto mina alla radice la democrazia in quanto toglie valore alla solidarietà di cui c’è bisogno per sopportare insieme sacrifici.
Perché è giusto tassare i patrimoni
di Gad Lerner
Non sono riuscito ad afferrare il nesso logico con cui la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, nell’intervista rilasciata ieri a Repubblica, respinge l’idea di prelievi fiscali aggiuntivi a carico dei ricchi italiani.
Quando Roberto Mania le chiede se firmerebbe il manifesto dei sedici imprenditori e manager francesi disponibili a «un contributo eccezionale», così risponde la Marcegaglia: «Se fossi in Francia sì, in Italia no. Da noi una tassa di quel tipo servirebbe soltanto a far pagare di più chi le tasse le paga già con un prelievo che complessivamente ormai sfiora il 50 per cento».
Non voglio pensare ad un mero aggiramento dialettico. Posso condividere, vivendolo pure io, un certo fastidio dovuto al fatto che noi fortunati lavoratori ad alto reddito pagheremo salato (com’è doveroso, viste le circostanze); mentre nulla è richiesto agli altrettanto fortunati detentori di patrimoni, che vivono magari di rendita. In Italia se sei ricco e non guadagni, niente tasse. Questa è la vera differenza con la Francia, dove vige l’Imposta di solidarietà sulla fortuna a carico di chi possiede cospicui patrimoni. Dunque paghi in percentuale su quel che hai già, non solo su quanto incassi.
Sarebbe maggiormente apprezzabile la premura della Marcegaglia a favore di chi guadagna 90 mila euro lordi l’anno, e quindi non può considerarsi un ricco da spremere, se lo facesse seguire da un richiamo alle responsabilità eccezionali cui sono chiamati oggi i veri ricchi. Lo ha proposto il suo predecessore al vertice della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo; dispiace non se ne faccia carico lei. Possibile che in Italia trovino così scarsa udienza le voci di Warren Buffett e della borghesia francese? Che non si avverta la necessità di un contributo straordinario su base patrimoniale per un’equa ripartizione dei sacrifici necessari a fronteggiare l’emergenza?
In verità il ricorso a un’imposta patrimoniale straordinaria non spaventa certo quegli imprenditori che hanno fiducia nelle proprie capacità di creare ricchezza; consapevoli peraltro del fatto che tale prelievo non sarà mai tale da modificare il loro tenore di vita. Ciò spiega anche perché le loro voci isolate siano risuonate, comunque, ancor prima dell’iniziativa di una sinistra italiana ridottasi per troppo tempo a considerare il tema della giustizia sociale poco spendibile sul terreno del marketing politico.
Non dovrebbe mancare all’appello una confederazione degli industriali proclamatasi fautrice del merito contro il parassitismo delle rendite: proprio ieri Il Sole 24 Ore ricordava che l’evasione fiscale tocca percentuali del 56,3% nel lavoro autonomo, ma schizza addirittura all’83,7% fra i rentier.
Il contributo di solidarietà disposto nella manovra economica del governo è viziato per l’appunto da questa distorsione inaccettabile: viene imposto sui redditi ma non sui patrimoni. Tanto per capirci: è giusto che Berlusconi contribuisca solo in ragione delle sue entrate annuali? O dovrebbe essergli richiesta pure una quota relativa alle svariate proprietà immobiliari e mobiliari in cui ha valorizzato il suo patrimonio? Naturalmente la stessa domanda vale per tutti gli altri milionari e miliardari d’Italia. A prescindere dalle loro ultime dichiarazioni dei redditi.
Da Pellegrino Capaldo a Pietro Modiano, sono state avanzate (e ignorate) ormai varie ipotesi di prelievo una tantum sui patrimoni, in grado di garantire un gettito elevato salvaguardando l’ampia fascia di popolazione che ha visto diminuire il proprio reddito nel mentre una minoranza di italiani si arricchiva in proporzioni abnormi rispetto alla mancata crescita del Pil. Si è detto e ripetuto che la rivoluzione italiana passa dalla ricevuta fiscale, nonché da quell’accertamento efficace della ricchezza circolante già costato al benemerito Vincenzo Visco l’epiteto di Dracula. Giusto, ma non possiamo permetterci di star fermi nell’attesa di tale rivoluzione.
In conclusione, vorrei raccontare a Emma Marcegaglia la storia vera di un manager di mia conoscenza che dieci anni fa percepì una liquidazione milionaria e da allora ha deciso di non lavorare più. Per passare il tempo, ha imparato a giocare a golf; e con stupore mi racconta che nei giorni feriali i campi sono affollati di persone come lui che vivono di rendita. Buon pro gli faccia, ma vogliamo chiedere un contributo di solidarietà pure a loro?
Colpire l’evasione
di Carlo Castellano
Non sono un esperto in materia tributaria, né di finanza pubblica. Faccio l’imprenditore di un’azienda italiana, in un settore high-tech, presente sui più importanti mercati mondiali che coprono gran parte della nostra attività. E’ quindi per noi normale conoscere le condizioni in cui operiamo. E confrontando le realtà delle diverse economie, balza evidente che il nodo più macroscopico di differenza tra noi e gli altri risieda nella piaga endemica dell’evasione fiscale.
Sono rimasto quindi "sorpreso" per non dire "sconcertato" nel leggere che, sia nella manovra correttiva di luglio, sia nel decreto legge di metà agosto, il gettito previsto dall’evasione fiscale avrà un ruolo marginale. In particolare il decreto, ora in discussione in Parlamento, individua nel triennio un possibile prelievo aggiuntivo di neanche un miliardo di euro dalla lotta all’evasione, a fronte di un gettito stimato per l’intera manovra di 45 miliardi. Viene ripetutamente detto che "l’evasione è una battaglia persa in partenza" e che da decenni si cerca di abbattere il fenomeno ma con modesti risultati e che, comunque, il governo doveva assumere provvedimenti con effetti immediati, mentre la lotta all’evasione non può che manifestare i suoi effetti solo nel medio-lungo termine.
Ma l’enormità del fenomeno italiano (si stima che lo Stato subisca annualmente un mancato gettito tributario di circa 120 miliardi) e la differenza macroscopica, rispetto a quanto avviene, in tema di evasione, negli altri paesi della comunità europea, pongono interrogativi e scelte non più eludibili. È vero, i mercati e gli organismi internazionali tengono conto degli effetti a breve degli interventi volti a contenere il debito pubblico ma soprattutto valutano i provvedimenti strutturali di risanamento e di sviluppo.
Proviamo quindi a leggere alcuni dati prendendo come riferimento e fonte le pubblicazioni della Banca d’Italia. Ad esempio, emerge che in Italia il "numero delle operazioni pro capite con strumenti diversi dal contante" sono risultate pari nel 2010 a 66 contro una media dell’area euro di 176. Non è un caso che solo la Grecia (14) - paese noto per l’evasione fiscale - risulti l’ultima in classifica. Altri Paesi mediterranei, quali la Spagna (121) e il Portogallo (152) segnano valori non molto lontani dalla media europea. E questo significa che anche nella nostra area del mediterraneo è possibile - se si vuole - cambiare sistema. D’altro canto l’analisi disaggregata per aree territoriali fa emergere in Italia un rilevante divario tra Centronord (84) e Mezzogiorno (39). Una conferma questa che l’utilizzo dei mezzi elettronici è purtroppo modesto anche nelle stesse regioni del Nord comparabili per livello di reddito con quelle europee più sviluppate, quali la Francia che presenta un indice pari a 255. Inoltre non è un caso che la Francia abbia registrato nel 2010 una "emissione netta cumulata" di banconote pari a 84 miliardi di euro mentre per l’Italia il valore risulta il doppio, pari cioè a 145 miliardi.
È evidente che il permanere in Italia di una continua ed elevata propensione all’utilizzo del contante è il chiaro sintomo dell’endemica evasione fiscale del nostro Paese.
La strada principale per combattere l’evasione risiede quindi nell’abbattere la circolazione di carta moneta con l’obbligo di utilizzare per tutte le principali transazioni le diverse forme di pagamento elettronico (bonifici, addebiti, operazioni con carte) e assegni bancari che sono tracciabili e individuabili. Fa impressione leggere che, nel decreto di ferragosto, l’abbassamento della soglia (da 5 mila euro) a 2.500 euro per il trasferimento di contante è riportato tra le norme (art. 2, comma 4) in tema di "prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo". Il provvedimento va nella direzione giusta ma è solo un pannicello caldo anche perché non è inserito in un forte programma contro l’evasione fiscale.
La Francia è riuscita a canalizzare larghissima parte di pagamenti e di riscossione senza movimentare denaro e senza quindi creare i presupposti per l’evasione fiscale. Certo, anche la Francia, come tutti gli altri paesi europei, ha dovuto lottare in questi anni contro l’evasione fiscale assumendo idonei provvedimenti e i risultati sono tangibili.
Ecco perché il governo e il nostro Parlamento devono trovare il coraggio di parlare con verità - come ha detto il Presidente Giorgio Napolitano - e di assumere provvedimenti strutturali di risanamento, di pulizia e di equità. In questa direzione va visto, e quindi riscritto, il decreto legge in tema di evasione fiscale. È assurdo porsi l’obiettivo di abbattere, alla fine del prossimo quinquennio, la metà dell’evasione fiscale attuale, con un vantaggio quindi per le casse dello Stato intorno ai 50-60 miliardi? È certamente un obiettivo durissimo perché tocca interessi diffusi e una incultura profondamente radicata nel nostro Paese. D’altro canto una seria politica volta alla drastica riduzione dell’evasione fiscale può rappresentare un forte stimolo per il rilancio e la crescita del nostro sistema economico e produttivo. Così si potrà avviare la riduzione della pressione fiscale, arrivata ormai a livelli eccessivi per i contribuenti, siano essi imprese o cittadini.
Il presidente Napolitano ha detto una cosa essenziale, domenica a Rimini, e niente affatto ovvia: che nella crisi che traversiamo il linguaggio di verità è un’arma fondamentale. E che se la politica sta fallendo è perché quest’arma l´ha volontariamente ignorata per anni. Per questo siamo «immersi in un angoscioso presente, nell’ansia del giorno dopo»: un popolo tenuto nel buio non vede che buio. A destra la crisi è stata minimizzata, sdrammatizzata, spezzando nell´animo degli italiani la capacità di guardarla in faccia con coraggio e intelligenza. Prioritario era difendere, a ogni costo, l’operato del governo: «anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea». Ma la sinistra non è meno responsabile: nella battaglia contro Berlusconi non c´era spazio per l´analisi della crisi, delle mutazioni che impone, dei privilegi che mette in questione. L´obiettivo degli uni e degli altri era il potere fine a se stesso. Non importa quel che fai, con il potere: importa solo possederlo, o riconquistarlo. Attaccarsi al potere in questo modo è la via più sicura per perderlo, e perdere la democrazia.
Il linguaggio della verità è la rivoluzione più urgente da fare: esso ci farebbe vedere i pericoli che corriamo, quando accusiamo solo la casta politica e non le mille caste che usano il denaro pubblico a fini privati e hanno un interesse nello status quo. Chi ci tiene all´oscuro lo fa con la nostra complicità, tutti abbiamo accettato di essere consumatori ciechi anziché cittadini vedenti. Se cominciamo a voler guardare e sapere, vedremo quel che accade: a governare le nostre esistenze non c´è oggi la politica, con la sua capacità di dominio intelligente sugli interessi. Non c´è il sovrano eletto, con un mandato a termine. Sovrani sono poteri non eletti, come gli speculatori di borsa o le agenzie di rating che storcono le nostre vite e sono i nuovi tribunali delle democrazie. O sono poteri che potrebbero rappresentarci - l´Unione europea, la sua Banca centrale - ma che non hanno vera autorità perché i vecchi Stati-nazione gliela negano.
Il trono democratico nazionale è vuoto, e ancora non esiste il trono europeo. I piccoli vertici Merkel-Sarkozy sono ridicoli, fingono di fare l´Europa e non le danno né istituzioni né risorse perché essa diventi potenza. Vogliono un´Europa a propria immagine e somiglianza: un simulacro di potere, un´ombra che cammina, come in Macbeth, un povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena e del quale non si ode più nulla. È come fossimo immersi, oltre che in un angoscioso presente, in un quadro di Magritte: sulla tela c´è il sovrano democratico, c´è l´Europa. Ma la didascalia dice, come sotto la pipa disegnata dal pittore: «Questo non è un sovrano. Questa non è Europa».
Gli effetti dell´impostura pittorica sono visibili a chiunque usi gli occhi. Il quadro è in realtà occupato da forze oscure, opache, che si fanno scudo del trono dipinto. Da una parte la forza dei mercati. Dall´altra le sommosse che esplodono ai margini e fin dentro le metropoli. Disinformate da anni, cullate in sogni di crescita, di consumi, di lavoro rettamente remunerato, le società imbestialiscono pur di farsi vedere, sentire, temere.
Le due forze (speculatori e agenzie di rating; ammutinati delle periferie urbane abbandonate) hanno istinti simili, di branco che s´avventa. Tra i due caos nessun mediatore ma, appunto, l´immagine tradita di Magritte. Il luogo della politica è deserto, afono. Un magistrato esperto di criminalità urbana, Michel Marrus, scrive su Le Monde del 21 agosto che le sommosse inglesi o francesi potremmo vederle, in Tv, commentate con le parole del crac finanziario. Stessa terminologia, stesso registro di distruzione, sfascio, guerra: «gli spiriti si abituano a uno stato permanente di sommossa». Stessa propensione all´illegalità infine, anche se gli Stati combattono l´una e non l´altra. Le agenzie di rating agiscono torbidamente, e impunemente. Non dimentichiamo che la crisi è cominciata con un loro reato: furono loro a regalare ottimi voti (la famosa «tripla A») a titoli tossici che contenevano crediti non esigibili.
L´economista Michael Hudson spiega bene, in un articolo sul sito Counterpunch, la loro degenerazione delinquenziale: da quando non sono più pagate dai risparmiatori-investitori, ma dagli Stati, le imprese, le banche che emettono titoli di debito, le agenzie hanno favorito chi le finanziava. Quando giudicano i debiti sovrani, la ricetta del risanamento è sempre la stessa e in linea con gli interessi delle banche creditrici: distruggere il contratto sociale e privatizzare i servizi pubblici a prezzi stracciati. William Harrington, ex presidente di Moody´s, ha testimoniato nei giorni scorsi davanti alla Consob americana (Sec) l´esistenza di gravi conflitti d´interesse: sistematicamente, Moody´s promuove compagnie e banche da cui è finanziata.
I politici italiani non sono i soli, a fuggire il linguaggio della verità. Fuggono i governanti tedeschi, quando nascondono al popolo i costi di una bancarotta del Sud Europa. Fugge l´America di Obama, quando finge una leadership globale che non ha più. S´inginocchiano tutte le democrazie a una sommossa permanente che è repressa, dunque non regolata, quando viene dalla società. Che è subita quando la scatenano i mercati. Hans Tietmeyer, ex governatore della Banca centrale tedesca, disse nel 1998 che accanto al plebiscito delle urne esiste il «permanente plebiscito dei mercati mondiali». Esiste ormai anche il plebiscito dei tumulti urbani, e anche qui la politica risponde autodecapitandosi. Le sommosse sono «pura criminalità», afferma David Cameron: la colpa è dei genitori, della caduta dei valori, delle psicologie. Mai dello Stato, che può replicare togliendo sussidi alle famiglie disastrate dei riottosi, censurando Internet, chiedendo ai giudici pene non commisurate ai reati. Neanche un attimo la politica è sfiorata dal dubbio che i giovani delle sommosse siano figli dei suoi errori, della sua latitanza.
Fra pochi giorni celebreremo il decimo anniversario dell´11 settembre, e scopriremo che siamo tuttora impelagati nei luoghi comuni di allora. Si parlerà ancora una volta di atti nichilisti, credendo di svelare le vere radici del male. Nulla è svelato, invece. Si descrive la modalità dei tumulti, non la loro radice. Dire che le rivolte sono nichiliste è una tautologia: è come dire che la politica muore perché è morta. Andare alle radici significa, per la politica, ripensare le proprie responsabilità, non indulgere a discorsi psicologici sui valori decaduti. Significa guardare le sommosse urbane e dire a se stessi, con il coraggio che ebbe Rossana Rossanda nel ´78 di fronte ai terroristi: «Sembra di sfogliare il nostro album di famiglia». In Italia significa fare i conti con la cultura dell´illegalità, del bene pubblico depredato. Non ne siamo ancora capaci, in piena crisi. Il solo contratto sociale considerato sacrosanto, in questi giorni, è quello con il mondo del crimine. Non si vogliono colpire gli evasori fiscali, cui Berlusconi e Tremonti permisero, nel 2009, un rientro del denaro rubato a costi irrisori, inimmaginabili in altri paesi occidentali. E il contratto con il contribuente onesto, con il giovane in cerca di lavoro, con l´elettore cui fu promessa una rivoluzione del merito? Non c´è da stupirsi per le sommosse. C´è da stupirsi che durino solo sei notti.
I politici sono frenetici in queste settimane. Soprattutto in Italia, corrono pazzamente qua e là. Ma attenzione: si muovono inamovibilmente, come nei sogni. Come quando la Regina Rossa dice ad Alice: nel mondo oltre lo specchio puoi correre a precipizio, senza che nulla cambi: «Qui ti tocca correre più forte che puoi, per restare nello stesso posto».
Il governo continua a fornire un’immagine di approssimazione e incertezza che lascia increduli. La pesantissima manovra correttiva è rimasta in pochi giorni senza padri. Ma al tempo stesso le numerose e contraddittorie ipotesi di modifica, elaborate all’interno della stessa maggioranza, si sono giustapposte senza trovare sintesi. vra si sposti ora sulla previdenza, senza che le ricchezze vere facciano la loro parte. Anzi, il risultato dello scontro politico crescente tra Pdl e Lega sembra essere quello della paralisi. Ormai non sono più l’equità dei sacrifici, l’interesse generale, l’esigenza della crescita la misura del confronto politico nel governo, semmai la (presunta) tutela delle categorie di riferimento e il posizionamento dei vari attori nella partita del dopo-Berlusconi.
L’Italia è malata. La crisi è globale. I sacrifici sono necessari. Chiunque abbia a cuore il destino del Paese, e noi siamo tra questi, non può non sentire un forte senso di responsabilità verso il bene comune. Ma c’è una barriera che il governo sta presidiando per impedire da un lato la convergenza tra le forze politiche e dall’altro la coesione tra le forze rappresentative delle autonomie sociali. In questo frangente è il delitto maggiore, che va persino oltre l’ostinazione di Berlusconi a resistere nel bunker di Palazzo Chigi nonostante il suo esecutivo sia da tempo inerte e abbia perso all’estero la credibilità residua.
Si possono chiamare le forze nazionali a una collaborazione, ma ci sono condizioni minime da rispettare. Non è possibile che le correzioni della manovra, ipotizzate nel governo, non intervengano sui principali fattori di iniquità. Non è possibile che la (presunta) tutela del blocco sociale del centrodestra prevarichi altri corposi interessi, compreso l’interesse nazionale alla crescita. Come si può pensare a un confronto costruttivo con le opposizioni se dai sacrifici restano fuori i grandi patrimoni immobiliari, se la lotta all’evasione non diventa la priorità delle priorità, se le speculazioni finanziarie vengono risparmiate, se ci si preoccupa della “parola data” dallo Stato solo per garantire i capitali scudati?
Non è questione di scambio politico. È un problema gigantesco di giustizia sociale. Se la comunità deve pagare un prezzo alto, è doveroso che si scomodi innanzitutto chi ha di più. E la misura delle ricchezze nel nostro Paese non è certo data dalla classifica delle dichiarazioni Irpef, che riguarda semmai il lavoro dipendente e chi già paga le tasse. Peraltro, qualunque studente di economia sa che in una fase di stagnazione i prelievi sulle ricchezze immobiliari e finanziarie producono effetti assai meno depressivi che non le tasse sul lavoro o sull’Iva. Ma il governo non vuole. O meglio, è talmente paralizzato da dare l’impressione che non possa. La tassa bis sui capitali scudati impedirebbe condoni futuri? Bene, avremmo preso due piccioni con una fava. Il sospetto piuttosto è che il governo si tenga aperta la strada di nuovi condoni.
Invece l’Italia ha bisogno di riforme strutturali. Servono le liberalizzazioni, ma non la svendita delle maggiori aziende pubbliche (come ha giustamente sottolineato Romano Prodi). Serve una riforma della Pubblica amministrazione che non può essere surrogata dall’intervento sui piccoli Comuni. Si può anche discutere di pensioni, rendendo flessibile la soglia di uscita, ma non si può pretendere che il carico della mano Senza queste condizioni, che il governo non sembra in grado di garantire, il compito prevalente delle opposizioni è allora quello di rappresentare e costruire un’alternativa. Non è un ruolo meno patriottico. Il senso di responsabilità nazionale può condurre in alcune circostanze a scelte coraggiose e incomprese da parte del proprio elettorato. È accaduto in altri momenti della storia italiana. Ma ora, a fronte della chiusura di una maggioranza che non riesce più a dominare le spinte centrifughe nel Pdl e nella Lega, è decisivo che trovino voce e rappresentanza quanti vogliono cambiare e lottare per ottenere maggiore equità. Sarebbe assurdo per le opposizioni farsi stritolare nella tenaglia, proprio mentre la destra cavalca l’onda dell’antipolitica (supportata da terzisti alla Montezemolo e persino da pezzi di sinistra), sostenendo che «tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera».
Anche lo sciopero generale indetto ieri dalla Cgil è una reazione al quadro ingessato e alla reiterazione di un’ideologia della divisione sociale, che si è spinta fino a modificare per decreto il recente patto sulla contrattazione. Non mancheranno le discussioni, anche nel centrosinistra, sull’opportunità di questa scelta. Ma a rompere il patto sociale è stato il governo. Quelle norme sul lavoro e la contrattazione devono essere stralciate dal decreto e rimesse all’autonomia delle parti. In fondo è questo un principio che dovrebbe appartenere ad altri sindacati non meno che alla Cgil.
Fuori dal tunnel dell'eterna urgenza
di Mauro Ravarino
Al forum organizzato dal movimento No Tav, le cifre e i danni incombenti di progetti «non strategici»
È indifferente al contesto, spreca il denaro pubblico, non esprime le necessità di una comunità ma solo le esigenze del potere economico. Indovinare di cosa si tratta è più semplice di quanto si pensi. La risposta è: grande opera «inutile e dannosa». A chiarire il concetto ci ha pensato il meteorologo Luca Mercalli, al primo giorno, venerdì, del Forum interamente dedicato al tema, che si sta svolgendo in Val di Susa. «Opere come il Tav - ha spiegato - dovrebbero essere sottoposte, prima di ogni decisione, a critiche rigorose. Invece si dice, manu militari, che bisogna dare la parola alle ruspe perché è necessaria. Se è necessaria, dimostratelo con le cifre».
E numeri significativi li ha snocciolati ieri, nella seconda giornata, Dario Balotta, presidente dell'Onlit (Osservatorio liberalizzazioni infrastrutture e trasporti) presentando i dati di Cargo Fs, che dimostrano il «crollo del trasporto merci ferroviario» in Italia: 8 mila carri merci e 256 locomotive in meno dal 2008 al 2009. «Pessime performance gestionali»: 7% la quota di trasporto su ferro in Italia rispetto al 12% europeo (Francia al 14 e Svizzera al 64). «Prima di ponti e trafori avremmo bisogno di arrivare agli standard europei». È calato del 72% (dal 2000 al 2009) il traffico merci verso la Francia, -42% quello passeggeri (+16% verso la Svizzera). «Si tratta, quindi, di una direttrice non strategica come vogliono far credere i promotori della Torino-Lione. La vera urgenza - ha sottolineato - non è raddoppiare il tunnel del Frejus, ma adeguare e rilanciare la rete esistente per accogliere le migliaia di tir che arriveranno in treno dal Nord Europa nel 2016 con l'apertura del nuovo tunnel del Gottardo e far proseguire ai container il viaggio su ferrovia anziché su strada come avviene oggi».
Nella mattinata, a Liceo di Bussoleno, si sono alternati comitati italiani ed europei che lottano contro grandi opere ritenute inutili, dalla Germania alla Francia, dalla Spagna all'Abruzzo e alle Marche. Mega-gasdotti, stazioni interrate, aeroporti faraonici, linee d'alta velocità. Non un'opposizione tout-court, ma motivata da analisi e studi. Nel pomeriggio si è svolta una lunga tavola rotonda. Per Domenico Finiguerra, sindaco Cassinetta di Lugagnano fondatore del movimento stop al consumo di territorio, bisognerebbe contrapporre «a poche grandi e dannose opere una miriade di piccole opere utili per risanare il dissesto idrogeologico», ancor di più in questa fase di crisi economica: «Se crolla il tetto del tuo garage, non ti compri una Ferrari, ti sistemi il tetto e ti tieni la Punto. Chi propone opere come il Tav si autoproclama moderato e ci taccia come sovversivi. Estremisti sono, invece, loro che non hanno coraggio di mettere in discussione un modello di sviluppo non più sostenibile». Il mito della crescita infinita ha fallito: «Ogni anno, in Italia, vengono coperti dalla 'crosta repellente di cemento e asfalto', come la definiva Antonio Cederna, 500 chilometri quadrati di suolo, 62,5 metri quadrati al minuto».
È, poi, intervenuto Sergio Ulgiati, docente di Scienze ambientali a Napoli: «È fondamentale capire se l'impatto ambientale e i costi energetici e sociali sono accettabili se paragonati ai benefici e, pure, chi paga i costi (anche quelli occulti) e chi gode dei benefici. Le comunità che vogliono 'controllare il conto' non stanno difendendo il loro giardino ma i diritti e lo stile di vita di popolazioni lontane colpite da uno sviluppo di cui non godranno mai i benefici». Ivan Cicconi, direttore di Itaca (Istituto per la Trasparenza degli Appalti e la Compatibilità Ambientale) ha, invece, inquadrato le caratteristiche della grande impresa post-fordista impegnata a realizzare grandi opere: «Strutturata come un'enorme ragnatela, è orientata solo al mercato e ormai priva di innovazione tecnologica. Scarica la competizione verso il basso alimentando il lavoro nero. L'unico prodotto che può consentire a questo modello di impresa virtuale di massimizzare i profitti è la grande opera che ha un valore solo per il presente, prescinde dal passato e dal futuro». Oggi, a Bussoleno, ancora dibattito (con Gianni Vattimo, Alessandra Algostino ed Elena Camino) e l'assemblea finale.
«Noi non siamo in debito, non faremo ancora sacrifici»
di Francesco Piccioni
Non è ancora settembre, ma la mobilitazione contro la manovra è già in moto. Sciopero generale (sia della Cgil che dei sindacati di base) e movimenti che intendono «generalizzare» la protesta anche al di là del mondo del lavoro. Paolo Di Vetta, di «Roma bene comune» illustra scadenze e piattaforma.
Subito in attività?
Beh, andiamo un po' di corsa, ma la situazione ha subito una forte accelerazione. Già domani ci vediamo, perché c'è la giornata del 6 settembre (lo sciopero, ndr) da preparare. E anche l'appuntamento del 10, che inizialmente doveva essere una grande riunione di delegati di varie situzioni nazionali assume connotati un po' diversi.
Ci sono già idee in campo?
Quella di rimanere in piazza, il 6, se la sera ci sarà ancora la discussione in Parlamento sulla manovra. Eventualmente anche l'assemblea del 10, prevista nel deposito occupato di S. Paolo, diventerebbe un incontro fatto in piazza. Un'occasione per guardare alla giornata del 15 ottobre.
Di cosa si tratta?
Una giornata europea di mobilitazione contro l'austherity, le banche, l'Europa, proposta dai giovani spagnoli; se n'era cominciato a parlare a Genova, negli «Stati generali della precarietà». Quelli di Barcellona hanno promosso un'assemblea di tre giorni - 11,12, e 13 settembre - proprio per preparare la giornata europea, L'idea è di lanciare un appello, già domani, per cominciare a praticare questo percorso, fino a una manifestazione nazionale a Roma.
Soggetti promotori e settori sociali?
La proposta è stata raccolta da tantissimi. Delegati sindacali, di base ma non solo; (ci saranno anche esponenti Fiom e pezzi di Cgil che non condividono l'accordo del 28 giugno (il «patto sociale», ndr), delegati autoconvocati senza tessera. E poi i territori, dai No Tav ai No Ponte, Terzigno, i movimento di lotta per la casa (Firenze, Bologna, Roma, ecc). Dal Cantiere di Milano a Atenei in rivolta, No Expo, ecc. Ci aspettiamo almeno 6-700 delegati.
Come si lotta contro questa manovra?
Noi diciamo due cose: noi non siamo in debito, semmai in credito. Inutile quindi che ci parlino di coesione, di «stare tutti sulla stessa barca», di «essere responsabili». In questo senso, parliamo da «irresponsabili»: la crisi non è colpa nostra e quindi non possono chiederci altri sacrifici, in uno spirito da difesa nazionale. La seconda è che non ci interessa sottostare alla logica dei «saldi finali», come se non fosse importante chi è che paga. Anzi, secondo noi il debito non andrebbe ripagato. Magari facendo come in Islanda, dove sono stati spiccati mandati di cattura per i dirigenti delle banche che speculando avevano fatto fallire il paese. Per questo è fondamentale creare uno spazio indipendente di mobilitazione,
Sapete anche voi che per far fallire una «manovra», ossia un governo, serve una mobilitazione sociale notevole. Ben al di là di un «soggetto indipendente»...
Mi sembra che ci siano tutte le condizioni per allargare lo spazio sociale. La questione dell'«indipendenza» non attiene a un mondo specifico o «separato», ma è legata tutta alla piattaforma di lotta. Se unconiamo un mondo largo, che costruisce il percorso vero il 15 ottobre e che dice «noi il debito non lo paghiamo», invece di dire solo «lo devono pagare i ricchi», è una cosa interesante. Se sull'accordo del 28 giugno in tanti diciamo che non va riconosciuto e rispettato; se il sindalismo conflittuale si allarga... questo intendiamo per «indipendente». Anche le «incomprensioni» tra la Cgil e il Pd ci sembrano significative. E trovo atroce e irresponsabile che sia stato utilizzato Boccuzzi (l'unico sopravvissuto nel rogo della Thyssen, oggi deputato Pd, ndr) per aprire una polemica nei confronti del sindacato.
Una mappa di vere mostruosità
e grandi cattedrali nel deserto
di M. R.
Se si nascondesse il nome di ogni grande opera e si provasse a comparare il modello persuasivo utilizzato per convincere le popolazioni degli ipotetici benefici e anche le contestazioni, sarebbe difficile riconoscere di quale progetto si tratta. Linee d'alta velocità o gasdotti? Poco cambia. Al Forum tematico contro le grandi opere inutili, che si sta svolgendo tra Bussoleno e Venaus (organizzato dal movimento No Tav e patrocinato dal comune di Venaus e dalla comunità montana), è emersa una mappa sotterranea di «opere mostro» che mangiano suolo, sprecano denaro pubblico e non rispondono a nessuna domanda reale. Negli interventi dei tanti comitati presenti sembra di sentire un'unica storia. Prima un progetto faraonico e una propaganda astuta ma completamente indifferente ai dati scientifici. Poi, un'opposizione vivace ma non sempre così ampia come nella mobilitazione in Valsusa. E, ancora, una repressione sistematica e una distorsione informativa da parte dei media mainstream. Non solo in Italia, ma anche in Francia, Germania e Spagna.
Unendo i punti sulla cartina, si va da Stoccarda alla regione della Loira, da Barcellona a Brindisi passando per Sulmona, arrivando a Bologna e al Piemonte (aggiungendo il ponte sullo stretto di Messina si avrebbe un primo quadro della situazione). Stuttgart 21 è il progetto della nuova stazione ferroviaria dell'altavelocità nel cuore sotterraneo di Stoccarda. «Imposta anche con la violenza e contro il volere delle popolazione» ripete il movimento che si oppone all'opera. Cade (Collettivo di Associazioni in Difesa dell'Ambiente) è il movimento No Tav dei paesi baschi francesi cofirmatario della Carta di Hedaye, un vero e proprio manifesto di lotta a livello europeo contro la Tav, dove la Valsusa fa scuola di lotta. A Notre-Dame-des-Landes la popolazione si batte, invece, da tempo contro la costruzione di un mega aeroporto: «Un progetto - denunciano - vecchio di 40 anni e in grado di divorare 2000 ettari di terreni agricoli». A Barcellona è quasi completata la galleria della linea ferroviaria ad alta velocità contro cui hanno lottato diverse associazione.
Arrivando in Italia, ecco il mega-gasdotto di 700 chilometri della Snam da Brindisi Minerbio. I No Tubo si battono contro la costruzione di questa devastante grande opera sulla dorsale appenninica: «Il percorso peggiore. Alle porte de L'Aquila, in un territorio fragilissimo dal punto di vista sismico». E, ancora, a Firenze la lotta contro il sotto-attraversamento della città con stazione e binari della Tav interrati: «Inutile e costosissimo». Consentirà l'altavelocità? «Nemmeno, le curve a 90 gradi permetteranno una velocità massima di 70 chilometri orari». Infine, la tangenziale ovest di Asti e quella Est di Torino (scollegata con la città): due cattedrali nel deserto. Mega progetti figli di nessuna programmazione. Tornando alla mobilitazione sul campo, è notizia di ieri che Giorgio, 33 anni esponente dell'Acrobax di Roma è ora agli arresti domiciliari. Lo ha deciso il gip di Torino, Federica Bompieri. Era stato arrestato durante gli scontri con le forze dell'ordine intorno al cantiere della Maddalena di Chiomonte.
Nonostante gli sforzi di Merkel e Sarkozy per apparire due veri statisti, o l'impegno di Obama per apparire un presidente capace di tenere tutto sotto controllo, le opinioni pubbliche occidentali si rendono sempre più conto che in realtà, oggi, nessuno dei propri governanti tiene sotto controllo un bel nulla. E tanto meno riesce a immaginare una qualche via d'uscita da una crisi che ormai sembra avviarsi ad essere di sistema. Proprio nel momento peggiore della sua storia postbellica l'Occidente, insomma, scopre di essere nelle mani di leader privi di temperamento, di coraggio e soprattutto di visione.
Non è un caso. Il deterioramento qualitativo delle classi politiche, infatti, è innanzi tutto un prodotto inevitabile di quella «democrazia della spesa» vigente da tempo nei nostri Paesi, in forza della quale governare significa in pratica solo spendere, e poi ancora spendere, per cercare di soddisfare quanti più elettori possibile (e quindi tassare e indebitarsi: con relative catastrofi finanziarie). Quando le cose stanno così, per governare basta disporre di risorse adeguate, non importa reperite come, o prometterne. L'esercizio del potere si spoglia di qualunque necessità di conoscere, di capire, di progettare, e soprattutto di scegliere e di decidere. Non solo, ma il denaro diviene a tal punto intrinseco alla politica che esso finisce per apparirne il vero e ultimo scopo: a chi l'elargisce come a chi lo chiede o lo riceve. Con la conseguenza, tra l'altro, che dove il denaro è tutto, inevitabilmente la corruzione s'infila dappertutto. La «democrazia della spesa», insomma, è un meccanismo che, oltre a svilire progressivamente la sostanza e l'immagine della politica, contribuisce a selezionare le classi politiche al contrario, non premiando mai i migliori (per esempio quelli che pensano all'interesse generale).
Lo stesso effetto lo ha la personalizzazione mediatica, specie televisiva, ormai centrale per ogni carriera politica in tutta l'area euro-americana. Da che mondo è mondo, la personalità in politica ha sempre contato moltissimo. Giustamente. Ma quando la valutazione di essa è fatta in gran parte attraverso le apparizioni televisive (in Italia per giunta della durata media di 45-90 secondi), allora è ovvio che a contare siano specialmente l'aspetto, la «simpatia», lo scilinguagnolo, l'abilità nello scansare gli argomenti scomodi. Caratteristiche che però, come si capisce, non sono proprio quelle più significative se si vogliono selezionare dei leader capaci di guidare un Paese nei momenti difficili.
Ad aggravare gli effetti di questa personalizzazione mediatica dei capi si aggiunge paradossalmente, quasi a fare da contrappeso apparente, la progressiva spersonalizzazione, invece, delle loro decisioni: specie di quelle davvero cruciali. Cioè la virtuale deresponsabilizzazione degli stessi capi. Dal momento, infatti, che i problemi hanno sempre di più un carattere mondiale o a dir poco regionale, che la globalizzazione impone le sue regole irrevocabili, l'ambito nazionale diventa secondario.
Quelle che davvero contano in modo vincolante sono sempre di più le decisioni prese da qualche vertice o da qualche istituzione internazionale, più o meno lontani e indifferenti rispetto all'arena politica domestica. Decisioni che così finiscono per essere figlie di nessuno e un comodo alibi per tutti. Come possono formarsi in questo modo vere élites politiche? Veri, autorevoli, capi politici?
Per i paesi di medio livello come l'Italia la cosa è clamorosamente evidente. Basti pensare che per ben due volte negli ultimi anni ci siamo trovati addirittura impegnati in operazioni militari di grande rilievo politico — contro la Jugoslavia prima, e adesso contro la Libia — di fatto solo perché altri avevano preso per noi la decisione relativa e noi non potevamo dispiacergli.
Già, la guerra; e dunque la politica estera di cui la guerra un tempo rappresentava l'apice. Non è politicamente corretto ciò che sto per dire, lo so. Ma certo è difficile pensare che la virtuale scomparsa dall'esperienza europea di questi due ambiti decisivi di ciò che fino a qualche decennio fa è stata la politica — i due ambiti cruciali in cui fino a ieri i capi politici potevano essere chiamati a dare prova di sé, ad essere preparati a dare prova di sé — non abbia avuto la sua parte nel rendere sempre più scadente la qualità delle classi politiche del Vecchio continente. È solo un caso, mi chiedo, se i tre principali leader di paesi democratici nell'Europa della post-ricostruzione — De Gaulle, la signora Thatcher e Helmut Kohl — abbiano legato tutti e tre il proprio nome a grandi decisioni di politica estera e/o di tipo bellico (l'Algeria e l'armamento atomico, la guerra delle Falkland, l'unificazione tedesca)? Forse no, direi, non è proprio un caso.
Solo una domanda agli economisti di tutte le scuole di pensiero: come si fa ad uscire dalla economia debitoria (finanziarizzazione dell'economia) senza uscire anche dall'economia della crescita?
Mi spiego. Almeno che non si creda veramente che «la più grande crisi dal '29» - come è stata definita quella che viviamo - sia il capriccio di entità metafisiche che per placarsi pretendono sacrifici umani e senza credere nemmeno che essa sia (solo) il portato di comportamenti criminali di un manipolo di speculatori, le sue cause strutturali, sistemiche sono da individuare in una crescita smisurata del ricorso a vari tipi di indebitamento: finanziario (derivati, obbligazioni, titoli azionari mobilitati per un valore totale otto volte superiore al Pil reale), monetario (il denaro emesso è 12 volte il Pil mondiale), pubblico (sia quello contratto dai vari stati con altri stati, sia quello verso i propri cittadini-risparmiatori), privato (crediti al consumo, carte di credito...). Ma i debiti hanno un difetto: creano i creditori che, presto o tardi, chiedono di essere onorati, rimborsati. Se lo fanno si aprono le crisi di insolvenza ad effetto domino; si inizia con i default di istituti di credito immobiliari, banche, assicurazioni, fondi pensionistici e si finisce col minare la credibilità e la fiducia verso le istituzioni statali garanti dell'ordine sociale, oltre che dei titoli di credito.
Fin qui tutti d'accordo. Ma a cosa sono servite queste montagne di debiti accumulati e perché la governance globale non si azzarda a interromperne il flusso?
Una interpretazione che va per la maggiore a sinistra è che il capitalismo finanziario sia una invenzione di George Soros e dei suoi pari approfittatori e parassiti che hanno affossato il buon vecchio capitalismo produttivo di un tempo (i "Trenta Gloriosi"), manageriale e operaio (del compromesso politico socialdemocratico tra capitale e lavoro). In realtà la speculazione è un sintomo di una malattia che, oltre a costituire un problema morale, è politica e strutturale.
I debiti nelle economie industriali mature, a partire dagli Stati Uniti (il più grande debitore al mondo) hanno cominciato a crescere già a cavallo tra i '70 e gli '80. L'immissione di crediti si è resa necessaria perché si erano inceppati i normali meccanismi di profitto-accumulazione-investimenti-riproduzione fino ad allora garantiti dai tradizionali cicli economici produttivi industriali. In altre parole, i debiti sono serviti a mantenere artificialmente elevata la redditività dei capitali investiti. O, se si preferisce, per compensare la scarsa profittabilità del capitale industriale. I debiti, infatti, vengono giustificano per stimolare gli investimenti, favorire gli acquisti e i consumi, dare un punto di appoggio (la famosa leva) alla crescita economica, far circolare denaro. Un po' di doping a fin di bene, poiché al fondo vi è la necessità costitutiva del capitalismo di promuovere in continuazione enormi investimenti tecnologici, organizzativi, di concentrazione e di scala... per mantenere alta la competitività sui mercati globalizzati: la produttività per unità di lavoro è infatti schizzata alle stelle, ma il Pil non ha seguito il trend e l'occupazione (in Occidente) è arrancata. La megamacchina termo-industriale ha drenato tutto ciò che poteva: lavoro sempre più a basso costo (delocalizzazioni, precariato, femminilizzazione al ribasso del mercato del lavoro, ecc.), risorse naturali saccheggiate, beni comuni espropriati e privatizzati (dal genoma umano al Partenone). Tutto è stato messo al lavoro e a valore, fagocitato e incorporato nei rapporti sociali mercantili, ma nemmeno queste enormi immissioni di "opportunità produttive" sono bastate a soddisfare la domanda di denaro necessario per realizzare nuovi investimenti, creare nuovi mercati, vendere e comprare nuove merci. L'idrovora dell'espansione, dello sviluppo, della crescita è insaziabile. Pretende più denaro di quanto non riesca a realizzarne e a distribuirne. Si crea così uno scompenso che la finanza, con i suoi infiniti ritrovati, si è incaricata di coprire. L'imperativo di dover vendere sempre di più e a più buon mercato, in una competizione selvaggia e globale, costringe i manager ad uno sforzo espansivo costante, ad investire sempre di più non solo in macchinari, ma in marketing, quindi a ricorrere massicciamente al mercato finanziario per garantirsi i necessari flussi di denaro.
Ammettiamo ora che per uscire dalla spirale perversa del debito e delle ricorrenti crisi di riassestamento bastino le ricette auspicate dai più seri osservatori economici: diminuire i tassi di rendimento (Return on Equity) attesi dai possessori di titoli di credito sui capitali investiti dal 20% e oltre, oggi garantiti dalle speculazioni finanziarie, ad un 4% normalmente giudicato più che equo per dei profitti industriali (si pensi che la media dei profitti realizzati dalle imprese Usa negli ultimi 25 anni è stata appena del 2%); regolazione e tassazione delle transazioni finanziarie a breve per dilazionare nel tempo le rendite; riconoscimento dei costi monetari delle "esternalità negative" ambientali e sociali (standard di sostenibilità e clausole sul rispetto dei diritti umani).
Già questi provvedimenti comporterebbero un rallentamento dei ritmi produttivi e le quantità delle merci e quindi del "lavoro necessario" alla riproduzione dei cicli economici.
In definitiva l'auspicata de-finanziarizzazione dell'economia si può ottenere solo imboccando scientemente la via della decrescita - se si preferisce, si può dire anche: rendere la crescita non necessaria al benessere - che non è solo la inevitabile diminuzione dei flussi di materia e di energia impegnati nei cicli produttivi e di consumo (nelle varie forme di green e blue economy) a fronte della progressiva rarefazione delle materie prime, ma anche la riduzione e ridistribuzione del lavoro necessario alla produzione del reddito e minor ricorso al denaro rendendo usufruibili beni comuni e relazionali.
Esattamente il contrario di quanto fanno le manovre economiche messe in atto dai vari governi, ispirate dalle istituzioni finanziarie. Insomma, diminuendo il peso e la sfera di influenza dell'economia di mercato sulla vita della gente. L'intensificarsi delle crisi (non solo finanziarie) rende sempre più stringente il dilemma: continuare ad inseguire il benessere attraverso la crescita dei beni e dei servizi immessi sul mercato, sapendo che i costi ambientali e sociali per la gran parte delle popolazioni della terra superano di gran lunga i benefici, oppure cambiare rotta usando strumenti di riferimento diversi dal Pil e piloti diversi dalla Bce.
A leggere i giornali più vicini a Confindustria e alle banche si nota una crescente insofferenza per «la politica». In quanto tale, senza personalizzazioni particolari. Da Obama in giù, passando per i Sarkozy e le Merkel, fino ai Bossi et similia.Una breve serie di citazioni può aiutare a cogliere il clima culturale che viene veicolato e a tematizzare il nocciolo duro – l'ideologia, diciamo pure – che supporta un ordine discorsivo influente, se non altro perché espressione diretta del «mondo dell'impresa».
Scrive Riccardo Sorrentino su Il Sole 24 Ore: «Non c'è nulla che possa spaventare di più gli investitori – e non solo... – che vedere le proprie sorti affidate a politici maldestri: quelli occidentali, ma anche quelli dei Paesi emergenti, ’responsabili’ dell'80% della crescita globale». Insomma, par di capire, a livello globale mancano del tutto i politici ben-destri, quelli capaci di realizzare la lunga liste di «riforme strutturali» che lo stesso Sorrentino riassume in «occorrerebbe intervenire sui mercati dei prodotti e dei servizi, sui brevetti (che creano monopoli prolungati e frenano l'innovazione), istituire politiche che favoriscano, e non solo permettano, la concorrenza». Per onestà, bisogna notare che dice anche «molta enfasi è data alla liberalizzazione del mercato del lavoro che, se lasciata sola, non è solo insufficiente ma – l'esperienza italiana è emblematica – può creare effetti negativi». Se il suo giornale non benedicesse da anni ogni pensata di Maurizio Sacconi forse (noi lavoratori italiani) ci saremmo evitati almeno una parte degli «effetti negativi» e dell'impoverimento. Ma a suo merito va aggiunto che per lui sarebbe necessario anche «ristrutturare davvero i sistemi finanziari», ammettendo che «ma questo gli investitori non lo chiedono», senza approfondire oltre.
E invece proprio qui si annida il dettaglio del diavolo: si chiede «alla politica» di rinunciare di fatto al «condizionamento dell'elettorato» (al principio fondante della democrazia, attenzione), ma si ritiene impossibile chiedere «agli investitori » (banche, fondi di ogni genere, assicurazioni, ecc) di accettare un'autentica «ristrutturazione » o regolamentazione del sistema finanziario. Gli interessi dei «banali elettori» e quelli dei «beati investitori» sarebbero dunque non solo in conflitto,ma anche di qualità diversa; in fondo i primi sono sacrificabili alla bisogna, i secondi no. Per Sorrentino, insomma, «dietro l'attuale incomunicabilità tra politica ed economia c'è anche un ormai antico scontro tra due culture diverse, che basterebbe a creare una crisi di fiducia e credibilità». E non c'è bisogno di chiedere quale delle due culture dovrebbe avere il predominio assoluto...
Il discorso è esplicito in Alessandro Plateroti – sempre sul Sole – «Ormai è chiaro a tutti che ci muoviamo in uno scenario in cui la globalizzazione impedisce misure unilaterali, ma interessi divergenti condannano alla paralisi». Servirebbe una utopica «unità politica» a livello mondiale, purtroppo impossibile perché condizionata da interessi nazionali divergenti e dalle preoccupazioni elettorali dei diversi leader. E infatti «Ciò che fa paura è la distanza che cresce tra ciò che chiedono i mercati e ciò che la politica è in grado di dargli. La 'pretesa' dei mercati, in ultima analisi, è che le vecchie e le nuove potenze industriali e finanziarie si assumano la responsabilità di definire una nuova leadership mondiale, ma in un mondo multipolare». Problemino non da poco, se si può dire. Specie se si ha memoria storica: ogni passaggio di leadership globale è avvenuto attraverso processi non proprio pacifici, anche prima del «terribile» Novecento.
Ma non è una sua personale convinzione. Anche per Carlo Bastasin – stesso giornale – dev'esserci una «linea», «l'incertezza delle leadership è infatti un fenomeno che condividono Usa ed Europa. Forse non è una pura coincidenza che sia Washington, sia Berlino, sia Parigi siano a un anno dalle prossime elezioni». Se non si votasse, certo, quante cose «impopolari ma utili» si potrebbero fare...
Riassumendo, la questione è: con quali meccanismi si può «decidere» la soluzione dei problemi posti dalla crisi se quelli della democrazia – confronto, costruzione di un interesse medio prevalente accettabile per la maggioranza, condivisione, ecc – non risultano più «efficaci» e, quindi, desiderabili?
Anti-manovra/
SBILANCIAMOCI: 60 miliardi molto bilanciati
30 per la riduzione del debito, 30 per il rilancio dell'economia al lavoro
di Giulio Marcon
Perché investire nella green economy, nelle piccole opere pubbliche, nella ricerca e innovazione
La manovra varata dal governo Berlusconi è disperata, iniqua e senza futuro. Questo provvedimento, come i precedenti, non affronta in modo strutturale il problema del debito e non mette in campo misure significative per il rilancio dell'economia. Il problema principale è proprio questo: si affronta la crisi solo sul fronte dei tagli della spesa pubblica (prevalentemente la spesa sociale), mentre non vi è una misura credibile capace di rilanciare l'economia. Anzi, questa manovra, come la precedente, ha un impatto depressivo e recessivo: comprime la domanda interna, i consumi, i salari e con essi la produzione.
A questi due elementi negativi - l'estemporaneità dei tagli e l'assenza di misure per il rilancio dell'economia - si aggiunge il forte carattere iniquo della manovra a danno dei lavoratori (in particolare i dipendenti pubblici) i pensionati ed in generale i cittadini: il taglio, pesantissimo, ai trasferimenti agli enti locali e alle regioni si tradurrà in minori servizi ed in maggiori tributi. Ancora una volta non vi sono significative misure contro l'evasione fiscale e i grandi patrimoni. Il «contributo di solidarietà» sui redditi Irpef più alti è solo una misura estemporanea e parziale e che evita da una parte una vera riforma in senso progressivo dell'Irpef (anche a favore delle aliquote più basse) e dall'altra fornisce l'alibi per non introdurre la tassazione dei grandi patrimoni.
Lo stesso innalzamento dal 12,5% al 20% dell'imposizione fiscale sulle rendite è ancora insufficiente (sarebbe stato più equa un'imposizione al 23%) e non comprende i possessori (tra cui in gran parte le banche) dei titoli di stato.
Fino ad oggi il governo ha sbagliato praticamente tutto, diffondendo inutile ottimismo, negando la crisi, limitandosi ad interventi di facciata, aspettando inerzialmente la ripresa internazionale, non colpendo i grandi patrimoni e la finanza, salvando gli evasori fiscali, non mettendo in campo interventi strutturali per rilanciare l'economia, colpendo la dignità del lavoro ed il ruolo del sindacato, tagliando le spese sociali.
Contro il provvedimento del governo Sbilanciamoci propone una manovra di 60 miliardi, di cui 30 da destinare alla riduzione del debito e 30 da destinare al rilancio dell'economia al lavoro, alla difesa del welfare (testo integrale su www.sbilanciamoci.org).
Da una parte - sul fronte delle entrate- è necessario colpire i grandi patrimoni con una imposta ad hoc, tassare ulteriormente i capitali rientrati dall'estero grazie allo scudo fiscale, ridurre le spese militari, cancellare le grandi opere. Una tassazione dei patrimoni del 5/1000 - con una limitata franchigia per i patrimoni più bassi - porterebbe un'entrata in due anni di 21miliardi euro; una tassazione aggiuntiva del 15% sui capitali rientrati grazie allo scudo, ben 15 miliardi; ed il combinato di riduzione del 20% delle spese militari, della cancellazione del programma dei caccia F35, della fine della missione in Afghanistan e della cancellazione delle grandi opere, darebbe oltre 10 miliardi di euro.
Dall'altra - sul fronte degli interventi: almeno 30 miliardi - è necessario investire nella green economy (energie pulite, mobilità sostenibile, ecc), nelle piccole opere pubbliche (messa in sicurezza delle scuole, ferrovie locali, ecc), nella ricerca e nell'innovazione. Nello stesso tempo è necessario difendere i redditi più bassi (con detrazioni ed altri interventi fiscali, aumentando le pensioni minime), allargare lo spettro degli ammortizzatori sociali ai lavoratori parasubordinati (introducendo per i monocomittenti, misure analoghe a quelle previste per i lavoratori a tempo indeterminato), rafforzare la rete dei servizi sociali (asili nido, introduzione dei livelli essenziali di assistenza, fondo di non autosufficienza, ecc).
E' questo il cambio di rotta di cui il paese avrebbe bisogno: una politica economica diversa, un modello di sviluppo alternativo a quello delle scelte neoliberiste di questi anni capace di ridare speranza e futuro ad un paese piegato in questi anni dalla logica dei privilegi e degli interessi dei più forti. Le proposte ci sono.
Opposizione/
PD: «Noi contro l'evasione» Stangata virtuale di Bersani
Tassa una tantum sui «capitali scudati»
di Clementina Colombo
Che la manovra economica del governo fosse iniqua e depressiva, il Pd lo dice da giorni. E che il primo punto della sua contromanovra fosse la lotta all'evasione fiscale pure lo dicono da giorni Pierluigi Bersani e Rosy Bindi. A parlar male del Partito democratico ci si fa l'abitudine ma questa volta la proposta avanzata dai «triumviri» (c'è anche Stefano Fassina, responsabile economico del partito) tanto male non suona. Anzi, se venisse approvata, sgraverebbe l'Italia di un terzo della manovra.
Propone infatti il Pd di introdurre un contributo straordinario del 15% sui 105 miliardi di capitali condonati da Berlusconi, Bossi e Tremonti nel 2009 contro l'1 o il 2 per cento che il governo forse timidamente si limita a chiedere nella manovra che lunedì verrà discussa al Senato. Gli evasori sono quelli che dello scudo fiscale hanno già beneficiato e i cui nomi e cognomi le banche - chiamate a collaborare non certo per beneficenza - sarebbero tenute a dare. Tutte personcine per bene che per riportare un centinaio di miliardi in Italia, hanno pensato valesse in fondo la pena sacrificare un 5% delle loro entrate. Ma stiamo sempre al 2009 e al 2009 resta Bersani, pronto a colpire la «vecchia evasione» ma di nuovo stremato quando si tratta di attaccare la nuova evasione, quella di cui nemmeno le banche conoscono i nomi e cognomi.
Tutta da buttare la contromanovra del segreterio del Pd? No, perché tra i nomi della vecchia evasione di certo figurano anche personaggi di spicco di mafia, 'ndrangheta e camorra. Colpisce piuttosto la disparità delle due proposte. Quella del Pdl che si ferma al 2% e quella del Pd che spara al 15. Difficile pensare alla possibilità di una mediazione nonostante il governo non escluda l'ipotesi di tassare i capitali rientrati in Italia grazie allo scudo fiscale, così come proposto dal Pd. Con una percentuale di prelievo decisamente inferiore a quella avanzata dal partito di Pier Luigi Bersani.
Manfrine sulle quali Tremonti non interviene mentre scettico si dichiara il leghista sottosegretario all'Economia Alberto Giorgetti. Tassare i capitali «scudati» è tecnicamente difficile perché è difficile reperire i dati e ricostruire il percorso dei capitali in quanto - dice Giorgetti - «c'è l'anonimato». Scettico pure Tonino Di Pietro: «Tra il dire e il fare c'è di mezzo il governo Berlusconi e i tanti suoi amici "scudati". Solo quando lo faranno veramente ci crederò». Ma di percentuali Di Pietro non parla mentre il resto dell'opposizione è rapita dal sogno mai realizzato della Tobin Tax e ora cavalcato dai due governi più reazionari d'Europa. Quanto al Pd forse avrebbe potuto rinunciare ai grandi proclami e limitarsi a un programma di minima forse più praticabile. Riduzione a 1000 euro della tracciabilità dei pagamenti, descrizione dei patrimoni in dichiarazione dei redditi, saldo dei conti correnti bancari, imposta ordinaria sui valori immobiliari più elevati e stralcio degli interventi sul lavoro per rimetterli nelle mani delle parti sociali.
La crisi non trova il capitale unito. Lo dimostra la discussione di questi giorni aperta dalla provocazione del miliardario Warren Buffet sui ricchi che dovrebbero pagare più tasse. Sulla stessa posizione in Italia si è collocato Rossi di Montelera, mentre sul versante opposto c'è Murdoch e, in Italia, Berlusconi che non vuol sentir parlare di patrimoniale o tassa sulla ricchezza, ma accetta unicamente il "contributo di solidarietà". Nello spirito di Berlusconi la parola solidarietà evoca l'elemosina che i ricchi devolvono ai poveri; qualcosa di volontario e revocabile.
C'è uno scontro, all'interno, del capitalismo, non solo ideologico: tutti sono convinti della sua superiorità, ma la vivono in maniera differente e le diversità sono anche parzialmente influenzate dai settori nei quali operano i contendenti. Per Berlusconi e Murdoch il sistema produttivo è la comunicazione dove, tra l'altro, non esistono grossi problemi retributivi, ma cervelli all'ammasso. Diverso il caso per chi si confronta con il mercato, con merci che incorporano un prodotto sociale che si tende a sottrarre al lavoro. Chi riesce a farlo meglio e di più è un ottimo capitalista, ma quando tutti i capitalisti tendono a espropriare il lavoro è inevitabile che esploda la crisi per la sproporzione tra eccesso di capacità produttiva e scarsa capacità di consumo.
E' accaduto nel 2008, anche se il detonatore fu la bolla finanziaria; sta accadendo oggi perché tutte o quasi le risorse degli Stati sono state dirottate al salvataggio della finanza stessa. Ovvero alla conservazione dei rapporti di classe e non al sostegno del lavoro e dei redditi di chi è stato estromesso dal sistema produttivo. La cifra dei senza lavoro, negli Usa come in Italia, è superiore alla disoccupazione ufficiale.
In questo contesto, pur di salvare il capitalismo, c'è chi è disposto è ogni compromesso, come la Tobin Tax. L'ideologia non c'entra nulla, quel che conta è l'essere pragmatici. Ecco la patrimoniale e la Tobin Tax che da 40 anni la sinistra cerca inutilmente di riproporre e che, ora, forse, trionferà sull'asse Parigi-Berlino. Attenzione, però: dietro l'angolo di questa riscoperta "riformista" di esaltazione della produzione e di assoluta condanna della speculazione finanziaria, rischia di nascondersi una conseguenza letale per il lavoro: un capitalismo progressista che lotta contro la speculazione, che chiede ai ricchi di pagare più tasse, ma poi sottomette il lavoro che non deve discutere le scelte di investimento, ma accettare maggiore produttività e flessibilità in un sistema salariale subordinato. Un ritorno al capitalismo duro e puro non sconvolto dalla finanza.
Federico Caffè scrisse della «solitudine del riformista», del suo essere irriso perché preferiva i piccoli passi. Il riformismo e i piccoli passi nel breve periodo possono andare bene, ma a una condizione: non disturbare il manovratore.
Strano come tutti abbiano dimenticato la differenza tra due termini radicalmente diversi: “riformista” e “riformatore”. Con il primo si indicavano le piccole, e non sostanziali, modifiche del sistema (capitalistico-borghese) che ne consentivano la sopravvivenza indefinita nell’ambito del suo complesso di principi; con il termine “riformatore” si indicavano modifiche al sistema che ne preparassero la completa trasformazione in un sistema basato su principi radicalmente diversi, soprattutto mediante uno spostamento del potere, cioè il primato della politica. Entrambi i capitalismi raccontati da Galapagos restano nell’amnbito del classico “roformismo”, quindi sono incapaci di risolvere la crisi del lavoro, quella dell’ambiente, quello della democrazia e quello della sostanziale equità tra tutti i ceti, classi, popoli, etnie, generi, generazioni attuali e future.
Rigore, equità e crescita sono le tre esigenze che devono essere soddisfatte per uscire dai guai nei quali il nostro Paese ristagna da tempo. Ricordando un famoso saggio di Ralf Dahrendorf, mi sono posto questa domanda: non si tratta forse di un problema di «quadratura del cerchio», per definizione impossibile da risolvere? Un problema per cui, se due esigenze vengono soddisfatte, la terza non può esserlo? Chi pone così il problema si sbaglia. Ognuna delle tre esigenze è difficile da soddisfare, ma esse non sono contraddittorie. Anzi, la soluzione di una favorisce la soluzione delle altre.
Prima variazione: si possono avere insieme rigore ed equità, ma in questo caso non si può avere crescita. Falso. Se si dà al termine rigore il significato elementare di tenere i conti pubblici in ordine e raggiungere anno dopo anno un avanzo primario con il quale ridurre il debito, non è vero che ci sia un contrasto tra rigore e crescita. C'è contrasto solo se si concepisce l'equità come la soddisfazione di interessi consolidati e difesi da poderose corporazioni, la cui minaccia provocherebbe tensioni e proteste: in questo caso riforme strutturali profonde non si potrebbero fare e la crescita sarebbe impossibile. Ma conservare l'attuale, perverso equilibrio degli interessi — ciò che i governi hanno fatto sinora — non coincide con l'equità: non è equo mantenere diviso in due il mercato del lavoro, o difendere «diritti acquisiti» che sono in realtà posizioni di rendita, o tollerare una scandalosa evasione fiscale. Equa è una politica che consente a tutti — ricchi e poveri, giovani e vecchi, uomini e donne — una vita decente e pari opportunità. Ma questo non contrasta, anzi va insieme con la crescita.
Seconda variazione: si possono avere insieme crescita e rigore, ma non equità. Falso. È vero che il rigore e la progressiva restituzione del debito richiedono avanzi di bilancio e dunque o maggiori imposte o una minore spesa pubblica o entrambi. E di conseguenza un minor reddito reale per i cittadini. Ma non è detto che questa maggior penuria debba essere distribuita in modo iniquo o che vada a ledere gli incentivi che stimolano le imprese a produrre e a investire. Un Paese che cresce e tiene i conti in ordine non è necessariamente un Paese iniquo: la Germania e i mitici Paesi nordici, da tutti gli indicatori disponibili, sono costituiti da società più eque e da economie più dinamiche dell'Italia.
Terza variazione: crescita ed equità possono stare insieme, ma non così il rigore. Falso: non è vero che solo il lassismo fiscale e monetario consentirebbe di accomodare crescita ed equità, come pensano coloro che rimpiangono l'inflazione e le svalutazioni della Prima Repubblica.
Costoro ritengono sia stato un errore infilarci nell'euro e suggeriscono di conseguenza — seppure siano ancora pochi a sostenerlo apertamente — che dovremmo uscirne il più rapidamente possibile. Dalla loro hanno l'evidenza che l'entrata nella moneta unica ha coinciso con l'inasprimento di un regime di politica economica internazionale in cui i redditi da lavoro si sono ridotti rispetto agli altri e le condizioni lavorative notevolmente peggiorate. Ma questo peggioramento ha riguardato tutti i Paesi avanzati, sia quelli della zona euro, sia quelli con moneta propria: anzi, è stato massimo per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, Paesi che possono adottare una politica monetaria autonoma. Qualora seguissimo i suggerimenti dei lassisti nelle attuali condizioni internazionali non raggiungeremmo certo condizioni di maggiore equità, ma solo aggiungeremmo un ingestibile problema di inflazione e svalutazione a quelli che già dobbiamo affrontare ora.
Conclusione. Rigore, equità e crescita sono tre obiettivi che possono e debbono essere perseguiti insieme. La manovra appena varata soddisfa in buona misura l'esigenza di rigore ma non altrettanto quelle di equità e di crescita. La ragione non risiede in una presunta incompatibilità di questi obiettivi, ma nel colpevole ritardo e nell'affanno con il quale il governo ha affrontato una situazione di difficoltà che era nota da tempo senza aver preparato le condizioni nelle quali quegli obiettivi sarebbero stati compatibili e anzi di mutuo aiuto.
C’è stato un uso molto improprio, della lettera che la Banca centrale europea ha inviato al governo italiano, la mattina del 5 agosto, per arginare la formidabile inconsistenza del discorso tenuto da Berlusconi il giorno prima in Parlamento. Qualcuno ha deciso di far trapelare notizie sulla missiva, e volutamente ha corso il rischio di trasformare l’Italia in un paese sotto tutela, che da solo non sa e non vuole prendere decisioni impopolari.
Questo qualcuno è Palazzo Chigi, la fuga di notizie parte da qui, e anche la leggenda dell’Italia commissariata ha avuto evidentemente il suo avallo. Non tiene neanche un minuto la scusa del governo, secondo cui non spetta al destinatario ma al mittente pubblicare le lettere. Qui non si tratta di un’epistola privata, ma di un messaggio agli italiani tutti.
Non è stato dunque Trichet ma Berlusconi a trasformare il carteggio in qualcosa di torbido. Faceva parte dei suoi calcoli la natura non trasparente, dunque non discutibile, che esso ha assunto. Solo così poteva nascere la leggenda del commissariamento: dall’alto dell’Olimpo di Francoforte era sceso - perentorio, inoppugnabile, violento perché inaspettato - il responso cui toccava assoggettarsi anche se il cuore «grondava sangue». Siamo vassalli (servi, in latino), ma esser vassalli ha i suoi vantaggi: consente di scaricare ogni responsabilità sull’imperatore lontano, senza compromettersi. L’imperatore è una potenza arcana, non meno oscura dei mercati: oggi gli ubbidiamo ma domani chissà, l’arbitrio non può durare indefinitamente.
Tanto oscuro e lontano è il responso che il pronunciamento s’apparenta a mania folle, come accade agli oracoli divini. Per questo è conveniente che si sappia della lettera ma che nessuno la legga, anche se essa contiene passaggi dettagliati che riguardano ciascuno di noi. Per esempio, pare che i firmatari (Trichet e Draghi, per la Banca d’Italia) raccomandino misure che il governo per ora respinge, come l’aumento dell’Iva o la revisione profonda delle pensioni di invalidità. E che la crescita non sia affatto trascurata (sblocco consigliato di 15 miliardi di investimenti per le infrastrutture dei concessionari di opere pubbliche).
Certo, le cose potevano andare in altro modo e non è detto che la trasparenza sia utile sempre, specie nel mezzo di una crisi finanziaria. La Banca centrale scrive spesso lettere analoghe, a doppia firma di Trichet e del Governatore della Banca centrale del paese destinatario: alla Grecia, all’Irlanda, al Portogallo, a Cipro, alla Spagna, oltre che all’Italia. Le missive sono confidenziali, per non eccitare i mercati e rispettare i governi. Ben altro è successo da noi, ed è la fisionomia ibrida del carteggio (riservato e non) che rende il suo uso improprio e anche scandaloso. Una lettera di tal genere, che incide così profondamente sulla vita degli italiani, o è segreta dall’inizio o va diramata e letta, pena l’umiliazione. Una volta che c’è stata fuga di notizie, il suo carattere muta. Diventa una lettera indirizzata a ciascuno di noi: governo e opposizione; industriali, sindacati, giornalisti e lettori.
Si chiedono sacrifici rilevanti, che toccano le presenti e future generazioni. Si formulano suggerimenti sul da fare. Se i governanti hanno in poche ore cambiato rotta, tramutandosi nei burattini e zombi eterodiretti descritti da Scalfari nell’editoriale del 7 agosto, questo non significa che tutti dobbiamo essere zombi imbambolati. Pubblicare la lettera non è questione di forma ma di dignità: la nostra.
La trasparenza, dopo la fuga di notizie, è obbligo democratico. È dovuta a noi e alla Banca centrale, che sta agendo in supplenza di un governo europeo purtroppo inesistente (così come il Quirinale agisce colmando l’assenza di governo a Roma). Dobbiamo capire che il vuoto di potere politico non è un bene, in Europa, e alla lunga minaccia l’indipendenza stessa della Banca centrale. Dobbiamo anche poter contestare le linee di Francoforte, perché chi ha detto che Trichet abbia ragione su tutto? Se il continente è malato di populismo è perché la democrazia rappresentativa è guasta: sempre più decisioni sono prese non da rappresentanti eletti ma da tecnici che non rispondono a un governo sovranazionale. A Berlusconi farà comodo; all’Italia e all’Europa no.
Visto che l’Euro è un’unione non solo monetaria ma già politica, dev’essere chiaro che delle iniziative comunitarie si deve poter discutere, tra cittadini e politici. Quando nascerà, altrimenti, l’agorà europea, la pubblica piazza dove i popoli di Eurolandia si parlano e si esaminano l’un altro?
L’ingerenza della Banca centrale è benvenuta. Non è equiparabile al parere di Stati che in passato rifiutarono per se stessi l’intromissione (Germania e Francia, nel 2003). Gli occhi italiani si son dovuti aprire a forza, perché Trichet e Draghi sono stati ultimativi: non vi aiuteremo se non vi correggete subito, senza più rinvii. Quel che ha detto Tremonti l’11 agosto davanti alle Commissioni di Affari costituzionali e Bilancio della Camera e del Senato («La crisi ha preso un corso diverso, non ancora finito e non ancora prevedibile») è falso. La verità l’aveva a disposizione, se avesse voluto.
Contrariamente a quel che si crede, il commissariamento non è una perdita di sovranità. È un’autodisciplina che esercitiamo attraverso la Banca centrale, non imposta da fuori. Un’autodisciplina resa possibile da Stati forti, democrazie solide, non da istituzioni invertebrate. Per questo grazie all’Europa gli Stati recuperano la sovranità perduta. L’Italia ha una missione grande, davanti a sé. Spetta a noi (governi, cittadini più o meno influenti) vedere che c’è un nesso fra democrazia plurale, economia, stabilità sociale. Che c’è un nesso tra opinione bene informata e disponibilità ai sacrifici. Che restaurare la legalità è compito prioritario, in un paese dove il Sud è paralizzato economicamente dalle mafie. Il fatto che la manovra abolisca uno strumento che controlla il tragitto dei rifiuti dai cassonetti ai centri di smaltimento (il Sistri, Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti ) è assai sospetto: speriamo che il ministro Prestigiacomo abolisca questo regalo alle mafie.
C’è una frase che non si può più dire ed è: «Non c’è alternativa». La pronunciò Margaret Thatcher, e anni dopo si rivelò un inganno. Usare la lettera come oggetto anfibio (pubblico e non pubblico) è una colpa, perché permette ai governi e alle opposizioni di dire: «È l’Europa che dispone, io mi piego ma il mio cuore gronda sangue». Non è vero che altre strade sono precluse. È l’assenza di alternative, di libera discussione, che suscita sommosse popolari e risposte populiste
Uno studio condotto a Londra dal Centro di ricerca sulla politica economica (Cepr) sul rapporto austerità e tumulti-proteste popolari, mostra che il popolo si rivolta contro i tagli indiscriminati di servizi pubblici, ma non rigetta l’aumento di tasse. Lo studio, citato su questo giornale da Tito Boeri, copre gli anni 1919-2009. Non solo: il buon funzionamento di democrazia e stampa facilita la stabilità sociale, quando la spesa pubblica scende troppo. Gli esecutivi «non sottoposti a controlli severi» (il sogno di Berlusconi) accrescono l’instabilità. Una forte penetrazione dei media è di aiuto: più informata, la gente discute; non rompe vetrine come in Inghilterra.
Altre cose i governi possono fare, per riconquistare margini di manovra. Possono favorire crescita, equità. La Germania, ad esempio, ha fatto scelte fondamentali sulle energie alternative sin dal 2000. In pieno rigore, non ha ridotto gli investimenti nella ricerca ma li ha spettacolarmente aumentati (per il 2012 del 10 per cento, toccando la cifra record di 12, 8 miliardi di euro). Non è vero che si può solo tagliare alla maniera di Tremonti, proteggendo ricchi ed evasori. Dovremo crescere meno in Occidente, ma potremo farlo diversamente se capiremo che si cresce non solo consumando, ma esportando verso le economie emergenti. È la via che Berlino segue da anni. Non ha cominciato perché spinta dall’isteria dei mercati, e per questo oggi riesce nell’impossibile: ridurre la crescita, ma salvando occupazione e stato sociale.
Reportage Dalle Marche al golfo di Venezia, tra scempi paesaggistici, idee folli e inquinamento. Il confronto, anche aspro, con le amministrazioni locali e i pescatori in difficoltà per il blocco ittico Spiagge di cemento, il nuovo look della costa Adriatica Quanto pesa l'industria del paesaggio nel calcolo del cosiddetto prodotto interno lordo?
Raggiungo, dalla stazione, il lungomare di Pesaro, felice di imbarcarmi su Goletta Verde ormeggiata nel porto canale. Mentre in lontananza già si intravedono le bandiere gialle di Legambiente, nella mia mente si addensano i ricordi della mia prima visita nella cittadina marchigiana. Era l'agosto di quasi cinquant'anni fa e, per amore di una ragazza, avevo lasciato Ravenna su una lambretta, quella con i due sedili, sfidando le insidie della statale 16.
Le nostalgiche immagini del lungomare di allora vengono rapidamente sopraffatte dall'invasione di cemento e asfalto che, in questi 50 anni, hanno via via occupato tutto, tanto da occultare il mare. Al posto delle baracche di legno e del piccolo bar, entrambi da rimuovere a fine stagione, oggi ci sono enormi stabilimenti in cemento che a seconda delle ore fungono da ristoranti, discoteche, addirittura stadi per i tornei di beach volley, trasformando il mare in un inutile optional. Il brutto sogno si è trasformato in realtà e anno dopo anno Goletta deve constatare che la costa adriatica è quasi totalmente occupata da una città lineare. Solo nelle Marche dei 180 km che separano San Benedetto del Tronto da Gabice, ben 98 risultano trasformati in case e infrastrutture. Quando arrivo al porto canale l'equipaggio di Goletta un po’ per ricordarmi che sono uno dei rappresentanti dell'invecchiamento del Paese, soprattutto per festeggiarmi mi ricorda gridando in coro "viva il nonno" che da due giorni nella mia vita è entrato il piccolo Jacopo. Deposito sacco a pelo e zaino e subito vengo catapultato in un dibattito su come bonificare il mare davanti a Pesaro dagli ordigni bellici che i tedeschi vi gettarono per non abbandonarli ai partigiani e all'esercito alleato. Sembra incredibile, ma nei nostri mari ci sono parecchie realtà come questa, tanto che è sorto un movimento che chiede la bonifica di questi siti, al quale Goletta Verde e Legambiente intendono dare sostegno e voce, promuovendo la campagna "Veleni di Stato".
La discussione è animata e si placa solo quando gli impegni di politici e amministratori appaiono sinceri. A notte fonda ripartiamo, per raggiungere Cervia la mattina dopo. Ci attende un confronto duro con la Giunta comunale accusata, dal nascente circolo di Legambiente, di aver lasciato mano libera alla speculazione edilizia. Conservo di Cervia ricordi bellissimi: alla fine degli anni 80 si svolse il primo sciopero ecologico da cui prese vita un grande movimento di popolo perla salvezza dell'Adriatico, assediato dalle alghe che coloravano il mare di viola e gli toglievano ossigeno e vita.
Il comune ci offre la sala dove discutere, ma si sottrae al confronto. Tanti protagonisti delle lotte di allora sono invece in sala e insieme a tante persone guardiamo sgomenti le immagini delle piccole e belle casette, che una volta si perdevano nella pineta, trasformate oggi in orrendi palazzi multipiano. Sempre più la campagna di Goletta Verde si sta trasformando in una denuncia dell'occupazione di suolo da parte di speculatori e amministratori compiacenti. Da quando la legge ha reso balneabile ogni spiaggia rendendo più permissivi i parametri della balneabilità abbiamo anche deciso di fare prelievi solo alla foce dei fiumi, che immancabilmente ci dicono che il carico di veleni che essi trasportano verso il mare aumenta anziché diminuire, a testimonianza dell'assenza di qualsiasi politica di prevenzione a monte in difesa dell'ecosistema marino.
La mancanza di risorse ci costringe ormai a una campagna frenetica che ci obbliga a lasciare Cervia e a navigare a vele spiegate verso Porto Garibaldi, dove dovremmo animare un confronto importante con i pescatori sulla campagna promossa per valorizzare il cosiddetto "pesce povero": acciughe sardine, anguille. I dati sulla riduzione degli stock ittici non solo giustificano ampiamente il fermo pesca di due mesi appena cominciato, ma anche la validità di questa campagna, che i racconti dei pescatori sul giro del mondo che il loro pescato deve fare prima di raggiungere il consumatore rende ancora più veritiera. Chiudiamo la discussione con una bella scorpacciata di alici e sardine fritte e con l'impegno a sostenere la lotta dei pescatori.
L'indomani è prevista la visita alle Valli del Comacchio, la vera perla del Parco del Delta. Ci incamminiamo fra gli stagni pieni di fenicotteri e subito si fa forte la sensazione che la vera ricchezza di questa terra è proprio il parco, per le meraviglie che fa vedere e godere. Quanto pesa, mi chiedo, l'industria della contemplazione, tutti quei beni che si guardano e non si consumano, in poche parole il paesaggio, nel calcolo del cosiddetto prodotto interno lordo e nella demenziale ossessione dei sacerdoti del dogma dell'eterna crescita? Evidentemente nulla visto che quando pensano alla ricchezza il loro pensiero non va al parco, ma corre alla nuova autostrada da progettare o ai nuovi palazzi da costruire. Non a caso proprio dentro il parco consumiamo il successivo blitz, andando a protestare contro l'idea folle di riconvertire a carbone l'inutile centrale di Porto Tolle. Siccome al peggio non c'è limite ecco che l'idiozia di autorizzare una centrale a carbone in un parco lascia l'oscar dell'ignoranza e demenzialità a ciò che si sta progettando di fare a Venezia e al suo lido, prossima tappa di Goletta. Per il secondo anno consegneremo la bandiera nera a chi sta cercando di distruggere Venezia, città simbolo delle meraviglie italiche. Non bastava il Mose, e la sua folle pretesa di fermare un mare. Adesso il commissario straordinario del consorzio Venezia Nuova, Spaziante, ha pensato di aggiungere ulteriore cementificazione, trasformando l'unico tratto libero del lido in un grande porto per mille posti barca, da circondare ovviamente con supermercati e negozi.
È sempre bene ricordare cosa evoca in questo paese la parola commissario: poteri di spesa attraverso ordinanze in modo da sfuggire ad ogni controllo della cittadinanza e vincolo dei comuni. In altre parole decenni di inchieste testimoniano che dal G8 della Maddalena al terremoto dellAquila, queste figure sono i punti di riferimento del malaffare e della corruzione. Consegneremo la bandiera nera attaccando da terra e dal mare. Rigorosamente vestiti di giallo i volontari di Legambiente invadono la spiaggia del lido, mentre Goletta sopraggiunge dal mare e li saluta a sirene spiegate. In pochi minuti si aggiungono tantissime persone venute al lido a godersi la meravigliosa giornata di sole. Tre volontari liberano in mare mille barchette di carta a simboleggiare cosa potrebbe diventare il lido se non si impedirà la costruzione del porto. Spaziante non è venuto, ma gli verrà consegnata dal circolo di Legambiente Venezia e dai tanti cittadini che hanno solidarizzato con la nostra protesta e si sono dichiarati pronti a darci una mano per impedire l'ennesimo scempio.
Il viaggio termina qui con un breve giro di Goletta lungo il canal grande fino a Piazza San Marco. Dai nostri occhi scompare l'orrendo spettacolo dei vari cantieri del lido per riempirsi delle meraviglie di quella che io considero la più prodigiosa ed ingegnosa occupazione di suolo mai pensata. Non so se ce la faremo a salvare queste meraviglie, ma l'indignazione che serpeggiava negli occhi delle tante cittarline-i che si sono unite alla nostra protesta ci fa dire che ce la metteremo tutta per disturbare il manovratore.
Un Paese addormentato Che risveglio può esserci oggi dopo trent’anni di fascismo blando e di cui tutti si è stati, più o meno, partecipi e consenzienti? La grande ipocrisia Tutti portiamo qualche responsabilità: per lo stile di vita che abbiamo accettato, approvato e solo a parole rifiutato
I moderni alligatori dell’economia, della politica, della scuola, dei media sanno bene che il cibo per loro non mancherà mai. Nemmeno ora che la crisi imporrebbe a tutti un prezzo da pagare Il vento della crisi dovrebbe farci ricordare alcune semplici cose: che una qualche responsabilità la portiamo tutti, per l’adesione allo stile di vita (l’idolatria del Mercato e le sue conseguenze) che abbiamo accettato, e approvato anche quando a parole ce ne dichiaravamo nemici; che la crisi è il prodotto di un “pensiero unico”, di un’ideologia dell’economia e dello sviluppo assolutamente bipartisan. Ci sono gradi di responsabilità diversi, certo, e se per alcuni il vento della crisi dovrebbe significare, né più né meno, un allontanamento dalle responsabilità pubbliche, per altri dovrebbe quantomeno significare un’autocritica che certamente non ci sarà.
Sull’ultimo numero della rivista «Lo straniero» abbiamo ripescato un vecchio articolo di Carlo Levi del 20 ottobre 1945, a sei mesi dalla Liberazione, intitolato Quattro tesi sull’epurazione, di eccezionale saggezza e lungimiranza, ben comprensibile avendo Levi scritto in quegli anni il più bel romanzo politico italiano dopo I promessi sposi, L’orologio, che, almeno a sinistra, tutti dovrebbero aver letto. Allora l’epurazione intese salvare, dice Levi, l’economia, risparmiando le «attività destinate a rimanere nell’orbita del diritto privato» e considerandola tra quelle, mentre era proprio su quelle che bisognava puntare, insieme ai campi dell’amministrazione, dell’esercito e della cultura «che sono, ancora oggi, particolarmente pericolosi», allontanando «dagli impieghi e dagli incarichi tutti coloro che approfittando del fascismo, li hanno ottenuti senza avere la necessaria capacità, e che perciò costituiscono un peso morto per lo Stato e per la vita del paese» (e insisteva sulla scuola, sull’Università, sulla cultura).
«L’epurazione non può essere un fatto moralistico: non è una vendetta, né una punizione. Averla intrapresa con questo spirito è stata la causa del suo fallimento. (...) Singolarmente molti fascisti possono essere più stimabili di molti che non lo sono stati; ed è cosa grave, e impossibile, il giudizio su un uomo», eppure l’epurazione è una misura necessaria, se condotta con saggezza e guardando alle responsabilità vere e maggiori nel disastro in cui chi ha gestito il potere ha precipitato il Paese. «Allontanati i fascisti e gli incompetenti dall’alta burocrazia statale, dall’esercito, dalle università e dai centri del potere economico, industriale, commerciale e agrario; colpiti con i tribunali i rei di delitti; tolti, almeno per le elezioni alla Costituente, i diritti di voto e di eleggibilità a tutti coloro che hanno avuto cariche fasciste, il processo epurativo non dovrebbe estendersi oltre, e dovrebbe rapidamente cessare».
Sarebbe necessaria anche oggi, questo tipo di epurazione? Forse sì, ma naturalmente a tutto assisteremo meno che a questo. Il risveglio del Paese e lo spirito della democrazia e della ricostruzione vennero, nel ’45, dopo vent’anni di dittatura di cui sette di guerra mondiale e due di guerra civile, dopo anni di lacrime e sangue, ma che risveglio può esserci oggi, dopo trent’anni di fascismo blando che ha avuto la sua legittimazione dal benessere e dalla manipolazione mediatici e di cui tutti si è stati, più o meno, partecipi e consenzienti? E dove sarebbero le “forze di ricambio”, dove pescarle? Le stesse facce di sempre continueranno a “rappresentarci” nel mondo, rappresentando al peggio tutte le nostre ipocrisie sul grande palcoscenico della politica, insieme a quelle dei loro figli, magari “ribelli” per qualche mese (per farsi le ossa e aver più valore nel mercato dei voti).
Non è vero che i coccodrilli piangono dopo aver divorato una o più vittime, tanto meno i coccodrilli dell’economia, della politica, dei media, della scuola. Alcuni si sono specializzati nel “far finta” anche in questo caso, con i loro romanzi buonisti e le loro messe in guardia dalla rivolta (nel linguaggio delle classi dirigenti il ripudio della violenza significa non ribellarsi mai a niente), altri non hanno mai trascurato l’arte della predica e della denuncia, così redditizie sul mercato giornalistico, televisivo, librario. Le lacrime dei coccodrilli sono una reazione fisiologica al troppo mangiare, e i coccodrilli moderni sanno benissimo che loro non mancheranno mai di cibo, e in abbondanza, che avranno sempre di che triturare riducendoci ai loro voleri e facendo pagare a noi che non siamo classe dirigente la crisi che hanno provocato e a cui pretendono di esser loro a porre rimedio senza nulla cambiare delle consuete ricette.
Quella presentata da Berlusconi e dalla sua cricca al governo non è una manovra economica per consentire all'Italia di rimettere in sesto i suoi disastrati conti: è un golpe e nulla ha che vedere con le tante precedenti manovre a cui siamo stati abituati, finalizzate a spostare crescenti risorse dai salari e dalle pensioni ai profitti e alle rendite. Con quegli strumenti il 10 per cento della ricchezza era già stato dirottato dal lavoro al capitale, ma oggi sta avvenendo qualcosa di molto più grave. Con un colpo di teatro il potere che viene concentrato nelle mani di pochi, strappando per decreto alle vittime dell'esproprio proprietario i diritti fondamentali, persino quello alla difesa. Un Berlusconi nascosto vilmente dietro l'Europa, un Tremonti grondante sangue altrui, un Sacconi armato dalla Confindustria e garantito dal servizio d'ordine dei sindacati complici, hanno approfittato di una crisi drammatica che porta la loro firma per ridisegnare i rapporti di forza.
Viene stravolta la Costituzione, oltre che per trasformare in totem il pareggio di bilancio, per armare le imprese, liberandole da quelli che chiamano "lacci e lacciuoli" ma in italiano si traducono con democrazia: il permesso di licenziare quando come e chi vogliono cancellando con l'articolo 18 l'intero Statuto dei lavoratori; il permesso di scegliersi i sindacati a cui dare ordini, dopo aver ammutolito i lavoratori; la possibilità di cancellare il contratto nazionale, sostituito dai contratti aziendali. Vi basta? No, alla Fiat non bastava e allora gli sceriffi di Nottingham truccati da Robin Hood rendono retroattivi questi privilegi di classe per santificare i misfatti di Pomigliano, Mirafiori e Bertone.
Così viene giustiziato chi chiede giustizia e ridotto al silenzio il giudice che dovrebbe garantirla. Ecco dunque che alla ossificazione del welfare e alla svendita dei beni comuni, alle privatizzazioni, allo schiaffo ai dipendenti pubblici e privati, ai giovani, ai precari, ai pensionati, si accompagna la cancellazione per decreto di un secolo di compromessi democratici che avevano garantito forme di equilibrio e tutele nel conflitto capitale-lavoro. Se per l'aggressione economica ai danni dei più deboli il governo si nasconde dietro il liberatorio "ce lo chiede l'Europa", per giustificare l'aggressione ideologica ai diritti del lavoro chiama in causa le parti sociali: "ce lo hanno chiesto loro" con l'avviso comune, siglato questa volta anche dalla Cgil.
La categoria del tradimento è estranea alla storia di questo giornale, preferiamo apparire ingenui e ammettere di non capire il senso di quell'infelice firma apposta da Susanna Camusso in calce a un accordo che asfaltava la strada alla controrivoluzione reazionaria. Se nella crisi democratica, che fa traballare il futuro del paese più ancora della crisi economica, dovesse affiancarsi la perdita di una rappresentanza sociale alla perdita già consumata della rappresentanza politica, la risposta del malessere sociale di un paese non pacificato potrebbe manifestarsi in forme spurie, disperate. Basta guardarsi in giro per rendersi conto di come i tumulti abbiano preso il posto della protesta novecentesca, quando c'erano ancora partiti, sindacati e movimenti a dare una prospettiva e una speranza alla società. In Italia c'è ancora un filo rosso, sottile, che può tenerci legati a un'idea forte di democrazia. Non spezziamolo. Una delle tante cose necessarie a non spezzarlo è il ritiro della firma della Cgil da un progetto subalterno e suicida e indire lo sciopero generali.
Prima di raccontare il disastro (artistico?) di Gibellina, prima di chiedere alla Regione Siciliana di restituire la Venere di Morgantina al Getty Museum di Los Angeles, vorrei invitare chi crede in Dio a pregare per Saiful Islam, il giovane del Bangladesh che ha ucciso a coltellate Ludovico Corrao, il suo generoso principe, che certamente gli voleva bene.
E vorrei invitare chi crede nell´uomo a riflettere su questo nuovo «pulviscolo sociale» direbbe Marx, questo sottoproletariato composto in Italia dai badanti sessuali del Terzo Mondo, ragazzi belli e forti senza diritti, neppure quello alla pietà.
A Gibellina tutti sanno che Saiful era l´ombra del senatore, il suo bastone da passeggio. Al geniale Corrao piaceva camminare con quel ragazzo che stava lì da quando aveva 12 anni. Mi raccontano che il sontuoso senatore aveva insegnato a Saiful che bisogna tenere le mani sempre libere – e sembra di vederli avanzare sulle pietre di Gibellina – per far meglio ondeggiare le spalle mentre si cammina «come le mangrovie sul Delta del Gange, dove non è mai fatica dondolarsi e intanto stare con le radici dentro l´acqua e abbracciare con lo sguardo l´orizzonte». Anche Garibaldi aveva la sua ombra nera, un ex schiavo di Montevideo, Andreas Adujar, che, negli ultimi istanti di vita, il generale fece colonnello. C´è sempre un guerriero che copre le spalle a un generale.
Adesso che Corrao è stato seppellito e Saiful ha cercato il suicidio sbattendo la testa sul cancello del carcere di Marsala, a Gibellina anche le famose opere d´arte sono più spettrali e persino la «follia urbanistico-architettonica condita da salsa artistica», come la definì Federico Zeri, ha perduto anche la velleità, la pretesa di incantare. Perché c´è sicuramente un rapporto tra le erbacce che hanno sfondato il cretto di Burri, tra la ruggine che se lo sta mangiando e quelle coltellate sul vecchio corpo stanco della questione meridionale che Saiful, prima di colpire, ha ancora una volta lavato. È il sud del sud il Bangladesh in Italia, ma solo in Sicilia il Bangladesh è il misero che fa sentire ricco il povero.
Sono stato a Gibellina tante volte. La prima, subito dopo il Grande Evento, nel gennaio del 1968. Ero giovanissimo e volevo vedere e dare una mano. Ci sono tornato negli anni dell´immaginazione al potere e dei professori di architettura. A Gibellina ho imparato che anche le rovine possono andare in rovina, e che la rinascita del Belice è un miracolo sempre rimandato. E oggi che Corrao è morto e la sua utopia è stata giustamente celebrata dalla cultura, dalla politica e dalla chiesa, tutti dovrebbero andare a vedere come è ridotta la città che ha tormentato gli intellettuali siciliani, com´è più invasiva la spazzatura e come sono più tristi, tra i Consagra e i Purini, le baracche provvisorie che sono diventate ambiente e natura. Le opere commissionate da Corrao sono state mostrificate dal tempo e dall´avanzare del contesto ma non hanno il fascino dei mostri di Bagheria. Il sottosviluppo, l´arretratezza e la marginalità non sono stati riscattati ma al contrario esaltati da Samonà e da Venezia, da Pomodoro, Mendini, Salvatore, Franchina, Colla, Spagnuolo, Melotti, Cascella. La prima volta che vidi ‘il giardino dei profumi´ - un miliardo e mezzo di lire - era ricco di rosmarino, salvia, menta, piante mediterranee... In due anni divenne tutto secco, pietre friabili, terra arida e puzza. E le costruzioni sono gabbie razionaliste spesso transennate e meridionalizzate, tra scheletri di elettrodomestici, buste di plastica volanti, crolli, opere mai completate e opere corrose, sfinite.
Corrao, con le sue Orestiadi e con i suoi mantelli neri, era il notabile di questa idea di bellezza salvifica. Una volta, quando tornai a Gibellina perché era crollata la chiesa del Quaroni, gli chiesi perché non aveva chiamato gli ingegneri idraulici invece degli artisti e dei professori di architettura e mi rispose con le tante belle cose che sapeva dire bene, gli spiriti maligni, gli scarafaggi neri, le nuvole … A Gibellina ci sono i collezionisti dei testi dei suoi comizi. Padrone di casa del terremoto come risorsa, come grande evento, Corrao era sempre divertito e mai appagato.
Era un ‘terremoto’ pure lui. Il bianco dei lini e del panama non lo avrebbe notato nessuno se non si fosse incastonato sul nero del malessere che non è solo geografico in quella terra: i fotografi, ancora oggi, in Sicilia lavorano quasi esclusivamente con il bianco e nero. E fu un terremoto prima del terremoto il passaggio di Corrao dalla Dc degli agrari e di Scelba al Pci dei capi contadini, verso l´intrallazzo del milazzismo (1958 e 1959) che giustamente per Sciascia fu un orrore di immoralità. Pensate: il peggio della Dc di allora, insieme con il Msi e il Pci. Veri fascisti mussoliniani e veri comunisti stalinisti agli ordini di una pattuglia di veri democristiani che letteralmente compravano i deputati regionali e assoldarono pure qualche mafioso.
Il terremoto cambiò la mente e l´abito di tutti, non di Corrao che era già un sottosopra. E il terremoto mise in subbuglio anche le libido nel Belice: si sa che dopo la catastrofe il sesso diventa un bene rifugio. Finalmente gli dissi, e litigammo, che l´arte mi pareva un pretesto, una scusa per l´Evento, per far suonare la banda, per attirare il forestiero, l´esteta della miseria, «cacche d´artista – provocai – per mosche fameliche, finanziamenti inghiottiti dalla burocrazia e dalla corruzione, l´arte come immunità e come impunità». L´importante è fare una bella festa, accogliere il conquistatore, una giornata di gloria e poi si torna al niente, «poca vita, sempre quella» canta Lucio Dalla: l´Evento, senza misura e senza temperanza, è la disgrazia del Sud, da secoli fuori mano.
Andate, per esempio, a ripescare su Youtube l´arrivo della Venere di Morgantina ad Aidone. Sembra il trionfo di Bocca di Rosa, o di Berlusconi a Lampedusa: i sindaci con le fasce tricolori, i gonfaloni, la banda, fiori e chiasso e facce sdentate, un´antropologia da nomenclatura sovietica, il sottosviluppo di piazza, la Sicilia di Baaria, la bocca aperta e lo schiamazzo delle feste patronali, il bisogno del miracolo e degli imbonitori, della Venere che torna dal Los Angeles come lo zio d´America. Parla anche di questo il fallimento dell´architettura di Gibellina: c´è il mito antico dell´uomo che viene da fuori, dell´uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore, ma anche una statua, uno scultore di cretti, purché venga appunto da fuori nel Sud che dentro di sé non trova pace.
Ovviamente anche la Venere è stata inghiottita dalla decadenza alla spicciolata. Sono stato a vederla il mese scorso. Ho posteggiato l´auto davanti all´ingresso principale del museo, ho contato in quel giorno tredici visitatori. Ad Aidone la Venere è chiamata "la dea", forse perché è più giunonica che erotica. Grande e imponente sembra in prigione in quella stanzetta bianca. A Los Angeles era onorata dal mondo, la più vista, la più cercata. Esportata in America dai tombaroli che l´avevano disseppellita è come se fosse stata di nuovo seppellita ad Aidone.
Nella cameretta accanto ci sono gli acroliti, chissà perché vestiti con un tristissimo scialle grigio dalla stilista Marella Ferrera. Il museo è ricco dei reperti che i tombaroli hanno scartato. Il barone Vincenzo Cammarata, un numismatico che gira con le monete antiche in tasca e che per il trafugamento della Venere fu arrestato, parlò in un´intervista di tre statue, poi chiese scusa, disse che si era sbagliato: boh.
Ogni tanto la polizia fa irruzione in case private che sembrano musei, a Enna, a Catania, a Palermo e chissà dove. La Venere fu portata in Svizzera e poi in America, dove forse dovrebbe tornare. Sicuramente aveva ragione Francesco Rutelli, allora ministro dei Beni culturali, che fortissimamente la voleva a Roma. E inutilmente il presidente Giorgio Napolitano offrì il Quirinale. La Venere merita di essere di nuovo disseppellita e magari ceduta in affitto. Purché sia restituita al mondo.
Qualche anno fa Romano Prodi si è felicitato di aver fatto l’unità dell’Europa cominciando dalla moneta. Se avessimo cominciato dalla politica – è stato il suo argomento – non ci saremmo arrivati mai data la storica rissosità dei singoli stati. Mi domando se lo ripeterebbe oggi. È vero che la moneta unica, l’euro, c’è ed è diventata la seconda moneta internazionale del mondo, ma lui medesimo, che aveva a lungo diretto la Commissione, Jacques Delors, che l’aveva preceduto – nonché Felipe Gonzales, presidente all’epoca del governo spagnolo ed altri minori responsabili di quegli anni – hanno scritto sabato su Le Monde un preoccupato testo sul suo destino. Quattro paesi dell’Unione, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia sono indebitati fino agli occhi e sono entrati in una zona di turbolenza pericolosa per tutto il continente. Soprattutto i padri dell’euro riconoscono che “certe misure” che si sarebbero dovute prendere a suo tempo, “come un coordinamento delle politiche economiche”, non sono state prese e “si stanno elaborando oggi" e “nel dolore”. Di furia, perché siamo alle strette. Se ho capito bene, si tratta di alleggerire il debito greco con l’emissione di Eurobonds che se ne assumono una parte a lunga scadenza (e senza specularci sopra come hanno fatto le banche tedesche e francesi) e poi andare a un programma economico di tutti i paesi europei che cessi di lasciare ciascuno a cavarsela da sé. E non getti sui cittadini greci tutto il “dolore” e il peso del rientro del debito e della ricostruzione di una economia. Paghino una parte del conto “i grossi investitori istituzionali”, cioè le banche estere hanno investito a rischio, e il rischio è il loro mestiere.
Parole prudenti, ma sufficienti, penso, a non trovare l’accordo dei paesi che si riuniranno giovedì 21 a Bruxelles – per cui la Germania sarebbe stata incline a prendere più tempo. Un suo illustre economista sostiene, una pagina più in là, che bisogna invece mettere la Grecia temporaneamente fuori dall’euro a spicciarsela con le sue dracme, una loro energica svalutazione e senza l’aiuto degli Eurobonds. È la linea liberista. Che si incrocia, in tutt’altra prospettiva, con quella di Amartya Sen, di alcuni economisti e sociologi francesi come Jacques Sapir e Emmanuel Todd e di politici di sinistra come Mélenchon e una parte dell’amletico Partito socialista, e dell’estrema destra di Marine Le Pen – via dall’euro e per sempre.
Non so – non trovando traccia delle procedure di abbandono dell’euro nelle varie bozze di trattati – se sia fattibile né ho capito in che cosa migliorerebbe le condizioni della Grecia un ripescaggio della dracma; la poderosa svalutazione si accompagnerebbe, certo, a una maggiore possibilità di esportare i suoi prodotti (ammesso che ne abbia di appetibili oltre il turismo) ma anche a un aumento, di proporzioni pari, del debito con le banche tedesche. O sbaglio?
Sta di fatto che alla vigilia del ventesimo compleanno della moneta europea, il giudizio su che fare è una cacofonia. Non a caso l’appello di cui sopra chiama prima di tutto ad avere “una visione chiara” e condivisa dello stato dell’Europa. Sarebbe stato utile arrivarci prima e non con il coltello alla gola. Oltre alla Grecia infatti, Portogallo, Spagna e Italia hanno accumulato un indebitamento pubblico mostruoso e vacillano sotto l’occhio spietato e non disinteressato delle agenzie di rating. Per il patto di stabilità non si dovrebbe superare il 60 per cento del Pil mentre noi, per esempio, siamo al 120. Ma la nostra economia appare in stato ben migliore di quella greca e, cosa che conta, il nostro indebitamento è soprattutto all’interno, non ci sono banche tedesche che ci ringhiano addosso.
Per cui anche se Moody ci abbassa la pagella, la Commissione si limita a ordinarci cure da cavallo, tipo la manovra votata a velocità supersonica qualche giorno fa, per “rientrare”. La cui filosofia è uguale per tutti: tagli alla spesa pubblica (scuole ospedali e amministrazioni locali in testa), vendita di tutto il vendibile (perché la Grecia non cederebbe il Partenone a Las Vegas?), privatizzare il privatizzabile, cancellazione dello stesso concetto di “bene pubblico”. Il governo greco, naturalmente di unità nazionale come tutti quelli delle catastrofi, è andato già a un taglio del 10 per cento dei salari e delle pensioni, e la collera e le manifestazioni della gente vengono dalla disperazione. E già per l’euro è un sisma.
Forse non è inutile ricordare che fra pochi giorni, il 2 agosto, gli Stati Uniti si troveranno, mutatis i molti mutandis, nella situazione greca di non poter pagare i salari né onorare le proprie fatture, perché il debito pubblico ha superato il tetto imposto dalla legge. Se non ché a innalzare quel tetto basta un accordo fra i democratici e i repubblicani, che finora lo hanno negato. Nessuno stato europeo può invece spostare da solo il patto di stabilità. Più che consolarsi sulle vaghe analogie sarà meglio chiedersi se questi indebitamenti dell’ex ricco occidente non abbiano qualche radice comune.
Mi rivolgo a chi ne sa più di me, cioè agli amici economisti e ai padri e ai padrini (di battesimo, in senso cattolico) della Ue, nella speranza che rispondano ad alcune altre domande che a una cittadina di media cultura si presentano ormai impietosamente. Non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?
La prima domanda è come mai i padri dell’euro si erano convinti che un’unificazione della moneta sarebbe stata di per sé unificatrice di un’area vasta di paesi dalla struttura economica così diversa per qualità e robustezza. Tanto convinti da non avere previsto misure di recupero per chi non riuscisse a stare nel patto di stabilità. Non è forse che consideravano impensabile che la mano invisibile del mercato non riuscisse ad allineare a medio termine le economie di questi paesi? Per cui bastava affidarsi a una politica monetaria e attentamente deflazionista – linea che la Bce ha fedelmente seguito – per garantirne il successo? L’euro e la Ue sono nati in quella fede nel liberismo, che von Hajek aveva ripreso, proprio prima della guerra, contro la politica rooseveltiana seguita al 1929 e le proposte di Beveridge e di Keynes di trarre da quella crisi la consapevolezza del pericolo che rappresenta una frattura economica e sociale profonda, trovarsi di fronte una destra populista come quella che negli anni ’30 si sviluppò, oltre il fascismo, nel Terzo Reich di Hitler, nella Grecia di Metaxas e nella Spagna di Franco? Non era necessario evitarla andando a un vero compromesso fra le parti sociali, costringendo i governi a (mi sia premesso il gioco di parole) costringere il capitale a cedere una parte meno iniqua del profitto alla monodopera, in modo da: a) garantirsi una certa pace sociale (c’era ancora di fronte l’Urss che aveva fatto arretrare i tedeschi a Stalingrado); b) garantire un potere d’acquisto di massa per una produzione di massa (fordista)? Le costituzioni e le politche dei governi europei del secondo dopoguerra andarono, più o meno, tutte in questa direzione.
Dalla quale la Ue svoltava decisamente.Tre anni prima era caduto il Muro di Berlino, e i partiti di sinistra e i sindacati avrebbero seguito, più o meno convinti, la strada. I conti della scelta liberista ci sono oggi davanti agli occhi. Al di là degli effettivi successi in campo giuridico in tema di diritti umani, non è forse vero che, malgrado le enfatiche dichiarazioni, i vari trattati, quello di Nizza incluso, registrano un arretramento dei diritti sociali rispetto ai Trenta Gloriosi? Probabilmente si riteneva che costassero troppo: nessuno è stato eloquente su questo punto come il New Labour di Tony Blair. Sta di fatto che, dichiarando nobilmente la piena libertà di circolazione delle persone, delle imprese e dei capitali, messi sullo stesso piano, la Ue dava libero corso alla finanza, alle delocalizzazioni e assestava ai lavoratori una botta epocale.
Cittadini, imprese e capitali non sono infatti soggetti della stessa natura, e non hanno la stessa libertà di movimento. Altra cosa è spostarsi in Lituania per il salariato di una impresa lombarda ed altra per la sua impresa andarvi in cerca di dipendenti da pagare di meno. E ancora altra lo spostarsi virtuale di un quotato in borsa da Milano a Tokyo. Ma non stiamo a fare filosofia. Con la Ue cessava infatti ogni controllo sul movimento dei capitali in entrata e in uscita, non solo da parte di ogni singolo stato ma del continente; e siccome in Europa i lavoratori avevano raggiunto collettivamente un salario più alto e una normativa migliore che nel resto del mondo, i capitali scoprivano presto che potevano ottenere dalle operazioni finanziarie un profitto assai più ingente di quello che si poteva ottenere dagli investimenti nella produzione, materiale o immateriale che fosse. La finanza ha preso un ritmo di crescita senza precedenti, le sue figure si sono moltiplicate inanellandosi su se stesse fino a perdere ogni base effettiva, abbiamo scoperto parole suggestive, come i fondi sovrani, i trader, gli asset, i futures, e capito meglio a che e a chi servisse un paradiso fiscale, la Ue liberista apriva insomma il varco a manipolazioni non illegali ma mai conosciute prima, le stesse che gonfiandosi hanno formato la grandiosa bolla finanziaria scoppiata nel 2008. Nella quale gli stati sono dovuti intervenire con i soldi pubblici per evitare il crollo delle banche (una, la Lehman Brothers, è colata a picco) e dei relativi e ignari depositari. Coloro che erano stati consigliati di comperare una casa dall’allegria finanziaria delle banche stesse si sono trovati per strada. Un trader più esperto dei suoi superiori ha fatto perdere cinquecento milioni di euro alla antica Sociéte Générale, per amore della mirabolante professione, senza mettersi in tasca un quattrino. Alcuni imbroglioni hanno fatto miliardi, uno di loro, Madoff, s’è fatto pescare. Il G20 e il G21, riuniti in fretta, hanno innalzato lamenti, denunciato la finanza, inneggiato all’intervento dello Stato, denigrato fino un mese prima, deprecato l’esistenza dei paradisi fiscali e si sono fin giurati di ridare “moralità” al capitale. Ma tutto è tornato come prima, neppure l’obiettivo più semplice, chiudere con i paradisi fiscali, è stato realizzato. L’investimento nella finanza resta golosissimo.
Sulla stessa linea, i capitali che restavano nella produzione scoprivano che avrebbero realizzato ben altri profitti se avessero spostato le loro imprese fuori dall’Europa occidentale, dove imperversano ancora, sebbene assai allentati, i “lacci e lacciuoli” e la “rigidità” del lavoro. Così succede, per offrire qualche esempio, che un gruppetto bresciano si sia acquistato in Francia una vecchia e gloriosa marca di piccoli elettrodomestici per portarla in Tunisia (prima della rivolta). Che un miliardario indiano si sia acquistato le residue acciaierie d’Europa per chiuderle, restando solo sul mercato con l’azienda paterna. I governi non si permettono più di intervenire sulle parti sociali, correndo dietro ai capitali e mettendogli il sale sulla coda con agevolazioni e detassazioni. Chi non sa che una impresa paga meno tasse di quanto debba pagare un salariaro? Se poi è una multinazionale del petrolio, come la Total, che è insediata in diversi paesi, può succedere che in Francia non paghi nulla.
Infine, il capitale ha avuto più intelligenza delle sinistre nel puntare sul trasferimento del lavoro in tecnologia. Poteva essere un enorme risparmio di fatica e un enorme aumento della produttività della manodopera, ma è solo servito a ridurla. Può sorprendere che in tutta Europa i disoccupati superino oggi i cento milioni? Che il 21 per cento dei giovani non trovi lavoro? I governi pensano poi a demolire, per facilitare le imprese, le difese restanti del salario e della normativa nel lavoro dipendente. L’invenzione del precariato è stata geniale. Certo resta ancora da fare per raggiungere l’inesistenza di diritti e contratti collettivi dell’Egitto e della Cina, ma si direbbe che l’obiettivo sia quello.
Come si faccia a tener alte le entrate e modificare la crescita e in direzione compatibile con un impoverimento diretto e indiretto, attraverso i tagli nel welfare della grande maggioranza delle nostre societa è per me un mistero. Come si possa stupirsi che gli operai, occupati o disoccupati, scombussolati dalle scelte dei partiti di sinistra e dei sindacati, non amino questa Europa? E crescano dovunque in voti le destre?
Vorrei essere smentita. E che mi si dimostrasse che l’Europa non c’entra, che non può, e non solo non ha voluto, far altro.
Dalla guerra del capitale contro il lavoro si può uscire soltanto restituendo ai lavoratori reddito, risorse e diritti. Tutto il resto non fa che rafforzare la crisi, semplicemente perché è la crisi. Ma c'è qualcuno, tra i politici, che intenda davvero combatterla? Probabilmente no
Bisogna resistere alla tentazione di risolvere tutto con la comoda spiegazione della follia. Dio acceca chi vuol perdere, si dice. Così si pretende di spiegare quanto sta accadendo in questi giorni, a cominciare dai principali snodi della crisi finanziaria mondiale. Ma ci si inganna.
Indubbiamente lo scenario è a dir poco paradossale. La ricchezza reale aumenta di anno in anno a dismisura. Mai come oggi il mondo è stato un «gigantesco ammasso di merci». La produttività dei mezzi di produzione è alle stelle. Mai la tecnologia è stata altrettanto sviluppata. Ma, invece di godere i frutti di questo progresso, il mondo «avanzato» si dibatte nella crisi. Registra il dilagare della disoccupazione e il drammatico impoverimento di masse crescenti. E sperimenta il panico, la rivolta, la depressione economica e psichica. Questo film corre sullo schermo globale da tre anni a questa parte, per limitarci a quest'ultima Grande crisi, esplosa negli Stati Uniti a seguito dell'insolvenza dei titolari di mutui e dei crediti facili al consumo. Ma nemmeno l'esperienza di questi tre anni pare avere aperto gli occhi alle classi dirigenti. Il nuovo picco della crisi è la diretta conseguenza delle risposte «sbagliate» opposte all'esplosione della bolla speculativa nel 2008. Da allora e sino all'anno scorso gli Stati si sono incaricati di sanare con soldi pubblici (cioè nostri) le voragini dei bilanci privati, di banche, assicurazioni, finanziarie e grandi gruppi industriali a rischio di bancarotta per gli azzardi speculativi. Oggi - naturalmente - a rischiare il fallimento sono gli Stati stessi, dissanguati da quel generoso soccorso. Ci si aspetterebbe finalmente una risposta conseguente, visto che sbagliare una volta (si fa per dire) è umano, ma perseverare è diabolico. Invece che si fa?
Si ripete l'«errore». Non si pretende dai privati la restituzione dei prestiti, con tanto di interessi, né, tanto meno, la cessione degli enormi profitti accumulati in tre decenni di baldoria neoliberista. Al contrario: per ridurre l'indebitamento degli Stati si tornano a chiedere soldi alla collettività, cioè al lavoro. Sotto forma di tagli alle retribuzioni, alle pensioni, al welfare, ai posti di lavoro e alla spesa pubblica. E a mezzo della mercificazione di beni e servizi vitali e della svendita di quanto resta del patrimonio pubblico. La grande bouffe continua. Anzi, per timore che domani possa saltare in mente a qualcuno di cambiare rotta, nel nome della cosiddetta «stabilità» si progetta di costituzionalizzare il pareggio di bilancio, cioè l'autoimposizione di politiche recessive, assoluta garanzia di crisi croniche. E si immagina (ultima trovata del governo tedesco, principale responsabile della spirale in cui tutta l'Europa - Germania compresa - si sta avvitando) di commissariare i Paesi ad alto debito, al preciso scopo di impedire tassativamente il varo di eventuali politiche espansive.
Di fronte a questo scenario la tentazione di parlare di follia è comprensibilmente forte. Ma è necessario resistere, perché le cose non affatto stanno così. Hanno una loro logica e una loro razionalità, non per caso accuratamente occultata dal giornalismo mainstream. Torniamo all'inizio. Il mondo che oggi trema vedendo avvicinarsi a grandi falcate lo spettro di un crack di inedite proporzioni non è diventato improvvisamente povero. La ricchezza reale è immensa e così la capacità di produrre. Vi è una enorme disponibilità di forza-lavoro qualificata e giganteschi bisogni sociali insoddisfatti (abitazioni e servizi alla persona, formazione e conoscenza, cura dell'ambiente e del territorio ecc.). Ma allora che cos'è questa «crisi»? C'è un modo di raccontarla che spieghi questi giorni tumultuosi scartando dagli schemi ideologici utili agli interessi dominanti?
C'è. E siccome le idee importanti non si inventano ogni giorno, basteranno due citazioni. Bertolt Brecht, che al Congresso internazionale degli scrittori (Parigi, 1935) fece incazzare tutti chiedendo che, oltre che di difesa della cultura, si parlasse anche dei rapporti di proprietà. E Karl Marx, che centocinquant'anni fa mise in rilievo la funzione cruciale dei rapporti di produzione, struttura giuridica a presidio dei rapporti di forza tra le classi. Ebbene, la cosiddetta crisi non è che un dispositivo economico, politico e mediatico funzionale allo spostamento di ricchezza (di titoli di proprietà) a vantaggio delle oligarchie possidenti. Negli anni Settanta e Ottanta questo spostamento è avvenuto soprattutto colpendo il lavoro direttamente nel conflitto sociale. Dagli anni Novanta ha luogo principalmente attraverso lo strumento monetario e la speculazione finanziaria. Il che non significa che la deflazione salariale e l'attacco ai diritti del lavoro non restino il punto di caduta dell'operazione, come non toglie che da quarant'anni a questa parte la guerra è stabilmente parte integrante di questa grande operazione di ingegneria sociale. Che questo gigantesco spostamento di ricchezza comporti anche dure contrapposizioni in seno alle oligarchie e aspri conflitti tra le borghesie nazionali (con buona pace di chi teorizza l'irrilevanza della dimensione statuale nell'era della globalizzazione) è del tutto ovvio e normale. E lo è anche quanto ne consegue: la concreta possibilità che i conflitti economici, politici e sociali tracimino in nuovi conflitti bellici. Fare previsioni su questo terreno è difficile, ma è bene sapere che non è possibile escludere nulla. Letteralmente nulla.
Questa e soltanto questa è la sostanza, che però va accuratamente celata. Di qui la grande narrazione del «debito». Tutti (anche noi) ne parliamo, come se fosse ovvio e indiscutibile che qualcuno (lo Stato per conto della società) ha ottenuto un «prestito» da qualcun altro (il «creditore»). Ma se un governo decidesse di finanziare la spesa pubblica con i profitti delle imprese private, con le rendite speculative e con gli introiti di un fisco equo ed efficiente, il debito dove andrebbe a finire? Scomparirebbe. Il che dimostra che «debito» è soltanto il nome di una politica economica finalizzata all'incremento dei redditi da capitale.
Ora, siccome questa operazione funziona alla grande, procurando enormi benefici alle oligarchie dominanti, parlare di follia è insulso e impedisce di capire cosa sta succedendo. Esattamente come non serve a nulla - anzi è sbagliato e fuorviante - favoleggiare di una presunta impotenza della politica a fronte delle sentenze dei «mercati» e delle agenzie di rating. Se a Bretton Woods si imposero regole che oggi non esistono più è perché chi ha il potere di decidere (a cominciare dai governi e dai parlamenti) non vuole né regole né vincoli, o meglio, vuole solo quelle regole e quei vincoli (a cominciare dal Patto di Stabilità e dagli accordi in sede di Wto) che rafforzano il processo in atto.
Così stando le cose, se ne può trarre un'unica conclusione. Ci sarebbe un solo modo per contrastare la dinamica della crisi: prendere il toro per le corna e imporre misure draconiane, sì, ma di segno specularmente opposto: misure redistributive in senso proprio. Da una cosiddetta crisi finanziaria che altro non è se non l'ennesimo capitolo della guerra del capitale contro il lavoro si può uscire soltanto restituendo al lavoro (al proletariato e alle classi medie in via di proletarizzazione) reddito, risorse e diritti. Tutto il resto non fa che rafforzare la «crisi», semplicemente perché è la crisi. Ma c'è qualcuno - tra i politici - che intenda davvero combatterla? Non si direbbe. Ha ragione Giorgio Ruffolo: la sinistra non esiste più. Si è suicidata una trentina di anni fa in Italia come in Europa, come in tutto l'occidente capitalistico. Ma anche qui: non per follia, sia pure lucida, bensì per un accorto calcolo. Perché diciamoci la verità: partecipare alla grande bouffe, sia pure come «oppositori», non è affatto spiacevole. Anzi, è alquanto gratificante.
Titolo originale:Them and us: the young Londoners who we can't afford to alienate – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Si volatilizzano i servizi essenziali per mantenere i giovani senza fissa dimora con cui lavoro nell’ambito della società civile. Per chi fra noi opera in quella terra di frontiera, era chiaro da tempo che qualcosa, in qualche modo, sarebbe arrivato a sconvolgerci.
E lunedì si è capito che era cominciato. Nel pomeriggio, mi entravano in ufficio ragazzi gridando “Sta cominciando a Lewisham. Accendi il notiziario, accendi”. Nel giro di mezz’ora, si è capito che avevano ragione. Durante la giornata, continuavano a chiedere cosa dicevano i notiziari, se sapevo qualcosa io, cosa si vedeva sugli schermi TV. É la prima volta, dopo un anno di tentativi per interessarli al mondo che li circonda, che qualcuno di loro manifesta un po’ di interesse per quello che dicono i media. Uno mi ha chiesto “Cosa dicono di noi?”
Mi ha colpito quel “noi”, l’identificazione immediata coi ragazzi di Lewisham. Nessuno di loro aveva mai messo piede nei quartieri in rivolta, ma non c’era alcun dubbio sul fatto che si ritenessero parte di quella vicenda. Martedì mattina una ragazza mi ha detto che quelli dei Cherry Boys, famigerata banda del sud-est londinese, lunedì pomeriggio spingevano le persone in entrata e uscita dal negozio JD Sports di Charlton: “ Muovetevi. Muovetevi. Prendete la roba e lasciate posto al prossimo”.
Sono anche riuscita a cavare da un altro ragazzo qualche notizia a proposito della sua spedizione a Woolwich con gli “amici”. Lo conosco da quasi due anni e so bene quanto abbia subito dalle bande di Woolwich. L’ultima volta che era stato in quella zona, più di un anno fa, l’avevano preso a coltellate, quasi ammazzato. Ma la rivalità, che gli era quasi costata la vita, adesso non contava più: “Sai, capo – mi ha detto – Ieri sera Londra era libera”.
Ma è evidente che mentre le cose continuano ad accadere nessuno ascolta le storie di chi partecipa alla rivolta. Se ascoltassimo, riusciremmo a capire che esistono spiegazioni molto migliori di quella della “pura e semplice criminalità” proposta da David Cameron.
Negli ultimi giorni la gente ha paura a uscire di casa, ma i giovani si sentono per la prima volta liberi di muoversi nei quartieri, dopo dieci anni. Gli abitanti sono infuriati perché si sono colpite al cuore le comunità, ma quei giovani parlano di “noi”. I negozianti hanno combattuto per difendere ciò che possiedono, contro chi cercava di appropriarsi di quanto non può avere. Si sono invertite le parti; la città e la società ribaltate. Sorprende, che vogliano ciò che vogliamo anche noi, ovvero la possibilità di muoversi liberamente, di esprimere comunità, identità, e naturalmente possesso materiale? Ed è questo il modo in cui ce lo dicono quei giovani insoddisfatti, di solito privi di voce.
Abbiamo chiuso i loro centri di aggregazione, eliminato i fondi per la formazione. Eroso le loro aspettative nella società. Possiamo solo ascoltare, perché ci stanno dicendo qualcosa, magari in modo non del tutto efficace, senza giustificazioni, distruttivo. Capire non vuol certo dire perdonare. Ma liquidare le rivolte come azioni sconsideratamente criminali significa negare le gravi carenze del sistema, ed emarginarli ulteriormente da una società che non sentono più loro.
Ogni nuova prospettiva di governance europea che pure sarebbe necessaria, non riesce neppure a essere sperimentata perché va subito a infrangersi contro l'inevitabile "logica del mercato"
Nelle vicende dell’Unione europea ci sono molti passaggi su cui ha senso interrogarsi. Rilevanti, ovviamente, non solo per leggere come si è arrivati alla situazione in cui ci troviamo adesso: soprattutto per guardare avanti. Appunto per guardare avanti riprendo la sollecitazione che viene dalle analisi e domande – soprattutto dalle domande – che Rossana Rossanda ripetutamente pone (“a chi ne sa più di me”). Nel dibattito e negli interventi si porta l’attenzione principalmente sui temi dell’economia, dunque comincio così: mi è capitato di riprendere in mano un piccolo libro, Idee per la programmazione economica (di Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini, pubblicato nel 1963 da Laterza). Rileggerlo oggi è illuminante. Cosa significa “programmare”, con quali “idee”. Altre parole: “indirizzi”, “strumenti”, “politiche” -al plurale-; e “analisi critica”, fondamentale. Riguardano gli economisti, ma certo anche gli “specialisti” di altre discipline; e noi “cittadini”.
Farò riferimento, guardando in termini necessariamente aggiornati alle questioni di cui discutiamo, alla chiave di lettura che ha messo a fuoco i processi europei proponendo alcuni termini che negli scorsi decenni sono stati al centro di contributi e dibattiti: governance, Europa post-nazionale, Europa cosmopolita. E democrazia, ovviamente. Anche le chiavi di lettura sono molteplici: in alcuni casi l’attenzione va alle caratteristiche e alla storia del contesto europeo; si mettono a confronto i differenti dati a livello nazionale; nel portare l’analisi sui processi di trasformazione in atto si mettono a fuoco anche resistenze ai cambiamenti e tendenze che li contrastano, legate a vicende proprie della nostra parte del mondo. E c’è piena consapevolezza delle dimensioni di complessità e di pluralità del sociale. Alcuni dei numerosi studiosi che di questi temi si sono occupati sono Daniele Archibugi, Ulrich Beck, James Bohman, Edgar Grande, Claus Offe, e in contributi più recenti, Owen Parker.
Mi sembra utile riprendere brevemente due linee di riflessione: cosa significhi e cosa implichi il passaggio (terminologico, ma evidentemente non solo) alla parola “governance”, rivedendo quella che era scontata ma ormai inadeguata, “governo”. Si è trattato di assumere consapevolezza, e realizzare e valorizzare, strutture e meccanismi nuovi (anche, ritenuti auspicabili: così nei riferimenti alla “società civile”, alla “democrazia deliberativa”). L’altra linea di riflessione riguarda le scelte e le pratiche messe in atto con questa “svolta” (così è stato detto) nelle istituzioni europee: appunto, con l’obiettivo di una gestione della politica articolata e plurale. E, questo ci si era proposti, tendente a realizzare strutture di connessione e collaborazione, nei processi decisionali, tra diversi “attori” e ai diversi livelli.
I riferimenti al concetto di governance sono stati al centro di dibattiti e analisi a partire dagli anni novanta, in una prospettiva che si voleva riuscisse a essere “post-nazionale” e anche “globale”. Si sono proposti modelli considerati appropriati per definire un sistema “a molti livelli e molti attori”, con attenzione alle istituzioni pubbliche ma anche ai soggetti del privato, allargando lo sguardo al settore no profit e agli ”attori sociali”. Moltissimi sono stati i contributi, in sedi “europee” di ricerca e riflessione (di politologi, sociologi della politica, studiosi dei processi di trasformazione), sugli assetti istituzionali che andavano prendendo corpo nell’ambito dell’Unione. A questo è soprattutto utile portare l’attenzione.
Sintetizzando la lettura che ne fanno alcuni degli studiosi che prima ho ricordato, c’è stato un progressivo passaggio: dal mettere al centro i nuovi attori e i molteplici livelli, a un “annacquamento” (così è stato descritto), via via, di attenzione e riconoscimento. In particolare due fasi vanno considerate. Ci sono stati i lavori di un gruppo di studio, il Forward Studies Unit, un think tank europeo che nel 1997 ha reso disponibili alcuni importanti rapporti. Si mettevano in luce in termini problematici la dimensione dell’incertezza nel fare previsioni per il futuro, la complessità dei meccanismi e la necessità di monitorarli. Sul piano metodologico si proponevano letture della società europea articolate in una pluralità di prospettive. Si suggerivano pratiche di comunicazione che valorizzassero partecipazione e meccanismi di feedback da parte dei diversi “attori”. In contributi degli anni successivi si segnala che di questi documenti (ripresi da Prodi nel 1999 durante la sua presidenza) e degli stimoli che se ne potevano trarre, si è tenuto poco conto.
Si arriva poi a una fase successiva, (definita con la sigla Omc, “open method of coordination” ) e al White Paper on Governance. In numerosi studi – appunto nella fase che viene dopo il Libro bianco del 2001 – sono state analizzate le procedure, la visibilità data alle politiche, le connessioni tra i diversi livelli della governance europea. Secondo queste letture, a fronte delle proposte di apertura, degli obiettivi di inclusività dei diversi attori e livelli, di impegni a misure e iniziative coordinate ha prevalso, al contrario, la “logica del mercato”. Riprendo la conclusione a cui si arriva in un testo recente (Owen Parker, “The Limits of a Deliberative Cosmopolitanism: the Case of New Governance in the EU”). Si afferma che “coloro che sostengono la prospettiva di una ‘deliberative post-national governance’ non hanno portato l’attenzione sui meccanismi per cui il principale attore, la società civile, risulta strettamente condizionato dai criteri dominanti, i criteri che privilegiano il mercato”.
Dunque, scarsa consapevolezza di questi meccanismi; meglio, la scelta di non portarli pienamente alla luce. Ma non possiamo non vedere le inadempienze e le difficoltà della “nuova governance”. Pensiamo alla fase che stiamo vivendo: di fronte ai movimenti e alle vicende nel Nord Africa, e in particolare a quello che sta ancora succedendo in Libia, nessuna capacità - peggio, nessuna volontà e impegno - per realizzare una politica di “coordinamento europeo”. Sul problema dei profughi e degli arrivi a Lampedusa, immediata chiusura “nazionale” da parte dei governi (Italia e Francia, ma non solo). E ancora: nel difficile percorso che ha portato, tra contrasti e rinvii, alle politiche messe in atto per affrontare la “crisi greca” è emerso in piena evidenza che non c’erano né volontà né capacità di coordinamento: ma neppure ci si è mostrati disposti a vedere questa prospettiva, o modello, o riferimento, come cruciale per il futuro.
Molte le domande che rimangono aperte, certo rilevanti per la “rotta europea”. La mancanza di risposte (peggio ancora, di attenzione e consapevolezza) nella prospettiva di guardare avanti non soltanto preoccupa: equivale a un rifiuto della “nuova governance”. Guardiamolo, questo passaggio, nelle sue molte dimensioni. Vorremmo arrivare a sperimentarle, forme di “democrazia partecipata”. E vorremmo un’Europa capace di reagire alla logica dei “criteri dominanti, i criteri che privilegiano il mercato”.
1/8/2011
Finalmente Monna Lisa arriva a Firenze. È questo, infatti, il nome dell´enorme fresa d´acciaio che scaverà sotto la città per realizzare sei chilometri di passante Tav e una nuova stazione ferroviaria. Lo dice il sito di Coopsette, il raggruppamento di imprese che si è aggiudicato l´appalto: l´arrivo della fresa in cantiere è previsto per ottobre. La "talpa" avanzerà di 15 metri al giorno alla profondità di 25 metri, insinuandosi tra l´altro sotto la Fortezza da Basso di Antonio da Sangallo.
Arrivando invece del quadro di Leonardo vanamente reclamato da incauti assessori, questa Monna Lisa meno sorridente e più ingombrante farà egualmente felici Provincia, Comune e Regione, che il 3 agosto hanno firmato a Roma, con le Ferrovie e il ministro Matteoli, l´accordo per il via ai lavori. Il progetto della stazione è di Norman Foster, ma il suo prestigio non basta a garantire la bontà dell´operazione, visto che a lui si deve anche il progetto del quartiere di Santa Giulia a Milano, i cui cantieri sono stati sequestrati perché posti sopra un gigantesco deposito illegale di scorie cancerogene provenienti da stabilimenti dismessi (viene in mente l´amara riflessione di Giancarlo De Carlo sul «fenomeno della copertura professionale» di grandi architetti in occasione di operazioni speculative).
A Coopsette si devono anche i lavori della stazione Tav di Roma-Tiburtina, che verrà inaugurata in ritardo dopo il devastante incendio di cantiere del 24 luglio. Fra le partecipate di Coopsette c´è Milano Logistica Spa, partecipata al 50% da Argo, società del gruppo Gavio, uno degli azionisti principali (con Ligresti e Benetton) di Impregilo. L´ad di Impregilo è stato appena assolto in appello dalle gravissime accuse di disastro ambientale sulla tratta Bologna-Firenze (dove l´impresa partecipava al 75%): nel 2009 il tribunale di Firenze lo condannò, con altri 26 imputati, per aver inquinato con sostanze tossiche 24 corsi d´acqua e prosciugato 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi e 5 acquedotti. Anche sul tunnel di Firenze pesano gravi dubbi, come risulta da un esposto di Italia Nostra. Il Genio Civile di Firenze ha contestato il 19 luglio l´adeguatezza delle indagini sul rischio sismico, che «non sembrano possedere i requisiti richiesti dalle Nct 2008», cioè dalla normativa antisismica in vigore. Inoltre, prosegue Italia Nostra, i materiali risultanti dallo scavo (tre milioni di metri cubi) sono destinati alla miniera abbandonata di Santa Barbara in comune di Cavriglia (Arezzo), che però non è una discarica autorizzata. Per di più, i due terzi del materiale sono "rifiuti di perforazione", classificati col codice Arpat 010599, che non esclude la presenza di sostanze inquinanti o tossiche, che metterebbero a rischio in particolare il lago di Castelnuovo, adiacente alla miniera di Cavriglia.
Di rifiuti, Impregilo se ne intende. Oltre a cospicue opere pubbliche, fra cui il Ponte sullo Stretto, questa impresa ha infatti la concessione in toto della gestione dei rifiuti in Campania, coi metodi e i risultati a tutti noti e ben esposti nel libro Ecoballe (2008) di Paolo Rabitti, perito della Procura di Napoli, e ora anche da Antonio Polichetti, nell´ottimo Quo vadis, Italia? (La scuola di Pitagora, Napoli 2011); per non dire del "sistema Commissariato-Impregilo-Camorra" bollato da Adriano Sofri in questo giornale (28 giugno). Rischio sismico malcalcolato e dubbia gestione dei rifiuti dovrebbero essere ragioni sufficienti per qualche prudenza sul "passante fiorentino" e sulla stazione di Foster: ma questa non è la stagione della prudenza e delle attese. Al contrario, la tempesta dei mercati e le incapacità del governo concorrono a creare un´aria di crollo imminente che non solo mette fretta alle istituzioni, ma incrementa il peggior cinismo speculativo, e non solo in borsa ma nei territori. Qualche esempio, come in un bollettino di guerra che vede ogni giorno nuove devastazioni del paesaggio, nuovi crimini contro l´ambiente in nome del profitto d´impresa. Con un blitz estivo, la giunta leghista di Treviso ha raddoppiato il territorio agricolo cementificabile, portandolo a 338 mila metri quadrati: mossa irresponsabile in una città in cui il 40% del costruito negli ultimi anni risulta invenduto. A Milano continuano indisturbati gli scavi per un parcheggio sotto la basilica di Sant´Ambrogio, dato che (pare) il Comune teme di dover pagare una qualche penale alle ditte interessate: ma oltre ai soldi, ci sono anche moralità, dignità, decenza. Più alto di qualsiasi penale (ammesso che una ve ne sia) è il prezzo che Milano pagherebbe danneggiando uno dei massimi santuari della cristianità e l´immagine della città. Nel mirabile sito archeologico di Sepino in Molise si vuol collocare un vasto parco eolico calpestando il vincolo paesaggistico e il provvedimento cautelare del tribunale di Campobasso; singolarmente anzi, in presenza di un´azione penale, il Consiglio di Stato sembra voler dare una mano all´impresa contro la Soprintendenza. A Cecina in Toscana, su una costa già funestata da cementificazioni, si minaccia di cancellare dune e pinete per aggiungere un nuovo "porto turistico" a quelli che sorgono, semivuoti, a pochi chilometri di distanza. Dalle Alpi alla Sicilia, tutto è ridotto a terreno di caccia per i professionisti della razzia, mentre le pubbliche istituzioni che dovrebbero tutelare il bene comune e l´interesse della collettività somigliano sempre più spesso a comitati d´affari, intenti ad aggirare le leggi per favorire chi divora il paesaggio.
In questa corsa al saccheggio, il confine fra le parti politiche si attenua talvolta fino a sparire. Il pessimo "piano casa" della regione Lazio, approvato in questi giorni con la complicità di frange di "sinistra", è stato subito accusato dal ministro Galan di palese incostituzionalità (illecito condono edilizio, raddoppio della cubatura nelle aree vincolate, sgangherate deroghe alla pianificazione paesaggistica): possiamo sperare che dai Beni culturali arriveranno sanzioni altrettanto severe agli altri "piani casa" regionali, dal Veneto alla Sardegna? Sarebbe una degna risposta alla proposta di Confculture di chiudere il ministero, passando i Beni Culturali fra le competenze del ministero dello Sviluppo (V. Emiliani, L´Unità, 11 luglio), cioè monetizzando patrimonio culturale e paesaggio in dispregio non solo di ogni competenza specifica, ma della Costituzione.
L´assalto alla diligenza a cui stiamo assistendo è senza precedenti, anche se insiste nell´abusata retorica degli ultimi trent´anni: i "giacimenti culturali", l´espansione edilizia senza regole e senza fine come cura della crisi. Eppure dovremmo esserci accorti che perseguire (a destra come a "sinistra") questo modello ha contribuito a portarci nel vicolo cieco in cui siamo. Secondo la Cnn (5 agosto) «l´economia italiana cresce allo 0,3% annuo, e così sarà nei prossimi anni: un tasso fra i più bassi al mondo, che si unisce all´enorme debito pubblico, fra i più alti al mondo. Perciò l´economia italiana non è in grado di generare risorse sufficienti a ripianare il debito». A questo siamo giunti inseguendo l´idea perdente dell´edilizia come motore primario dell´economia, incoraggiandola con un´ondata di piani-casa, col "silenzio-assenso", con condoni e sanatorie in materia urbanistica, paesaggistica e ambientale. Sarebbe tempo di capire che ogni degno progetto per l´Italia dovrà far perno sul rigoroso rispetto della nostra massima risorsa, patrimonio e paesaggio, per investire sul futuro anziché cannibalizzare il presente.
Ecco l'immagine della fresa Monnalisa, il tarlo che minerà le fondamenta di Firenze, nota nel passato come "città d'arte":
Nella storia di questo disgraziato paese (l'Italia, intendo, per chi non ami le metafore), c'è una sindrome spesso ricorrente: si chiama la linea del Piave. Funziona così. Per anni, talvolta per decenni, gli alti comandi, i Governi, le classi dirigenti in genere, prendono decisioni inique, sbagliate, avventurose, persino ciniche e anche delinquenziali: l'incredibile mediocrità degli alti comandi medesimi, la strategia irresponsabile dell'attacco frontale, il mostruoso disavanzo di bilancio, l'incapacità del ricambio, la stralunata soggezione dell'interesse pubblico agli interessi privati o di gruppo, ne rappresentano le manifestazioni più significative ed esemplari. Poi, ad un certo punto, dai e dai, si verifica la catastrofe: le linee cedono, il bilancio crolla, l'economia va in pezzi, le classi dirigenti, d'ogni razza e colore - ripeto: d'ogni razza e colore - annaspano nel vuoto che loro stesse hanno creato. È a quel punto che a qualcuno viene in mente la linea del Piave: gli interessi non sono più diversi, separati e magari contrapposti, diventano "unico". La catastrofe si può affrontare solo tutti insieme, senza più differenze né di razza, né di colore, né di collocazione sociale, né di orientamento politico. E questo, a pensarci bene, è anche giusto: chi, infatti, vorrebbe vedere gli austriaci a Milano o a Venezia?
Se poi, come nel caso di oggi, la linea del Piave assume dimensioni planetarie, la solidarietà di tutti intorno a un modello unico di soluzione assume un'evidenza ancor più eloquente: o ci si salva tutti oppure non si salva nessuno. E anche questo potrebbe essere giusto. Ma vediamo fino a che punto il discorso del Piave regge e, ammesso che regga, quali diverse impostazioni gli si possono dare.
Facciamo (almeno noi) un passo indietro e torniamo in Italia. Negli ultimi tre-quattro mesi è accaduto nel nostro paese qualcosa che in precedenza sarebbe stato inimmaginabile: e cioè un cambiamento vistoso della costituzione materiale, un aggiustamento invisibile dei meccanismi decisionali. Tutte le più importanti scelte in materia politica ed economica sono state, non certo prese, ma indotte con forza e con, appunto, autorevolezza "dall'alto". E quale esempio più lampante di "Camere congelate" di quelle che, nel giro di quarantotto ore, hanno votato un bilancio dello Stato strangolatorio e, nel caso di certi partiti, addirittura apertamente non condiviso? Non sto dicendo né che sia stato un bene né che sia stato un male: mi limito per ora a constatare che è accaduto. Ricordate il mio articolo sul manifesto del 13 aprile? «Ciò cui io penso è una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instauri quello che io definirei un normale "stato di emergenza", eccetera eccetera». L'unico auspicio di quell'appello che non sia stato per ora praticato è il ricorso all'Arma dei carabinieri e alla polizia di Stato: non ce n'è stato bisogno, e comunque la magistratura e le forze dell'ordine erano impegnate in altro (sempre però nei dintorni: Papa, Milanese, Penati, Bisignani eccetera eccetera).
Ma in generale la linea più volte adottata è andata puntualmente in quella direzione, tacciata allora dai pulpiti più diversi d'imbecillità, provocazione, golpismo, ecc. ecc. Oggi tutti i dubbi e le riserve sono svaniti nel nulla: la linea estrema di difesa delle istituzioni repubblicane e dell'economia e coesione sociale nazionali è diventata il Governo del Presidente (non quello del Consiglio, naturalmente), universalmente invocato dalle forze, partitiche e d'opinione, che si collocano all'opposizione dell'attuale maggioranza parlamentare.
Restiamo anche noi all'interno del ragionamento, ma al tempo stesso prendiamoci la libertà di porci - di porre - alcune domande decisive: a favore di chi? Con quali mezzi? Con quale, non solo istituzionale, ma anche politica autorevolezza? Le linee del Piave, in sé e per sé considerate, non servono a scardinare i sistemi, servono a confermarli e a renderli ancora più inattaccabili. La difesa del "bene comune" è pagata sempre da una sola parte. Sul Piave (storicamente, non metaforicamente inteso) la linea fu tenuta dalla leva dei '99, giovani diciottenni gettati in massa nel rogo a difendere l'integrità e l'unità nazionale. Oggi nel tritacarne dell'unità nazionale sono destinati ad essere macinati - alfieri del tutto involontari d'un patriottismo a senso unico - gli anziani e le famiglie deboli, i pensionati, gli operai, i giovani (soprattutto i giovani), i piccoli e medi borghesi, impiegati e professionisti, gli uni e gli altri ovviamente senza rendite parassitarie alle spalle. Sull'atteggiamento da tenere nei confronti di questa situazione si è già sfarinato il fronte delle opposizioni: il Terzo Polo ha subito adottato la linea della massimizzazione dei "sacrifici popolari" (davvero singolare in questo quadro - mi sia permesso di osservarlo - l'atteggiamento della formazione che recentemente ha scelto di chiamarsi "Futuro e Libertà": non dovevano essere la forza di rinnovamento del quadro politico italiano e sono finiti alleati in tutto e per tutto subalterni dei moderati più moderati?). Ma lo sfarinamento ha già raggiunto vertici e settori anch'essi in precedenza inimmaginabili: vedere la Camusso, leader di un'organizzazione operaia e popolare come la Cgil, collocarsi anche fisicamente, quasi a segnare il rapporto gerarchico nuovo testé costituitosi, alle spalle della Marcegaglia, leader delle organizzazioni padronali, ha avuto la portata e il valore di un manifesto, ben comprensibile ai più.
La linea del Piave, per essere minimamente condivisa prima che accettata e praticata, avrebbe bisogno di molte condizioni, di cui per ora non si vede traccia, anzi, per essere più esatti, quasi nessuno parla. A scopo puramente provocatorio, come di consueto (poi fra qualche mese si vedrà meglio), ne elenco due, una di carattere economico-sociale, l'altra di carattere politico, la seconda, ovviamente, condizione sine qua non perché la prima diventi credibile.
La condizione economico-sociale è la conservazione integrale dello Stato sociale, e cioè, per essere più precisi, di quell'insieme di statuti, regole, leggi e abitudini, che garantiscono la libertà e il benessere ai cittadini più deboli. Quanto al pareggio di bilancio, bisognerebbe chiedersi se le cure prospettate, in dimensioni e rapidità di tempi, non siano destinate ad ammazzare il cavallo invece di rimetterlo in piedi. La distribuzione dei pesi e delle misure, e le loro conseguenze effettive, devono perciò fin d'ora essere elencate con estrema precisione: l'obiettivo, infatti, è garantire con assoluta certezza - e la cosa è tutt'altro che impossibile - che dalla crisi ci si proponga di uscire con uno stato più giusto, non con uno più infame.
La condizione politica è che dalla crisi si esca con un riassetto del sistema di potere che almeno garantisca la riapertura di una nuova fase. Dobbiamo invece prendere atto che finora si è andati nella direzione esattamente contraria: e cioè - nella più pura tradizione delle linee del Piave nazionali (ma almeno Cadorna nel '17 perse il posto) - la crisi ha paradossalmente rafforzato, o almeno lasciato più tranquillo, il Governo Berlusconi: è entrato a far parte anch'esso, infatti, della "soluzione unica nazionale" della crisi. Ma questo è intollerabile, e quindi inaccettabile: significherebbe far pagare al paese, come prezzo per uscire dalla crisi, la perpetuazione delle ragioni più profonde della crisi medesima, l'inaffidabilità, il discredito, interno ed internazionale, l'assoluta mancanza del senso dell'interesse pubblico da parte dei suoi goverrnanti.
Perché la linea del Piave sia almeno decentemente compresa e condivisa, occorre che il governo del Presidente metta in programma questa apertura di una nuova fase in netta, inequivocabile discontinuità con quella precedente: anche ricorrendo, in tempi ragionevoli, ad un nuovo responso elettorale. Ai costituzionali - notoriamente ce ne sono molti e di molto eccellenti - va richiesta con urgenza una rilettura del primo comma dell'art. 88 della Costituzione, il quale recita (com'è universalmente noto): «Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti; sciogliere le Camere o anche una sola di esse». Le interpretazioni correnti, che depotenziano in genere la facoltà del Capo dello Stato di assumere autonomamente tale decisione, mi sembrano estremamente discutibili, e perciò andrebbero ridiscusse, in una situazione come questa in cui si potrebbe da un momento all'altro avere bisogno di disporre tranquillamente di tale estrema risorsa.
Insomma: il Governo del Presidente comporterebbe una netta e puntuale individuazione dei pesi e delle misure da adottare, una equa distribuzione dei sacrifici, una preliminare scelta di campo a favore delle classi e dei ceti più deboli e, preliminarmente e contestualmente, la ricostituzione d'un quadro politico in grado di giocare la partita nella piena dignità ed efficacia dei suoi possibili mezzi (e uomini). Altrimenti, sarà un confuso, inane e un po' disperato tentativo di tenere in piedi il sistema a favore dei soliti "amici". Non sarebbe una bella cosa, e non funzionerebbe.
Queste non sono rivolte del pane o della fame. Queste sono rivolte di consumatori deprivati ed esclusi dal mercato. Le rivoluzioni non sono la conseguenza inevitabile delle ineguaglianze sociali, lo sono invece i terreni minati.
I terreni minati sono quelle aree disseminate a caso di ordigni esplosivi: si può star certi che alcuni di essi, a un certo punto, salteranno in aria, ma nessuno è in grado di affermare esattamente quali e quando. Se le rivoluzioni sociali sono invece fenomeni mirati, ecco che è possibile intervenire per identificarle e disinnescarle in tempo. Ma non le esplosioni da terreno minato. Nel caso dei terreni minati per mano di soldati di un esercito, si possono inviare soldati di qualche altro esercito a rintracciare le mine per disarmarle. Un compito rischiosissimo, come dice l'adagio dei militari: «Lo sminatore può sbagliare una sola volta». Ma nel caso di terreni minati predisposti dalle diseguaglianze sociali persino un simile rimedio, per quanto pericoloso, è fuori della nostra portata: il compito di interrare le mine e quello di dissotterrarle deve essere eseguito dal medesimo esercito, che non può tuttavia smettere di aggiungere nuovi ordigni, né evitare di camminarci sopra — all'infinito. Disseminare le mine e cadere vittima delle esplosioni diventa allora un circolo inevitabile e inarrestabile.
Le diseguaglianze sociali, di qualunque genere esse siano, derivano dalla divisione tra coloro che hanno e coloro che non hanno, come fece notare Miguel Cervantes de Saavedra cinquecento anni or sono. Ma a seconda delle epoche, l'avere o non avere certi oggetti rappresenta, rispettivamente, la condizione più ardentemente ambita o più ferocemente risentita. Due secoli fa in Europa, e ancora pochi decenni fa in molti luoghi lontani dall'Europa, e oggigiorno nei teatri bellici dove si combattono guerre tribali o dove dettano legge i tiranni, il principale oggetto del contendere tra i ricchi e i poveri era la pagnotta, o la ciotola di riso. Grazie a Dio, alla scienza, alla tecnologia e ad alcuni espedienti politici di buon senso, abbiamo superato queste emergenze. Il che non vuol dire, tuttavia, che l'antico divario sia morto e sepolto. Al contrario... Gli oggetti del desiderio, la cui assenza provoca una reazione scomposta e rabbiosa, sono oggi sempre più numerosi e variegati — il loro numero, anzi, aumenta di giorno in giorno, assieme alla tentazione di impadronirsene. Così crescono di pari passo il malumore, la rabbia, l'umiliazione, il risentimento rinfocolato dal non averli, come pure l'impulso di distruggere tutto ciò che non si può ottenere. Il saccheggio e l'incendio dei negozi sono la conseguenza di quello stesso impulso e soddisfano quello stesso desiderio.
Oggi siamo tutti consumatori, innanzitutto e soprattutto consumatori, consumatori per diritto e per dovere. Il giorno dopo la tragedia dell'11 settembre, nel suo appello lanciato agli americani per incoraggiarli a superare il trauma e tornare alla normalità, il presidente Bush non trovò niente di meglio da dire che «ricominciate a comprare». È il livello della nostra attività di acquirenti e la facilità con cui ci sbarazziamo di un oggetto di consumo per sostituirlo con una versione più «nuova e aggiornata» a fissare i parametri fondamentali del nostro status sociale e il nostro punteggio nella corsa al successo. A tutti i problemi che incontriamo sul nostro cammino, noi cerchiamo la soluzione nei negozi.
Dalla culla alla bara, siamo stati istruiti e addestrati a considerare i negozi come farmacie traboccanti di medicamenti per curare o almeno alleviare ogni malattia e afflizione della nostra vita individuale e collettiva. I negozi e lo shopping acquisiscono pertanto una vera e piena dimensione escatologica. I supermercati, nella celebre citazione di George Ritzer, sono diventati le nostre cattedrali; e di conseguenza, mi sia consentito di aggiungere, la lista della spesa è diventata il nostro breviario, le processioni nei centri commerciali i nostri pellegrinaggi. Nulla ci emoziona e ci riempie di entusiasmo come acquistare per impulso e scartare oggetti che non ci piacciono più per sostituirli con altri, più invitanti. La pienezza della gioia del consumo equivale alla pienezza della vita. Compro, ergo sono. Comprare o non comprare, questo è il problema.
Per i consumatori senza accesso al mercato, i veri poveri di oggi, il non poter acquistare è lo stigma odioso e doloroso di una vita incompiuta, la conferma della propria nullità e incapacità. Non semplicemente l'assenza di ogni piacere, bensì l'assenza della dignità umana, l'impossibilità di dare un senso alla propria vita e, da ultimo, la privazione stessa di umanità, autostima e rispetto per gli altri.
I supermercati saranno anche cattedrali aperte al culto per i fedeli, ma per gli esclusi, gli scomunicati, gli indegni, per tutti coloro che sono stati allontanati dalla Chiesa del Consumo, essi rappresentano le postazioni del nemico, erette nei deserti dell'esilio. Quei bastioni fortificati sbarrano l'accesso ai beni che tutelano altri da un così triste destino. Il presidente Bush sarebbe d'accordo nell'affermare che essi impediscono il ritorno alla «normalità» (e addirittura l'accesso alla normalità, per quei giovani che non hanno mai partecipato al culto). Griglie e saracinesche di ferro, telecamere di sorveglianza, guardie di sicurezza appostate all'ingresso e in borghese all'interno, non fanno altro che confermare l'atmosfera di campo di battaglia e di ostilità in corso. Queste cittadelle armate e sorvegliate, popolate di nemici asserragliati nel territorio di coloro che non hanno, ricordano agli abitanti, giorno dopo giorno, la loro miseria, la loro incapacità, la loro umiliazione. Insolenti nella loro presuntuosa e arrogante inaccessibilità, sembrano urlare parole di sfida e provocazione: ma a che cosa?
Testo pubblicatosul Social Europe Journal(traduzione di Rita Baldassarre)
Se badiamo ai fatti, la rivolta è stata causata dalla controversa uccisione di un uomo da parte della polizia nel quartiere di Tottenham. Ma ci sono ragioni più profonde. Da tempo le forze dell´ordine lanciavano allarmi su crescenti tensioni sociali in varie zone di Londra. Al cuore di queste tensioni e della violenza esplosa in questi giorni c´è la sensazione da parte di un´ampia fetta delle generazioni più giovani, nella capitale e in altre regioni del paese, che per loro non c´è un futuro, e nemmeno rispetto, e neppure interesse.
Ho partecipato recentemente a un programma televisivo in cui molti giovani dicevano che sarebbe successo qualcosa se il governo conservatore di David Cameron avesse portato avanti il suo programma di pesanti tagli alla spesa pubblica. Certo, il livello di violenza e le azioni puramente criminali a cui stiamo assistendo a Londra e in altre città sono andati al di là di quello chiunque si sarebbe aspettato. Ed è importante affermare che non ci sono scuse per disordini che violano la legge. Ma al tempo stesso è da stupidi non avere immaginato che questioni come la crescente disoccupazione, i tagli nei servizi sociali e la rabbia rimasta in molti per la crisi di due-tre anni fa non avrebbero avuto conseguenze. La crisi economica e finanziaria è stata provocata in buona parte dagli eccessi di banche e banchieri, che hanno pesato e pesano sulla vita della gente comune; ma mentre la gente comune sente di avere pagato un prezzo per la crisi e di continuare a pagarlo, la sensazione è che chi l´ha provocata, i banchieri e le banche, se l´è cavata senza alcuna punizione, che per loro la bella vita prosegue come prima e più di prima. Anche questo influisce sulla rivolta, così come l´impressione che il gap tra ricchi e poveri continui ad allargarsi, a dispetto della recessione e delle lezioni che bisognava trarne.
Dire tutto ciò non significa condonare i saccheggi e gli episodi di violenza indiscriminata nelle strade della capitale, significa riconoscere la realtà, una realtà in cui molti giovani si sentono completamente esclusi non solo da potere e ricchezza ma pure da ogni tipo di opportunità.
Il risultato è che ci troviamo a un anno esatto dalle Olimpiadi di Londra e in tutto il mondo si vedono in tivù delle immagini di Londra in fiamme, con la polizia in assetto di guerra e giovani incappucciati che saccheggiano negozi ed appiccano fuoco alle macchine. Non sono le immagini che uno assocerebbe con la città ospitante dei prossimi Giochi. Come cittadino britannico, ciò mi rattrista e mi deprime, perché so che il nostro paese è molto meglio di quello che traspare da simili immagini. Purtroppo, il governo Cameron - dopo aver visto fallire l´ambizioso progetto della "Big Society", il massiccio trasferimento di poteri dallo Stato agli individui - è finora sembrato in ritardo, incapace di riportare la situazione sotto controllo. La polizia non ne esce meglio, il capo di Scotland Yard è appena stato costretto a dimettersi per il tabloid-gate (lo scandalo delle intercettazioni illegali in cui i giornali del gruppo Murdoch erano in combutta con poliziotti corrotti, ndr), le stesse forze dell´ordine sono state colpite da riduzioni del persone e del budget per effetto dei tagli varati dal governo. E sullo sfondo di tutto c´è la crisi globale, l´incertezza nell´economia in Europa e in America. «Siamo tutti insieme in questa crisi» è stato lo slogan del premier Cameron, ma l´impressione di molti britannici è che non sia così, che i tagli colpiscano i poveri e non i privilegiati, e che per di più non siano riusciti a far ripartire in fretta l´economia, ossia non abbiano funzionato, non abbiano mantenuto le promesse che, grazie a un forte sacrificio subito, saremmo stati meglio in un secondo tempo, saremmo tornati rapidamente a un benessere diffuso.
Da questo micidiale cocktail è venuta fuori una rivolta urbana senza precedenti. Nel breve termine tocca alla polizia ristabilire l´ordine, e non sarà semplice, perché già Scotland Yard è stata accusata di usare forza eccessiva o di non sapere controllare manifestazioni di protesta nel recente passato: nessuno vuole certo vedere l´esercito nelle strade per riportare la calma. Ma nel medio e lungo termine saranno le autorità e il mondo politico a doversi interrogare sul perché così tanta gente, così tanti giovani, si sentono talmente disperati e arrabbiati dal volere danneggiare e distruggere le stesse strade in cui vivono, le comunità in cui sono cresciuti. Qualcuno dice che bisogna colpire i criminali che saccheggiano, e basta. Altri che occorre innanzi tutto rispondere alle cause più profonde della violenza. Credo che bisognerà fare entrambe le cose, se vogliamo che tra un anno, per le Olimpiadi, Londra trasmetta al mondo immagini diverse.
(testo raccolto da Enrico Franceschini)